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Tuesday, February 4, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z F FE

 

Luigi Speranza -- Grice e Fedro: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The philosophy teacher of Cicerone at Rome. He follows the doctrines of The Garden, and succeeds Zenone as the head of the school.

 

Feliceto search.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferdinando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dela masculinità, il maschio e la tarantella – scuola di Mesagne – filosofia brindisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosof italiano. Mesagne, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Ferdinando; for one he describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with ‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”, studia grammatica, poetica, greco e latino sotto RICCIO (si veda), intimo amico di Paolo e Aldo MANUNZIO (si veda). Si trasfere successivamente a Napoli dove studia FILOSOFIA. Si laurea in filosofia. Ha dieci figli. Tra le saggi principali di F. grande rilievo assumono i “teoremi filosofici”, dedicati alla sua amata città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici, raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata analisi della storia di Mesagne. Dal punto di vista culturale, l'opera di riferimento per eccellenza del F. è fuor di dubbio Centum Historiæ, dedicata a Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore è medico di fiducia, intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li conduce a Roma dove F. conosce Clemente, medico di Paolo V ed è contattato, per la sua fama, da noti scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Severino, con cui ebbe una disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si connette con la vena ulnare. Profondo conoscitore dei classici e seguace non solo delle teorie d’Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da MERCURIALE (si veda), Eustachio, Falloppia e FRACASTORO (si veda), attento alle tradizioni della sua terra, propone un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza è richiesto non solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i concittadini per la sua bontà d'animo, cura anche senza compenso somministrando farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentra sull'importanza delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e ritene centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i suoi pazienti si serve non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la prassi ordinaria, ma prepara anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti miscelando quantità variabili d’erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua vita si occupa anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico, descritti nei particolari nelle Centum Historiæ, e nutre anche uno spiccato interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia certissima. Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti che mantenne con i medici napoletani, è uno dei più importanti intermediari fra la cultura medica napoletana e quella di terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto F., si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la musico-terapia somministrata al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il malato dopo essere stato morso dove espellere il veleno scatenandosi a ritmo di musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale dove essere scelto in base al colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis redatto, presumibilmente da Marra da Padova, nel pontificato di Urbano V. Il secondo a documentare per esperienza diretta questa connessione è F.. Nelle sue Centum Historiæ analizza, tra gl’altri, il caso di un suo concittadino, tale Simeone, pizzicato mentre dorme di notte in un campo. Il medico crede fermamente nella musica come terapia certissima criticando chi sostene che il tarantismo non è necessariamente scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, è il primo a proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche (nenie funebri).  Kircher riferisce nel suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da destare ragionevoli sospetti su quanto sta alla base di questa terapia. Come il veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei padri ricordati, che son degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito è tenuto un esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri padri, e di tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi, allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu tarantolae.” Martino La terra del rimorso, Milano, Est, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da:  Mario Marti e Domenico Urgesi, F., medico e storico. Atti del convegno di studi, Besa, Nardò, Altre fonti:  Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, Portulano Scoditti, Distante, Alfonsetti, Poci. Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne, Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, Scoditti e Distante, La peste, traduzione del De peste aureus libellus, Scoditti e Distante, F. Le centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, F., De Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione del De Vita Proroganda seu juventute conservanda, Napoli, Scoditti e Distante,, Atti del Congresso della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice: “Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” Keywords: mito, taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferdinando” – The Swimming-Pool Library. Epifanio Ferdinando. Ferdinando.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fergnani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gesto e la passione – la scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Grice: “I love Fergnani; especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to them extravagant Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto BANFI (si veda). Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova corrente”.  È figura di spicco nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács, Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona); “Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino), “Prassi di GRAMSCI (si veda)” (Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La dialettica dell’esistere” Feltrinelli, Milano);  L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre” (Farina, Milano), “Sartre sadico” (Farina Milano); “Esistire” (Farina, Milano); Kierkegaard (Farina, Milano); “Il gesto e la passione” Farina, Milano, “Merleau-Ponty”, Farina, Milano.  “L’Esistenzialismo” Farina, Milano, “Sartre” (Farina, Milano); “Jaspers, Farina, Milano);  Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”, Corriere della Sera.  La lezione di F.", in Materiali di Estetica, Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino, Papi.  Fisiognomica interpretazione del carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Battiato, vedi Fisiognomica (album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica che attraverso la  fisiognomia o fisiognomonia pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physis(natura) e gnosis (conoscenza). Questa disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle università. La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi per distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato simile ma più generico. Esempi di fisiognomica di criminali, secondo LOMBROSO (si veda): "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli". Tutto il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale.  Descrizione Esistono due principali tipi di fisiognomica:  la fisiognomica predittiva assoluta, che sostiene una correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di credito scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche correlazione statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona dovute al comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al rimescolamento genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel determinismo genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichità Riferimenti a relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di quest'arte.  I giovani che volevano entrare nella scuola pitagorica a CROTONE nella Calabria doveno dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica (ephysiognomonei). Il filosofo Aristotele del LIZIO si riferiva spesso a questo tipo di teorie anche con citazioni letterarie. Aristotele stesso è d'accordo con queste teorie come testimonia un passaggio di Analitici primi. È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati assieme da influenze naturali. Dico naturali perché se forse, apprendendo la musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di quelle influenze che sono per noi naturali. Piuttosto faccio riferimento a passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle sembianze. (Jenkinson) Il primo trattato sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad oggi è il Physiognomica attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto della sua scuola nel LIZIO. È diviso in due parti e quindi probabilmente in origine sono due saggi separati. La prima sezione tratta soprattutto del comportamento umano sorvolando su quello degl’animali. La seconda sezione è incentrata sul comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il comportamento.  Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:  Polemo di Laodicea, de Physiognomonia, in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica, in greco Anonimo LATINO, de Physiognomonia, La fisiognomica moderna. Tipica illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra: profonda disperazione; a destra: collera mischiata con paura) La fisiognomica, in quanto studio delle particolarità del volto umano in grado di rivelare peculiarità caratteriali, è piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è risaputo che VINCI (si veda) ne è appassionato, come pure BUONARROTI (si veda).  Nello stesso passo, Condivi accenna all'intenzione di BUONARROTI (si veda) di scrivere un trattato di anatomia con particolare riguardo ai moti e alle "apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si fonda sui rapporti e sulla geometria, e nemmeno è strato empirico come quello che avrebbe potuto scrivere VINCI (si veda). I termini "moti" (che fa pensare alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e "apparenze" fanno invece ritenere che BUONARROTI (si veda) insiste sugl’effetti psicologici e visuali delle funzioni del corpo (Ackerman, L'architettura di BUONARROTI (si veda), Torino.Il trattato di GAURICO (si veda) intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze presenta questo tipo di conoscenza nei termini seguenti. La fisiognomica è un tipo di osservazione, grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità dell'animo. Se gl’occhi sono piuttosto grandi e con uno sguardo un po’umido, mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose, ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono che è Alessandro il Macedone. Se vede un naso pieno, solido e tozzo, come quello dei leoni e dei molossi, lo considera segno di forza e arroganza.  La fronte quadrata, che ha la lunghezza quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza, animo splendido (Estratti citati da Koshikawa, Individualità e concetto. Note sulla ritrattistica, in Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Roma catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale, Milano,Skira. Gli studi di fisiognomica influenzarono artisti come Anguissola (Fanciullo morso da un gambero) e Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) nell'interpretazione dell'emotività del soggetto ritratto.  Il principale esponente della fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Lavater che fu amico, per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu pubblicato per la prima volta in tedesco e divenne subito popolare. Venne poi tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli scritti di PORTA (si veda) e del fisico e filosofo Browne del quale lesse e apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del viso:  nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima (...).»  (R.M.) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla fisiognomica nella sua opera Christian Morals: Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili. Su questo si basa la fisiognomica. A Browne è accreditato l'uso della parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini illustrativi l'insegnamento della fisiognomica.  Browne possedeva alcuni scritti di PORTA (si veda0 tra cui Della celeste fisionomia nel quale egli sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia. Porta usò delle xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Browne ed entrambi erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative o firme delle loro proprietà medicamentose.  La popolarità della fisiognomica, nonostante precursori come Chambre, crebbe. Trovò in particolare nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano LOMBROSO (si veda), il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e pertanto non educabile con la sola pena detentiva.  La fisiognomica influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri europei tra i quali Balzac; nel frattempo la Norwich connection' alla fisiognomica si sviluppò attraverso gli scritti di Opie e del viaggiatore e linguista Borrow, inoltre fra molti romanzieri si diffuse l'uso di passaggi molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare Dickens, Hardy e Brontë.  Questa dottrina è stata da più parti tirata in campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza.  La frenologia era pure considerata fisiognomica. È creata intorno dai fisici t Gall e Spurzheim e si diffuse in Europa e negli Stati Uniti.  In sostanza la fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni strutturali che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi alla antropologia criminale di LOMBROSO (si veda))). Essa infatti è proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista David (La vera storia del cranio di PULCINELLA: le ragioni di LOMBROSO (si veda) e le verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia, tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare comportamento e sembianza.  Per Lust questa scienza non ha nulla di pseudo-scientifico; egli osserva, per il rigoroso metodo naturopatico che sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambia anche in volto. Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventa più "snello": il doppio mento scompariva, torna a vedersi il collo in quei volti che prima lo avevano "sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in alcuni casi erano più folti.  Per tutto questo comincia a sviluppare un sistema di diagnosi all'inverso, ossia: se le modificazioni, una volta che la gente guariva da un determinato male sono costanti, allora significa anche che, quando e quanto più quelle caratteristiche facciali sintomatiche sono presenti in una persona, tanto più la persona è anche affetta da quel determinato male specifico di cui le alterazioni nel viso sono soltanto un sintomo.  Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano alla voce corrispondente. fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De Agostini.Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" Aulo Gellio, Noctes Atticae Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, Porta e l'astrologia: la Coelestis Physiognomonia, in Montanile, Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del teatro e l'opera di Porta", Salerno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia dell'uomo libri sei, in Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, L’autore delle illustrazioni delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche, in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in Porta", Pisa-Roma, Serra Paolella, La fisiognomica di Porta e la sua influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Porta, Piano di Sorrento, Roma, ed. Scienze e Lettere, Paolella, Die Physiognomonie von Della Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz Zeitschrift der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst. Wege und Motive der Rezeption von Porta in Europa - Akten der Tagung der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie Zeller und Laura Balbiani Voci correlate Lüdke, la più celebre vittima della Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia, applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua. DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiognomica» Fisiognomica, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antropologia   Portale Sociologia Frenologia teoria pseudoscientifica Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero  Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo italiano  Wikipedia Il  Nudo eroico concetto dell'arte classica Lingua Segui Il nudo eroico o nudità ideale è un concetto dell'arte e della cultura classica che si propone di descrivere l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella scultura greca; con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente mortale raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un Eroe. L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica ed in seguito adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.   Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente.  Dopo essere scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal corpo umano maschile nudo. Questa metafora ha rappresentato la perfetta raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare il più alto status esistenziale.  Riapparso con grande vigore soprattutto durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi tra i tanti). Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo nazionale romano.   Statua eroica di un generale romano con la testa di Augusto, al museo del Louvre.   Statura romana con la testa di Marcello (da un prototipo greco). Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore di Canova, all'Apsley House a Londra.  StoriaModifica  Leonida alle Termopili di David Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità.  Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese La nudità maschile era di norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di corsa durante la V olimpiade il quale a metà percorso si liberò della fascia che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti.  La studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione, la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi kouroiarcaici.  Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo. Trajanic woman as Venus (Capitoline Museums), su indiana.edu, Indiana University. Hallett Sorabella, "The Nude in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of Art Colton, Monuments to Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English and French Sculptural Works, NewYork University Spivey, Greek Sculpture, Cambridge, Osborne, "Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art", in Gender et History Stevenson, "The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portrait in Late Republican and Augustan Rome", in Greece and Rome, Stevenson, "Nacktleben", in Dominic Montserrat (a cura di), Changing Bodies, Changing Meanings: Studies on the Human Body in Antiquity, Routledge, Bonfante, Etruscan Dress, The Johns Hopkins University, Hallett, The Roman Nude: Heroic Portrait Statuary Oxford, Casana, The Problem with Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of Archaeology, vOsborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in Gender et History, Tom Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portraits in Late Republican and Augustan Rome, in Greece et Rome, Nudo artistico Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su nudo eroico   Portale Arte: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di InternetArchiveBot Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle varie culture verso la nudità  Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice: “Napoleon, an Italian, thought he was French, but he was a Corsican – “No, I don’t know Corsica” – however he thought he was an emperor and as such, as every student at Milano laughs at, that he should convince Canova to go nudist! Nelson tries but Vivian Leigh opposed!” Keywords: il gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ – E-committal – Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are, some, or at least one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori romani nudita eroica! Fisionomia – porta ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fergnani” – The Swimming-Pool Library. Franco Fergnani. Fergnani.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferrabino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base mitologica del latino – scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo cuneano. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: “I like Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian – and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla Gibbon!”  “Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compe il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrive a Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore è Graf. Verso il terzo anno iniziò a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di SANCTIS (si veda), sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegna a a Torino, Palermo, Napoli, e Padova. È rettore dell'ateneo fino al anno in cui ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la moglie, F. conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si stabil a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La Cittadella d’Assisi" diventando grande amico di ROSSI (si veda), fondatore di “Pro Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, F. prende l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la democrazia cristiana e rimane al Senato. Divenne presidente dell’ENCICLOPEDIA ITALIANA, incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico. Èstato intanto incaricato di presiedere al Consiglio Superiore dell’Accademie e promosse il Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche diventandone il presidente. Divenne corrispondente dell'Accademia del LINCEI e corrispondente nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia antica.  Presidente della Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme a Cappelletti (si veda), fonda "Il Veltro".  Pubblica sull'Italia romana, l'età dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia di un mito” (Bocca, Torino) – with a  section on the myth among the Latins, and a later section on the treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Monnier, Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani, Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “GIULIO (si veda) Cesare” (Unione Tipografica, Torinese); “La vocazione umana”  (Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria Draghi, Padova); “Le speranze immortali” (Società per Azioni, Padova); “Trilogia del Cristo” (Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia); “Le vie della storia romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire” (Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia della storia” (Sansoni); “Trasfigurazioni” (Martello, Milano); “Pagine italiane,  Il Veltro, Roma); “Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico Illustrato,  Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Treccani, Roma, Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione in  Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider, Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella testimonianza di  Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani.  Roma è il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma è - ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, uni- tà morale all'Europa!. Così, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso nella città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a ciò, ribadiva l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo la quale l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma dei Cesari – GIULIO (si veda) Cesare -- e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Popolo, centro della nuova religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per le idee di libertà e di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa come Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità moderatrice del pontefice; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Chabod. Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medievale, l'Italia dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende, in fondo, dalle peculiarità stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al passato e alla tradizione culturale che ben difficilmente avrebbero potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrive Garibaldi nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur così lontano dal profetismo mazziniano come Cattaneo. Anche Cavour ebbe a riconoscere quel nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'- sodel25marzo1861che<< Roma sola deveessere la capitale d'ItaLlia. .Dopo la spedizione tentata da Garibaldi, Romao o morte divenne la parola d'ordine de~~e~ E~.!:!c~i), I~trog~) Verni che parevano loro dimentichi àel comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della Destra, in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni legate alla costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma, confida- vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo- li (ciò che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché estranei alla concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della Sinistra, erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe, in quanto centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, Treves, Videa di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimori, Torino, Einaudi, TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area di influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti neoguelfi, sullascia del giobertiano Primatomoralee civile degliItaliani. Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti proponeva una confederazione «sotloTiìu- 'Mazzini, Note autobiografiche, Milano, Rizzoli,  messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione dell'umanità f p r MazzInl, la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato e Chie- sa) per molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero pensiero e della scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo quanto auspicavano soprattutto gli esponenti della Sinistra5. I sogni d'una missione che la nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciare àl-morido-stndèvano' piùes' eÌnéntecon1a reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta caratura internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse presto, e analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale centro universale di scienza.Tuttavia, Roma avevarappresentato un «mito animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Volpe) 6,era ormai troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a «dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se stessi e il proprio paese. i I Ii I I ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una conferma della pervasività dd tema, dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub- blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore, spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paese rlSenzagli ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia unita; <<ma, probabilmente - osservava Rosario Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi, mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto alimentòilriferimentQa Roma come base di un confronto tra la viltà dd presente, da un lato, e, dall' altro, l'antica gran-, dezza e l'eroismo romano degli uomini dd Risorgimento. In sostanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche. Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadi Roma e la realtà meschirtadiunan UOVB!lisanzio. Così,nd MITO DI ROMA rivisitato da Carducci, si materializzavaun demento di fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie - potremmo dire - di bovarismo nazionale, c.onsistente nella difficoltà acommisurareimezziaifini,nd rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella oscillazione perenne tra sentimenti di superiorità e un senso amaro di inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi Cavour, Bari, Laterza.Note autobiografiche, (da una lettera). Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca dell'imperialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di un particolare diritto italiano all'espansione e della necessità che il..n.1JQv~'. Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori roma- ni. Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato mazziniano. E in effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla emancipazione dei popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche traccia già nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871 come, nd <<motoinevitabilechechiama l'Europa aincivili- re le regioni Mricane», Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia. Esullecimedell'Adante- proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterra- neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero vari, e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I, Su tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, Mazzini, Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, Volpe,Italiamoderna F,irenze, Sansoni, Galeati.  Ricerca Terza Roma concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione che ha due accezioni. Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o Impero Romano d'Oriente.  Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella della Roma dei papi.  Uso del termine per Mosca. Uso del termine in Italia. L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della «Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui fare da modello all'Italia e all'Europa intera. L'ideale mazziniano sarà ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova civiltà. Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato in Campidoglio, profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3]  Una lunga citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:   «La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno»  La costruzione del quartiere dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa direzione. Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo. Parallelamente in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma. Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, Antica Roma Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Terza Roma, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Italia   Portale Russia   Portale Storia PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale dell'Impero romano d'Oriente Milion Successione dell'Impero romano. Pl€°Ifl  ffRMBIKOjI.  % H. ^>M- Z%!^-'^^J1'V, j^i;»-' AL bO FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB EDIT. KALYPSO  F.  KALYPSO Saggio d'una Storia del Mito TORINO  BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito . È necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio mitopeico. Kalypso. Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La Demetra d'Enna Il mito siculo, Il mito greco. Il mito  siracusano. Il mito contaminato. L'abigeato di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini. I poeti. Gli storici. I razionalisti. Cirene mitica    11 sostrato storico. L' " Eea, di Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in  Libia. Euripilo ed Eufemo. Gl’Eufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le manifestazioni mitiche,. L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e riflusso delle saghe, La fine,  - INDAGINE. Andromeda „ Il racconto di Ferecide Perseo. Acrisie,  Preto, Polidette, Ditti. Atena e la Gorgone  Medusa. Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I  miti etimologici presso Erodotoed EU ani co  (frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda „  di Euripide, Euripide nel 412 Il culto di Demetra inEnnajart. La questione. I caratteri del culto ennense   nell'età storica. Il primitivo probabile nucleo   siculo, Le versioni greche del nitto di Kora,L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio ; Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto.  Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e metodo, La ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eu-  femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito, nitto di Kora. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  Il problema. Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio. Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi. Cirene mitica. Bibliografia e metodo. La ninfa Cirene. Apollo Carneo. Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eufemo. Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima,  STORIA. F. Kalypso.  La Storia del Mito. È necessaria e legittima. Non esatta, anzi può dirsi fallace la nozione del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta  sullo scoglio al mostro marino; la ninfa Cirene,  domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da  Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza d’Ercole piegò annientandolo. Tali persone e  vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso noi nome di MITOLOGIA greca e LATINA, inducono,  ciascuna, al pensiero un racconto, non pur definito ne’termini e preciso ne’particolari, ma costante nel contenuto, si da valere (usando  espressioni proprie a fenomeni differenti) per E cosi rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si allude a uno  fra questi quattro miti. classico o canonico, da apparire quel mito. Né il  prevalente costume, a pari di molti, è senza  motivi: già che si ricollega per un lato ai modi  che, nel concepire ed esporre miti, tennero i  compilatori alessandrini, quando miti non più s’inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina secondo uno schema principale, ne’margini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a obliterarsi. Si ricollega esso  costume per altro lato al vezzo, malo quanto  diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude in sé una sostanza di verità, in  ispecie storica; si che, la verità non potendo  esser che singola, unico similmente sarebbe l’'intreccio della FIABA onde è compresa. Ora, poiché i criterii de’gramatici in nessun modo possono essere più i nostri; e né meno è più nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione né il senso storico, una tanto facile fede nella veridicità del RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a considerare qual via puo divenire la buona non che la nuova. Sùbito sgombra la mente di assai equivoci e  di troppe astrazioni il porre, con precisione storica, i materiali grezzi della mitologia. Ilmito  di Cirene, dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi  pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno  di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo ciò, e dopo tutto che è andato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e  che di conseguenza ignoriamo. In altre parole, l'indagine concreta non conosce se non un complesso di componimenti letterarii, manufatti artistici, riti cultuali; e sente entro ciascun componimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in sé  e per sé, IL MITO. All'infuori, questo può tuttavia  sussistere. E per vero in due modi risulta da  quelli, sia per ordinata compilazione, sia per alterazion fantastica. Ma è allora diverso e  nuovo, UN ALTRO MITO [cf. Grice on ‘myth’ – “Meaning Revisited”] a pena affine a qualunque  l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii  componimenti manufatti culti e spiega i singoli  stadii e i singoli trapassi. Ma in tal caso è divenuto, non la forma canonica o classica, bensì  LA STORIA DEL MITO. L’artista clie ci ripete una fra le molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie di vicende, cui sottostò quella FIABA già nel passato. Egli, insomma, elabora UNA FIABA NUOVA, la quale può essere per certe analogie di casi e  identità di nomi avvicinata a talune antiche  meglio che ad altre, ma non diviene per questo  la fiaba di  quei nomi e di quei casi. Questa in  qualclie modo ci dà, solo, lo storico, comprendendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze  della FAVOLA e organandole geneticamente ed  evolutivamente. Chi vuole IL MITO di Andromeda, ne legga LA STORIA. Se non che, ond'è nato il concetto di racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: UN FATTO, e una tendenza. Riandando storie di  miti accade di avvertire, chi anche sia grossolano osservatore, quale e quanta rete d’interessi  politici, di orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra,  musco boschivo, il crescente tronco della LEGGENDA. Indi, la preferenza decisa vien concessa,  in certo luogo e in certo momento, a quella tra le  forme esprimenti LA SAGA, la qual contenga il  particolare simpatico, L’ANEDDOTOfavorevole, o  (che basta) si atteggi nella luce che più appaga. Un fine pratico, per conseguenza, può CANONIZZARE i miti altre volte, l’ala d' un poeta, la  vigoria d'uno storico. O, infine, il più fortuito  caso. Sempre, tuttavia, a canto di questa preminenza d'una fra le forme mitiche, valse a  traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché, comparati tra loro DIVERSI RACCONTI D’UNA SAGA,  parte coincideno, e pareva il più, parte differano, e sembra il meno. Si ritenne lecito  prescinder dalle differenze per insistere su le  coincidenze, e di queste costituire la saga, e  quelle giustaporre in guisa di varianti secondarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque  testi di cinque autori intorno alle vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione arbitraria d'un FITTIZIO MITO di Cora. Grossolano  errore contrassegnato di superficialità. Difatti,  oltre le minori discrepanze notate, pure sotto l’uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii  testi alcunché, men ponderabile forse, ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL RACCONTO. Il paesaggio medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli. L'artificio è cosi palese che stupisce potesse ingannare e  diffondersi. E pure condusse più oltre: a fìngere, dopo IL MITO di ciascun personaggio – e. g. GANIMEDE, ENEA, EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO --, IL MITO IN SÉ, quasi ENTE SEPARATO, capace di influssi attivi e passivi; senza che diviene tosto palese, come cotesto ente non sussiste se non col suo predecessore logico; come quest'ultimo sorga d’una contaminazione di varie forme letterarie artistiche cultuali; come quindi uniche esse forme  costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per  asserire, e lo asserimmo dianzi, che conoscerle  significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO STORICAMENTE SI PUÒ CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e  dopo scoperti i motivi reconditi dell’equivoco consueto, rimane ancor dubbio, se o no è legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa d’aver  innanzi espressioni multiformi, cui sono mezzo le più disparate materie, DALLA PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, può sospettare a ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per  identità di nomi di figure d’imprese; mentre  tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, caratteri cosi mutati d’ambiente, sembrerebbero permettere, o comandare, la distinzion più recisa.  Sospetto lecito, questo -- ma specioso. Non importa che certa temperie (dico, ad esempio, l'epoca d’OTTAVIANO, o il magistero di OVIDIO) accosti molto fra loro due saghe di soggetto diverso;  là dove lontananza d'anni e di spazii separan  spesso saghe dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci  ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di  Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in  quella o presso questo. Ma è d'altra parte irrecusabile che ciascuna espressione di un mito, in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle  precedenti da un vincolo più profondo e più intimo che l’argomento: le conosce, ciò è, e le  ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica  coteste espressioni, ciascuna è materia greggia  rispetto alle successive, ed è sintesi originale  (anche negativamente originale, si capisce) a  confronto con le anteriori. Ne segue che la storia  ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra:  essa, co’suoi criterii di tempi e di luoghi, con  tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a costruirne quasi una genealogia; della quale i rami  e i gradi son segnati da reciproci influssi più o  meno profondi, da modelli più o meno diversi,  sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. Del  resto, il resultato medesimo o, se piace di più,  il medesimo soggetto di questa, che diciamo, STORIA DEL MITO ne legittima, dopo gl’argomenti  or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un individuo organico e definito: individuo ch'è, come  mostrammo, LA LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di tale istoria?  Il suo procedimento è chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su Cirene  o su Cora, sia per notizie tramandate sia per  industria di congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l’ordine cronologico, se non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. Solo di poi s'inizia un più arduo lavoro. Il pensiero, insomma, prende a conoscere quelle espressioni. Di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi. Ciò sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e  quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che  episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il  punto di veduta onde i particolari le scene gli  episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove  consiste o se esista la forza sintetica che i par-  ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò,  fuse. Triplice processo: valevole come per un  carme, cosi per una pittura e, checché sembri,  per un culto. Giusta poi le risultanze di questa  nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in-  torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi  per sé, secondo nessi ed influssi, sino a costruire  lo schema delle lor geniture. Allora lo scopo è  conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra  specie di conoscenza si avvia: non più dubitosa,  qual si conviene alla ricerca, e faticosa di controversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane  incerto è delimitato; quel che può essere certo,  è posseduto; si che le lacune e il ricolmo si distinguono nette. Altrui giudizii su la materia  son superati con l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale  lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine,  diviene poi quasi base; e sovr' esso si erige, pei  suoi muri maestri nei suoi archi di commessione  co' suoi travi intelajati, 1’edificio definitivo. Il  mito ha la propria storia.   Il mito è, da questo momento, vera ricchezza  nello spirito nostro. Si obietta che è acquisto  mal certo, però che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel passato, di  quella stessa leggenda storie molto o poco di-  verse con asserzioni contradittorie alle prece-  denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in  parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-  nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla  discordia dei pensieri individuali. Ma né l'una  né l'altra verità scema l'importanza dell'acquisto.  E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-  mandate o è cosi fatta che impedisca la storia  o pure solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce  (e son taluni casi), il danno è davvero grave.  Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol-  teplici che non perseguiamo qui), la jattura può  variare di entità ma si riduce tutta, in ultimo,  al fenomeno comune della individuale memoria  e, traverso questa, della memoria collettiva; si  riduce, quindi, alla condizione imprescindibile  della nostra conoscenza intorno al passato. In se-  condo luogo, il differire degli storici intorno a una  saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes-  suno parere domma, prova insieme che ciascuna  è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero  per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con  agile freschezza e cura non intermessa ; attesta  quindi di ciascuna l'importanza, assidua perchè  dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi:  quello spirito che ha conosciuto la storia d'una  leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera  altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra-  mutando in organismo il tutto insieme inorga-  nico delle fonti; sia impregnando della propria  essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto  armonia del discorde, e reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è anche  materiato della più alta virtù di pensiero. Dura  come una fatica ; splende come una vittoria. Che  se di poi mutazioni intervengano e pentimenti,  non se ne scema, ma più tosto se ne innalza,  superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-  nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non  immutabile, certo personale, in tutta la serie co-  nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon-  tane e disperse.   Il mito è, dunque, da quel punto viva ric-  chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare  tal verità, sottile è però discernere i valori di-  versi della conoscenza in quella guisa procurata.  Ma è necessario, per farla più conscia.   Lo storico si è, durante i successivi momenti  della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa.  Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno?  Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi  di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre-  tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ?  Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al-  l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto-  rico e questi con loro, fin quando similmente a  ciascuno la materia si sublimi in arte. Tuttavia,  in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in-  dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo  vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o  il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che  conoscono, verso la nuova espressione, che igno-  rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in-  telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla  loro espressione quanto dall'altre precedenti, e  quella conosce, e queste conosce del pari. Si che là dove l'artista si trova di fronte a un che di  imprevisto, in cui l' impreveggibile è determinato dalla potenza della sua energia creativa ;  per contro lo storico si trova sùbito a conoscere,  traverso l'opera compiuta, appunto quella potenza dell'artista e può ponderarla e giudicarla.  L'effetto è che non solo egli si è identificato  con una delle espressioni nelle quali la saga  visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di possesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico  non si considera pago né pur di questo giudizio  che già di per sé lo eleva sopra l'artista intuente : vi avverte un valor m omentaneo e, tenendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può  assurgere a quell'intuizione sintetica della saga,  da cui appajono giustificate le intuizioni singole  degli stadii e delle forme come dallo scopo il  mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito,  può quindi esser detto pregio intuitivo.   Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche discipline difatti van di continuo preparando al  pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera  sua: attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli  scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui  sono attendibili, ai culti con le fogge che divennero consuetudinarie, ai popoli con le credenze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le  menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse,  quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto  meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono,  più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi  condensando; consigli, che risparmino fatica individuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze.  Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti riferirsi, che è stolto trascurare, né si può senza  fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumulate lungo gli anni da tanti sforzi concordi,  convergono nella storia della leggenda; e quanto  più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole  l'ossatura, e permettendole o promettendole consenso più vasto e interesse più vario.Fra tutte,  precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza  dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleggiare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto.  Cento numi agresti si rinvengono fra cento popoli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'Equatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti,  le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo  insieme, vario concento sopra un ritmo unico:  che ogni gente reca il suo contributo. E cielo,  monti, acque silvestri marine lacustri, paschi  pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide,  biade che la zolla e il Sole indorano, notti illuni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori  delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fenditure del suolo : l'immenso respiro pànico, che  penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma  costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre  lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo.  Ond'è che son opere in cui questa varietà speciosa è ricercata con amore intento, disposta  con cura e scrupolo in chiaro ordine . Ivi      Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische Forschungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V  Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau   molte leggende sono narrate, molte cerimonie  descritte, quelle che gli uomini dicono e compiono da quando sorge il lor Sole a quando tramonta, e quelle anche che la notte conosce. Ma  ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito  pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,  tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individuazione, perché si vuole, badando al generale ed  al comune, conseguire identità spirituali contro  distanze di tempi di luoghi e differenze di forme.  Vi si fa propedeutica; non storia. Cosi in altre  opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti  obliqui di interessate invenzioni che non è lieve  scoprire ; o vero su i traviamenti della intelligenza che tenta le cause del fenomeno ignoto,  ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste,  come un nome frainteso generasse talvolta un  popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come  Scaevola connesso con l'aggettivo che significa  " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido  Muzio e della destra bruciata. Insegnano che  per dar ragione al nome di una città (Roma?)  s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).  Spiegano che un culto greco fra culti romani  parve agli antichi giustificato col narrare qualmente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da  l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare  in classi i fatti; e creano alle classi fin la denominazione discorrendo di " miti etimologici „  per i primi casi ; di " miti etiologici „ per l'ul   DissiN Adonis und Esmun (Leipzig); E. S. Haktland  The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo . Tutti bisogna che lo storico sappia, per  sviscerare gli stadii della sua saga, senza equivoco grande né troppe dubbiezze. Di tutti,  quindi, è conscia la storia di una leggenda. La  quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce definita, si da impedir confusioni con altre pur simiglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con  le formule della propedeutica confermandole in  presso che ogni sua vicenda. Non che in tal  modo scemi la singolarità sua propria; e allora  perché farne storia? Né manco che non aggiunga  tal volta materia alla propedeutica medesima;  già che questa non è mai conchiusa, e di continuo si accresce, per l'appunto come la esperienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi  la storia di un mito ha questo pregio scientifico:  mentre è impregnata, come più latamente può,  del sapere collettivo intorno alla propria materia; mentre è dissimile da quel sapere, ed esiste  per la sua dissimiglianza ; è pronta a contribuirvi con tutta sé medesima, per quanto contiene di insolito, e per quanto riafferma del consueto.  Terzo pregio è un altro, fors' anche maggiore.  Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (Torino), ove in polemica è chiarito assai  bene anche con esempii il contenuto di quelle due denominazioni. Chi poi voglia avere rapidamente un'idea  su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può  per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente rassegna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte  der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband. Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jiassato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce  di lui, or come nebbia da piani pigri, or come  da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano  durante un giorno, e le compongono varia bellezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo  delle trasfigurazioni luminose come del sopravvenir tenebroso, è secreto dello spirito umano.  Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi  piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la  meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli  astri, purezze nivee e dentate di vette inviolabili, scompigli di chiome arboree nello squassar  dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera  finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli  acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito  indicibile gli urta su la fronte le tempie, illudendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza  ineffabile lo gitta prono nello stupore che paventa ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che  con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli,  la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo  ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto  i muscoli e gli artigli della belva silvana, per  farla sua preda o imitarne il destro miracolo ;  e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improvvise forme che la natura plasma tra cielo e terra,  nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque,  ammira il volto del suo nimico o la violenza  della fiera. Appresso, su la prima trama esigua,  quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si  consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'invenzione originaria non si perde, ma, serbata  tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer  lento e difficile dei travagli clie martellano Fumanità nei secoli e le rodono il cuore invincibile.  Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri,  forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende,  s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta,  rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri  dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca  le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia  onde si crea il diafano contesto verbale o si  plasma nella dura materia il moto o si finge l'ansito nel colore; e con lei genera creature d'ale  e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli  mostri e deformi. Far quindi la storia del mito  significa spremerne cotesto succo occulto, il quale  si mischia col nostro più profondo pensiero su  la vita e saggia le nostre idee sul bello sul  buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua  visione, e la forza della sua espressione, e il suo  lungo cammino. Idee che costituiscono d'altro  lato lo scheletro stesso della storia d' un mito.  Del quale il trapasso di forme può venir concepito geneticamente, l'una determinando l'altra ;  o staticamente, i nessi essendo privi di forza  generatrice; o in rapporto all'evolversi complessivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui ciascuna dipende da una teoria filosofica. Persino  chi per orror metafisico mai abbia voluto impacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua avversione nella storia e ve ne lascerà i segni,  non giova dire di quale specie. Onde la conoscenza del mito di Caco o di Andromeda, pur  contenendosi nei termini di un limitatissimo fenomeno, pur fermando nel pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui tutto  il passato è pieno nella memoria degli anni,  tuttavia impegna con sé un'idea di quel moto  e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta.  FILOSOFIA: senza cui, il breve mito sarebbe assai  poco ; con cui, diviene moltissimo.     in. Caratteri.   Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pensiamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia  gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare  sùbito qual sia la lega comune onde tanto compatto è il resultato. Ma lega si rivela l'intelletto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle  discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal  pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova  nella vita dellintuizione, quando vengono esposti  all'attrito della realtà testimoniata. Di più  non può dirsi: che ha da restare intatto il mistero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede  come larghissima parte della intelligenza vada  a imprimere la storia d'una semplice saga; come  quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva.  Né forse è detto ciò senza stupore di molti ;  perché prevale oggi il principio della oggettività storica, tanto che il riconoscimento del contrario nell'opera di chi che sia suona quasi a  rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a  cercarvi le parole della certezza assoluta, allettandoli con un equivoco ch'è quasi una mistificazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto delle vicende storielle per cui un mito  si svolse sono le stimmate d'una personalità; né  solo, ma il valore di quel racconto è in queste  stimmate ; in quanto la personalità, non pure assomma, si anche fonde e ritempra, com'è necessario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria  filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che  si riconoscono indispensabili alla costruzione  d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre,  dalla misura di esse cognizioni teoria potenza  e del loro commettersi, dalla misura, in breve,  della personalità medesima, è segnato il pregio  del contesto narrativo.   Dal qual evidentissimo principio si definisce  anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di  chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né reverenza ad autorità indiscussa : invece, ragionevole assenso, ora parziale ora totale, ora nei particolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli  uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è  solo responsabile e che, scoprendosi con arditezza, accetta onestamente d'essere imputato.  Compito arduo, adunque, è il leggere non meno  che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che  quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più,  solo per il lato si adempie che costituisce l'interesse onde mosse la lettura ; e da quel lato  soltanto sogliono originarsi le censure, le più  modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la  storia della saga di Cirene deve soddisfare le  pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato,  il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più  lieve a tutti costoro l'opera di critica rielaboratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, almeno; non costumava cosi Tucidide, né Machiavelli ; con pena della moderna indagine)  mostra, in una qualunque parte del suo lavoro,  i mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite;  onde ne è pronto il riscontro .   Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto  della soggettività fin qui rilevata. Quando l'artefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera  propria ; allora, sopra le testimonianze e le formule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan  concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si  cristallizzano in materia nuova su la materia  che vedemmo preesistere allo storico. Accade  perciò, da tal momento, che si possa misurare  quanto ciascuna individuazione sia piena di  realtà, cimentandola con tutti gli elementi, divenuti esteriori e concreti, di cui nella intimità  e fluidezza dello spirito creativo essa si era nutrita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto,  vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di  individuatore, tutti questi elementi, scissi prima,  organati poi; e valuta il pregio dei singoli e  della mischianza loro. Cosi, quel che fu già emanazione viva d'una vivente persona; imponderabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e  definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa passibile di metro, di scandaglio e di analisi; definito, per tanto, " oggettivo „.   Sempre, per opera dello storico la leggenda  assume la finitezza della persona e i caratteri  dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.      In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.    una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio  e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è  quindi un nascimento e un corrompimento, fra  cui si tocca la maturità. La storia d'una saga  sarebbe dunque una ^ storia catastrofica,, e sul  suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar  la creatura morta, ma pretensiosa di balsamarla? . Si risponde: è catastrofica; già che  si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio  si compone : non è elegiaca ; però che, pur lamentando, se crede, la morte avvenuta, ne  indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pensiero senza stingerli col sentimento. Ma entrambe queste risposte esigono d'esser più ampiamente delucidate.   Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto  io credo) che non solo è necessaria la storia  del mito per conoscer il mito, ma è in tutto  legittima, perché opera sopra un individuo preciso il quale ha una reale e non disconoscibile  esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'individuo risulta da una serie di stadii, e ciascun  d'essi non può star solo, ma è in intima attinenza coi precedenti e coi successivi. Ora possiamo specificare meglio : che ciascuno stadio  rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco  o di molto momento, vi è immancabile l'attività      Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pronuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti  dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove, s' intende, dalla sua identificazione della storia con la filosofia. d'un artefice che ha segnato di sé medesimo,  con grande o con piccola impronta, la materia  leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta  speciali energie e del mito sviluppa potenze che  o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte.  Per conseguenza, astraendo si possono considerare, in un qual siasi stadio leggendario, tre elementi : la manifestazione, senza  cui non sarebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii  anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di  qui, son possibili varie evenienze: o che a un  certo momento ogni manifestazione cessi, per  qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza  ancora negli spiriti e nel mito; o che la manifestazione appaja inadeguata alle precedenti e  per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine,  l'energie dell'artefice apportino alla sostanza  della saga violenze che la rinneghino. Nel primo  caso, la catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio;  nel secondo è preceduta da uno scadimento, che  la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la  vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban  spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, è  sempre. E la storia, in quanto storia, deve narrarla, come narrò il nascimento ; ed essere, inevitabilmente, catastrofica.   Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza  dubbio, se lo spegnersi d'una luce non significasse, fra gli uomini che hanno assiduo il fermentar delle forze nello spirito, l'accensione di  un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito  di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi  ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è  motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come meglio, la distruzion del tutto. Rimane, per  altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del  danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual  egli era stato concepito, quale gli artefici l'avevano formato, ninna potenza terrena può ricrearlo indipendentemente: un individuo insostituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo  perdiamo. Molte saghe venner create con bell'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,  non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni  dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacerdotali; non molte, poche divennero nell'epoca  del pili adulto pensiero classico, quando per contaminazioni la ricchezza del numero si fu assottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova  morte sminuisce quella dovizia di una unità,  scema questa bellezza di grande efficacia : quel  che sottentra è copia e grazia dello spirito  umano, della mitopeja classica non più... Una  maggior individualità, dunque, è minacciata  dalle morti di questi minori individui mitici.  Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si  squassa. Il genio mitopeico.Quella individualità maggiore è oramai embrionalmente posseduta dal nostro pensiero.   Quando siasi letta la saga di Andromeda, e  poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora;  appresso, non si conoscono pure quattro vite di  saghe, come fossero di eroi o di santi o di statisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nell'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente  esperienza, rotti i termini entro cui si è formata, tenta di organarsi in altro stampo, infrange l'intuizione del singolo per disporsi, in  che ? come ? Per la risposta, da principio ingannano due parvenze, contradittorie nella forma,  entrambe erronee.   La prima parvenza è brevemente questa. Con  l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio  di quattro miti si possono perseguire due compiti differenti. Uno, più modesto, consiste nel  raccogliere tutti i fatti constatati durante lo  studio e nel disporli con altro criterio che il cronologico e genetico : nel guardare, in breve, il  medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da  altro pimto di veduta. H secondo compito, in  vece, costringe a trascendere i limiti segnati  dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le  saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne  sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto  l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa  quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo  pratico ; come quelli che servono a concludere  ordinatamente sotto la specie di leggi (nel secondo caso) o di formule (nel primo) esperienze  compiute storicamente sotto la specie delFindividuo. E sono, perché pratici, utilissimi ; né  giova, secondo piace a taluno, predicarli ridevoli o in altro modo spregiarli. Non mostrano,  tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il  nostro pensiero, elaborato che abbia un certo  numero di storie su fiabe. Non può esistere un  soggetto vivo cui attribuire quelle formule e quelle leggi, si cke gli aderiscano come i caratteri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e  le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbitrarie le formule, perché incardinate su criterii che  non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e  irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla  massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè temerariamente affermano più del conosciuto, impegnando in sé, insieme con il già intuito, il non  mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà  viva onde germinano, incadaveriscono in freddo  schema e, come schema, lasciano straripare oltre  di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle  quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando  tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi  affatto un intelletto veramente avido di sapere  concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora  insufficienti.   Fallita la prova di questa parvenza, l'altra  vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu  avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca  nella nuova opera i miti, soggetti delle singole  storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea  uno difatti, f)ur che si astragga un poco come  suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spirito, cui competano tutti i caratteri dei varii intelletti che influirono, di stadio in stadio, su  l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente  appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo  e fede, scettico scherno e dubbio religioso, preoccupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)regiudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni  virtù in una sintesi superiore alle contradizioni  apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse.  esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i  quali si disporrebbero le sue energie e i suoi  attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile  di storia. Ma l'artificio più palese l'ha origina to.  Difatti, mentre chi narra la storia di un mito  opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé  congiunti, e che senza nesso non sono né pure  compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece  e le energie di quel pseudo spirito vengono solo  per caso delimitati, avvicinati e graduati : già  che unico motivo per cui quel falso ente si afferma con alcune qualità, e non altre, con alcune  vicende, e non altre, è la scelta, precedentemente fatta con criteri! estranei, di quattro miti,  e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli  attributi muterebbero numero, specie e successione. Segue, che è necessario guardarsi dall'insistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si  voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e  svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi.  Vinto l'errore, la salute appare spontanea.  Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero  e non artificiato, intuibile dallo storico e soggetto vivo delle nostre esperienze anteriori, limitate per qualità e per quantità. Ora, se è  (come dicemmo) arbitrario determinare un individuo mitopeico valevole per quattro miti,  perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra  anterior ricerca, il numero di quattro : sopprimendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un  reale individuo, allo spirito greco-romano in  quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei  Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito effettivamente, di certamente vivifìcabile, di indùbitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova  a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la  realtà proteiforme ; qui formule e leggi vanno  a confluire nella materia ignea, rimettendo di  lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incandescente. E conquistato una volta questo certo  soggetto, si comprende d'un tratto come tutto  che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe  conosciute vale ed è esatto per il genio mitopeico, ne è la storia ; è, sol tanto, incompiuto e  insufficiente : perché lembo di un tutto ; lembo  casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza  di questo tutto, ha importanza, dev'essere affermato, e può assumere, esprimendosi, un tono  generale. La medesima sua incompiutezza poi  è solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre  alle quattro fiabe cónte altre assai sarebbero a  disposizione del pensiero che volesse conoscerle  in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico.  Non è, quando si avverta che, i)ur conoscendo  tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe  per noi sempre, dalle fortune del caso e dal decorso del tempo, privo di qualche sua saga, e  quindi scemo di talune energie, per guisa che  dovrà in ogni maniera venir intuito traverso  molte si ma non tutte le sue manifestazioni ;  non dissimilmente dall'indole degli uomini che  la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli  istituti che remoti echi ci tramandano irregolari.  Quattro miti son dunque poco i3er possedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo  leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro insegnamento è certo, se bene incompiuto; insufficiente, non arbitrario. Cosi le storie di quattro miti conducono alla  storia della mitopeja. La quale pertanto non  può consistere nell'insieme inorganico di quelle  quattro singole storie, se si mantenga incompiuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme inorganico delle storie su le varie saghe conosciute.  Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del  nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la  esigenza di quella più larga istoria emergere a  punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non  sodisf acimento) di taluni racconti men larghi.  Come, per analogia, le biografie di cento individui non souD la storia della nazione cui appartengono, e che li comprende in sé e in sé li  distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe  non s'individuano che a patto di delimitar  volta per volta il total genio mitopeico in margini che non sono i suoi proprii. E a quel modo  che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se  non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte  le sue virtù se non se nella mitopeja. E tutte  non si conoscono, che spezzando in un testo più  ampio i termini in cui si conchiusero le conoscenze dei singoli. Evidenza pari ha, o dovrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a  questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia  di un mito, nell'atto di mostrare come le molteplici manifestazioni leggendarie potessero aggrupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e  le fondamentali vicende che accomunano talune fra esse ; disegnavasi pure, come possibile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni  molteplici più tosto sotto le rubriche delle diverse epoche e dei differenti luoghi, per comporre, con criterio cronologico e geografico, la  storia della mitopeja pagana lungo i secoli e  traverso le regioni del mondo classico. Età per  età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella  determinata temperie, intervenire su tutto il patrimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue  predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue  attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale  opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito temporale e regionale dei Gentili, come se sia stata  ristretta in taluni confini di paese o di momento,  è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?  o pure, anche da essa deriva allo spirito un bisogno più alto? Senza dubbio, un paragone  con l'insieme inorganico delle singole storie di  miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso  difatti v'è organicità : ogni epoca influendo su  la susseguente dopo che la precedente su essa  aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani  riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe  altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a  parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste  tuttavia. Sopra le differenze più o men notevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due  i casi la costanza con cui talune energie dell'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,  influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor  patrio, il senso naturalistico e l'acume psicologico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale.  Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno  fra esse intervengono nella mitopeja, fin che  alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che,  come più si discenda nei secoli, non solo si accrescono per numero ma quasi si succedono per dignità, tramandandosi tal volta nel corso la  fiaccola, umanamente. Si comprende che son le  potenze del genio pagano in officio di mitopeja ;  s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,  cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti nominativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma  merita indagine; e si desidera cercare questa  armonia e quelle potenze.   Concetti empirici, dunque, tali potenze? arbitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi.  Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi  ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indicare qualcosa di assai individuo e concreto : altr' e tante energie spirituali che, in certi momenti  della storia, e in determinati punti della terra,  hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora  iridandola di sfumature, ora riardendola fin nell'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e  solo per storia conoscibili. Le carità patrie di  Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dionisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e  d'un latino : fatta breccia nei confini onde storicamente son racchiusi entro un'opera e un  temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un  l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le  differenze, quelli e queste ordinano in sintesi:  fino a divenire, in diverso contesto storico, la  carità patria, il razionalismo, la religione del  genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi  non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e individuato a un tempo. Generale, rispetto alle singole saghe: individuato, rispetto al genio mitopeico.,— Di che può aversi riprova. A quel modo  che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, l’interesse più attento soverchia il cerchio breve del  palco ove poche persone son mosse in non molte  vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di  quel moto ; del pari, per l'interesse più attento,  anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide,  e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, competono fin da principio, dopo che a Vergilio a  Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità  pagana di cui son pregni, alla vita de' Grrecoromani nella quale immersi son trascinati subendo e reagendo, come massi che il fiume ha  composti e disgretola poi con la medesima forza.  Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii  d'un mito superano il mito, e si proiettano, in  altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone  non più affinità di nomi e di casi, ma di potenze  spmtuali.   Però a questa disposizione nuova manca tuttora l'ordine della successione : che è, anche,  l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non  può valerci più, adesso, il criterio cronologico :  atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto  del tutto a decider, con certezza che non sia di  pallida congettura o non nasca da arbitrio di  pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza  delle sue acque nel mito prima che l' analisi  psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al  proposito, ogni saga darebbe una propria risposta, diversa secondo vicende casuali o necessarie . Qualcuna persino mostrerebbe contemporanee le manifestazioni in apparenza più  Sul valore di queste es^pressioni LA STORIA DEL MITO   disparate o in sostanza più contradittorie. E, per  tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo  di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni  individuo definito, evolvendo le sue speciali  energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espressioni che ci richiamano senza dubbio alla sua  origine ; altre, che ci riportano quasi con certezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare  ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, compararle o alle qualità originarie o agl i ultimi  corrompimenti. Ma perché più certe appajono le  prime, a esse la com[)arazione va riferita. E  tanto più si sente, allora, tarda (nell'essenza)  quell'energia che, acquisita allo spirito mitopeico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per  essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo  insieme, a una tappa nuova ; si che il momento  della conquista è ben paragonabile all'oscillazione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.  Una storia compiuta dovrebbe però seguire il  mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il  punto in cui dopo la precedente essa confluisce  nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando  il modo del deformare. Una storia, per contro,  incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i  suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della  sua incompiutezza, col tratteggiare senza disegnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due  vedrebbero, oltre l'assiduo rinnovellarsi delle  forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga  introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara  armonia del complessivo progresso geniale, le  cui pietre miliari hanno nome dalle potenze dell'animo e dalle forze del pensiero. Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa  armonia, apparirebbe la constatazione che tutte  quasi le saghe, le quali la storia può scegliere  a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di  fronte a noi, in lavori di arte letteraria e manuale o in riti di culto, quando oramai o per  intiero o in buona parte lo spirito onde sono  elaborate ha acquisito le sue virtù: pel che  quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi,  secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco  grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in  somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi  di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un diverso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che  non è senza evoluzione ma con evoluzione diversa dall'originaria. Condizioni di ambiente  fanno si che in una sola età, l'augustea, la leggenda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo  e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di  scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso  Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità  cronologica, non esitiamo a proclamare più vetusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo  della complessiva mitopeja. Tal certezza si conforta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde  appare VergiKo attingere a più antica sorgente  che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia  anche quando il riscontro non fosse possibile  per qual siasi motivo. Com'è del mito di Andromeda, il quale è già scaduto in un tentativo  di travestimento storico allor che Euripide lo  solleva al culmine della sua vita penetrandolo  di passione patria e di pensiero religioso. Crii è  che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in  volta ne fa uso secondo richieggano sorti diverse. Spetta all'occliio dello storico separare,  caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio  acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba  sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori  di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo  nel progresso del genio mitopeico.   Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme,  per cui le figure si moltiplicano disponendosi  l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'intrecciano simiglianti e differenti ; e si dispongono in racconti svariati, che ciascuno possiede,  quasi nome personale, una peculiare orma, né  confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dall'arte, ha destino qualche volta non perituro.  La storia della mitopeja per contro diviene  scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza  creativa, la limitatezza fondamentale della manifestazione : il sottostrato di potenza definita,  di là dalla superficie delle creazioni che si tramutano lungo serie senza termine e fogge senza  numero. E né meno qui, in quest'altro ufficio,  essa si converte in scienza astraente e classificante. Quando vengono disegnate le vie che la  mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano  certo concetti empirici e partizioni; quali fra  letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto,  per cui il filosofo userebbe termini ben diversi.  Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie  dei singoli miti, insieme con altri, e non impediscono che quelle storie concretino individui  ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro presenza non può decidere senz'altro contro  la natura storica di un' opera. Difatti, ancor  questa di cui parliamo lata storia mitopeica  fonde leggi categorie e formule nello scoprire:  in primo luogo, i confini entro cui tutte le manifestazioni favolose son racchiuse; in secondo  luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte;  onde riesce a precisare una risposta a questo  problema, ch'è denso di realtà storica : con che  mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito  pagano mitopeico si manifesta ?  Il badile ed  il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le  pagine ove Tincruento travaglio campestre e la  sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci  e selvaggi.   Ma poi che questa diversa istoria del genio  mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle  sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi  compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà a  sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando,  senza sconforto, la fine della mitopeja pagana.  Non senza rimpianto però, ch'è differente cosa.  Non vediamo pili Centauri scender galoppando  dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera  il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri  marini e piegare tracotanza di violenti. Quella  cecità e questa negazione sono stati il prezzo  con cui pagammo altri spettacoli ed altre certezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore,  alla nostra avarizia di uomini, a questa cupidigia di opulenza spirituale.  Sin qui tentammo della mitopeja e della sua  storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che  si forma nella pratica degli studii e della vita,  e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle  fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un  motivo interviene spesso a ridurre le indagini  e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol  tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei  confini della letteratura. Certo, il genio letterario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere  immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con  l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia  concesso senz'altro esser la letteratura di gran  lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad  ogni diversa forma del significare le saghe .  Non cessa però che di queste ridurre la storia  nell'ambito di pur una fra le loro espressioni è  compiere una arbitraria amputazione. Lealmente  riconoscendola, questa colpa è grave.   Né medicabile. Si può palliarla: come suole  lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla  storia civile e alla letteraria ; e cosi in reciproca guisa. In ispecie quando, per le lacune  che sono ampie e non rade nel pur ricco patrimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più  stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma  di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o dipinti o in altro modo artisticamente lavorati  dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca  deve a forza integrarsi di quella sua parte che  un caso rende ben necessaria e come vitale. Con  simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cultuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fedeli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e  lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine  non è se non nell'intreccio del tutto ; e i riferimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto.   Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con  la incompiutezza cui limitate esperienze entro  esiguo numero di miti costringono il ritratto  del genio pagano facitore di saghe. Permane :  la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si  che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal  volta. Onde avviene che dinanzi la storia insufficiente cosi della singola favola come della total  mitopeja antica, la nostra insoddisfazione si  cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgombri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di  amarlo, con promessa di rendergli " senza vecchiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo,  da la rupe a fronte del mare, piangeva la patria lontana. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Euripide fece rappresentare in Atene una sua tragedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva  materia un episodio del mito di Perseo. Ma se  l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la sostanza a nutrire la sua compagine, nell'opera  la saga viveva una vita altra da l'anteriore:  però che lunga già e complessa ne fosse stata,  innanzi, l'evoluzione.   Antichissimamente, negli anni cui corrispondono, eco affievolita, i più vetusti canti della  epopea e poche mal certe tracce, una assai uber   ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II  cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive.   tosa terra di Grecia aveva fecondato di sé un  semplice racconto .   Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella  pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi,  di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico),  molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non  lontano da morte, egli era tuttora senza prole  maschile, unica essendogli nata una figlia a  nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua  schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi  l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta,  non essergli per nascer maschi se non da Danae,  ma dovergli il nipote togliere e trono e vita.  Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu  posta a che la vergine restasse dal generare,  contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,  riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo  che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle  tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa  vendetta del re impaurito, il quale decretava  che la giovine e il neonato fossero, come  Preto per altra parte fu, cacciati, e derelitti  in balìa della violenta natura e delle intemperie.  Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e pervennero in Magnesia: ove per loro fortuna li  accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi  nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino  crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra  i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo  di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di  braccia si rivelassero. Allora piacque al caso      Cfr. § II e III.  che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima  gara pubblica e che all'agone partecipasse l'adolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio  ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile,  che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva  sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo  lanciato, opera d'un nume! contro le deboli membra del nonno, che ne fu morto. L'oracolo per tal modo compiendosi, il nepote riconosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo.  Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice  e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria,  frutto non insolito d'un seme a più altri simigliante: ove la stessa sua trasparenza non ne  scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve  racconto, lo spunto originario della morte inflitta  dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio  progenitore, che il passato ha curvo e fiacco :  dal Sole, ciò sono, nascente circonfuso di  purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole  occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo  sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la  notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e  l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato  da una Danae (donna di quei Danai che nella  leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e  sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case  sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti „  sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo,  cui è il mal grato biancore di ossa a pena  commesse, diedero nel principio veste di muscoli  e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di  bellezza e di rigoglio traevano con sé e richiamavano a tanti concreti particolari della realtà : le pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando  oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia  in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima  la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,  disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito  un brivido tra di paura e di pietà.   Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù  venne foggiandosi in forme di plastica umana,  s'innestò una di quelle novelle, simili tra loro  come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle  quali il popolo par condensare, con la propria  esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché  vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e le sembianze caratteristiche delle figure che sospinge la sorte comune.  Traverso la fantasia delle masse, come traverso  un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei  pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle  virtù che in genere presso quelli si riscontrano,  si affina in una selezione di cui è vano cercar le  leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio  tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il  pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e  onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto  ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema  della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e  che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili  virgulti quello e questo ; cosi fatti però che improvvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immettano sopra una determinata leggenda : cui recano,  per altro, non esiguo contributo in compiutezza  e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impressero alla fiaba tutta una diversa vivacità romanzesca e forza dramatica. Non fu tuttavia sovrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il  più recente prevalesse sul più antico fino a ridurlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto;  onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale  del bujo Polidette, permasero a costituire il  volto significativo del mito durante tutto questo  primo stadio, tessalico, della sua formazione.   Il che fu chiaro in sèguito . L'Argo Pelasgico  o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,  venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli  scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con  altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e  potenza il più antico, ed era situato in un conchiuso piano del Peloponneso fra monti e mare,  nell'oriente della penisola. I due Argo furon  quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi  il peloponnesiaco; per guisa che a questo si  riportarono via via le leggende che a quello  si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la  nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se  pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di  schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popolazione argolica assimilò ben presto la saga tessala con i suoi particolari e le sue figure: persino  l'accenno a la Magnesia, che quanto mai disconveniva alle sedi mutate, si serbò in solco profondo ; persino, e specialmente, la morte di  Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e  di mare separava dal Peloponneso, si mantenne  non alterata. Al conservarsi contribuirono due  motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva  padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre  al nome della persona ogni valore di riferimento  al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni attinenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un  sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro  perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda  poteva facilmente trascurare.   Ma col proceder degli anni tutto che nel mito  non fosse o compatibile senz'altro con la mutata  sede o ineliminabile per cause intrinseche fini  con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti  figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il  padre di Perseo vennero corretti e adattati: né  è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ;  ma si vede bene quale è per essere il più importante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sostituito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui  si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo :  già che forse piacque cosi adombrare quel Preto  che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che  aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto  naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della  Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sostituita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai  costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo.  Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora;  notevole a ogni modo è che per essa un lembo  di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata  fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra  tanto il mito si diffonde: attinge Micene, penetra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica,  che s'inventò come Perseo, ucciso il nonno,  avesse onta di rientrare in Argo e preferissenceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino  Megapènte figlio di Preto.   Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno  Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in  territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura  una base duplice in cui son contenuti potenzialmente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devolvono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato  e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile  lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro.   Era leggenda fra i Joni  che la dea Atena,  cui molto culto si tributava e particolar reverenza, recasse sopra il suo scudo la testa di un  mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una  delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo dell'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare  e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo  significava trofeo d'una vittoria conseguita dall'iddia avverso la protervia nefasta di quella  figlia di abissi marini. La leggenda era antica,  traccia della natura xDrima ond'era informata  Atena, divinità della luce solare, nume del temporale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze  luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole  per vero un altro attributo si riferiva, tra i  Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa,  lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava  il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei  di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce  agli occhi umani per molte ore vestendosi di oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali  tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le  quali, se si accoglievano bene nella figura di  Atena, non formavano ancora intorno alla sua  persona una veste cosi aderente, che non fosse  possibile separamela in parte con lievi alterazioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la  Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si  riportavano assai meglio al sostrato naturalistico  della Dea che non al suo individuo, alla folgorante luce che non alla sostanza corporea della  effigie umanata. E perché Perseo quando pervenne in Serifo, e come in Serifo in Atene in  Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo  essere dall'energia naturale (la veemenza del  Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva  pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a  Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero  e l'impresa contro Medusa e il cappuccio canino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio  se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu  quasi una contaminazione delle due leggende  in una; ma di due leggende non indipendenti  né ciascuna distinta per sé, si di due che si originavano da una medesima intuizione delle forze  naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti  simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto  in luoghi distinti doppio nome di Atena e di  Perseo.   Il racconto che ne nacque, come prese a vivere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni  materia vivente in organismo : si accrebbe. La  fantasia che plasma le leggende ha certi suoi  modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va foggiando analoghe le sue opere : essa imprime  del suo segno terreno il racconto di quegli spettacoli della Natui'a cui aveva già dato volti  e gesti umani : prende una seconda volta possesso della sua materia. Cosi non concede essa  all'eroe, e sia pur grande d'assai più che  l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. facile  e pronto il conquisto; vuole sia arduo: preparato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talismani senza cui l'opera non può compiersi e per  i quali trovare si richiederanno altre fatiche :  ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a  preparatoria, ch'è mezzo non fine, ma non è  dispensabile : e all'avventura apparecchiati i personaggi. Qui, furono le figure in cui la novella  fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje,  canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un  occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con  un dente. Esse, si narrò, sapevano la sede  di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non  era concesso ad uomo trasvolar fino al limite  dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia  (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo  spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò  dunque ma non ottenne né quelli né questa se  prima non ebbe con violenza privato le tre vecchiarde dell' occhio e del dente, esigendo a  compenso della restituzione i due oggetti cui  mirava.   Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire  lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce.  Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare  diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi;  il quale, avendo allora già assunto rilievo di dio luminoso, era affine a Perseo e dicevole soccorritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai  allargata la saga.   A concliiuder la quale non rimaneva oramai  se non motivare l'impresa strana del fanciullo  cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.  Cronologicamente essa non poteva cadere ciie  nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il  ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente  la causa dell'avventura e del pericolo aveva a  connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Polidette. E poiché non certo l'originalità è più  ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui  un comune motivo leggendario, stracco per quel  che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da  non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti  episodici onde abbisognava. Come contro la Chimera fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò  la morte; come Q-iàsone in Colchide venne inviato perché perdesse nell'arduo cimento la vita;  cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo  per stimolo di Polidette, che innamorato di  Danae bramava toglier di mezzo il giovine difensor della donna.   Oramai il racconto era compiuto : armonico,  organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla  quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da  parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetrazione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a traverso strati naturalistici e nove] listici aveva  dato alla fine il suo bel frutto maturo.   Analogo al processo d'evoluzione mitica per  cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era accresciuto d'un episodio e di due campeggianti  figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso  terreno preparò novella sixnigliante . Ma, a  un tempo, incomparabilmente più complesso ed  inviluppato: tanto che l'indagine riesce a ricostruirlo non con la fondata probabilità ch'è concessa all'esame del mito di Medusa, ma con incertezze non jDOclie, e con grande cautela. Se  l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i  X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è  Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta  con i mostri tenebrosi ; l'altro è Cassiepèa o,  come il suo nome significa senza dubbio, la  " millantatrice „; tipo popolaresco della donna  orgogliosa troppo di sua bellezza che osa competere in gara ineguale con le Dee, e n'è punita  per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque  di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,  novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un comune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a  commettersi con più altri elementi, a raccoglierli  intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi  da allacciare in maglia e in rete più trame mitiche distinte. Per essi si formarono due compagini leggendarie che insieme li contenevano e  n'erano quindi accostate fra loro.   L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in  particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma,  Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere  e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo dell'Arcadia ; e che veniva creduto signore di popoli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.  Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli  Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tramontante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi  nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli  Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse  lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle  quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso  cui come a simili mete muovono in awentm'a  i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi  nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a  pena bisogno, quindi, di dire. Per scopo fu  scelto non an mostro specifico, quale Medusa,  ma una vagamente indicata belva che sorgesse  da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soccorrevole, nell'officio di Atena contro la preda  gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,  strenua in combattere, ignara di mollezze feminee, il cui maschio nome istesso rendeva imagine di possanza non muliebre si virile: l'Andromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla  impresa ignoriamo; ma possiam senza errore  fìngercene uno non dissimile da quel che apprendemmo nell'altro episodio, cosi concorde  con questo per contenuto forma e valore. Si  ottiene un mito modellato sopra i medesimi  schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ;  nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma  tutte le tinte sarebber identiche se non fosser  d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari invariati se non apparissero scemi al paragone.  Un arricchimento però venne ad esso mito  quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette  non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione. si più tosto nel trasformarsi profondo del significato complessivo che quell'acquisto ebbe a preparare. Due avventure di Perseo contro mostri  delle tenebre non potevano non venir avvicinate  prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la  minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi,  si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di  Andromeda. La " Maschia v, si andò raggentilendo fin che si transfuse del tutto nel tipo  novellistico della fanciulla che l'eroe libera di  prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco  nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro  il ketos avanzante dal mare, e un vaso del  secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del  lancio, constringendole e movendole le membra  l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio  insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, divenne indispensabile giustificar la cattività della  fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il  mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo.  n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese  punito nella vita giovine e florida della figlia,  Andromeda fu tramutata in sua figlia,  sarebbe appunto stato la causa prima del pericolo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo  tutto l'aspetto originario dell'episodio è alterato,  nel profondo. La seconda forma possiede la vita  che non la prima. E individuata come non la  prima.   Da l'una a l'altra segna il passaggio Andromeda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo  che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal  mito i personaggi caratteristici, i fondamentali  sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra,  in un'altra leggenda differente di origine. Protagonista è qui Fineo : divinità del fosco settentrione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti  opposti. Benefico e malefico egli può esser difatti :  secondo che dietro lui muova il rigente turbine  del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la  freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ricacciando a mezzodì gli affocati avversarli che il  Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere  fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli  sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle  Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da  Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fìgli  di Bòrea i quali respinsero le moleste e perseguitarono a ritroso fin là dond'erano venute. In  tutto parallelo al formarsi di questo mito delle  Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il formarsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro  di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio  deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con la  forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per  vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'autunno sopravviene, nella nostra leggenda, a mitigare le ardenze della riarsa estate ; si la primavera a dissipar le brume e i geli foschi dello  inverno.   Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico  fu, sembra, appunto Perseo, in singoiar  duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e  trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una volta  pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar  la sorte inferiore di Fineo, suo figlio : figlio  per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che  si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche  di fornire compiutezza romanzesca alla favola,  quando il significato naturalistico ne andasse  smarrito. C era dunque la materia, idonea a  produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé  il levame opportuno, un mito pur esso dramatico né meno denso di bellezza poetica. In vece,  prima ancora che riuscisse a comporsi in opera  ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso  complesso. Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo,  ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea apparivano non pure nell'identità de' nomi ma e nella  analogia degli uffici, non potevano rimanere  distinti: e tanto meno potevano se, come non  è provato ma è forse da ritenere, un medesimo suolo li generava. Si com penetrarono difatti fin che divennero una narrazione sola in  cui gli elementi delle due generatrici sussistevano tuttavia presso che integri, là sol tanto  alterati ove fosse parso inevitabile alla logica  della commessura. Rimase il duello fra Perseo  e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda  da Cassiepea: ma,  e fu il segno della connessione fra le 'due saghe indipendenti,  la  causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata  non più nel supposto vanto d'una madre, ma  nella stessa precedente vittoria di Perseo contro  il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse,  sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda  avanti la venuta del giovine liberatore: cosi  ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso  poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascoltato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa  fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei  due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e Andromeda, su rineo r altro) andasse perduto,  tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e  Fineo.   Chi confronti ora da un lato l'avventura medusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed  Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos  con il premio della vergine e il contrasto con  Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei  due episodii, senza indagarne il significato recondito ; non vi trova pili tracce di quella simigliali za che le saghe della "Maschia,, e della  Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li avverte dramaticamente diversi, materiati entrambi  di moti sentimentali ma or verso la madre Danae  or verso la liberata Andromeda; di cimenti perigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro  la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato.  La cosi ottenuta diversità formale, permise a  chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo  tutte le vicende di lui, di comporre queste due  in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la  uccisione del nonno Acrisio. Un'opera siffatta  fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise  tutto il mito, nel suo insieme organico, e divenne per tanto la base prima d'ogni ricerca  costruttrice . Ne possediamo un sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è  necessario integrarlo col testo del ben più tardo  Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disadorna. Essa non è più per noi, nella forma con  cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la  lunga gestazione per effetto della sintesi narrativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla  nascita misteriosa vediamo Perseo compiere,  dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue avventure, la medusèa e l'etiopica, per ritornarsene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa  a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi  in Tirinto il suo regno, che Argo gli era divenuta infesta. Ma effetto dell'esser stata raccolta in sintesi la serie delle gesta eroiche di  Perseo non fu solo di fargli attribuire per  arma contro Fineo il capo della Gorgone o di  condurre sul trono di Argo Andromeda regina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe  all' episodio del ketos ogni vita autonoma :  valse esso qual momento d'una complessiva  azione ed ebbe valore di conseguenza da un  lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto,  doveva dal tutto ricever sua norma e sua importanza: fin che al meno non ne fosse mutato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua  romanzesca, gradita a' novellatori, tanto più  quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di  particolari le vicende, di gesti le figure, non  si trasformasse in essenza diversa.   Nel molto che andò perduto eran certo forme  varie di cotesta indispensabile trasformazione.  Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli storici del secolo quinto . Per essi la favola  di Perseo e Andromeda acquista una importanza nuova di reliquia fededegna serbata a  traverso gli anni. La cagione è un avvicinamento verbale : uno de' consueti di cui si compiacque la fantasia degli anticM nel conato  e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra  Perseo e i Persiani. L' analogia non etimologica ma fonica indusse a ritener quello capostipite di questi: non direttamente però, si bene  per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato  il nome " Perse „ per più di verisimiglianza.  A dar poi un aspetto anche meglio credibile  alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta  ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani,  " Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ;  quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua  discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine,  sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli  Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga:  però che essi si riconoscessero, in quell'epoca,  or mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud  dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Cefèni „ desumendoli, come traspare, dall'appellativo medesimo del re. E si pensò che a  Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio  di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i  Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ;  e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui  si denominasse Persiano. La garbata ricostruzione critica non fini in questo : perché, difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi  gli Artei? La risposta si trovò combinando  questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi  semiti che avevan sede intorno a Babilonia,  eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto,  presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo  esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli  staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre  sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava  abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per  tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni  avevano abbandonato la regione loro, allor  quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso  il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la  trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si diparte una schiera di Caldei ad occupare la  terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ;  che si spingono verso gli Allei, li sottomettono e insieme divengono il popolo de' Persiani.   Se non che questa mitopeja di eruditi pur  riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in  singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infondendogli una essenza nuova dissonante dal resto  della fiaba, finiva però in una soppressione  dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Cefeni, la lotta col ketos, le nozze con Andromeda, il duello con Fineo, sono un niente a  petto della conseguenza precipua su cui ogni  altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le  premesse non hanno più vita artistica; le conseguenze, ne hanno una storica. Una pseudo  realtà nasce; ma la bellezza muore.   Per tanto, se le gravi lacune del nostro patrimonio letterario troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque  dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii»  emergenti a lor volta su da rigide abitudini  mentali e in mezzo a consueti aspetti della  fantasia mitopeica, non solo perde presto la  sua autonomia col commettersi ad altre vicende,  ma indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a circoscriversi in forma e colore : a bastanza, perché  il senso critico lo adulterasse e, un poco, lo  vituperasse.     n. Euripide.   Fu sorte della tragedia dare a esso episodio  di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu  né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di  altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euripide possediamo i frammenti bastevoli a ricostruire il drama, se non ne' suoi particolari di  arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo  nelle sue linee maestre .   Era consuetudine ferrea che la tragedia nei  suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale  modo i tragedi pervenissero all' elezione del  tema e alla scelta dell'argomento non è possibile dire, per la oscurità imperscrutabile de' processi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia I frammenti, naturalmente, son citati  e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^  (Lipsia 1889).  delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con  qualche chiarezza intendere come il problema di  arte si presentasse al poeta allor quando si accinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andromeda ; come, in somma, lo spirito di lui prendesse possesso, nell'impeto creatore, della materia  leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi,  come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi  distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere  singolare della Gorgone e nel volo miracoloso traverso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per  consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile  nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio  di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nuziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano  la loro unità in un terzo, che è, in somma, del  mito il carattere eroico e la forma romanzesca.  Euripide adunque ebbe, dinanzi al suo pensiero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno  suscitava spontaneamente il suo più vivo interesse. Non solo difatti egli staccava nella tragedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua  I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta  la dramatica greca, di appassionare non la fantasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo  sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio  e forza intrinseci non per smaglianza esteriore  di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie,  come sono ben lontane da quelle che l'hanno  creato dinanzi la natura e complicato in novella,  cosi son anche più mature dell'altre che ne han  goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario  e l'impossibile. Per certo le più antiche e le  moderne cerca van tutte nella saga una verità ;  ma la verità naturalistica e la verità eroica non  appagavano ora quei cittadini di Atene che vi  desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto  spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito romanzesco che un tempo riusciva opportuna o  indispensabile commessione fra i due diversi  elementi della fiaba, sopravviveva adesso, insieme col divino, quale materia in apparenza  superflua. In qual maniera difatti allivellare  sopra un piano medesimo una gesta miracolosa,  un affetto terreno, un intervento di Dei? E  ovvio però che il poeta non vide, come qui criticamente si espone, il suo problema; ma che  lo intui da artista. A punto per questo egli non  ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le  sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio  or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi  in guise diverse.   Poiché ci sono rimaste nella loro integrità  V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel  medesimo 412 da cui V Andromeda si data, intrawediamo a bastanza la vita dello spirito  euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte  tentava il nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra  tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed  Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per L'analisi, che segue, del pensiero religioso e sociale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edizione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed  emana da quello. Di più cfr. § Vili. vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano  fino a darle la morte la donna da cui nacquero,  ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi  che col sangue di lei scorre nelle lor vene una  indicibile virtù di amore e rispetto : protendono da la scena una dolorante maschera umana ;  fraterna con la grande pallida faccia intenta  dagli scanni del teatro. E quando Menelao reduce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto  recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'imbatte nell'Elena vera, quella che gli Dei recarono celatamente in Egitto, mentre un vuoto  simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla  decennale guerra; e la gioja irrompente per la  ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe  con lo sconforto per i travagli sopportati in  vano e la vita gittata in vano da centina] a di  prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte  le creature terrene, cui piacere e sofferenza giungono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno  nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immergersi dell'artista nella sostanza dei personaggi,  nella correntia delle vicende, con un oblio completo di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un sistema filosofico applicato, co' suoi postulati generali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso,  dal profondo, con la freschezza d'una polla cui  s'apra nel terreno la via. Ma di qui non è possibile indurre riferimenti con l'ambiente storico  del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo  stato psichico di lui in quegli anni; ma solo  intorno al consueto modo della sua forza d'arte.  L'animo di Euripide si rivela più in là. In  quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò. ANDROMEDA Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di  Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non  poteva respingerené poteva non alterare. Tali  l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto  a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'ordine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto  Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja,  permettendo sperpero immane di energie e valore. Cotali interventi divini eran la premessa  indispensabile dell'azione ; divennero per Euripide radice di nuova tragicità : però che, tanto  più gli parve orribile il delitto di Elettra, in  quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal  Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo scempio  di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto  adunque le parti divine della tragedia si connettono per lui strettamente con il travaglio  umano ; ma costituiscono una forza cieca e  buja contro cui bisogna urtare : simile al peso  corporeo che non s'evita con gli slanci dello  spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime  con i trovati dell'ingegno.   Onde il poeta accettò l'oracolo di Apollo ; ma  chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „  : o sia non rispose. E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi      Elett. vv. 1245-6.  rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ . E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella realtà si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „  : o sia non rispose. E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi      Elett. rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ . E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella realtà si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp orta paziente  l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, confusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teoclimeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello      Elett. vv. 1298-1301.  ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,  cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii  sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che i  terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui  il problema si formula ; ma nulla lo risolve ;  nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo.  Osserva il Coro  : " Chi è dio, chi non dio, chi  semidio? qual fra i mortali, anche spingendo  molto lontano la sua ricerca, dirà di saperlo?  quale, dopo aver visto l'opere divine or qua  or là balzare con contradittorie e inaspettate  vicende?,,. Nessuno risponde.   Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si  svolge materialmente su la scena, accanto i personaggi sé moventi, ma è nello spirito del poeta,  ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la seconda tragedia, più che la prima. Non di compassione, di simpatia geniale verso la sofferenza  d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e  strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La  quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della  sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero  di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai  la concezione omerica e infantile degli Dei, non  vi crede ; l'ha sostituita con una più matura.  Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo  mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama.  Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tormenta : ripete a chi l'ode la favola bella degli  antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo    Elena tv. 1136 sgg.    sofia ; questa e quella compone, senz'accordo  logico, entro il suo affanno.   Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione  postulava nel mito, ed Euripide accetta travagliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche  hqW Eìena^ giunte che il poeta solo volle e in  cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ;  intrusioni sgorgate da un animo che, non pure  assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella  saga si profonda e si abbandona, anche con  quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee.   Tale s'originò nel drama di Clitemestra la  figura del contadino, povero e rozzo, ma pur  squisito di sentimenti e schietto di azioni :  VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta  in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli  se nati da nobile genitore. Egli, come apprese  la condizione della fanciulla che gli veniva destinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a'  suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospitare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo,  per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando  aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre  son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi  arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la  Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di  forze sane. Dopo, ogni suo gesto è virile e sobrio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela  semplice perché diritto : e mentre Elettra ed  Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure,  egli va crescendo in valore fino a superarli nella  sua persona salda e nel suo fermo polso. Né  basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama  gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa   A. Feekabino, Kalypso. 5   esclamare con maraviglia un poco attonita:  "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a distinguere  la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli  uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di  padre generoso; e rampolli onesti di genitori  perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la  magnanimità in un corpo povero. C'ome orientarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio  questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la miseria è una malattia, cattivo maestro è il bisogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM  risguardando a la lancia giudicherebbe qual  sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare indecisi codesti problemi. Costui per esempio grande  non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne  per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure  si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta  figura divien quasi di maniera e par disegnata  per dimostrar una tesi o attingere uno scopo.  Quale tesi o quale scopo si propose Euripide  nel concepirla e nello stagliarla?   Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena  la novità introdotta. E anzitutto nella scelta  medesima della favola : un mito secondario che  risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal  leggenda di Menelao e Paride a Troja, sembrava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il  tragico lo preferi per motivi ch'è vano indagare;  che forse si assommano nel desiderio di met    Elett. vv. 367 sgg.   (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclopàdie, VII (1912) pag. 2833. terne in risalto il singoiar contenuto. La donna  bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sarebbe stata causa unica di ire e guerre per un  decennio, di sventure ed errori per altri dieci  anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli  strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i  poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più  pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha  giurato a Menelao di " morire ma non mai violare il letto „  ; né ha giurato in vano, che di  morire è sul punto, e attiene la parola, ed è  beata di cadere, dice al marito, " vicino a  te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo)  il coniugale amore di Menelao ; che le afferma  " Privo di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più  li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da  acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di affetti traverso anni e vicende acquista il suo più  vero significato quando venga contrapposta all'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,  di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa difatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non  pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe  più, spiritualmente : su la fine difatti di quella  prima viene annunziato e svolto in breve il  tema della seconda (5). E le attinenze divengono palesi quando le due cognate si paragonino fra loro e le due sorti. Clitemestra non è  presso Euripide se non la malvagia donna : tale  la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i      Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840.  (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg. vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella  bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione  di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s'è  savia, tutto consenta al marito „ ; non è giustoj  per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne  nell'Eliade (2). No, osserva sdegnata Elettra,  tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse  decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena  da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio  le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la  donna che, assente il marito, adorna la sua bellezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato  amico di cotesta non buona, figura Egisto, non  prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia  corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle  donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro  fra due coppie : riscontro a base morale, ma introdotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi  d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché introdotto? perché l'arbitrio?   Alla domanda che per la seconda volta in  breve esame ci si presenta non si deve rispondere se non dopo aver rilevato un altro particolare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il  simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi durissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno  contro gl'indovini che, prendendo parte all'impresa, non scorsero la verità, non svelarono il  comune abbaglio, né evitarono vittime inutili.  Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061.  (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. degli auguri sono stolte e menzognere!... Calcante non disse né rivelò all'esercito vedendo  gli amici morire per una nuvola ; e né pure  Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse,  che un Dio non volle. E perché allora ci rivolgiamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio  invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii :  furono inventati ad allettaménto della vita, ma  nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il  senno e il buon consiglio sono l'augure migliore „ . Per contro è nella tragedia personaggio, non pur dramaticamente notevole, ma  anche moralmente insigne, Teonoe sorella di  Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù  di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi  invasa da una potenza profetica analoga alla  magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è  buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove occorra,  tacere al fratello gli avvenimenti più vicini affinché trionfi la fede amorosa di Elena e Menelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che  non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi  per bocca del Nunzio come per bocca de' Dioscuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi  il suo più soggettivo pensiero.   In questo suo pensiero sta di fatti la ragione  e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della  purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme  di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia,  di cui quelle son le forme momentanee ; è morso      Elena vv. 744     da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono  gl'indizii occasionali.   Egli appare un moralista. Ecco i personaggi  per cui parteggia con simpatia : una moglie  onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la  figura che crea con compiacenza paterna : un  lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che avversa acre e violento : un bellimbusto galante,  una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un  lato coloro che rientrano nel suo concetto del  bene e del giusto ; dall'altro quelli che appartengono al suo concetto del male e dell'iniquo.  Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul  principio che regola la sua morale ; solo la  espressione può venirne discussa.   Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo  ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli  vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli reputa degno e capace di governare la pubblica  cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna  e Menelao gli piace constituita la polis a scopo  di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che  il suo occhio mira più in là d'una teoria morale:  mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre  scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo  in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K  a poco in disastro immane. I Dioscuri si affrettano a conchiuder V Elettra perché debbon " salvare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso  minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte  non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La  democrazia non dà buoni frutti dopo la morte  di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel  potere con quello degli estremi : ed è tale la     EURIPIDE 71     sfortuna di Atene che gli uni non attingono il  governo se non quando le disfatte han dimostrato rinettitudine degli altri, e non son per  per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano  a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza;  ed ogni esperienza, fruttifera di tosco . Sopra  tutti, male comune nell'inettitudine comune, si  stende la piovra della cupidigia, la sete del guadagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono  massime cui ciascuno informa l'opere se non le  parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza è potenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il  povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è  il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno  in una lotta, ove il pregio morale non conta,  la forza intellettiva non importa più che il tesoro  cumulato ; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; difficile a risolversi. Che per risolverla bisognava  superarla ; piegar la realtà possedendola sino al  fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza.  E difatti voci di riforma e tentativi d'un rivolgimento costituzionale serpeggiavano e fermentavano all'oscuro : si preparava la rivoluzione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta  la materia sociale toccò Euripide ; il suo spirito ne fu macerato e sconvolto : però che contro  l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ineriva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig  1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui  è veduto con gli occhi di Euripide.  segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece  con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli  adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Menelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica,  che il suo genio d'artista non poteva né doveva  sodisfare, in esigenza morale: spostando i problemi dalla sfera pratica a quella etica. E divenne malinconico di speranze deluse e rinascenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette  nel suo spirito quest'altra: di patriota, di statista, che è a bastanza acuto per vedere i problemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia  flebile, nella quale confluiscono, opportunamente, tutte quante le quistioni minori della  vita sociale e familiare ; le contese minute su  questa legge o quel decreto : le spine sparse  lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invettiva contro gli auguri, secondaria piaga dello  Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che  repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di  filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino  probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero  dono divino si rivela appunto pel modo del suo  uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „  corruccio ancor questo: che favore di auguri  aveva secondato l'infausta spedizione siciliana.  Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nell'animo del poeta per tal via: melanconico spiraglio alla più intensa vita.   Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la  materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della Tucidide VII 50; Vili 1.religione e della filosofia ; preoccupato dalle  sorti politiclie e dalle condizioni sociali della  sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto  di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e  con VElena^ V Andromeda.   Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i particolari minori e grinciampanti aneddoti della  saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel  pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col  ketos la tragedia era nel combattimento delle  due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto.  Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la  leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mitografo, la bellezza era constituita dal numero e  dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del  poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore  di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei  due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in  cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro  elemento si dispose intorno a questo : dal quale  ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il  primo flusso del nuovo sangue infuso nella  vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che  non sembri.   Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della  tragedia appariva la fanciulla sospesa a una  rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e  piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi;  non lontano è il mare onde la belva vorace  verrà al selvaggio convito ; sono li presso, in  Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda,  che tentano vani conforti a la tremenda sciagm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravvenire. E nell'animo degli astanti la deprecazione del male imminente lotta con la tormentosa  ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i  capi come un mostro informe. " sacra notte,  qual lungo cammino con i cavalli percorri, reggendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del  divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ :  tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore  si ribella contro l'asprezza del fato e la trista  disparità del dolore : " loerché più larga parte  di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso  alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta  il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre  sente alleviato il suo male, se del pianto fa  parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel  petto, senza sollievo, con la durezza della materia minerale, e non prorompe se non per voci  d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il  moto compassionevole delle compagne, si discioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la  vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino  onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla  pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di  forza narrativa, si di spasimo lirico : che si assommano nel presente pianto della figlia punita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la  scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara  voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una  insistenza : non sposa a nozze, e delle nozze  avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza,  ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata;  non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi      Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. e tra il compianto virgineo . Ma a rompere  Tuniformità di questo tormento, giunge a traverso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal  rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne  reca in Argo (2). E radioso della sua recente  gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce  prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col   veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo?   Timagine d'una vergine, come scolpita da mano  sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sollecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu  taci „ la persuade " ma il silenzio è inadeguato interprete del pensiero „ (5). Non senza rancuna son le prime parole di quella : " ma tu chi  sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la  tradisce e senz'altro, per la veemenza del soffrire, non definisce audace colui che persiste nel  voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi  sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine,  ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni  freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era ancora nelle parole della fanciulla si placa. Quel  che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta. Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des  Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei  particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri.  Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però,   ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura  a sinistra di Ermes.   (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124. Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127.  (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente  dato dal Nauck.   La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si  susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un  concento unico di vivace simpatia vicendevole.  E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si  forma adesso assai più nell'inconscio secreto del  cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli  forti e pronti, erompe in promessa : " vergine!  s'io ti salvi, mi sarai grata?,, , Egli si è traditela sua prodezza non vuole compenso per solito ;  la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora  chiede è più che una gloria : è il possesso magnifico, Andromeda intende ; se non che il suo  animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza  mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'illudersi : e lo dice " Non m' esser cagione di  pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che  nasce da l'immensità del suo soffrire, può parer  dura al generoso offertore; l'istinto femineo se  ne avvede e la spinge a soggiungere : non per  colpa di te " ma molto può avvenire contro  l'aspettazione... „ (2), La speranza di campar la  vita non è nata o almeno non è del tutto salda;  è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome  del suo passato di vittoria, della sua strenua  energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli  moltiplica le forze, riesce finalmente a trascinarla con sé nel sogno, a persuaderle certa la  liberazione prossima. E Andromeda allora lascia  ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa  onde è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro  oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul      Fr. 129. (2) Fr. 131.    mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero !  e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia  moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che soffro  tutto; mi sciogli dai vincoli! Perseo combatterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico  mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo  dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando  una tazza d'edera colma di latte, chi succo di  grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola  del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa  del salvatore (2).   Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è  la fondamental intuizione psicologica della tragedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In  quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco  valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo  offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fanciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima  nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:  meglio, l'anima non le è data. Euripide per  contro ne fa il centro della scena : plasmandola  d'una sostanza indipendente, la costituisce di  sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in  una persona non comparabile con altre, la crea  fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella  gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura  mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di  Eco. Ella contrappone il proprio forsennato desiderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol  morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal  mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge,      Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148.    la divinità di lui si menoma e si abbassa dinanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa in una  corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi,  tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie  Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia Andromeda si piega in lacrime, e il giovane venuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di  sé, ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce.  Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al  fervido desiderio del prode il grido della sua  dedizione, e si afferma per tanto di nuovo,  vivace, nella sua libertà che dalla passione forma  il volere, del volere compone il proprio decreto.  La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo  mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro  la belva, era più vigorosa corporalmente; non  era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella  tragedia euripidea, una tanto geniale innovazione doveva sembrare anche anarchica urtando  contro le consuetudini legali e morali della vita  ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette velare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E  chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo,  o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna,  e a ricomporre nello schema giuridico la mossa  ardita della figlia. E fine si manifestava forse,  in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.   L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza  effetti. L'amore della vergine che prima della  lotta trionfale era come offuscato di paura e di  speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò  di malinconia contrastando con gli affetti filiali.  " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ?  Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva  grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora  (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vecchiezza di lui. Accanto al padre, la madre : colpevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel  doloroso contrasto levasi l'appello al dio che  travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere  i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini  e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle  o ajuta benigno gli amanti che penano pene di  cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo,  onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo  stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia  di che ti onorano „ . Calda invocazione che tanto  piacque al pubblico perché nella veemenza dell'amante incontro al Dio della sua passione traspare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire,  non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a  tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore  vince.   Era ancor questa una giunta di Euripide al  mito. Ma secondaria: un che di convenzionale  la gravava ; non improntandola il segno del pensiero innovatore, ma parendo scaturir ovvia  dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito dell'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue  quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto  e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più  larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psicologica queir ansia pregna di preoccupazione Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII. politica, quel travaglio complesso di meditazione  sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due  tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera magnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui  crede di aver esaurito per una via la materia  psichica del dramma, una nuova senza indugio  gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma  generica umanità del suo pubblico, per eccitarne  peculiari moti e destarne i singolari interessi.  Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,  l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro  alla difesa della giovinezza e della passione, da  lui concette e atteggiate sotto la piti seducente  specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il  pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cassiepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la  quistione giuridica o sociale o politica di cui è  per far cenno, dalla sola impostatura dei termini si comprende che Euripide, anche una  volta, aspira a risolvere una difficoltà empirica col criterio non dell' utile e del pratico  ma del buono e del bello.   La quistione poi non è sola, si consta più veramente di due. I genitori della vergine s'armano oltre che dei proprii diritti sentimentali,  di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento  degli esseri si trasforma in un contratto economico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto  da la pietà ospitale, ha troppo palesemente la  peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia  del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro  io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche  se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bisognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della felicità! „ . Che importa forza di gioventù,  ardimento di cuore ? clie importa la gloria immortale, per cui " già morto, già sotto la terra, sii  venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno  viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli,  con l'esempio recente, che si può per ricchezze  fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3).  Risponde, al ricco anche la sventura esser più  lieve che al povero: già che quello non soffre  se non del presente ; questo " ogni giorno spaventa il futuro, che non sia dell' attuale il dolore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la  fiducia idealistica e il materialismo gretto si assomma in una sentenza : " questa delle ricchezze  è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Euripide ha torto ; la ragion pratica lo deve condannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha  torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non  al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla  plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale  dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal  tragico non vien conseguito, un altro lo è, più  dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare  la piaga, di stimolare i cuori. La memoria è  recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il  lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie  di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono ancora in Atene ; ognuno interroga l' imminente  destino; ma le risposte scavano inutili l'aria torbida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando  Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII.   (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137.   A. Ferbabiko, Kalypso. cader la sua massima morale il suo rigido e  teorico principio, se non insegna una via, disgusta del presente cammino.   Nel male generico poi rocchio di lui scorge,  e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C,  quarant'anni circa prima deìVAndromeda^ Pericle aveva proposto e fatto votare un psèfisma,  secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i  nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino.  E tale legge era durata in vigore di poi fino  ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Aristofane. In verità se si pensa agli scambii continui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci  s'avvede subito in qual forte numero gli Ateniesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e  decaduti a un grado inferiore, solo per aver contratto unioni con donne straniere. Pericle stesso  fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né  solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno  urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte  le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se né  pure la cittadinanza dello sposo poteva far ateniese, per esempio, una donna nata in città della  Lega marittima, dura e perigliosa barriera si  rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur  del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la  loro fedele assistenza doveva contare specie durante le guerre infelici. Onde il largo spirito  euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse  la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo  etnico che la saga conferiva ad Andromeda per  riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad  Andromeda difatti diceva il padre, o la madre :  " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, soffrono per legge: da questo è necessario che ti  guardi„ . L'accortezza artistica di un cosi fatto  mònito è pari alla profondità del problema toccato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non  pur dell'autore si del pubblico, per la sua generosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio  sia la eventual vittima della dura legge ; che  la ragion giuridica stia con il cattivo genio della  tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio  intiero contro il decreto e gli strappa, non per  raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo.  Aristofane muove a riso se un suo cotale perde  l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide  indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere  ma, dopo un estremo rischio, nel giusto compenso d' amore. All' architettura passionale la  scenica doveva corrispondere per modo che non  s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né dell'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito  potrebbe menare grande scalpore.   Anacronismo e irrazionalità era difatti mostrare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto  che so ? di Pericle e Aspasia : l'arte forse non  se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano  essi indizio d'un' alterazione del mito ben più  profonda ed esiziale di quella operata dalla genialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di      Fr. 141. Cfr. § VII.   (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di  G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (Torino 1903).  rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti  fra la nostra essenza umana e le favolose vicende. Invece, una volta intrusi fini di riprensione politica e di biasimo sociale sopra la trama  della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita.  Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del  ketos, affronta problemi proprii dello statista, non  prosegue se non l'opera del mitologo che, al medesimo proposito, finse l'amore di Andromeda e  il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito  la società, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano  r antropomorfismo contenuto nel primissimo  germe. Si assiste cosi a una penetrazione successiva e graduale del fenomeno solare nella  sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento  procede, tanto meno il mito serbasi, qual era,  mito di maraviglia cui si presta la fede non razionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta  in paradigma d'una teoria logica, in schema di  una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è divenuto pretesto a un problema giuridico, egli  è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra  le possibili soluzioni : segno che già l'intelletto  si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla  vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono  però le sue prime rigogliose radici.   Mentre da questo lato la leggenda si profonda  verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pensieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò  di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le  vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.  Quanto e come, è impossibile dire: solo per barlumi s'intravvede alcunché : " Non vedi come  la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri   EUKIPIDE 85     volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ;   lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega  la vita, piega la fortuna con lo spirar dei  vènti „ , " Non v' è mortale che nasca felice,  senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2).  E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di  Zeus e seder presso ai falli degli uomini „ (3).  Né manca un moto d'ira contro la divinità che  ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è  espresso in forma accorta e velata : non avverso  a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ubbidito loro. " Spietato è quegli „ dice ad Andromeda il Coro " che dopo averti generata,  o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade  in favor della patria ! „ (4). Di questi frammenti  il principale, da cui traggono luce gli altri, è  intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso  con un suo analogo, rimastoci della Melanippe  incatenata (5). " Pensate voi che le colpe balzino su con le ali presso gli Dei? e che poi  qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavolette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda  giustizia ai mortali? L'intiero cielo non basterebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli  uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esaminarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi :  Dike [non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,.  Dunque Euripide ha un concetto di giustizia      Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel secondo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150.   (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag.   (4) Fr. 120. (5j Fr. 506.  a cui non vede rispondere né l'opere né i decreti divini, a cui gli pare meglio s' addica la  condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo  fra Zeus eDike: questa non può seder presso  quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e pene:  queste mal rispondono a quelle né sempre presso  al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità:  un re felice è tramutato in infelicissimo per  l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso  non ha la gioja del premio e deve superare  nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre.  E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che  cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?  La domanda angosciosa, l'eterna del dubbio  tragico, - ritorna, e accompagna, in tono minore, il concerto delle passioni eroiche e dei problemi sociali.   Ma cotesto non è più mito. E critica del mito :  in quanto esso contiene un ricco elemento religioso. Critica singolare però : che è insieme atto  di negazione e atto di fede. Euripide accetta la  leggenda, la narra senza alterarne il lineamento  essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli  un legittimo procedere della divinità. E la sua  risposta ha un sottinteso profondo. Egli potrebbe difatti negar di credere al racconto per  le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al contrario, perché le sente, dopo averle psicologicamente vivificate, umane e, come umane, verisimili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo.  E una maniera di sceverar, nella fiaba, la incorruttibile verità, il dolore l'amore la morte,  dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti  e le forme divine. Se non che essa verità caduca non è morta, ha vita in assai spiriti ancora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo  svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E  il tentativo di ripossedere totalmente il mito  fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euripide investito il problema che la leggenda eroica  di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero.  Della leggenda la sostanza umana fu la più  riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito  creatore si profondò con la sua potenza d'intuito da un lato, con le sue preoccupazioni di  politica da l'altro; quella per cui l'animo si compiacque della finzione antica, e la godette ricreandola. L'elemento divino fu contemplato con  occhi di esitazione, accettato quasi rassegnatamente. Al di sopra si conservava intanto la patina  eroica, lo splendore delle avventure, la maestà  delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.;  reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro  orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga  dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, immensamente lontano. Non si sa se nella tragedia avesse luogo, come nel racconto di Ferecide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali:  certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un  sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera  estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza  umana, elemento divino, vernice romanzesca non  trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello  spirito euripideo : sintesi che non è concordia  logica, né armonia estetica ; si bene vita in angoscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicologico e l'affanno politico e il dubbio religioso si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo,  la sorte di Perseo assommano in un solo vivo  vertice le divergenti passioni dell' intera tragedia. Per comprender questa nella sua forma  poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfìcie  molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del  poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui  potè identificarsi anche il popolo d'Atene: una  sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque  e in cui fu rappresentato il drama. Preoccupato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spettacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli  spettatori come al poeta il fato travaglioso  dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli  Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si  tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più  sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato,  da l'alto, le infortunate vicende della grande  Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende  argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi  gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma  di Pericle viene opposto al suo amore; si è quasi  fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da  quando il suo impulso ideale vien premuto dalla  material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude  ha la maschera ambigua dell' avvenire che attende, lontano, la Città confusa. A lui definisce  la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze  con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione  in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tramutati in constellazioni. I problemi umani della  sua vita sono tronchi da un intervento divino :  non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascoltanti il timore per le imminenti sorti della patria; s'accresce il senso vivace del mistero che  regola le fortune terrene.   Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico  del mito compaginati negli spiriti di Euripide  e del primo suo pubblico, non significa che si  fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione  può, nello spirito, comporsi per il dolore medesimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,  disarmonica la forma estetica che la esi^rimeQuindi l'unità è momentanea, non stabile. Le  diverse materie della leggenda si serbano disgregate e inorganiche. E, non potendosi nel  tempo, se non per via di critica, riprodurre identico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età  che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano  derivate non accolgono simpatie e non trovan  cultori. Ond' è che il drama nella storia della  fiaba rappresentò una pausa senza echi. Dopo Euripide.   Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un  lento ma spiccato impoverirsi della sua vita.  Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece,  di arricchimento; la tendenza verso una poliedrica complessità: onde naturalismo e novelHstica s'eran da prima complicati insieme, avevan  avuto giunta dal romanzesco, per attingere il  sommo della pienezza nel dramatico travaglio  del pensiero religioso e politico, il vertice dell'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo  Euripide, la parabola discende sino ai confini  d'una più consueta mediocrità: si che par nel  principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi  se non il midollo originario della fiaba, ma si  mostra poi ch'esso medesimo è presso che inaridito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza  alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si bene  lo spirito che negli inizii verso lei convergeva intiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo allargarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si  immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della  leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi  del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un  nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato  a pena uno stampo, prende a foggiarsene e  riempire un altro : maggiore. Il lamento ch'è solito allo storico del mito si  deve ripetere ancor qui: assai fu perduto che ci  avrebbe di molto giovato nello studio di cosi  fatta decadenza mitica. Non son più che quattro  gli autori, in cui ci ritorni il racconto del ketos;  ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa  caratteristica.   Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con  l'altre ancor questa favola, si riconnette a Ferecide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa  aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua  origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio   ti) Dal numero è escluso Igino Fav., come quello  che contiene varianti di particolari, ma non imprime  d'un propi'io segno la fiaba.  coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi  in margine, ferma la notizia d' una tradizione  alcun poco diversa dalla ferecidea. Chi legga  distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi  abbia intenti d'investigazione erudita : nel che  si appalesa dunque la caratteristica di questo  strato evolutivo. All'autore che la narra la leggenda è morta: è cadavere che egli ricompone  fra bende, con qualche cautela, a fin che poco  di quelle membra che furono organismo vada  disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui,  nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo  compilatore ; presso il quale è già armonia di  contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre,  una ragione più alta, intima alla logica dello  sviluppo storico, onde Euripide dev' essere taciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e  la volgata con tutte le sue piccole e grandi varianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ;  è distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila  a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra  le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche  della mitopeja; già che la distinzione deve valere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo.   Se non che tale aspetto non fu del solo Apollodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del  pari, se pure non nell'atto materiale del suo lavoro, certo nella sfera fantastica della sua mente,  da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide  erano le fondamentali intuizioni della saga. Ciò sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ;  la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei personaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due  giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa  e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol  tanto entro i loro limiti il poeta si concede di  imitare altre fonti, sia pure Euripide.   Il romanzesco imprenta tutto quanto il compatto manipolo degli esametri tra la fine del  quarto e il principio del quinto libro nelle Metamorfosi. Sottinteso costante e necessario è il  miracolo della potenza oltreumana: dal volo  che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del  capo gorgoneo che termina l'episodio. In apparenza però Ovidio non se ne compiace con la  maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di comprimerlo in termini di umanità. E fallacia. Certo,  il ketos avanzante al feroce convito vien paragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il confine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra  con l'empito discendente dell'aquila: non insolito  spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simiglianza di cignale fra cani in torma : scena cui  è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar  degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria  dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri.  In realtà, queste similitudini umane riescono una  più sicura esaltazione dello stupefacente: necessarie perché le intuizioni si concretino, escano  dall'indefinito ferecideo, e conseguano una plasticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il  riscontro consueto e terreno : utili, di più, per  creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo  straordinario e il normale. Si compie qui, accanto a un magistero d' arte più evoluto che  vede i particolari e li esprime non li accenna,  uno sforzo per accrescere la distanza di cui separasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio.  Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine?  Per la metamorfosi che conchiude, in due riprese, il racconto. In quella il romanzesco si  dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa  che impietra in coralli le verghe del mare e  converte lo stuolo dei congiurati in affoltata  marmorea di statue danno una sanzione estrema  a l'inverosimile che precede. Non in egual modo,  a dir vero ; che ciascuna di quelle trasformazioni ha importanza speciale, né può valere se  non congiunta con la prima o la seconda delle  scene in cui il racconto si divide.   La prima è intorno alla venuta di Perseo, al  duello con la fiera, alla vittoria .   Novamente da l'una parte e da l'altra egli si avvince con le penne i piedi ; della curva spada sì arma :  e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e  di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte  etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva  ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna  lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,  avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non  avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido  pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne  avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa      IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus  (Berlino 1914).  bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria.  Si ferma. "0 tu dice degna non di queste catene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti,  il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e  perché porti legami „. Si tace ella da prima né osa  parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il  volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, e poteva,  di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più  spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi  proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse  stata fiducia della materna bellezza.   Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona :  avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta  sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Doloroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri  entrambi, più giustamente questa. Non recano ajuto con  sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si  serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di lacrime molti giorni vi potranno restare ; a porger salvezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, Perseo  nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé'  pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone  anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali volatore ardito, sarei qual genero a tutti, per certo, anteposto. A tante doti io tento di aggiungere un benefizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore  salvata, sia mia, fo patto,. Accettano (chi avrebbe per  vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote  il lor regno, i genitori.   Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro  le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale  la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto  dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa  Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra,  alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque  fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista  ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che  nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga  concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non  torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea;  cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della  fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Inachide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo . Laniata  da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si  asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di  fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno  spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ;  adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei  fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si  termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella  con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti  misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appesantiron madide : né Perseo osando più oltre affidarsi  a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo  vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate.  A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i  gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei  fianchi colpiti.   D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le superne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, ausilio della schiatta e salvator io proclamano, Cassìope e Per avere una idea precisa della " spada ricurva,  " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720  {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon  d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine,  della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta  purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda  l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno,  virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa  di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso  midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al contatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse  rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il  mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon  ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su  l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta,  che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era  verga nel mare, sopra il mare sasso diventi.   Seguono le scene di festoso tripudio cui s'abbandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti.  E si termina, col libro quarto, il primo episodio,  per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi  sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra  Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sentimento attorno cui Ferecide aveva trovato raccolta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sordina. Un che d'ignoto par che l'attenui come  d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustificandosi tutto il successivo evento appunto dal  sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa  del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il  vertice avventuroso del racconto, questa scena a  l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o,  meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa  del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo  senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire  "iin elemento disgregatore, una disarmonia nell'opera: e la passione tramutò in accordo nuziale. I due protagonisti impiccioliscono visibilmente: ella s'induce a rivelare allo straniero il  perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri  celare colpe sue proprie „, e accusa la madre:  egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre  la belva avanza e il terror tragico martella i  cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene  onorevole genero al re. I più generosi appajono,  poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore  danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista  fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse  alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è  capace in altri casi. I soli accenni più appropriati  toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente  Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della  vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza  numerica della forma cela l'esiguità della intuizione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma  un poco anche guasto la vita.   Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti  a banchetto nuziale il re e la regina con la  figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E  l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidanzato con Andromeda ; il quale non ha avuto il  coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma  tenta ora di riaverla quando il ketos è ben  morto.   Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' imprese  l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti  alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E  i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare  a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida  rabbia dei vènti.   Primo Fineo tra quelli, temerario autore della contesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,  " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della carpita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove  in falso oro converso „ . A lui clie tentava scagliare,  Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge infuriato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ?  con questa mercede compensi la vita di lei ch'è salvata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo  a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero  Ammone, ma quella belva del mare che veniva per  farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu,  quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu  brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non  basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo  soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli  che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ?  Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era  affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual  lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si  porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi  come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „.   Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi      È forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus  avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal soffitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae.  comincia il combattere. E il racconto si distende  lungo per circa due centinaja di versi : che la  battaglia è seguita ne' suoi particolari con abbondanza di nomi di persone di gesti. Il tumulto è grande .   " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per  la causa che impugna inerito e fede. Per questi il vanamente pio suocero, e con la madre la nuova sposa,  son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma  prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „.  Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla  turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che  mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.  Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il  capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti  commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la  mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal  gesto rimase statua di marmo,. All'ultimo è prostrato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal  mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci,  Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impietrante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego.  Non odio ci spinse a contesa, né brama di regno ; per  la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa  per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere.  Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a  me! tuo il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né  risguardare ardiva quello cui con la voce pregava,  rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti  posso, ed al vile è dono ben grande, lascia il timore.  ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg.   ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi  vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre,  nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la  mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „.  E lo impietra.   Cosi la vasta e agitata folla che nel principio  commoveva la scena si tramuta in un popolo  rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fissità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il cardine del secondo episodio mitico: efficace trapasso per il quale la compiacenza ferecidea  verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza  dell'azione si sublima in motivo di armoniosa  bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di  Ovidio; come di quello che, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equilibrò con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che compiesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, e ov'è la  bellezza dei volti? con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente .   Tritone e le Nereidi.   Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. No. Ma voi conoscete, credo o Ifianassa  Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. Egli uccise il ketos.   If. E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la via è difficile.  Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner).  Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimoravano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'artificio del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stromento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, è deduzione implicita, ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che imaginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tuttavia indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le tenebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si diparte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di accoglienza fra i Latini . Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il regresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che,  forse, non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di      Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen) II 2 pagg. 28 e 37.  poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leggenda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia      Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§. La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto . Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcilmente serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano pregnanti religione e mito.  CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO. È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi .   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più vetuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del seme ; il più maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, nei loro gradi più recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto lasciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo precedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     familiari su dalla morte, non mancano, tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agricoltori.  Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo maritale . E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18.   morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana, quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa  eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo incipiente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi su la religione degl’arii e sull’antichissima romana, in SANCTIS (si veda), STORIA DEI ROMANI  I  (Torino) capp. Ili e Vili.    è ormai ricca la mente, le fiabe che possono esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la seminagione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella probabilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da nuove vicende, e non fermata, quel  che più importa, in canti che il pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.    E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra , la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nell'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melograno.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale maturità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta più ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.  i pili arcaici personaggi entrati su la scena accanto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Ciascun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le divinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradimento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra. L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non potevano congiungersi in parentela, perché s'elidevano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,  diverso . Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione .  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti Demetra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanità siasi trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equilibrò con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che compiesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, e ov'è la  bellezza dei volti? con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente.   Tritone e le Nereidi.   Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. No. Ma voi conoscete, credo o Ifianassa  Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. Egli uccise il ketos.   If. E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la via è difficile. Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner).   Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimoravano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'artificio del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stromento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, è deduzione implicita, ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che imaginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tuttavia indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le tenebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si diparte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di accoglienza fra i Latini . Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il regresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che,  forse, non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leggenda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.  Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia      Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto . Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcilmente serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano pregnanti religione e mito. CICERONE (si veda) in Verr. IV 106.  È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi .   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più vetuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del seme ; il più maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, nei loro gradi più recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto lasciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo precedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei familiari su dalla morte, non mancano, tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agricoltori. Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo maritale . E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana, quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, come principio ad effetto,  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa  eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo incipiente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono  Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.  è ormai ricca la mente, le fiabe che possono esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la seminagione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella probabilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da nuove vicende, e non fermata, quel  che più importa, in canti che il pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra , la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nell'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melograno.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale maturità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta più ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes The homeric hymns  (London LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena accanto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Ciascun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le divinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradimento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra . L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non potevano congiungersi in parentela, perché s'elidevano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e      Yv. 91-304.  soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione .  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti Demetra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanità siasi trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochimutamenti, né tutti soltanto di particolari; giacché,  dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne  costume lecito alterare la saga per adattarla  alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare  di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con  l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di  un Comune per attingere gli estremi del mondo  colto. Unica può starle a paro, per intima vìgoria di concepimento, e per potenza espansiva,  la favola composta nell'ambito di quel moto  filosofico e religioso onde il pensiero greco, e  specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei  Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di  " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e  Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo intreccio di casi assunse il mito di Cora fra gli  Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci importano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci  sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna.   Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e  l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche  con la siciliana, tenace per antichità, infantile per  incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo  moto di storia.      in. Il mito siracusano.   I Siculi, che si erano ritirati su i monti dell'interno perché incapaci di resistere ai predoni  dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che  in Enna avevan con più insistenza fissato il lor  mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH secolo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare  dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi  di sedi le quali si trasformavano via via, divenendo sempre più salde più ampie più belle, in  città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII  e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il  terreno, o sgombro facendolo con distruggere  e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a  siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve  a fiore civile intellettuale e artistico grandissimo in paragone di quelli, e a distendere sn  tutte le portuose spiagge dell' isola un incancellabile smalto greco . Dèi miti templi cerimonie della loro mentalità religiosa si radicano  ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor  dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata  vigoria e bellezza.   Certo la lor somma di progresso spirituale e Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Occidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I  (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I  (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia  voi. I (Torino 1894). di culto civico, accopj)iandosi con la congenita  irrequieta genialità e l'inconculcabile aspirazione ad accrescere il possesso, doveva spingerli  presto a violare i segreti delle regioni più interne e a portarvi il soffio della propria opera  contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evolversi si a sottomettersi. E forse, traverso anche  i commerci di scambio, a Enna ebbero a pervenire folate di vento greco fin dal secolo VI.  Eorse . Ma quante e quali nessuno direbbe ;  perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né  fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano  alcun poco.   La palese influenza dei Grreci su Enna comincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa.  Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo  alleato Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad  Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi  di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana  e ne fu assorbita. Qual resistenza politica opponesse non importa qui sapere. Senza dubbio  oppose una resistenza riguardo al suo culto e  al suo mito, che non poterono venir eliminati,  ma rispettati dovettero essere. La risultante di  queste due forze (la siracusana che assorbiva e  la ennense che non cedeva) fu una leggenda,  la quale impropriamente si direbbe contaminata,  perché è più tosto un compromesso di politica  religiosa, una formula felice per conciliare le  pretese o, se piace, i diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu un institutore e un propagatore zelante del culto delle greche iddie  Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto  aveva, come fu visto poc' anzi, a base il  mito del rapimento. E a quel modo che nelr Inno a Demetra la favola naturalistica, non  spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien  ad arte connessa con un preciso e determinato  centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga tendenza doveva indurre i Siracusani, per mezzo  dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle  saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii  alle indeterminate frasi del racconto mitico e a  applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le  cerimonie sacre vigenti nella loro città. Era un  moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra  Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la  preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce  di fronte a un certo nume. Di qui nascono difatti sovente contese tra regioni ; in particolare  se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto  della maggior fecondità d'un suolo a paragone  d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla  generale tendenza: però che ci sia rimasto indizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la  quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo  di Bione  ch'è del sec. I a. C. non che in altri  testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ;  onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito,  come da una delle bocche dell'Erebo e del sotterraneo fuoco. Che se accanto a questo parti   ci) V. 133.   A. Ferrabino, Kalypao.     colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infernale si apre la via del ritorno presso lo stagno  di Ciane ; si ottengono i due estremi punti  topografici di una saga che adatta il vecchio  mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane  è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla  zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei  Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nell'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico prettamente libero da Enna dimostra qual fosse  l'impulso originario del culto instituito da Gelone ; cosi la penombra in cui permane e la caducità che lo contraddistingue provano quanto  diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra  l'indipendenza contro i diritti di prima occupante che competevano alla fiaba dei Siculi.   La quale s'imponeva difatti tanto più quanto  maggiormente s' era, traverso gli anni molti,  radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati  su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo  essenziale per lo meno, la sua simiglianza con  il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo potevasi rivestir di fogge e definire con nomi  greci ; non asportare dal lago : ove del resto la  feracità del luogo e la credenza, anche greca,  che dai laghi o da vicine grotte sorgessero sovente i numi sotterranei, ne difendevan la vita.   E difatti il ratto rimase. I Siracusani diedero alla divinità delle biade il nome di Demetra; ne chiamaron la figlia col duplice termine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello V. sotto pag. 131.  di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto  l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben  sapevano, e con quei particolari che eran divenuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai diritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo  libero : la palude siracusana di Ciane fu l'apertura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi  aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A  Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge „  di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi cavalli. E noi non sappiamo molto di più; ma  è facile che altri particolari della leggenda si  connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacerdoti. Suggello poi di questo compromesso religioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione caratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto  di Cora. Questa avrebbe avuto compagne durante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre  le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee  vergini. Ora Artemide grandemente importava  nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera,  città a Siracusa amica durante le guerre del  V secolo specie contro Atene. Per ciò in uno  dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui  si vede costretta a riconoscere che a Demetra  doveva esser spettata la signoria di Enna, attribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di  Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto  questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna  e, quel che importava, al medesimo livello.   Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esigenze dell'antichissima saga ennense e le pretese  della pili recentemente sopraggiunta saga siracusana, i due centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trittolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna  Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per  vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende  sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra  e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico  la proteggono; Atena ed Artemide, compagne  alla violata, signoreggiano due città siciliane ;  il suolo è opulento di biade come non altrove :  certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde  il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla  sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,  diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del  grano. Bisognava dunque, da che respinger Trittolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa  ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza  garbo . Si concedette che un eleusinio, Trittolemo, avesse avuto il favore di Demetra e comunicato alle terre il dono preziosissimo; si concedette che ciò accadesse in occasione del ratto  di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto  il racconto. Ma, gli si premise, già dianzi,  avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia  produceva grano, prediletta alle due Dee per la  sua fertilità e scelta a loro dimora. Quindi,  si conchiuse, Trittolemo fu primo rispetto  agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una  separazione dunque della Sicilia dal restante  paese, onde il ratto divenne il momento propizio per diffondere al mondo il privilegio siculo. Che era non poco orgoglio. Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti  senz'eccezione gli elementi per un ben contesto  tessuto leggendario che un poeta potesse far  suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Siracusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mitico aveva i suoi punti topografici fìssi e armonicamente collegati ; il culto preparava salda e  e vasta base per un'accorta serie di invenzioni  etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città  s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la  stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche  particolare non privo di attraenza. Né mancarono forse i cantori che la materia non indegnamente lusingasse. E pure a noi non rimane  se non il testo, povero non chiaro e senza vigoria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo.  Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la  potenzialità artistica del mito e la mancata  espressione di esso, eh' è a un tempo mancata  intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca  istorica , lasciando il racconto nel suo disordinato svolgimento.   I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro  progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo  nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; e che le predette Dee in questa isola primamente apparvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del  grano a cagione della feracità del suolo... (2). A riprova      Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in  Phi lologische Untersuchungen, XIII (1892) pag. 103 sgg.   (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.      adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola  e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee  soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.   Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne'  prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città,  per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno  di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra  che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottundendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto  piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso  e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel  mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'ombelico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a  questi, paludi, e un grande speco con apertura sotterranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano  che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le  viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti miracolosamente per l'intero anno e rendono lo spettacolo pittoresco e gradito.   Favoleggiano ancora che insieme con Cora crescessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che  insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune  il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la conversazione reciproca si compiacquero specialmente di quest'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle  parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a  lei la città e il territorio chiamato fino ad oggi Atenèo :  Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per  lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, parimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i  prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone,  compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Siracusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita  nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane. Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra,  non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei  crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra  abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uomini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente avendola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti  donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più  d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi  misteri eleusinii. Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea  ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri,  l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi tralasciammo per brevità) cenni etiologici alle feste  sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il  difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ripete, ed è spesso, quel suo " favoleggiano „.  Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che racconta. Modello insigne, questo, del come possano  mascelle di erudito maciullare e rugumare il  fiore della saga. Il mito contaminato.   Il mito siracusano di Demetra e Cora, imperniato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso  dei due centri religiosi, venne accolto nell'ambiente poetico di Alessandria. E fu questo l'i- DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione.  nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria  di  fatti, oltre alla forma siracusana della favola,  erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma  dell' Inno omerico, insieme con la variante di  Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella  diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte  simili, parte dissimili, mossi da origini diverse,  avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi.  E non pur cotesti elementi precipui ; bensì anche  alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fossero riusciti a trascendere i limiti della mediocrità espressiva e della ristrettezza geografica,  per intrudersi nella letteratura tradizionale. La  mitopeja orfica in ispecie aveva trovato accoglienza favorevole nel colto ambiente alessandrino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti  e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più  antichi non erano se non una forma, fra l'altre,  dell'intuizione naturalistica, e che il gusto posteriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La  storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia  è la storia della sua seconda immersione nel  flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia  del successivo accogliersi intorno ad esso di  giunte e di innovazioni via via più complesse.   Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere  dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sarebbe stato trasparente: dei maggiori alessandrini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,  Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133).  e tal volta quasi copia in autori romani. Con  questo valore, ci appare un ampio tratto del  quinto delle Metamorfosi ovidiane , in cui  appunto si rivela la contaminazione fra diverse  correnti leggendarie.   Vige l'indirizzo siracusano, senza dubbio.  Anzi vi si manifesta con talun nuovo particolare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una  tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi  a una variazion fantastica, quando nel luogo  di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca  affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio  del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios  introduce la ninfa del siracusano lago di Aretusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti.  Se non che questi elementi siciliani, che al pari  di Enna pajono saldati con il concetto duplice  di una Sicilia esperta del grano prima del ratto  e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi  Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema  diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se  non tutta per buona parte, già ha avuto il dono  del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col  privare gli uomini di aratri di bovi di spighe :  dunque, come nel mito protoattico. Ma, come  nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di  Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i  due miti si conciliano nel pensiero che uguale bisogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta  come quella di cui per la vendetta divina fu  pretermessa la coltura. In tale contaminazione      Vv. 341-661. Cfr. § IV. dei due miti protoattico e neoattico la saga siciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre  la propria terra fra più altre, prima nel godere  le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fertilità singolare e di fedeltà a Demetra.   D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'attitudine sua mentale come per la natura del  suo tema, con particolar compiacenza l'impulso  letterario delle metamorfosi. Sembra persino che  ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in  quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti  di forme. Ciane, ad esempio, che solo perché  palude era sembrata luogo dicevole alla scomparsa di Ade come un lago alla comparsa, offre  spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in  acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone  che gusta la melagrana è sfruttato per immettervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nell'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra  tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria  si risente in Ovidio per il tentativo di analisi  psicologica nei personaggi: in Cora specialmente, per cui egli giunge sino a finezze troppo  cerebrali per esser vere, sino a farla piangere,  non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei  fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto  l' antefatto del mito : il ratto è voluto, non  da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite cui è  sdegno che tante dee si sottraggano al suo potere e che libero ne resti il medesimo Ade (latinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando  psicologico diviene il racconto, un particolare  che, allor che esso era naturalistico, valeva con  tutt' altra importanza: la fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, inserito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite  difatti è l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto  di culto singolare. Cosi perché pili appaja la  giustizia di Griove e ne risalti la umanità del  mito, l'anno è pel doppio soggiorno di Proserpina con la madre e col marito diviso a mezzo  non più per terzi. Simile attenzione psicologica  governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di Demetra a Giove, materiati di accortezza feminea  e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde  poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per  toccare di quelli che a ciascun momento dell'animo competono, là dove tecniche mitologiche  più elementari non cercano se non il consueto  e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa,  e basti per tutti l' esempio solo, ritrae  prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte  sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e  il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto  omerico che s'addice alla Dea; il gesto si conviene alla donna. Siamo allo stremo dell' allegoria agreste. E su la soglia dell'umanità.   Non lungi a le mura di Enna son le profonde  aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non  spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque  corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde  è di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami;  purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.   Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or      Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914).  gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno  e canestri empie e nella raccolta studia superar le compagne ad un punto è veduta amata rapita da  Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con  mesta voce madre e compagne chiamava; la madre  più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste,  da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco  anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni puerili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il  cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i cavalli: scuote su colli e criniere le redini tinte di ferruggine persa .   È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'angusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già e dal  suo nome lo stagno ha nome tra le siciliane ninfe  notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse  tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più lungi  andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il genero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi.  Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare,  me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse  non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le  braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio  frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo  il vibrato scettro regale con forte braccio affondò : la  terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i precipiti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane,  la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua  fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse  tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già  era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi      Omessi i vv. 405-8.     l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime  parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome,  le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra  in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e  le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui  si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al  vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che  prender si possa .   Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse,  lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne  meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove  indaga vagando, a Ciane viene. Tutto le avrebbe  narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non  ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva  parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre:  di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto  nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come  lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse,  i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più  volte il petto con le sue mani percosse.   Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre  biasima tutte ed ingrate le chiama né degne del  dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del  danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spezzava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari  morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori,  ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò,  ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità  del paese è fiaccata: senza far césto muojon le biade,  ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamorfosi di Ascalabo.  cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi  ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a  le piante del grano e non estirpabil gramigna.   Il capo allora da l'elèe onde solleva Alfèjade e  dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice:  " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice  di biade, cessa da tue immense fatiche e da la violenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ;  la rapina tollerò contro sua voglia. Né per la pati'ia supplico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide  diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo  pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per  penati, questa per sede : e tu clementissima la salva !  Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande  mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, opportuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo  volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cammino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo  sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là  sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri  occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero,  né per anco tranquilla nel volto; ma Regina, ma  nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno  Sposa potente „.   La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed  attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la  grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio  ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i capelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio  (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue !  se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre commuova; né meno cara preghiamo ti sia perché  da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco  rinvenni: se rinvenire tu chiami il perder più cex-to,    se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sopporto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone  degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è,.  E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me  con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi  vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci  sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o  Dea. Se pur altri pregi non sieno, qua! pregio è fratello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor  che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai  desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto  restando che con la bocca là giù cibo alcuno non  abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „.   Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia.  Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il digiuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal  ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da  la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti .   Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale,  il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea,  di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la  madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta  ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso  Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole  che da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi  riappare (2).   A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio aggioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per  l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve      Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e  delle Sirene.   (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa.  SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte  dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai  colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato.   Contaminato ma diversamente, ci appare il  racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti  libro quarto . Occasione gli è offerta dai romani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien  difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo modello).   La mente che ricorda il racconto delle Metamorfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo  carme (2), con la mano del medesimo poeta, il  I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ritegno, quasi una schiva attenzione per evitar  d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invitate da Aretusa; non quella è la lor sede: né  nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno  non è detto. Il mito sorto dal compromesso tacito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ;  ma non usurpa da signore lo schema greco più  antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affannosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o  Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara  Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri  luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Lilibeo, offrono bensì materia alla fantasia del  poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono  per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio  nella leggenda, onde costituiscono un elenco di      Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Confronta § IV.   (2) Vv. 419-50.  nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati  mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al mito  siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi  sùbito dopo in abbandono.   Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del  vecchio Cèleo fu il campo.   Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate  agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda.  La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ;  e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „  la fanciulla dice e commossa è la Diva pel nome  di madre " che fai in solitarii luoghi senza compagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque  il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che  misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava  una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello,  che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e  padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua  sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse,  e come di lacrima che non piangon gli Dei  cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del  pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e  dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a  te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non  disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea  " Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai  ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien  dietro.   Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio  malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria  di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie  lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che  ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse   A. Ferrabino, Kalypso. 10    la lunga fame: e perché della notte in principio  ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del  cibo l'apparir delle stelle.   Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni  cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel  bimbo. Salutata la madre Metanìra la madre si  chiama alla sua congiunger degnava la bocca puerile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo:  tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è  lieta : la madre il padre ciò sono e la figlia :  tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli  stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele  dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo,  a bere con tiepido latte dà i papaveri causa del  sonno.   Della notte era il mezzo, era nel placido sonno  silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la  mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : scongiuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il  corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che  l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la  madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ?,  e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per  non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni  divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mortale; ma primo e con aratro e con seme da le coltivate terre coglierà premii „.   " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti  sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ .   Qui non è più il racconto dell'Inno con il      Vv. 507-562.  mito protoattico ; non è né meno il racconto di  Timeo con il mito siracusano : però che a differenza profonda dal primo la umanità è presentata ignara di biade e cibata di ghiande prima  del ratto; e a differenza caratteristica dal secondo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto  all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico»  di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo  a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tramutato il semplice istitutore di un rituale sacro  nel giovinetto onde per favore della Dea un  inestimabile benefizio si largiva agli umani.  Celeo e Metanira recano identici i loro nomi,  ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è  tramutato in povera capanna: sul desco stanno  cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi pertanto la versione siciliana, dianzi cautamente seguita, è soppiantata, senz'urti, da una seconda.  Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo  influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori  di Cerere su la persona del rapitore sono due  astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ;  analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non  la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore  che mai non tramonta nel mare, e per ciò tutto  vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio  fra Cerere e Griove, questi decide di dividere  l'anno in due parti perché Proserpina rimanga  sei mesi col marito e sei con la madre . Ora,  Elice sostituisce Ecate perché preferita nella consueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso Vv. .575-614.  pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino  delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce  posson venire considerati anche l'idilliaca scena  in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore delicato dall'insieme grazioso ; e il quadro del florilegio in Enna.   L'arte però converte la triplice mischianza  in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta  che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pastorale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel  termine ove più personaggi agiscono e parlano  con una stringata prontezza che culmina forse  nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il digiuno con tre di quei grani che le melagrane ricopron con molle corteccia „ . Le varie correnti  mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di  mosaico mitologico; una inspirazione centrale  muove tutto il carme, lo ricollega con qualche  sparso accenno a questo o a quel particolare del  culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo  solenne del benefìzio divino, scaturito dal dolore  d'una Madre e compiuto nella capanna d'un  misero. La gratitudine verso la Dea si traduce  bensì in sacrifìzii suini e in vestimenta candide,  ma non è di origine religiosa, si più tosto muove  da una intima commozione umana, di simpatia  per la sofferenza eterna, per la semplicità primeva, per la faticosa Terra.   Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito  siracusano; ma per compenso è conseguito più  alto pregio letterario che non nell'altro carme      Vv. 606-7.  ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti  trasformazioni deforma la sua materia, or riducendola a magrezza or distraendola a rimoti  oggetti.   Oltre che elementi siculi proto e neoattici,  anche particolari orfici compose insieme con  abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto  di Proserpina volle dedicare, senza per altro  condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i  ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane oppressa dal rapitore e tramutata in fonte , le  fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti  protoattici dovevano esser copiosi nella parte  del poemetto che non fu scritta e trattava del  soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa  di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine  si assommano nella figura di Trittolemo a cui  par probabile che venisse attribuito il dono delle  biade (2). Su questa trama vennero innestati  parecchi motivi che si dovevano all'orficismo.  Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva  affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti  e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascorreva il tempo intenta a tessere un tessuto ove  fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora :  che il ratto accadde si per volontà del Fato  {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di  Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle  {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi  cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non      III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.s'accorse o non volle accorgersi che il concorso  delle due Dee al ratto non era se non un assecondar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne  che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora,  vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a  violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo :  nelVElena di Euripide difatti  elleno gli appajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto  il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi  fu introdotto quello, che pareva più dicevole,  d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'antico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel  suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase  tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte  altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a  Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su  quella parte la quale nel poemetto sul Ratto  non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti  sono stati raccolti tutti i materiali che da triplice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che  gli bastarono, con giunte e innovazioni, a narrare del ratto e i precedenti e le primissime  conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito  del poeta investisse quella sostanza leggendaria  e la elaborasse esprimendo.   Il suo racconto si spezza spontaneamente in  due parti: delle quali la prima ha termine col  ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo  di moglie e ignaro delle dolcezze che la paternità concede. Tanto l'assilla il suo veemente  Vv. 1301 sgg.   (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. § IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso  Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e liberare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago.  E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in  dubbio intorno alla scelta della sposa, già che  nessuna volentieri accetterebbe marito il tenebroso Re dei morti. Contemporanea a cotesta  scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per  sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli  insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeggiano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure  della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ritornano, come si vede, sott' altra specie, le  orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene  certa da ogni attentato sotto l'alta protezione  celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi  in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla  fine queste due linee narrative da quando il  Signore degli Dei decide di maritare Cora appunto, profittando della lontananza materna, a  Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afrodite, egli fa si che la vergine esca con le compagne e Artemide ed Atena e la stessa dea dell'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti  di Enna e che su quelli, balzando improvviso  dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il  sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge.  Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide  tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie.  Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E  presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba,  fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove  l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii  torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi. La seconda parte possiede quell'unità di struttura che manca a questa prima. Il centro naturale dell'azione è offerto da Demetra; intorno  a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre  non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un  presentimento vago ma assiduo la turba con  sogni atri che mal si dileguano nel risveglio.  Alla fine, decide di abbandonar le terre di Cibele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani.  Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi  le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar  Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta  la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile  della vergine, e lacrimante in profondo dolore  la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di  disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto  le è però quasi sùbito superato dallo sdegno  contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che permisero il delitto, lo lasciarono impune, non curando se per tal modo si sovvertissero leggi di  giustizia e principii di morale. Giura che non  cesserà di percorrere, intenta alla ricerca, l'universo intero fin che non le sia ritrovata la figlia.  E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a  sé, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso  il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.   Il resto si desidera. Ne importa gran fatto,  che poco più apprenderemmo nel sèguito. Il  poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi  alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria,  ove sempre la materia poetica è molta, ma sorda  ad artefice che non sia di assai fermo polso; e  ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a  rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi mancò: non esito a dire che vi mancò per  intiero. Noi lo giudichiamo qui a fronte della  sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giudizio, che la sua saga è la nostra: abbiam appreso  a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa.  Non c'illude quindi, e sarebbe facile errore,  quella, che prima colpisce, bellezza formale  di particolari, eleganza di scene, armonia di  verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come  perfezion delle parti in un tutto su cui si volge  il nostro interesse e l'esame più vero. Né la perfezione stessa è anche da concedersi intera :  guasta per certa esuberanza, che assempra il  vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul  collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta  se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni  modo, sopra le singole pennellate riuscite e  oltre le mancate, com'è composto il grande  affresco ?   Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti  psichici di cui tutto il racconto è pregno: non  diversamente operando, in ciò, da Ovidio. Le sue  dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi  numi. E suo grande compiacimento si fu narrare  ora il cordoglio della madre, ora lo spavento  della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plutone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che  in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la  accorta profondità dell'investigazione intima; e, Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato  essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies,  (London LA DEMETRA d'eNNA   inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la  donna o l'uomo, figuravan sempre senza stridenza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto  per contro cosi quello come questo pregio mancano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grossolano richiamo di motivi abusati, è infuso nell'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le  sfumature di talune emozioni gli sono ignote ;  i suoi personaggi, non pur non condensano la  loro personalità per l'arte di lui, si scemano per  la imperizia fin quel vigore e scancellano quella  determinatezza ch'era lor impressa dalla tradizionale teologia. Una madre, una figlia, un marito recente, un giudice un po' pauroso e a  bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non importano nomi, non colori, non linee. Basta, che  per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni  della retorica.   Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce  la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo  di versi circoscrive la Sicilia con un senso di  sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee  l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splendor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e  un contenuto orgoglio matronali. La Frigia  lontana riceve da Cibele, quasi un recondito  balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra  svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus  Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur  varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo :  non è in proporzione con la statura degli attori ;  o meglio, non con la loro statura d'uomini, si  con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il  primo contrasto, che par creato a posta dal poeta, IL MITO CONTAMINATO fra la diminuita materia divina della fiaba e  l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato  trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe  dovuto essere dei Numi.   Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota  che nessuno dei consueti attributi è stato tolto  da Claudiano né a Demetra né a Cora né a  Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad  alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei  morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la vergine Figlia ha intero il suo sèguito di bellissime  ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice,  quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le  frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trainato da draghi e doma leoni. Il meccanismo  oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.  Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi  spirata dentro senza che Fautore mostri di accorgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è,  a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirittura il grottesco e tramuta il poema in commedia. Quando, gli esempii potrebber essere  moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno  più notevole, quando Plutone ha rapito Cora  e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i  lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si  commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto  vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo  amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea  tunica, e con pacata voce consola il mesto dolore (di lei) „ . E, questa, una innovazione di      II 273-276.  Claudiano : già che le parole che seguono e che  vantano di Plutone i pregi qual marito e re son  le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e  Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rinnovazione a punto svela a maraviglia a qual  grado di risibile pervenga il poeta nel colorire  pateticamente quello spauracchio " feroce „ di  Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro  a tutte tremendo.   Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere  artisticamente (non dico logicamente, che sarebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo  divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano  all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra  ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il  tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia  ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e  meschina al pari d'una qualsiasi siracusana.  Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus;  ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tremare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi  i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né timore cotesti numi ambigui. E l'invettiva che  contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per nulla  sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché  è vuota cosi di dolore materno come di ribellion  religiosa. Se per poco fosse spinta in là la tendenza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'apparirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tracotante pompa esteriore, marionette fìngenti per  gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità  olimpica, in un consesso di stolidi e in una famiglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica  in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mostrare come, col decretar da Demetra il dono  del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre  un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora;  ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano  ha deformato il sommo Iddio.   Conchiudendo, il poeta è giunto proprio al  contrario di quel che era compito dell'arte: ha  dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha  contrapposto, in vece di avvicinare senza contrasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già  tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan  perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure  non gli avevamo avvertiti: non so che secreta  forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se  adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è  che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'organismo del mito è moribondo, e si dissolve.   Cosi né pur la contaminazione di motivi,  desunti dalle più diverse fonti, riesce a infondere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste.  Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio.  Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo  racconto siculo, che una prima volta aveva sentito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso  greco, e trovò una seconda volta, traverso gli  AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica  da iDrincipio, gravame in sèguito di mal congesti elementi. Indra e Vritra si combattono.   Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ardore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al  pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,  nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe figura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in  vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e trassele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne  secrete. I ben colorati animali furono avvolti  dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza  uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dall'antro, ove segregato si stava il bottino, gli      Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II  cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive.  giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò  e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con  la sua possente forza la grotta, di frecce e di  clava colpisce più e più volte il mostro nemico,  l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel  cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin  sopra la terra.   Cosi nel Rigveda indiano  si adombra per  noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi  per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che  dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia.   L' odio, che un' anima paganamente infusa  nella natura nutre acre contro il velame dal  quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha  sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco  la presenza di una forza attiva, e nemica cosi  della luce benefica come della fiamma benefica,  però che si compiaccia, in vece, di tenebrori e  di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla  caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere  umane e le annientano. Il bujo della notte;  l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio  non si spinge, e che, quando spiragli appajono  traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra  tinta del fumo, che gì' incendii sprigionano,  pregno di odori corrotti, su dai possessi degli  uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco,  che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far  di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cumuli ; l'abbagliante incandescenza del baleno,  che acceca le pupille: questi colori queste      Cfr. fino a pag. 163 § E.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 161   forme quest' energie si accostano nel pensiero  primitivo, si compongono variamente e diversi  si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però  con ritmo unico il malefìcio costante e il duro  danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui  è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiammata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta  dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virtù  di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiammata in vece che rade una selva è nemica del  Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che teme  la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bambina non sa che la tenebra è un modo della  luce, e che il fuoco è un solo principio, distrugga  o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli  effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.   Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del  pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ;  e comuni, se bene traverso le differenze a volte  non piccole, sono le forme di cui si veste e le  associazioni psichiche di cui si vale : l'antropomorfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il  sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma malefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo.  E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale  che sia per esserne il valore più immediato, permane il riposto senso di allegoria naturalistica.  Anzi, in grazia a punto di essa affinità di concetti, poco importa se la fiaba si connetta più  tosto con la freccia del fulmine che squarcia il  perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente  infocato che appare impro\^iso e avido tra le  sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con  altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale ha narrato sotto la specie dell'uomo una spettacolosa vicenda della natura, deve esser stata  indotta dalle medesime sue associazioni analogiclie a ripetere, nelle aridità della concezione,  un solo racconto per fenomeni simili.   Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito  ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso  pochi come là simboleggi il temporale. Presso  gli Eranii tramutato si è, pur serbando parecchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a  e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinnovato in altra forma, la quale, per il nesso che  nel pensiero già intercede fra tenebra e male,  luce e bene, trasporta il mito a significare il  contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo  Ahriman.   Che se, dopo averle spiegate, non grande  conto è da farsi di queste trasposizioni della  fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto maggiore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi  o al persistere di taluni particolari significanti.  In essi è il segno di qilanto si accosti o allontani dalla saga originaria il nuovo racconto :  simili a quei tratti caratteristici che permangono a contraddistinguere il volto di una famiglia nei secoli. E quando del mito si è poi  perduto tutto il senso riposto, restano testimoni  veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e dimostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione  innovatrice sul modello più antico. Quando in  vece un significato s'intrude sopra e contro l'originario e lo modifica o lo soffoca, si perdono  insieme i primitivi particolari episodici, come  un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano quanti non disconvengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié  l'energia conservatrice insita in quei particolari è costituita, in somma, da una non più cosciente memoria dell'importanza essenziale clie  tutti, in vario modo, avevano, quando ancora  la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa  pertanto, allorclié al ricordo incosciente sottentra nel racconto la coscienza d'un contenuto  e d'un fine diverso.   Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha  assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed  ecco difatti tramutarsi anche la foggia esteriore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi  perpetrato a danno d'una divinità solare venisse  narrato insieme con la successiva vendetta nelle  saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e  ci sembra inutile pel nostro assunto la congettura. Certo che in secolo a bastanza antico la  metamorfosi del racconto si rivela profondissima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte  in una sua ampia parte. Ed è pervaso tutto  dalla minore anima greca: quella che baratta  e commercia; che ruba con astuzia, e nega con  impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e avvolge di parole artificiate, di periodi fluenti,  di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do   li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati,, la  cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Confronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886)  181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) 128 sgg. mande coperte, l'infelice derubato ; che giura  invocando i men pericolosi dèi, nella speranza  di averli meglio indulgenti ; che non ignora alcuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno  più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma  ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale  discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per  l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto,  certo che giungono in parte al brocco, e tiene  fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse,  fissi qua e là su oggetti che non guarda; il  Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive intiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel  ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima  greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno  s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono  è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è  anche il bene. Ma fra questa maggiore e la minore anima greca i tramiti non sono affatto  tronchi. Onde una celata coscienza della superiorità di quello spirito che può, se voglia, rinchiudere in un labii"into di dubbii e di certezze,  entrambi illusorii, l'intelligenza del suo interlocutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso  di compiacimento interno lo illumina : il sorriso  mal palese degli aruspici, secondo Catone; il  sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca,  con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan accogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichiarazione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ateniesi discorrono troppo bene perché si possa lor  credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma  c'è una lode sobria del ladro abile. E la commedia nasce. Comico, il racconto eh' era stato tragico allorquando Vritra cadeva sotto la invitta clava di Indra.   Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie  elude la forza. I protagonisti sono mutati. Caduti taluni particolari, altri s'improvvisano dal  largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è diverso, perchè alla furberia del mortale compete  scena la terra, come alla violenza del mostruoso  iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra divina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ;  e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti.  Apollo è il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella  sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di  inverosimile forza e di mente già dotta nelle  oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle  ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si  svolge la principal scena. Due altre la precedono.   La prima narra il furto. Non è opera di violenza, ma di scaltrezza. I buoi, cinquanta,  pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro  e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes,  per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo  sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrecciando per sé accorti e leggeri sandali con vincastri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la  refurtiva in una grotta " da la volta elevata „.  Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillène.   E ha luogo la seconda scena .   E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in  sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con  Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford l'abigeato di caco   lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non latravano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus,  obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile  a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto  nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi movendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò  nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvolgendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla  balia i lini scompone coi piedi . Ma non sfuggiva  l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole.   " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di  notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te  pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno  legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o  finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro.  Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il  Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.   Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre,  perché queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo  bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e timido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte  apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei  immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci  rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre frequentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi  che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad  onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come  Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso  per certo tenterò che posso dei rapinatori divenire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre Omesso il v. 153.  Omesso il v. 167 ch'è corrotto.  Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio  e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della  grande sua casa, molto da quella rubando stupendi  tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti  di molte. Tu certo vedrai se ti piaccia „.   n senso d'umanità e la sostanza greca che  sono divenuti il nucleo nuovo del mito appaiono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione  alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la  difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra  bambine, è un breve mal represso anelito di simpatia per il ladro perspicace ed ardimentoso,  simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane  della carne si ax)provi quel che la ragione condanna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel  Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole  serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste.  Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e  l'ombra della sua caverna, dalla quale il mugghio bovino suscita un' eco di sgomento negli  animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in  favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola  di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore  di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e  la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel  futuro. E non v' è dubbio che a Maja piacciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno  rapite! Le due spanne onde il corpicino si misura sono molto piccola cosa di fronte alle cinquanta terga di tori: e nella grazia furbesca del  contrasto, che la onnipotenza divina giustifica  e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra  e del poeta. l'abigeato di caco   Come lui  scorse di Zeus e di Màjade il figlio,  adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la  fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere  molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava  sé stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve  raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno  dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però.  Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì,  la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo  piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande  casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ripostigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita ambrosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte  della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei  beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della  grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti parlava ad Ermes illustre.   " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi :  presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra  noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella tenebra triste irreparabile ; né te la madre né il padre  alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeggiando fra i bimbi „.   Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide,  qual mai aspro discorso parlasti ? e perché ricercando  agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né  d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne  premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo possente. Non questo è da me, e prima altre cose mi piacciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia  madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.      Vv. 235 sgg.  Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa,  che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe  che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra  mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ;  i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi,  su la testa del padre un grande giuramento farò : né  io affermo né io stesso fai causa, né vidi alcun  altro ladro dei vostri buoi checché i bovi si sieno,  poi che per fama sol tanto ne odo   Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre  ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guardando . Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo rispose :   " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo  per vero che spesso per invader le ben abitate case  durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza  rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle  valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che,  bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in  pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se  non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della  nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immortali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo  dei ladri „.   Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse  Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani  levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo  del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti  tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo  l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur affrettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva  Omesso il v. l'abigeato di oaco   parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus:  con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi gagliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ .   La contesa continua un po', fin che si decidono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio  Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo  solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo  Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato  ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due  Dei di cercare insieme " con animo concorde „  i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.  Ubbidiscono. E la commedia finisce come le commedie sogliono terminare: con una buona pace.   Di essa rimangono cardini notevoli l'accortezza del trascinare le mucche all'indietro per  disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'insistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi  ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur appartenendo forse ad antiche trame novellistiche,  sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato  probabilmente a bastanza tardi.  Presso i Latini.   Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e  presso i Latini in ispecie .   Né della trasposizione, per cui il mito vien  riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né  Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI.  dell'intrusione, per la quale un nuovo significato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'antico, e rinnova per conseguenza i particolari del  racconto : si deve tener parola a proposito della  saga romana di Caco. Altre vicende essa ha subite allor quando ci appare formata in età di  storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da  prima ben radicata nella memoria delle generazioni, approfondita nel sangue della stirpe ;  che vi si cristallizzò in una foggia, la quale  non aveva più il contenuto cosciente della antica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche  i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere  ne diveniva veneranda e intangibile. E però allora che r elaborazione artistica sopravvenne  con voce più sicura e lievito più possente, non  potè distruggere per ricreare ; dovette costringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma  irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo  tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari,  che furono proprii della saga primordiale aria e  che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddistingue, senza eccezione, la serie intiera delle  vicende che il racconto attraversa di poi, tanto  nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle  interpretazioni dei dotti.   La presentazione dei protagonisti. Però che  forse la differenza più notevole fra il racconto  indiano e il probabile, d'una probabilità ottimamente fondata, i^rimitivo racconto latino,  consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da  ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un  qual siasi spettacolo naturale si presenta all'occhio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero  scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per  riportare ciascun parvente alla sola sostanza.  Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da  prima, assai più che in una personale figura  di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita  ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune  ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica  da un lato trasforma quei nomi per fenomeni  fonetici appresso le differenti razze; dall'altro,  il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno  fa prevalere, addensando di questo il contenuto  e concretando il valore . Cosi l'intuizione fondamentale della fiamma aveva certo moltissimi  termini che le corrispondevano : ma uno ne trionfava là, ed un altro qui. Onde accade che un  solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge  bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i Latini, ma non mai con identici nomi.   La presentazione, adunque, dei protagonisti.  Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e senz'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le  loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo  ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non  affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo  mito indoeuropeo senza ancora averne dimenticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare  i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano  o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova  in ben diverse condizioni. Non solo il primo è Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino  1907) 88.  ben certo, là dove il secondo non è né pur formalmente sicuro e varia nei due testi ove appare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un  etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i  Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori.  Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio)  (" brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è  probabilissimo e consuona bene alla sua natura  ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio  a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile comprenderlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il  nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi soppiantato da un altro Iddio, ond'è impossibile  definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e  quali al personaggio sieno stati aggiunti dal  secondo attore. Unica certezza, cbe se fu prescelto a significare la forza della natm-a la quale  nel Rigveda esprime Indra, da Indra non differì forse troppo. E difatti Caco non differisce  né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. Indubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del  vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ;  congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un  antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe.  AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza  gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo  circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua  effìgie ripugnante ed immonda però si deve  riferire ad un secondo stadio del suo evolversi  mitico, perché son tracce palesi d'una sua più  vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'inizio, valere come non pur malefico si anche  fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti  antitetici erano potenzialmente, più che in lui,     174 IV. - l'abigeato di caco   nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli  ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in  certi specclii dipinti che ne pervennero unica  reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il  culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con assidua cura vigilato un sacro focolare, non dissimilmente da Vesta. Eorse il termine non significava da principio se non il fuoco nell'atto  dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due  contrapposte concezioni della fiamma confluirono in esso, e valsero a derivarne ben due  figure divine. Il terzo stadio in fine della sua  evoluzione Caco toccava quando nei posteriori  tentativi di genealogie divine divenne figlio di  Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo  posto fra i Numi della fiamma.   Dei due protagonisti, il furto e il duello si  svolgeva quasi certamente in modo simile al  racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito  bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la  clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta  della caverna e l'abbattimento del mostro tra  il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito  latino si esauriva, per quanto ci è concesso sapere, dentro questi termini : senza né originalità  sua propria di particolari e di figure né smaglianza singolare di colorito formale. Un primo arricchimento gli derivò dall'avere,  in proceder di tempi, localizzato con più esattezza la fiaba, topograficamente vaga nelle  origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo  che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il  Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campidoglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la  saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana  come dal cielo cosi dal suo proprio senso naturalistico. Fra i colli romani essa divenne il racconto  di avventure terrene, il ricordo di tempi lontanissimi, di cui testimoni unici restavano i monti  ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda  che la pretende a storia accampando una verità  fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu effettiva. Un particolare locale s'insinua : la caverna di Caco è pensata nel monte Aventino. E,  assai più di quanto possiamo scorgere nelle testimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae  Caci e Vatrium Caci danno contributo di piccoli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale  si forma pertanto colà in uno stadio, che è il  suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aventino e i due numi Caco e Garano-Recarano costituiscono i iDerni.   Acquistare una sede significa però per un mito,  non pure raggiungere una consistenza e saldezza  maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze  nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son  radicati. E un contagio cui il suolo serve di  conduttore: e che qui fu invero non presto, ma  fu per compenso profondo. Quando il dio greco  Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario  latino e sotto la veste di Ercole venisse definitivamente adottato è e sarà del tutto incerto .  Senza dubbio poi alquanto tempo dovette trascorrere innanzi ch'egli potesse fondersi con gli      Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di caco   dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia  modo contigui : prima, dovette divenire familiare,  ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser conosciuto anche nei suoi minori attributi, assimilarsi infine air ambiente. Non presto dunque  dall' " Ara massima „ ove nel Foro Boario gli  si faceva sacrifizio, presso al Palatino, sopravvenne ad assorbire in sé ed annientare la figura  di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade  in cosi profondo oblio clie non se ne serbino  tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come  l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente.  Il dio solare poco noto che era di fronte al dio  solare notissimo, impresso di grecità? A entrambi, sembra, competevano e le frecce  e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le  lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non  erano se non se i riscontri analoghi del duello  fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno  apparteneva a una religione poco evoluta qual  la latina, l'altre recavano con sé grande maturità religiosa. Una poi di cotesto imprese di  Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva  il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole  e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza  di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia  nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe  avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare  l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma.  Della positura geografica approfittarono molti  facitori di saghe per le loro combinazioni ; Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man   per nessuna forse cosi felicemente come per la  latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in  Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la  presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso  della mandra che Caco rapisce.   In progressione, quanto più Ercole prevaleva  su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leggenda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto  romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece  tutto un paragrafo nuovo del racconto, contraddistinto per profondi caratteri dal resto. Non più  il mito della natura; ma l'impasto non sempre  coerente di etiologie, con le quali si tenta di  spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un  costume, un gesto, projettando il tutto, senza  prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico.  Del paragrafo che cosi accresce la leggenda,  uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica  origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più  tarde.   Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima  erano in età storica, prima che il servizio vi  fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C),  le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che  a questi ultimi sembra che non spettasse come  a quei primi di partecipare al banchetto in cui  dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle  vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la  decima, per consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna  Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale  Sup. di Pisa l'abigeato di caco   d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era  lecita cosi a generali come a privati cittadini.  Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo  costituiscono la trama originaria della leggenda  etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito,  subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare,  l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima  del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui  sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei  Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo  questi onde non poteron partecipare al banchetto delle viscere. Ercole decretò allora che  tale nei secoli restasse il costume fra le due  famiglie.   Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne  erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo,  non si pensò che in Roma Ercole è anche dio  della generazione maschile ; ma si disse che le  donne avevano offeso il Nume, in qualche maniera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia  dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi  ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta  Carmentalis che ne ha il nome è prossima al  Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assistere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta  in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una redazione forse più antica in vece, donne rinchiuse  presso il Velabro pel culto della Bona Dea avrebbero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato  al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua,  per non lasciar violare il sacrario da un uomo :  onde la vendetta di lui. E anche recente è,  sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara,  esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo  è secondario, e per ciò non da tutti accolto, il  particolare che essa fosse eretta da Ercole per  ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il  suo padre Giove.   Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii,  i quali si commettono con la figura di Ercole  ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresentano, pur tenendo conto di talune interpolazioni più tarde, nel complesso un secondo stadio  del racconto; un terzo venne di poi a sovrapporsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le  cause furono, come per Ercole, due. L'una è  identica per entrambi : la contiguità delle sedi ;  poiché di Evandro era un altare presso la Porta  Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro  Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per  Ercole era valsa la simiglianza di lui con Garano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma  del suo nome. La mente non matura che cerca  di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene  d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'etimo d'un termine. Caco ad esempio venne,  e forse da eruditi greci, accostato per omofonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale  parve del resto convenir bene al mostruoso ladrone. D'altra parte Euander che volto in greco  divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi  fu facile il riscontro tra il " malvagio,, dell'Aventino e il •' buon uomo „ della Porta Trigemina.   Evandro era, in una leggenda che qui non  l'abigeato di caco   accade di analizzare,  un signore di Arcadi  dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino,  accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua  persona pareva dunque acconcia a esser legata  per più attinenze con quella di Ercole e Caco;  e se il racconto lo avesse accolto in età pili  antica senza dubbio troveremmo una volgata  concorde intorno a ciò. L'accoglimento in vece  fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono racconti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è  ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita  Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la  natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con  Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza  figurar contro di questo e a favore del greco  figlio di Zeus.   In questo medesimo terzo stadio venne a  confluire, confondendovisi, e innestandosi con  Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Carmenta, di cui era un anticbissimo sacrario presso  la Porta Carmentalis e che già vedevamo usufruita per una etiologia del racconto, fu in altra  guisa sfruttata per accrescere di solennità la  venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tradizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe,  cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento dell'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi  rendeva veneranda la gesta; e la favoletta serviva assai bene a vantare per antichissimo fra  tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,  che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso  Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che  si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro»  questo facendo figlio o amico della profetessa, e  col ricordo del vaticinio giustificando l'accoglienza di lui al Tirinzio.   Basti di coteste invenzioni, cosi povere e recenti che anche presso i poeti mal si collegano  col restante racconto. E impossibile dire chi per  primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo  leggendario più antico, dai successivi stadi!  delFetà volgenti deformato in parte, in parte  svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male composto un organismo di quel che era opera, non  del tutto compaginata, d' una lenta e libera  evoluzione traverso slanci fantastici ed erudizieni grame. Sol tanto si può congetturare che  Ennio commettesse nel suo poema la materia  come del primo (Caco), cosi anche del secondo  stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta  parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse  adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue propaggini.   La quale ipotesi potrebbe sussistere parallelamente ad un' altra che giustifica assai bene taluni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrittori dell'età augustea. E probabile difatti, la  fiaba greca di, Ermes ed Apollo, che l' Inno  omerico divulgava in degna veste d'arte e con  autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso  su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con  fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto allegorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di l'abigeato di caco   Maja fu nella mente di talun culto scrittore, come Ennio, non privo di analogie con l'abigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a  ripetere qualche particolare attinente più tosto  all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accorgimento del condurre per la coda all'indietro i  buoi fino all'antro per disperderne le tracce ;  tale anche lo spergiuro del ladro che nega il  furto : questi difatti ritrovammo nella G-recia  tratti essenziali della saga rielaborata.   Certamente però, quanto al di là di coteste  innovazioni e giunte s'è conservato intatto il  primo profilo del mito, cosi che i particolari  posteriori si sono aggregati ma non sostituiti  ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando  la luce e la prospettiva e se n'è obliterata la  coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la  vendetta narrino del temporale che il Sole vince  o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce è  nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano :  la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leggenda, non dentro ; la colorano, non la costituiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza.  Narrata con un certo abbandono della fantasia,  con una cura precisa di non omettere le più  vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché  gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,  da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande :  il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno  con il loro tocco più lieve e più esperto. Tramandata in vece con un ritegno sobrio che la  contenga dentro i margini dell'umano e dell'eroico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il  sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora; riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non  elimina ogni dubbio e non genera certezza di conoscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la  riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti.  Una fiaba, dunque, presso e il poeta e lo  storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare,  questo è desideroso di credere. Noi non possediamo però né i versi degli artisti più antichi  né le prose dei più antichi annalisti che in  Roma accolsero il mito : solo li conosciamo riprodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di  Augusto.  ni. I Poeti.   Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso  il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva polito r esametro e, temprandolo per la forza»  l'aveva reso agile per la grazia delle movenze.  La parola regnava : scelta, limata, contesta, vigeva nel tono quanto nel significato; aveva un  senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Esprimeva, e aggiungeva. E il mito visse nella parola, che gli divenne fine più che mezzo. Valse  in quella come la congiuntura nella vita: per  gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a  tema di un carme; per i distici che l'infrenavano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli  aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distillava. Ond' è che raro il poeta innovò, sempre  quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nell'abigeato di caco   l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle  massa linguistica allo schema rigido e inviolabile : mentre la licenza facilitava l'opera, il merito splendeva nel difficile. Il gesto della mano  che elegge e soppesa la parola, simboleggia,  riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di  Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto  non si attennero là dove altro procedere esigesse  il general tema dell'opera loro, il quarto  libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo  dei Fasti. Properzio occupa rispetto agli altri due un  posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio,  difficile cronologicamente a dimostrarsi, è anche  artisticamente improbabile, cosi che gli sembra  più tosto parallelo. In tal caso, sia che egli attingesse a un modello diverso, sia che con  Ennio non contaminasse altre fonti, sia che infine si ritenesse lecita una libertà maggiore, il suo racconto non comprende Evandro, il terzo  stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco  ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la  causa, un esempio della forma che avrebbe potuto assumere la fiaba senza il mito etimologico  sul " cattivo „ ladro.   Pel resto, il racconto è in tutto personale. I  vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in  qualità di Dio venerato nel foro boario con  rito greco e senso romano. La sua sola figura  campeggia in due quadri, che uniscono egli e il momento del tempo e la postura della scena.  Nel primo combatte Caco in una lotta brevemente descritta, la quale sembra importare al  poeta più nel suo insieme cbe nei particolari.  Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mistico culto della Bona Dea, l'acqua che gli negano e ne trae vendetta. Sono dunque le due  sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi  a sé sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con  un moto di violenza, concretate entrambe in  prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino,  e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il  Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco,  e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'antichissimo mito della natura si dispone allo  stesso piano e nella medesima luce del recente  mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di  quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgendone una fantasiosa scena cui rende grata e  fresca il murmure d'un fonte.   Quando l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia,  aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pecorosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli  stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria corrente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele  il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non  furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno  Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni  emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-Properzio Elegie IV 9; edizione Phillimore^  (Oxford l'abigeato di caco   sere indizi! certi di palese rapina, per la coda all'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva  al Dio: i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le  tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre  tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla :  " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema  della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte  mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo muggito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di  Eoma „.   Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto  è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la  terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In ombrosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clausura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a  maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie  purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso  fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde  un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva.   Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su  l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta dinanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del  bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospitale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui intorno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto  nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che  il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Alcide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea  clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense  fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo  si diradar le tenebre di Stige? E s'anche celebraste Omesso il v. [42J.    sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi  avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il  mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal  libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii  offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida conocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'irsuto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla,.   Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdotessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche :  * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco;  ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per  temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara  che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno  scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone deposta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti  donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, appartata dentro limitare secreto „.   Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi  battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma  poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un  triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia.  " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati accoglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La  massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi è  consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa  nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta non  resti la sete d'Ercole escluso „.   Padre santo salve! di cui si compiace oramai  l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al  libro mio.   Cosi il breve carme assempra il magistero  delle pause musicali, cui si affida più espressione  tal volta che al contesto delle note : giacché l'abigeato di caco   quando il mito vive di forza verbale, la pausa  lo costituisce non meno della parola. Dal complesso della leggenda volgata e nota, che rinchiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro  dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi  e le luci, le ombre e gli sfondi lascia alla memoria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ricordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno  ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in  parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà  mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per  tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il carattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua  squisitezza formale, è dottrina; e il compiacimento del poeta è di una garbata esumazione  dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito  la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa  non l'idea nazionale anima quei distici, se bene  dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un  senso fine dello stile e un gusto aristocratico  dell'accenno sapiente, della misurata allusione  mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser mai  volgare, assai meno aristocratica, ma in compenso atta a una più vasta cerchia di lettori, è  la narrazione di Vergilio: perché l'informano  quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor  patrio e la santità della fede. Dentro la cornice  del poema, che esalta la nazione nei suoi principi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla  leggenda, come a quella onde scaturisce l'orgoglio del nome romano e si giustifica la gloriosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla I POETI figura del pio eroe Enea, che opera per volere  di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato degl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinstituzione del culto erculeo, e celebra età anteriori  alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non  essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e  ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro  ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi  estremi: comincia con le lotte cruente di Enea  contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili  vittorie romane e alla battaglia d'Azio, significate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle  prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza  intervallo in un constante sentimento ; e, nella  compagine salda degli esametri, appajono le  divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano.  La leggenda si affonda nella realtà; la religione  le penetra entrambe ; e il canto muove dalle radici profonde dei profondi sentimenti del popolo  che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti  alle imprese, al culto i divoti.   Per ciò, e il mito di Caco vien esposto durante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbondante di particolari. Qui è detto quel che Properzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma  si sostituisce. E la primordiale figura della saga,  Caco, non è svolta meno della seconda, Ercole, né della terza, Evandro: però che  rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa  e la divinità bella e un antichissimo assetto politico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono  edizione Sabbadini' (Torino). l'abigeato di caco   cosi collegate che Evandro, il quale dà il segno  dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui  le due forze divine si combattono. Il combatti-  mento assume, difatti, la parte più notevole  perché il canto intiero suona d'armi e perché  nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti  dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del  tema generale, il mito adombra quei particolari  di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia,  e lumeggia bene ogni forma di violenza; riconducendoci per obliqua via alla sua probabile  foggia originaria: breve in ispecie l'accenno  allo spergiuro del ladro, che più si accosta al  furbo diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar  dell'importanza su questo duello ne accresce le  conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo  storico, le spinge al di là dell'origine di un culto.  Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la  pareggia alla storia, in Caco con la belva muore  la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non  sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pinarii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino.  E il suo cadavere trascinato per i piedi empie  d'un'avida curiosità le menti e non basta ad  appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto;  e i fuochi spenti su le fauci somigliano un  simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con  guerrieri. E sull’Aventino, ove ENEA contempla  ancora le tracce del passato, i contemporanei  d'OTTAVIANO (si veda) scorgono marmoree dimore. Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso:  e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la dimora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui  fu la spelonca, remota     in suo immenso recesso, che il  semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca  dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era  calda la terra ed affissi su la soglia violenta pendevano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vulcano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca recendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti  il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio.   Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone  ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui  vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano  i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco a ciò  che nullo delitto ed inganno inosato o intentato restasse dal pascolo quattro di mirabile corpo tori  distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche.  Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li  trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii,  e li occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco. Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella  partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion  la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci  una delle giovenche rispose per l'enorme antro mugghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile  riarse: con la mano afferra l'armi e la quercia gravata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo  monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco  pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce dell'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le l'abigeato di caco   ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,  che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea  fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito  le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua  e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira  fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte  le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella  valle riposa.  Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una  roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo  sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli.  Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul  fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da  le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sùbito la scaglia con impeto onde risuona l'etra grandissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il  fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar  scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo,  non diversa che se nel profondo spalancandosi per  forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e dischiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto  l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore  tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava  rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e  con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora  (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)  da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo fumo  vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi  togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte  aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide  'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco,  là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel  grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre  afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece,  compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si  ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa:  i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al  cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi.  Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tremendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso  di séte, e su le fauci i fuochi spenti.   Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con  la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Quest'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre  verrà detta da noi, e massima sempre sarà.   AVIRGILIO (si veda) sembrerebbe di poter fare seguire  senz'altro OVIDIO (si veda); che lo imita su questo punto  assai strettamente e ne finge anche il senso  religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né  l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste  sacre e nazionali di Roma. In realtà sotto una  superficiale simiglianza si cela ben profonda  differenza. La vita artistica del mito, pregnante  in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza.  Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è  esaurita, che non osa violare il modello i^er  rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di  mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto  piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato di caco  claviger è detto con falsa audacia Ercole;  si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase,  quando è eletta a costituire un verso cosi: Dira viro facies, vires prò corpore, corpus  Grande;   sorride bolsa nel bisticcio etimologico Cacus   non leve malum Non è più la finezza properziana e la ricca concisione: è il lezio ricercato a far un poco attonito chi legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di  tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll gennaio, e il legame che alla  cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato  dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta difatti, e perché madre di Evandro, e  perché profetessa del culto erculeo, giustifica  tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma  il legame è sottile. Carmenta, numen pì-aesens della poesia, ne è lontana dal verso;  e la sua lontananza nell'essenza e nella forma  (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa  nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa  al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se raccontato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel  12 agosto.   E parte similmente della sua forza patria la  fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il colore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi  non è più, come in Vergilio, il re che, ormai  latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di celebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Arcade, giunto da poco, nuovo alla terra, foruscito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad  apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone  materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza  al tema, si addensa su la figura di Carmenta;  ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato,  stronca il vigore nazionale del mito. Non solo :  che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse,  straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia  proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco terrore ed infamia della selva aventina. Cosi  una inezia apparente ha tramutato la situazione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'artista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei  riguardi di questo mito, reale ed efficace. In  vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e all'artifizio di tale imitazione sospese il suo racconto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorità  scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'eleva ad arte. Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe  che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui  ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi  feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il  Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori.  Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie  airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore  ed infamia della selva aventina, danno non lieve a l'abigeato di caco   stranieri e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze  rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro,  Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi  ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le  belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la  terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal  serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :  diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Accolgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor  per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con  un masso strappato dal monte aveva munito, che  cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie.  Delle spalle questi si serve anche il cielo v'aveva  posato e il peso immane smuove crollando. L'abbatte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pesante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti  alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi  sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio,  ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vomita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala,  crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna  ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata trinocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro  volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita  il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra.   Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e  chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva  quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte  dell'Urbe ha il nome dal bue. Né tace la madre di  Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la terra  abbia a bastanza goduto l'Ercole suo.  Il gesto più significante clie insieme compiano  Livio e Dionisio (i due storici dell'età di Augusto,  i quali riferirono la leggenda di Caco) è la dichiarazione con cui rifiutano di accettare responsabilità per quanto raccontano. Cosi si suol  tramandare dice Livio; e richiama tacitamente  le parole del suo prologo: né di affermare né  di negare ho in animo. E Dionisio: " vi sono  intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi,   e altri più credibili. Il più favoloso è questo. E vero che, nel gesto comune, Livio crede più  di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato  l'opinione che il mito abbia un contenuto storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette  prender radice col primo insediarsi laleggenda  sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risolvono male, il problema della sua attendibilità.   Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa  del problema, giunsero ad accrescerla. Se avessero riferito il racconto com'è in Vergilio, né  pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo  segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le favole. In vece essi lo trovano attenuato presso i  più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella  veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo convenirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco  vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E  (Ij Su Livio e Dionisio l'abigeato di caco   un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro : uomo. La possibilità terrena informa la fiaba  e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ;  onde le due forze divine avverse si spogliano  del soprannaturale e il valore del racconto pesa  assai più sul furto che su la vendetta. In questa  difatti troppo palese appare la natura mostruosa  di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela  nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi  in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria  d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe.  Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ;  ma il malvagio lo invoca in vano.   Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce,  i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor  dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incunaboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe  di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta  ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge  l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ;  poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie  intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante,  il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Carmenta. E l'aura favolosa si forma, oltre il preciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi  legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia  si tinge d'una gravità un po' paludata, d'una  serietà riflessiva, le quali non la soffocano affatto, si al contrario l'abbellano di un candore  ingenuo.   Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel  senso secreto -- edizione Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'uccisione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume  Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi  a sé la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco  egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con  un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come  per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di  violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e volendo stornar quella preda, perché, se avesse spinto  all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte  medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,  trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi,  quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora  come, desto dal sonno, esaminò con gli occhi il gregge  e s'accorse che una parte ne mancava dal numero,  si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà conducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte  al di fuori né altrove dirette, confuso e mal certo  prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo.  Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte muggito, come accade, per desiderio delle restanti, il risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole.  Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener  con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando   l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei   luoghi. Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pastori trepidanti pel forestiero reo di manifesta ucsione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa,  scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto maggiori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai  Omesso in parte il l'abigeato di caco   si sia. Quando il nome e la paternità e la patria ne  apprese: nato da Giove, Ercole, disse salve!  Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti predisse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e  che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale  un giorno il popolo più opulento della terra chiamerà massima e venererà secondo il tuo rito. Dando la  destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adempiere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora  per la prima volta con una stupenda giovenca della  mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero  e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le  famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato.  Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad  essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giungessero per i restanti cibi ma già consumate le interiora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei  Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di  quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a  pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta  la schiatta dei Potizii peri.   Tale, nell'insieme, è Dionisio: se se ne  toglie che Caco è per lui non un pastor ma un  predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in  Temide; che il ladro, interrogato, nega la  sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un  altare a Giove Inventore; e pochi altri particolari minori su la cui natura e sul cui valore  non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una  stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due  capitoli sopra un racconto cui non crede affatto;  scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi  adombrato un simbolo che rivelerà poi, con sicumera da erudito certo di sé e del proprio  sapere (povera certezza in vero!). Eppure non  è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e  stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si  afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare  se non alla fine : Intorno ad Ercole questo è  il racconto favoloso che si tramanda. Alla  fiaba manca l'amore. I Razionalisti.   Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può  che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le  stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante  dell'erudizione romana trovarono il fatto loro»  come i poeti in Ennio, gli storici negli antichi annalisti, negli annalisti dell'età dei  Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo. Su la forma precisa del racconto che si trovava presso  l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non  possiamo dubitare su la forma generale. Entrambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica  razionalista, concordano nel ridurre il mito a un  gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si l'abigeato di caco   direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto  alla redazione poetica della favola siccome apparve poi in Vergilio ed era apparsa prima in  Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla  redazione storica che con riserve riprodurranno  Livio e Dionisio.   Cassio Emina difatti narrava un preteso " racconto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di  servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il  buono Evandro signore del cattivo servo. Cotesta concezione fondamentale ci ritorna in due  testimonianze, ma un po' diversamente: presso  il commentator di Vergilio Servio e il suo interpolatore ; e presso uno scritto L'origine del  popolo romano^ opera probabile d'un erudito  del IV secolo che compilava con grami intenti  storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua  fonte; il primo sembra contaminarlo con altre  informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio  adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo,  soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine  malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto  vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome  gli venne dal greco xanóg col ritiro dell'accento^  come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté  ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il racconto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a  uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è travisato nella sua essenza. A tale effetto furono  bastevoli tre interventi del razionalismo: l'uno  a spiegar e ridurre la natura mostruosa del  ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a  giustificarne i rapporti con Evandro. Più in  là si spinge in vece L'origine nell' attinger forse  più compiutamente, certo in modo più esclusivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo  forte (il suo vero nome è Recarano), e Caco uno  schiavo ribelle; ma il furto è punito per autorità di Evandro senza duello né lotta. I motivi  razionali di questa notevole soppressione son  due : lo scrittore non aveva spiegato allegoricamente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvolare su la circostanza in cui più il fuoco ha  parte ; la qual necessità poi gli servi anche per  metter in rilievo la buona figura di Evandro e  la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allontana dalla fiaba poetica molto più che non  appaja Servio, se bene come questo la tenga  presente. Come però questa di Cassio Emina doveva  essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito fantastico nei termini della  realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli  annalisti più antichi, non era se non se un lieve  i tocco; cosi su questo racconto altri critici inrtervennero assai più profondamente. Ridurre il  mostro a servo: ecco una trovata buona. Ma  m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti:  ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio  nella storia dei popoli anche la breve favola.  Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e  da un contemporaneo di lui, per qual si voglia  via, la derivò a sé Dionisio per il suo più credibile racconto; edizione Jacoby (Lipsia).  l'abigeato di caco  Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e  comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse  tutta la terra compresa dall'Oceano; abbattendo, ove  c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le  repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di  stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie  repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi  con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e  diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando  fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti  inaccessibili; e l'altre opere compiendo, per modo che  l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio  di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né conducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è  sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver  traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore);  ma guidando numeroso esercito per sottomettere e  dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato  l'Iberia: e a colà permanere più a lungo fu costretto  e dall'assenza della flotta phe avvenne pel sopraggiunger dell'inverno e dal non accettare tutti i  popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui.  Quindi è narrata la sottomissione armata dei  LIGURI, non che d'altri ; per continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si  dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani, un  re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi avesse con Eracle contesa, perché occupando luoghi forti  era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso  Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con apparecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'esercito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incustodito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio  dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu  ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i presidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro. Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà  il razionalista si arrogasse; fino a far giunger  nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro signore degli Arcadi che la volgata afferma insediato sul Palatino al momento del duello.  Libertà intesa al servizio del vero " secondo i  filosofi e gli storici come s'esprime Servio, ossia di quella critica, che conduce a creare,  accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e  grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awentm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render  civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto  sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il  " vero „, né cosi miserandi apparirebber i suoi  risultati; se non gl'inquinasse una mal celata  boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva  che è solamente sterile miseria.   Su queste rovine pochi poveri racconti si stremano ancora. Evandro richiama con sé la figura  di Fauno di cui era divenuto un equivalente  sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira  il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca  suggerisce la storiella che la dea abbia otte- l'abigeato di caco   nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco,  suo fratello.   Poi, è il silenzio.   Singolare sorte della saga, in verità. Ricca  di densa materia; vissuta traverso il succedersi  delle geniture in una propaggine del vigoroso  ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Palatino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II secolo a. C. non pur la sua forma poetica e la  sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e  su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per  modo, che sopra il quadruplice schema l'età più  possente del pensiero romano, l'augustea, non  seppe se non disporre adorne trame di ben vagliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il  mito ebbe preclusa nel sèguito ogni ulteriore  vita : però che dovesse morire intero con l'estinguersi la potenza alla sua bellezza verbale.  Cirene mitica <i).  Il sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più  eletti stami poeti, tra quanti furono nell'antichità, grandissimi, il mito greco di Cirene e di  Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella  storia reale una sua trama di fatti concreti e in  parte sicuri, da cui deriva direttamente o indirettamente tutte le proprie successive forme e  in cui è da ricercare il motivo appunto di questa  evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso,  con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tènaro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set- Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II  cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispettivi paragrafi. CIRENE MITICA tentrione di Creta; se la Libia, ferace di gregge  e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo  geografico: certo fra questi perni essenziali si  svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano  nella fiaba un riflesso e una deformazione immediata, gli altri solo in modo mediato danno  impulso a talune vicende, determinano qualche  figura, causano pochi episodi! Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo  decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti  fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a  quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica.  Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI,  sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi,  a suggellare della sua particolar impronta il  carattere e la storia di quella breve terra. Ma  fin dallo scorcio dell'età precedente una mano  di cittadini Terei abbandonava con ardire la  spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre  Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei  particolari procedesse, quali che fossero le fatiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni  non posero in vano il piede su la terra straniera :  la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,  prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi  si ebbe i suoi Re. Largo era dunque il volo concesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,  perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola Cfr. Beloch Griechische Geschichte; BosoLT Griechische Geschichte : Malten Kyrene  C Philologische Untersuchungen.   a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga  vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito;  ma quale è la realtà in cristallo iridato.   Però che la memoria fosse alterata da quell'ampio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il  quale è pregio d'ogni stirpe greca, in diversa  misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta recassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale possesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi abitatori del cielo della terra del mare. E allargato,  di li a non molto, già nel principio del secolo VI,  fu ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni.  Regnando difatti Batto II della stirpe che prima  aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole  flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, pervadendo e mischiando l' antica massa. Giungevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi  distinti per la lor propria dissimiglianza. Griungevano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui  per la loro importante sede. Rinnovarono la  stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono  un soffio diverso e molteplice ad alimentare di  parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai  venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe  locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non  soltanto perché apportatori di nuovi elementi al  racconto; ma anche perché, numerosi, costituirono a sé un centro secondario di creazione e  diffusione mitica, in antitesi al principale, cui  la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e  la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era,  Ebodoto da questi due distinti gruppi del popolo greco  in Libia formato, quasi per intiero, il sostrato  mitico delle leggende cirenaiche.   Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto,  sostrato mitico, né quella, che fu tratteggiata,  realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire,  soli, le mature forme della favola di Cirene e  Apollo; ove sfuggisse il centro vero, il proprio  crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e  vitale, possente d'un suo secreto alito di pura  bellezza, organata in una palese e pur varia  armonia, la massa confusa e diffusa che si sprecava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine.  Quel centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo santuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea  vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica  si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, divenne d'un popolo ; era d'una regione, se ne impossessò l'arte, universale.   E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di  quel mondo fantastico, cui diede l'espressione  con voci perenni. L'epica esiodea, l'ode pitica  di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di  Erodoto, il carme didascalico di Vergilio intonarono per quell'armonia le note.  n. L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo. D drappello d'uomini terei che s'insediava primo  sulla proda del mare libico recava con sé, principalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con speciale e insigne culto, uno il cui doppio nome  serbava ricordo di antica vicenda: Apollo Carneo.  Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, venerato di profondo e rispetto e amore fra i pol}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo Apolline era sorvenuto, in uno slancio di prepotente  predominio, a fondere con sé, come quella che  gii era per qualche carattere e attribuzione simigliante ed afiine, la vetusta divinità dorica.  E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran  nati il nome nuovo di termine duplice, e la  figura nuova in cui le linee primordiali sopravvivevano accanto alle ultimamente tracciate ;  senza vero dissidio, a causa della sostanziale  contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi accostandosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo  non fu, nella terra libica, pretermesso il culto.  Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trovarono nella patria nuova un'abbondante fontana  da cui l'acqua scorreva copiosa a fecondare il  suolo riarso, a quel Nume appunto questa sorgente ricchezza delle glebe fu piamente dedicata. A torno il " fonte di Apollo „, nel luogo  ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera  di cittadini terei. Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni  alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan  variegando in un disegno ellenico: e come alla  stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appresero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal Carneo aveva pure, nella parlata indigena, un  suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso  a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase.  E poiché alla fantasia per abitudine secolare si  popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe le  sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine  fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira suonò l'espressione; e grecamente " Cirene „  (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo,  e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo indigeno e il sopraggiunto venivan facendo ; e  tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto  più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si  succedevano. Era destinata a compaginarsi per  impulso crescente con essi ; cosi che nessuno stupisce di vederla scelta a riprodurre, direi eternare, in sé l'opera che quelli spesero per adattare il paese e renderlo quetamente abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice  (nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare  abbattere un leone: sola, E nell'atto fu in  breve ferma per sempre, irrigidendolo come  in uno schema, fissandolo in un gesto tipico.  Rimase.   La Signora delle belve e la Ninfa di Gira era,  e per l'uno e per l'altro de' suoi attributi, insensibilmente e inevitabilmente condotta presso  Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella  abitava, e antico Dio del popolo che simboleggiava ormai ella. Divennero amanti divini ;  amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo  l' " EEA „ primo del tessuto mitico s'era allacciato. In  Libia si compievano le nozze ; e Libia, l'eponima  del paese, la divinità che dava al nome della  regione una grazia feminea, fu difatti la pronuba benigna e ospitale, cortese di favori agli  sposi.   Il pensiero era in un felice momento creativo :  in uno di quei momenti in cui il volo non si  tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce,  la spinta prima. In quest'atmosfera innovatrice,  ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo  Stato nascente un diverso patrimonio anche di  leggende, fu sùbito còlta l'analogia fra Cirene,  che reprimendo le belve e prodigando l'acque  procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza;  Apollo Carneo, la cui natura solare era, in guisa  eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un giovinetto iddio, il quale in Libia era giunto non  sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico  protettore dei campi ove crescon le messi, dei  pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli  aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai  regioni greche, e fu presto diffuso sopra un'amplissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino  in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro.  Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Arcadia. che dunque dall'isole si spingesse in  Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti  all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la  natura sua propria assimilantesi, sia per la legge,  onde la fantasia greca è governata, di non lasciar  nume alcuno isolato ; come altrove s'era commesso con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe  indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si congiunse, e presto, con la coppia amante; avvicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa  che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma  "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad entrambi tuttavia divenendo figlio dopo aver accostato l'uno, necessariamente. Portava egli con  sé tutt'una serie di attributi e di nessi, dei quali  alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran  di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era  con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, custode di gregge; con Nò mio, pastore; x^ersino  con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate  poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea.  la madre TeiTa; e alle Ore, le fanciulle variopinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,  e allieta o attrista i contadini a volta a volta :  attinenze indubbie, e antiche certo, ma costituitesi s'ignora in qual luogo prima. Spiccatamente  però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da  vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni  modo gli venne la sua più speciale sembianza:  dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è probabile che ivi fosse da tempo unito con il " giustissimo tra i Centauri,,, Chirone: quegli medesimo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella  salutare arte medica Pèleo, e di questo il figlio  Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di ferite. Accanto dunque alla coppia d'Apollo e  Cirene, la quale recava mischiati i suoi caratteri  delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a preferenza tessalico. niade Di questa situazione profittò accortamente chi  ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso  letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda  in naturai guisa si riportava a cagione della  figura di Febo; sotto il supremo patronato del  quale la favola ricevette un più ampio svolgimento. Ma per ben comprendere di esso l'origine  e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei  rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se  ben forse più riposta, caratteristica. Tendono  tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'importanza del nume Apolline venerato nel locale  santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di  lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno  (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lontane regioni. Un esempio: per più punti simili,  Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sanatori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel  racconto, e spontaneamente Apollo aveva da  soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae  lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e  di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche maggiore permetteva la favola africana: il Carneo di  Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'orditura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben  separati; la quale filo maestro contenesse Febo  Latoide, identificato già col primo e padre già  del secondo; e come su punti estremi si fissasse  su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E tra  Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra  la sede dell'amata e la sede del figlio. Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di  Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta  di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici: " O  quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti,  presso l'acque del Pèneo abitava la bella Cirene „. Il resto del carme si ricostruisce per  congettura. Figlia del tessalo Ipsèo, re dei  Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene  crebbe vigorosa e animosa, strenua in combattere. Durante la lotta con un leone la sorprese  Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone  la profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò  sul cocchio aureo in Libia, ove Libia la ninfa  li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre  recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono  e fecero di lui un immortale simile a Zeus, ad  Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone  custode di gregge, un Nomio pastore. Tale  lo schema breve della fiaba. Ove si riconosce,  senz'altro, il corteggio dei numi che nel racconto  penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo  Aristeo; e sùbito si avverte il colorito libico  riflessovi da Cirene; e né meno s'indugia a intender perché, volendo insieme serbar intatto il  carattere tessalico del giovinetto e non cancellare  l'episodio della sua nascita in Africa, venisse  alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso  i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar  popolosi di leoni queti piani della Tessaglia; ma  qual poeta ha mai temuto d'essere illogico '?  E fuor di questo, la trama era pregevole per  molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leggera grazia di tocco che temperava con l'amore  del dio la salvatichezza della fanciulla; per una accorta sapienza prospettica nel disegnare le  scene su lo sfondo di due feracissime terre, onde  senza contrasto si rilevava, ben stagliato, in  gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo  senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso  le parole di Chirone dal molto senno e assai  venerando, sino a dargli temperatamente un  tono religioso.   Che stupenda, del resto, fosse la concezione,  dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti  poeti. Fascinati questi, oltre che dall'aura di  sogno emanante fuor della fiaba, anche dalle  lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla  dei canti greci, la Tessaglia, come la nuova fiorentissima colonia dorica, la Cirenaica. Per l'una  il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per  l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato.  Ma era inevitabile che questi due poli, ben armonizzati (all'inf uori della irrazionalità su i leoni)  dall'Eea, attraessero poi in modo palese ciascuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a  divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridivenire di là quasi esclusivamente libica. Due  filoni se ne originarono, non privi né l'uno né  l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea,  unica fonte primitiva; ma ben divergenti in  processo di tempo: l'uno che con Aristeo trasporta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro  che con Apollo rinforza e rincalza i tratti africani di lei.   Su la via per la quale Cirene jDerverrà a stabilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta  dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a C,  in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella  corsa in armi   La patria del vincitore cui il canto è indirizzato dovrebbe far supporre che amplissimamente  sul racconto pindarico si esercitasse l'influenza  libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve  ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introduceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che  conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda  da valersene nel suo carme , non esita a disegnar in vece, nel principio del carme medesimo,  la figura di Afrodite dal piede d'argento: riuscendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite era  dedicato un giardino in Cirene e a lei si rendeva culto con qualche importanza ; onde fu che  la notizia regionale s' insinuò non pur a modificar la trama del racconto esiodeo ma a duplicarne un tratto. Accanto a questa ben lieve alterazione può esser posta un'altra, meno visibile,  e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes  strettamente congiunto nel mito; v'era tra  essi quasi un vincolo che ove Funo stava l'altro  adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per il quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non  Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato  Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a ogni  modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni  però assai più notabile è la non compiuta audacia con cui il poeta svolge la profezia di Ghirone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza  religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio  eran assegnati attributi fissi e certi da non violarsi da non obliarsi, ed erano al tutto sconosciute, riprovevoli, le confusioni le incertezze  dei primi canti divini. Già che, i^er esempio,  Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profetante Nume, troppo illogica e, diciamo, troppo  antropomorfica risultava la scena in cui al Vate  da un Centauro vengono vaticinate le nozze.  Sùbito lo vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5  protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsistenza dell'episodio, poi lo accetta con un sorriso ed un sospiro. Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno  riproduce l'Eea. Splendidamente per vero.  Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate proclamando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e  prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli: Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio  il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo  cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in  gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar  Edizione di Schrodeer (Lipsia).  la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse  Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine  redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce  letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli  l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente:   Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano  seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an- fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la  Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle  braccia crebbe, Cirene. La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i  gaudii delle danze fra casalinghe amiche ; ma, con  bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uccidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi  procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che,  dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso  l'aurora. Sorprese lei un giorno, sola, in lotta senz'armi  con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia  faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida  Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride,  lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stupisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovinetta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le  treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da  quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita  le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero.. È lecito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto  tondere il fiore dolcissimo ? .,  A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : Se Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk. crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri  amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini  questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto  la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene  menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste  finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della  fanciulla, o Signore? tu, che di tutte le cose conosci il fine e tutte le vie: e quante di primavera germina  foglie la terra; e quante nel mare e nei fiumi da  l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel  che sarà e donde sarà, ben vedi! Ma, se anche coi  profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti  su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'insigne giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai  raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di  piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli accoglierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ;  parte della terra a lei tosto donando, possesso comune,  non spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di  belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre Ermes  di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e  alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia  al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stilleranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o  Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone custode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore:  altri lui nominando Aristeo „. Nella pausa che succede a quest'inno, se ne  sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La  più bella e la maggior sua scena si svolge fuor  di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici  della fanciulla son rammentati; narrate le sue  imprese virginali su le vette ventose del Pelio;  né il suo figlio pure s'indugia su la sponda africana. E tuttavia non per questi motivi, di per  sé valevoli, l'ode pindarica scema IL SIGNIFICATO PRIMORDIALE di Cirene; si perché, continuando  l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che  l'eroina indigena venerata e creata da un popolo  in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa  di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e  Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto  alla sua statua, l'Eliade; come credenti al suo  culto, gli EUeni. A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'origine vera della Ninfa resta la sua lotta col  leone: particolare di precipuo sapore africano.  E questo pure andò, in progresso di vicende,  eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti  nel trattar da erudito la leggenda avverti l'incoerenza di quell'episodio che a due veri poeti  era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui.  Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a  custodire gregge e di li la rapisce, senza lo speciale motivo della forza ammiranda di lei, in  Libia. In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai  vv/i,g)ai) li accolgono: le quali son, come tutrici,  numi del paese e occupano presso il nuovo poeta  sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta  dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella personificazione d'una terra, il luogo dell'eponima  ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo  alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il  concetto è attratto dalla fama del Latoide qual  Musagète. Che più resta della Signora delle  belve e Dea della fontana? L'esiguo accenno  alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno duraturo della sposa colà. La maggior luce è  gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue  vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un  momento. Contro questa general tendenza di  Apollonio non starebbe che la soppressione della  profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,  l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispettoso, l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta  la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente  poi il bisogno di non perdere totalmente questa  figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la rammenta quindi, in altro luogo, come partecipe  all'educazione del Fanciullo pastore, insieme  con le Muse. Non più grande né più intenso  poteva essere, sembra, l'influsso della patria  acquisita contro la patria e prima e vera.   E fu più grande e fu più intenso. Bastò che  un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto, imperniandolo, ancor più che i suoi predecessori,  su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la  memore mente dell'artista (o della sua fonte)  è il noto e diffuso episodio omerico di Achille  invocante nella passion dell'ira e dello sconforto  la madre Tetide su la riva del mare. Quando  dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse  il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nell'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre  Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e  nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola  libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma  di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel profondo gorgo paterno e di addurre su la sponda  della corrente acqua il Giovinetto afflitto da  eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa  breve cenno; ma al fantasioso innovatore del  mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo  è il talamo recondito di Penco ove le Ninfe  vivono.   Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa,  perdute, si narra, per morbo e per fame le api.  Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto  lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Cirene, madre, che il profondo abiti di questo gùrgite,  perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici)  Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o  il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori  celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori terreni, che a me alacre con pena procacciava solerte  custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo  per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le  beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! distruggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bipenne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della  mia fama. La madre il lamento senti nel talamo del fiume  profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe filavano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e  Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i  bianchi colh; e Cidippe e Lieorìade bionda: vergine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del Georgiche edizione Hietzkl (Oxford).  Omesso il v. parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe,  entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate  ;  ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le  quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e  l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti annoverava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel racconto  rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente  il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su  i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre  sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo  capo levò.   E da lungi: di tanto gemito non atterrita in  vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima cura,  Aristeo!, tristemente lacrima presso l'onda del tuo  padre Penco : e te chiama crudele, . Allor percossa la  mente di nuovo terrore la madre:  Conducilo, or su,  conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie divine,. E insieme, al profondo fiume comanda di  lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui  l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel  vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la  sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli  umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti  boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti  osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti. Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del talamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti  del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida  l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan  di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli  Omesso il v. Omessi i vv.] altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi, dice,  la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E  insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe  sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre  volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ;  tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto  avvampò.   Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo  a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa  Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il  nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una  scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone,  Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ;  ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua.  Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido  di aquila: con Chirone si corruccia e si trastulla ; par clie debba annientarlo con un colpo  d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece  un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un episodio marginale, quasi comico, e un poco inopportuno : ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra  a fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la  cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono  unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio  montano, e ha da portare la selvaggia nella  terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la protagonista men palese e più reale del duetto, determina essa sola l'episodio centaureo che segue,  e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è scemato e quasi annullato il comico inevitabile.  Sicché la Pitia addensa la materia vasta dell'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di  quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei secoli. Due Muse austere, di Storia e di Religione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa   •ttemplice. VIRGILIO (si veda), e tanto tempo era trascorso! fu più indipendente nel trasfonder sé entro il mito.  Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole  silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui  aveva assai volte spinto il viso nei misteri liquidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il  Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine  che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta  sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevolezza, l'uomo nel divino. E l'uomo fu il VIRGILIO (si veda) georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di  grazia e immerse in un pudico garbo di colori  e di movenze; costumi domestici di fusi e di  conocchie, uso agreste di vivande parche e di  sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di racconti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti  e facezie. Sovra ogni cosa, poi, assemprato  dallo stillar non triste delle grotte sotterranee,  dall'umidore non nocivo di margini erbosi, sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo,  e le bambinesche imprecazioni, e lo spavento,  non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo,  flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile,  questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel  recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito  della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro  alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più  che ogni variante di particolari o differenza di  luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Mantova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli  conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro, impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso.  Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e  conciso. Ma è necessario non dimenticare che di tanto  trapasso, se il terreno è lo spirito vergiliano,  la radice è l'aver posto nell'acque, non più  della sorgente Gira, ma del paterno fiume tessalo, colei clie i Dori avevan veduta sterminare  le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger  glebe. Ed è, questa, si rammenti anche, l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea,  trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio  motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi  la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro,  la Tessaglia. Narra in vece Acesandro, storico cireneo  vissuto come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo  fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché  un leone infestava il paese, Euripilo offrisse in  premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene  l'abbatté, e ottenne il trono. E press'a poco  identico è il racconto d'un altro storico, Filarco.  Entrambi adunque lumeggiano a preferenza  l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, culminante, della lotta con il leone avviene  dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a  difesa del paese e per iniziativa di un re indigeno, Euripilo. Né cotesta è accorta correzione di eruditi razionalisti. Il contesto medesimo ci appare difatti  negli esametri martellati d'un poeta cireneo: di  Callimaco; segno che la fiaba possiede, come  una non dubbia energia vitale, cosi radici assai  vaste e assai profonde nel territorio cirenaico.  Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno  ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per  sottinteso un racconto analogo a quel di Aces andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti seguaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono,  il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor  potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la  fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il  Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul  colle dei Mirti dove la figlia di Ipseo uccise il leone,  infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza  non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò  quanto a Cirene, memore dell'antico ratto. L'antico ratto è quel medesimo narrato dall'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco,  come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lontano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tessaglia; e il leone rugge da vero su le sabbie  del deserto. Per che modo e traverso che vicenda  si giungesse a cotesta forma della saga, che due Il testo di Callimaco è del WilamowiTz^ (Berlino).  Domina la fontana di Gira. CIRENE MITICA   storici e un poeta indigeno ripetono analogamente, è indicato, nel medesimo carme callimacheo, dal processo del pensiero artistico.   Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, raccolto in un recesso ove son palme e allori, gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria sta,  grave e dolce, il senso sacro del Dio imminente. Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro,  quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già  a la porta col bello piede Febo percuote. Non vedi?  Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito; il cigno  nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi paletti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non è  juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi apparecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi,  pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, piecolo è quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non  mai saremo esigui.   Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che  trascina Callimaco, alquanto si svolge cosi  da prima il fervoroso esordio ; il quale non è  tuttavia vano, ma serve a preparare, animandola della sua vita illuminandola del suo lucore,  la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enumerazione delle bellezze di lui e degli attributi.  Egli è Nomio, nei pascoli. Egli è l'Ecistère, fondator di città. Quadrienne pose le fondamenta  in Ortigia.   E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto  indicò :  corvo, fu guida al popolo che si recava  iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura  donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo- La città di Callimaco è dunque fondata, egli  dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui restano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una  attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino  ad ora conosciuta. Apollo non è lo sposo di una  Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città  che di quella lia il nome: si che accanto al  nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti,  si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la  prima novità che ci sorprende. Una lunga parentesi segue poi in cui si rintracciano le sedi del culto di Apollo Carneo: Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti  Clario; ovunque a te sono assai nomi. Io però  Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta,  Carneo, fu la tua prima sede: seconda Tera: terza  poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo conduce alla colonia Tera; da Tera te il sanato Aristotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un  tempio, un'annua cerimonia in città istituendo, in  cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te tori, o  Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari  fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore  adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,  l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la cenere rode carbone di jeri.  Cfr. Erodoto e il sèguito del nostro testo.  Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo  la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta  a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia:  vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più, quel  " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che  avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi.  Ed è la novità seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta indotte,  figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul  colle dei Mirti in atto di contemplar, vedemmo  dianzi, i coloni Dori danzanti tra le fanciulle  libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui  Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio  dove dal Peloponneso a Tera e in Libia vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei  Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi  dell'imagini, che l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe  quotato il regno deve essere in rapporto mitico  appunto con quei due spunti favolosi poco prima,  più che svolti, accennati: con la fondazione di  Cirene per opera di Apollo; e con le migrazioni  dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in  Libia. Comprendiamo che al racconto più prettamente libico su la Signora delle belve è prefazione una saga su l'origine di essa colonia  cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di  quello. Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la  coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel  suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non  è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di  fatti genera maraviglia che in un carme religioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai  meno che in un epinicio quel rispetto austero e  insieme divotamente inchinevole il quale costituisce Tanima della scena pindarica. Eppure  tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo  vento che, dal Nume, agita la palma delia e la  fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira,  bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso  chiunque, e sia dio, protegge le mura della sua  Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso  (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto.  Quindi il breve componimento si spezza in due  parti diverse tenute insieme, male, da un elenco  dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima  di quelle parti è mossa da una contenuta esaltazione patriottica che si veste, abito non suo,  del i^aramento religioso, si schematizza nella  scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che  scarsa armonia di struttura, e abusa di formule  innovate sol con sapienza verbale. La parte seconda, in vece, lascia prorompere la stessa esaltazione patriottica, ma questa volta verso espressioni sue proprie ed adeguate: ivi è la glorifìcazion della patria nel suo bel passato. L'artificio  si discioglie in arte. Ma il bel passato della patria Cirenaica è la  leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,  sospettatala, rivivere tutta. Euripilo ed Eufemo.   Regna in Cirene una famiglia, la quale,  per ricorrere in essa il nome Batto e per esser  ritenuto un Batto primo re del luogo, era detta  I dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava  memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in  qualche maniera a questo proposito una leggenda  etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco  verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una  sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomignolo . Ma ben più su di lui si spingeva la  genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza  difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano  essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che ritenevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qualunque valore tal j)retesa avesse e comunque si  fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo  scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si  sa, non infrequente in fra i Sovrani. E poiché  tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro  che palese, fu facile lasciar in breve cadere  nell'ombra il particolare della patria di Eufemo  o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza (2).  Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a  fin di compiacere un desiderio che diremo non  illegittimo per regnanti. Bisognava, per rendere  più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi  in Libia, che qualche avvenimento degli antichissimi tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee  dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si  anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se  già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana,  ben poteva quello essere il punto in cui il Fato  Studniczka Kyrene (Leipzig) 96. ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo  primordiale delle vicende future. Cosi piacque  loro di imaginar la fiaba.   Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite,  l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta  la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi  seppe assai opportunamente disporre svolgere e  compiere quella fucina medesima che aveva foggiato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi  e risultati analoghi. Come allora si vide la grezza  materia indigena imprimersi di uno stampo ellenico e assimilare in sua roventezza talun'altra  fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio  leggendario dei Greci spigolato a favore e di  Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo  questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a  due domande: con chi e quando fu in Libia  Eufemo, il figlio di Posidone? quali vicende  traversarono e quali vie tennero i discendenti  di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e  compiere il fato? Alla prima dimanda fu sodisfatto con un  antico spunto mitico, assai propizio. Si racconta che gli Argonauti compagni di Griàsone  ìran giunti, in certo punto del loro viaggio, al  [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago  'era quello ove venne detersa Atena nascente da  Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente  da luoghi concreti) nella palude ch'è presso  la piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo  limite occidentale, verso l'occaso del sole. Quivi  sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e,  placato col dono d'un tripode, avrebbe ammaei  strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle  strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a  favorir qual si voglia racconto di anticM soggiorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo  spartano Dorieo tentò di colonizzare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a  prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e  aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il  tripode rinvenuto da un discendente degli Argonauti avrebbe determinato presso il lago la fondazione di cento città greche. Malauguratamente  Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tripoli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti: e il  tripode non fu rinvenuto perché le cento città  non crebbero. Ora in modo analogo procedette  TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argonauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ;  ma a un'altra del medesimo nome: a un lago  chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pensino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della  Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tritone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il quale  è, come la sua denominazione significa, il Dio  della " larga porta,, infernale ; molto diffuso in  vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual  divinità ctonia, presso grotte e antri ove la  volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi  appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca  orrida del Gioh onde le acque profluiscono fuor  dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non  può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che  Erodoto. ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e  v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio,  molto alle fantasime deirimaginazione spaurita.  I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sentirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque  addussero al prossimo lago Tritonio e lui narrarono farsi incontro ai compagni di Griasone  in luogo di Tritone. Con una variazione poi del  motivo originario, egli fu fatto donare una zolla  non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eufemo. L'avo dei Battiadi fu imaginato per tanto  Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare  al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei  suoi favolosi discendenti. Non vano dono in vero,  né inutile a chi Tebbe tra mani I però che fosse  fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire. D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel  lago, ritorneranno nelle terre di Euripilo.   Per quali cammini? Era la dimanda seconda. Alla risposta forniva argomento anzi tutto  la realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di  Tera, la Libia (le tre tappe storiche de' coloni  Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre  punti obbligati e le tre tappe della via compiuta  dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta  ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era divenuto Argonauta, e già l'epopea omerica conosceva, come sede temporanea di Griasone e dei  compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la  costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dardanelli). Accettate e fissate queste come pietre miliari su la strada, ancora bisognava addurre  i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una  all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i motivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno  alla prima causa e centrale, il dono della zolla  d'Euripilo. Eufemo dunque dalla Libia, rice\aita la piota africana, si recò con i navigatori  iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il  mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta  nuova. Questa aveva ora da recarsi nel Peloponneso e da toccar quella Sparta che inviò pure una colonia a Tera; ma perché?  A giustificare si disse che nel Peloponneso era  la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era,  nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro  Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con  valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto,  ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò  non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo  {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere  alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito; era  precipuamente beota, e diventò tenario; non  godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi  venne imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è  noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si  anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di  fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il  viaggio da Lemno al Tenaro come un ritorno  nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per  il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto  le relazioni fra gli Eufèmidi e Sparta, come con  quella ch'era al Tenaro non lungi. Inverati or  dunque questi primi due scopi, era d'uopo con  pari arte legittimar l'approdo in Tera. E qui lo spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo  na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni  vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai  compagni; dai quali sciolto l'otre contro il divieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca.  Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba  d'Euripilo, ben custodita dai servi, era poi  stata, in un istante di men vigile attenzione,  travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde  e le correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò,  non essendo essa da Eufemo stata recata sul  Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola,  da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. Ma se cosi fatta partenza era voluta dai fati, il  segno ne fu offerto e il momento scelto per  opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà  essendosi Batto recato a cagion della sua mal  sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso  di colonizzar quel tratto della spiaggia africana :  ove sarebbe guarito dell'ingrato difetto. Lode  dunque, ben meritata, al Dio. Ultima invenzione questa che rivela il luogo ove la leggenda  degli Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su  tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che si  riconnette assai bene con la figura del Latoide  in qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome  già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo poi  genealogico fissava nella quarta generazione dopo  l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella  diciassettesima la spedizione verso la Libia.  Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea Odissea v. 46. Malte. aveva alla fine assolto anche il secondo tra i  suoi due compiti fondamentali. Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio  dall'apparenza assai più logica che fantastica;  ciascuna delle sue trovate secondarie era indirizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a  un bisogno del ragionamento; al ragionamento  ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati  i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e  alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di eccellenza poetica. Queste, che pajono a noi ambizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi,  che ci sembrano fini pratici non artistici: eran  nella realtà stimoli possenti della fantasia ; la  quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue  imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio  regno da inconcussa signora. E la bella favola,  creata, ignorava il compenso del suo mercenario  creatore. L'accortezza medesima con cui vi si  profìtta di analogie nominali per accostare, ad  esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro;  la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi  motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber  essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece funzioni spontanee della mente ricca di antiche  e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nell'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità  si distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si  mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello  storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea  nel disegno leggendario, incresce al contemplatore della bellezza. La quale riappare, con tutta la sua unità sintetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto tra le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao  vincente col cocchio. Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valoroso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare  col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai  Latoidi e a Pitone. In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus,  presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colonizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola  lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul risplendente colle e di Medea compiuto, con la settima e  decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa  figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la regina dei Colehi '.   Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode  Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Affermo che da quest'isola  battuta dai flutti, nelle  sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo trapianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di  brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi  remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno  è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno  che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo  simile, donante in dono ospitale una zolla, ricevette Eufemo dalla prora disceso benigno su lui Cronio  Zeus fé' rimbombar un tuono quando gli s'imbattè, mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce  Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la  portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei   (Tera).  consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora solitario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di  venerando uomo : con amici detti fece principio, come  ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron  da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava  l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco  immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora,  con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvisato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe,  ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,  ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor  della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera,  l'umido pelago seguendo: che certo spesso furon  esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei custodire;  ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola  l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade, prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in  patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul  sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone  che un di Europa nata da Tizio generò presso le  sponde del Cefiso, nella quarta generazione allora il  sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i  Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo  golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discendenti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col  favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un  Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia: a lui nella  molto dorata casa Febo, a lui in epoca futura disceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur  . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del  figlio di Crono. Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono,  immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti  detti ascoltando. beato figlio di Polimnesto, te giusta il discorso  di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica con spontaneo accento: la quale te, tre volte salutato, dichiarò  fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce interrogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei!   Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col santuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel  mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei nepoti. Le quali sono in altro brano anche più  esplicitamente significate, ancor su la trama  dell'Eea: dico nei versi. E  su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e  tra le mariticide donne di Lemno furono essi  Ivi un giorno o notti fatali il seme   accolsero della raggiante vostra fortuna (o Battiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata,  per l'avvenir sempre fiori. E mescolatisi di  poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'antica isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi  il Latoide concesse di far prosperare con gli Dei  le i^ianure di Libia e di abitare, con savio consiglio regnando, la divina città di Cirene dall'aureo trono Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più  minuto, è anche assai inferiore rispetto al primo,  n quale mostra quanto profondamente l'animo  severo e ascetico di Pindaro consentisse e concordasse con il contenuto riposto della leggenda  cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia  e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra, (Batto-Aristotele). (Gli Argonauti). b svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto  ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi :  significano con insistenza l'unico essenziale e fondamentale concetto del mito, il Fato onde il  regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea  con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con  la bocca immortale lo attua. Gli uomini si scemano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi  eletti. Se non che il Fato è non soltanto il  nucleo del mito, ma l'intima fede di Pindaro, che è apx^unto stimolata dalle esteriori circostanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto  incarico di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col  vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f oruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non  graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui  un'amara tristezza: non pure pel rimorso secreto,  e qua e là palese, di piegar la sua Musa a compito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo  umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo  dinanzi al forte che aveva vinto la gara come  dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui  ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal destino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e  per sé lasci levare in minor tono il vanto, si  massimo per i Numi che l'hanno in protezion  benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza  fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta  dal poeta con un balzo magnifico di rapidità  intuitiva: Arcesilao vince a Pito; da Pito muove  Batto; ecco il trapasso esterno : un destino  solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto;  ecco il midollo intimo a questo organismo lirico.  Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato che Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla  fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior  dell'animo i men nobili desiderii e una certa  compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto  è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea  d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio: è l'elegia  d'uno spirito d'uomo.   La strada su cui Pindaro s'è lanciato non è  la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova, aperta  con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe  una scena coreografica ; a quei tempi uno spettacolo dei misteri eleusinii ; sempre, il basso-rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come  le anime, concreti di evanescenza. Nella notte  dei tempi Medea, maga di semplici e vate del  futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua  profezia. Sono circa cento kola percorsi da un  brivido unico, che culmina alla fine nell'invocazione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su  la strada nuova ed insueta non dura l'imaginazione: già l'episodio di Euripilo apparso agli  Argonauti s'era innestato con diversissima efficienza nel gran quadro di Medea vaticinante,  come quello che vi recava tempere più pesanti  e meno diafane. Con esso episodio si riconnette  poi, non appena cessato l'anelito dell'incombente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle  vicende onde mosse e per che riusci la impresa  degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto  una nuova serenità omerica, una placidezza di  lunghi favellari, un indugio molle su i modi  delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in  somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo su  la piazza di Fere con le due lance e il doppio costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti  di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento  obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli  eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la carrozzabile Pindaro vi entra franco e libero; lo illude la facilità con cui la fantasia  gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni  dell'attitudine sua di statuario creatore della vita  neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision  vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto  dramma; e una imperfetta dramaticità travaglia lo spirito del poeta per affermarsi, senza  riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si  distrae troppo, una parola lo devia spesso, gli  manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio di  sacrificare i trucioli. E continua cosi, a lungo,  faticandosi, irritandosi: l'opera gli riesce un insieme di momenti, scelti senza acume di tragedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia  un luogo e un gruppo per correre nell'altro  luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi quel  che là non aveva trovato; non si sodisfa; riprende; e cade senza lena alla fine. Allora grida  con sdegno: è troppo lungo per me seguir  la carrozzabile! E sul suo spirito esausto  hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del  carme. Termina in pesce. Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno  sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare  un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre  sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma  tal volta li costringe col suo verso in perfetti  camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte  nella quarta Pitica? La risposta è nella natura stessa del suo errore. Tutta quella ricerca affannosa d'una base ove consistere cli'è il racconto  degli Argonauti è piena di maraviglie oltre  umane e di giustizie divine. Giasone viene a  rivendicare appunto il sacrosanto diritto di sedere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e  nel paese dei Colclii, come già lungo il viaggio,  le sue gesta sono insolite non di coraggio ma  di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende,  né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che  il poeta poteva credersi avvolto sempre da quell'atmosfera di fatalità grandiosa la quale sommerge in sé il tereo detto di Medea. Ma  s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il romanzesco della novella, il mirabile della fiaba,  dopo essersi abbandonato, supino il volto, nell'estasi santa. La magia lo deludeva con una  maschera di religione; il cuore non pago pungendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non  propriamente gli mancò, ma più veramente  venne provandosi in vano a molti cimenti sotto  cui è una continua insoddisfazione intima: la  insoddisfazione dello spirito che ha aderito intiero a un impeto di profonda religione e, non  accorgendosi a tempo del transito verso minori  sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora  quella adesione era stata possibile nel cuore di  un mito: il mito dei Battiadi, in cui pulsa, origine e scopo della sua stessa vita, il senso solenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché  poche volte una saga ebbe più consono poeta;  pochissime, un tal inno è rimasto documento  lirico della mischianza dell'uno con l'altra e  dell'elegiaca nostalgia che ne consegue.  Una cosi compiuta intuizion del mito non ha  più Erodoto . Il sicuro suo equilibrio lo porta  anzi a svolgere della saga proprio quella parte  che Pindaro meno degnava di cure : dove, difatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento  verso Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argonauti, Euripilo ed Apollo, eroi e numi ; lo  storico è pien di zelo per i discendenti di coloro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito  Batto, non eroi né numi ma uomini. Il primo  era assorto nella premessa della leggenda; il  secondo corre alle conseguenze. Delle conseguenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno,  non più nella Pitia quarta, ma nella quinta; gli accadde però per sbalzi e  tratti non connessi, senza organismo, e senza  profondità di attenzione. Vide Batto porre in  fuga i leoni africani perché recò loro una  lingua d'oltre mare; vide i Terei guidati da  Aristotele fondar templi e instituir cerimonie:  tutto in pochi kola de' quali la lode di Apollo  è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto:  a lui la fiaba, che non è proprio fiaba, comincia  anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che precede è avvolto in un silenzio il quale può essere  incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi  lo storico comincia a narrare. Egli narra con Cfr. Malten.  una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e  forse un poco sorridenti; molto si compiace nei particolari minuti; molto più pensa di poter la  tradizione degli Eufemidi connettere con altre  indipendenti. Ecco, a suo dire, da Lemno partono non  solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli  Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli  accade di giustificar doppiamente il loro soggiorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lontano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli  non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché  i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go :  ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti  X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son  difatti concetti affini (su la cui origine non è  qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal  volta identificati. Per spiegar poi la loro partenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza  tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola:  i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è combinazione grama e non primitiva. In fine,  i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa,  per quale si recarono in Tera? Esisteva, come  un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito,  ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta  nell’isola; e in esso si parlava  di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi  avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe  dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo  storico per far muovere parte de' Minii insieme con  quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe  fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque  su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, bisogna supporre, i Minii si serbaron distinti dagli altri  cittadini, al meno come schiatta; laddove il  trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di  quel Tera.   [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e  discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola  di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'ecatombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto  figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eufemidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie  lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose  di fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo:  Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante nel  moto: tu dunque comanda di far queste cose a qualcuno di questi giovini. A un tempo disse queste  cose e accennò a Batto. Allora tali avvenimenti. Più  tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non sapendo  in qual luogo della terra fosse la Libia né osando  inviare una colonia in un'impresa ignota. Per  sette anni dopo ciò non pioveva in Tera, durante i  quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono.  Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò  la colonia in Libia. E poiché non avevano altro rimedio al male, mandarono in Creta messaggeri per ricercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse pervenuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero  anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in  un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichiara d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di  Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero  Cfr. Erodoto. a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non  numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di  Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per alquanti  mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei  intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del convenuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito  una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in  Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii  appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi  per un anno. I Cirenei e i Terei strinsero a partir da  quel fatto grande amicizia coi Samii. I Terei che  avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera annunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla  Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato  in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che  erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto.  Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea .   Questo racconto riesce notevole anche perché  vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza  che al consulto dell'oracolo si sostituisca altro  preciso motivo; e perché vi appare la volontà  di attribuire, oltre che ai Terei anche ai Cretesi  e ai Samii qualche parte nella colonizzazione  della Libia. Volontà, la quale risponde, evidentemente, a una tendenza politica tarda: a giustificar le relazioni e di commercio e d'altro fra  lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora  a xDunto questo facile rilievo addita il luogo  Cfr. Eeodoto. Il brano che riguarda l'ulteriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al  nostro mito. Edizione Hude (Oxford)] onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu  verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano,  come si dice, due focolari mitici : l'uno dei  primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il  re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo  e avevan quindi desiderio di giustificar con il  mito non pure il regno dei Battiadi ma anche  la loro politica, raccolse la narrazione tradotta  pur ora. Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re  e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La  quale non è se non questa medesima ove Aristotele del LIZIO sia divenuto e balbuziente e bastardo, e  i coloni Terei appajano pochi di numero e cacciati dall'isola per opera dei lor proprii concittadini. E poiché Creta, per la sua stessa positm-a geografica fra Tera e la Libia, non poteva  facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu  tratto con accortezza profitto per far aiDparire  anche di impura discendenza il primo colono  Batto. Cosi:   Vi è a Creta una città Gasso nella quale era re  Etearco; che, avendo una figlia orfana, a nome Frònime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,  volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,  procacciandole danni e macchinando ogni male contro  di essa. Alla fine calunniatala d'insana lascivia persuase  il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto dalla  moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era  infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone.  II sostrato storico. Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giurare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse.  Quando quegli ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua  propria e gl'ingiunse di condurla via e d'immergerla  nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del  giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese  la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare,  adempiendo il giuramento di Etearco, la legò con funi  e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò a  Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece  Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque  ad essa un figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu  posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia interrogata  d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la  Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un  secondo comando inviarono i Terei Batto con due  navi pentecòntori]. Navigando verso la Libia costoro  non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera.  Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che  si avvicinassero alla spiaggia; ordinarono invece di navigare indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e  occuparono l'isola che giace sopra la Libia, la quale, come fu detto, si chiama Platea.   Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso  scopo di sminuire i Battiadi, anche l'altra non  serbava più in Erodoto la intima e possente vigoria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina  di comune e piatta concretezza umana, su questa  leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la Erodoto. Sono omesse le considerazioni  personali di Erodoto sul nome Batto. loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti,  ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha  rimesso della sua dignità religiosa, un poco a  pena, e a stento riesce a dargli valore di venerando il sèguito delle sventure che puniscono  la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol  esser storia con esagerata pretesa: ne ingoffisce  ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della  sua evoluzione che permette la esegesi degli  eruditi o la prepara o quasi l'attende. Gruardando ora a distanza questa tradizione  dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare e  rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide,  di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto  ripetono l'opera importante nell'impingere i coloni; Eufemo, capostipite della casata e compagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete  d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo  e con valore divino, della pili antica vita africana anteriore ai Greci, strumento per ciò eletto  dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma  Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di  Aristeo, aveva condotto Cirene dalla Tessaglia  in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna  in Callimaco come d'un re da cui la Signora  delle belve ha il trono. Si profila dunque ora  compiuta tutta l'ossatura di questa compagine  mitica. Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo, luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il contenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa,  la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni  sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la  origine delfica. Simili dunque e differenti. In  forza della lor dissimiglianza restano in più  d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo  tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi  tessalico; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro,  la maggior sua umana pianezza; senza che si  formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza  della loro simiglianza giungono per diversa via,  in uno stadio della lor vicenda, a compenetrarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nell'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la  Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme  con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle  libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un  popolo. Unici restano distinti, di qua e di là,  Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due  Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme  di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia e VIRGILIO (si veda); all'altro, Erodoto e la Pitia  quarta.   Lo schema di cotesta evoluzione mitologica  è dunque complesso come un quadro genealogico. E per vero le singole forme della saga  son congiunte da intime attinenze di derivazion  vicendevole; alle quali tutte predomina il nesso  fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto  vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi  capostipite, la origine prima.  Il mito è miracolo.   L'occliio vede il chicco di grano scender fra  le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer  le tenebre: vede piccole cose ed esigui spettacoli che appena lo affaticano lo abbagliano lo  trattengono, e che UN NULLA BASTA A SIGNIFICARE. Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza  nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato  di verginità animatrice, fuor dal mondo reale  il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano  la lor concretezza in trasparenza, sfumano i [In questo capitolo gli esempii addotti son desunti  dai precedenti capp. Ma ci dispenseremo dalle continue citazioni.] loro contorni in nuove linee: si tramutano  in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel  mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita  secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il  mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il  miracolo si è già compiuto: restio ad analisi  nella sua complessa essenza ed inesauribile ricchezza: figlio del mistero, perché nato da una  energia la quale tanto meglio si cela, quanto  più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filosofo, riflesso dell'età tarde , indaga l'opera  mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il  fondo vero, il miracolo dello spirito transfigurante, si perde fra le sue dita incerte. Quindi,  il mito solare è di origine oscura come le vicende,  che narra, dell'Astro. E il mito del seme è misterioso nel suo principio come la fecondazione  della gleba.   Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un  afflato lirico. E il canto dell'anima umana nell'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere  con suggello suo proprio quel che i sensi avvertono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dall' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme  un' illuminata elaborazione intima, un assorbimento dell'esterno nell'interno. Esulta nello scoprir la natura, e le dà un nome e la umanizza. Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal  Einleitung in die Psychologie und SPRACHWISSENSCHAFT; e quella dell'appercezione (impressione,  associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsychologie (Leipzig) per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha  segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto  istinto geometrico della stirpe e imponendo alla  Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto  con atto analogo colui che armerà di clava, per  assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro  il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il  miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta  la razza, le dà la sua anima come una divina  coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;  è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il  prorompente grido della vittoria, conseguita  sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin  nelle radici profonde; è il mortale che, calcando  la terra, volge in breve giro il suo braccio, in  più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo  sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'universo dei suoi sensi “ti capisco.” La malinconia  dello scienziato moderno che sa di non poter  dare alla forza ignota, o mal palese in talune  forme, che un nome, e non crede d'aver capito  l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano  il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha  scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il  cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trionfando di felice ignoranza, che ha, allora solo,  veduto la luce il cielo ed il mare.   Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di  sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'arcobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di  scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto  come civile, non va però si oltre in questo suo  bello errore, da non serbar, della forza immane  rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro,  traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo più  efficace che trasportare il tutto in una sfera più  che la consueta possente e a cui esso medesimo  soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su  la scena del divino. E il fenomeno mitologico  s'intreccia e si compone con il fenomeno religioso, seguendo con questo una simigliante evoluzione dal naturismo all'animismo al personismo, per la quale si complica si allarga si  condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza  perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel  principio ogni mito della natura è un racconto  intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto  e rozzo il nume. La creazione della saga, adunque, somiglia  per tre aspetti a tre diversi ordini di elaborazion  spirituale : perché infonde la vita a individui che  la fantasia par animare di un soffio e la realtà  foggiar a sua sembianza, è analoga all'opera dell'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi  li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben  destro, è affine ai procedimenti scientifici che  insegnano le cause dei fatti ; perché, da ultimo,  induce l'animo a reverenza d'un potere più largo  più alto, or solo più forte or anche più buono,  rasenta l'intuito di Dio e il senso religioso. Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra  quei tre ordini disparati. Anche quello con cui  sembra meglio coincidere è per vero disforme:  l'opera dell'arte non è accompagnata dalla coscienza di certezza e di apprendimento che è  (vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi seguita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto,  per cui venga riprodotta e amata traverso le  succedentisi geniture. La fede mistica per contro,  quando sente la divinità vivere e spirare, e la  vede risplendere, non si menoma in individuazioni personificate e denominate, si più tosto in  formule ove all'Essere è congiunto l'attributo. Dalla scienza che mira alle leggi generali su  dai fatti specifici, che raggruppa in classi, riordina in ischemi, è necessario dir lontanissima la  saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua  materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole  farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme  scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre le  ripetizioni delle apparenze e le identità fondamentali; ed è già matura quando narra Cora  ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla madre  e al marito. Anzi, lungo ciascuno di quei tre  ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente; fin che da l'una delle tre mete sopravviene a  deformare o incrinare o addirittura distruggere  il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie  il letterario, violi con la sua indomabile licenza  la primordial purezza della favola è in queste  pagine segnato con studio. Né qui si tace come  anche la religione scavi alacre nella polpa stessa  del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù riposta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle scaturigini prime. Ma, violento senza pietà, lo  scienziato non erige ove non abbia prima distrutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in  pari tempo la saga. Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che  cos'è dunque il mito?  Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfacimento pseudo-scientifico non è essenziale quanto  il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver  pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la  specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo  torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente critico, si appaga della rappresentazione come di  causa; ed è quella medesima che stimola un  senso rudimentale di questa: o forse, è il contrario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e  per spiegarsi le forze naturali le plasma umanamente e umanamente le fa vivere. Certo, negli  inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di  sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca della  causa preceda o segua la trasfigurazione, la determini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si avverano entrambi i casi, cbé la fragile mente or  si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare, perché?; ora con spontaneo moto traveste in  fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque,  sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito  serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto,  intatto dalla pseudo-scienza. Accade un temporale; e un altro; e un terzo; molti: diversi sx)iriti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si dimandano il motivo dello scompiglio dei bagliori  dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola  differente; a tutti (supponiamo) la favola creata  è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità  dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi,  dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla  varietà delle creature mitologiche. Queste, superando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate  da una congenita forza eh' è propria, splendenti  d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii  temporali e si adduce la falsa causa comune; ma  allora la saga non deve nascere, si trasforma  in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo  clie la integra, raggiunge una taiDpa del suo  evolversi: dall'esterno dunque si muove questo  ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora  rapita sotterra e riapparsa in terra si compie  poi del giudizio di Zeus e del ritorno periodico ;  ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine  scientifica non si maturi cosi da non poter più  arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare  e distruggere. Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere  senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,  difatti, estremamente varia e vasta; trascendendo la natura e le sue forze, si nutre anche  d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è  più specialmente umano. I primitivi avvertono  Dio nella famiglia, e onorano di culto la dea  Madre e il dio Padre; lo sospettano o persin lo  affermano nell'individuo che più sa e più intende,  onde inchinano il Vate. E pure ammesso che  primieramente la divinità appaja traverso la  luce del Sole e il risucchio del mare, non si dimentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si  pone in contatto con la sovrapotente forza della  Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che,  ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua  evoluzione religiosa, oltre il quale deve progredire ed entro il quale non intuisce, a dir vero,  se non se la sola Natura; che, quindi, il mito  coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto  un momento, transitorii e insufficienti, di quel senso. E allora è più esatto affermare, la saga  contener l'intuito della possanza naturale rivelata nel fenomeno.   Da ultimo, molta luce viene anche dall'analisi di quelle che dicemmo trasformazioni e individuazioni artistiche: il vecchio re che cade  dal suo trono e cui succede il figlio; la donna  che le rapiscono la figlia per nozze; il duello  fra Perseo e Fineo. Qui sono i tipi dell'esperienza consueta; qui accennano le figure che  jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani  di nuovo; i casi, di cui ha acquistato l'abito  il suo pensiero. Le forme della consuetudine sociale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla  fantasia come una veste indistruttibile. E somigliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni  artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi  le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha  l'esercizio della creta plasmanda; è sicuro del  proprio pollice ; la mano gli vale una certezza :  si che traverso questo possesso egli vede la statua  e foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo  scrigno celato la materia ambrata del Verbo e  la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e  mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva  limiti non varcabili alla sua ricchezza: le parole  eran acconce a dire le vicende sociali e a descriver le forme umane ; la vita arborea non  possedeva moto se non per braccia, e il suo principio non era da esprimersi se non con l'imagine  dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'interno, immersi in lei; la Natura si affrontava  dall'esterno: a questa quella unica poteva per  tanto fornire linee e procacciar significazioni. Il l'intuiziqne mitica Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi; come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella  spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è  diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso  dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la  creatura tolta alla madre. In progresso di tempo  l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso  apparente del Sole e il trapasso del chicco; non  li ha trovati allora. Allora serve per la Natura  l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione  naturalistica. E l'analogia (non identità, si  badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche  su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le  diverse intuizioni artistiche e le rispettive tecniche, quanto fra il fenomeno naturale e le forme  umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reciprocità, si che queste par violino bensi quello,  ma par insieme che il primo esiga senza scampo  il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe  vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Accade quindi che si possa decidere dell'epoca in  cui una saga fu da principio narrata, per ciò  solo, che gli elementi umani e i dati dell'esperienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi  o abondevoli. E accadde per converso che taluni  fenomeni non determinassero la loro leggenda,  se non quando li potè assalire e trascolorare una  copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi. Perseo contro la belva ed Ercole contro Caco  sono analoghe manifestazioni dell'urto fra luce tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo,  la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece  3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e  costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vicende agresti del seme e della spiga non divengono vicende, o siano trama narrativa, che a  patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente  non esistono, clié non sono intuibili. Come (continua l'analogia) non esiste per me, ignaro di  plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono  senza il consenso dello spirito seguace. Analogia, non identità. Che il divario è tosto sensibile, non a pena si rifletta alla rispondenza che  è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla  ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale.  Le tecniche non esistono che per l'arti, ne costituiscono la preparazione voluta, né servono ad  altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove  che nell'arti. Il loro progredire è verso un affinamento che permetta di sottoporre sempre più  e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso  artistico. E il loro affinamento esalta sempre più  e sempre meglio le arti; non le nega non le distrugge già mai. La storia della mitologia per  contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come  sia salita a più grosso valore la somma delle  esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)  traverso cui il fenomeno della Natura passa trasfigurandosi, incontanente questo legame s'infrange, si che a due poli estremi la vita sociale  e gii spettacoli naturali si esprimono con indipendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche  le discrepanze superando le affinità; e la perizia  esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge  diverse da le dicevoli per le affinità. Si dichiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è  una visione manchevole del mondo esteriore all'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^   i  jH   mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per converso, una vision manclievole di questo ultimo  mondo, ignara del suo contrapposto con quel  primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un rapporto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla  doppia manchevolezza. Ma perché le due insufiicienti visioni sono le uniche per ora acquisite,  e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul  fondamento delle crasse analogie, il rapporto  dev'essere ed è, anche, necessario e indispensabile; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.   Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un  detei'minato avvenimento naturale intuito come  forza so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano  in una mischianza che li deforma entrambi:   come forza sovrapotente e divina; indi  il rispetto della tradizione letteraria, l'onore del  culto, e il pregio di motivazione scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi; indi la fine della mitopeja con l'eccesso della deformazione e l'imxDOssibilità della mischianza.  Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde  la morte, sarà detto appresso. Scaturita, la mitopeja si moltiplica multiformemente e si altera evolvendosi. Ma immutati Questo nostro risultato storico intorno al mito contraddice CROCE (si veda) (VICO (si veda)) per cui il mito è un universale fantastico restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni e  di creazioni, i modi e i mezzi della manifestazione mitica. La quale quindi è necessario precisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul  viver e sul morire mitopeico. Poi che il fenomeno della Natura dovette, per  affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati  d'esser contemplato come l'umano, in tutti i rispetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto  psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella materia, dipinto su le tavole, narrato con parole. Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura  rimase luminoso della magnificenza divina, richiese di penetrare nei culti e nei riti in cui  ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro  puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi  categorie espressive; e su i caratteri di ciascuna  in generale non è qui da far cenno, che ne trattano apposite discipline. Qui basta notare come  sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due  agl'incunaboli della saga; la quale quindi le  trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità  impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la  crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe apparecchiati i canali al suo corso ardente. Che anzi  non si sarebbe né meno levato in un respiro  immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte  al suo sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu  dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento  di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di  svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi  verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma falli,  se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga  quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE primo suo crearsi, e attuali divennero solo più  tardi. IL TERMINE FILOSOFICO, la parola scientifica  (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come  si respingono sostanze non consentanee. E in un  dialogo di Platone la fiaba fu racconto anche  se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione: l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inadeguatamente, dalla fiaba; mai questa da quella,  in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i  frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il  ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: qui la saga si foggia a rivelare or l'una or  l'altra delle sue congenite potenze, senza dissonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima  intuizione della Natura esala uno dei suoi profumi pili reconditi, e non tra i meno intensi :  il culto.   Il mito può esser nel culto.  AUor quando su l'Ara massima si sacrificano  tori ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del  dio contro il ladrone Caco. Persino nelle feste  di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo  della saga, se non certo, è possibile ; è in parte  sottinteso nelle menti dei fedeli. In Enna non  si venera Demetra senza ripetere il ratto di  Cora e, molto più, senza affigurarlo concretamente. Nelle feste cirenaiche di Apollo Carneo  le danze trovan riscontro con i leggendarii balli  dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia. Le forme però di questa interferenza fra culto  e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un  tempo più semplice, il gesto del rito ripete la  vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati a  Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta  alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo  istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è del ratto. E ad Eleusi si mostrava la pietra  del pianto che aveva parte non piccola nel  culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel  cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo. Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significativo, quanto il dramma greco nel suo contenuto  mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione  è cosi moderna e lo spirito maturo cosi largamente innova, è andato perduto il carattere peculiare della tragedia o s'è cancellato il segno  delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e  il culto sacro. Per le quali, in fondo, il dramma  appariva quasi la ripetizione gestita del mito,  il mito riprodotto attorno ad un altare, da persone che ne affiguravano gli eroi, in vicende che  ne rendeno la trama. Appariva, in somma,  una specie di culto in cui il rispetto religioso  era ben presente, ben si sentiva l'ambrosia dei  numi; e tuttavia l'azione e il gesto awiavansi  a prendere il sopravvento. Appariva un culto  modellato sul mito.   Questa però, se è la più tipica interferenza tra  i due fenomeni umani, perché in essa la saga  offre al rituale i modi i tempi e i luoghi, non  è la sola né forse la più consueta. Un'altra è  frequentissima: per cui avviene appunto il contrario. Nel culto, molti fra gli atti obbligatorii  Pindaro Olimpica e lo scolio.  e tradizionali si riportano, idìiì che ad un determinato racconto leggendario intorno al dio che  si venera, agli attributi di quel dio alle sue  mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si  invocano in circostanze favorevoli, si supplicano  benigne; o vero si irrogano lontane, si distornano  con offerte e con formule ritenute idonee. Vi  hanno inoltre, pure estranei al mito, atti religiosi sorti in momenti diversi, per caso, per  coincidenze fortuite, per iniziative, anche intenzionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno  infine templi e altari elevati, fuori di un certo  mito, per un nume cui il mito fu collegato  lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario  che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio  nella saga di Caco. Ora, tal complesso cultuale,  che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza  contiguo al racconto leggendario, non ne dura  a lungo estraneo, ma finisce col penetrarvi e  costituirvi un capitolo interpolato. E questa la  massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a  Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abigeato del ladrone latino. Sempre, in questi  esempii, il contesto narrativo si amplia a vantaggio e ad interesse della realtà religiosa : fenomeno che attinse il suo vertice in quei casi,  ma non ne appajono in questo scritto, che  tutta quanta la leggenda nasce dal rito. Ebbene. Nella prima delle due interferenze  notate, troviamo la leggenda esprimersi per  mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto.  Fra le due non difettano attinenze; né è difficile decidere intorno alla priorità. I miti etiologici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto  più tardi degli spontanei miti naturalistici e per  solito, a differenza di questi, tristanzuoli. Anche,  la prima interferenza intacca e interessa intiera  la leggenda: onde il culto di Demetra investe  tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico  tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda  interferenza presuppone la leggenda, l'adotta,  non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi,  la diversità non è tanto profonda quanto parrebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'antitesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito  sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al  culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un  che di non riducibile: fra una scena e l'altra  del rituale, fra un episodio e l'altro del dramma,  qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son  accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,  ma si riferiscono a un diverso contesto: nell'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore  e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve  narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i  Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo  tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di  Zeus insieme con l'altre vicende : prima che  Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe  e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto  delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ;  il che si deve dire, come in postilla, ma non  appartiene più al dramma sacro, bensi risale al  mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni  tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti;  ma si integra poi con interstizii d'ombra o con  premesse a pena accennate o con parentesi suppletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi  sulla impotenza espressiva del mito rispetto al  culto ; la quale è però fatta più tosto di abbondanza, ijerché quello per solito trascende questo;  consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura  mitica di Cirene, invero, traduce assai poco del  culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie  0, in genere, greche in onore di Demetra non  sono a sufficienza chiarite dal solo ratto di Persefone, si debbono venir comentate col sussidio  e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea  spettano in testi estranei a quella saga. Qui,  come altrove, il culto traspare nella leggenda,  ma per uno spiraglio solamente.   Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico  non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro.  Ciò può sembrare da prima strano, da poi che  si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano  invece cessa di essere, quando si ponga mente  (che si disse pure poc'anzi) alla distinta natura  di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con  lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'affinarsi della sensibilità mistica, cosi che molto  si modifica, e si perfeziona di disinteresse, coll'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro  nasce da un'intuizione della natura che deve  permanere durabile, e vive nel suo profondo di  vita indipendente dalla religiosa. Due rami,  dunque, bensì dello stesso tronco; ma rami  diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non  accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la  costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per  due motivi.  1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carattere scientifico che assume la saga o già prima  del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo  qual spiegazione del fenomeno essa tradisce  tosto un aspetto di utilità pratica ch'è quanto  mai confacente alle menti primitive (né solo a  quelle). Se il fulmine è la clava immane che  un Dio a volto d'uomo brandisce e agita con  braccio più che d'uomo possente, se ne stornerà  la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al  Nume dal cuore d'uomo : venerandolo di offerte,  in culto. E della spiga granita, della messe coj)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori  l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune  suona il tripudio, come comune il lutto per il  rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto  e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca,  si appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle  nebbie rosate e si converte nell'egoismo quotidiano, ch'è il pane, il benessere, la vita.  Ma l'altro motivo per cui culto e mito interferiscono sta nella concretezza plastica, che è  di talune cerimonie del culto, e che le assempra  all'opera dello statuario, ossia le avvicina all'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra  trasmigrante per le terre con due fiaccole accese  su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la  figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle cerimonie di Eleusi. E quando il ketos apparisse  vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana,  riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa  del racconto. Il paludamento ed il gesto corrispondono all'elezione e alla disposizione verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono  anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un  volto contratto nell'angoscia sottintende ma non  significa il dolore medesimo che il poeta piange  nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea  nella carne vivente la divina maschera di Laocoonte (BELVEDERE).   Per tanto, non pure mito e culto non si sovrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono  coincidere, il culto risulta una imperfetta espressione del mito. Accanto alla quale perdura sempre,  e per integrarla nella quantità e per elevarla  nella qualità, la forma primaria e più acconcia: l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano,  quasi a compimento ed abbellimento, le varie  forme del culto, come i minerali alle fogge cristalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme  con la poesia, emergono, fiori di alto stelo, su da  quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti  e il disadorno ricordo delle generazioni. Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa  efficienza di espressione. Il vasajo, che affigura la saga di Andromeda su la materia  tornita e preparata alle vernici, si ripete, traverso la serie dei suoi modelli, ad un'antica  forma del racconto caduta già in oblio nella letteratura ; ed è, solo, sufficiente per indurci a  costruire quella forma, di cui altre tracce non  sono rimaste. Ma sarebbe anche in questo specialissimo caso ardimento soverchio asserire indipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in  tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a  simboleggiare un intero strato mitico, in quanto  la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa  risalire a una narrazione ; non ce la narra, per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e  Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita  tre spighe, richiama le nostre cognizioni sul  ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le  fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le  esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non  possono essere indipendenti dal racconto parlato  quelle arti che non debbono né fermare l'istante  né descrivere il moto. Il momento è la loro misura, ai due estremi della quale sono invarcabili  colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per  rendere una vicenda, per fìngere il moto nella  statica. E né meno costituendo in serie i lor  prodotti riescono a rendersi autonome dalla  forma letteraria; che una Via Crucis raffigurata da un genio non è se non mirabile chiosa  agli Evangeli. Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua  espressione, a preferenza artistico; ma anche è  precipuamente letterario. La letteratura sola ha il  vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo  se l'ignoriamo, di non abbisognare né di compimenti né di premesse. Cotesto privilegio però  non s'intende tutto, che prescindendo da alquante  restrizioni. Bisogna, in primo luogo, ricordare  che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i  guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che,  contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo  Annali dell'Istituto tav. Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica  scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (Philologische Untersuchungen, Berlin. dell'esame condotto intorno a quattro notevoli  miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee  omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser pervenute nella loro opulenza, il sussidio dell'arte  plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non  cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia  basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini  onde è concbiuso il concetto di letteratura: non  fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla  ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma  comprendendo nel vocabolo anche le manifestazioni più povere e grame, il racconto d'un  antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la  favola ciarlata fra i fedeli. Perché, se si considera nella sua ampiezza tutta questa saliente marea, che si diparte da bassissimi fondi ed  espugna ben erte rupi, pervasa da un assiduo  moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su  le forme come una legge fatale; se si scorge  il fremito creativo trascorrere in corsi e ricorsi  da Pindaro all'atleta, da l'atleta a VIRGILIO (si veda), da  l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa  e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca  di Diodoro e la corte imperiale di Roma, pervadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista  dell'età travagliose: si appalesa a pieno il  dominio, indipendente e incomparabile, che sul  Mito possiede la Parola.   Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime  su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre  originale, com'è sempre imprevedibile prima del  suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo.  E un castone che costringe il diamante ora a  smussare una punta ora ad arrotondare uno spi- f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto  e parlato, ne è una forma nuova che non si può  ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra.  In questo, l'arte figurata e il culto, a parte  la loro incompiutezza che si vide, somigliano  alla letteratura; ma, anche in questo, le restano  addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e  l'altro, non appena possedutala, una certa forma  e una certa versione d'una saga incidendola  per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la  parola ha una sua duttile mobilità, una sua  invitta energia innovatrice, che si tradiscono  nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsaj)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si dilunga intorno a Caco dall'Eneide, della quale  vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una  cosi fatta attività di dominio, come distingue  tra loro le forme dell'arte, cosi gradua le specie  letterarie medesime, ed è il criterio del loro  pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al  poppante innova bensì, che non s'evita; ma per  vero minimamente, a confronto dello storico e  del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo,  al paragone, e la luce ne devia cosi poco che  si trascura. La personalità della parola è quella  di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema;  o si invigorisce: e il mito ne riceve più o meno ] individuate le sue forme. Onde è lecita per comodo di ricerca, se non esattissima in tutto, la  distinzione in due grandi categorie, separate per;  una diversa potenza creativa, dei contesti verbali in cui la fiaba si esprime: nell'una stanno  gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi:  fecondatori.  Senza traccia, come senza nome e senza gloria,  rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori  menni. Non dispregevoli né pur essi, clie sono  la gleba rude, disprezzata ma indispensabile,  senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ripete. Sono del resto costoro, nella lor supinità  passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di  fantasia le fogge tradizionali, come utili a vagliar le innovazioni, che, diffidando, non accettano se non quando una forza geniale le imponga,  e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col  ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spettatori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi  le sorti delle loro creature, e che si serbavan  fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la  selezione e si conserva la vita. Cosi che quando  non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il  popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben  morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino  la resurrezione. Le radici sono inaridite. Ma non possono d'altra parte raccogliersi in  un solo tutto i fecondatori del mito: che la  energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal  volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un  creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che  ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad  arazzo. Verità di non poca importanza, come  quella che serve a spiegare, perché il mito duri  e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si  tace, o compia anteriormente all'arte uno sviluppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei  carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la  trasformazione profonda subita dalla fiaba aria j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nell’lnno a Ermes di begli esametri omerici: o  pmi'e il comporsi della saga siracusana di Demetra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né  senza traccia è rimasta, come senza nome d'individui, l'opera di cotesti facitori non artisti o,  per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi.  Ai nomi delle persone, clie mancano e non varrebbero, possiamo sostituire quelli dei centri  onde il moto di elaborazione mosse e si propagò:  quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del  Foro Boario per il furto di Caco, Argo per le  imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa  messe, tra cui raro langue il ciano e il papavero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo  sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di VIRGILIO (si veda) il racconto di Ferecide. In generale, per  conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un  progresso rispetto alla mitologia . E tale asserzione è sempre vera, se intesa a dovere: perocché il progresso può essere istantaneo e compiersi nell'attimo medesimo della innovazione,  ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se  l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il  lavoro mitologico di un predecessore o crei esso  medesimo la saga che contamina le pretese dei  Battiadi con la spedizione degli Argonauti al  lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva elaborazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'elaborazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mitologica dalla mitopoetica che sola ha pregio  estetico. verità elude con volti ambigui i nostri occki  incerti. Ma se, come si ritiene meglio probabile,  la contaminazione balza insieme con il ritmo  dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata  sorte, il gusto estetico coincidette con la vigoria  generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente,  non raro; ed è ben motivato dalle premesse  nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo raccolga in un racconto su Perseo il mito tessalo  e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi  jonici, che si dissero sopra, stringe membra  prima incoerenti in tale organismo d'intuizione  unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso  riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer  quello col verso; se appaja egli stesso anche  mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio,  che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembrerebbe quasi insolita la contingenza, in cui al  più dell'intuizione non rispondesse il meglio  dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno  che non sembri, a causa dell'indole propria di  ; talune stirpi e della natura speciale di certe in[novazioni mitiche. Nel fatto, TRA I ROMANI è  [facilissimo che una fiaba si innovi appresso un  [arido annalista e che quindi scada dal carme  )opolare allo schema di un rozzo diario: tale  [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco  [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con[•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur  [senza avere alcun intento, si badi, di rasionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile  3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto  [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda  in una forma regrediente, che non attingeva alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un necessario margine a simili casi, per solito si varca  d'un salto dalla medesima mente il varco che  intercede, non ampio e non breve, fra la  innovazione mitica e la procreazione d'un'opera  d'arte. Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o  per maturità conseguita nel tempo, e attinto il  vertice più bello, si apre una serie nuova d'innovazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle  mitologiche. Ma un facile criterio le distingue  senza possibile equivoco. Le une hanno un fine  che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da  esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrittore, che altera la leggenda nel comporre, obbedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non consapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il  suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel  ritocco, mutar questo colore, adombrare una  figura, correggere la prospettiva ; il pubblico speciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli  dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di concedersi certi accenni e taluni richiami, di sviluppare più ampiamente una parte. Per contro il mitologo, che è tale prima d'essere artista, tende  a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggendario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigorosi rami, e a quello procura di recar contributo,  adunando, intorno a un nome di eroe o di nume,  tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una  mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare  le pretese di due luoghi intorno a una Dea, si  chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per  esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per comprimere mia città avversaria, quale Tera; per  lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico.  In ogni caso, muove da esigenze che non sono  quelle del suo tema letterario, né consistono nel  tono d'un poema su Enea o d'un canto su le  Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indirizzo mitologico.   I due ordini d'innovazioni però, pur essendo  tanto ben distinti nel fine e nell'origine, esercitano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'imagine che rende la loro reciproca condizione, è  quella della pila voltaica ove il succedersi alternato dei dischi di rame e di zinco permette lo  scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito difatti non potrebbe entrare in quel componimento  letterario ove deve alterarsi, se per effetto della  sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse  conseguito già un certo stadio; e per converso,  poi. il colore diversamente sfumato dall'arte  la variata prospettiva sono a punto cause  che permetteranno ad altro mitologo l'aggiungere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del  popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo  il suo senso allegorico antichissimo, per assumerne, a gradi, uno storico ben diverso: allora  solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano,  e il gruppo delle etiologie incunearsi nel racconto. E allora solo la fiaba di Perseo e Andromeda è matura per una interpretazione psicologica e sociale nella tragedia, quando il  mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la  Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica  l'altro; un passo prepara il susseguente: non  importa se i fini del primo non sieno per l'appunto quelli del secondo. Anzi, perché, come si  vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta  in una con la innovazione mitopoetica, lo storico  resta esitante, in quei casi, prima di decidere da  quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi  la precedenza, non nel tempo, ma nella responsabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga.  Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in congettura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia,  per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo  di chiarezza genealogica e armonia anagrafica,  identificato primo Persefone con Cora. I confini  sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ritrova chiare le sue vere cause. Questi casi ammoniscono lo storico a cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad esporre  l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico  pagano. Da due radici trae vigore la mitopéja al suo  arricchimento progressivo e al suo lungo variarsi:  dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta  negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa.  Curiosità scientifica, senso del divino, intuito  dell'uomo e della natura, immanendo nella saga  costituiscono costantemente altr'e tanti tentacoli,  che attirano verso di essa i prodotti del più  maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito  di contemplazione umana e sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali  son sorte non da uno sviluppo delle primissime  antiche, ma da un superamento deciso di queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnovamento si comijie entro certi ampi limiti temporali. Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto del  medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura,  sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito:  nuovo, se pur non profondamente diverso dal  complesso dei suoi analoghi. E il fermentante  rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici  che il suolo ferace esprime da sé, per l'esuberanza della sua forza, in unico impeto con le  roveri e i pioppi. Si che le figure si moltipKcano  disponendosi l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si  addensano e s'intrecciano, uno appresso all'altro,  simiglianti e differenti, e si dispongono in racconti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome  personale, un peculiare suggello. La mitologia indiana serba traccia di questo pletorico groviglio  li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali, intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è  linore: perché già in essa sono sopravvissute  [unicamente le forme, in genere, geniali, cui la  [singolarità medesima apprestasse vigoria e resistenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò  stesso meno individuate, vennero assorbite da  pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche fra gli  lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che  man tutti il medesimo sostrato naturalistico, di  [Eracle nell'Ade, di Eracle contro Gerione, di Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gorgone, di Perseo contro il ketos, attesta l'antichissima fecondità originaria in favole dissociate  per minime differenze, per esigui e mal certi  confini, e prova anche come la mente creatrice  da sé e dalla propria stirpe sapesse a ciascuna  derivar notevole forza di vita e non scarsa energia  personale. Di questo periodo di creazione mitica e di  moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio  additano gli ultimi, e non miserevoli, bagliori  tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età difatti, che l'occhio della storia può riguardar  sicuro traverso poche nebbie^ la letteratura mitica si accresce della fiaba duplice di Cirene e  della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi  vigorose e determinate che non possono in verun  modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia né  Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi  tutto, perché non escono, se bene adorne poi,  dall'arte, di stupenda efficacia poetica : Pindaro  Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne dorate su la loro cetra, non escono da un bisogno  lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un  fine pratico, in grazia del quale soltanto sussistono, ma a malgrado del quale splendono di  magnificenza. Per ciò non creano, ma compongono elementi noti, sfruttando intrecci anteriori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il  lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero,  e dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e  dei coloni giunti da Tera sul luogo del dono.  Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge  presso la palude Ciane, non sono se non le sosti  l'evoluzione della mitopeja letteraria tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle  forme d'un antichissimo racconto greco. Singolari apparizioni mitiche queste, adunque : nelle  quali si unisce un cotale spirito di riflessione,  un quasi gretto senso di praticità, con una indubitabile freschezza creativa, un abbandono languido di sogno. Questo permise il loro travestimento poetico, e cosi grande permise che i  razionalisti antichi non s'accorsero punto dello  scopo politico e materiale onde le belle fiabe  che gì' irritavano erano mosse; né se ne accorsero, prima che sorgesse il metodo critico moderno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono  in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno  ricchi racconti. Tuttavia, in quel senso di riflessione pratica è il non dubbio indizio che il periodo in cui si moltiplicano i miti è per finire.  Esso si estenua, per vero, in bolse invenzioncelle,  in genealogie stremate, in giuochi etimologici  trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi  in favolette che pochi eruditi ripetono; rivendica il passaggio di Perseo per Micene ove  egli avrebbe perduto il puntale della spada  (ó /ivxt]g); attribuisce a Trittolemo discendenza  argiva; spiega il nome dei Pinarii pel dover  essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù),  ho fame). Poi muore.   Entro i limiti di tempo cosi largamente segnati, profondo e vasto è il rivolgimento. Pausania. Servio Comm. a VIRGILIO (si veda) Eneide In apparenza, tutti coloro che trattarono letterariamente le fiabe della nostra ricerca, le  considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal  volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di  caso in caso, la celebrazione di una vittoria ginnastica, l'ammaestramento georgico, la metamorfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza  d'una festa, il vanto della preistoria romana :  mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di  Euripide lo scopo vero è altro da quel che la  leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)atibile con essa, ma ad essa imposto mutandole  il suo contenuto. L'interesse per la saga non è  quello primigenio della intuizion naturalistica  onde nacque: è, nei varii letterati, vario. Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si  conferma con tutti i testi del nostro studio, per  non dover essere tenuta in somma considerazione. Ma ecco che la realtà la contrasta duramente. In tutti i carmi letti, in tutte le prose,  il mito entra non di straforo, si per le spalancate porte: signore, certo del dominio che nell'interno lo attende. Delle Pitie è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia;  la sostanza dell'elegia properziana. Nel libro  d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato  anche in certi j)articolari minuti: ospite sacro  che Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto. Non importa che Callimaco sia molto breve nel cenno alla saga di Cirene: i pochi tòcchi bastano  perché gli elementi essenziali delle due leggende  contaminate appajano totalmente. Fin in Livio. Fin in Dionisio. Si contraddicono, dunque, le  cause e i modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della mitopeja letteraria mito: controversia intima a Kalypso. Controversia, da cui derivano e gli acquisti letterarii  della saga e le sue letterarie deformazioni; clié,  violata da interessi nuovi, cui già era estranea,  per quanto con tutta la preponderanza della sua  congenita foga imponga le sue forme, è costretta ad accettare, dalla sede che l'ospita,  le luci.  Su la soglia, le si fanno incontro, e prime la  intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella  il popolo par condensare, con la propria esperienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi  fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici  delle fìgure che muove la sorte comune. Per  essa, traverso la fantasia delle masse, come attraverso un vaglio singolare, il complesso (ad  esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme  delle vii'tù e dei vizii che in genere presso  quelli si riscontrano, affìnansi in una selezione  di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella  sintesi di un personaggio tradizionale con tradizionali pregi e difetti: il pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come  suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il  figlio non suo. La novella è dunque, per propria  natura, pregna della medesima umanità che, nel  mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le  creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano  a volte come nate da unico ceppo. E si accordano quindi, sovente e bene, in un medesimo  testo: tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua  affluisce cosi nella saga che del pari riflette, da  le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non, però, riverbera simileraente la vampa solare, né  vi si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde  durante la divina estate: si che il volume fluviale acquista potenza di voce che s'ode da  lungi, vigore di empito che infrange le sponde ;  ma divino di stelle e di selve men vi trova echi  e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito  e novella il principio dell'abbassarsi quello verso  pianure terrene e dell'adattarsi a stature umane :  in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del  tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che  più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago  velame d' irrealtà favolosa soffonde pur la novella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ;  accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura  mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe.  E a questo si deve a punto se di eroi sono  i miti. Quando i lor personaggi non sono  stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara  dell'alta e intiera divinità, allora il nume protagonista della saga, e il vecchio vecchio vecchio che i novellatori esagerando desumono  dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il  piano istesso ; fin che anche il piccolo rito locale,  se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce,  non trovando altrove favori, con l'estinguersi o  diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia,  era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma, per  ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pescatore e le vecchiarde Graje, il tempio chiamavasi, né si ricordava nome diverso, tempio  di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua società il mito; ed entrambi corteggiano il popolo  illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie  l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui,  ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un  meglio: gocciole di piova che rifrangono il Sole. Nella cortegiania è terza l'invenzione etiologica, intenta a cercare la causa del fatto umano. Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in  cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la  causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco  distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il  ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito  erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scientifici appajono per tal guisa paralleli nei due  fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti  gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per  causa del fatto il fatto medesimo, correggendo  solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accompagnano. La fiamma muta contorni divenendo  Caco e serba immutata la sua potenza deleteria.  E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta,  identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La  giunta sta nell'episodio umano e abituale : il  costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei  Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leggenda integra per un lato quel suo volto che  par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue;  secónda per l'altro quella sua tendenza che si  origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. Questo tributo però non è solo copia. Rappresenta anche una riserva di potenze e di sviluppi,  che si determineranno in varia misura a seconda  dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un  poeta, un romanzatore, uno storico, e i diversi  individui entro queste diverse categorie, ne trarranno spunto alla lor compiacenza differente. E  questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che  si disponga a fronte del più vero e antico nucleo  mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per  ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etiologia in ombra a mala pena schiarita. Properzio,  il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto  di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura  insieme con il deformarsi della saga sotto l'influsso dei molteplici interessi cui la fa sottostare  il cuore infaticabile e travaglioso ch'è nostro Cosi il patriottismo adultera il mito; e per  vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo  ritocca o accresce. Poi, gli dà un contenuto storico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro  mostruoso di tempi antichi; Euripilo un re di età  lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della  porta infernale è perduto, perché una storia fallace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato  naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato  storico; o fa prevalere questo su quello, ove si  trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme  con il complesso dei particolari cristallizzati, il  rapporto tra i protagonisti, però che il favore  patrio si trasporti tutto per l'appunto su l'eroe  che qual Dio aveva, nel primo significato, combattuto le tenebre; e l'odio nazionale si accumuli  su la figura che era stata, nel primo significato,  ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leggenda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto  questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto  favorevoli al serbarsi integro della saga. La psicologica o la sensuale posson compiacersi del l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e  della intelligenza clie li accomunano. La patriottica no: deve preferire, deve parteggiare: rida  al mito un sentimento, lo riscalda con un calore  affettivo che, dopo la sua origine, gli eran divenuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi  efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e  Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è  il nucleo effettivo: la simpatia dei coloni per  il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano,  e la protezione perenne assicurata dalla coppia  divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello  scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua  che il patriottismo di Callimaco crea indelebilmente: la statua del giovine Iddio che accenna,  sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze,  onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle  libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con  la vita della sua stessa radice. E quando un  brivido di fervorosa simpatia scosse gli spettatori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di  Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla  sorte che in allora il Fato volgeva su la città  marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio, Dio, qual era da prima, splendido al pari del  Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito  di innamorata estasi simigliante a quello che fu  verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo  mito s'era originato in una mente ingenua e  profonda; se mai si creò, fu l'anno 412 sopra  una scena greca, auspice l'amor della Polis.  Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e  di vivezza. Il senso religioso è, già si vide più volte,  intrinseco al mito, che anzi se ne informa.  Esiste fra i due concordia come di gemelli. La  quale si svela però non molto jjrofonda. Le si  oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma  uno solo, fra i caratteri della saga; ch'è ben piti  ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è  elle il carme inspirato alla fede tende inevitabilmente a sviluppare un membro della leggenda  a scapito degli altri, tende a farne vibrare una  corda sola. E la contemplazione del mito da un  punto vicinissimo, ma cosi accosto da non permettere più che una visione unilaterale. Tal  incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il  mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza;  non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua  crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di  immutabilità. Somiglia la formula d'un culto,  che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo  l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in  vece sono di lor natura non statici, ma energici  d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita  stessa in una delle sue sublimazioni migliori.  Presto, raggiungono, se non presso tutti,  presso talune menti alte al meno, presso l'inspirato poeta della fede quasi sempre, uno stadio  superiore, e forse di gran lunga, a quello onde  il mito si generò. E allora v'è contrasto. V'è  bisogno di eliminar una figura, di scemar la  crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere  umano al cordoglio d'una dea : si deve informar  il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò appresso Pindaro Chirone esita e sorride e si atteggia a loico furbo, prima di dir la sua profezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare l'evoluzione della mitopeja letteraria leggendario rimane, non alterato; ma il pensiero  critico lo discute e ne dubita: che è in apparenza guasto minore, maggiore in realtà. Per  quel modo, difatti, lo spirito cessa di riviver la  leggenda immergendovisi: la projetta lungi e  fuori di sé, se la contrappone: per qualche  istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo.  Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che  ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos.  Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede  alla saga: il tradizionalismo mitico e il modernismo religioso scendono a un compromesso: e  possono, fin che sono entrambi avvolti da una  atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi  avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della  Chiesa si rideranno dei miti: e vi rinverranno  l'indizio d'una religione povera e bambina. Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle  origini, nel mito l'elemento sensuale e il psicologico. Poi che i fenomeni della natui-a si vestivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il  mare acquistavano volti membra ed atti nostri,  essi divenivan senz'altro passibili di figurazione  sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel  campo della psiche. Analizzare e graduare i sentimenti di un Perseo non è se non completar  l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro.  Perseguir con compiacenza, nelle particolari  movenze di grazia femminea, Cora mentre raccoglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le  brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate intorno a Cirene nelle case cristalline di Penco,  non è che un rinvigorir di sangue, spremuto  dalla profonda voluttà umana, le creature cui  KALYPSO da un sesso il mito. Se non che, anche per  questa via la fiaba si trasforma: essa diviene  un modo di dire, una frase efficace per significar un pensiero o una intuizione, una forma  vuota, per sé, di contenuto che si riempie, adeguatamente, a volta a volta. Perseo, è l'esempio  già scelto, può vestire di sé e delle proprie  avventure esteriori un ideal personaggio di Euripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di  molti individui. Cora, è l'esempio già usato, si muove con la leggiadria un po' stereotipa  della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla  eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è  penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fittizia, perché non è la prima, antica e vera. Per  ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le compagne di Cirene da un repertorio di nomi; e  non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a  un colore, non svela una persona. Demetra che  piange, e di cui si regola il pianto con magistero  di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era  anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce  il bisogno di sminuire, se non proprio sopprimere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare  fra Andromeda e Perseo una scena novissima, di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce persino la spiacevole inopportunità dell'intervento  di un Nume, in sul finire del dramma, per sciogliere, con atto oltreumano, una situazione divenuta umana. Accanto a questa, che la psicologia e il sensualismo gittano sul mito, è singolare la luce  che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura  personificano e di cui con la loro vicenda rendono il fenomeno, dovrebber trovarsi più agevolmente. In pochi in vece si altera e deforma forse  tanto la saga. La Dea delle biade non domina  su la vegetazione lussureggiante, non vi regna,  qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del  quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra,  ma in mezzo alle messi che significa e possiede:  parte d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpresentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che  si duole nella valle di Tempe, maravigliosa  di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un  privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni  antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è  per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il  passo similemente. La cintura dei monti lo comprime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attraversare i regni del nonno, le sedi di cristallo,  gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi  ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre  ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro  della natura acquatile e pastorale che af figurano, ma una cosi fatta magnificenza è concretata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo  con perpetui doni ; li circonda non li costituisce. La bellezza e il primato sono altrove che nelle  persone di entrambi: nella Natura, effettiva  protagonista, cui convergono lo slancio del poeta  innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si  direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed  è vero: ma colà la Natura riprende il posto che i suoi impersonati rappresentanti le avevano occupato.E una restaurazione. Dalla sorgente, in vece, è lontanissima l'erudita sapienza di Properzio. La leggenda diviene,  nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi  con un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio,  nel nostro studio, di quanto essa possa, senza  scemo di pregio letterario, stremarsi della sua  vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte  si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La  qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto  al mito sia cànone più severo : per crescere al  magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa  agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son  tramutati i tempi.   Più in là, si ritrova, fra più ampio volume  di carte, in una più chiusa austerità di ambienti,  la Storia. Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme.  Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce  troppo da LIVIO (si veda), Livio da Diodoro. La lor critica  e il loro metodo sono diversamente insufficienti.  Ma un intuito comune li induce a sopprimere,  nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di  certi silenzii, pel fine di non arrecare una stonatura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio  che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono  alle loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i  Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non  hanno ancora una storia per sé, si adattano in  quel letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual  le raccorcia, esuberanti come son sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro incoercibile vitalità. Uomini culti, che posseggono  la lingua, conoscono il passato, partecipan col'evoluzione della mitopeja letteraria scienti al presente del loro paese, pur avvedendosi del carattere favoloso di taluni racconti,  pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono  impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con  l'espungerli da gli scritti che compongono. Livio  giunge persino a dichiarare in anticipo che non  vuol esser chiamato responsabile di quanto narra  per gli antichissimi tempi; ma narra tuttavia.  Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),  il vero che si cela sotto il velame; ma riproduce tuttavia il velame. Del fenomeno una spiegazione sola è possibile: il pubblico esige la  parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio  patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che  non ammette si ignorino le origini prime della  propria stirpe, le vicende antiche della propria  città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti;  che si sente sodisfatto, assai piti che dal  contenuto stesso della fiaba, dalla sua forma  di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi  meglio della realtà; che ritiene di non poter  conoscere la vita dei padri se non traverso la  tradizione eredata da essi. E la consuetudine:  ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto  la specie del misoneismo, alla ricerca innovatrice  del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'ortodossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un  nuovo pensiero religioso o FILOSOFICO. Tucidide doveva saper di spiacere quando negava un nesso  fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli  Odrisi signore di Tracia; ma era da lui l'afTucidide frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di  fatti la vigoria d'una tale niente può bilanciare  la resistenza che, per tradizione patriottica, è  insita nella leggenda. Che se parallelo a tal risultato appare l'effetto  dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni  però sono distinti. Il poeta, che canta la saga  patria, o nella saga introduce opportuni accenni  alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal  cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e  il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato:  sospira il presente nell'antico, e sotto le luci  dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe maestosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del  re savio regnante Evandro: imagina la spada  del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole,  contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo storico in vece accade appunto l'opposto: per lui,  il mito emana su su dalla storia, come una causa  su dagli effetti, una premessa su dalle conseguenze: j)er lui il mito è una preistoria, una  motivazione. Il nesso genetico di causa ed effetto, ch'è insito nella storia ancor quando si  manifesta sol grossolanamente in un nesso di  precedenza e susseguenza cronologica, orienta  nel suo indirizzo anche la concezione della saga,  e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è  per lo storico in vece un dipendere causalmente  del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la  lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un  rito di carattere greco, e la leggenda dei Minii  e di Tera e di Batto è una necessaria e sufficiente premessa alla storia cirenaica. Per questo valgono : perché giustificano. E il loro valore di  motivi è cosi grande, che si accettano come  ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la  fede su la veridicità del lor contenuto.   Si fatta deformazione del mito, per cui il carattere etiologico di taluni suoi particolari e,  qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il  nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,  segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle  origini. La saga aveva avuto negli inizii importanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi  in parte nel culto, e i bisogni scientifici; superavali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi  un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta  officio consono alla sua natura; tanto che, pur  connettendosi con etiologie cultuali, mantenne  su di esse il suo primato di bellezza e di forza,  presso poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando  alla fine si trasforma nella pura e semplice  causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini,  cessa dalla sua indipendenza, acquista un che  di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso  tra le fantasie. In seno al possente spirito mitopeico letterario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto  della nostra recente esperienza, talune tappe ed  erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un  continuo nascere maturarsi ed estinguersi di  saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte  e di vita cui sottostanno gl'individui umani nel grembo dell’umanità, che s'è originata e deve  a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso  è libero ; non perché non lo determinino sempre  forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio è  schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo  disegno; ma perché nessun nodo della contessitm'a è prevedibile, prima del suo stringersi, o  analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi  è del pari degno d'istoria; v'accade regresso  in rapporto al livello mediano della mitopeja, e  anche progresso: entrambi in diverso modo notevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte,  ch'è comune a quella ricchezza divèrsa. Il mito, ciò è, ha due vite; o forse vita  duplice. Una è la sua più propria: e consiste  nella capacità di evolversi, di assumer forme  nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in  individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra  è la vita di ciascuna sua forma di ciascun individuo: della Pitia, dell’Eneide, della lirica properziana, del racconto di LIVIO (si veda). Uno stadio dell'evoluzione non elimina  i precedenti, né li comprende solo in potenza,  ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà  concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste  due vite pare uniformarsi a leggi diverse.   La vita seconda, delle singole individuazioni  mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale  s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii componimenti e il sopravviver loro. Onde il carme  d'un poeta non affiora alla superficie che per la  strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu  più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche  tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che all'altro il primato, con decreto che non si discute e che finisce col condur, tal volta, a prevalere una redazione e col tramutarla in volgata.  Fa cosi Pindaro per Cirene, VIRGILIO (si veda) per Caco,  Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori  d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni  effettiva consistenza di strati e importanza di  varianti, le narrazioni di pregio artistico inferiore si aggruppano intorno a quella cui più  riser le Muse, come forme incompiute d'uno  stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra:  di bellezza. E da tutte in selva risplende il  mito. Tra questa folla non è morte, fin che sieno  occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi perenne la vita, perché ogni forma è capace d'impulsi, e nella diversità degli spiriti sono imponderabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il seme  dei sopravviventi miti; e la virtù della razza,  che diede la passione onde nacquero ; e la virtù  del suolo del cielo dell'aria dell'acqua del fuoco,  che diede la materia onde si fusero. Di li ritornano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta  all'anime come iddìi giovinetti e belli: fantasmi  radiosi ai nexDoti nella veglia nottui-na.   La prima vita in vece non è né cosi varia  né altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa  secondo una linea chiara. Durante lo svolgersi  della quale però, ed è sua prima peculiarità, permangono al mito, quasi irrimediabili stimmate, i segni che furono del suo nascimento: resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Cirene, che sorse imperniandosi su la Libia e la  Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lontane la sua sorte ; e par che fino la più profonda violenza recata al suo schema confermi quel  carattere regionale. Similmente, per essersi formato sopra un compromesso e in una contaminazione, il racconto siracusano di Cora rapita  si mischia, negli anni, in una sempre più larga  massa di favole. E allo sviluppo di Caco deriva  modo storico e religioso, quando prima s'insedia,  col suo nome, la sua memoria nei pressi del  Palatino. Anzi, il vero inizio di un mito, qual  forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto  dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo  per sempre caratteristico. Onde la trama di Andromeda non è da vero compiuta, non pure nei  particolari esteriori, ma e nell'essenza più propria, se non allorché gli spunti novellistici si  immettono nel contesto naturalistico, a preparare per l'avvenire la triplice serie di innovazioni, psicologiche romanzesche e religiose.   Quasi entro gli argini cosi definiti si muove  la corrente del tempo. E di mano in mano che  la storia della paganità procede, che il pensiero  pagano si trasforma, anche la saga è amata  sotto aspetti differenti. Demetra e Cora son narrate con intenti di gran  lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspirano Claudiano e l'età sua. Ogni generazione  distende sul mito una propria vernice: che è un  particolar modo di vederlo. A noi poco è j) ervenuto di questo stratificarsi perché non ogni  strato ha lasciato la sua traccia letteraria (e  artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando,  in sintesi rapida, il processo spirituale del mondo  antico : a ogni tappa corrisponderebbe, se la ricostruzione fosse riuscibile nei particolari, una foggia mitica, e sia pure a pena diversamente sfumata dell'anteriore, o a pena diversamente  disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di  esse, nesso causativo, porremmo la sintesi creativa per cui l'intelletto comune, innovandosi, si  è superato. Il caso opera poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in mente di trattar  l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto  il suo proposito si potesse tradurre in atto ; che  non esistesse un grande poeta quando il mito  di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di  caso, perché a volta a volta risulta dall'interf erire  di due linee causali la cui interferenza non consegue da nessuna delle due premesse. Dal caso  pertanto deriva, che non tutti gli strati della  evoluzione mitica hanno " lasciata traccia letteraria (e artistica) „; e che qualche strato ci ha  tramandate tracce più profonde e più varie. Del  mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra  due trame sostanzialmente diverse, la pindarica  e la erodotea; il quarto non ce ne concede alcuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tramanda ben cinque quadri con varianti colori e  linee; l'età di Giovenale nessuno. VIRGILIO (si veda) irradia del suo patriottismo il racconto, Properzio  della sua raffinatezza, OVIDIO (si veda) della sua sonora  compiacenza verbale, LIVIO (si veda) della sua ingenua  critica, Dionisio del suo impotente razionalismo;  ma queste luci tutte scaturiscono dall'opere  complessive nelle quali esso viene inserito e  dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava  che altre ne potesse assumere e che ancor taluna  di queste potesse non aver assunta.F., Kalypso. Attinenze fra l'evoluzione spirituale complessiva stratificantesi sul mito, e le forme casuali  della leggenda, esistono visibilmente. Il modo  con cui i posteri di Ferecide di VIRGILIO (si veda) di  OVIDIO (si veda) di Callimaco amarono e ripeterono le  saghe di Perseo di Caco di Cora di Cirene  deriva, come dalla trasformazione compiutasi  nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle peculiarità dell'arte con cui quei letterati, dopo che  il caso gl'indusse a eleggere la fiaba all'opera  loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra  quella che dicemmo trasformazione del pensiero  collettivo, e questa che potrem definire energia  plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali  d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela  letteratura d'una generazione compie su la generazione successiva, non sono se non alcuni  degli effetti che tutta la mentalità della prima  compie su lo spirito della seconda. Vale a dire :  il fenomeno mitico-letterario avvenuto per l'interferenza casuale di due linee causali riprende,  fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa. Indi si spiegan anche, facilmente, le morti  dei singoli miti: quelle pause del loro evolversi  per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano spinti alla trasformazione né si riprende che  tardi, quando oramai è chiusa a sua volta la  mitopeja pagana. Non è dubbio difatti che una  saga qua! siasi continua, più fioco più intenso,  il suo respiro fin che il genio mitopeico è una  operosa realtà. Ma per l'appunto quel che diciam caso fa si che le manifestazioni letterarie  di ciascun mito si arrestino a un certo punto,  oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non più sonò il canto. Prova tipica, che non ve  n'ha forse più palmare, è la storia del mito di  Caco: languido già in quel torno di tempo che  segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se  bene seguano ad  OTTAVIANO (si veda) epoche di culto intellettuale di esumazione erudita di compiacenza  artistica in cui l'abigeato violento e fumoso  avi'ebbe potuto, possibilità vana, trovar  non manchevoli espressioni. Persino i germi  dissolutori insiti nel testo di VIRGILIO (si veda) e, più, d’OVIDIO (si veda) e, peggio, di Dionisio, tolleravano sviluppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe  mancato, di cui in vece manca fin l'eco. Opposto ammaestramento porge la fiaba di Cora e  la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre  sotto il cielo d'Omero si levavano vie più frequenti i crociati segni di Cristo, tenta di possedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma  il crollo dell'edificio male eretto non travolge  pure la perizia artistica di un uomo, pare in  vece che si ripercuota funereo fra peristilii e  celle dei templi cui men frequente stuolo di  fedeli e men pio animo di sacerdoti rende l'omaggio: già che, allora, la mitopeja pagana  sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso terminando, quindi, in questo secondo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,  l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge,  del pensiero collettivo e delle passioni. In  un rosajo si sfanno di molte corolle senza che  scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa  pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il  settembre, con cieli più chiari e men caldi, gli  ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cortecce aride su stecchi rigidi, e odore di dissolvimento è nell'aria: il cespo si addorme nell'imminenti brume.  Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che  non è scomparsa, ma fine di produzione. Cessando d'immortalare afferma la sua mortalità. L'agonia comincia con un periodo di riordinamento, in cui i miti non si moltiplicano  ma si assommano, e che è già iniziato quando  l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del  resto, le stesse qualità psichiche proprie dei  Greci: di ordine di armonia di chiarezza. Qualità che furono per fortuna, nel principio, assistite da una levità di tocco e da un rispetto per  quanto è bello, i quali impedirono che le si tramutassero tosto in ruvida villania distruggitrice  di fiabe. L'esempio più notevole ci fu offerto,  in queste pagine, da chi raccolse in unico contesto tutto che si riferiva a Perseo: la novella  della sua nascita, cui è congiunto il fatale assassinio del nonno, la lotta contro la tenebrosa  G-orgone, il duello con la belva del mar etiopico. E un'attività solerte e diligente, cui poco  sfugge, e che ogni occasione cerca per compiere,  compaginando rinsaldando, la sua galleria di   dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo   della verginità comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E sovra  tutto venera e tutela sempre i miti che riordina.  Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta  né meno. Al contrario, tal volta crea: inventando, per unire due leggende, un passaggio  accorto ; dissimilando due fiabe troppo visibilmente sorelle, a fin di poterle narrare Funa appresso l'altra senza ripetizione uggiosa; imaginando una circostanza, per colmare un vuoto;  innestando un particolare nuovo su altri più  antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma  verbale perché a cotesti ordinatori di miti non  cada nel pensiero di trovarle un posto nel racconto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella  del ladrone, e spia dell'abigeato. Andromeda è  il troppo trasparente riscontro di Atena a canto  di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo,  perché non abbia a essere (e con questa altre  cause v'influiscono per diversa via) trasformata, e mutata in amante. Affinché però un cosi fatto procedere si mantenga utile, è necessario, da un lato, che le varianti da comporre in ordine intorno a un mito  non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili  di forma; è necessario, dall'altro, che l'amoroso  rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col  cessar di queste due circostanze l'attività assommatrice prende a divenire impotente, perché il  suo compito s'è di troppo accresciuto, e deleteria,  perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo  motivo essa si riduce a una compilazione che,  come presso Apollodoro, deve limitarsi a citar  le varianti inconciliabili con la volgata, a ricordar Demofonte per preferirgli Trittolemo,  senza riuscire né ad eliminar quel d'essi che sia  soverchio né a superare il dissidio contaminando e creando. Non anche creando : però che la forza  creativa scompaja in una colla simpatia concorde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito  diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo  scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà  tenace il serbarne i modi e i nomi di persone  e luoghi. Ora, quando il mitologo ha esausta la forza  inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza  delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla  forma di esse, ai j)articolari, cioè, il cui variare costituisce fogge nuove della saga, e persino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua  credenza si sposta: non può più, come nel prin-cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha  una redazione di ciascun mito cui sola presti  fede, ma di ciascuno ne scorge parecchie : deve  in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la sostanza, su quel che, in breve, è comune, oltre  ogni variante. Le vesti si mutano sotto i suoi  occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto  somiglia quello che segue alla deformazione  storica del mito. Quando difatti l'artista non è  più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze  ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad  eleggere un suono per ciascun colore; quando  della fiaba interessa il fatto ch'ella contiene,  per la storia, e il fatto poi vale come causa:  allora le vesti adorne e diverse cadono; importa il corpo. Ed ecco il razionalismo dare,  in entrambi i casi, una veste nuova a quel  corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più  seria e dignitosa. Il mostruoso aspetto di Caco,  la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al pascolo, il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto  il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto immane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due,  e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la compiaciuta furberia del loico intesse un'altra sua  trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itinerarii con le norme d'età posteriori, concepisce  le tempeste invernali proibenti il tragitto alla  flotta erculea: crea una fiaba nuova su l'antico  scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi, cosi, dalle stanchezze della mitopeja, come un sentiero costrutto su scorie, il  mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita  non fosse troppo tarda. La saga di un Ercole  errante per monti e piagge, in imprese di cavalleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi,  non minore forza di vita che la leggenda dell'eroe solare. Quel che le manca è l'aura d'intorno:  per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non  è ancor morta, quando essa saga si forma; e,  rimanendole al fianco, le è assidua pietra di  paragone. Per superarla e sostituirla, la saga  deve difendersi discutendo, far valere palesi le  sue origini logiche non artistiche. Onde il suo  vero e mortale scapito: però che la logica  chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa;  l'arte, fra gli antichi in ispecie, d'essere imitata.  Quindi è che il razionalismo non genera figli  morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col  soffocarle di greve afa, le sue creature fin dalla  cuna. A questa capacità distruttiva, che il razionalismo rivela a suo proprio danno, non corrisponde  una eguale potenza deleteria per le belle favole:  che diviene esso della fiaba la foggia estrema. Né pure allora si serba indipendente; vive anzi  come un parassita accanto ai testi dei poeti e  degli storici. In tarde età riflessive il lettor di  Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro fantasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del  suo sostrato. Dice: due eserciti si son combattuti nel Lazio, condotti da Ercole che vinse e  da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace esprimere altrimenti il fatto, approfittando della sua  libertà „. pure dice: Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo  significa il vate con frase adorna „. E, se ha  sensi di gentilezza, s'india nell'espressione libera  e nella frase adorna. Il razionalismo gli ha fatto  da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito.  Ciascuna leggenda avrà molte di queste giustificazioni; qualcuna ne cercherà in vano; tutte  ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in  cui la saga vive, soccorre, pur nella sua esigua  e stentata energia, le forme più antiche, più  belle e da più possente alito nate. Malefica è  appena quando in una mente rozza, distruggendo  intorno a sé, predomina sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i  motivi del morir la mitopeja pagana. La favoletta pretensiosa del razionalista è tutta contenuta nell'ambito di una esperienza soda della  pratica umana: prova, l'esercito eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non  possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento  umano; non delle esteriori fogge sociali, ridotte  per quello a poche linee sommarie e a rapporti semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri  intimi all'anima: giacché nelle prime porta il  razionalismo una imaginativa più nutrita e più  competente, consona ai tempi progrediti e agli  instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una  certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile  acume del psicologo, è sopra, d'assai, all'ingenua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa sua prestanza su la leggenda, il razionalista non  s'avvede d' una inferiorità che la compensa: smarrendosi in lui pur ogni traccia del fenomeno naturale come potenza che trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e di  moti, come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti aspetti ha, quando il razionalismo regna nella mitopeja, trovato ad esprimersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può  quindi, e deve, venir separato dalla saga, in cui  né anche l'uno dei tre vien più avvertito, se  non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evidentemente, dunque, è venuta meno la condizion  prima ch'era stata già bastevole e necessaria al  nascer dell'attività mitopeica; la condizione per  cui lo spettacolo della Natura, nel punto che lo  spirito umano lo assaliva per esprimerlo in sé,  non disponeva per cotale manifestazione se  non d'una imprecisa conoscenza degli avvenimenti umani onde era, nel suo grosso, assomigliato; la condizione senza cui la spontaneità  mitologica si allontana nelle tenebre d'un pretèrito memorando. Se non che la fine della spontaneità mitologica, che cosi si spiega, non è la fine dell'interesse spirituale verso il mito, interesse dal quale trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Vedemmo fioriture minori di saghe in forza di questo interesse; tanto  forte ancora nelle masse da indurre regnanti e  poeti a foggiare e contaminare fiabe per accrescimento di lor potenza e di favore. Più tardi,  se non induce a creazioni novelle con l'imitare  le prische e il ricomporle, spreme però nelle  guise più varie, secondo i gusti più diversi (seguimmo nei particolari tal opera), molteplici  aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e  ogni aroma si esala in seguito a una alterazione,  e una alterazione ognuno prepara; e dalla vicenda vasta si conferma la forza vitale del  genio mitologico e del mitopoetico. Ma lo  storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti  oltre che nei modi, da questo adoperarsi dello spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega,  deducendo, dopo la fine della creazione spontanea, il termine della ripetizione devota. Difatti, ogni volta che un nuovo compiacimento  attrae l'antico verso la saga, quando il patriottismo lo lega ad essa, e la sensualità lo diverte  di essa, e la fede se ne turba, e il senso psicologico la scava; ogni volta, una virtù di quella  appare splendendo, e si esaurisce vanendo:  perché, al pari d'ogni passione, patriottismo  fede sensualità, energie indipendenti e non faticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma  da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia  nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore  degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci  vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli  approcci si rinnovano su una su vénti saghe; le energie si succedono, ad una due, a due  dieci; il culmine si attinge in cui il groppo profondo dell'anima è uncinato dal mito: ma poi  la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse,  e canti di altro suono si intonano in loro servaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili  si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene  a poco a poco estraneo e si immerge in altre  creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui  l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a  foggiarsene e a riempirne un altro : maggiore.   E il disinteresse mitopeico: la seconda morte  che la storia deve registrare nelle sue pagine.  Non è, né pur essa, senza compenso; però che  una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando,  e come, e perché, non è qui luogo opportuno  a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi  fa opera d'indagine letteraria nei secoli più recenti e nel nostro raccoglie le tracce e cumula  le testimonianze della terza vita. Qui si elegge  la figura, tocca da melancolia, di Maurice de Guérin, che rivide con questi nostri occhi mortali il Centauro, avendolo i fragori marini e  l'albe di perla e le sere di ciano educato allo  spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine favolosa esprimere nuove bellezze poi che, concordando col mito nella sensibilità viva della  natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove  languiva la mestizia nata dalla coscienza della  propria debolezza in confronto con le cime sfiorate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro.  Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro,  che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe  e Driadi egli pure; eran però fuggiasche, e l'anelito del suo cuore si compose prima in sdegno  violento contro la presunta causa della fuga, Cristo, che in ammirazione amorosa verso le  bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo,  Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando  da l'albero, Non temere o uomo; e il rimpianto strappa biasimo fiero avverso chi più  non vede gli antichi numi italici: vivon eglino  pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi  entro le nari. Ma non è giusto il suo rimproccio; il cuore non si sfa nel petto come  frutto putre. A lui medesimo, che pure vi  portava, nuova, la sua sensualità ferina e torbida e tormentosa, il mito, creatura fraterna  alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implacabile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte magnifica e fin troppo cosciente della sua  maraviglia valgano a fermarlo un istante, né meno presso le ruine del tempio antico, e  l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne   tronche. Si allontana melodiosamente Perché? Eumene di Cardia, nell'età dei  Diadochi, sogna, innanzi  a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di  Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di  una corona spicea. Il di seguente i soldati si  ricingono tutti del segno augurale; e la promessa divina incita i cuori, come il calcagno  i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia  (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione fatidica in hoc signo vinces; e lo sprone è uguale. Eloquenza del fatto minore! Nei petti si muta la fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le  credenze adusate e (è la forma di scetticismo  lor propria il mutare credenza) altre ne accolgono al posto; scompare l'aura benigna in cui  si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il  terreno fecondante ove ne penetravano le radici.  E accade che il valore religioso della fiaba, il  valore che sembrava, ed era presso molti, scomparso e ottenebrato, si riafferma non per ravvivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distruzione. G-li eroi non avevano cessato di essere, nel profondo delle coscienze, al meno, iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati,  di mano in mano che la Divinità si schiarisce  e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con  Demetra. Il resto opera la scienza. Non la  nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma  tutte, le rispettate durante i secoli come vere e  come sole, sostituiscono nelle menti la loro verità e il loro equivoco alle interpretazioni fantastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo  e mito pagano, che un appagamento della curiosità pel fenomeno poteva ancor stringere.  L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcobaleno di Noè condannano Caco ed Iride, come  Sansone soppianta Perseo. Si che l'elemento  scientifico, insito nella saga (se non intrinseco  a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il  religioso al suo perire, quando l'una e l'altra  sete umana, di sapere e di credere, abbian trovato altr'acqua al loro bisogno. Morta la capacità creativa della mitopeja,  stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, indottesi le masse per diversi cammini; non restan più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simiglianti per sostanza o per forme ai pagani, e  l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo.  Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo  di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi.  E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di  quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'originò la saga; volonterosa in vano del passionato  amore, fra cui si svolse; pallida, dinanzi l'ombre crepuscolari ove si rifugian labili le figure favolose evocate un istante, pallida di accorata  nostalgia.   Restano anche le storie dei miti e la storia  della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte  di nostalgia. Ho procurato che la bibliografia speciale dei successivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo  Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del  pregevole o dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve  in vece di tenere per la bibliografia generale su gl'indirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera  degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneutica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi etnologi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier  difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal basterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte  arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio. La omisi  dunque presso che intera, salvo pochi accenni sporadici;  né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma storica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte  alle varie correnti e agli opposti principii degli studii  mitologici deve risultare, non da discussioni teoriche e  generali, bensì dal giudizio particolare recato nella indagine e nella storia dei singoli miti. Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il  recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione  bibliografica alla scienza delie religioni (Roma): lavoro che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce  utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo. A. F., Kalypso. Andromeda. Il racconto di Ferecide. Il problema che si presenta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda consiste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del  quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste  la narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno in Serifo e dell'impresa contro Medusa; ci è pervenuta  anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vicende cui Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo il ritomo di Perseo vittorioso; ma difetta del tutto l'avventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. =  Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'.). Ma la parte mancante  del mito in Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza  bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro (Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto  il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel  che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima  simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Biblioteca possa supplire senza errore né equivoco la lacuna ferecidea. ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto tener presente che il mito di  Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio di Ferecide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste,  ci resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che in quest'ultima debba essere qualche  particolare pili che in quell'altro. Ma ciò può anche provarsi ne' singoli casi.In due punti ApoUodoro dà a  lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire  la paternità di Perseo a Giove, riferisce senza esplicita preferenza che altri l'attribuivano a Prete fll 34); dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera  di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gorgone è uccisa da Atena. Ciò mostra ch'egli aveva  presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo  che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione  che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una  fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene  in modo aperto. Di ben lieve natura difatti son le  varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod.,  separano il suo racconto da quello degli scolii citati. Nella  Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa  del capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòaf^eìag T^g Oivofidov ydfiovg; nello scoliosi parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro che l'omissione è qui dovuta solo al riassumere, tanto  più che in entrambe le fonti Perseo fa spontaneamente  la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi  in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce  che non gli dà nello scolio: evidentemente  chi riassunse omise questo particolare ; e difatti la falce  è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per  recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando  la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, Steno, Euriale e Medusa, là dove lo scolio dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna  a guardar Medusa nello scudo per non esserne impietrato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi Ermete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv  àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov; quando in Apollod. dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso,  di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più  estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare, mentre la pili concisa omette a dirittura ogni  accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara  in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teutamida re di Larisa in onore del padre defunto,  e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov  iv Tfl Aagioar]. Unica più profonda discrepanza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò nel  pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio)  ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco  diverse: contro la tradizione che ricordava un pentatlo  polemizza lo scoliaste e la sua recisa negazione fa a sufficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la quale  dev'essere a punto o la ferecidea accolta da Apollodoro altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo  che riassume e di cui cita l'autore.   Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Ferecide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse  identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli  particolari) alla versione apollodorea anche l'episodio di  Andromeda, del quale gli scolii di Apollonio Rodio tacciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per  colmare la lacuna nel racconto ferecideo.   Col possesso in tal modo conseguito di una redazione  comparativamente antica del mito di Perseo e, in particolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie  per cui la critica deve procedere nel suo esame : però  che la natura stessa del racconto orienta l'analisi intorno  a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ;  ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a Cefeo  Fineo Cassiepea, da ultimo.   IL Perseo. Le imprese di questo eroe sono numerose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto non  esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;  decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la  madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie  in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari.  Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole,  suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del  Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può  esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser  ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI Mythos und Religion e SANCTIS (si veda), Storia  dei Romani Religione primitiva dei Romani  e GL’INDO-EUROPEI IN ITALIA. GL’ARII IN ITALIA. Un eroe solare ritiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech.  Mythologie.   Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli, le argomentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.: giacché egli dimentica la differenza profonda A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria  di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig.: Perseus 'le destructeur' n'est sans doute qu'un vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée  comme Vakinekés l'était chez les Scythes e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli  spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto.  A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per  reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe  videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in  ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nell'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo naturalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo  significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di  R. Sciava in " Atene e Roma. Assai  equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo  e la mitologia comparata Pisa. Ma è notevole che  quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato  e l'origine della Sfinge; e quel primo, trattando  di BELLEROFONTE (si veda – H. P. Grice, “Vacuous Names”), non spiega la CHIMERA (Grice, Vacuous Names). Entrambi quindi  appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del fenomeno mitologico non a tutti. È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al naturalismo come alla novellistica. Il problema poi intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro  le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in  parte è d'indole generale e vien trattato in questo saggio. Qui diremo solo, in breve, che  l'intuizione naturalistica suppone una grossolana conoscenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già  densa di più larga e più ricca esperienza umana. Comunque, procureremo, dopo queste premesse, di sceverare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei  varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spezzarsi il racconto di Perseo.  È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. RéviLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. Nel racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto  dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare  della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa  la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov  in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R.).  Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessalica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert). Ma ben  più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto,  dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grandfragen der Homerkritik, intorno allo scambio fra  Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaayiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con  l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono  a questa attribuiti, è molto probabile che l'Argo di  cui è re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponnesiaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine  al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e critici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con probabilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un  nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono già  constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.   Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo  alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui  valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto;  particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della  verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza  di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll.  I 88, in un luogo che non è, come il v., sotto  l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la  nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fratello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34, che riferisce questa come una tradizione parallela alla  ferecidea, e lo Scoi. A II. S, che fa risalir la notizia  a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiaramente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due  salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici  della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pelasgico, quella ha da essere la forma primitiva della  fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito  l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare  poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dobbiamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus  padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non  possiamo non propendere a riconoscere carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella  vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che  fin Argo l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo  fr. RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr.,  MùLLER FHG). La tradizione pertanto che dice di  Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e  quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponnesiaci son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto  si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie  irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche quest'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus.  Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. versi; i quali  riproducono una tradizione già alterata da elementi  estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per  cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie  addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto  appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli  il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che  potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo trasporto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi  la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era  poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi solo  obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, appare anche nella connessione con i Liei C Luminosi)  in cui egli è posto dtiìVIliade Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono  potrebbero appartenere a uno strato tessalico della  leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare  di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non  dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,  che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mitici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che,  tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le inserzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama compiuta d'un mito: serbate le due figure di Acrisio e di  Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è anteriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R.)  che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le attinenze fra Delfi e la Tessaglia; serbati Ditti e Polidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente  notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;  serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei: ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e  si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geografica uniforme quanto per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tessalico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire  il nome e la figura di Danae: giacché se il secondo caso  fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse  un nome e una figura più antichi. Ora se è certo che  nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae  si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la  presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R.  e Antonino Liberale. Va pertanto conchiuso  che Danae può appartenere assai bene allo strato tessalico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini  della ricerca presente il vagliare il problema mitico di  Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi intorno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra  ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratificazioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro  mito ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è difficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda  si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è, come  congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete  tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto  di Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del  passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete,  cosi la sua comparativa antichità, giacché anche le  meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abbastanza vetuste, fa risalire non poco nei tempi l'intervento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare  partitamente l'uno e l'altro strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato peloponnesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico  consiste non tanto nel cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire  passo passo, fin che è possibile, il processo di penetrazione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze  si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex.; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha  dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in  Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la  diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si  attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta  germinazione di miti secondari sul ceppo del principale  dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e  propria della leggenda le peculiarità locali non han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo  a Serifo: per cui è a priori possibile cosi che il culto  abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti  e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo  caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo  abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta  la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai  mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Argolide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame  della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun  che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di quella  la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argolide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde  Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza  dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più  tardi la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita,  e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto  dicevole, di cui per altro ignoriamo il nome. E non e  improbabile che questo fosse tale da determinar per analogia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole  che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponnesiaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta  avesse un motivo unicamente geografico l'est; ma è  ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda  all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipotesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale  supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane  ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333   dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve  essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè  vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché  lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto,  bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati  già quando il culto di Perseo prese a difiondersi per  tutto il Peloponneso. Un momento successivo è occupato dalla saga di Tirinto (Apoll.). Questa saga non si sarebbe dovuta  creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto  importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, costringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra  parte se era plausibile che, come si disse da quelli, dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si vergognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare  la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se  a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che importato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore  nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano entrambi che i personaggi della saga tessala attecchirono  assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte  l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Micene p. e.: Pads.), che sfuggono al racconto d’Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro recenziorità. La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Peloponneso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data  dai genealogisti. Combinando Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap. R.) risulta il  seguente schema che può valere come volgata su questo punto: Linceo Ipermestra Lacedemone Abante Euridice ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente PERSEO Andromeda Posidone Amimone Nauplio Damaatore Pericastore Peristene Androtoe  Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette Anfitrione Alcmene Euristeo Ippotoe ERACLE Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i punti  fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie divinità argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe dorico più recente Eracle, non senza che nel contrasto  fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità dei  ceppi. Ma se a Kuhnert si può concedere che tardo sia  l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può  consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero  il posto che essi occupano nello schema genealogico è  ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine  peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto  era possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra,  quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza della  terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi  per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe  in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo  degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II.   B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431  ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog tò  IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v  7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov, &ef.tévov zovvofia  ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito  evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma  è del pari evidente che un motivo deve aver indotto a  sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introduzione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può  esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi  nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo  culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza  di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide:  territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò  è probabile, ne deriva che Abante potè essere importato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo  pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo,  fra Danao e Danae. Per Ditti e Polidette non si trattava in vece che di porli nella medesima generazione  di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per  meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò valsero nomi  come quello di Nauplio, eponimo di Nauplia, di  Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U.,   di Peristene, sposo d'una danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra  Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente  peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente peloponnesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie  di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert)  rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto  eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che  la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II  44 Schone; Cirillo c. lui.; Agost. de Civ.; Scoi. Totr. IL. Questa dev'essere la leggenda più antica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo  penetrato in Argolide]. Che se però lo strato argohco può esser suddiviso in  parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre  occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve  a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta  prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto novellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza  naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve  valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G.)  della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene  forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi  casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe solare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo innegabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca  di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o,  più latamente, della vergine che contro un esplicito divieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa  insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga diffusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo  spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca intuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di  Perseo contro il nonno. Ugual carattere novellistico  si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il  generico appellativo " pescatore, (cosi che è quasi vana  postilla quella di Ferec. fr.  òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui  natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pastore agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo  abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe  bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la  cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide  Lahonische Kulte  e il Gruppe Gr. Myth.). Ma il contesto della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre  che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un antico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per  quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò  e rimase nel mito di Perseo. Altro è di Polidette:  questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un  attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios  Jbb. Phil. ha creduto di identitìcar  con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipotesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due restrizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che  Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma  tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete,  è da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui  significato trasparente fa intra vvedere un fondo naturalistico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della  saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione  da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo  con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'importanza del mito su questa, la riteneva simbolo dell'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes)  libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del  mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spiegazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un concetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva  nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, sopravvenuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un  doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad  uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra)  si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni  mattina il sole emerge. La cattività di Danae presso  Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità  F., Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo  la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione ferecidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba  spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica  per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica  rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre,  e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui  vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui tentammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici,  costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto  e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio  a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine, continuando,  ce ne darà conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Gl’elementi  che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quell'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata  da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi  jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci riporta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di  cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel  suo Lex.); il mostro che combatte e vince  è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade (Iliade); il luogo onde si muove è Serifo, colonia  di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie  che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo  in Serifo (Paus., per le monete cfr. Head H. N), in Atene (Kchnert), in Mileto (Strab.  cfr. Erod., Edrip. Elena, Kuhnert): in Mileto, specialmente, tali da risalire  al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di  Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori  di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e  che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai  principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un  effetto.   Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il  contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano  (presso [Esiodo] Teog.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo  èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono pertanto evidenti mostri delle tenebre e della notte che  dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto  contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che  abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso,  stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di  Rodi appr. Tzetze Chil.). Non è dunque dubbio,  anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette  pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e  con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che  quando in territorio jonico il mito di Perseo venne importato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza  noto e chiaro.   E da origine rintracciabile con probabilità derivano  anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che  Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è  spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in     (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes  (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo  stesso tema non merita d'esser citato.   (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. Cfr. Knaack Hermes. Su  gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.;  Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech.  Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa  trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose  Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto  al mito di Perseo, se Eurip. Jone la ricorda e Apoll.  II 46 è costretto a farne menzione. E, ultima riprova  di un fatto già a bastanza palese, anche quando alla  Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a  lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo  (Ferec. fr. 26 e Apoll. ). Se non che il capo di  Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch.) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Medusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Medusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo  della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso  ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradizione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è  coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti menzionata per lei in //. E 845 ("^'^os KvvérJ. Di natura  diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati  e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono  mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della  vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché  un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene  [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet.; Apoll.;  TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre.  Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la paternità di Forco traviasse i critici; che vollero in gran  numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp  in RoscHER Lex.). Ma bisognava prima provare (e la prova manca) che la parentela e la paternità  sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella  fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò  per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale  trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni talismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza  nelle fiabe.  Ufficio analogo (e analoga origine per conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la  falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi  a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si scontrò  con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure  (Beloch Griech. Gesch. Mentre inoltre le Graje  nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novellistici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera  della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.   Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito  di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo  fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano  gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari);  e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche  quei personaggi vi intervengono con offici proprii della  novella. V. Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde  è costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono  di natura e origine assai più incerta che quelli raccolti  intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla  prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai In quanto al valore originario di Ermes lascio qui  intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A.  IRicordo anche Roscher Heìines der Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes  der Mondgott (Leipzig 1908) che determinò una polemica  appunto col Roscher. dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la  diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la  constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), inducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il territorio forse di formazione e probabilmente di diffusione  di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame  delle figure singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, bisogna a pena  osservarlo, parallela per significato all'impresa avverso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da attender  notizia intomo a un Nume che in quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi  fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimologica, da ravvisar in Andromeda, nel cui nome è non  dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma validissima  non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst.;  KuNHERT) in cui Andromeda appare non legata,  vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico  liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a  respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in  mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir " ajutatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né  la comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve  stupire: è ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei  vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il  mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che  esso aveva pia anticamente assunta. Questa ipotesi  però intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto  evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser  stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020),  pone anche il problema su le cause del passaggio da  quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è  chiaro che l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non  potevano, nella veste più arcaica, venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sùbito,  la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissimilarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile  innesto su quella saga naturalistica di uno spunto novellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode  che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). Se  non che alla medesima forma vetusta e primordiale dell'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto  dianzi come le sedi loro nella concezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E  tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto,  mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i  luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato indizio locale bastevole.   È cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le  testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali  da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più  a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll.,  di Paus., di Apoll. R. Argoti., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea  in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto,  in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee  Lex.: fissano in modo esplicito per l'età storica  la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Arcadi. In particolare poi Paus. asserisce che  da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il  problema, che non in questo caso solo si presenta  alla critica, fra le attinenze reciproche de' due nomi  non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto  di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri- Cfr. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens; che mi sembra però superficiale.  vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle  attinenze non sono da negare. E queste notizie sono  non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v  OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei  punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel  restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor dell'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,  cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto ottenendone in premio la perenne salvezza del suo dominio  in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane  fr. Bgk. {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvdaoù)v) ne aveva sentore: cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef.  Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda  irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja,  fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto,  sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad.  B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11  TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude, senza peraltro addur motivi, che queste parole derivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una  combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di  Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su  Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di  Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel  su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è  difficile chiarire la genesi, posto che equivoco di nome  non siavi, della notizia serbata in quello scolio. Le  genealogie  che esamineremo più tardi (v. sotto) uniscono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per Queste genealogie sono studiate ampiamente, se  non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „  XXXIII (1913) 53 sgg.  eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo  dev'essere pertanto giunto in Beozia. Tra queste notizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta  alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il criterio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo  arcade è secondo Ellanico (fr. = scoi. Apoll. R. I 162  combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip.  Fenice; contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio  di Posidone; e secondo Apoll.  fratello di Licurgo  (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll.). Questi  dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo  dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo carattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile  etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia  riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi  gramatici lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f),  sempre vi traspare la natura d'una divinità ctonica e  tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante  nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge  il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la  localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la più antica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo  di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome rivelano del pari. Mentre però il nesso fra Cefeo e gli  Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo antichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con Andromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice,  di Perseo, solo quando, ed è, come si vide, assai per  tempo, l'avventura dell'eroe contro il xijvos  fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa localizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo.  Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano  per tal modo sufficienti a costituire, per sé soli, la trama  di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gassiepea, per non sembrare un' intrusione superflua deve venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di  quelle due figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio  che si tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „  (cfr. TùMPEL in Roschek Lex.) che compete in  bellezza con le dee e ne è punita in sé o nella prole. I  luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non  hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi  è indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser  stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con  Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come  moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo  fr. Rz.), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un  luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B.  Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici  e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e  quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geografici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son conseguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel  quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser  beota. Ma se la Millantatrice è  originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con  Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per contiguità di luoghi ma a compimento della trama novellistica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che  la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel momento in cui la figura di questa viene appunto novellisticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode  libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diventava necessario giustificare in qualche modo la cattività  della fanciulla; alla quale il vanto della Millantatrice,  potè divenire argomento sufficiente (contro Tumpel). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipotesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e  in quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio  d'un'antica e diversa vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a sufficenza in luce il sostrato  naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle  Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi  venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole  e di danno, contro i venti del Nord, che insorgono a  respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo  settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento  alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel  mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra  la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva  anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. Ma se  le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza contraddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a  l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintracciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello  l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimonianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex.).  Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' popoli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei  Fenici (Bkloch Griech. Gesch.) e con Egitto e Libia.  Di qui appare possibile anche l'ipotesi, contraddicente  quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra Fineo e  Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico  ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli  Etiopi in senso geografico.Senza dubbio però le tracce  che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso  Apoll. ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone  e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Arcadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da questo. Né giova a sostegno del contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ;  perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo  de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi  erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe  parte simili parte dissimili, senza che la località dell'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre.  Restano ancóra da indagare le attinenze tra Fineo e  Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in  tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli  citi del RoscHER Lex.) ha considerati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach) 31  e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica  di due Cassiepee, secondo questi due schemi: I (fr.):   Tronie Ermes Arabo I  Cassiepea  (fr.): Agenore  Cassiepea ~ Fenice  I  Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab: che per vero  egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed  Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì  Che han per fondamento, insieme con l'altro art.  del Lex., il voluminoso saggio dello stesso  TùMPEL in " Jahbb. Phil., Supplbnd.  II concetto essenziale di questo saggio (che nella più  antica forma del mito la sede dell'episodio di Andromeda è Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confutato dal KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv  ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso  omerico Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84)   non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te :  perché, dice, non v'è corruttela di testo; v'è bensì  mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore.  Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év  KaiaXóyqj conosce Arabo:   Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr.]. Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di  Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse ancora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). Di questo  passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :  Esiodo faceva fCassiepea]  figlia di Arabo, figlio a sua  volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia  fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,  degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il  nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqufioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde  integra il fr. cosi: Tronie Ermes Arabo   I  Cassiepea Cefeo  Andromeda.   Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. e  Anton. Lib. 40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. \Ì7tò  yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀoyovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl  TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol  'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fiéQog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i, tò TiQÒg  AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, continua, per tal  motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero:  in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati  nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fiefivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv  TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg  Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E parimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrjfilag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. Come si vede, gli Etiopi  servono a dare un'idea della positura geografica degli  Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero  ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia  identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato positivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la  discendenza di Cassiepea da Arabo. La qual notizia  spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a sua volta  integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg  TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~  ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ayvoiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov  fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul  zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano  adunque alcuni  che fondandosi su Esiodo portavano gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust.  Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia  del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa  e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte. Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi  questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice  (fr. 31 Rz.) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda  è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo  lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse  ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,  COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo  altrimenti chiaro. Concludendo, da Strabene, ben letto;  può risultar soltanto: che Cassiopea era figlia di Arabo  in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi permesso unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente  schema esiodeo:   I-f II (fr. 23 + 31): Tronie - Ermes   I Agenore   Arabo j   I I   Cassiepea - Fenice   I  Fineo.   Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito elementi secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi  principali raccolti nei due nessi Cassiepea-Fineo e Fenice-Fineo. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da  spiegarsi al modo medesimo del nesso Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come, ciò è, un avvicinamento di numi  eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stranieri. Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi  se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo  e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non  servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E  difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise  agli dèi e dagli dèi punite : l'una come millantatrice;  l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi permette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo  avrebbe preferito una lunga vita alla vista, offendendo  Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via  a Frisso; Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le  Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul secondo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla  localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che  il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di  questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando  il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò  inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto  legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non è  pertanto improbabile che in quell'età comparativamente  non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novellistici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come  piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del vedere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma diversa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio,  Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia  esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si  connettessero primamente per i motivi or ora supposti,  sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del  quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri.  Riassumendo ora in breve i risultati delle singole indagini, veniamo a importanti ipotesi:  Cassiepea offre al mito di Perseo -Cefeo Andromeda (Etiopi), uno spunto, ed entra in quella trama;   Fineo si unisce a Cassiepea per lo spunto no- L'ipotesi è del mio maestro SANCTIS (si veda); la responsabilità dell'argomentazione è mia. vellistico che trova in questa la causa della pena di quello;  o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere;   Fineo si unisce a Perseo come nume del bujo  ad eroe solare; o, in linea secondaria, a Cefeo come  rappresentante di genti straniere. Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo;  V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e  specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è una matassa confusa di cui bisogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a sé, e  d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato  etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo)  la loro natura evidentemente tarda è tale, che ove accanto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a sostrato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la  preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo  è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso:  Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio  Fineo (h); questi è condannato a venir superato in duello  da Perseo. Un terzo gruppo infine è costituito da  quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso;  Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5  Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo  è testimoniato in Ferecide (= Apollodoro) ; il pili ipotetico è il secondo : esso suppone in vero e una variante  su la causa della pena di Fineo, e una variante su questa pena medesima : vale a dire tutto un  mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di  coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza  di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega  molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di  Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo;  F., Kalypso. discendenza e duello che si potrebber bensì giustificare  pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro  a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però  che non ci saprebbero render ragione né della singolarità  per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che  uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né  della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il  protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece  l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi elementi tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza  casuale si può concedere solo quando la preferenza logica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi  nostra, pur non pretendendo di rispondere con esattezza alla verità né di essere perentoria, spiega almeno nel modo che pare pili semplice tutte le testimonianze che sono a noi conosciute. E, ultimo vantaggio,  non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il  terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si  fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la  figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea  si vanta, la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo  la libera col tradimento di Fineo che è ucciso da  Perseo. Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar  conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secondari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo  e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea omerica: Il; Od.; e sono trasparentissimi  simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie.  Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in  RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467  A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio  del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza  eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza  attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala  pena si collega per nessi insignificanti e punto caratteristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.) singolare  di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe riconnettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un  Agenore argivo (Pads.; Apoll.; Igino  Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un Agenore avo  di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di  Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll.   1 58 cfr. Igino fav.), se rendono non dubbia una  larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti  a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a  prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere  l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il   peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo  e Fenice per motivi di contiguità geografica con il primo  d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del  nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore  al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto dell'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra  fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnicogeografica, sembra da preferirsi la congettura che in  quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di  rappresentante dei popoli che abitavano la Troade,  grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo  simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di  Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice  (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo  a noi pare, quel che affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il personaggio fondamentale di questo episodio mitico,  Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che come  Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si  diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa  il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quell'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare.  Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima,  in seguito vittima del n^rog: personaggi novellistici  della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi  la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle  quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il  risultato rimane, è d'uopo convenirne, opinabile. Tale,  credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché  ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese,  a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia  perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto  possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana. I miti etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome di Perseo  sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non  può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i  particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti  anzi tutto Erodoto:  'EKaÀéovTO óè ndÀai   ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v  nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g  Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e  aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^  oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei ' èvóy^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni zovvov  oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: 'Aliala,  Sogg.: i Persiani I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO  Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^AvÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concordano nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-'  aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di quel  popolo un nome anteriore " Artei,. Questa è forma che  ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo,  Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924.  929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar  la presenza di questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà  di pili un nome di " Cefeni: con cui gli Artei (= Persiani) sarebbero stati noti presso i Greci: in cui però  non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év  ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo sono da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Persiani furono avvicinati dalla leggenda, si era già troppo  localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto  perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e Persiani.  Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare  un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „.  Questi, secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli  Etiopi: e tale concetto ritroviam difatti presso Stef.  Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti; (cfr. inoltre  FHG. m 25, 4 e GGM); in realtà però furon  concepiti come diversi, cosi che la saga la quale localizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda  non parla di Cefeni, mentre l'altra che l'episodio localizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi  (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario contenuto de' due termini, entrambi si usano indifferentemente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex.,  ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accettabile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Persiani dai mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per  mito etimologico insediato; e che quel nome non ha quindi alcuna analogia con l'altro, di ben diverso valore, Artei.   Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz.  XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oinért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én  zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit]  TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà  XaÀSaloi. Il soggetto di àvéoTrjaav qual è? Dev'essere  XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto  (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non  indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro  fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E,  come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da  questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non  che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino  alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano  da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen  in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati.  Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia)  e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono  conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva scegliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di  Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni vennero assunti a nomi pristini della regione e del  popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti dell'Andromeda di Euripide. Su i framm. che di questa tragedia euripidea  ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck  Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento  dello Stein come quello del Macan a Erodoto.  FTG}. furon tentate piti di una volta ricostruzioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm.,  Wklckek Die Griechische Tragedie,  Hartcng Eurip. restitutus, Wagner  fragni. Eurip., Fr. Fedde De Perseo et  Andromeda (diss.), P. Johne Die Andromeda  des Euripidea in Elfter Jahresbericht des K. K. StaatsObergymnasiums zu Landskron in Bòhmen,  Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg.,  E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex.,  Wecklein in Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss.  H.-Phil. Kl., Mùller Die  Andromeda des Euripides in '' Philologus (N. F.). Di tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tragedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i  singoli episodi nel loro succedersi, la struttura complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei  varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine,  né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice  inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico  oramai che Euripide si deve essere pili o men liberamente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual  è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men profondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche  le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coincidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con  il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei particolari quella libertà che in generale si concede al poeta Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr.  Hcddilston  Greek Trag. in the tight of vases painting (London); con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud.  zu den Trag. (Berlin tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile  dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual  non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti appunto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a  quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi  medesimi.   Uscire da questi circoli viziosi, che sono i fondamentali e in cui altri minori si assommano, non si può,  io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il  raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi  e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tragedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi  suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scernere.   I framm. debbono venir lasciati in disparte  per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b  innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane  vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che  tale asserzione può colorire assai bene, cosi l'angoscia  di Andromeda offerta preda al x^zog, come l'ansia di  Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda  insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151  si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto  a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto  a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar  la figlia. I framm. in vece lasciano trasparire  una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non  tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del  dramma: debbono pertanto essi pure venire, al nostro  scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto  8on vuoti di contrasto passionale.   n primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello. Perseo giunge volando traverso l'aria a una terra di barbari; scorge sùbito, su la riva del mare,  TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo)  riva, Andromeda. I versi che seguono non  possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un  colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro  che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'essere troppo stretta attinenza perché sia possibile pensare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e  Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima del colloquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora,  attirano lo sguardo due frammenti specialmente. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli potrà avere dopo la sua vittoria contro la  belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo Andromeda si offre, ed è questo da ritener il compenso,  ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da  entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile  dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un  lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di Andromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere;  dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di ritenersi libera nel disporre della propria persona. Onde,  confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll.  (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'eaaduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo  Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv  yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discrepanza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui  il patto si stringe tra i due giovini; la Ferecidea, per  la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo  grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza  bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non  dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboccamento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti  che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quell'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ;  poiché tal fatto deve, di fronte alla logica argomentazione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la  genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata  che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.  Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo insieme è costituito dai framm. Essi si dividono sùbito in due serie, contrapponendosi l'una all'altra. La prima è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale,  di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio dell'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in particolare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav  eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di giovinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono  alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ... éa&ÀòJv  èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla  felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiarazione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il povero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che  non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco  anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ tC/Mog  tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv  ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il  verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex'  eìtvxeIv. Fra queste due serie può trovar posto anche  il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma in cui  lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emendazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae  Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav  yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso asI FBAMME^TI DELL’ANDROMEDA, DI EURIPIDE 3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte  che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura  la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ;  e il materialismo gretto che nella vita vuole il godimento e aborre dal morire e non scorge più oltre.  Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribuzione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non  può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto passionale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve  dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama  del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti  troppo mal sicuri e fors'anche inutili.  Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 :   èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv'  Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg  vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv.   Del quale due interpretazioni sono filologicamente possibili: 1. non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi)  de' figli illegittimi „ ; 2. non voglio che tu Andromeda  prenda (= generi) de' figli illegittimi,. Wecklein sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dommaticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene  alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo  avvicinare al fr. il verso 11 del V delle Metam. di  Ovidio:  Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum  Juppiter eripiet. Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità  divina di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un  biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque inteso  e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più  I. - ANDROMEDA  tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo  sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusinghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se  il ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due  possibili interpretazioni non restano che due vie: il porre  il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo  nelle condizioni sociali di Atene. Ora il fr. insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del  quale i vó&oi hanno a soffrire : non una consuetudine  simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge sancisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg  yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio  di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per  regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo  la cacciata di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece  ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si ricorda che  una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^) pone i figli di una straniera (Andromeda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se si rammenta che tal legge periclea ne amplia una soloniana,  ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di  cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra  tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati  a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese  potuto trovarsi e come uomini e come principi in condizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,.  Né si dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto  il suo vigore. Tutt'altro : nel 414 Aristofane faceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama  il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye  ^évrjg yvvaiKÓs:   HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig; IIEI. ah fiévroi vrj Ala,  &v ye iévrjg ywamóg    I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa,   vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà,  odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv,  àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv  q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog.  èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ.   Non è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza  esser frainteso dagli uditori alludere alla legge ateniese  sui figli di straniera. D'altra parte non mancano ragioni per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più  tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa  di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché potesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli  interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og;  là no.   Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai  framm. risaltano con certezza sono: l'amore di Andromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica  libertà; l'urto fra l'idealismo e la grettezza materialistica ; il rincalzo che la quistione giuridica e sociale  dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro  lo slancio spirituale. I problemi minori: se Fineo sia  parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra  loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con congetture esti-emamente mal certe.  Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Eratostene] nei suoi Catasterismi: il contrasto fra l'affetto figliale  e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 'AvdQOfiéSa).   Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi delineati,  non potrà cader dubbio sul momento cui compete il  fr., che solo, io credo, merita di venir assegnato all'uno più tosto che all'altro punto della tragedia: ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog,   fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd, ^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei  f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et.  Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg  ?atj,  [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv  àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae.   In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del combattimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein  97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui  Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi  tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore  (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto  più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli  ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo  l'uccisione del nfjiog. Se non che i critici citati sogliono  addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e  FiLosTRATo im. I . Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv  fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv  aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L  d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog, Kal rà àÀXa (AeydÀrj  Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta  frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era  sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al  posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai  dice qualcosa, è a favore della nostra tesi : perché le  parole di Luciano, lasciano intravvedere una interpretazione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passionale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb.  Sogg. " gli Abderiti,. l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ  sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andromeda del Beri. Mus. (Bethe in " Jahrb. d.  Arch. Inst.), ch'è della fine del V sec. e di poco  posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nell'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che  il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura  il sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la commozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappresentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda  divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E  Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scioglier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto da  Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta  anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore:  ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tragedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava  Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guardata da Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà  la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che prega  la Dea prima del duello. Mentre dunque il testo di  Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani.) assai  da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'alessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche molto  si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'invocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa  apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al  patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha  soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la ^'^aisNon si spiega, se si fa precedere il fr. al duello,  perché in OVIDIO (si veda) il duello è rimasto ed è ampiamente  svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a quella  Bvolt  i   attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la  più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della  tragedia.   La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che  dagli stessi frammenti vengono imposti.  Euripide. Abbiamo tentato di ricostruire le tendenze più spiccate dello  spirito euripideo valendoci deìVEIettra e àeWElena. Naturalmente talune delle affermazioni  intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere,  per la complessiva persona di Euripide. Ma non credo  opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di  impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio  soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre  (Paris); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge  1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiifklàrung (Stuttgart) ; Masqueray Euripide et ses idées  (Paris 1905). Questi libri però, notevoli per ampiezza  di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno  il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati,  di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di  Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo  spirito sotto varie rubriche. Cosi va perduta la vita di  esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini osservazioni sono  in Croiset " Journal des Savants; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einleitung usw. ed Hera1cles. Per le allusioni storiche di Euripide v. E. Bruhn Jahrbb. f. class. Phil. Supplb. e L. Radermacheb " Rh. Mus., LUI Per ragione di tempo, non ho potuto vedere i!  recentissimo voi. di Murray Eur. and his age. BUBIPIDB NEL Il recente saggio di Steiger Euripides, seine Dichtung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten,  Heft. V, Leipzig) rappresenta senza dubbio un buon  tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è,  a mio credere, viziato per un lato da poca profondità,  per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen;  parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con certezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analogamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol attribuire a Euripide caratteristiche testimoniate solo per  Ibsen (che in ciò è arbitrio). Pregevolissime sono le poche  pagine di Schwartz Charakterkopfe a. d. antiken Literatuì'^ ; le sue intuizioni colpiscono, secondo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero  solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche approfondimento, maggiore. F., Kalypso. Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Persefone in Enua si combattono due teorie. L'una è sostenuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)  che ritiene preesistente all'influsso greco il  culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Sicily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche  Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da  E. CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia  (Catania): questi difatti, pur non  negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea  alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio veramente probante, di esser invece costretto a riconoscere  il carattere del tutto ellenico di esso culto nell'età storica e nelle nostre testimonianze. L'argomento fondamentale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la  non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa  da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire  della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via  per esso a penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola.  Per lui di fatti da Gela ed Agrigento GIRGENTI il mito e il culto  delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna e in Siracusa. Se non che pare che in tal modo il problema sia  posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto esser  entrato in Enna per opera di Greci, pretende assai più che non sia necessario alla  tesi di un sottostrato cultuale siculo. Chi per contro  traccia possibili vie di penetrazione in epoca comparativamente tarda, dimostra assai meno che non sia necessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'esame merita di esser ripreso. E poiché le nostre testimonianze vertono sopra il culto ennense quand'esso ha  già assunto foggia greca, non resta da prima che esaminarne gli elementi e i caratteri interni, per scoprire  s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del  pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipotesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti approssimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale. I caratteri del culto ennense nell'età storica.  Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i caratteri con cui il culto e il mito ennense si presentano a  noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si  trova raccolto da Bloch in Roscher Lex. e a lui facciamo rinvio. Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel  mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico a Demetra. Questo particolare, che Bloch (col.)  dice siciliano-alessandrino, non può riferirsi alle condizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme (Cora)  men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessandrina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la tradizione fa rapire Persefone presso Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte Ciane, la  fa scender sotterra (Timeo in Diodobo = Geffcken  Timaios' Geogr. des Westens Philolog. Unters.; cfr. Ovidio Metamorf.). è necessario  intender tutto il valore di questo particolare essenziale.  Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del  culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della  città di Ipponio è utile a dimostrare come si comportasse il mito secondo le esigenze politiche di essa diffusione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. 8on ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa  vantava antichissimo culto di Demetra. Per conciliare  l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio Proserpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori  (Steab.): conservò tuttavia quel che importa il primato a Siracusa. Per Enna avviene il contrario:  è (cioè) evidente che il mito siracusano, perché deve rispettare una tradizione autorevole che il ratto pone in  Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma  deve accontentarsi di farla presso Siracusa discendere  all'inferno.   Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo  (DioD. = Geffcken) su Atena ed Artemide che  avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e conseguita rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola  Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La  presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo  orfico. La testimonianza di Diodoro fa  dunque legittimamente supporre che in Siracusa si adattasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un particolare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca  assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più effettivamente ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch Gr. Gesch.). Checché    ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio dell'antologia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predominante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di  Artemide (sui quali v. Ciaceri); ma si acconcia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra  in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui,  secondo p. e. Ciaceri, il culto siracusano doveva superar per fasto quello ennense ; prima cioè che per effetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse  grande importanza (Ciacebi).   Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto ennense da parte di Siracusa appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met.  Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse  del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona  abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane;  poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto  Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso  Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate  ed Elios. Bloch ritiene "priva di  significato „ questa forma del mito ; Malten "Hermes la spiega come un arbitrio del  poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane  e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si  ricorda che, ai due personaggi dell' Inno omerico, i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio  che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella  notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex.), la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i  Fasti ovidiani, sostituiscono nell'ufficio d'informatori presso Demetra figure più concrete  e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Keleos in scoi. Aristid. Panai. (Frommel), scoi.  Aristof. Cavai., Mit. Vat.; Trittolemo in  Paus., Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk  Patr. gr., Tzetze ad Es. Opp. 33; cittadini di Ermione, secondo Apoll., scoi.  Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov.; Kabarnos,  della famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch.)  presso Stef. Brz. s.v. IldQog, nell'isola di Paro;  Chrysanthis figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus.;  cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. app.  Fozio Bibl. cod. Di fronte a cosi numerose analogie  è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'informatrice sia un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più  tosto appartenga alla saga siracusana : a quella medesima  che presso la non lontana Ciane fa avvenire la discesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo  (su cui V. anche Ciackei). Né fa ostacolo il fatto  che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò  significa solamente ch'esso è di pretta natura locale e  che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio dell'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradizioni mitiche e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque  si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane  e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara  l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto  in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in  senso siracusano. Anzi per capire ancor meglio il valore di questa considerazione va rilevato che un tentativo mitico in antitesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti narrano  il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di  Enna ma presso l'Etna: cfr. l’Epitafio di Pione Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del racconto, per cui Vayys^og era Ecate, se è valida l'ipotesi  del CiACEEi e G. Knaack "Hermes, il quale sennatamente dimostra che non può né ivi né in altri testi  simili (Igino fav., scoi. Pind. Nem., Giovanni Lido de mens., Oppiano Hai., VALERIO (si veda), Flacco  Argon., Ausonio Epist.) trattarsi di  uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario  che menziona Etna e sopprime Enna è certo posteriore  a quello che ad Enna dà la precipua importanza perché  su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta  omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Ennariconoscere una incontestabile priorità initica. Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere  a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna, nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi elementi essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il  centro dell'elaborazione di esso; elaborazione che in  Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi radicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né  taciuto né artificiato favorevolmente.   A cotesta conclusione è propizia la testimonianza più  antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una  litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H.  N.). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga  del ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico  mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria di  Imera. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.) innalza in Siracusa i templi di Demetra e di Cora,  iniziando il formarsi di quella piattaforma leggendaria  donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia area.  Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-siraCusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ;  e in verità la litra, che è la testimonianza più antica,  è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii numismatici e dal Hill  Coins. Al sec. V pertanto può farsi dicevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mitica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; e che  ha per indispensabile antecedente una credenza a divinità agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella  sostanza. Le nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile  l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco della  greca Demetra penetra in Enna per opera di Agrigento (GIRGENTI) e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone.  Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti,  questa del Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né  anticipando rispetto a noi, come fa, di un cinquant'anni  l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare l'autententicità del culto ennense dì cui e menzione presso CICERONE (si veda) in Veri. Noi difatti di  quella vantata antichità rendiam piena ragione avendo  dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e mito  siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'intervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar rispettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa  antichità né meno facendola risalire alla fine del VI sec.  con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe dimenticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo  Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla  Pindaro Pit. (Schhodek)  e che quindi nella tradizione letteraria non poteva  essersene perduta la traccia. E si badi, anche, che lo  lo stesso CICERONE (si veda) {in Verr.: cfr. Lattanz.  div. inst.) sa di un signum vetusto di Cerere esistente in Catania. Quindi il vanto di antichità conforta la nostra tesi e rivela impotente quella del Ciaceri.  Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto  che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti,  come si afferma, da Gela si fosse partito, a non  molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense,  è chiaro che molto probabilmente quello non avrebbe  esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,  assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geografiche e politiche.  E tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede,  dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui si apprende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano  Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco  di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza  con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da  un frammento di Filisto (fr. = FHG.) che  è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna  Grecia). Sembra in somma che nulla si sappia  di positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul  tempo : certo è arrischiato CIACERI (si veda) nel dire  Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero Freeman  {H. of S.) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per  ciò preferimmo studiare il problema della Demetra ennense movendo da altre basi e usando dati diversi. Con  i quali, concludendo, possiamo supporre un forte influsso siracusano in Enna, che mantiene  però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non  possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna  né concedere che il supporli giovi a risolvere la questione. Il primitivo probabile nucleo siculo. Dall'indagine del precedente § è risultato, ci sembra, in modo  esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano si  formò dovette tener conto di un precedente e forse molto  più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente  quel nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la  sua scarsa priorità (di men che cinquant'anni) mal spiegherebbe il forzato rispetto di Siracusa.   Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini  archeologiche e storiche (cfr. SANCTIS, STORIA DEI ROMANI) ci danno un quadro delle  condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a  quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la  tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe  italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esistesse una saga simigliante alla greca di Kora e che  questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa  foggiò nel sec. V.   Resta solo da determinarne, s'è possibile, la forma verisimile. Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracusana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a  suo favore in tutta la seconda parte del mito, ma rispetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in Enna;  conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo essenziale del culto preesistente. D'altra parte (è il secondo criterio) l'affinità tra Siculi  (ITALI I) e Greci deve permettere all'indagatore di cercar  fra questi il piti antico embrione della leggenda e di attribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli. Analogia  che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel  di Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (cfr. inoltre G. De Sanctis). Il più antico testo  che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico a  Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna  naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i particolari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere, inoltre, da tutte le altre divinità messe in relazione con  le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di messaggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le  Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra  le pili notevoli figure divine delle campagne feconde,  al par di Gea. Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo- ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); Ar]/iii^Ti]Q;  IIeQaeq>óv£ia;  KÓQu. Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni elementi deìVInno induce una conseguenza: se nell’età probabile della composizione di esso, il mito era  già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e  localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre  non è probabile che a favor di questo centro appunto  sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto  senso è troppo intimamente connesso con i primordiali  riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che  doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una,  certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi  importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni contrastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone; Welcker Griech. Gotterl.; Preller  Griech. Mith}; Bloch; Malten Archiv. ftìr Religionswiss.): soltanto  significa che mancò l'occasione o non fu colta per introdurvelo. Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha  alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di  poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Persefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo:  ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al  re delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col  suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = <P) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla  terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss.; Maass Orpheus e Wilamowitz Reden  und Vortrage). Dal quale s'è voluto dedurre che  l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione ad  asserire che la conseguenza troppo supera la premessa  (Prkller Dem. u. Pers.). Tuttavia non si può né  si deve negare che quell'epiteto si addice assai bene alla  saga di Demetra e Kora. Riassumendo dunque è lecito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni possibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto riferimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli;  2° Demetra dea delle biade ; 3° Persefone regina dell'inferno.   Manca sol Kora. Ma Kora non è né può essere se non  la " Figlia, e il suo valore e significato è tutto contenuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi  anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a  dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è  confermato da quello che il mito narra di lei nella sua  forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di partenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da  escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA. che  vede in Kora una divinità lunare; la cui vicenda dovrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha  badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg.  Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe  lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi  e che pertanto il carattere della seconda non  può essere quel della prima. Mi pare in vece che ben  distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il La stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St.  ant. Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and  of the wild; se bene egli sia stato un po'  schematico nella separazione delle due figure e lo temperino opportunamente le osservazioni di Harrison  Prolegotnena to the study of greek Religione. In  breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in  confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui  ritorna. Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti  del mito è quel di Esiodo Op. e Gior., ove Zebs  Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore  al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs}  298 lo ScHERER (in Roscher Lex.) sostiene a  ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo  Zevg naxa%&óviog àoìVlliade. Ed è certo  evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con  Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agricole messe in relazione coi defunti e con la loro sede  solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis  St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso  Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso  ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma  gli è parallelo e simigliante. Non bisogna però confondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse  tracce di una At]fti]Ti]Q aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5  raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tradizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che  Persefone regina dei morti è divenuta figlia della  dea delle biade, allora questa assume un carattere  nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del  ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in  in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando  il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a trasformarlo in Plutone (v. i testi in Scherer). L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano  di pili ai primordii del mito conduce a costituire due  gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto  l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nell'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra  Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non  appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta  contro l'ipotesi di Farnell The cults of the greek States (Oxford) che suppone un'antica divinità  Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con Demetra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui  che Demetra-Kora costituisse una divinità  unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da Demetra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più semplice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si  fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr. anche  Carter in Roscher Lex.). A ogni modo, si  tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è  quindi metodico supporre per la saga sicula : giacché  questa non deve mai aver superato i primissimi stadii,  tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una  elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver  fatto della " rapita „ la regina dei morti. A completar le caratteristiche di essa saga sicula, alcune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta  CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figurazioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il concetto  della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel  della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich  Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto  tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da  un unico centro (Bloch), trova la sua ragione nell'estrema antichità del rito. La quale del resto  era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto. Sotto  pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe  la Madre, per eccellenza : checché sia da ritenersi  su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch.   e Frazer The golden bough). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più  significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe  si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, analoghe alle " Madri, dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll.  Fil. class.. e a Libero e Libera dei  Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme quella  deificazione dei membri delle famiglie che par consueta  fra l’arii (SANCTIS (si veda), STORIA DI ROMA). Cosi si  spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come  dea delle biade è assai languida accanto alla madre, ma  come dea filiale riacquista una maggiore consistenza.  E vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali  non pur si verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera,  unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom.); ma anche  oltre a Libera si venera la Madre Matuta. In tal caso  si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il  particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto  alla compera, una delle forme di matrimonio presso gli  Arii, e quindi l'avventura di Kora significherebbe a un  tempo il mistero della vegetazione nel grembo della  terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la  forma espressiva a quello. Risultato, questo, che assicurando alla leggenda sicula il rapimento, concorda con  quel che nel principio di questo § notavamo a proposito  del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga siracusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda. Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osservazione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la melagrana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a  giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme  si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riapparire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse  né meno probabile che anche nella leggenda sicula esistesse una parte a questa simile. Giacché la sua formazione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili  rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo  dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'assenza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per  tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello  stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto diverso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità  né periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom.).  Il superamento è possibile; ma la possibilità non fa  storia.   Concludendo. Per ricostruire la probabile forma dei  primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci siamo  valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la constatazione degli elementi che quel nucleo portò con insistenza nella saga siracusana del V sec, e la ricerca  del primitivo nucleo nella leggenda analoga di un popolo  affine, il greco. I risultati sono scarsi, ma non insufficienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una  Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia  rapita da un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei  morti. E nel loro racconto si fondeva il fenomeno del  seme che sparisce fra le zolle con il rito consueto del  matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,  ma è anche molto a confronto con quanto si è osato asserire su l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi, IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA  Le versioni greche del ratto di Kora. Ofifrirebbe materia a larghissimo studio l'indagare tutte le  forme che il ratto di Kora assunse ovunque si sparsero  abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi.  Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del  mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contribuendo al suo formarsi, come confluendo ad allargarla per  contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non uscire  dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla  constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno omerico a Demetra è, come si disse, il testo  più antico in cui il mito di Kora rapita appaja; e come  tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima  forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi  la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono  state distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etiologica; entrambe furono oggetto di esami attenti: ci  basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes  The homeric hymns e a Jevons An introduction to  the history of religion. Solo un punto richiama qui il nostro esame ed  è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini conoscevano già le biade prima del ratto di Cora, tanto che  Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del  seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in  cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Metanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi  riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.   La concezione che predomina nel V secolo è in vece,  com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe fra  altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna  l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch  in RoscHER Lex.; Malten "Archiv ftìr Religionswiss.; Pringsheim Archdol. Bei- i  trdge zur Geschichte cles eleus. Kults). Ora è anzi  tutto da vedere come questa concezione nuova, che  contraddice esplicitamente la protoattica in quanto suppone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade,  e si può quindi chiamare neoattica, si comporti con  Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci  dà Apollodoro che conserva Demofonte per la  magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e  tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e Metanira, sovrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito  l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la  magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e  Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in meschina capanna. Di qui due problemi. È anteriore  la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo  che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demofonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone  con varii materiali un testo unico, della leggenda; sospetteremo che la sua sia una combinazione di mitologia  erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col  proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In  OVIDIO (si veda) in vece la combinazione appare di mitologia poetica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo sopravviene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto  negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà sopravviene, conforme al nuovo concetto, in luogo della conoscenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel santuario eleusinio una innovazione erudita  è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare  la precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma  ovidiana. Ci pare allora che il nome e il concetto di  Trittolemo abbiano acquistato predominio attirando nell'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e Metanira, che digradarono a poveri vecchi. Questa innovazione fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si  Malten e "Hermes:  perché orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli interpreta óvaavÀog " der eine arme Hiirte hat Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se  dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo seminatore, Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici  quali genitori, avrebbero scalzato Celeo e Metanira al  pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli  Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra  gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con  nome e personaggi di loro creazione; né come esso solo  acquistasse tanto predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e  parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor della  setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo  all'influenza orfica : che il particolare dei majali,  non è orfico esclusivamente, come pare a Malten e già a Forster {R. u. R.), ma  si riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati a un verso. Dunque in un carme ove dagli Orfici nemmeno  si accetta quella presenza di Atena e Artemide che fin  la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale  deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;  altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi  par chiaro che lo stesso moto onde Trittolemo = primo seminatore fu portato a soppiantare Demofonte e impoverire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e  determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci  sembra evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di Contro l'opinione comune che è in Gruppe Gr. Mi/th.  origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai rivela neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = seminatore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Argonauti si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal  Forster, Atena Artemide e Afrodite. Il confronto  con EuKiPiDE Elena (cfr. il testo del Wilamowitz  in Comm. gramm. e " Sitzb. Beri. Akad.) dimostra però che si deve trattare soltanto di Artemide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten  " Archi V; ma le presenta nell'aspetto euripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in  quello orfico di ingannatrici. Correggendo da un lato il  Forster dall'altro Malten, mi sembra che l'ipotesi  migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e  VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova  in Igino fav.  (non che in Claudiano), sia l'ammettere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico sostituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e  Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di  dee armate, sieno passate alla difesa della rapita.   L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, protoattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo  luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro e Geffcken). Notammol'uso che ivi è  fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a  guisa di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estremamente sommario. Ma il puoto essenziale vi appare in Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la  Sicilia or.,  li. modo non dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia  conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra regione; in Sicilia le due Dee facevano spesso  soggiorno; avvenuto poi il ratto,  Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante  la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi,  agli Ateniesi; gli Ateniesi quindi ebbero e diffusero la conoscenza del grano primi dopo i  Siciliani, i quali se l'erano avuto dalle  Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg olKeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo  e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per  intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleusinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del seminare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo dell'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa  premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la  famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi  e l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una  Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre tutti gli  altri lo ignorano, prima del ratto ; e della restante  umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar  bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i  Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo  con una figura indigena, come quei di Sidone con  un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus.);  né di farlo entrare in genealogie locali, come gli  Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.); né di identificarlo con un antico loro iddio,  come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach  Castrogiovanni (Leipzig) Essi poterono venerare  Trittolemo (CICERONE (i veda) in Verr.) come colui  che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo  il già loro secreto del seme.   LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a  comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti e in Metamorfosi. Si è discusso se si tratti  di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente  ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia distinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione  alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten  'Hermes, Tennero la  seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d,  Pers. poi Ehwald-Korn Metani. Noi crediamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole  assenso dal Wilamowitz (Sitzungsber. d. Beri. Akad.), sia in errore.  Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti :  Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il  lago Pergo durante l'antologia; Cerere  ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su  l'Etna; veduta presso la fonte Ciane la  zona di Proserpina, se ne sdegna: terras tamen increpat omnes  Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas,  Trinacriam ante alias e distrugge gli aratri e impedisce la vegetazione del grano; Demetra, dopo le indicazioni di  Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo,  ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per  aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim  iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa  recultae. Ora, noi vedemmo sopra  che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate  ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga  siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA  Euna. Ma la concezione espressa nei versi citati non si copre con la siciliana: è più larga.  Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si  la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile.  E Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora  longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno  subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa  concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Timeo? Ognun vede che essa contiene : del mito protoattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la  vendetta divina ; del neoattico, Trittolemo = seminatore. Ne rappresenta quindi un tentativo di conciliazione in cui s'innesta la leggenda siracusana con  qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta,  della zona e la supplica di Aretusa che il Malten calcola a un anno, è chiaro che non è preciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post  tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten,  che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten diremo adesso che la metamorfosi di Lineo trascinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ;  dacché vedemmo come questo personaggio stia bene in  quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contaminazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia  orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena  e Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non  è orfico; e perché ha ragione il Malten di riconnettere con la volgata poetica degli  Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis.  Resto incerto se questa conciliazione si trovasse già in  Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken  =  DiOD.). amore per volere di Afrodite. E di modello alessandrino essendo tutte le metamorfosi, la nostra conclusione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino  ove nella trama proto-neoattica con innesto siciliano sono interpolate favolose trasformazioni di Ciane Ascalafo  Ascalabo Aretusa e l'altre.   Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto avviene in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di  fatti Aretusa ve le aveva invitate e Cerere  vi era giunta da poco (modo venerai Hennam)  allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice  della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet  tirbes ecc., la frase, come vuole il verbo al presente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten). E quando Prosei'pina è introdotta vagante per  sua prata (v., si deve intendere " i prati di cui è  dea che tutta la vegetazione è in lei compresa nel  tardo concetto poetico (contro il Malten). Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga  per tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della  quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi presso  Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice  pi'imus arabit et seret et eulta praernia tollet humo, togliendo cosi la famigliola e gli uomini tutti  dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi  di bacche duravano (cfr. il proemio Ceres,  homine ad meliora alimenta vocato, mutavit glandes utiNel verso Dixerat, at Cereri certum est educere  natam il Malten) vuol vedere un riferimento all'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che  basti.  Non ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De  metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss. Phil.  Hai.. Uore cibo). Seconda tappa della ricerca è costituita  dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla Dea,  Helice ed il Sole. Da ultimo accade  il colloquio con Giove e il verdetto finale.  Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina.  Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che  ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe  proventi (non rediit) cessatis in arvis, ossia nei  campi incoltivati {cesso = non exerceo). L'interpretazione comune (nei campi trascurati) non può reggersi  confrontando i vv. già citati. Ora, dallo schema  cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre  le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità  che prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo  il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano e  si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si  connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca)  è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è  una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios delVlnno omerico (cfr. Malten); l'ordine cronologico  degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in  Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto  ad esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'intento artistico di non rappresentar Cerere nell'indugio  di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore,  può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di  Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità  in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di  gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà può reggersi ammettendo un' incongruenza irrazionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana  nel poeta.; e col gusto medesimo concorda l'accettazione del concetto neoattico. Adunque possiamo dire  che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione  sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi  tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.  Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta  nelle Metamorfosi e definita sopra: là si ricerca di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo  con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico  particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai  due componimenti unica fonte.   Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi  di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue  metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale  constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli  alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permetteremo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di  spettanza degli storici della letteratura, e del tutto  secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver  determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora  che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito siracusano, variamente intrecciandosi in complessi disegni. Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or., L'abigeato di Caco. Il problema. Intorno al mito che narra il furto  di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che  singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima  fra esse, della quale basti citare rappresentanti il  Peter in Roscher Lexicon e il Binder  Die Plebs fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il SANCTIS, STORIA DI ROMA, il nucleo primordiale  del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e  di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le  sembianze di Eracle-Ercole; il contenuto di esso è naturalistico e consiste nella lotta fra il dio solare e il dio  sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni mitico-poetiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti  lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli storici lo umanizzano e variamente razionalizzano. Per  l'altra teoria in vece, che sostengono fra noi il Pais  Storia critica di Roma e all'estero il v. WiLAMowiTZ Euripidea Herakles, il Wissowa in  PAtTLy-WissowA Real-Encykl. snon che, ora,  Rei. u. Kult. d. Romer) e J. G. Winter The myth lu - l'abigeato di caco   of Hercules at Rome in " University of Michigan Studies,  Humanistic Series „ Roman History and Mythology edit. by H. A. Sanders (New York), il  mito è opera dell'influsso letterario greco, pur concedendosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o  italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vulcano, (Pais) " forse, un'antica divinità del fuoco  (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di  lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. Il  problema era in questi termini quando fu ripreso recentemente da Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel). Questi facendo suoi i risultati del Wilamowitz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Gewinnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es  sollen nur die alterprobten Mittel philologischer Methode Interpretation, Analyse, Vergleichung mit moglichster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet  werden. Difatti, dopo una indagine la quale  " vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich erschienen sein solite giunge a sostener questa  tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai principii  della letteratura latina. I più antichi annalisti  lo concretarono nella forma che ci appare in Livio; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età  graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già razionalizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo  di reale istoria; solo la Romantik „ dell'età augustea Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella Beri. Phil. Woch. una sua  ingegnosissima ma, a nostro avviso, non convincente  teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di Festo,  Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto interpretiamo con tutt'altro valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO riprese la forma originaria : " Livius, indem er die Sage  einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen  allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,  Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende  Kleid der Poesie hullte. Il nome Caco era  diffuso in antiche tradizioni italiche; egli era  da prima concepito come semplice uomo, pastore o ladrone, e da VIRGILIO (si veda) solo è mutato in un mostro tra divino e bestiale. 'Eracle-Ercole' è già  nella primitiva forma della narrazione e il nome di Garano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione evemeristica della versione volgata del racconto.   A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di  Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di  questa che, per esser l'ultima ricerca e per presentarsi  con speciali pretese di saldezza logica e precisione metodica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto  la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sembianza sia falsa è per apparire. II valore del mito indiano.Nella mitologia  indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda)  ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza  esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta  di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono  dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra,  il muggir dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc.  (cfr. Peter). E ne furono tratte da  più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Hercule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris),  da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. MuNZER in vece ha creduto di poter trascurare al tutto questa significativa coincidenza tra il  racconto indiano e il latino, appellandosi ai nvichl'abigeato di caco   ternen „ giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e  n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare, (simile in questo  al WiNTER) l'errore fondamentale di tutta la sua  ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta  coincidenza può e deve avere non solo come argomento,  ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche.  Di fatti, accertato che, in forma quanto più è possibile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano,  ne consegue da prima che il valore allegorico di questo,  il quale non è dubbio (Bréal), dev'essere a  un di presso identico al significato di quello romano :  la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica  del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito  assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante  al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Alterth.), par metodico conchiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico  dalle radici arie, e non è in vece l'imitazione delle  fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci.  Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un  modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a  riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,  prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman;  Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.),  su cui si veggano Bréal, Spiegel, i miti greci di Apollo in lotta col Pitone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche  il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo,  pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto  naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben  lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la forma  del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Gerione Apollod., per Ermes l'omerico Inno a Ermes, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad  Apollo.   Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'episodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a decidere quale fra le discrepanti redazioni del racconto  latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali  elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evolutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto maggiormente esser antico un particolare e vetusta una figura quanto meglio collimi con le forme e le linee del  racconto indiano. Questo non avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si  precluse la via a giudicar con metodica  Nùchternheit i testi cosi dei poeti come degli storici e degli eruditi  latini. VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO (si veda); Properzio Il risultato  della ricerca che Munzer conduce nel suo I cap. (se  si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali  non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poetiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto  del furto e la vendetta di Ercole corre nel material numero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio,  1:2 presso Ovidio, 2:1presso Properzio. Die Folgerung scheint unabweisbar, che appunto nella vendetta  di Ercole Vergilio dev' essersi allontanato dalla tradizione precedente per concedere alla propria fantasia  volo pili libero e più ampia indipendenza.   Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di  contar i versi d'un carme per determinarne gli strati  mitici, i dati sembran da disporre in ben altro modo,  ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale  Cfr. Eneide; Fasti; Elegie. F., Kalypso  l'abigeato di caco   da quello dipende, come risulta evidente dalla semplice  lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer)  è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco  olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da tener  in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi  si esercitasse piti liberamente e più profondamente innovasse. che invece quello fosse anche nella sua fonte  leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del  racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il  poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili  ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti.  E non si vede per contro qual motivo induca il Munzer  a preferir senz'altro la prima e a proclamarla unabvreisbar. Ecco in vece che il mito del Rigveda interviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di  Indra contro Vritra è ampiamente narrata con presso  che tutti i particolari noti da VIRGILIO (si veda) ed OVIDIO (si veda) e costituisce, non meno che in questi poeti, un'essenzial  parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi è  da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il racconto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco tenebroso costituisse non pur una rilevante porzione della  leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il nucleo  della vetustissima saga italica.   Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pedissequamente imitato da Ovidio : cfr. En.,  Fasti. Ma perchè V. usa per la spelonca la  frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce  vix ipsis invenienda feris a esprimere un concetto  affine, il Munzer insiste a lungo su la differenza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti. Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia le due  parole semihomo, e semifer che V. usa a designar  Caco accanto a l'altra di monstrum Perché il sembiante degli dei è identico a quello degli ucraini, per  questo semihomo equivale ad halb Gott.  Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore  metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose  deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di vir,  da 0. tribuito a Caco non si conviene  alla concezione vergiliana del semihomo sebbene 0.  imiti pel resto l'Eneide e ripeta la parola  monstrum e la paternità del ladrone. Per vero il  vir, ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di Vergilio, SI a quello del Mùnzer. Ugual giudizio  deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare  delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava,  presso V. ed 0. . Nel mito indiano Indra usa il  fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le  saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi  solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del racconto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre  fossero già nella forma originaria o vi mancassero è impossibile dire.   Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco  e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una deduzione che gli è fondamentale. A quel modo che nell'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre,  cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio, Vergili©  lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo  è accanto a una serie di altri monstra, vergiliani  riportati ad analogia, l'unico argomento per  asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung  der dichterischen Phantasie. Per qual motivo  Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco  e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla  " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als  eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens. l'abigeato di caco Una confutazione ormai non è più necessaria. Più  ragionevole è la tesi del Winteb: che VIRGILIO (si veda) risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco  Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog.; Inno ad  Apollo). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica  e semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la  tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, si  può aggiungere, per altri consimili mostri), a fine di  colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non  già di ricrearlo.   Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale prudentissimo diviene Münzer; e non a torto,  in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel  dell'Eneide che il PtOTHSTEm dichiara come riferimenti culti a VIRGILIO potrebbero in  vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per  certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione poetica  della saga: riferimenti p. e. ad ENNIO (si veda). E parimenti  antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre  teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in  vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Gerione : e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che  il particolare venisse soppresso da Vergilio appunto  per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di  Ercole. Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito originario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita  Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr.  sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di Properzio o a  una sua brachilogica omissione, non è possibile dire. A  ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra  avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio  di quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione  di Evandro. LIVIO E DIONISIO Livio e Dionisio. Cfr. LIVIO (si veda); Dion. Il Caco di LIVIO (si veda) è pastor ferox viribus, e  prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum  nequiquam, invoca. E in somma un uomo: ben diverso dal monstrum di VIRGILIO (si veda). Di qui due possibilità si presentano al critico: o la concezione liviana è  prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la  statura del personaggio; o la concezione vergiliana è  l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Münzer  che s'è chiusa la via a sceglier con  metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili  ragioni. E nello stesso errore cade, per motivi  analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario  decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce  ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi  fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata  e umanata della saga. La quale serba tuttavia anche  cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana assai  dall'origine naturalistica. E poiché a ragione il Miinzer  afferma LIVIO (si veda) indipendente da VIRGILIO (si veda) e attinente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere  che l'età augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo  ed Ercole almen due versioni, l'una più dell'altra colorita.   A punto perché anche il racconto della fonte di Livio  è coperto di una patina da fiaba, Dionisio scrive :  UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv  fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il racconto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di  poeti, ma non di uno storico erudito, quello della fonte  liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser  riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene  uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli eserciti interi. Col che si confuta il Mùnzer quando,  l'abigeato di caco   prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa, afferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der  Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „;  e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo  alla seconda versione, più vera „ della prima e men  favolosa.   Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta  fra Ercole e Caco, quella su cui si dilunga VIRGILIO (si ved)  e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto  era il perno del mito e il fondo della sua allegoria;  quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M.). Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dionisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios. Tal differenza acquista valore se la si contrappone alla concordia  con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si veda) e Properzio, raffigurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in  questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli  storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non  identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif. fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : dell'unico mito, perchè nel " ferox viribus, come nel  yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro  MùNZER). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde  di non aver visto i buoi. Ciò, fu notato, corrisponde a Vergilio (abiuratæ rapinæ). In  Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se  non che cosi della presenza come dell'omissione è difficile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare  all'altra di condurre " aversos „ i buoi : ed entrambe ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano le astute imprese  del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono  burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba di Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce  contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze  COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due  i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso  letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi  spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio  e Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i  buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo del  tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer). E  anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può  essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vicini a quelli che solevano adz^ avvayQavÀslv : la  quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinsecamente connessa con la forma prima del mito. Né si  erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste  imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei  poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito come nei  suoi travestimenti razionali.   Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di  Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello  poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio;  ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma primitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune  agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito:  la etiologica, che attende ora il nostro esame. I particolari etiologici del culto. Quella parte  del racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio, LIVIO (si veda), Dionisio,  che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco  fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta  di particolari etiologicamente desunti dal culto di Ercole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bisogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal proposito il MùNZEE (p. 88) asserisce: dassin der Tat Cacus l'abigeato di caco   und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei  ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des  Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben,  rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind. E  anche: Der Einfluss der Verbindung mit Euander àusserte sich am frubesten und am bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher  bestimmt wurde. A questa concezione si contrappongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154): "hanno  contribuito a suggerirne del mito i particolari l'Ara Massima d’Ercole vincitore nel foro boario e le vicine  scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco etimologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico  del Palatino, Evandro , e il cattivo ladrone (xaxó^) dell'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente  A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros). La  tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile.  Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole;  e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella  forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si attiene il nome di Caco (scalæ Caci) e uno ove si  rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che  questi due servissero a localizzar il mito e il primo innanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche che  l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di  Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma  l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone,  prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole,  Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^,  e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu interpretato buon uomo per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la  saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Garano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne  la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il  Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità  dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simiglianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato: hic perperam idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re  vera auctor gentis Caciæ. E il Mùnzer accetta, pur  ammettendo che il nome alle scale possa derivar  anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben  Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt  und Bedeutung war. Ora il testo di Diod. (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog  xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig  Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv  àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet  Korà xìiv 'PiLfiTjv.TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv  UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pcoftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p  HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv  òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg  zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara  l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono: l'esistenza di scalae Caciæ, l'antichità dei Pinarii;  le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii  ed Ercole. Da questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il nome Ilivd^tog) (per  analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le  cui scale son prossime a quell'Ara Massima (JoedanHuLSEN Topogr.) ove al culto erculeo i Pinarii  partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad  l'abigeato di caco   ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra  Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche  il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché  i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa R. E., VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel  culto, non è arrischiato pensare che il racconto in cui di  quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran  inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA CRITICA DI ROMA:  contro WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se  la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto  Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della  lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto  il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si veda) Fasti), se ne deve concludere:  che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana ch'è  fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso  verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nell'altro verso l'Aventino (caverna).   La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la  quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,  tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole.  (Cfr. Peter). Che se il mito di Caco è,  come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è  un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle  greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in  genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc.  In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno  tre versioni : da Properzio; dallo scritto OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti,  in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che significa come un unico fatto venisse travestito in almeno  due forme diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi inventori che è ricordata in Dion., Solino, Origo  geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il qual  silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'altare e YAra maxima non era nel mito etiologico essenziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è  improbabile che il motivo ne vada cercato nella topografia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori  è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole  (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda invenzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe  erige l'ara a Giove. Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che  il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente  per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma  l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) intorno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, che è  essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio  1. e, Dion. l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino, Serv. En.  (= Myth. Vat.) e nello scritto  Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si  sa bene perché, è però narrata in fogge  diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui  la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio  in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale,  fra gli spettatori del primo sacrifizio: e secondo Servio  egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istituzione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora  di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e  Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico l'abigeato di caco   (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché  la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a  nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato  e Temide son sue variazioni di sapore greco. E parimenti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio  della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però  con una base topografica non pseudo-etimologica. Entrambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di  Evandro.Se non che tutto cotesto processo semierudito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età  Augustea, in quelle medesime ove non è più incerta  la localizzazione della saga nel Foro boario ed è solidamente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne  deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo  di gran lunga più tardo. Rappresenta dunque il terzo  strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui  un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la venuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su  Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom.). Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria  la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno  in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (DerCYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee); o di Fauno il  figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl. cod.;  cfr. anche Schweglee Rom. Gesch.). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito è,  a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre  strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aventino) ; Ercole, con l'Ara Massima; Evandro, con taluni  episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie,  come sul mito vero e proprio, si esercita il razionalismo  degli eruditi.  Gli eruditi. Il riscontro degli errori in cui GLI ERUDITI cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal  suo cap. VI die antike Forschung. Egli si trova di  fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra  tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi  incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam  Romani consentiunt: solus Verrius Flaccus dicit Garanum  fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit,  omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules  dictos,) e nello scritto Or. gen. rom. Recaranus quidam, Graecæ originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui  erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus) ritoma sotto due forme diverse un nome differente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus  e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è  incerto (con Mukzee contro Peter o. c.,  Pais., Winter, Bohm in Pault-Wissowa R. E.). Ma non è incerta, a noi pare, la interpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è  antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più  tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica,  lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto  due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che  gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non  potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole  per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Hercules dictos,. Riteniamo per conseguenza legittimo attribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae in Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu  Leipzig, Phil.-hist. Kl. l'abigeato di caco   preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in  vece Mùnzer deve asserire, giusta la sua tesi,  che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi  (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore,  dargli avversario un semplice pastore non un eroe famoso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è  originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio,  sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario  di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Garano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia ricavato.  Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura  del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto,  l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n.  e WiNTER accettano), Garano e Recarano esser  " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide,  fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti  può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non  ha per sé se non un'approssimativa simiglianza formale  dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata,  giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi  latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia  un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi  di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile  che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso  della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'ostacolo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia  preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo  mito latino. Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su  Caca. Servio En. (= Myth. Vai.) parla d'una sorella di Caco, Caca, la  quale lo avrebbe denunziato: ed ivi pure è data notizia  di un " sacellum Cacao,, e si aggiunge " in quo ei per virgines sacrificabatur (cod. Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); pervigili igne  sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima  lettura è la preferita; la prima sceglie il M. Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella  sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è  pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un  ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve  ridursi ad ammettere l'esistenza del sacellum  a una dea Caca. Col che ha già ammesso troppo contro  la sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro  pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio  Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrifica sicut  Vestae, e l'altro emette fiamme dalla bocca, la deduzione non può esser che una. Verissimo tuttavia che  lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da  imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco  felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il  travestimento di queir " una boum, che appresso VIRGILIO (si veda) rivela il furto né meno il M. osa sostenere.  E se il sacellum Cacæ sia per il M. oscuro al pari dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri  non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto  a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte.  Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvicinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. si esprime: Cacus secundum fabulam Vulcani filius  fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia  populabatur. veritas tamen secundum philologos et historicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum  servum ac furem; ignem autem dictus est vomere,  Cfr. su Caca, Giannelli II sacerdozio delle vestali  romane (Firenze l'abigeato di caco   quod agros igne populabatur; novimus autem malum  a Graecis kuhóv dici: quem ita ilio tempore Arcades appellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut  'EÀévi] Helena (Cfr. Myth. Vat.).  Poi a En. si danno le notizie sull'Ara Massima i  Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che  qui non c'interessa più. Il razionalismo si  è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar  il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il  nome.   Molto più si permette il racconto che si trova in Origo  gen. rom.: " Recaranus quidam, Graecae originis,  ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat  forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus;  Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et  praeter caetera furacissimus: tali i due avversarii.  Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca  è per partirsi quando Enander, excellentissimae  iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum  noxae dedit bovesque restitui fecit,. Allora Recarano  dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara  Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi.  Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne  son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo. Cotesto racconto è di gran lunga più finito e particolareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione razionale qui si estende fin là, dove il primo non si dilungava  da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore concilia col più noto d’Ercole, Ercole mutando in soprannome.  Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro  come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché  d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo  di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era  ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),  GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, senza  dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non  si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale potesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la profezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo  stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita  da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta confusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a  spiegarla.   Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza profonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimiglianza in altri. Di questa si comprende il valore comparando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che  Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla  prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i  concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su  l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha presente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne  vale solo saltuariamente rispettando molto pili il racconto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte  di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore  àeWOrigo, è detto quivi haec Cassius  libro primo Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Mùnzer a tal proposito suppone che a Cassio  venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter  fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò verisimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco.  Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione  erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di  lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del  resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al racconto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena  assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e F. Kalypso. l'abigeato di caco Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e armonica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi  definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.).  Di natura opposta alle due testimonianze erudite che  furon or ora discusse sono i racconti di Dion. e  di Cn. Gellio appr. Solino = Peter fr. Difatti là  dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a  due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eserciti. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si  conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di  Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d.  Bom.); per contro Gellio è oscurissimo, Cacus, ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno,  ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et  unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa  Vulturnum et Campaniam regno oppressus est. Megalen  Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti. Il carattere che sùbito appare più evidente in tal racconto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se  esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito,  le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son  tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i  Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche  righe, ed è difficile che una schietta e unica leggenda  originaria accosti per tal modo tanti popoli. Ora fin  che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato  sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino, possiamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a imagine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della prima  Sannitica inventandone un precedente; che non si scosterebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio  la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da  un mito cumano o campano (il passo di Festo s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e  nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e  i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi, trattarsi  d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimologica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando  in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone)  che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per  qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui  un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è ritratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi  [KòETE Etruskische Spiegel V tav., Rilievi delle tirne  etnische; Petersen Jahr. D. Instituts; De Sanctis Elio;  MuNZER 0. e. e Rhein. Mus.]  e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio  contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilissimo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere  se anche per i Marsi si debba attribuire la loro presenza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della  storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla  contaminazione d'una terza leggenda con la latina e  l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rappresentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla  leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne  esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla  poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire  la fiaba che sarà poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo, il racconto che narra Livio. Per ciò Dionisio dopo aver  esposto il mito assai similmente a LIVIO (si veda), dà il suo àAri- éazeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.óg =  liviano: dà, in somma, il racconto razionale dell'anna- m. - l'abigeato di caco   lista pili tardo come ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista più antico. Allo stesso modo che  Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al  testo vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cóme  vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è  da preferire quella che crede ad un antico mito latino»  in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze  ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coerentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del  De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati  (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)  si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è  elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un  annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età  augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dionisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste manifestazioni.  Cirene mitica. Bibliografìa e metodo. Il complesso dei miti  raccolti attorno alla figura di Cirene è studiato già da Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae) che raccolge i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe vagliarli. Trova poi trattazione minuta ed accurata  per opera di Studniczka Kyrene, eine altgriechische  Gottin (Leipzig), che la stessa materia rielaborò  in RoscHER Lexicon; e di Malten  Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen  in Philologische Untersuchungen, del Kiessling e Wilamowitz ove è tenuto conto anche delle ipotesi brevemente enunciate da Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol nella forma diverso  si vegga questo capitolo negl’Atti della R. Accademia  delle Scienze di Torino. Qui appare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora  consente. Dopo i quali non si vuol citare che  lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in Ausonia. Indipendentemente il  Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una  stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si  contrappone in modo reciso a quella dei nostri predecessori. A prescindere di fatti dalle particolari discrepanze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler  cercare un significato recondito nei miti (Costanzi) p, oom'io mi espressi (Atti), nel non volervi  cercare la chiave delle più antiche vicende greche in  Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter spiegare la leggenda di Cirene  senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalobeota in Tera; e Malten pure  stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia  fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelopico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure  divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di provare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra  cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti  a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio  in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico  punto di veduta, passo ai particolari. La ninfa Cirene. Dopo che il Malten ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura  libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo  essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su  questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a  me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let- Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen  Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst  nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist,  friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden,  war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und  es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter  des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten  Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die  Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffskatalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der kyrenaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Diomedes, kehren auf ganz engem Raum an der thrakischen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit  einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden  Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten; Studniczka). " Aber nicht genug damit. Auch in Kroton ist ein Kyrene (als Mutter des Lakinios) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte  ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue argomentazioni non  potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con  cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelligente gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi,  manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso  sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria Jambl. vii. Pijth. (N. d. Gr.). CIRENE MITICA aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem glaube ich entnehmen zu durfen: dass Kyrana und  seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder  der Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein mùsete von Griechen tìbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordentlich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden. Aus Grùnden, die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich ùberzeugt, dass die Verknùpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von  wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen, will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer Sagen den àltesten Bestand der Ueberlieferung von  Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Trezene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed  Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia;  bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio  a Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da possibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle forme e nei  luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo  alterarsi non sia ben motivato. Il carattere spaziato è introdotto solo nella trascrizione.  Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si sarebbero potute raccogliere tracce  di due al meno fra le quattro figure la cui presenza è  riscontrata in Cirenaica; Aristeo e Cirene. Tuttavia farò  sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone:  il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una  persona non prova assolutamente nulla intorno al culto  locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente  da mantenere la forma Cirene per la madre di Lacinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes;  cfr. Serv. a VIRGILIO (si veda) Eneid. Localizzata di fatti  Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole,  reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia  dei Romani), non è improbabile che a Crotone  si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli  di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'eponimo del Lacinium promontorium li presso. Ma se mal  sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE,  altr' e tanto incerte son quelle che Gruppe ne riscontra  in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in  IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto  improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di  Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera  e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;  credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la supposizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse  il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma né questa  ipotesi è semplice, perché presuppone un originario nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede un  ampliamento Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone né  è in alcun modo giustificata, perché, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia,  nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricorrendo persino a contorte vicende. Più semplice e giustificata la supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi  a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Maronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per  opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo  vi è congiunto con Dioniso; perché non si debba ritenere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la  supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indipendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde  difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni,  e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio  del Fai^oxog. Or come né in Crotone né in Tracia Cirene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fondatamente asserire che in Libia Diomede non ha radici  profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a  simiglianza degli Argonauti; ma sol tanto  perché quelle coste sono, nella tradizione poetica dei  vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo  quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leggenda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare. In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in CROTONE, dubbii  in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza identico all'avo dei Battiadi; in Libia Diomede non esiste. Per di più, oltre ad essere incerta la presenza  di tutt'e quattro i numi in CROTONE in Tracia in Libia,  non si capisce, se, come vuole Grappe, tra quelli  lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi  altrove, perché a CROTONE il perno del mito sia il  APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea  fondamentale della leggenda sia la discendenza di Diomede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito  dalla commessione Cirene-Aristeo. E né pure si capisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a  Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e  per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di  Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della  leggenda si distrugge e si trasforma: senza causa  evidente.  Non posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe;  e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade dubbio che Apollo  e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di  Wide e Hofeb in Roscheb Lex. Ma per  il mito di Cirene è di somma importanza il determinare  se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in Tara prima  che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto  in Cirenaica (cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv  Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor  del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv... ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig  ...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer),  due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove  il culto appare di sufficiente antichità la figura di Apollo,  separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo; o  pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro originario nelle altre sedi del culto. E  questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi  ritengo preferibile all'altra. CIRENE MITICA   Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene,  giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen  Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico  di Apollo-Carneo non è imprudente o arbitrario il  supporlo già sussistente nella seconda metà del sec. anteriore. Né a tale ipotesi è contrario Malten; il quale scrive: Gewiss ist die Verbindung ' ApollonKameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder  erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und  hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se  non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è logicamente possibile. Poiché difatti tutta l’lliade (prescindendo dai  più meno antichi strati) dimostra il carattere preminentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del  santuario delfico e della sua preponderanza famosa è ben  riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.; se si ammette che già in Tera Apollo prepondera su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si  ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Cirenaica avevano ormai alla loro principale divinità riconosciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto  del tutto superflua la opinione che un tal carattere a  quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene.  La quale appar quindi non la causa del fondersi insieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un effetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e  per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX,  Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo.   Dove appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato,  crediamo, dalla terza figura su cui è costituita la saga:  Aristeo. Aristeo. Non è qui opportuno studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto  dal Malten e negl’Atti dell'Accad. di Torino.   Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi.  Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (ràv  'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g  dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possibilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo  il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia)  e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di  quella connessione e la determina. Tra le due possibili  ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una  vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole  dell'Egeo, quali Ceo  Chic l'Eubea, e l'Arcadia:  onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche  strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse  culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che  nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e  dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo  manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si  può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto  teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco conosciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei  più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro  la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che cui risale la  Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per l’Eea di  Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si commettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Cirene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno  Cfr. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos  Diss. Giessen stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con  Zeus in Arcadia: cfr. Malten. L'analogia è  sufficiente motivo. Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero  originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli  è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere  un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo  ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti  riescono di minore rilievo a confronto con quelli che  riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico  Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire  nelle sue linee principali il componimento da cui quelle  tre figure vennero collegate in racconto: l'Eea.  La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Convengo col Malten che le fonti cui dobbiamo attingere più direttamente per la ricostruzione dell'^'ea  di Cirene sono : Pindaro Pit., Esiodo t'r. 128 Rzach^,  Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO (si veda) Georg. = Esiodo fr. Rz., Apoll. Rodio cui  vengono aggiunti se bene per la loro sommarietà non sieno  di grande valore, Timeo appr. Diod., Nonno Pan.  Dionis.  (Malten). Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono  attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti Malten lascia in dubbio ob der Gott schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der  Kjrene wurde; ma, per amor della sua tesi,  asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte  Kyrene das Gefallen des Gottes. hr Sohn ward  Aristaios,  elementare : ritenni originario tutto che ritornasse costantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più complesso. Fu dimostrato poc'anzi che non può venir  attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di  Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è, chi ben  guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,  Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tessaglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo  dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto  del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è  pure ovvio, che essa contenga più propriamente tutti  quei particolari i quali più propriamente sono con Aristeo  connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è  il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è probabile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone. D'altra parte la figura  di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante  perché traverso essa e per sua causa non dovessero penetrare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti: i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al canne  esiodeo alle sue più tarde propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi risultati; Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti;  Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo:  cfr. Malten. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si vegga  inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea  di Studi critici offerti a C. Pascal, (Catania).  CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone.  Se non che questa variante è sospetta, come quella che  tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chirone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che  spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il centauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con  Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge  la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La  lotta col leone è ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da Apoll. R.: questi l'introduce  nell'officio di pastorella. Il Malten resta per ciò incerto su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel  si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra, mostra come esso si allontani assai dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al quale adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della lotta che troppo male  consentivano al paese tessalo. Chirone profèta le  nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col  quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribellarsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio,  allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non  la prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal  doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apollonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; inserto quello. Apollo trasporta la fanciulla in Libia  sul suo carro (Malten). Cirene è accolta da Libia.  Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai  vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten. Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve  dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da preferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai. vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in  cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito  pili fermamente da quel di regione, si è al tutto ritirato;  mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come  mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite. La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQoóczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit.)  e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr.  Malten); giacché non trascurabile culto a essa dea  si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne  presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone). Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo.  Cosi Apoll. R. Pindaro Pit. attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo  esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.  l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton.  LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in  Euripide Ione Ermes per ordine di Apollo reca  Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo è allevato dalle  Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio  si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon.:  però che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche  dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di  Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica che introduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le  Muse; varianti delle quali la prima troppo strettamente  Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del  carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'alterazione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana è pertanto preferibile. (Ciò  contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che  le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un trascorso impreciso dell'autore che una vera e propria vaA. Fersabi>-o, Kalypso. CIBENE MITICA   riante. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone  ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo  (cfr. Malten). Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado  delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino  all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello.  Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Aristeo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di  Eufemo su cui v. ): cfr. Malten che qui  si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide)  è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini  tessaliche del culto di Asklepios in Rassegna di Antichità  classica contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien in Sàrtr. u. Sprakv.  Sàllsk. forhandl. Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e sanatrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} e Wilamowitz  Isylìoi. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio;  poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo  e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in breve i risultati di queste  ricerche, abbiamo: che Cirene è nome libio-greco  della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad  Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante  il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene;  che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia;  che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene  ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro d’elaborazione mitopoetica. Euripilo ed Eufemo. Le due principali figure  del racconto di Pindaro Pit. han dato occasione alle più diverse ipotesi: cfr. Studniczka e Malten. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a preparare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito  cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della  ninfa Cirene. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in Misia,  figlio di Telefo e condottiero dei Cetei; in Acaja,  Pads. Ora è probabile che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. WilamowiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti  gli altri sono indipendenti. L'Acaico viene bensì da  Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che  altri già allora combattevano questa teoria: iy^aipav de  i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqrijtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p  PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég  "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Evidentemente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine  dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era  ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Euripilo di Tessaglia. Il re dei Cetei è da Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricondursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne  senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe  esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in  Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui  lasciata in Arcadia al contrario di Telefo  e Ceteo.  Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipendente di un Euripilo in Misia. Alla schiera adunque Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens. di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia)  viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro  i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omonimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manifestazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima  unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia facilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia  porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto,  questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato  presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli  appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che  impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del  Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino)] che era ritenuta appunto apertura di Dite  (cfr. Strab; Tolemeo Geog., 4, 8;  PLINIO (si veda). In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da  uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi. Pind. Pit.) cfr. Malten:   Atlante  I  PosiDONE ->- Celeno £lios   I I Tritone Euripilo Sterope Pasifae  LicAONE Lbdcippo   Se non che questo schema ci appare sùbito una combinazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak.  Kul.), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. e  Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo (Eeod. eSTUDNiczKA) souo accertati in Libia da altre fonti:  elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce  (cfr. Maass Hermes e Studniczka). A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di  Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi., Apoll.   Bibl.) è padre Posidone e madre Celano, Atlantide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inserendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una generazione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è  Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito  lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios. Sia però questo o altro il procedimento seguito dall'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla  più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze  commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a  quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se  non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio  fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condizioni geografiche.   2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera  con la Libia. La connessione con Lemno è una conseguenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con  questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito  vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo  {scoi Pit., scoi. Apoll. R.). Resta adunque  ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per  patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi di Cirene per  vantati discendenti. Ora in Beozia v'è traccia della sua  supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non  v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non  originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteristicamente beota. Col che si connette la sua presenza in  Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia :  a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti  beotici e tessalici. Ma perché i Battiadi ne avrebbero  fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co[CIRENE MITICA] Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne facessero il proprio avo. Costanzi mi par ben più  vicino a una probabile ipotesi: I Battiadi stanno ad  Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli  Euripontidi a Prode; come, soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste analogie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno  cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore;  Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille  nell'epopea: e similmente ArcesLlao, appellativo di  quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade (cfr. Pads.). E se è errato sostenere col  Mììller Orchomenos che di Beozia fu tratto il nome,  non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il nome  beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quand'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genealogia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio,  le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzionate al fatto che vogliono spiegare. Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo  che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,  importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide  Lak. Kulte). Non solo, ma i caratteri di Eufemo  (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più  vicini a quelli di Apollo (Stodniczka) e, in genere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che  a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo ritennero Eufemo p. es. Studniczka e Maass  (Gòtt. Gel. Anz.; Orpheus) solo sul fondaBen altrimenti Gruppe Gr. Myth. I rapporti  di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro  un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :  fondamento per cui s'indussero anche a forzare il significato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto,  eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità ctonia.  Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra  Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osservazioni, si legge la Pitia, vien fatto d'interpretarla  nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro  punti si dovevano necessariamente far toccare, tre forniti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene: a Lemno abbiam già veduto  Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spiegare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per  Tera s'inventò lo smarrimento della zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo èfiglio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto  di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro.  Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa  ipotesi molto più semplice che non quella del Malten. Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo,  e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di introdurlo nelle genealogie laconiche; difatti lo troviamo  nipote dell'Eurota (Tzetze Chil.); o figlio di una  Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una Laonome  sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar peso a tali genealogie, e in ispecie  all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indipendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre  è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri.  Akad. Wiss.).  CIRENE MITICA   e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif.  Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare,  già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre  dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello  con cui al Tenaro si venerava Posidone:   fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri ^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi Evvoacyaiq)   fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g.   Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino fav.; Acesandro e Teoceesto in  scoi. Apoll. B.. Se dunque è vero che la localizzazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Battiadi), cotesta Eea non può esser che sotto l'influsso cirenaico. La qual cosa spiega o può spiegare per analogia  anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente)  di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché  l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singolare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in  quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un  modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre  regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar  Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,  per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten Crediamo adunque di aver mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo  a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo  beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,  certo è estraneo al Tenaro. Al Malten pertanto che  afferma Euripilo ed Eufemo costituire eine Reihe, die  ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thessalien hat, e con l'uno d'essi collegarsi intimamente [EUBIPILO ED EUFEMO] Atlante e Posidone, urpeloponnesisch, possiamo  rispondere di aver troncato a quella " Reihe per Euripilo r Endpunkt, che sta in Tessaglia, per Eufemo  l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa  sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo,  reciso i nervi a quella teoria.   Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In  LicoFEONE naufragano su la costa libica Euri pilo  (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo  magnete. Onde Malten sostiene che il naufragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cirenaica (LicoFB., Apollod. a Wagner): e  rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi  però abbiamo già osservato a proposito di Diomede che nei vóaroi la spiaggia libica  appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leggende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per contenuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un  Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un  omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra  opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo  non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,  per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi,  Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli  era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una  zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente  le due figure, non resta che studiare la trama narrativa  in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argonauti in Libia. CIRENE MITICA  Gli Argonauti in Libia. Poiché su questo  punto io profondamente mi allontano dal Malten terrò più minuto discorso. A quattro redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro Pit.; Erodoto; Licofronk; Apoll. Rodio; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con  Medea dall' Oceano sopra l’Argo, debbono per dodici  giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino  al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro  Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone,  una zolla: fatidico dono. In questo racconto non v'è nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla  quindi che non paja inventato per il loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è  l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il  lago, di cui Strab., presso Berenice (Bengasi)  che esiste tuttora (i laghi salati). E non si vede bene,  svibito, perché per l'appunto quel lago venisse scelto  per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della preferenza; però che paja invece piti probabile il contrario:  Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra  parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat-  tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo  a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il  che lascia supporre che in Libia una leggenda più antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possibilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo  mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi. Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una  interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si  potrebbero moltiplicare. Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esiste una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle  strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la  nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode.  Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo  presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città: Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat,  TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti : il  dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.  Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non  ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli  altri CosTANzi 0) un riflesso del tentativo com-  piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo. Ma il dono del tripode non è che fittisiiamente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo: suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone  la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è  notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localizzato però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione  infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è  assai più antico, e preesiste a Dorieo: gli appartengono  i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di  Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, grossolanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi  simili. Identico è il nome della palude; ma diversi sono  i luoghi: tuttavia più vetusta appare la identificazione  C'IBENE MITICA con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte  (cfr. RoscHER nel Lex. e Costanzio.). Identico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e  non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso,  risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente  dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma  la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo  degl’argonauti si convenga il dono che serve a favorire  il viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto  vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato  adunque più antico d’Erodoto appare alla nostra analisi come la forma su cui vennero foggiate: da un lato  la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, con alcune  alterazioni dicevoli; dall'altro la leggenda spartana in  favor di Dorico, con altri mutamenti opportuni. Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e  Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo  ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non  lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già  gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda  giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Kivv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten, che fluisce, in  vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argonauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere,  per compenso del quale egli insegna loro la via, e profèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché  riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impauriti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il  cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena  son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazionalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il  mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI IN LIBIA] Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che  in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio  (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr.) (contro  Malten). In breve, Licofrone contamina; mischia insieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto  sirtico-spartano del mito. Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Argonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti  nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una  zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati: il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo  (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi conscio della contaminazione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge  con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a  oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella,  di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano puro effetto dell'arbitrio di poeti. DioD. narrando (qual che ne sia  la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano  d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra  come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola  Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse  trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro  lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse  furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e  Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona conferma delle premesse medesime. Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che,  nella complessiva spedizione, occupa l'episodio degl’argonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la CIRENE MITICA conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Erodoto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna  dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben  possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicitamente, ma solo parenteticamente, degl’argonauti. Inoltre  la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo  del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi  che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati  delle ricerche sul mito dei Battiadi. A favore  di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico motivo favoloso su gli Argonauti in Libia: conducendo quivi  e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei  Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando  i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di  Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento  di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifacimento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note,  non già altre, anteriori e ignote.   Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene crediamo si possano mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili. Callimaco e il mito di Cirene. Malten vede nel nesso Cirene-Euripilo la forma  più antica della leggenda, quella che l'Eea adultera. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come AceSANDRO {scoi. Apoll. R.) e Filakco, storici,  cirenaico l'uno, egizio forse l'altro, sente  una più viva eco e più genuina della primitiva forma  mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tessaglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui- [CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE] tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea  avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con  quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia è invero  signore di Ormenio un Euripilo figlio di Evemone. Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro, è pur posteriore alla leggenda dinastica degl’Eufemidi, già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura  ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degl’argonauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia  una posteriore forma indigena della leggenda che è oggetto del nostro studio; a quel modo che VIRGILIO (si veda) rispecchia una posteriore forma straniera. A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase  di lui fievà jiÀeióvùìv: Cirene di fatti sarebbe pervenuta  in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po'  diverso, è Giustino: mandati dal padre di Cirene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fermati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora,  come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di  Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano  in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso  indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo,  bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che  vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi  di questo processo mitopeico sono: Euripilo è in Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ;  dunque molto prima di Batto; Cirene è in Libia rapita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto; Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli  antichi tempi) con Cirene, che ha il trono da Euri- [OIBENE MITICA] pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le cui forme non si debbon confondere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee. Esegesi novissima. Storia e indagine su Civette mitica soo in questo volume già per intero composte quando apparvero di Pasquali le Quaestiones  Callimacheae (Gottingae) ove il  mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo  altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle  Scienze di Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere in the Lazio”. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e unica Roma, one and only. Mussolini’s dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” – The Swimming-Pool Library. Aldo Ferrabino. Ferrabino.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferrando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di CORIOLANO, ovvero, la filosofia – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. È inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con SALVEMINI (si veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce. Espatria a New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal tutore *come* pensare, non *cosa* pensare".  RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe.  appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.   Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin. BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa. Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»  (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della presa di Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.  La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Fœdus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.  Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota:  L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci  LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.  In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.  «...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.  La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani.  Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini.  Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza che i Romani portassero aiuto a queste città.  Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani.  Leggermente diversa la versione di Livio:  Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»  (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli, Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma.  «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»  (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è concordanza sulla morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma. Secondo Fabio, muore di vecchiaia in esilio.  Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove è stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi. CICERONE (si veda), nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.Critica storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE (si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele, Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.), composta per la tragedia teatrale omonima di Collin.  Gens Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Guerra   Portale Politica Sesto Furio Medullino Fuso politico romano  Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio)  CORIOLANO Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander (Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni “Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu” (i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.  CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica; Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo; Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.  CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI  Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli, ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!  SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.  PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia. MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;  abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori  perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la fogna del corpo... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia così dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,  e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!  Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli, l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe.  E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio: chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti; perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria. MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione...  una richiesta assurda, da spezzare il più generoso cuore, e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più. Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo. Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono,  vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego.  (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna. BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito.  BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di battaglia  avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore,  che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi.  VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro:  che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto  e le sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto.  VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città.  MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli scudi,  all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo seguo.  SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a Roma.  SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna  decide di portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da quanto tempo sei venuto via?  MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del riscatto,  con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite;  ma non saprò giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa, quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi. COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli  TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.  Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà. Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!...  MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)  Questi strumenti che voi profanate non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso  poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.  Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li sostiene.  Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città, informati in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei.  BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia!  Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza!  MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare, e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio! MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze vostre;  ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.  VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici  da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio...  ora che t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92),  debbo rendere omaggio ai senatori dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino, espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console.  BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio  i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)  SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli  di una forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori, a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato.  SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero riuscite a trattenermi.  Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il miglior soldato in campo  meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia. Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli.  COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio)  Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua  a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie.  SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...  Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici?  TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo,  che elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri voti. (Ai due)  I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.  MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato;  e col berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto trar partito  dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota. PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,  memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”, da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del passato,  avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno. (Escono)  ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.  CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo!  CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.  MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo  affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa!  E mi sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro, dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre  la cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile. MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano giudicare,  priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge. I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!  SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla!  SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.  EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero.  MENENIO - S’ha da arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo. CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare. È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.  COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo. Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla)  Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto  egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via!  MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso, mi minaccino morte sulla ruota, o trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra  sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare.  PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,  accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione, o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti  son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e comandargli  di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato  da me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene?  EDILE – È qui che sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me, completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia, per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”, se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare, ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto: una volta scaldato,  non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le colpe che saranno a tuo carico provate.  CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO - Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO - Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa... CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io, traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi  la morte ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO - (Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO - Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto, udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma... CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco. CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,  bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri orgasmi!  Che ogni minima voce metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume, vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono)  ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi? - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi.  (A Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di me  se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono) SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini  possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...  BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone. Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!  (Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito!  NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio  Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città  che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!  CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?  CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi. TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica  agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma. Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia:  usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra,  tu m’hai piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di cacciarlo a bastonate...  Però dentro di me lo sentivo che il suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco. Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come una condanna a morte. I DUE - Perché, perché?  TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui è in discapito...  PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!  (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro)  Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo dappertutto la notizia  che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no, non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione, stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti. L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no! Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile! SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse  - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO - Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori, travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé. Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto! MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare, incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO - Insomma, che notizie sai? Ti prego!  (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti? Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I Tribuni?  Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra. MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna, e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi tutti:  farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva... SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO - Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro, voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio? COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO - (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani)  BRUTO - Brutte notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio, se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO - Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)? LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà  e dimostri d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono alla stima del momento;  e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono)  SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva castigato. ATTO QUINTO  MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?  Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare? SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata. MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo, siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire. MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO - Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto: se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184)  è il carceriere della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena, in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio.  1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a pensare  che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare  e poi svieni, per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi. Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.  AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante. (Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire, secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini  e sei rimasto pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare. CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio, d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò. Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue... Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e il mio ragazzo ha un’aria così supplice  ha un’espressione così supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma, e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a te  su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!  (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.  Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai! - muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio, non lasciarci così! Se il nostro chiedere  mirasse solo a salvare i Romani e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato, sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non hai avuto mai in vita tua  un tratto di filiale gentilezza; per lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre... (Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù! (S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni! Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi, sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma esponendolo  a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia! (Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà. Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio, avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?  MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto  quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene:  stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una piazza Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori  ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,  quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli  si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi  fino davanti alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso ragazzotto!  CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore! “Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome  abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale  con la solennità che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte, “Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri.  “Ere we become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello” (“as lean as a rake”).  “I need not be barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. “Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity, insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo. “The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della Roma antica.  “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa.  “What says the other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. Cioè al momento della loro messa in atto. Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini. Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio. “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”.“It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. Cioè conquistare la città di Corioli assediata. “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi. Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. “their honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per costoro...”).  “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. “The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio da quello di qualsiasi altra”.  Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”.  “O me alone, make you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni, anche la più poetica.  “... dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”.  “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”. “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera. Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”.  D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori, “Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati) impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e   insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole.  Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di persone investite di pubblica carica.  “...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa.  “... against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra udienza”. “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da tennis. Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”.  “... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei vincitori.  “My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso!  “And live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista prima. “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò “cancro”. “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a Menenio. “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato. Altro smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!).  “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”).  I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana (filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”. Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. “We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”.  “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”. Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for Measure”. “... and is content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata nel Medioevo!  “If it may stand with the tune of your voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti” ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio.  “... you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. “... battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli.  “... have you chose this man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore. “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. “... being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica.  “... by yea and no of general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”).  “Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi. “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare.   “His nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava girando.  “Wollen vassals”: le robe di lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8 di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare). “I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”). “Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente MACHIAVELLI (si veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice.  Il “cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. “I will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. Il senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo.  Le piume dei loro cimieri, s’intende. Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima.  “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. “Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha “Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”). “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. VIRGILIO (si veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob iram”). “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo iBradley - in tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo.  “Then thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa.  “Whilst he’s in directitude”: sta verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”, strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. “His remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente, a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di “means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a senso.  “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone.  “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti.  “Do they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma. “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.   “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale).  “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano.“Col tuo superiore” non è nel testo. È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe.  Cioè “io ti vedo in una luce diversa da quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei suoi drammi.  “To your corrected son?”: frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano.  Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio.  Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti - come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered”, e da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath widowed...”. Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. thou has made my heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library. Guido Ferrando. Ferrando

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferranti: implicatura conversazionale, ragione, deutero-Esperanto – e lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma. Collo pseudonimo d’“ingegnere Filopanton,” presenta il “simplo,” ispirato al progetto di PEANO (si veda), nel saggio “SIMPLO INTERNATIONALE LINGO: CONTRIBUTO AL STUDIOS DIL INTER-NATIONE LINGO PEM SIMPLIGITE FONETICE-GRAFICE SISTEMO”. Lo scopo è quello di creare un SISTEMA in grado di rendere l'apprendimento della lingua internazionale facile e veloce, tramite l'abolizione delle desinenze, dei suffissi e dei prefissi e un rapporto intuitivo tra idea e parola. Per F., idee tra loro collegate devono essere espresse da parole tra loro simili; per esempio, aventi la stessa radice. Keywords: system, sistemo, lingua, lingo. Refs.: Grice e Ferranti” Mario Ferranti. Ferranti.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferrari: implicatura conversazionale e ragione nella lingua universale – la scuola di Modena – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Modena). Filosofo modenese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Modena, Emilia-Romagna. Insegna etica. Sotto lo pseudonimo di Callicrate Aletiano, F. pubblica “Mono-glottica: considerazioni storico-critiche e FILOSOFICHE intorno alla ricerca d’una lingua universale,” Vincenzi, Modena, -- un contributo rilevante per la discussione intorno alla lingua universale, con le proprie considerazioni in materia, dedicando il saggio a un certo Aristodemo Euganeo. “Callicrate” ricalca il nome di un architetto della Grecia antica; Aletiano riconduce alla parola greca per 'rivelazione', 'verità'. Allora F. si configura come l'architetto – cf. Grice, engineer -- di un sistema linguistico che rispecchi la verità delle cose, che si rifà direttamente alle idee. Aristodemo invece è una figura della mitologia greca che sacrifica la propria figlia in nome della vittoria sulla città di Sparta; Euganeo deve essere ricondotto alle origini del dedicatario. Il modus di F. è del tutto simile a quello  di SOAVE (si veda).  Dopo una disamina del tipo d’alfabeto utilizzato dagl’italiani, F. dichiara che le tradizionali disformità della lingua e della scrittura accumularono ostacoli d'ogni sorta alle scambievoli comunicazioni delle genti, ed alla diffusione della generale socievolezza e coltura, arrivando perfino ad essere causa di incomprensioni sì grandi da condurre i popoli alla guerra, giacché: diversitas linguarum hominem alienat ab homine (AGOSTINO, De Civitate Dei, Venezia, Albizziano). Conscio degli studi dei suoi predecessori, tra cui nomina anche gl’italiani CESAROTTI (si veda), CERUTI (si veda), e SOAVE (si veda), F. espone e passa in rassegna i progetti, esprimendo elogi e  rimproveri per ciascun sistema. F. propone un indice dei sezioni che formano il nuovo saggio di studi e di proposte riguardanti l'istituzione di una lingua universale --di cui “Monoglottica” è un mero riassunto. In  nota, riporta: Premessi alcuni principi generali, seguiti da alquante norme direttive, lo schema espone l'alfabeto universale, che, da poche modificazioni in fuori, s'identifica con quello della favella aria italiana. Il comune alfabeto vocale ipotizzato da F. comprende le V vocali a, e, i, o, u poiché esse formano il sostrato primitivo ed essenziale de’varii sistemi FONETICI – FONEMICI – cf. Grice, disctinctive features -- di tutti i popoli da lui considerati. Per quanto riguarda le consonanti esse sono «b, c, d, f, g, h, j, k, 1, m, n, q, r, s, tv, w, X, y, z» e a ciascuna di esse è associato un suono e uno soltanto. Graficamente esso deve essere latino -- quel che l'autore intende è che la lingua non può essere simile a una lingua romanza come l’italiano --, poiché il meno appuntabile rispetto agl’altri, e corredato delle note tipografiche. La lingua proposta è - moderatamente - flettente e combinante, a stregua però di una calcolata ECONOMIA (cf. Grice, efficiency, cooperative efficiency), nello svolgimento del VERBO. Valendosi rispetto al NOME (e predicato – ‘shaggy’) --, a forma delle lingue analitiche, dell’ARTICOLO DETERMINATIVO. Salvo il differenziare con minima flessione la desinenza plurale dalla singolare – “irrelevant in logic” (Grice): “(Ex): “Some, at least one”. Per questo è evitata quanto più la FLESSIONE, la derivazion, l’agglutinamento e l'uso dell’accento non giustificato d’una reale esigenza. La lingua oxoniense in discorso non è ideografica, siccome quella concepita da Delgarno e da Wilkins, né semi-algebrica, come la caratteristica leibniziana, né tampoco tachigrafica o stenografica a mo’della pasigrafia di Taylor. È puramente alfabetica, e costituita con una base e un processo grammaticale, epperò con opportuno corredo dell’ARTICOLO (“the,” “a”) e il pronome (“I am hearing a sound”), della congiunzione (“and” – but cf. ‘or’ and ‘if’), la preposizione (cf. Grice on ‘to’ and ‘between’) ell’avverbo (cf. ‘not’). Essa discerne due generi nominali, l'uno maschile o concreto, l'altro femminile o astratto, lo che giova non meno alla perspicuità che all'armonica varietà del favellare. Adotta sei verbi di uso frequentissimo, come primi ed AUSILIARI (cf. Grice, “Actions and Events” on ‘do’), semplificandone le forme e gli svolgimenti, e rilevandone le funzioni rispetto agli altri verbi. Con somma parsimonia si vale dell'applicazione di lettere vocali e delle consonanti a denotare maniere e rapporti di senso nominale e verbale; tenendosi lungi anzichenò, dal sistema gallico d’OCHANDO. Segue un procedimento metodico per l’evoluzione delle parole primitive e radicali, allo scopo di ritrarre le molte parvenze e trapassi nell'esplicazione delle idee fondamentali. Poscia sono stabilite le norme relative alla SINTASSI, ed il regime sì diretto, che indiretto. Infine si traccia il disegno costitutivo della lessicografia. L'autore cura soprammodo, in tutte le parti dello schema, la semplicità, il collegamento e la regolarità, che debbono esser le doti primarie e congenite della lingua universale, perchè puo ella riescire perspicua, gradita, e  mirabile per esattezza ed energia. La lingua di F. deve anch'essa essere esente di sinonimi, neologismi, solecismi, irregolarità, e deve piuttosto fare ampio uso dell'analogia, che quindi deve essere assurta a regola;  tanto che F. sostiene «l'analogia è un giorno, quando che sia questo per ispuntare, l'oracolo e la salvaguardia della lingua universale, deve essere attuato un procedimento di logo=genesi, per il quale il suono ESPRIMENTE (SEGNANTE) un'idea o proposizione semplice deve in qualche modo essere presente anche in qualunque suono che compone la parole da esso derivate. La SINTASSI deve seguire quanto più l'ordine logico dei pensieri. Keywords: lingua universale, Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gaetano Ferrari. Ferrari.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – la scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Ferrari is important in at least two fronts: as a philosopher, he promotes what has been called a ‘critical illuminism’ – and who but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on ‘the philosophy of revolution’? The second front is my proof of the latitudinal unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his ‘La strana sorte di Vico,’ of Vico!” “My pupil at Oxford – my first one, actually – Flew, once called Humpty Dumpty an anarchist – semantic anarchism, he called it. – But he was wrong. Humpty Dumpty cannot mean that by uttering ‘Impenetrability’, Alice will know that he means that a change of topic is required!” Essential Italian philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita grazie alla quale visse senza particolari problemi economici. Fece i suoi studî nel ginnasio S. Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio di Romagnosi.  Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla verità oggettiva. Grice: “The problem with Ferrari’s analysis is etymological. For the Romans, indeed the Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. F. define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto. Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto – errore intersoggetivo. -una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid ‘objective’ and ‘subjective’, but we do want to use ‘subjective’ and inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero relativo’ a S1-S2. Introdotto nei circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin, Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana, fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso dall'insegnamento, e, benché avesse ottenuto la cittazidanza francese e il titolo di "professore di filosofia” che lo abilita ad insegnare  non fu più reintegrato nell'insegnamento, poiché la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collège de France, benché accettata dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione.  L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso F." dalla stampa, s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin) di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato come repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza.  Per quel che concerne la forma dello stato italiano, F. domandava una costituzione federale, con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile.  Dopo essersi recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale.  Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle regioni, in particolare del Mezzogiorno.  Nonostante riconoscesse nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo, non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo. Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare. L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata; essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette. Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. E fatto senatore.  Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese.  Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione” di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati italiani.  L'opinione pubblica dove essere preparata alla rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali.  Insieme a Pepe elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana.  Consta dai registri della Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati, Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati, Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. F., Milano, Garzanti, Altre opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia della rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e letterari”; “La mente di Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti politici, Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma,  “Scritti di filosofia” e di politica, M. Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario Peruta, "Contributo all'epistolario di F.", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta (ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C. Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna storica del Risorgimento”; “Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a F.", Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Ghiringhelli e F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle opere di F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "F. e  Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Arturo Colombo, "Il F. del Corso", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Compagna, "Ferrari collaboratore della "Revue des deux mondes", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Corona, "Il filosofo "rivoluzionario" visto da Asproni", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe Ferrari", Studi storici, Amato, "La formazione di Giuseppe Ferrari e la cultura italiana della prima metà dell'Ottocento", Studi storici, Peruta, "Il socialismo risorgimentale di F., Pisacane e Montanelli", Movimento operaio, Franco Della Peruta, Un capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e Ferrari", Studi storici, Franco della Peruta, "F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Aldo Ferrari, F., Saggio critico, Genova, Ferri, "Cenno su F. e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi, "Olivetti e F.", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Gastaldi, "Nella galassia dell'Estrema", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Robertino Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli, "Romagnosi e F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema della storia in F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo politico di Ferrari", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Grosso, "Il Medioevo in F.", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e Cina nell'opera di F.", Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio Martirano, “Ferrari, interprete di Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia, rivoluzione. Saggio su F., Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo Mazzoleni, Ferrari. Il pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma, Angelo Mazzoleni, F.. I suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti, "La posizione di Ferrari nel primo Parlamento italiano", Critica politica, Giulio Panizza, L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza, "La teoria della fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Giacomo Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari", Rivista internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari e Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento Italiano", in: Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Nello Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il Ponte, Silvia Rota Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari e la Teoria fatalista dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle origini del federalismo italiano, Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e la storia d'Italia", Belfagor, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Zanzi, "un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico", BAUM, Venezia. Gian Domenico Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.F., su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Giuseppe F., su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del Movimento RadicalSocialista. Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la filosofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno  della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'intento dei primi filosofi, questo è l'intento della rivouzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma  traditi dalla metafisica, sentivansi solitari, impotenti, inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando  i demoni, le favole, un artifizio estrinseco, un felice inganno, cadevano sotto il felicissimo inganno  della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo  prigioniero delia teologia, ne divulgò la parola, la trasmise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità sulla  terra colla forza della scienza e con quella del diritto.  Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia  alla rivoluzione trasportando il problema della scienza  nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'eguaglianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che  abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla  verità, il regno della libertà falla astrazione dai dogmi,  il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il  regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e  s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'umanità; si pensava perfino a fondare un impero meno  l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse proposito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la  rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero  morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per stabilire  una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione.  Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo  avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni può  parere lontano, e se altri possono consigliare di dare  tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede  che quando la scienza scopre un errore per quanto  sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi  lo difende più non regna, e se sì ostina cade sconfitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede  negli avvenimenti imprevisti non è cieca e viene autorizzala dalla forza del vero che oggi tradito si vendica domani col corso naturale degli affari, delle guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni  verità è un valore, chi la scorge se ne impossessa  e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le  forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai  progresso che non toccasse alla proprietà o alla religione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza  e che non si dovesse irnaginare con ardimento scandaloso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo  che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt  ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già  dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare  dalla teoria alla pratica e per sostituire una generazione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori,  di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filosofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino protetti tanto sembravano lontani dalla realtà. Quanto a  noi figli del passato, discepoli degli stessi maestri  da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la  metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili  tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto  che rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno,  ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si  gradui il progresso e possa prendere delle forme mostruose e talora nemiche, dal momento che sentimmo  compiersi nella nostra mente la filosofia della rivoluzione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il F. tacque : non pia studi pubblicati sulle riviste francesi per far conoscere al mondo T Italia del passato e del preseme,  non più opuscoli politici per tracciare piani d'azione pamphlets violenti contro i suoi avversari: gli amici lo avrebbero potuto creder morto.  EpIHjre la sua operosità si svolgeva occulta sotterranea silenziosa, tanto più assidua quanto meno  era visibile: abbandonato il campo del giornalismo dove le tracce del lavoro sono ben presto  cancellate dall'incalzare di sempre nuovi problemi e dalle richieste di gusti sempre mutati, lasciato il tumulto della vita politica, U Ferrari si  era dedicato totalmente alla pura scienza. Il presente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato;  l'Italia pareva ricaduta nella schiavitù e nell'abiezione, ed egli la volle studiare libera e regina,  quando marciando a capo di tutte le nazioni trasmetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al  mondo.   Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua  attività storica, era sempre stato il suo lavoro e il  suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più  piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad  ogni interpretazione razionale e organica, come  se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che governava le continue rivoluzioni di cento stati differenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi  fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio  dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano  uno svolgimento storico organico, una forma politica costante che le contradistingueva in ogni epoca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di  Napoleone III la Francia era sempre stata la nazione della monarchia unitaria; la Germania era  ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilterra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Ottone I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia   Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politica; uè al principio della monarchia né a quello  ddla repubblica, né all'Impero né al Papato :  ftemmeno ad un sistema federale che raccogliesse in organismo la varietà tumultuosa ed eslege  dei ^uoi stati. Rivoluzioni d'Italia. Da molti anni queste considerazioni si svolgevano  lentamente nel mio spirito, per rendermi enigmatiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Firenze di Roma di Genova di Venezia, di tante città  unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze.  Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran  pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza causa, rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione.  Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi  apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti,  medaglie sparse di un museo che una vandalica ignoranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simmetrie essendo dissestate da una mano sconosciuta; potevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua  ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mezzo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondità lussureggiante degli avvenimenti si rivoltava contro ogni unità imperiale o pontificia; se essa facevasi gioco delle repubbliche, delle signorìe, del candore dei  cronisti e degli artifizi della retorica; se essa compiacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le  analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e  una tal forza nel minimo frammento, da non potermi  arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e  della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa destata dal sentimento del bello, .per non essere se  non un cumulo di accidenti eslegi.   n Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi misteriosa apparenza, la legge vitale di un organismo così complesso, lo scopo di una coA abbagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia medievale fino agli occhi : senza fermarsi alle compilazioni volle risalire alle fonti originali, meditò  su tutte le pagine degli Scrìptores rerum Italicarum, rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere  erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi  signori del buon tempo antico: e cosi mentre la  turba degli gnomi, non comprendendo la sua solitaria libertà superiore alle borie del nazionalismo  miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la  sua lingua e la sua patria, egli preparava in silenzio airitalia uno tra i più bei monumenti di gloria che potessero inalzarle i suoi figli.   Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la prima volta a Parigi in francese nel 1858, ripubblicate in italiano tradotte dell'autore:  in questa seconda edizione, nonostante gli studi  posteriori in seguito ai quali credette di avere  scoperto la filosofia della storia e la legge periodica del movimento storico, guidato da un istinto fortunato, non la ritoccò quasi affatto, non osò  guastarla per farla servire alla sua teoria; quindi noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedizione italiana, da cui son tolte le citazioni e a  cui si riferiscono i rimandi.   Per quel che già conosciamo della costinizione  intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giudicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè egli  riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione  filosofica e al criterio di un sistema formato. Tutti ì grandi storici sono artisti: artisti neil'interpretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresentarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che  sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filosofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui  traggono i criteri della interpretazione e del giudizio; ma di solito il loro sistema non è che implicito e irrìflesso come quello di qualsiasi individuo che non si dedichi di proposito alla filosofia; qualche più rara volta c'è, ma preso a prestito, non rielaborato né rivissuto individualmente,  rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza  unica del F., la sua caratteristica qualità, consiste nell'avere a fondamento della sua interpretazione un vero formato originale sistema filosofico. Non solo. Questo suo sistema, che anche oggi è in gran parte vivo perchè rientra nel corso  delle grandi concezioni, è il più adatto a dare una base filosofica all'interpretazione storica; perchè considera la reahà come movimento, ed è tutto pervaso dalla persuasione della razionalità che  governa la realtà e la storia. Cosicché per quanto il Ferrari come politico sia un uomo di partito militante e quanti altri mai fermo nelle sue  idee, amante delle posizioni nette, insofferente  degli equivoci; come storico noi possiamo essere  sicuri che guarderà la storia dall'alto, saprà giudicare libero totalmente dalle preoccupazioni politiche del momento, saprà rispettare la veneranda grandezza del passato senza querimonie per  gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non farà ddla narrazione dd passato un pamphlet <x)niro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola sarà  imparzude. Questo è il suo significato ragioaevole di una simile rìciiiesta dd senso comune, il  quale esige non che lo storico non abbia un punto di vista a cui è impossibile sottrarsi; ma che  abbia un punto di vista elevato, donde sì giustifichi, non si faccia il processo alla storia.   Riepiloghiamo brevemente il sistema del Ferrari, integrando la sua concezione più propriamente filosofica, cioè di valore assoluto, con le determinazioni empiriche onde egli cerca di dare una  formula generale al movimento storico.  Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzione; la storia è la narrazione di questo movimento intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi delle  contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lotta delle contradizioni positive reali che si condliano in una specie di equilibrio dinamico. In ogni momento nel mare enorme ddl'umanità l'individuo che ne fa parte come tm'onda o meglio  ancora come una goccia ha suoi interessi particolari su cui nasce una sua rivdazione morale  <1); messo di fronte a nitti gli altri innumerevoli  suoi simili, mossi pure da forze utilitaristiche e  morali varie e a volte contrastanti, lotta per eondUare le contradizioni in tm dstema politico, che   Non è se non la proclamazione del determinismo econo^  micCj che egli applica poi nel coreo della ina storia. si attua sopramtto d^tro i confini dello stato.  Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^  nutre dentro di sé un sistema opposto destinato  a succedergli . La stocianoa è altro se non la  narrazione del succedersi di questi sistemi nati  da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili  dell&'masse» divise tra loro> da una specie di lotta di cla|^e^<:te.r}esce^a. propagare sempre più la  democrazia e a conquistare una più larga eguaglianza.   Come si attua questo progresso dentro Io star  to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra*)  stanti che polarizzano gli interessi delle moltitur  dini, il pardto rivoluzionario e il partito conservatore. La rivoluzione assale la forma tradizionale dello stato a nome di un nuovo principio, di  una più larga democrazia^ con la forma politica  opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ federale negli stati unitari, cattolica contro i protestanti,, erviceyersa. Vince perchè il progresso è  necessità fatale della storia; ma appena il prin^  cipio da essa propugnato è stato accettato essa  viene vinta dal partito conservatore, che trasporta il nuovo principio sulla base politica tradizionale onde lo stato si difende dallo stranilo.   Perchè lo jstaio non è solo sulla terra; ai suoi  confini un altro organismo nemico vive con intere^, cQnidoe, con tendee^o opposte. L'umanità è quindi una specie di scaochiejra di nazioni  che si prendono vicendevolmente a rovescio, un     (i) Cfr< la notfi teorìa di Marx.  enorme meccanismo di ruote dentate ingranate  runa nell'altra che girano in senso contrario, un  sistema di forze disposte cosi che il partito oppositore intemo di uno stato i sempre d'accordo col  partito dominante dello stato vicino e rivale. Ogni stato è quindi straziato da una guerra interna e nello stesso tempo combattuto da una guerra estema : la lotta sociale domina e regge la  lotta politica. Poiché appena dentro uno stato  trionfa un nuovo sistema sociale, vien creata una  nuova forma che allarga sempre più la democrazia e Teguaglianza; il movimento si diffonde a  tutte le altre nazioni come il cerchio sollevato da  una pietra gettata nel lago: e il nuovo sistema  sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze  oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato attarda troppo nella strada della rivoluzione sociale! Esso vien conquistato da altri stati di civiltà  superiore. Guai se non adotta la forma opposta  dd contrasto I Viene assorbito dal vicino più potente. Gli stati le nazioni le razze possono quindi decadere e magari spegnersi, ma l'umanità non decade e su una linea di progresso continuo passa  per una scala ascendente di sistemi sempre superiori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barbarie e più nefandi di cormzione si ha decadenza: Anche un popolo vive esso è in progresso, progresso che può essere arrestato solo dal fatto fisico della sua totale disparizione per un cataclisma naturale o per un eccidio universale. Riceverà l'impulso politico che una volta egli dava alle altre nazioni^ accettando le nuove progressive  forme politiche dall'esterno invece di crearle per  sua spontanea originale vitalità; perderà magari  Tindipendenza, ma la compenserà con un miglioramento sociale per cui accetta il vincitore; vedrà  succedere al fiorire delle arti alla ricchezza industriale e commerciale sterilità intellettuale e miseria, ma avrà sempre un progresso sociale che  lo compenserà di questa sua decadenza. Poiché fra popoli in lotta, come fra più individui, è naturale che il più forte vinca. Ed è anche razionale. La forza dei grandi aggruppamenti storici non è la forza fisica, non è il peso bruto del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pugno del facchino che tappa la bocca al tribuno;  ma è ordine, disciplina, saldezza economica, coscienza nazionale, è in una parola forza spirituale. Non è la pura forza fisica brutale che vince  nel gran campo di battaglia della storia, ma è la  superiorità intellettuale e morale: la vittoria corona sempre il più degno, fatalmente destinata  come la sconfitta; chi ha perduto se lo merita;  chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente conquistare per godere di una civiltà superiore che  colle sue forze non poteva raggiungere, o si è  dimostrato nel paragone delle forze inferiore al  suo vincitore che in compenso della libertà perduta gli dà i vantaggi di un miglior sistema sociale. Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sotto l'impulso di bisogni materiali e di egoismi personali, ma la storia li adopera a tm fine che li trascende; quella che VICO (vedasi) chiama provvidenrza ed Hegel ASTUZIA DELLA RAGIONE trae dalle azioni egoistiche il bene dell'umanità, usa dei malvar  gi per un'opera buona, della cupidigia delle conquiste si serve per spandere la civiltà sulle regioni  selvagge o barbare, di Nerone per iniziare la  gran democratizzazione dell'Impero romano, di  Fernando Cortez per conquistare l'America a una civiltà superiore. Il male nella storia non esi-^  ste come non esiste in natura : esso non è che in  quanto ha in sé il bene, un granello di bene che  solo gli permette di esistere; non è che un concetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dunque razionale. Non stiamo a spargere lacrime sugli eroi sconfitti e sui popoli caduti; la storia li  ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto  quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente.  La storia dà dunque la vittoria al merito, progredendo con la legge del minnno sforzo. Date  tali forze in contrasto, la soluzione del sistema in  un fatto sarà rigorosamente quale doveva per il  valore delle forze; a quella maniera che in un  sistema di forze flsiohe il loro rapporto è determinato dalla loro potenza. La storia è dunque ne»  cessarla : la serie degli avvenimenti che dai tempi antichissimi arriva Ano a noi non poteva essere diversa da quella che fu per arrivare a questo  punto. Questa è una necessità a posteriori:  non una necessità metafisica o teologica che Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false storte. Napoli, Giannini.  Questioni storiografiche^  Napoli, Giannini. obblighi uomini e cose a seguire le linee di  un piano traéciaro in antecedenza» ma una neces^  sita interna che nasce dal gioco delle forze umane. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze  fossero state diverse; e cambiato uno degli anelli,  la catena sarebbe certamente cambiata arrivando  fino a noi : non si sarebbe giunti allora a questa  mèta, ma ad un’altra imprevedibile, non meno  necessaria secondo il valore di quelle forze. Cosi  dalla storia vien cancellata la parola ca^o, che una volta si usava a indicare la ragione ignota co^  me dai geografi ìò spazio bianco a indicare una  regione sconosciuta; cosi vien cancellata là parola Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere  deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua  volontà potrebbe alterare il corso degli avvenimenti determinato dalle forze di volontà dell’umanità intera. Per quanto un individuo voglia andar contro corrente, egli è sempre Aglio del suo  tempo; per lottare contro esso deve accettarne la  base comune di credenze ^e perflho le parole della discussione e le armi della battaglia; per quan^to sia isolato non può mai impedire che la società  lo insegua e lo tocchi per combatterlo o per acclamarlo.  Non lasciamoci impressionare da certe parole e  frasi, che potrebbero far credere a una costruzione astratta a priori della storia : era nel carattere  del Ferrari di calcare la mano troppo violentemente sopra certe affermazioni, di' mettere troppo in  rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la  forma assiomatica d'una verità assoluta a certe generalizzazioni di cui egli stesso riconosceva la  relatività. Cosi quella storia ideale, che secondo  certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa  che rimane sopra ai fatti ad essi indifferente e superiore, assoluta sopra essi contingenti, come se  nel blocco unico della storia si potesse tagliar fuori il necessario dall'accidentale; ha qui perduto  quasi totalmente il significato primitivo e non è  altro se non una generalizzazione e semplificazione dei fatd storici fatta a posteriori, per poter  raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente  didascalico onde non dover tornare ogni momento a ripetersi. Del resto il F. stesso afferma  che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a  coincidere colla positiva; ma una prova ben più  decisiva ce Toffre la sua storia stessa, la quale è  tutt'altro che una storia astratta a priori. Così F. si compiace spesso, sforzando al solito  l'espressione, di chiamare geometrici, meccanici  certi movimenti, di dare come perfettamente equivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza di  uno stesso principio viceversa poi nella narrazione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso  principio, si svolgono con forme individuali.  Spesso pure e volentieri tira fuori la fatalità :  ma questa non è affatto l'opposto di libertà individuale che leghi con un misterioso potere proveniente dalla natura o da Dio; non è altro se non  la forza storica dell'ambiente, forza umana e immanente dell'umanità, della massa, che soverchia  naturalmente il conato d'un individuo.  Premessi questi chiarimenti, diremo che il suo sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non  è di valore assoluto, non si attua quindi in tutti  i casi colla stessa necessità e precisione con cui  si attua un sistema fllosoflco : nonostante le sue  esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era persuaso, lo dimostra la sua opera. Ma perchè vorremmo noi interdirci la generalizzazione, che è un  processo necessario del pensiero? Che non si  prendano le generalizzazioni, queste entità astratte, per realtà metafisiche; che non si costringa  nel loro letto di Procuste l'individuo d'accordo. Ma perchè rifiutarle come strumento di ricerca e mezzo di spiegazione e di esposizione? E'  generalizzazione evidentemente la divisione in periodi storici (sistemi o principi): la storia è un  corso continuo di avvenimenti simile a un fiume;  ma come il corso del fiume si può dividere in  superiore e inferiore, così si può dividere, cosi  si è sempre divisa la storia. E' generalizzazione  il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno stato in regnante e opponente, ma essa semplifica e  spiega la realtà. La legge di opposizione, che organizza gli stati vicini in senso inverso gli uni degli altri,è pure una generalizzazione e guai  se uno volesse applicarla rigorosamente I Pure la  forma politica de^i stati è una generalizzazione,  perchè questa forma un tempo non era cosi e insensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso  movimento dei prìncipi considerati come qualchecosa d'assoluto, di perfettamente identico per tutti gli stati che li traducono nelle loro forme politiche diverse, è una sempHBcazione generalizzata;  perchè qui contenuto o principio e forma sono  ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dall'altro, ni dagli uomini che li rappresentano, come  fossero delle entità metafisiche.   Di fronte a tanta ricchezza di pensiero non facciamo dunque i sofistici pesatori di parole, non afferriamoci alla lettera cruda che uccide lo spirito,  sdegniamo un procedimento che distrugge colla  pedanterìa terribile dei cavillatori qualsiasi grand'uomo; e abbandoniamoci con simpatia al nostro  autore cercando di intenderlo. Vediamo ora come questi prìncipi vengono applicati airinterpretazione della storìa d'Italia. L'enorme devastazione unitarìa di Roma aver  va sottomesso tutti i popoli del mondo antico al  dispotismo imperìale, per eguagliarli in una democrazia vittoriosa di mtte le aristocrazie nazionali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero .  greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i ebbero conquistati i benefìci della civiltà e della democrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli Iberì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-,  gliatrice legge imperiale^ allora l'interesse e il  sentimento di patria li rivoltarono contro il fiscalismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle  onde del grati mare barbarìco minacciante ai confini, era costretto per le necessita della difesa a  caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare Je  invasioni cacciandole l'una con l'altra e un pròcesto di dissolvimento federale decompose la ciclopica unità romana. Una invasione barbarica  stabile venne accettata dai popoli per sfuggire al  flagello delle invasioni perpetuamente rinnovantisi che moltiplicavano le devastazioni; e la caduta dell'Impero romano d'Occidente è salutata  come una liberazione economica e politica, che  conservava intatto nitto il progresso sociale di Roma. Odoacre venne dunque accettato dall'Italia come liberatore; Teodorico, spedito contro di lui  per un bieco disegno di reazione dall'Imperatore  d'Oriente, una volta signore della terra doveva  assumere la posizione e continuare la missione  della sua vittima. (Fondazione del regno).  Senonchè lo spirito uhiàno nei suoi desideri non si ferma mai sotto la spinta di sempre  nuovi bisogni; e una volta stabilito saldamente  quel regno che li aveva liberati dal fiscalismo imperiale, gli Italiani vollero conquistare una maggior libertà, e si raccolsero attorno alla Chiesa  cattolica repubblicana e federale per assalire il  regno ariano e unitario dei barbari. Comincia la  Lotta contro il regno barbaro estemo. Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^  erede di Roma cadono gli eroici Goti; Narsete, che vuole sfruttare la vittoria romano-bizantina per rialzare una specie di regno bastardo,   Cfr. C. Balbo: Della storia if Italia. Bari, Laterza: Bisogna dire che parerle una benedizione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli  e più sovvertitrici. non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv.  d'it.) : Ecco i Longobardi che giungono In apparenza marciano casualmente; formano una moltitudine densa sozza vorace, che scende lentamente  dai passi delle Alpi, si spande squallida compatta  ardente come la lava, sepellisce sotto di sé le città  che invade, le petriflca colFalito suo; nella sua brutalità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li circonda oltrepassandoli ed invade metà della penisola fermandosi subitamente senza ragione alcuna.  La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto cede a leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi  obbediscono al peso della loro propria materia. Senonchè questa massa in apparenza bruta  di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei  Goti : non errano come soldati, ma si stabiliscono come un popolo di conquistatori nell'Italia del  Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vittorie del Mezzogiorno; fondano una rete strategica  di fortezze che sorvegliano e imprigionano le  grandi città romane sempre rivoluzionarie; trattano i vinti da conquistatori, sottomettendoli alla  legge della spada e derubandoli del frutto del loro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica rimane libera, sotto l'egida ufRciale della protezione di Bisanzio; e S. Gregorio Magno papa (590604) divenuto capo della federazione romana e  rappresentante anche dei vinti del Regno, volta  contro la barbarie longobarda tutti i miracoli della religione e la potenza spirituale del pontefice,  a cui una nuova teologia dà il potere di condannare o assolvere i morti prima del Giudizio universale.   Le due forze antagoniste rimangono dunque di  fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente :  ma se i Longobardi eccitano col loro esempio  r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza politica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela dopo; non possono sottrarsi all'influsso della Chiesa, che con una rete sotterranea di silenziose cospirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per  mezzo dei suoi cattolici. Prima decompone il regno opponendo al re ariano di Pavia, la capitale longobarda, il re cattolico di Milano, la capitale romana; e infine trionfa coll'avvento del cattolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'errore di accettare il principio imperiale, i Longobardi commisero quello di accettare il principio  cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei  cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della  rivoluzione romana e della eroica devozione franca. Per quanto più tunani dei mostruosi re  franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già  seminazionalizzati da un processo di fusione coi  vinti del regno; non furono mai accettati dall'Italia romana, che organizzata antiteticamente li  combattè con la rivoluzione col Papa coi Franchi.  L'Italia romana non voleva il flagello d'un regno  Cfr. Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici,  Pisa, Non il re franco fu il vero vincitore,  ma l’Italia e Roma, che avevan rotto la natia compagine delle  genti d'Alboino, già predisposte a ciò dall' antica costituzione  del popolo e dai modi della eonquista. l>arbaro che avrebbe imbrìgliato la rivoluzione sodale, legato i gran centri romani nella rete delle  città militari in arretrato, sepellito sotto un'alluvione barbarica le reliquie della civiltà romana  conservate dal cattolicismo. E per impedire che potesse mai formarsi un  regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, destinata a spandere il fuoco della libertà su tutta  l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in Occidente. Come rappresentanti del nuovo patto sociale che doveva essere la base del diritto pubblico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e  l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad  essere la custode del loro duplice potere europeo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Papa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia  meridionale con le isole da conquistarsi ancora  3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocddente). L'Italia perde quindi l'indipendenza nazionale, ma acquistava la libertà: e per tutti i domini  del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale  migliorava le condizioni dei Romani, non più sottomessi alla legge della spada barbarica, ma alla  giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte  delle città dell'industria e del commercio a danno  (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde della coltura romana ad attivarne nuove scintille .Solo le terre ancora escluse dal patto papaie-imperiale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Sicilia, scontavano amaramente la loro indipendenza politica con una inferiorità sociale, prodotta dalla confusione bizantina dd potere temporale e  del potere spirituale, la quale impediva la gran  libertà del pensiero.   Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava  decomponendosi sotto gli inetti successori di Carlo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa delle nazioni insegnando loro a conquistarsi una libertà federale. Ma poiché da questa risorge lo spettro micidiale d'un regno barbaro interno, la rivoluzione papale e imperiale sempre regnante approfittando  delle rivalità tra i feudatari rende impossibile il  regno d'Italia, lo condanna a non essere che una  lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a  due rivali e rialzando sempre il vinto contro il  vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno) finché invocato dalle rivoluzioni italiane giunge Ottone I a rinnovare il patto papaieimperiale. Egli distrugge per sempre il regno, disorganizza le marche dei discendenti dei barbari, esalta il clero romano, protegge i comuni italiani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte  le nazioni europee e modifica al suo esempio anche la Chiesa. {Riv. d'Italia): L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di  «no scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli um unitari gli altri federali; presso gli uni la religione prevale sulla legge, presso gli altri la legge  primeggia sulla religione; i primi progrediscono con  l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La necessità  della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al rovescio gli uni degli altri; la stessa necessità della guerra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle  due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Cigni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica sé  stesso che non prende la sua base d'operazione in  opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente  in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si  cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta»  uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se invece si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che  si estendono opposte le une alle altre.... si vede dappertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con  esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlovingio o pagano sparisce per cedere il posto ad un  nuovo stato libero colle diete o popolare col re.  Liberata cosi per sempre dalla tirannia unitaria di un re l'Italia può abbandonarsi alla carrìera magica delle sue rivoluzioni, che sembrano  frantumare in moti individuali variati disordinati  la sua ideale unità di nazione, e a prima vista ci  appaiono refrattarie a qualsiasi principio organico di interpretazione (Riv. d'Italia):   Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto all'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva  una e logica, dominando i più svariati avvenimenti con una specie di continuità drammatica un tempo vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera  nazione col fatto unico del regno proclamato contro  gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a  Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Unni e Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di  Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali capitani dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so  Ravenna; e tutte le città, scacciando i Goti, si rianimavano con un risorgimento quasi repubblicano.  Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale  e dell'invasione regia si spartivano materialmente la  penisola; e la terra, metà romana, metà longobarda,  rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mezzodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora  una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche  cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'infallibile trionfo della religione delle repubbliche, che  consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Impero d'Occidente. L'unità sopravviveva nel patto di  Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia dipendente  da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei  Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti  egualmente nemici del Papato e dell'Impero; l'unità  si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori contro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re  italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di  quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra ordinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trionfo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della  Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t  due principi della rivoluzione cattolica e del regno  nazionale, s'intendeva facilmente il senso di tutte le  lotte; dal momento che una guerra scoppiava doveva essere la guerra dei due principi: ci bastava il seguire le due correnti, il nostro lavoro era eccezionale senza esser diffìcile, l'unità delle idee suppliva  all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di  sottomettere ad una unità eccezionale il moto eccezionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia,  Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se  stesse per lasciare il posto alla geografìa pontifìcia  imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio  della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzionaria, la sola che importava di seguire. M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena;  il moto generale scioglie ^uestltalia che già sconcertava la critica: o^i città ha il suo eroe, le sue  rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni  non sembrano punto associati; nesstma federazione,  nessuna lega, nessun' unione generale e apparente:  Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles Treverì  o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti  si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono innumerevoli. Alcune città fondano delle colonie, altre  si estendono colle conquiste, giungono i Normanni,  la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'inoltriamo, tanto più le forze della guerra e della libertà sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si turba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi  storici non abbracciano più l'insieme della penisola:  Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrìdo e Liutprando  non hanno successori; più non si scoprono se non  dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più  tardi ogni città ci presenta la sua biblioteca dì scrittori, i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Cimerò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di  cento storie distinte diverse contradittorie, senza legame palese: noi lo domandiamo, dove sarà la storia d'Italia?   Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci guida attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impadroniscono del suolo per interpretare la vittoria da  essi riportata col Papato e coli 'Impero; essi proseguono la loro guerra contro il regno, combattendo ogni  rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge,  la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei  re; questo è lo scopo loro; essi marciano contro il  Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nell'altro ogni principio che conserva le tracce dei Goti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Europa. La storia dei comuni non è dunque altro che la  storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale, e  sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a combattere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della  barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale,  donde spariscano in modo cosmopolita tutte le traceie della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia, ne  sconvolge i prìncipi il moto le epoche il progresso,  e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è  l'errore che la considera come il racconto di una  guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per  conquistare l'indipendenza politica del governo o, come si dice in oggi, per respingere l'invasione dello  straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe  mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riuscirebbe a questa assurdità inammissibile: che dopo cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiunto, né voluto lo scopo stesso della guerra. No! nacque l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, contro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e  burgundi; nacque creando e interpretando il gran  patto della Chiesa coli 'Impero; dominò le stesse conquiste carlovinge cogli incanti della religione e colla  magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi  di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i simboli della sua libertà, della sua redenzione, di ogni  sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e  nel possibile; e con la costituzione dei due poteri  essa ha organizzato una rivoluzione permanente, universale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avvenire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è  l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti federale dei re; il secondo suo capo è il Papa, cioè il  più inerme tra i principi, il meno conquistatore dei  sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suolo italiano, ed al contrario il regno che era conquistatore venne schiantato con una guerra così violenta  che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Pertanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indipendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se  non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti,  si è perchè sono oltrepassati dagli Italiani che vogliono riformare il patto» che chiedono sempre un miglior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'essere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipendenza; ma sostengono una guerra costituzionale intima organica per trasformare le idee le istituzioni  la religione, una guerra dove il principio di respingere gli stranieri è sempre posposto al principio di  distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il  Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se  non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle  reazioni inteme che la libertà provoca e sormonta,  imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ultimi giorni del risorgimento italiano. La storia dei comuni, considerata in tutta la sua durata, non è dunque la storia di una guerra contro lo straniero, fatto  unico materiale mille volte impotente; ma è la storia di un fatto ideale organico sempre crescente: e  poiché là dove le idee regnano il caso non può regnare, l'oscurità del labirinto italiano deve sparire - e  qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzione è la stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo  stesso punto di partenza la caduta del regno, lo  stesso punto d'arrivo il risorgimento italiano; da  per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla  medesima logica; lenta o rapida, squallida o splendida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determinate anticipatamente dall'inflessìbile destino che sforza  i principi a generare le loro conseguenze. Che i mille accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, essi saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi  sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune  a tutte le città da Ottone I alla flne del risorgimento.   La storia ideale della città italiana si ripete a un  patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che trasforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore  noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tardo, se ne dichiarano apertamente conservatori; la  loro opera è sempre una restaurazione imperiale e  pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella storia? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che  diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e  non trionfano se non accettando Topera del tempo, e  non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di  rappresentare i principi che la fatale ignoranza del  governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessamente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro restaurazioni così dette eterne, seguendo passo passo  la storia delle città italiane di cui amnistiano le ribellioni e accolgono le innovazioni. Egli è giusto che  resistano; se non resistessero la rivoluzione non avrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel medesimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma egli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si ristabiliscano, accettando il progresso che si è fatto strada e che passa allo stato di fatto compiuto o di fato ineluttabile; ed è così che tutte le epoche della  storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Magno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripetono in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il  Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Occidente? bisogna dunque che propaghino da per tutto le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli  stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni  contro gli altri? devono quindi accettare ogni progresso, non foss'altro per combatterlo. Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tutte le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa  la varietà a prima vista irreducibile di forme, e  le costringe ad essere incasellate entro il quadro  di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il  periodo storico che il Ferrari ha studiato con più  amore e trattato con più larghezza i la storia an- t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è rispetdvamente conaiderata come imrochizione e come epilogo alla epopea di quel che egli chiama risorgimento italiano.   Allontanato per sempre il perìcolo d'una tirainide regia colla rinnovazione del patto papaloimperìale e col trasporto dell'Impero in Germania, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd Papa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma  non per distruggerli, bensì per riformarli, trascinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartiere contro ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dtì Vescovi apre la  serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^  gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte  goto longobardo o franco di discendenza, che vorrebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia ddle mura cittadine la tinmnide regia, che governa  cdla legge ddla spada il popolo di discendenza romana; e il vescovo romano di razza e di tradizione che protegge i deboli contro la prepotenza  regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del  suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone  impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B.  popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol essere giudicato dalla sua giustizia superiore a quella del conte come la ragione alla spada, si appassiona per tutte le sup»*stizioni dd cattolicismo  voltandde come armi ideali contro le alabarde degli sgherri comitali^ finché un giorno scoppia improwisame&ie una sollevazione annata. Il conte  si trova espulso, e nella città si comincia a sbozzare colla formazione dd primo popolo raccolto  dalla corte del conte e da quella del vescovo Torganismo comunale italiano, che non è una derivazione germanica o romana ma nasoe adesso oomh  battendo contro le memorie del regno. La rivoluzione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto>  ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce famiglie pie di tradizione romana e avversa al regtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discendenti dagli invasori; conquista il Mezzogiorno paralizzato dalla confusione bizantina dei due poteri, al seguito delie schiere avventurose dei Normasni; e in RomB trionfa coHa libera elezione  popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei  conti e dei patrizi.   Ma i centi espulsi daUe città da un esercito d!  straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'autorità legale del loro supremo tutore, l'Imperatore, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado  II di GebeHno comincia la reazione contro i vescovi. Invano : sconfitto da Eriberto di Milano,  che oppone alla cavalleria feudale le picche dei  popolani raccolti attorno al carroccio novdlamente creato, vede la sua reazione abortire nelle città e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e  deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano ddritalia meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai  seguito al ^an patto carolingio: a lui quindi  spetta di guidare la necessaria reazione contro i Normanni rappresentanti meridionali del principio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano  S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E  cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e  legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri europei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino  ndla Chiesa, la quale si appassiona per la verginità mistica in odio dei preti ammogliati, che profanano la sua repubblica immacolata con una specie di feudalità clericale. Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata  del conte, la rivoluzione entra in una seconda fase, continuando contro i vescovi nominati dall'Imperatore che li incarica di sostenere la parte dei conti, per strappare la libera elezione dei vescovi stessi e una volta vittoriosa  vuole la libera elezione del più grande dei vescovi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il diritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce  tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma  ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola  II, poi con quella di Alessandro II contro l'antipapa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul trono pontificio assale per la prima volta la supremazia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivoluzione vescovile compita predicando la crociata. Senonchè l'utopia di Gregorio VII conteneva il  germe d'una reazione pontificia contro la libera  elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto trasportare dalle mani dell'Imperatore a quelle del  Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della  rivoluzione passano nel campo nemico; dichiarano che il Papa non è il padrone della Chiesa ma,  sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili, è  il servitore dei servitori, e può essere deposto se  manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra delle investiture che è la reazione papaie-imperiale  contro la libera elezione dei vescovi : i due capi  sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi interpretando con mente retograda l'antica tradizione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi,  come avevano atterrato il vecchio Impero sotto  1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Papato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le  città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono imperiali quando il Papa trionfa e pontificie quando l'Imperatore prepondera, e finiscono col seguire l'alleanza imperiale sulle terre della donazione e quella papale sulle terre dell'Imperatore.  Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla  Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV  a resistere e gli danno la vittoria nonostante la  sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quando la sua vittoria diventa minacciosa disertano il  suo campo e rialzano il Papa; e continuano in  questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad ottenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa  e l'Imperatore diffondono al solito dopo concessa a tutta l'Europa.   Anche la prima crociata cade sotto la legge della rivoluzione vescovile: costituita coi quattro elementi della città italiana, la moltitudine il popolo i consoli e i vescovi, altro non è se non Te  spetrìazioae volontaria della feudalità che lascia  libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi.   Abbiamo dato un sunto diffuso di questo periodo per offrire un esempio più chiaro del metodo  interpretativo del Ferrari : ora potremo procedere più rapidamente.  Qi stati dell'Europa non avevano ancora compita la prima metà della rivoluzione dei vescovi  che nelle città italiane dov'era nam essa era assalila da una nuova rivoluzione, nei principi oscura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalosa c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano  scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^  2ipassava anch'essa per due tesi:  prima sostituiva il governo vescovUe ed governo  consolare; poi scatenava le une contro le i|kre città consolari, divise in due campi  per conquistarsi con la guerra una più larga libertà dentro il patto papaie-imperiale. Nella città vescovile il vescovo essere religiosa  e u-asmondano si trovava a capo della moltitudine, agitata da tend^ize industriali e commerciali completamenie mondane ch'egli non poteva  soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce  rifisurrezione : la città si muove prima conservando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova  le sue istituzioni e crea un nuovo popolo più allargato e democratico chiamato a legiferare nd  parlamenti che, col tradizionale intervertimento di  aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa  e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, assale il diritto del regno a nome nel risorto diritto romano.   La. immancabile reazione pontificia e imperiale  procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il  suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cattolica tedesca allora vittoriosa nellimpero, secondo la formula generale di tutte le reazioni opponevano il passato sempre vivo in essi al presente da cui erano assaliti; e combattevano i consoli fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed altra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma  non riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta.   Ed ecco che appena vittoriosi della duplice reazione i consoli spingono le città le une contro le  altre in quella guerra municipale, che fa la maraviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con  le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fratemo. E' questo uno dei misteri più profondi della storia ditalia: la guerra municipale non si  spiega né colla volontà del Papa e dell imperatore, nò colla lotta fra i due capi della cristianità,  nò colla duidità geografica di Roma e di Pavia,  nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla  HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia):   Guardiamo alla terra dove sorgono le città libere : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da  una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vescovi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari  che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro funzioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri secondari che erano padroni delle vie dei fiumi del  commercio di tutto. Le città romane sono state rialzate, opposte alle città militari; restituite all'importanza naturale che loro davano il conmiercio, la ricchezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizioni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero della civiltà. Ne nasce che la terra è dualizzata in ogni  parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le  città le une contro le altre: ogni centro militare si  trova in presenza di un centro romano a lui ostile;  Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'altro prospera; l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era  dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora  apparente, la legge imperiale e pontificia regna ancora, la guerra si dissimula; e se i conti sono congedati, la metà della gerarchia sussiste ancora col vescovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e  non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Milano non combatte le città dei dintorni se non per  ordine dell'Imperatore. Ma nel momento dei consoli la disorganizzazione vescovile del regno si fa laica, la dualizzazione delle città diventa economica:  più non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizioni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchezza, i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istrumenti di prosperità o di miseria; il mercante, il fabbricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessuna gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raffreni le rivalità; non i giudici per decidere sulle  vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse sono in contatto immediato; il contatto diventa lotta,  la rivoluzione dei consoli diventa guerra si potrebbe forse evitarla?  Guardiamo sempre la terra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo  stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per raddoppiare la disorganizzazione del regno e la degradazione delle città militari. Questa degradazione è fatta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria  dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali :  i primi son condannati a difendersi sotto pena di morire, i secondi combattono anche prima di dichiarare  guerra perchè basta loro il vivere il progredire per  spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono t  frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse rifanno tutte le strade tutte le comunicazioni al rovescio del sistema militare, esse sostituiscono alla strategia regia quella del commercio che procede lenta  sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci.   Come resistere loro se non colle armi? Ecco l'ostilità dichiarata: ogni città militare lotta colle armi,  coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa  buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria.  Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della libertà e della civiltà contro le città più libere, più  civili; si spingeranno alla ribellione i comuni intermediari promettendo loro l'indipendenza; si tenterà  di smembrare le città romane, di attorniarle con borghi insorti, di disorganizzare questo centro di disorganizzazione e ne nascerà l'aff razionamento dell'aff razionamento, la guerra della guerra.   Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suolo: e l'abbiamo trovato friabile, inconsistente, disposto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in  tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sotto la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo  ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la  guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circoscrizione della terra ove sorgono i consoli? La città  vescovile si ferma ai corpi santi; pivi oltre tutto è occupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è cosa loro, l'irradiazione popolare della prima rivoluzione ha dovuto soffermarsi nei limiti determinati dall'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse  rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuovo popolo, del doppio più potente coll'avvenimento  ddrinéttstrìa e del commercio, due volte più ricco  grazie alla sua attività che moltiplicandosi trabocca  oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinnovano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del conume, le fortezze, i cimiteri; la città s*adoma, s'ingrandisce e più non può capire nel proprio territorio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i  suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti  intralciano il corso delle merci, dei villaggi un tempo inosservati le tagliano le comunicazioni; la città  smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pastoie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e Genova, die si  trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fondano delle colonie consolari; ma per le città delFintemo non hannovi terre vacue, la campagna appartiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son armate, i confini sono spietati e le città si gettano sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della  rivoluzione consolare. Ogni città che si governa coi  consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura  stessa del consolato, e si presenta come la preda naturale del nemico che l'osserva; essa è res nuUius:  9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed  ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capitale; la guerra deve durare fino alla liquidazione generale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta  per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore animati da sentimenti patemi e da benefiche intenzioni; supponeteli sempre pronti a intervenire per predicare la pace l'unione la concordia; supponeteli abbastanza forti per ottenere innumerevoli conciliazioni,per riparare mille torti, per render giustizia agli  oppressi; supponeteli protettori, conservatori come  devono essere secondo il dato primo del Papato e  dell'Impero: le città riporteranno vittorie che non saranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nessuna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto ottenuto un vantaggio bisognerà rialzare le torri spianate, ricostruire le mura smantellate, riedificare le città incendiate, restituire il territorio conquistato; e alla partenza del Papa deirimperatore e dei loro delegati, le cause della guerra sussistendo ricondurranno le città al combattimento; si rimarrà per secoli  a battagliare in una casamatta, ai piedi di un bastione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vittorie inutili, per subire mille sconfitte sempre riparate.   La guerra municipale che rimane dentro i confini della regione viene quindi ridotta al dualismo  delle città militari e delle città romane costrutte  le une a controsenso delle altre : di Milano e di  Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Verona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di  Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di  Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle città latine : anche il regno di Napoli si toglie all'analogia degli altri regni per seguire la legge delle città italiane, funzionando come una gran città  cambattente con Palermo contro i rimasugli federali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa  guerra che oggi si considera come un disordine  odioso era nel secolo XII un progresso, una rivoluzione, il primo passo delle città per determinare i loro confini a nome della propria libertà  insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdizioni.   Intanto Fed. Barbarossa,capo della rivoluzione vescovile in Germania, si propone di combattere in Italia la seconda fase della rivoluzione consolare, sopprimendo la libertà della guerra municipale che insulta alla sovranità dell'Impero: e   A. PrrraRI Giuseppa F. la sua reazione subisce vicende diverse secondo  che si muove sulla terra delPantìco regno o su  quella del Papa o del regno normanno. Nell'Alta Italia diventa capitano municipale delle città  romane, manovrante da bandito con l'uniforme  d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra  la conferma. Dopo i successi effìmeri dovuti alle  città che lo secondavano nelle prime discese, vinto dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e  dalla fondazione d'Alessandria, accorda il diritto alla guerra sanzionando nel trattato di Costanza le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia  di Legnano non è dunque una lotta repubblicana  e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore  tedesco (1); ma una lotta fra le città romane guidate da Milano è le città militari guidate da Pavia, per ottenere dentro la gran giurisdizione dell'Impero la libertà della guerra.   La nuova rivoluzione, appena legalizzata dalla  duplice repubblica europea del Papa e ddl' Imperatore, si diffonde dappertutto dando ad ogni  nazione dei governi con missioni consolari : perfino nella Chiesa, che assalita da ogni parte prende al rovescio i suoi nemici colle creazioni consolari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini  francescani; e sostituisce la conquista vicina dell' Inquisizione alla conquista oltremarina della  Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bonaventura all'indisciplina dei Francesi e dei cappuccini. Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,  Macmillan, Non si dichiaraTano prìncipi repubblicani, né si faceva appello alla nazionalità italiana. La terza grande rivoluzione italica prende nome dai Cittadini e Concittadini e pa9sa per le fasi della guerra ai castelli e della guerra cittadina che provoca la creazione  del podesta. La città consolare, la quale non è altro se non  un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno  che copre ancora tutta la campagna inceppando il  libero espandersi del commercio, una volta ottenuta la libertà della guerra riflette che le città rivali sono troppo radicate alla terra, mentre i nobili della campagna si presentano come vittime  facili; e volta contro di loro l'impeto irresistibile della sua espansione economica e politica. Le  città romane specialmente combattono con furore  contro la moltitudine dei feudatari che le accerchiano impedendo loro il respiro; e questa ultima rivoluzione che estende la libertà alle campagne si presenta come la conclusione della gran  guerra contro il regno, distrutto nelle sue sopravvivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Italia, che funziona come un gran municipio, la guerra ai castelli si confonde con la continuata guerra municipale di Palermo contro gli antichi centri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo  sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.   La soluzione della prima fase, vittoriosa della  reazione, apre una nuova lotta. I castellani, naturalizzati e deportati per forza nel cuore della  città che loro impone l'odiosa legge dell'uguaglianza, si vendicano costruendo delle fortezze inteme, armando i loro servi, conquistandosi coil'oro la moltitudine che voltano contro il popolo  e ricominciano un combattimento che come quello fra città e città non può finire; perchè il denaro  è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la finanza colla finanza : i proprietari della terra (concittadini) sono almeno forti come i possessori deifabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Imperatore si presenta ai cittadini e ai concittadini  per riassumere ed eternizzare il loro combattimento: con la solita interversione d'alleanze i  cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli  di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperatore; al contrario i concittadini dell'Alta Italia seguono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa Italia invocano il Papa contro Palermo.   I torbidi continui, le prese d'armi improvvise,  l'anarchia imperante, conducono alla creazione di  un nuovo governo : i consoli nella loro qualità di  capi dei cittadini come parti in causa non hanno  quell'autorità imparziale che possa giudicare i due  partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato  nel tempo stesso giudice e capitano, ad una specie di dittatore annuale che si chiama podestà.  Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli  stesso giudica e applica la sua legge con potere  discrezionarìo ma spirato il suo mandato è  sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è condannato a multe a prigonia e talvolta alla morte.   La reazione immancabile questa volta si semplifica. Il Papa è il protettore delle città romane del Nord, T Imperatore è lui stesso il gran podestà delle Due Sicilie : la reazione imperlale non  opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero,  mentre la reazione pontificia non percuote che i  popoli della Chiesa. Federico II assale qua! console della Germania i podestà della Lombardia,  diventa capo dei concittadini delle città romane  e dei cittadini delle città militari; ma dentro al  laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si  trova impegnato in un combattimento a cui l'equivalenza delle forze non permette nessuna soluzione ed è costretto a riconoscere col fatta  della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv.  d'ItaUa):   Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo,  Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio  di console della Germania e di podestà delle Due Sicilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^  te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e  la poesia, che segue le grandi figure della storia per  trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le  sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende  silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi abbia seco perduto non si sa qual misterioso destino  d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebelini, condannati alla demenza delle reazioni impossibili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pentimenti né correzioni; egli resta qual'è nel suo tempo nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mille geroglifici che la stenografia della storia traccia con  la rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Utile al Mezzodì, l'ultimo degli Hohenstauffen non poteva né essere il podestà dell'alta Italia, né equilibrar  runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del  Nord, né reggere tutta la penisola con un potere di screzionarìo e profressivo; le nozioni stesse di compensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica o  di despotismo beneflco erano anticipatamente eliminate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni delritalia, che si svolgevano diverse variate affrazionate da cento stati contradittori, la cui suprema felicità era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male  fatto a Firenze non era compensato dal bene fatto a  Lucca, un'umiliazione di Milano non toglievasi con  alcuna indennità concessa a Pavia. Un podestà unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano;  un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la  penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto  all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai marchesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede  sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tutte le montagne, una devastazione inaudita di tutte le  libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei  Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un  tratto fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occidente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la  sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto riportare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le  sue fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal basso come la libertà generale... Al certo l'elevazione  non mancava a Federico; e fissando lo sguardo su  lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo dell'Impero e la commedia estema delle pompe, si scopre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sempre m tutte le epoche della storia; nel momento delle grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di  Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* N*to in un  secoio di disordini e di contradiùoDi le quali spesso in Ini si  pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto  una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura opposto, più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costruito con 1' altra. del dolore dimenticavano un istante di essere tribuni re imperatori, per chiedere alla natura e agli  astri se può darsi un esito ragionevole alle pazzie  deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islamismo, per cercare delle verità che la sua religione gli  vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose interrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza,  sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla furberia dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un  califato d'occidente, col quale la ragione gli renderebbe la metà del potere ceduto da Carlo Magno alla Chiesa. La tradizione profana lo segue appassionatamente e, guerreggiando con le calunnie cattoliche, gli attribuisce confusamente il pensiero di voler regnare quale podestà delle tre religioni che si  contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Gesù Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori  dell'umanità, che ingannano i mortali, che seminano sulla terra il furore delle crociate, che bisogna domarli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa  ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno,  per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli  ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo  disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amore per i Romani e per i castellani minacciati dal fuoco della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli  ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che numerosi insensati si attendevano a vedere trasformato l'universo da un incanto che rovescerebbe la tirannia  imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero  arbitrio del pensiero, che si fa strada in mezzo alle  più astratte possibilità, non serve che a rivelare di  rimbalzo tutta la forza della fatalità. Sciagurati i Cesari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di  parere ancora più religiosi degli altri; devono imporre il silenzio l'obbedienza la cecità, e farsi ipocriti impostori e persecutori di ogni filosofia; perchè  la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti i  suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli di miracoli  questo è il suo pasto; e non sacrifica i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le  promettono con maggior energia di continuarne gli  errori. Podestà occulto di tre religioni, Federico IIgemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo  condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cattolico, ad abbruciare gli eretici e a disprezzare l’umanità. Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazione è guidata dal Papa, che come console dei concittadini del Mezzodì assale con le armi della rivolta federale e della superstizione cattolica il suo  vassallo Federico 11 supremo podestà, ma è  vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta  Italia. E la sua sconfitta si ripetè a Roma, che  organizzata a forma repubblicana lo obbliga a cedere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà  bolognese. La libertà della democrazia della sedizione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia  proclamando il grande interregno, e si diffonde  per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i  dottori combattono come cittadini e concittadini  prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa diventa il giustiziere universale di tutte le dissidenze presenti passate e future come un podestà mitriato. Ma nemmeno il podestà poteva durare sulla Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa  posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano.  BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208.  scena un tempo maggiore di quello concessogli  dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella  nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide  in periodo delle sette e dei tiranni, al momento in cui la guerra civile  straripava al disopra del governo pacificatore e  i combattenti disprezzavano gli ordini del podestà. Chi sono questi furibondi che si scannano a  vicenda proprio adesso che il grande interregno li  libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi  di adorare il loro Papa, ai Meridionali di venerare il loro Imperatore? Essi non derivano dal  Papa e dall'Imperatore non sono altro che le  due sette dei cittadini e dei concittadini che rinascono con duplicato furore, per darsi delle sempre nuove battaglie al seguito della quale una metà degli abitanti deve prendere la via dell'esilio.  I cittadini delle città romane sono guelfi, all'opposto dei cittadini delle città militari di Roma e del  Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle città  romane sono ghibellini, mentre quelli delle città  militari di Roma e del regno sono guelfi. Con una guerra tutta sociale» figli di una stessa città,  essi combattono per conquistarla non per distruggerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i   Cfr. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi  storici. Pisa: I-e varie cagioni delle lotte interne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di Imperatori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di proprio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preetistono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del  Medio Evo, a cui le due podestà servono pur illudendosi di comandare.   deale della nazione si stringono in alleanza coi  settari del loro stesso colore, onde tutta la penisola è corsa come dalla rete di una circolazione  di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pari è la forza degli interessi, pari la forza delle idee; la lotta adunque nel complesso della nazione  è eterna e senza soluzione come una antinomia  metafisica; ma prende possesso delle contradtzioni della guerra municipale, secondo la legge che  dopo una minore o maggiore alternativa di espulsioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei  cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle città romane, dei Ghibellini nelle città militari. Essa  allarga ancora la libertà nazionale dentro il patto  di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo più  numeroso dilatando la democrazia, e mira a creare secondo il tipo ideale formatosi con la generalizzazione delle sue due tendenze una nuova Chiesa democratica e un nuovo Impero legale. Minacciato dalle due sette che fanno traballare  il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma se  non facendo un passo indietro per fermare la rivoluzione, chiamando Carlo d'Angiò alla conquista della Sicilia affinchè domini come un podestà  imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa  guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione papale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento è  rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca  innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consolare, estende la libertà alle arti ai mestieri alla  plebe, compensa il decadimento delle città militari col fiorire delle città romane arricchite dall'industria e dal commercio, rivela attraverso il collegamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e  dà due linguaggi due poesie due nuove religioni  all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dall'aristocrazia popolare delle città romane, bilancia  l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Federico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai  dialetti di tutte le città; finché viene a trionfare la  nuova lingua guelfa della democrazia di Firenze.   Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso  nella seconda fase dei tiranni. Il tiranno è il capo di una delle due sette che gli concedono un potere dispotico sacrificando la loro  libertà quasi feudale nell'interesse della vittoria:  esso compensa la violazione di tutli i diritti acquisiti coi favori prodigati alla moltitudine e colla condotta vittoriosa della guerra estema, e per  la prima volta rappresenta la terra sotto una forma individuale. Ma, capo di un partito destinato dall'equilibrio delle forze ad alternare te sconfitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad una catastrofe certissima. Le città che non entrano nell'era dei tiranni si contorcono nelle angosce della guerra civile non ancora disciplinata imbrigliata e mitigata, e in ritardo di una generazione nel  corso della civiltà sono sorpassate dalle rivali come Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian  della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni  stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul  tiranno di Napoli.   Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione opponendo la guerra pura e semplice all'ordine nasceme delle tirannie, per suscitare attraverso alla penisola un ondulazione guelfa che distrugga  le tirannie ghibelline; e ricorre a Carlo di Valois.  Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le  città i Guelfi si trovano senza capi senza riputazione senza potere e disonorati dall'invettiva  immortale della Dmna Commedia. Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Arrigo VII, che in ritardo come la sua patria di due  rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibeliino; e guida quindi una reazione opponendo ai  furori delle tirannie la pacificazione sorpassata del  podestà. Ma appena messo il piede sul suolo fatale ditalia, come i suoi predessori vien preso  nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto  a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si dice avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buonconvento, dopo ruminazione di Roma e l'affronto di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei tiranni penetra infine nel patto di Carlo Magno colle teorie antitetiche di S. Tomaso e di Colonna, di Tolomeo da Lucca e d’ALIGHIERI (vedasi), che propongono come stato modello gli uni la tirannia  guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina  Commedia è la grande epopea della tirannia ghibellina trasportata nell'universo soprannaturale,  dove Dio sostiene la parte del tiranno supremo;  Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della rabbia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^  prema di salvare il genere umano; che da per tutto immola sacrifica consacra i Guelfi del suo tempò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la  democrazia guelfa del passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta  l'Europa; si riproduce nella Chiesa grazie a Bonifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; penetra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghibelline dei domenicani tomisti e dei francescani  scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti, e  perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar  gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni dell'inferno.   A un certo momento il tiranno s'accorge che  per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe  e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialità  col disarmo colla corruzzione o con la distruzione  dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse dell'agricoltura dell'industria e del commercio che  vogliono ora la pace. Il reggimento repubblicano già compromesso dai tiranni viene quindi abolito dai Signori che regnano da despoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di  traverso al Papato e all'Impero senza prenderli  mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le  guerre municipali fin qui insolute, dando predominio alle città progressive romane; si estendono  colla forza della necessità, migliorando la sorte  delle città conquistate trattate coll'imparzialità usata verso le due sette; e sempliflcando la geografia delle due Italie, utilizzano ormai direttamente il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel  Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori). Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza che  dimostrava in qual modo si poteva vivere nello  stesso tempo nei due campi o passare sapientemente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibellini non avevano altro mezzo che d'invocare ^  uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno  dell'Impero, per disfare con una reazione generale le nuove costruzioni delle signorie imparziali. Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre  reazioni, una papale una imperiale e una combinata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i  giureconsulti proclamano per la prima volta la sovranità popolare di ogni nazione astrazion fatta  dalla Chiesa e dall'Impero.   Nella seconda fase della Prosperità dei Signori a regno dei furfanti benefìci si propaga in tutte le città : le terre più timide, i centri  più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono crearsi dei capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni  città prende definitivamente il posto che le era  stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione  del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulanza di Verona, l'inferiorità della Toscana e del  Mezzodì.   La signoria di Milano era frattanto giunta a  tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la  reazione di una federazione repubblicana pontificia e imperiale, in cui le città minacciate dalla voracità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogradi per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava  a sé i suoi capi retrogradi e la reazione finiva colla catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV alTimperdonabile bassezza di farsi mercante di dijplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra  Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savoia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la  ragione individuale dalle catene della religione.   La terza fase del periodo dei signori è dominata dal dualismo fra Milano e Firenze.  Un nuovo progresso inalza Milano, dove per cancellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche  Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione  illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi  Tidea di sopprimere la dominazione temporale  della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica signoria dei Visconti. Ma quest'idea trasforma la  signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo  il suo raggio legittimo in un flagello per il resto  della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la  liberta le leggi le tradizioni e le federazioni dei  popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni  della nazione si spiegano col contrasto fra Milano  e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuole dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superiore al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bartolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo  a profitto dei moderni e impersonano l'empietà  del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni contradizione col suo classicismo accademico feroce solo contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando '  le nazioni dal gran patto papaie-imperiale per mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le imposture del Medio Evo sotto le risate della sua  novella federale. E* questo il momento in cui la  bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vescovi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena  frammista qua e là alle battaglie lombarde e friulane come una terra secondaria e affatto straniera, quasi sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno  che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un trattò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di  simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sarebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo  da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente.   La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove  tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore  riprendono il loro atteggiamento naturale; e la  Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i sostenitori dell'individuo e quelli del genere, per  diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione del  Petrarca. Le conquiste sociali e politiche della signorìa  vengono adesso minacciate dalla Crisi militare. I signori avevano composto i loro eserciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i  Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizionalmente antimilitari; ma poiché, affascinati dal demone della conquista vogliono mantenere eserciti superiori alla loro potenzialità economica, finiscono per fallire e per cadere in balia della plebe irritata e dei soldati insorti. La crisi si compie in tre tempi : prima la plebe insorgendo contro il flagello della miseria distrugge la signoria,  risuscitando le forme politiche sorpassate della  repubblica o della tirannia; poi vedendo che quella libertà la ripiomba nelle demenze del passato  accetta una nuova signoria, che limiti le sue ambizioni conquistatrici al raggio legittimo consentitole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi  ritemprato da una nuova consacrazione plebea  si trova adesso di fronte al condotdere capo di  una signoria volante di soldati su d'un territorio  che non può sostenerli tutti e due, bisogna che  uno scompaia : ora è il condotdere che diventa  signore come Francesco Sforza, ora è la signorìa  che toglie di mezzo il condottiero come Venezia  fa del Carmagnola. La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora  in mezzo alla derisione universale di tutti i principi, conserva tutto il lavorio dei secoli precedenti : la federazione italiana si semplifica colla vittorai dei gran centri romani sulle città militari e le  dualità invincibili; detronizzando diciassette dinastie e distruggendo diciassette indipendenze inutili, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran  legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'orgoglio della nazionalità alle necessità della democrazia, perchè la fame è superiore all'ambizione  delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti   A. Ferrari Giuseppe Ferrari.  nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signorìe secolarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484,  in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, dichiarando di assoldare un condottiere a spese comuni, stabiliscono il principio di tutte le federazioni : di formare uno stato solo contro al nemico benché ogni stato resti distinto e sovrano nel  proprio territorio. Le reazioni di questo periodo  sono appena accennate e non servono che a confermare la rivoluzione flnanziaria. La quale si riflette nelle lettere, dove si ha prima la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere delle opere originali con Lorenzo col Poliziano e col  Pulci, che malizioso come un signore liquida il  Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del  Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella  Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federale del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi tazione di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un  incendio universale di democrazia, che presto avrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori della libertà e delle riforme; inventa la visione beatificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il purgatorio; e fa adorare un Dio che vende le indulgenze per rendersi visibile nei capolavori dell'arte.  L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale  della rivoluzione; marciando alla testa della civUtà essa creava man mano le nuove forme politiche.   che diffondeva per mezzo del Papa e dell imperatore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che  durante il periodo della Decadenza dei Signori la civiltà trasporta i nuovi centri incendiari in un'altra nazione; e la Francia chiamata da Ludovico il Moro straripa improvvisamente con una espansione militare nellitalia, la  quale sorpresa da questo imprevedibile progresso è costretta a difendersi restaurando il Papato  e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi  esiliato, e resuscitando le forze indigene delle  sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei signori aveva addormentato. Il meccanismo politico  cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che trasmetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre  nuove forme politiche per mezzo dei poteri europei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror  pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del  Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso allitalia. Succede un altro passo indietro quando l'Italia è costretta a mettere il Papa e  l'Imperatore sotto la Spagna per difendersi dall'insurrezione germanica e federale di Lutero contro le sue rivoluzioni, contro la sua civiltà passata attaccata nel Papa; che rappresentava tutto il suo lavorio religioso, la sua supremazia mondiale e che era pure uno dei due membri  della federazione europea da essa creata (Riv.  d'ItaUa) r Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia: Finiva V età del primato (qualunque fosse) d* Italia; iocominciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia,  poi Inghilterra.  L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due  patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la  sua espansione; le regioni che avevano respinto il  giogo della centralizzazione dell'antica Roma si levano con nuovi Arminii, per respingere con le forze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era  sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i popoli la cui antica barbarie aveva imposto le sue federazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove federazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di  Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord dell'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0gni individuo, diventato libero nel fòro intemo della propria coscienza, formulava cento gravami contro  la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni  d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque contro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia  aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo; contro il prestigio magico che essi avevano messo negli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e delle reliquie a confusione dei barbari; contro la santificazione dell'antica capitale con una gerarchia misteriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e  contro la superstizione incendiaria che aveva dato all'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di  sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re.  Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni di Carlo Magno : né la separazione dei due poteri; né la  donazione che faceva della Chiesa una potenza politica; né la penitenza che metteva i suoi giudici al  di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra  di tutte le sentenze; né la liturgia che propagava il  culto col fascino dei canti, delle pitture, delle sculture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purgatorio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'inferno, per far luogo agli incanti delle preghiere clericali; né in una parola il pontefice che arrivava all'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi della giustizia divina e proconsole di tutti i proconsoli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione  luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori :  e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei  preti e tutte le riforme che fornivano armi  spirituali temporali all’unità pontifìcia; dell’era dei consoli gli ordini mendicanti, le feste imponenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnante e rimplacabile inquisizione; delfera delle due  sette i tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis,  le dotte puerilità che profanavano Dìo trasformandolo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo  dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, materiale, e abbandonato al despotismo della frase ai  periodi ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti alrinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi  fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti  i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le  assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far  denaro con una religione già materiale, e per moltiplicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli  di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva più  ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano  contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi  dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale  denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore  funzionario e papista come un nemico del genere umano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni  uomo diventato il proprio pontefice, la religione incatenata al senso letterale della Bibbia, tutto l'andamento divino ridotto alla stessa legalità di questo  documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivoluzioni italiane sarebbe definitivamente abolita come una  epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma maledetta come un sacrilegio commesso contro la libertà del Vangelo. L'Italia non era mai stata più  violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano rispettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'avevano protetta Lutero la fulminava; e se prima di  lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si  attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi  e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magnificenza.   Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1.Imperatore che rappresentano le loro rivoluzioni legalizzate, e questi si mettono sotto la protezione della Spagna per resistere al federalismo protestante dei luterani; mentre i signori rinunziano alla  lega del 1484 che aveva congedato silenziosamente il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova  per un'ultima volta il patto di Carlo Magno colla Chiesa. La restaurazione di Cario V non era  una reazione: delle rivoluzioni italiane rispettava nitto il lavorio geografico e sociale, ben differente dalle reazioni anteriori che pretendevano  farlo ren*ogradare; essa venne quindi accettata.  Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei  suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tempo si burlano della Chiesa e dell'Impero. L'arte e la scienza trasportano nel campo ideale la  rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette  l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tempo deride ed ammira il Medio Evo, dove sono  ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della  politica e della religione ^uabnente ridicoli e venerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non  meno rispettabile delle favole della Chiesa e la  sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole italiana è imitata da tutta la letteratura. Il Machiavelli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo insegnare le norme della politica rimane vuoto e asirattOy mentre fonda la teorìa che determina le  leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni  possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido  senza importanza, ma la sua fama si estende lentamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto  di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'umanità si svincola dalle credenze soprannaturali  e si basa sul razionale.  La nuova era politica della Rivoluzione protestante propagata dalla Germania consiste in un movimento che estende la fraternità  umana oln*e assai la benedizione del Papa e la  memoria di Roma e, conservando la distinzione  dei due poteri che aveva inaugurato il regno del  pensiero puro, la affida ad ogni individuo divenuto papa di se stesso una volta in regola colle  leggi del suo stato. Essa si attua in forma opposta negli stati germanici e negli stati latini: nei  primi individuale legale federale distrugge il potere di Roma confermando quello dei prìncipi;  nei secondi riforma le antiche dottrine della teocrazia romana, opponendo alla rìvoluzione protestante la fraternità e la democrazia, le concentrazioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In  Italia produce il trìonfo degli stati ghibellini (Milano Genova Firenze Napoli) sui loro opponenti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei  Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guelfi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La rivolizione rinnova la letteratura col Tasso, il poeta della tenerezza che celebra la grande impresa  cattolica della prima crociata; fonda la musica; e  ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie  della fraternità in opposizione alla libertà protestante. La riforma appena vittoriosa è assalita da una  reazione : cattolica e unitaria nei paesi protestanti,  protestante e federale nei paesi cattolici, essa non  fa che confermarla; sacrificando in Germania  Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati  ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vacchero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli  d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Venezia. La letteratura nazionale sta per soccombere airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ragion di stato liquida senza parere la religione e  spegne il senso morale cogli scritti di mille mediocrità misteriose; e la filosofia dà Bruno  e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo  che afferma Punita della materia e la pluralità dei  mondi; Taltro il rappresentante più grande deiTutopia politica dei popoli latini esagerante alTinfihito la fraternità l'unità e il despotismo, contro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero  colla forza della libertà delle federazioni delle  leggi. Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al 1789 e che si potrebbe definire del Despotisma  illuminato è guidato dalla Francia; la quale insegna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza  religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazione del governo colla distruzione dell'indipendenza quasi feudale d'una nobiltà costretta a modernizzarsi, l'impostura e la libertà della ragion di  stato nell'interesse delle moltitudini. Esso si attua in senso inverso negli stati monarchici e negli stati federali colla centralizzazione o colla legalità. In Italia la democratizzazione dell'aristocrazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Impero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della  Francia. I politici della ragion di stato sospendono le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dalle loro divagazioni, e le pompe dell'opera traducono il secolo di Luigi XIV nella lingua universale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Europa (Riv. d'Italia) : La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia  coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affrettano mai : gli eroi si precipitano al combattimento  colla misura dell'andante, il nemico fugge senza potersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomeliì, le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i  cui accenti riempiono le più vaste sale, si danno le  pugnalate in battuta, le vittime cadono colle vibrazioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta perchè rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le  leggi delle verosimiglianze.   Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbiamo l'immancabile reazione guidata dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquistare alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni  stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo progresso. Ma il suo bieco disegno è distrutto in  Francia dagli uomini della reggenza e dai filosofi delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Europa le idee del despotismo illuminato, mentre la  Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria  prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Napoli diventa indipendente, il Piemonte si ricostituisce e si estende; mentre le repubbliche rimangono indietro attardate dalla loro retrograda aristocrazia. La nazione rivela la sua grandezza  nella filosofia con Vico, il quale colle idee del despotismo illuminato mette a livello tutte le società  e tutte le religioni; nella poesia con Metastasio il  più tenero nemico degli dei, e con Alfieri il tragico poeta della guerra che vuole tutte le idee  alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'ItaliaDeliziosamente illusa da queste cantilene rimate  [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i  teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sorpresa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo  che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orchestra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza  rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena  squallida triste e nuda; e là quattro personaggi dalle  figure astratte, impegnati in una azione unica stincata  rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquattr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere in  terra e colla nuova moralità del vizio vittorioso e  della virtù sacrificata questi miserabili mezzi a controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un  drappello dì Spartani che fennassero Tannata di Serse. Il melodramma ne ricevette uno smacco irreparabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati,  i loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun  poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero  soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti,  con parole vuote di senso che si chiamano ancora in  oggi le parole e la poesia lasciò per sempre le rime effeminate, le pugnalate fantastiche, le virtiì ridicolmente languide e i cantanti castrati delle cappelle principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vibrare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i  drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti cesarei.  Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, egli inventava dei personaggi poetici per formarne dei  veri; nuovo Orfeo voleva destare la libertà nazionale, che nella sua immobilità secolare non sapevasi ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo  spasimante il patito il cavalier servente ed anche il  signor marito si sentirono ridicoli, le civette si morsero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dalle code impdverate si guardarono intomo, e i capitani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuoco sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al  cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabinetti, qualche volta esiliata dalle scene investiva il  lettore a casa sua e i suoi spettri inattesi gli intimavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi,  di pensare. L'ultimo perìodo storìco, non ancor chiuso  quando il Ferrari scriveva, è quello della Rivoluzione francese. Il suo principio consiste nella divulgazione dei misteri del despotisir.o illuminato per modo che il razionalismo libero pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristimzione del codice che uguaglia politicamente tutti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghese figlia dell'industria e del commercio. La rivoluzione francese ricorre alla forma repubblicana  antipatica alla nazione come a strumento di distruzione, finché Napoleone trasporta nella forma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuovo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le armi a nitta l'Europa dove l'esordio è quindi assolutistico e la conclusione libera. Cosi la Germania dal despotismo della conquista napoleonica  necessaria per trasmetterle la rivoluzione torna alla sua federazione quasi repubblicana, alle speculazioni astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Austria ritorna alla patema democrazia e alla burocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra aveva già avuto nel suo territorio la esplosione che  creava gH Stati Uniti anticipando le idee della rivoluzione francese; ma la Russia copia il progresso francese direttamente coli' assolutismo degli  Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere  Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo progresso; e ad una prima tenue succede una seconda più radicale trasformazione all'unitaria, Anche  conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio  lento alla sua tradizionale federazione. Al solito la rivoluzione francese è assalita da  una reazione, che impone alla Francia la libertà costituzionale della dinastia borbonica, e viceversa air Europa il despotismo; ma essa si avviticchia alle forme stesse della reazione per combatterla e sconfiggerla, in Francia colla  repubblica che conduce al governo assoluto di Napoleone III, presso i suoi avversari col ristabilimento delle libertà costituzionali. In Italia abbiamo pure assolutismo al rovescio della Francia;  ma assolutismo che è costretto a diffondere il  contenuto della rivoluzione, a far riforme amministrative, ad appellarsi alla moltitudine che tenta di voltare contro i liberali. Però la nazione  volle scuotere questo odioso giogo dell'assolutismo e alla rivoluzione di febbraio corrispose l'esplosione unitaria del Piemonte accettata per riformare il Papa e l'Imperatore; finché la religione e la politica federalista si volsero contro Carlo Alberto, che trasformava la guerra di libertà in guerra di conquista interna non legittimata  nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villafranca a Novara si distrusse un regno immaginario a profitto della federazione italiana. Ma il progresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle  riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Papato compromesso politicamente dalla doppia occupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi  cedono ai principi deir89 per il rumore confuso  delle nuove idee che attaccano la proprietà. E dalla lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e  i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli  uni o gli altri, essendo detronizzati, trovansi nella necessità di proporre una più vasta democrazia  per risalire al potere. Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo  steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'autore basterà a dare un'idea adeguata della importanza unica di quest'opera, in cui il Ferrarì dispiega netta la sua incomparabile grandezza di  storico. Per averne la misura paragonate la sua  storia d'Italia, non dirò con uno di quei manuali  in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno  dietro all'altro come una corona di nocciole, ma  anche coi libri di coloro che vanno per la maggiore fra i moderni : con la voluminosa storia politica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la storia del Villari, che passa per il migliore dei nostri storici viventi, in corso di pubblicazione adesso presso Hoepli). Anche per una persona di quelle cosidette colte che frequentano le società di lettura e fondano  le università popolari la storia, secondo l'idea che  ne ha portato dal liceo, è come una fantasmagoria irragionevole, che sarebbe comica se non stillasse il sangue di innumerevoli vittime. II capriccio la pazzia il caso sembrano movere questi innumerevoli fantocci di un dramma senza processo  e senza scioglimento; dove si vedono degli individui che si scannano senza ragione, delle nazioni che si combattono senza sapere il perchè,  delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e sopratutto una incessante lotta intema dei popoli Lf' /mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli; L' Ita^  Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id.,  contro i governi che pare non proporsi mai uno  scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo molti manuali di storia sembrano scritti da gente che  la pensa cosi! Ma anche molti degli storici più  elevati, più scientifici diciamo, mancano del metodo interpretativo in una maniera impressionante. La loro storia, costretta a rimanere attaccata  ai personaggi ufficiali per avere almeno una unità apparente, è un seguito di biografie e di raccontini legati gli uni agli altri dalla meccanica  successione cronologica o da metafore vuote. A  quel modo che i letterati seguaci del cosi detto  metodo storico che è per eccellenza il metodo  antistorico credevano che la critica avesse esaurito il suo compito, una volta dimostrato che  la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella  tale occasione per quel tal personaggio; cosi molti storici credono ancora che il lavoro della storia si limiti a mettere in sodo se un tal fatto più  o meno particolare è accaduto in quel dato modo, se quella data istituzione politica era costituita così e non altrimenti. Ma come di fronte a  quei pseudo-letterati la critica afferma la necessità di completare e integrare il loro lavoro da puri manuali della letteratura con la ricostruzione  con l'interpretazione col giudizio; cosi contro questa specie di positivismo storico non sarà mai abbastanza forte affermato che la storia non deve  limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li  deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in  una lìnea di sviluppo per cui si veda sotto alle  apparenti fermate o alle parziali decadenze lo  sviluppo continuo e progressivo della civiltil umana. Sta bene la ricerca del documento nuovo:  noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro  che è anzi la base necessaria su cui si deve svolgere il lavoro veramente storico, ma affermiamo  che il documento di per sé è inutile se non è usato, che è muto se non vien fatto parlare, che  deve essere bruciato per rischiarare la storia; la  quale non è soltanto, la Dio grazia, scovamento e pubblicazione della nota della lavandaia di  Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del  comune di Simifonti, ma è narrazione dello sviluppo civile dell'umanità. Non basta raccontare  un fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al  di sotto della sua superficie squallida o brillante  per ritrovarne l'intima ragione; bisogna i fatti singoli sgranati collegarli colKunità d'un principio che è il loro motore e la loro spiegazione;  bisogna il succedersi dei diversi principi, dei diversi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una  legge di continuo sviluppo, di progresso continuo.   Or bene l'opera del Ferrari è un modello incomparabile di storia interpretativa, di storia cioè  vera.   Di più, il Ferrari è uno storico completo. Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous WriiififTi Longmans, Green and Co.. London:  Nella invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti,  nella storia sono dati i fatti per trovare ì principi; e lo scrittore che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li narra compie solo una metà del suo ufficio. I fatti sono semplicecernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che li penetra e sta latente fra essi come 1oro nel minerale che la massa deriva tutto il suo valore. Storia vera è la narrazione e interpretazione di  tutta l'attività umana, quindi non semplicemente  della politica ma anche della artistica e della filosofica; perchè l'uomo è uno in nitte le sue manifestazioni. Lo storico completo deve dunque dimostrare come tutta l'attività umana di uno stesso periodo abbia unità di caratteri, come arte e filosofia e politica siano tutte dominate da uno stesso  principio storico; questo, come abbiam visto, il  Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di  aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il  pensiero dal puro punto di vista filosofico.   Ma la sua dote migliore è quella di essere totalmente libero dai pregiudizi della morale miope  dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridurre la storia a qualche cosa come un dramma a  fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per personaggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e teologali. Nulla di più noioso che gli scritti di certi  signori, perpetuamente scandalizzati di fronte alla vitalità umana potente nei vizi come nelle virtù, perpetuamente predicanti contro le orge di  Nerone o le crudeltà della Rivoluzione francese,  ridotti alla disperazione di dover ricercare a  forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro moralità di scomunicare il 90% della storia. (La  Chine) :  Non c'è niente di meno storico che Io scopo  morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i  quali trasformano la storia in una specie di catechismo. Essa al contrario ammette tutti gli scioglimenti :   A. F, Giuseppa F.ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele,  non si incarica di punire di ricompensare alcun eroe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri  dei martiri degli stolti delle vittime. Perchè si vorrebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente,  là che s'irritasse contro un malvagio, e che si sostituisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il  loro merito; che fosse in una parola edificante per  le madri di famiglia e per i bambini poppanti!   Che l'arte debba essere giudicata da! puro punto di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è  finalmente cominciato a capire : pare che non si  sia invece capito ancora che, per intendere e  giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto  di vista superiore a quello della propria moralità  individuale e contingente.   La storia è un tessuto di azioni pratiche, che  io posso quindi giudicare sia dal punto di vista economico che dal punto di vista morale; posso cioè  determinare se l'azione di quel dato individuo fu  prodotta puramente da fini individuali, da Ani  universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene  che la moralità è formale, che è morale quello  che l'uomo crede e sente morale; devo quindi rinunziare alla mia rivelazione morale come direbbe F.  per rimettermi nei panni dell'individuo che pretendo sottomettere al mio tribunale; e non portare le idee del secolo XX nel  secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valentino coi criteri con cui si giudica un onesto impiegato municipale padre di numerosa prole.   Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in sodo seVisconti tradì lo zio Barnabò per pura libidine di regno o per beneflcare i  suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della  tirannia a nome di una più completa imparzialità;  anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fazione sia determinata dal solo interesse individuale, lo storico vero deve saperci discernere il bene,  quel bene che l'individuo non cerca e non cura  ma che il destino gli impone di compiere, e che  solo permette alla sua azione di essere e le dà un  senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che  la storia è il trionfo della moralità, che non è  quella degli storici pudibondi; della moralità che  non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta  contro il vizio; della moralità che si vale per i  suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di  tutte le colpe dell'uomo, condannato dal destino  ad essere sempre e dovunque angelo e bruto.   E veniamo ora a giudicare il valore della interpretazione concreta. Pensate che ai tempi del Ferrari la piti importante storia d'Italia era il Sommario di C. Balbo (1), il quale in fondo non è molto superiore  ad un manuale scolastico, come del resto riconosceva l'autore stesso: Finché non avremo un grande e vero corpo dì storia nazionale, da cui si faccia poi con più facilità Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n, ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar  per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k>  non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore,  ma tal mi pare possa esser questo e dove lo sguardo dello storico è velato dal pregiudizio deirindipendenza. Con le Révolutions  d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non  ha altro serio punto di contatto che l'identità del  titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche vaga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia  spiega l'Europa la sua lotta è per la libertà  non per l'indipendenza Venezia è estranea alla vera Italia) si tratta di osservazioni ormai comuni fra gli storici, o già anticipate dal Ferrari  stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848  (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il  Ferrari stesso mette in luce nella prefazione all'opera sua la deficenza interpretativa, per cui alcuni volevano spiegare l'Italia col principio dell'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello della Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ridurla sotto la forma politica dei principati (Guicciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Sigjmondi).   Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo  vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato  da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia  e forza di rappresentazione la storia d'Italia?   (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, Bari, Laterza,  Paris, Dagnerre Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88.  Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fatta del ststema politico italiano impiantato sulla  gran repubblica papato-imperiale che ha fatto dell' Italia una nazione senza confini, perchè possa  diventare U centro d'Europa che irraggia le sue  continuamente nuove creazioni politiche a tutti  gli stati? Solo questa idea può dominare e spiegare coU'unità d'una legge la esuberante varietà  delle forme politiche che prende lo spirito italiano, scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e  dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concetto che gli Italiani lottano non per l'indipendenza che sottragga la nazione al patto papaie-imperiale, ma per la libertà e per il progresso sociale, non per distruggere ma per riformare la  repubblica dualizzata che è la loro franchigia; diventano intelligibili le innumerevoli battaglie che  ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non  contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la  sua libertà dal pericolo d'un regno, che danno alla nazione la gloria di essere il centro politico di  tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi  Ghibellini per conquistare il lustro vano di una  gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma  per riformare il Papa e l'Imperatore e costringerli ad ammettere grado a grado nel loro patto  il progresso sociale delle nuove forme politiche  create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^  polo italiano è il gran protagonista che adopera i  Papi e gli Imperatori, imponendo loro le parti  che devono recitare sulla scena mobile ddla storia; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta  tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi  come strumenti per conquistare una sempre più  larga democrazia. Tutta la gran guerra delle rivoluzioni italiane si riduce, come per Vico la guerra intema della repubblica romana, a un contrasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che  diventa anche contrasto di razza perchè il popolo è italico e romano, l'aristocrazia è formata  dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli  invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra  contro il regno barbaro estemo dei Goti e Longobardi e contro il regno barbaro intemo dei Berengarì e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi  contro i conti sono nello stesso tempo lotte di  classe e di razza; da una parte il popolo romano,  dall'altra i conquistatori barbari. E poiché i barbari hanno piantato piò profonde radici nelle città militari da essi colonizzate; la lotta fra le città  romane e le militari si classifica pure sotto questa doppia antitesi; come la lotta ddle città contro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini,  dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man  mano che si procede nella fusione barbarica, la  lotta attenua il suo carattere di razza per accentuare quello di classe; già ncUt guorra cqmm 1  castelli i feudatari combtttoti daDe città altari  barbare di tendenza si romanizzano facendo amicizia colle città romane; cosicché nell'era seguente noi vediamo la lotta incrociata in modo che  nelle città romane i Cittadini sono romani e i Concittadini barbari, mentre nelle città militari è viceversa; e nel periodo ancora successivo il popolo è  guelfo nelle città romane e ghibellino nelle militari. E siccome la vittoria è data all'elemento romano e all'elemento popolare insieme uniti : noi vediamo trionfare le grandi città dell'industria e del  commercio; e il progresso della democrazia va  di pari passo col risorgere dei grandi focolari della civiltà romana; finché colla costituzione della  lega federale il processo indigeno è compiuto e i nuovi progressi della democrazia vengono dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dall'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini.  Chi ha mai saputo disegnare con tanta chiarezza  i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi  nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il sistema papaie-imperiale e la lotta non nazionale  ma democratica per riformarlo non per distruggerlo, rimangono sempre le due idee che ci danno la chiave della storia nostra.   Ma non meno giusta è l'interpretazione che F. ci dà dei particolari periodi storici. Alcuni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi  e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittura scoperti; ma anche quegli altri che erano già  conoscenza acquisita di qual luce non vengono da  lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni  che hanno il difetto di abbracciare troppo tempo  e di sottomettere la nostra storia a un principio  straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu  sempre combattuto dall'espansione originaria nostra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che  va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompoSto nei due perìodi della lotta contro il regno barbaro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha  saputo spiegare la gran catastrofe dell’impero romano, che percuote di spavento come un miracolo dimostrando che fu rovesciato dai popoli irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piuttosto una invasione stabile che il continuamente  rìnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate  dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lotta delle investiture, condotta non dal Papa e  dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si giovavano dell'uno contro l'altro per modificarli a  vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd patto di Carlo Magno la gran rivoluzione della libera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha  saputo ritrovare il filo del progresso logico in mezzo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi militare; chi ha meglio di lui definito il periodo della decadenza dei signori come restaurazione papaie-imperiale non conquista, perchè liberamente  invocata e accettata dai popoli che non si difendodono nemmeno con una battaglia? Nella storia  moderna F. è un po' meno preciso e la  interpretazione in qualche punto è ancora soggetta a completamento e a correzione come egli  stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Francia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'irradiazione politica deir Europa, e anticipa il periodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aquisgrana. L'opera del di F. è in conclusione la messa  in valore degli Scrìptores rerum Italicarum del  Muratori, è la riabilitazione del Medio Evo; che  anche oggi è comunemente considerato dalla gente cosi detta di cultura, la quale giudica coU'occhio velato dal pregiudizio classicistico del Rinascimento, come un periodo di decadenza di barbarie di traviamento mistico. I romantici specialmente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel  loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendicare il Medio Evo, però più dal punto di vista del  sentimento che della ragione, finendo col considerarlo come un territorio di sogno dove la fantasia urtata dalle volgarità del presente potesse ricoverarsi, in mezzo allo splendore magico di una  società fantastica in cui un cavaliere poteva col  suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero i  cattolici che lo celebrarono come la loro età deiToro; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età  in cui tutta la terra, popolata di gente che passava come pellegrina cogli occhi fissi al cielo, era  sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva  imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa.  Questa è per es. la concezione di Gioberti che,  combinando col sentimento cattolico l'orgoglio nazionale, celebrò il Papato come la ragjone della  grandezza medievale d'Italia, dominante il mondo colla religione come una volta coll'armi. Del primato civile e moraU degli Italiani BniaelUs.  Adesso per converso, dove lui vedeva la luce e  appunto per la stessa ragione la folla delle persone colte vede le tenebre; e il Medio Evo è ancora per loro come un enorme deserto di schiavitù  di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono  non si sa come le oasi dei liberi comuni a un certo punto distrutte dal simoun delle signmie. Nessuno ha saputo riabilitare con così alta giustizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata  l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando  come anche nei secoli più bui il progresso sociale  continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non  sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato liberamente le invasioni perchè gli portavano un progresso sociale, o lottato contro i conquistatori così terrìbilmente da distruggerli; come egli solo  protagonista oscuro e possente abbia creato e atterrato Papi e Imperatori, invocandoli per distruggere il regno o combattendoli per riformarli. Non  si tenti dunque di far passare per un popolo di  puri mistici questo che, anche nelle epoche più  teocratiche volto alla terra, si giovava della religione come di un'arma spirituale più terribile delle spade gotiche e delle aste longobarde, per raffrenare e dominare colla magia di tma superstizione terribile gli enormi bestioni vellosi e truculenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio  dei Romani; che poi al tempo dei consoli, rigettando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si voltava con una energia meravigliosa alle opere dell'industria e del commercio e diventava il banchiere dei re dell'Europa,ritenendo la religione come una tradizione da cui gli artisti potessero evocare un popolo di capolavori che passò nove  secoli in mezzo alle passioni forse più forti della  vita, quelle della politica, colla spada alla manp.  La decadenza poUtica comincia proprio nel perìodo del Rinascimento, quando la civiltà trasporta  altrove i suoi centri incendiari e V impulso viene dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non  c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero romano, come non c'è all'avvento delle signorie sopra  il comune: il gran processo sociale della democrazia aliargantesi continua, anche se non originario proviene dall'Europa più avanti ormai nella scala storica; questo progresso sociale della democrazia si traduce in un continuo aumento di  potenza dei centri romani, delle città industriali e  commerciali. Non c'è salto come non c'è decadenza, non si può quindi accettare l'interpretazione  del Rinascimento come di un movimento che prenda a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la continuità ideale; anche qui F. è confermato  dai resultati ultimi dell'investigazione particolare  dei nostri storici:   Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo  siano profondamente penetrate e ramiflcate nel terreno dell'Italia comunale; come esso sia intimamente moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata  dal blocco di marmo. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica,  Bari, Laterza.   Ma F. non è solo un interpretatore ih  nico, è anche un artista di primissimo ordine, che  il buon Cantoni non si peritava di paragonare per  la sua potenza drammatica di rappresentazione a  Shakespeare. D’uno sguardo psicologico acuto e profondo, d'una mirabile facoltà di ridar vita movimento e colore  agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò  le qualità più difficili che fanno i grandi drammatici,  e avrebbe potuto forse divenire il più grande dei nostri se un*altra tendenza più forte non lo avesse  spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in  lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi supremi ed etemi che regolano la vita degli individui  e delle nazioni (!) Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a  dare una idea della forza artistica con cui sa caratterizzare uomini e cose, descrivere città, rappresentare movimenti politici. Un periodo ampio;  una vivezza calda e mossa di rappresentazione;  un sottile humour tenue come il sorriso d’un uomo superiore che compatisce alle debolezze umane, e nei tempo stesso un'accensione lirica una  foga d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la  grandezza epica della storia in ogni minimo  fatto; la forza dell'immagini che, atteggiando come esseri viventi città e stati, vi si piantano  nel cervello senza abbandonarvi più; formano le Cantons: (/. F.,  doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche  nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immortale. Con una fecondità versatilità profondità veramente shakespeariana egli ha saputo creare una  folla di personaggi e rappresentare una serie innumerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi,  perchè sa colpire nella sua caratteristica la realtà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua  forza drammatica leggete per esempio la narrazione della lotta di Milano contro il vescovo papista  Grossolano {Riv. d'Italia) e  delle imprese di Ezelìno da Romano; per dare ancora un esempio della sua  vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di  Genova che pare d'oggi: Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il  mare e la montagna, e tale che ì suoi abitanti non  possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza  ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che  riuniscono tutti gli estremi della miseria e della munificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi inaccessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che  disegnano le linee della loro abbagliante architettura  sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni  lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che  vi si incontrano alla ventura colia moltitudine cenciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la città ondeggia dall'aristocrazia alla democrazia come una goletta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non  possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie  di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino  a insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo al De Saiictis in cui D'Anunzio poteva notare tante manchevolezze artistiche e stilistiche da presagire a torto la sua dimenticanza, F.  anche dovesse la sua interpretazione essere dimostrata falsa da una critica  superiore rimarrebbe ancora immortale in questo capolavoro, che continuerebbe ad essere letto come uno dei più bei romanzi storici d’Italia. Eppure con tanto valore artistico e storico questa sua opera non ebbe fortuna, nò nella prima edizione francese fatta per T Europa, né nella seconda edizione italiana. Quello che è il suo pregio caratteristico fu appunto la causa del suo insuccesso, la concezione filosofica cosi profonda  che era a base del suo lavoro di interpretazione  rese quest'opera inintelligibile in un periodo di  barbarie, in cui il positivismo dominante ottundeva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di  giudizio Io fece trascurare da quegli uomini ancor tutti accesi delle passioni politiche dal cui cozzo usciva r Italia. Tipica a questo proposito è la  recensione larghissima di Rosa; essa univa a qualcuna delle solite immancabili osservazioni di dettaglio la critica di uno  che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della  nazionalità e del liberalismo astratto, pare spaventato che si possa refutare l'apologia dei Longobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; sebbene abbia una certa confusa sensazione che in  ciò consiste la grandezza di F. Per questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle  idee vecchie, per la vastità del concetto specialmente  noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se  non possiamo accettare tutte le di lui argomentazioni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno alla prova della scienza storica progrediente; egli avrà  prestato prezioso servigio agli studi italiani, avrà educato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche,  dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e scolastici. Per lui i giovani apprenderanno a contemplare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quella della civiltà, dove non giungono le ire delle passioni, dove il male parziale appare coordinato a più  vasto bene. Gli accade in piccolo e in breve come a quel  Vico ch'egli venerava col nome di maestro: troppo alto per il suo tempo non venne compreso.  Anche coloro fra i moderni che citano questa sua  opera, come per es. Romano o Gianani, paiono non comprenderne affatto la terribile  profondità il metodo l'interpretazione e somigliano un po' a fanciulli che giochino colla clava di Ercole. Solo uno straniero, che amò e studiò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella  Renaissance in Italy non meno importante del piiji  noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione  dell'importanza di questo libro. Infatti come nella prefazione del I voi. (L'era dei tiranni) ricor- Archivio storico italiano, Firenze.Le Invasioni barbariche. Milano, Vallardi. I Comuni, Milano, Vallardi. dava espressamente, nel cap. II {La storia italiana) ne ripete con parole diverse e con qualche  ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee»  però da un punto di vista un pò* meno alto e non  del tutto superiore ai pregiudizi del senso comune, e nel seguito del volume non ne tiene molto  conto.   Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne  sono diversi molto meritevoli per ricerche particolari, è riuscito a sollevarsi all'altezza del Ferrari che rimane ancora unico solitario gigante, per  darci un'interpretazione completa della storia d'Italia.   O meglio ci fu uno che tentò sebbene con forze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a una folla di positivisti che abbassavano arte e storia alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani  ben comprese e l'aveva appreso in gran parte da F. come la storia sia interpretazione, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione secondo la parola di Michelet. Non c'è bisogno  di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la  condotta poco delicata di quello verso quest'ultimo, rammentato con citazioni che nascondono più  che rivelare la derivazione, non deve indurci a  negare il valore storico all'autore della Lotta pò-Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei  tiranni (vcrs. it,). Torino, Roux e Viarciigo:  Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del  quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia  italiana scrìtto per la seconda edizione di questo volume,  Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi  litica. Esso fu il solo degno continuatore di Ferrari; continuatore in quanto non propriamente  storico del Medio Evo i libri I e II della Lotta  politica come è stato dimostrato non sono altro se non un riassunto spesso colle stesse parole  dal suo gran predecessore ma storico del Risorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto  sia runico che possa tentare la prova del paragone, Oriani soccombe; come storico per l'ineguaglianza deirinterpretazione ora indovinata ora superficiale, come artista per la non rada enfatica  esagerazione romagnola inferiore alla potente precisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una  posizione sentimentale un po' meno adatta che  non quella del Ferrari. In questo il senso del sublime storico e l'entusiasmo di fronte alla grandezza va accompagnato a una calma serena, a  una specie di fine bonario umorismo che sa trovare l'uomo magari contro il suo volere benefico anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha  della storia solo il senso tragico; brontola un po'  troppo; troppo spesso va in collera col passato;  non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei  suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia  che qualche volta egli vorrebbe correggere. Questi difetti sono più sensibili nei due primi libri  per mancanza di quella conoscenza diretta che è  necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio,  ma anche qui c'è da notare un po' di semplicismo e astrattismo, più nelle forme che nel con   ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella  Voce, Prrrari  Oimeppe F., cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco  delta rivoluzione del 48 la sua forma federale,  mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'equivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi.  Ragionando a questa maniera vedrebbe più giusto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto.  Certo qualche po' delle lodi che danno all'Òrìani  storico i crìdci moderni, il Croce e il Borgfte- se, spetta di diritto a F., di cui sono tre  fra le immagini che quello cita per dare un esempio della forza rappresentativa del suo autore  (Venezia I Condottieri Pellico). Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa  l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva,  perchè nulla c'è al mondo di definitivo, né la vita né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma  come una filosofia è viva finché non è sorpassata  e inverata, così una storia. Orbene  prima di  buttare il saggio di F, fra le anticaglie bisogna averlo sorpassato, e finora nessuno non solo non Tha superato ma non si è nemmeno sollevato al suo livello. Noi consigliamo quindi a studiarlo: primo per imparare il metodo di Inter*  pretare la storia; secondo per meditare la sua interpretazione concreta, anche oggi tanto vera che  1 moderni studi particolari la confermano invece  di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta  l'Europa il Ferrari merita un posto a parte superiore ai più famosi : a Macaulay – citato da Grice -- a Mommsen  a Taine, per la stessa ragione che rende il De La Critica^ genn. i<)og.   La vita e il libro. Torino, Bocca. Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^  per il senso filosofico che gli diresse la potenza  interpretativa a risultati così grandi. Per racchiudere in una frase il resultato di queste mie osservazioni, Ferrari è il De Sanctis della storia politica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esitiamo a considerarlo come il più gran rappresentante della storiografia romantica (1), sorpassato  nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor  degno come storico concreto di essere il gran  maestro della nostra generazione. Grice: “I use revolution occasionally – minor ones! --. Grice: “Mussolini kept saying that Ferrari was talking of ‘rivoluzione fascista’ – Garibaldi hardly used ‘rivoluzione’! Grice: “Nothing pleased Mussolini more than the collocation ‘rivoluzione fascista’ – almost as much as Washington did ‘American revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani – Vico, Romagnosi. L’uso del termine ‘rivoluzione’ nella storia italiana – la rivoluzione dell’unificazione, la rivoluzione fascista – il risorgimento dell’unita hardly qualifies as a revolution.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’anarchici di Mussolini – scuola della Spezia – scuola d’Arcola – filosofia speziana – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arcola). Filosofo arcolese. Filosofo speziano. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Arcola, La Spezia, Liguria. Grice: “I like Ferrari; he was a philosopher AND a poet – a combo we don’t find too often at Oxford!” -Ferrari (alias Novatore) Renzo Novatore. Oggi cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita.»  Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza di volontà, lo spinse però ad un personalissimo studio da autodidatta che lo portò a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire.  Non rinunciò comunque ad elaborare una visione autonoma, che costruì giorno dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attività meditativa.  Si sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono nell'ambito della produzione artistica e letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: «O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole più bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima vostra è un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò per voi. Il resto è fango!”  (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte: le indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche Ferrari.  Contrario alla guerra, venne richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in contumacia alla pena di morte. Sarà poi arrestato e scarcerato in seguito ad amnistia.  “E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e danzò... Per cinque lunghi anni. Ah, Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il perché.” (Dal poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore, è protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei più importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non tenendo conto che allora La Spezia era una delle più importanti roccaforti militari italiane, circondata da una serie di forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e di alcune delle più importanti industrie belliche. In quel periodo molti lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che era in molti anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata decisa.  L'antifascismo e la morte Coerente fino alla fine nella prima lotta al nascente fascismo, entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per sopravvivere si unì al bandito piemontese Sante Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca, che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il colpo, al processo costui avrebbe accusato il defunto Novatore.  Le forze dell'ordine, su incarico del governo Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perché avevano individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo crivellato di colpi si rivelò essere quello dell'anarchico Ricieri Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attività sovversiva e antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare. Novatore, al momento della morte, aveva con sé una pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di Giovanni Governato.  Si define anarchico individualista. Lotta per la libertà e per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul popolo:  «Le masse che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e sogghignano.»  «Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni di questo nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila "organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare.»  Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo fine a sé stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione anarco-comunista).  «L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo, non ha per fine né il Socialismo, né il Comunismo, né l'Umanità. L'individualismo ha per fine sé stesso.»  (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia come un mezzo d'individuazione.»  «Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho considerato me stesso come meta suprema.»  Rimaneva salda nel suo pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo, combatteva come un demonio.  Su di lui restò sempre fortissima l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche.  Opere scritte Le opere e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del movimento anarchico.  Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al già citato "Renzo Novatore", anche "Mario Ferrento", "Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane", "Brunetta l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi).  Da ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla creatore" e "Al di sopra dell'arco".  Libri ed opuscoli  Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore, prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni di Totò Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, “Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore, introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose, dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Wilde  Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti, citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Ricerca Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è definito come la filosofia politicaapplicata o il metodo di lotta alla base dei movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non necessario e dannoso o in alternativa come la filosofia politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane. La A cerchiata, il più celebre simbolo anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorità. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la proprietà? (Qu'est-ce que la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione positiva.  Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili. L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti più grandi. La maggior parte degli anarchici sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo) mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica. Chomsky descrive l'anarchismo, insieme al marxismo libertario, come "l'ala libertaria del socialismo". Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese come The Ego and Its Own e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti più o meno di massa dell'epoca. Quanto a Proudhon, che può essere considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte.  In realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Pëtr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario.  Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione.  Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del salariato.  A questa visione è contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di realizzare la propria volontà ma senza mai cercare di imporla agli altri (principio di non aggressione). Il comunismo, allora, può diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con un'imposizione non si avrebbe più un'anarchia.  Etimologia I termini anarchia e anarchismo derivano dal greco αναρχία, ovvero senza archè (principio regolatore). La parola anarchia per come è utilizzata dalla maggior parte degli anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente.  Origini dell'anarchismo Modifica Storicamente, il movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso può essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario.  Specificità della dottrina anarchica L'obiettivo della teoria anarchica è la nascita di una società di uomini e donne liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui, irraggiungibile.  In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere "concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libertà di tutti.  Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale – scrive Bakunin – perché so che al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana, la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".  Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile.  Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx "La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione. L'eguaglianza, senza libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia".  Al modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della società.  Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettività umana.  Organizzazione anarchicaModifica Il pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello Stato.  Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della società.  Così definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare" dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella società federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come è solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice).  Azione anarchica Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine perseguito.  Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Il Congresso di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si affermò che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione.  L'approccio dei libertari è quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ciò non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere.  I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori.  Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la "loro capacità politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una società e solo da essi può venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso sociale.  Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non può essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi:  cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione; darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto è assai importante poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una pratica conseguente.  L'azione sindacale non è tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro utili e opportune.  Dottrine di carattere libero-mercatista. Le teorie anarchiche di impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva socialista[31], convergono sulla necessità di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33], convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro.  «Cos'è la proprietà? La proprietà è un furto»  (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà". L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto non la proprietà individuale, ma quella proprietà che seppur utilizzata da altri individui è fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo.  Anarchismo di ieri e di oggi. Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936.  L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un milione di aderenti.  L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale anche negli altri Paesi.  Il mito della rivoluzione bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.  In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti.  La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo.  All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione Anarchica Iberica e la Federazione Iberica delle Gioventù Libertarie(FIJL).  Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre più le correnti anarchiche.  Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista" (in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo.  Oggi il movimento anarchico è ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca. L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libertà. L'anarchia è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il metodo di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità, variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanità Nova, Roma, 1922. Siri Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale  il 16 maggio 2007). Anarchism, su Encyclopædia Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN ) Anarchism, in The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14. «Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both possible and desirable.» ^ ( EN )  Paul Mclaughlin, Anarchism and Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, Johnston, The Dictionary of Human Geography, Cambridge, Blackwell Publishers, Slevin, Carl. "Anarchism." The Concise Oxford Dictionary of Politics. Ed. Iain McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b «L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorità, sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale». Vedi: ( EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale  il 3 aprile 2012). ^ «Anarchism, then, really stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human body from the dominion of property; liberation from the shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and inclinations.» Emma Goldman, "What it Really Stands for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come opposizione all'autorità nel seguente modo: «They found that they must turn either to the right or to the left, follow either the path of Authority or the path of Liberty. Marx went one way; Warren and Proudhon the other. Thus were born State Socialism and Anarchism...Authority, takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies divide themselves into three classes: first, those who abhor her both as a means and as an end of progress, opposing her openly, avowedly, sincerely, consistently, universally; second, those who profess to believe in her as a means of progress, but who accept her only so far as they think she will subserve their own selfish interests, denying her and her blessings to the rest of the world; third, those who distrust her as a means of progress, believing in her only as an end to be obtained by first trampling upon, violating, and outraging her. These three phases of opposition to Liberty are met in almost every sphere of thought and human activity. Good representatives of the first are seen in the Catholic Church and the Russian autocracy; of the second, in the Protestant Church and the Manchester school of politics and political economy; of the third, in the atheism of Gambetta and the socialism of the socialism off Karl Marg». Benjamin Tucker, Individual Liberty, su theanarchistlibrary.Ward, Anarchism as a Theory of Organization, su panarchy.org, 1966. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle forme di autorità statali e non statali nel seguente modo: «All anarchists deny authority; many of them fight against it» ... «Bakunin did not convert the League's central committee to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably radical recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding economic equality and implicitly attacking authority in both Church and State» ^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism: Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. Publishing, 2002, p. 106. ^ «ANARCHISM, a social philosophy that rejects authoritarian government and maintains that voluntary institutions are best suited to express man's natural social tendencies», George Woodcock, "Anarchism" in The Encyclopedia of Philosophy ^ «In a society developed on these lines, the voluntary associations which already now begin to cover all the fields of human activity would take a still greater extension so as to substitute themselves for the state in all its functions». Pëtr Alekseevič Kropotkin, "Anarchism" in Encyclopædia Britannica ^ «That is why Anarchy, when it works to destroy authority in all its aspects, when it demands the abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves to impose them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free agreement  at the same time strives to maintain and enlarge the precious kernel of social customs without which no human or animal society can exist». Pëtr Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su theanarchistlibrary.. ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g., illegitimate) authority, in other words, hierarchy  hierarchy being the institutionalisation of authority within a society». B.1 Why are anarchists against authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ. Ostergaard, Anarchism, in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p. 14. ^ Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Courier Dover Publications, Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in Western Political Quarterly, Skirda, Facing the Enemy: A History of Anarchist Organization from Proudhon to May 1968, AK Press, Lo storico catalano Xavier Diez riporta che la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta da membri di gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico CNT. Ci furono anche casi di anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez, El anarquismo individualista en España: Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition" by Geoffrey Ostergaard, su ppu. Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in The Western Political Quarterly, Chomsky, On anarchism, Woodcock, L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli Editore, 1966. Max Stirner, trad. Steven Tracy Byington, The Ego and Its Own, 1st engl ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire L'Unique et sa propriété, P.V. Stock, Éditeur, 1899, ma riedito l'anno successivo, Max Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa propriété, Éditions de La Revue Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad. Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito completo per i tipi della Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, PM Press, Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org. ^ Brown. Susan Love. 1997. The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The Free Market in Western Culture. p. 107. Berg Publishers. Voci correlate: Anarchia Economia anarchica Anarcopunk Anarco-capitalismo Anarco-comunismo Anarco-individualismo Anarco-femminismo Anarco-pacifismo Anarco-sindacalismo Anarco-socialismo Bakunin Mutualismo (economia) Pananarchismo Possibilismo libertario FaSinPat (Fabbrica senza padroni) Christiania Stati per forma di governo Radio Libertaire Radio Blackout Radio Canut Radio Zinzine Radio Klara Radio Primitive Radicali Anarchici Umanità Nova A/Rivista Anarchica contiene il testo completo di alcuni canti sull'anarchismo Wikizionario contiene il lemma di dizionario «anarchismo» anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, anarchismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Anarchismo, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Anarchismo, su Enciclopedia Britannica. Opere riguardanti Anarchismo, su Open Library, Internet Archive. Portale Anarchia   Portale Filosofia Portale Politica. Socialismo libertario Anarchismo sociale forma di socialismo anti-statalista e libertaria, che vede la libertà individuale interconnessa all'aiuto reciproco e la cooperazione  Scuole di pensiero anarchico correnti di pensiero riguardo l'anarchismo. BIBLIOTECA Luparini ANARCHICI  DI MUSSOLINI rali vere  SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta” Pisetemenzar via Garibaldi   A | assonimion i Ami 13] CRITNTEINTA]  Ù o f= Niue] | Senesi Aia    MILANO - Dc t9rs. | "iSToNIO su oi  RIA | ore 2 Spina ‘sovdrela jattonza, spogli. d'agnt  fiomposità retorien, agli anici ed agli nvvornarl not ci presentiamo.  ‘iper ur Drrepprinsibile dinoziio det  ‘ilmo nostro di affermare ut; colla  Nancics nel campo amrehve vi 20 rie site 1 commi. dl pectore i  dia in questa vigilia d'armi, quello che y pi sai Mi iaia alli  domantpquando vibrabte squillerà Ia diana +  «ho gl chiamerà al elmonto, riaffermeremo ‘ Quatt nurca La  cdl. fuetlo nelle, trincee o sulle barricate, 50° = Medea re pico © per  no vogljamo formulare da queste colorin nt gle 1 Ì  ti romina. ché ancora non perufptione  iocolieri della politica i    probleini Nindaedi e) hibertari. ni per l'unità d'Itata € oggi  dia  sarei Mali netta rivolta    "È dicaro ciod'ad alta voce il nostro diritto  << ian cittadinanza. nel ‘campo amerehico  ici iocna ol Gemona € li ls oovre  por ‘sui deliicammo, benché anbor giovani, “per } popoli di Francis, suscità nei eni  di nni le nostre migliori energie ed Hl | ili. commenti ferogi e cati c =  ‘batta: vriilrà È cho4 teotoght dell'a; 1 dì ©mimi del wiorno (scoprirono ì  ni ‘nome di non sappiamo pipì € ita] core, È pattini  ddantonto ef vogliono negs-'! si: manifistsra in talta dr se devanazione; len. 3 dite bed |  ed incitare. all'azione: ta ‘entitoto le oc DALLA SINISTRA AL FASCISMO  TRA RIVOLUZIONE E REVISIONISMO M.IL.R. EDIZIONI. Fenomeno spesso rimosso, quando non del tutto  ignorato, in sede d'indagine storiografica,  l'interventismo di matrice anarchica costituì un filone,  minoritario ma non trascurabile, del variegato  movimento interventista rivoluzionario ed ha una  significativa appendice nel dopoguerra, allorché  numerosi anarchici interventisti confluirono nei Fasci  di combattimento fondati da MUSSOLINI. Tra  questi, Gioda, Malusardi e Rocca rivestirono un ruolo di primo piano nel fascismo  delle origini. Pur nella sostanziale diversità delle  esperienze e degli approdi politici (dal sindacalismo  integrale e di sinistra del repubblicano Malusardi al  revisionismo conservatore e filo-liberale di Rocca), la  loro azione all'interno del fascismo è caratterizzata da  uno spirito affine, almeno in parte riconducibile alla comune formazione anarcoindividualista: una residua  eredità “libertaria” inevitabilmente destinata ad  esaurirsi con il consolidarsi al Pptes della   “rivoluzione” fascista.   Questo libro ne ripercorre la. "comlilisa Niiindi  politica, dall'anarchismo al fascismo, ‘attraverso i  decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra,  sullo sfondo di uno dei periodi più intensi‘ e più  drammatici della storia d'Italia. Mita. Luparini è nato a Firenze. Si è laurea in  Scienze Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri” dell'Università di Firenze e consegue il dottorato di  Ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Politica  dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su tività O  didattica e di ricerca. di Lineta. M.I.R. EDIZIONI. Via Montelupo, Montespertoli (Fi) Italy Finito di stampare dalla Litotipografia SAMBO s.n.c. e Luparini ANARCHICI DI MUSSOLINI Dalla sinistra al fascismo, tra  rivoluzione e revisionismo  M.I.R. EDIZIONI. Quanto a quello che succederà domani, caro Berneri,  non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per il  passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi  sinora, che si possono muovere rimproveri in anticipo  o intentare processi alle intenzioni. Plechanov, teorico  bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico, si  pronunciarono in Russia per la guerra;  altrettanto fecero il socialista MUSSOLINI e gli anarchici  e sindacalisti Rocca e Corridoni in Italia, E” consigliabile dunque che nelle discussioni relative al  domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso  coefficiente di male e di bene, di deviazioni possibili e  di fedeltà irriducibili. Gli uomini passano, le idee e  anche i movimenti restano (Rosselli,  Discussione sul federalismo e l’autonomia, Giustizia  e Libertà»). Così, in una garbata polemica a distanza con l’anarchico Berneri  (che aveva avanzato dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e  Libertà), Rosselli poneva l’accento su un principio spesso ignorato:  l’inopportunità in politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende  umane in generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche  sul futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno  consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo di  matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio di  variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro storico  del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per l’appunto,  una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità incomprensibile,  prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento collocabili nella famiglia    anarchica, ma un evento - sia pur anomalo e, al cospetto dell’ortodossia  libertaria, scabroso - riconducibile all’anarchismo e, come tale, appartenente  di diritto alla sua storia. Allo stesso modo, per restare in ambito interventista,  la “conversione” di MUSSOLINI, tenuto conto  dell’anima volontaristica e sostanzialmente antidogmatica, non solo del  socialismo mussoliniano, ma anche di larga parte del socialismo italiano tout  court, non costituì poi una così grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso,  una certa sua coerenza.   Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”, l’anarcointerventismo è  stato a lungo trascurato, quando non del tutto rimosso, in sede d’indagine  storica, e solo in anni recenti un ottimo studio di Antonioli ha  restituito visibilità e, per così dire, dignità storiografica, ad un fenomeno che,  se non fu certo tale da smuovere grandi masse (ma tutto l’interventismo  rivoluzionario fu, a conti fatti, espressione di una minoranza), ebbe tuttavia,  oltre che una sua specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla  vicenda interna dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò,  quello di ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente anarcointerventista  (sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto schieramento  dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo momento, provare  a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in relazione all’avvento e  all’ascesa del fascismo. Molti anarchici interventisti, infatti, confluirono nei  Fasci di combattimento fondati da MUSSOLINI (altro motivo per cui  l’anarcointerventismo è stato il più delle volte espunto dai trattati di storia  dell’anarchismo), e alcuni di loro, come Rocca, Malusardi  e Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che marginale. Questi tre nomi,  pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo) negli studi sul fascismo iniziale,  restano tuttavia, a. nostro avviso, ancora avvolti in una coltre  d’indeterminatezza. In queste pagine si cercherà pertanto di ripercorrere la  complessa vicenda postbellica di Rocca, Gioda e Malusardi   dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia del delitto Matteotti -, senza mai  perdere di vista i loro trascorsi anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un  altrettanto forte senso d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse  almeno in parte alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per  condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione al  fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso che il  caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo, Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non potesse  a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo volume. In altri  termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun peso reale nel  movimento) acquisì una compiuta coscienza politica  sia pur in qualche    maniera caratterizzata in senso anarcoindividualista - con il fascismo e  grazie al fascismo; Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo al  culmine di un’effettiva e sentita militanza libertaria (anche se, nel caso di  Rocca, vissuta in modo decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi  portarono una precisa connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe  potuto essere diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali  esperienze dell’interventismo e della trincea. .   In definitiva, quindi, un’opera su più livelli, che  così almeno speriamo dovrebbe consentire di far luce su una componente poco conosciuta  dell’interventismo rivoluzionario prima, del fascismo poi, sullo sfondo di  uno dei periodi più intensi e più drammatici della storia d’Italia. INTERVENTISMO Eretici tra gli eretici: gli anarchici interventisti fra apostasia e presa di  coscienza Pe  Lo scoppio della guerra europea sorprese il movimento anarchico italiano in  un momento di grande sforzo organizzativo. Il tentativo, avviato già  all'indomani dell’impresa libica, di collegare i diversi gruppi anarchici della  penisola intorno ad un programma comune, allo scopo di frenare le spinte  centrifughe interne al movimento e di non perdere i contatti con le masse  (proprio mentre lo spostamento a sinistra del Partito Socialista e la nascita  dell’Unione Sindacale Italiana rischiavano di ridurre ulteriormente lo spazio  di manovra degli anarchici), fu vanificato dal precipitare della situazione  internazionale. Il progettato congresso nazionale anarchico di Firenze, che  doveva sancire questo nuovo orientamento, non ebbe mai luogo, e il  successivo convegno di Pisa, riunitosi poco tempo dopo l’entrata in guerra  dell’Italia, avrebbe lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per far argine  all’incalzare degli eventi bellici". Sul piano esterno, sul piano, cioè, dei  rapporti con gli altri partiti dell’estrema sinistra, che dopo la settimana rossa  avevano lasciato intravedere la possibilità di un’intesa d’azione con le forze  più autenticamente rivoluzionarie (soprattutto repubblicani e sindacalisti), la  guerra rappresentò, anche per gli anarchici, la caduta delle illusioni.   Ancora il primo agosto, in un articolo pubblicato da L’Iniziativa», organo  nazionale del PRI, il giovane anarchico Mario Gioda aveva sostenuto la  necessità del “blocco rosso”, ovvero l’unione di tutti i partiti sovversivi”.  Nato a Torino il 7 luglio 1883, operaio tipografo’, Gioda era un autodidatta Su questi punti v. soprattutto ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano, in Storia e Politica», Sulle vicende dell’anarchismo italiano  nei mesi precedenti alla settimana rossa v. GINO CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla  settimana rossa. Per una storia dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, GIODA, La necessità della repubblica. Io difendo il blocco rosso, L’Iniziativa»,  Cfr. ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi  ACS, CPC], Busta [Gioda]. con la passione per le belle lettere e le scienze filosofiche (un pensatore...  proletario», come sarebbe stato efficacemente definito molti anni dopo) ‘,  poco incline, in verità, all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima  della guerra aveva scritto per numerose riviste, non solo di orientamento  libertario, cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla critica  letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità. Di  temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena  polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non riconducibile ad  alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente aperto  anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo strettamente  politico, una spiccata e mai celata propensione al repubblicanesimo. In ogni  caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa ammissione - un “quasi-repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione dovesse prima di  tutto avvenire sul terreno istituzionale»”, è altrettanto vero che, specie dopo 4 Così scriveva Ferrara, introducendo la prefazione di Gioda  allora  segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di Enrico Portino Quattro anni di  passione (Torino, Valentino), un'antologia di scritti e di vignette dai giornali satirici fascisti  Il Pettine» e Il Sonaglio».  * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei suoi versi sentimentali una sensibilità  quasi crepuscolare. Ancora in età matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava  l’ambizione di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune sue  rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da Croce, a cura  del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino, Stabilimento grafico Impronta. Gioda era in rapporti d’amicizia con importanti esponenti del repubblicanesimo italiano, fra  i quali il vecchio garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere di  Bezzi a Gioda si trovano in BEZZI, /rredentismo e interventismo nelle lettere agli  amici, Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la libertà, 1963.  Per comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di Gioda se ne vedano gli articoli  Del XXIX luglio e per un cencio di repubblica, e Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista  repubblicana torinese La Ragione della domenica». Nel primo  di essi, scritto subito dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il conformismo  monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a commuoversi per la sorte del re, e  aveva affermato l'imperativo morale, per i rivoluzionari d’ogni scuola o tendenza», di essere  settariamente repubblicani». Nel secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della propria  fede repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico, ma di ritenere la  repubblica  la repubblica sociale  un passaggio necessario sulla via della rivoluzione, il solo  mezzo per giungere a trasformazioni più radicali e definitive, senza il pericolo di sfasciare la  rivoluzione in braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia sociale». Le opinioni  espresse dall’anarchico torinese su La Ragione della domenica» avevano incontrato la  disapprovazione di molti suoi compagni. Ancora a distanza di tempo, il ferrarese Poledrelli aveva definito tisico e spurio» l’anarchismo di Gioda, e bollato come una  balordaggine politica» l’idea di un fronte unico anarchico/repubblicano (POLEDRELLI,  In ritardo? Anarchici e repubblicani, L’Agitatore», 18 febbraio 1912). Qualche anno dopo    Poledrelli avrebbe partecipato alla campagna interventista a fianco proprio dei repubblicani e  dello “scomunicato” Mario Gioda.  la settimana rossa, molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA  con favore crescente all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i .  apprezzavano e condividevano  l’intransigentismo Lila emi  diffusione dell’appello della DE pel 3  repubblicana per la mobilitazione contro gli Imperi i ppi far  quale riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de Lira sog  riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg n  fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero segu sa  conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa + i  decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di larg;    _/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi dell’intervento (tanto    Te i ; ; li È  che Felice faceva risalire proprio al discorso di De Ambris la d’inizio dell’interventismo rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà  non meno traumatici, fino alla clamorosa “conversione” di Benito Mussolini.       isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto e  * Il manifesto, redatto da Arcangelo Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb  ripreso nei giorni seguenti da tutta la stampa repubblicana. irc: a on si a  anarchici a questo riguardo si veda l’articolo di ri vie [af Aaa %  i Volontà», 29 agosto, nel q r i  repubblicano e la guerra ( 3 Z reti cc A  icani di i lla causa della rivoluzione, per egli  repubblicani di aver abdicato al : izione rp  iti bbri replicò il repubblic: i  sperava definitivamente tramontate. A Fal i ibblicano © Me  Larini del PRI anconetano, a sua volta accusando gli anarchici di siente si Lac i  politica (cfr. Anarchici e socialisti, Il tig 6 Sene ati ; sai pei pipi  inelli i i più ivi trema sinistr:, que  @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £  peri ohba Halo ad Ancona, città simbolo della settimana LA san  5 ) .i giorni gli ambienti sovversivi. a  del clima di forte tensione agitante in quei gi i : cine par  iù n quanto inattesa, ripropi a  ‘odotta dalla guerra, tanto più dolorosa i I |‘ i  divisioni del srt che la comune battaglia sa coord pa via utili panta  ui is, segretario della Camera  agosto Alceste De Ambris, segi della (T n  an Sirigenti del sindacalismo rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe  ema “I sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi fn  della erra rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl e sn AA  dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA A  i Cat io alla tesi interventista di De E :  Carrara, nettamente contrario al i A  Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su merita re  i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti,  ”USI, in luogo di Tullio Masotti. De b i a ne)  Em " Coni, Rossi, Bianchi, Rossoni) pe prio Di  pia de L’Internazionale», organo dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n  opera della frazione interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn di  i i ioni si li repubblicane., rimas  seguito anche le organizzazioni sindacali ì : i  ufficiale prese a pubblicare La Guerra di com a sta o se Di > rd  ? i is è ri to in  i; k  conferenza di De Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | .  n sn commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So  dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista, L’Inizia ;    agosto 1914. Li H x)  rs sian Belgio € n Francia ad opera dei tedeschi determinò la  1 posizione a favore dell’Intes i i  Sr a da parte di alcuni degli ini  più rappresentativi dell’anarchi “qualiv iS  chismo, non ‘solo fi i i Pi  Db? 9 10, rancese, tra i quali Piotr  Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi il  rio “colonnello” della Com ichi o)  e 1 une. Le loro dich ioni  Poni a Cc € ichiarazioni, che  a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari europei verso  di E ella Grande Révolution e che, a distanza di un anno e mezzo,  ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto “Manifesto dei  » suscitarono polemiche e divisioni i  dici” ni anche tra gli anarchici italiani  primo intervento eterodosso di ico i dia  i 1 segno anarchico in materia di i  neutralità fu opera proprio di io Gi Reit i  io di Mario Gioda. Ad ui i i  ì fu o c i na settimana dal  on \ suo articolo  BIO Gioda, scrivendo per Volontà» (il principale periodico  go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e devastante  He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione austriaca, anche gli anarchici impu i i i  } >, pugnassero le armi per difendere il  È ici i il suolo  azionale ‘. La Folla», la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo    Sì »8  assiduo collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di precisare    In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di molti  è  ello e troppo forse si è sognato. La guerra è il ri Wi  Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i  ILL pposizione socialista e democratica ne’paesi  I social esi dell  FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia       S  : Ag its do FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana. HI, in®  Rec ana ngi ni Vac i due volumi di FELICE Mussolini il  nario,, Einaudi,, p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i  rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si, per il valore della testimonianza, ARM o di  (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v [BORGHI, Mezzo secolo di anarchia  dat Psa reo) be fog la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di  sti (cfr. Gli anarchici intelligenti son  “dichiarazione” storica, L’Internazion: linate  j ale», 25 marzo 1915), fu i  da parte del movimento anarchico itali i i GATE ROMEA  taliano (si veda, in particol: ’arti i  nba } _In particolare, l’articolo di ERRICO  ; governo, Le Réveil communiste- i i  N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915  si n arts rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14.  9 re di Valera, aveva contribuito alla ri; ita di e  1912, e vi scriveva regolarmente, iù so imi ai  12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i I  torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat  rese). mentali, per pporto tra l’anziano scrittore e agitato! iali  Porlinia gli articoli di quest’ultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai  Fa = inni i ll o 1911. Su questo punto v. altresì Miano  i LI, rchici italiani e la prima guerra mondial 1 ici  interventisti (1914-1915), in Rivista Storica dell’ Anarchismo», 1995, TCA ig    14    di difendere domani la nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrità  di essa, nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...],  reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralità"    Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di    posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza fra  l’autore, il direttore dell’ Avanti!» Benito Mussolini e Nella Giacomelli,  una delle voci più autorevoli di Volontà»! In essa s’inserì ben presto  anche l’anarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e amico di Gioda,  recandovi nuove e più profonde inquietudini".   In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese del    compagno. GIODA, Mentre trionfa la guerra, La Folla», 9 agosto 1914   U Sul numero di Volontà» dell’8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin  (pseudonimo di Nella Giacomelli), intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a  .. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che  lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto, aveva  paragonato il dubbioso direttore dell’Avanti!» a Gustave Hervé, l’araldo  dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nell’esercito francese subito dopo la  dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera  nella quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava l’incoerenza di  Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non  aveva esitato a pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in  un secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini: da  Mario Gioda a Oberdan Gigli, Volontà»), molto critico nei riguardi di  Gioda e degli altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò una lettera  dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di patriottismo, affermava però il dovere degli  anarchici, proprio in quanto tali, di difendere la causa della libertà - rappresentata dalla  Francia e dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi  avvenimenti v.ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.  Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Giacomelli Rivista  Storica dell’ Anarchismo». Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era nato a Gallarate nel 1883, ma si era  formato a Genova, dove la famiglia Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere  mite e la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo dell’intellettuale che  dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti  anarchici del capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo. La prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: Individualista,  professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca influenza sui  correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell  instancabile nella propaganda delle teorie da lui con calore professate, esplicando tale  propaganda con buon profitto, specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta   [Gigli]. 15  I problemi dello spirito  affermava  sono tramontati per ora:  forza e della razza e della nazionalità ritornano a predominare coi  ferocia. I valori sociali hanno subito un'inversione. L’internazion  spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi'°    i problemi della  n raccapricciante  alismo operaio è Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro comune  anima umana», non escludendo l’opportunità di combattere gli invasori  austriaci (quantunque, come suggeriva, in libere schiere non governative»),  il giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!” i  Ai primi di settembre Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li Il  concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il crohn  della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero ancora ai rt   le questioni della libertà e dell’indipendenza nazionali. son    L’anarchismo  sosteneva l’autore  non rinnega, ma supera il concetto di patria:  rinnega però il patriottismo, che è concezione perfettamente borghese e sibi la  rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali. Ma l’anarchismo curdo  me, è una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi: perciò esso Fon  presupporre una società borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia  ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi  essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter liberamente clara    verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle nazionali la risolvere  libert: fr: I bi è Ilo dell  pi Il lità, da risol    A Tar n 1   Un eventuale Vittoriosa invasione delle armi austro-tedesche non solo   cn lasciato drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto  . TEC . . Z   il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì determinato un  Volontà»,  un Pot in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell’8 agosto, era inserita insieme  que ‘a di Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!!  dr parole di Gigli la redazione di Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi  esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece seguire una  de i aperto disappunto. A noi pare vi si leggeva  che la situazione di quelli che, come  io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento patriottico sia la medesima di quegli  E rici che, tempo addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei  cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso    esula dal compito specifico degli anarchici divi ‘on questo incoerente se si arriv:  i anarchici, e può ‘entare c  P qi Incoe; si ‘a    regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema feudale e militaristico»  sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che ciò avvenisse  aveva di per sé un valore rivoluzionario; significava combattere per la causa  anarchica e, allo stesso tempo, salvare l’anarchismo dall’isolamento,  riportarlo a contatto con le masse, ravvivato alla fiamma dell’umanità  dolorante»!?. La condanna fatta seguire dalla redazione di Volontà» alle parole di Gigli  hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava il  giornale di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Gioda ed Oberdan  Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo italiano”,  segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento libertario.  Rygier, intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in assoluto, una  delle personalità più stimate del campo rivoluzionario”, aveva firmato un  sorprendente ‘articolo per Il Libertario» di La Spezia”, nel quale,  richiamandosi alle tradizioni garibaldine del Risorgimento», aveva plaudito  alla fine della Triplice Alleanza, il patto infame» già vincolante l’Italia agli  Imperi Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, i  carnefici di Oberdan»?  Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era  stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi  legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese (con  cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente), legami comunemente  ritenuti la ragione principale della sua invero repentina conversione    |a stessa Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li aveva definiti i nostri migliori  uomini»; mentre Errico Malatesta, nella suà prima affermazione ufficiale contro la guerra  (l’articolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre  della rivista londinese Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari italiani), si  rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero dei compagni che amiamo: €  rispettiamo profondamente». Rygier, nata a Firenze, aveva militato nelle fila del sindacalismo  rivoluzionario. Nel 1907, con Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista  Rompete le file!». La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la  campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era valsa il  carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli ambienti sovversivi.  Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, //  movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Vol. IV, Roma, Editori    Riuniti, ad nomen. Per una breve storia de Il Libertario» v. BIANCO, COSTANTINI, Per la storia    dell'anarchismo. Il Libertario» dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in  Movimento Operaio e Socialista in Liguria», RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, Il Libertario»,    all’interventismo. Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa e il suo  ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dell’intervento  ha scritto a  questo proposito uno storico dell’anarchismo  Maria Rygier trova la sua  strada proprio con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente  di Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà  assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’ Avanti!”»?,  A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno  dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta della  Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto né più né meno  di tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato»”?. In quest’ottica, anche in  considerazione del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel  fascismo, non è difficile capire il perché, a posteriori, si sia finito  semplicemente per negare loro il diritto di cittadinanza nella storia  dell’anarchismo italiano. Senza dubbio, al di là delle durissime e CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL,  1968, p. 34. È   Quello dei finanziamenti, più o meno occulti, della massoneria al movimento interventista, fu  uno dei motivi dominanti della polemica che precedette l’entrata in guerra dell’Italia (e basti  pensare alla nota questione dei fondi de Il Popolo d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier, quel  che è certo è che ella era da tempo in stretto contatto con gli ambienti dell’emigrazione  italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di Marsiglia, città dove la  questione dei rapporti tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era  sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico Raffaele Nerucci,  si costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano, accusato dagli avversari,  fin dal suo apparire, di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista  dell’Avarti!», commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un numero  unico a sostegno dell’intervento (La nostra guerra», 21 marzo 1915), rimproverò a Nerucci e  agli altri interventisti rivoluzionari marsigliesi d’essersi serviti del denaro dei massoni, nonché  del sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia, Avanti!). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa). A  Marsiglia, dov’era emigrato nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a  lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che l’ambasciata italiana  aveva definito audace e pronto», ma anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto, che  egli fosse in qualche modo legato alla malavita locale). Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de La Protesta Umana», de Il Libertario» e  de L'Avvenire Anarchico». Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento  marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 per indegnità morale e politica». Condusse il  resto della sua vita sotto l’attenta sorveglianza delle autorità fasciste. ACS, CPC, Busta 3526  [Nerucci Raffaello]. MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in  Rivista Storica del Socialismo», comprensibili polemiche del momento”, che hanno spesso sisi  anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni successive, la scelta i campo c  Maria Rygier, per quello che il suo nome evocava nell immaginario  simbolico dell’estrema sinistra italiana, rappresentò un trauma n pe  riassorbito, cui può essere paragonato (ma solo in minima parte) quello a  fece seguito alla professione di fede interventista di un altro protagonis  delle battaglie antimilitariste d’inizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn  Circa le ragioni ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il  mutato atteggiamento della Rygier  che prima di aderire all anaro ismo e  stata sindacalista rivoluzionaria, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga  46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti  rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come  emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr  precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,  appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan  veste della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n  lei medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni  repubblicano, fino 2a n la confluenza di tutte le  [ *interventismo rivoluzionario ne È  i manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li  lettera di adesione alle tesi di Ambris, che ella pn 20  agosto, all’indomani della discussa conferenza milanese del dirige  i i i i i in Volontà» del 19  2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini  settembre 1914: Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo  dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per morbosità di   i i; inti i spirito». NOILIA .  sentimenti; per intima debolezza di spiri G i RG  27 Il caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su vela di pria   i i impatie anarchiche, eri  San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma  i imilitari È inistra (battaglia che egli stesso avi   battaglia antimilitarista dell’estrema sinis ‘negre   i ie di l carcere, regolarmente pubblicat   limentare con una lunga serie di lettere dal ere, ) d  ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa DRSAATE  campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no A vs ci de   i del sovversivismo; il che pu  era stato accolto come un vero e proprio eroe de ) E  i i vecchi compagni allorchè egli, al Ì »  della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E  i i ì tari garibaldini (a ti  dove finì per arruolarsi fra i voloni I  prese la via della Francia, i i $ I IN Arti  i *arti i l'i L’Avvenire Anarchico», 8 g 6   lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato,  i  Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. III, ad  Oltre i Iniziati i ì ropria penna a  28 Oltre che all’organo nazionale del PRI, L Iniziativa», la Rygier 9 la pi sa pci  molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente La Libertà» (Ravenna),    Repubblicano» (Roma) e Il Lucifero» (Ancona).  sindacalista Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto  yg spirat le ‘anife degli  anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3  gli di  ‘anifesto ne quale egli VI ‘orma di programma, le  manif riprende a, ordinandole in fi d prog!  8 Si 5) =  1 gia espresse nelle su ue lettere a Vo lontà» ppello, steso 1  tesi già espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120  sette re e diffuso alla fine de (ese, critto da alcuni noti e meno  ne del mese, era sottosi  ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1  noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac. I  1 ns d  t tal ; sinda alisti, socialisti  dissidenti e repubblicani, e non fu un caso ch Ve pressi In  e vedesse la luce essoché  contemporanea a un manifesto Intransigentemente neutralista diramato dalla  e: s Quasi ad anticipare la nascita (; C lavi  Direzione del PSI d I anche in chiave anti  nu ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’.  el testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia libertaria,  SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti apertamente democratici  e mazziniani (noi riteniamo che | Internazionalismo sarà possibile solo  q o nazioni saranno libere, P' iché là dove odio divide l’Irredento  uando le na: i, po là di l’odio divid I ‘eden  dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può trovare  ppi p! P' liti n ti  SO uzione»), romantiche visioni camicie rosse (la ri Li I, è per  mi isioni di camici (l  I neutralità. 088 P'  utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni  lett ‘gO. ional p legazione  tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la recisa neg  dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e sacrificio, che ci ha spinto  sui campi della Francia, della Grecia, del Messico, della Serbia») e roboanti  ! p  proclam di stampo roto-mussoliniano (I Inerzia è vigliaccheria e la    neutralità, che ancora disconosce la volontà po olare, è trad mento. E? l’ora  ) pop:, ti 1 I 29 ì n E, n  kia pon fn L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi Ed.Naz.], 12  4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R soglia  t i i YG ia di  Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica, 1915. pp. 19-24 drain  questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli più di  cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr. ACS,  pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25  e firme apposte al manifesto erano i: e igli i  1 ap al m quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i  pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani, ta elit  Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei, Len  } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini  eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle  63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici  caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i  sui intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA  appello della Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato    dall’Avanti!» del 22 settembre 1914 i  rivolazionario, ite pp, 250251, colato FELICE, Miasolini:1   L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la  “loro” Francia, la Francia della libertà e della rivoluzione»**. Gigli, in  verità, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane  Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il  momento per un’esplicita dichiarazione in senso nazionale”.   In calce al manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di  Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Gioda,  di Gigli, di Rygier  e di altri che ne sarebbero seguiti   destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse  per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica  cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione  alla guerra di Libia. Un giudizio di Berneri del 1924 (mentre  volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in  poche parole il comune sentire degli anarchici italiani e si può dire riassuma  buona parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio.  Massimo Rocca  scriveva Berneri  non è mai stato anarchico. Fu  individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere, è  però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico dell’anarchismo  V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v. RYGIER, Sulle soglie di  un'epoca, cit., pp. 27-29.   Il manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a stralci su Il Resto del  Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della  guerra), su Il Corriere della Sera» del 23 e su L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento  del quotidiano liberale bolognese: Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani si levano in  piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libertà, per dar  mano alla Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio  della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella dell’individuo e  della nazione: la nostra!»   Per le ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi  guerrafondai, Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di Gigli a  Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei  falliti, Volontà», 3 ottobre 1914. Sull’intera vicenda v. altresì FEDELI. Note su! 19141915. Gli anarchici e la guerra, in Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628.   35 Cfr. RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26   36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, La Rivoluzione Liberale», 18 marzo  1924.   Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una valutazione di carattere  personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di pensiero. A proposito della campagna  interventista intrapresa da Rocca, Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva un anarchico  che... non è mai stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei padri dell’anarchismo italiano, in  suo intervento su L’ Avvenire Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto  a dirsi anarchico, almeno nel senso scientifico della parola». Su Massimo Rocca si veda  anche la voce corrispondente in ANDREUCCI, DETTI, gra n. che si formarono uomini come Massimo Rocca e che questi  Icolare si pone come una delle fi iù  i x i igure più controverse e a tutt’oggi  cin definite della storia politica italiana del Novecento. seal  so n° ‘è fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste condizioni, operaio tipografo come il compagno Mario Gi i  i ; io Gioda, Rocca  accostato all’anarchismo agli inizi del ‘ ù ole  ‘ lel ‘900, nel momento in cui, insi  prime suggestioni nietzschiane e all’inqui IRR  € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si  TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt  mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil  ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de  n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a  iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per un’intensa  nferenziere, collaborando nel frattem i gi i  ttività d ere, collal po a numerosi giornali  o anarcoindividualista, fra i quali Il Grido della Folla» di  ip ; Pi 1906 al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato vita  PR lata rino del Novatore», rivista improntata a un marcato  alismo intellettualistico; esperienza che gli  d | istici e gli era valsa lunghe ed acri  polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’, Agli eccessi è Pics E ;  a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le sue proprietà, apparve nel  P i Torino, a cura del tipografo modenese Ettore Z. i, già i  gruppi anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua FR  pera di Max Stirner, una i i i  del Geni met 1a d ner, prima introduzione al pensiero  Ì $ ; pali divulgatori delle teorie individualiste i i  libertario italiano furono - con i i an  eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda  Sulle fortune ‘e le diverse correnti dell’indivi i  ell’individualismo anarchico nel nostri  DA A ’ pu  Pena piace alla settimana rossa. Per una storia dell Di.  Italia (1881-, Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i ici  vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg   rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico italia i  Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i  HR ino acri ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad  i ovanni Gavilli, cessò le pubblicazioni cinque anni più tardi i i  7 Vai toi PIER. . ardi. T  CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi frico  » (Firenze, 5), La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire  1907-1908), Sciarpa Nera» (Milano, 1910 veli Gil INIT A  |, -) e La Rivolta» (Milano, 1910  ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si i  9 i loro più assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi  i loda.  V a ale a i. nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore  oca, 1 protagonisti dell’anarcointerventismo. Nel do) ì  convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virtù ' fottla chi paria  ; i ; rtù della stretta amici  Rossoni, fu radiato dall’elen i ivi Mir gira  gs co dei sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi  40 : . 13  Ra SS anni (poi semplicemente Novatore») uscì in tre serie successive: la  Lr n Pose A psi ottobre 1906; la seconda  dopo che Rocca e Consalvi  ‘alia per gli Stati Uniti  a New York, dal 15 ottobri i  i a i 7 i } e 1910 al 4  de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al   Nel 1907 il giornale anarchico romano La Gioventù Libertaria» accusò MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR    polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte il  carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della sua  formazione di autodidatta.  Lo scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo Labriola e  degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si  sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'.  Con la sua propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo  Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate del  1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva tentato  di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche speranza, di  poter prender parte al progettato - e presto abortito - congresso di Firenze®.  Con ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di  autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva  continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi anarchico.       Rocca e Consalvi d’essersi appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la  rivista. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, ad indicem.  dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista rivoluzionaria. In  pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice Partenopea.   Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il  1911 suoi scritti erano comparsi su Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero  Olivetti e su La Lupa», la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro fra  sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La  tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che Rocca  ne aveva seguito con grande interesse l’avventura politica, come anche testimoniato  dall’articolo. // neo nazionalismo, scritto per il Novatore» di New York nel dicembre del  1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che decretò la trasformazione del  movimento in Associazione. E’ notevole  aveva scritto Rocca in quell’occasione  che  nell'Italia democratica del presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini  abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il nazionalismo in    Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col    quale bisognerà confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di sincerità  lia, e che non manca d’un lato    che avvolge gli ultimi residui virili deila borghesia d’Ital  onorevole e grandioso».   #? Gioda (un intervento del quale   figurava nel programma congressuale) av    “Gli anarchici di fronte agli altri partiti sovversivi”   eva accompagnato una nota di raccomandazione alla  lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso fiorentino. In quella lettera -  che Volontà» rifiutò di pubblicare  Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire  di spiegazione fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva chiesto d’esservi ammesso  come relatore sul tema “Guerra e militarismo”, al riguardo assicurando che la sua tesi era  meno eterodossa» di quanto potesse sembrare € di essere in grado di spiegarsi  fraternamente su Tripoli». Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti Nelli 7 f 4 7  ell’introduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come La programmatico del suo modo di interpretare l’anarchismo, aveva  ritto: i    Dal momento ch’io persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi  dell’altrui divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che l’anarchismo  quale energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le  affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed îm Bi  funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo  ve ne sia molto oggidì  fuori degli anarchici ufficiali  nelle minoranze ch  formano la parte più viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i    A ; questa visione concettuale, estetizzante e fortemente  elitaria  dell anarchismo, inteso più come uno stato d’animo che come un corpo certo  di dottrine e di programmi, Rocca restò in definitiva sempre fedele, pur nel  mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli    richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le posizioni  assunte all’inti del ito!  interno del partito". E È n 5 È  RSA ott ; “regni; contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il  Punto focale della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità formale  dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e l’energia liberatoria dell’anarchism  Se l’anarchia rappresentava il mito elevato a dogma, una concezione trascendente [ n  superiore e padrona anche di chi vi crede»; l’anarchismo era invece più propriamente 104  disposizione dello spirito l’eterna sete di progresso, di libertà, di novità», incarnantesi nell:  rivolta, nel senso più puro ed etico del termine», al punto che tutte le rivolte passate è  future, tutti gl’ideali nel loro senso dinamico» potevano considerarsi sue mai istazioni AI  libro di Rocca era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti  ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che  Gol da È ci Sia ammirazione per l’autore, definendolo uno degli scrittori politici più  Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli  revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: Tu, Gioda, sei tra i pochi che mi furono  compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che  volevano esser tali per disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della  nazione, ma che affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse sovversive di  allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro L'anarchismo contro l'anarchia  [..] ein quelle cinquecento pagine, ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è  oggi il fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del sentimento  nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta indispensabile al progres  umano; l'immortalità dellò stato e del diritto, pur attraverso le sue trasbordo fol  organo necessario a consolidare e conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess  concretandone la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le Pisi  veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini dissolventi; il diritto alla libertà Non mancherà di stupire chi conosce qual sia la concezione politica per la  quale io milito  scriveva Rocca all’esordio della sua campagna interventista  - sebbene sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni e che da tre anni  sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale catastrofe». Fulero della  nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita  fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri interventi”, della natura  sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e l’espansionismo   desco in difesa dei popoli latini, dal momento che Ia latinità aveva sempre  rappresentato la libertà, il progresso e la rivoluzione»*”. Alla maggioranza  degli anarchici rimproverava perciò di. aver tradito l’eredità e il messaggio  ideale del vero anarchismo, quello che combatteva Mazzini per  completarlo, più che per negarlo»'*, e di essersi messi al giogo  dell’opportunismo ministerialista e del complice “teutonismo” dei socialisti  ufficiali”. interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimità della  coazione su chi non si eleva a tanto» ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce,  TANCREDI, // dovere della guerra, L’Iniziativa», 29 agosto 1914.  Questo e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o  rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia,  Milano, Il Rinascimento,  Oltre agli articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, L’Iniziativa»,  Gli eterni vinti, Il Resto del Carlino», 3 ottobre 1914, e Gli anarchici, i  sindacalisti e la situazione internazionale, Il Lavoro», TANCREDI, // dovere della guerra, cit.  4" Ip., Gli anarchici del kaiser, L’Iniziativa», L'organo del PRI pubblicò la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La controversia  che ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato da Rocca fra gli anarchici  favorevoli alla guerra contro gli Imperi Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni  Canapa), per via di due suoi interventi apparsi su Il Libertario» del 27 agosto e del 10  settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente  ammesso di trovare realistiche e più positiviste», rispetto alle astratte prese di posizione  dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito  dell’eventualità della difesa in armi del territorio nazionale, respinse però ogni addebito  Interventista, dapprima con un nuovo articolo su Il Libertario» del 24 settembre (La guerra  no!), poi con una lettera di poco successiva a Volontà». A parte il caso di Manni, bisogna  dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granché probanti.  Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto D’Ambra) era un  nome noto dell’anarchismo italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della provincia di Arezzo, esercita il  mestiere di tipografo - aveva informato la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non  averne fino ad allora segnalato il caso, perché modestissimo gregario della setta anarchica».  ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato].  4° Per un giudizio di Rocca sulla politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al  volume di LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno,L’ardente propaganda di Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del  resto gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del  movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a  esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le  intemperanze, da una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria  Rygier s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una conferenza  sulla “Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto felice, vuoi  per la sede prescelta  il pubblico essendo costituito per lo più da operai  anarchici e socialisti  vuoi per il momento poco propizio”, e l’annunciata  discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di  sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra cui  il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio”.   Si era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand  in Italia allo  scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa del proprio paese  in occasione del  quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che i  repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti erano per la guerra  all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il gruppo del foglio antimilitarista Rompete le  file!» avevano reagito con sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli  anarchici tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata  dall’Avanti!» il 3 ottobre).   ®! Cfr. La conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, Il Secolo», 5 ottobre  1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di anarchici, Il Corriere della Sera», 6  ottobre 1914.   Sul periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra l’azione politica di  Arpinati durante il fascismo e le sue radici anarcoindividualiste, v. WHITAKER, Arpinati anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in Italia Contemporanea». Per il resto, le poche notizie sulla formazione politica di Leandro  Arpinati sono mediate dal vecchio volume di NANNI, Leandro Arpinati e il  fascismo bolognese (Bologna, Edizioni Autarchia7), un’opera agiografica, scritta nel  pieno delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con molta  cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la pubblicazione (sembra per  volontà dello stesso Arpinati) e mai più ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di  Arpinati, da SUSMEL (Arpinati, in La Domenica del Corriere», 1967, n. 36  pp. 16-20) a IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato  a Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a  Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio alla  fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era stato uno dei  maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato  all’anarchismo intorno al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e  divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo  anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini, all’epoca direttore de La Lotta di Classe»,  chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa.  Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una dura  contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v'è traccia di quest’episodio  nelle pagine dell’organo socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra    PPANTPP 777 VIP PRRPPIA Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non Fine Rei  effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n  proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i  dopo l’episodio di Bologna  e un momento prima di lasciare sn ia o ;  Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an >  rapporti con Mussolini e l’Avanti!», ottenne anzi il suo per più  yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su  ua  Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i temp:  del suo strappo interventista"‘.  citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt  î E) ri . . A  icizi è ipazione di Arpinati alla vita politica  amicizia. Quel che è certo è che la partecipazi T a Fi i  ico itali i ionale collaborazione con un giorn: ino,  anarchico italiano, fatta eccezione per un'occasi x DE dpr  arti i i Socialismo e anarchismo (L’ Alleanz ;  che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt gent  i he rilevante, e che solo l’intervei), era stata tutt'altro cl ] ) i re  ) A ità di i notare. Secondo la figlia, autrice anc!  futuro gerarca l’opportunità di farsi noi rice | na  iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i  iscutibile biografia, l’anarchico romagno i ima 4  a Fira dopo quello famoso della Società Operaia, in papea RE  incidenti, al punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda  all'oscuro la madre delle sue disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i  r ittari ttera a firma È  io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O (  Civitella che si proclama al fianco» di Mussolini per la A i verso sa rr,  i i Italia» del 25 novembre . Impiegato,  comparve in effetti su Il Popolo d Ita i È | pi  aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di madre vedova,  rese parte alla guerra. i iris fi ida A  I} GIà i 6 ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii  artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana bolognese Ure SR  ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr. L’Inizi: n  ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca  S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie » anni cbr  scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del 191 pra a pa dr n  del fi i À i lini direttore dell’Avanti!», Rocc: i ì  del futuro “duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie  zi ialista (firmandosi con gli pseudonimi a  collaborazione con l’organo social 1 i i  juidi il l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi., ve  Guidi), conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i c Sligo soin  isagli i P in Dieci anni di nazionalismo di ui 2g (  avvisaglia  ricordava l’autore in n eta  A is la censura di Mussolini, allora fe; t  d'interventismo», non aveva passato la cei h IR  M Si i articoli // direttore dell’Avanti!» smascherato. 9 i  Si tratta degli articoli / » ‘ato. U xa  aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed  del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, Il Resto del Carlino», 7 e  sd Ai abissi è. nÎ,, o 9  ‘sì questa vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss., € Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, I casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del  famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più noti ed  emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli  anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto guerresco,  suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi e ripensamenti, che,  se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di sostegno all’intervento,  fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o non andando oltre un generico -  e del resto largamente condiviso - sentimento di simpatia per la causa  dell’Intesa, testimoniavano di un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti  inevitabile, considerata l’asprezza della prova, capace di segnare in modo  indelebile la coscienza di molti. Così, via via che gli eventi bellici  maturavano e si modificava la situazione politica interna, numerosi altri  anarchici (alcuni dei quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro  giovane romagnolo, Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa  Angiò, nato a Foggia, era stato redattore de Il Libertario». La sua  attività si era dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato per  quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e  diretti (L’Operaio» e Lux»), a rinsaldare la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a  Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio  La Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta  dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante nella propaganda per  l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore della guerra contro gli Imperi Centrali  destarono egualmente sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo -Angiò avrebbe  rivendicato con pervicacia la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di  raccogliere i superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo.  Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla figura e l’opera di Roberto D’Angiò v.  altresì BETTINI, op. cit., ad indicem. Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di Leandro  Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano  appena diciottenne, in cerca di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato  dapprima lavoro nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista Il Tempo», poi, come  tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava l’anarchico Il Grido  della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i primi contatti di Mazzucato con  l’anarchismo, testimoniati dalla sua collaborazione ai fogli libertari milanesi, La Protesta  Umana» e L’Operaio». Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto  per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della “domenica di sangue” in  Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di reclusione per  aver percosso un superiore e internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del  1910 aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il quale - come  sembra - conobbe il conterraneo Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per l’organo  dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia, Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con  queste parole: Lo ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel 1910,  quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un sistema di obbrobrio, di  patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta intellettuale del Partito  Socialista. Fu una rivelazione» MAZZUCATO, Governo di pigmei, L’ Ardito», proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal fascino e dalle  ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini, diversi per  indole e per esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato  opposti destini), ma uniti allora nella comune battaglia interventista, nella  quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di  Grottaferrata?”, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del  manifesto del 20 settembre.   Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che all’epoca dei fatti aveva appena  venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco conosciuto negli  ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di maggior rilievo era stata  la collaborazione con il foglio bolognese L’Agitatore», per il quale aveva  curato una rubrica di corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi  ‘Turbolente e Odroade, e rivelando, già allora, una naturale propensione per  la polemica giornalistica”. Attivo nella propaganda spicciola, specie in  ambito sindacale, e noto alle autorità di Pubblica Sicurezza per l’irruenza dei  comportamenti, il contributo di Malusardi alla vita politica del movimento  libertario era stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo  tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa  importanza risaliva ad un comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola  D'Elba”, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva  avuto il compito d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione era  stato Massimo Rocca”. ; i  Benché influenzato dalle teorie dei sindacalisti rivoluzionari, l’anarchismo  di Malusardi appariva intensamente venato d’individualismo. L’anarchia -). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato seguì dunque Mussolini  nell'avventura interventista e si arruolò volontario, combattendo negli arditi. Nel opoguerra  wi rese protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta  [Mazzucato], e MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE  1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; “i  rappresentazione significativa non solo ne av politico dell’autore, ma anche del cl   >) a il primo movimento fascista). È È  Matino iaia db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo travagliate esperienze  personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a  la matrigna), fu uno dei grandi protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi   Paolinelli Attilio]. 7   liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta  stato uno dei più importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto di  alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri a Domenico Li  da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al settimanale bolognese, Malusari i  aveva occasionalmente collaborato a Il Grido della Folla», a L’Avvenire Anarchico» e alla  sindacalista L'Internazionale», sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana.  Cfr, ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo].  aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua  collaborazione a L’Agitatore» - è un sublime Ideale di redenzione  proletaria», avente per seguaci tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli  nazioni» e per compito quello di combattere ogni tirannia”.    Noi però  aveva concluso Malusardi  non ci illudiamo, lo sappiamo che la  realizzazione di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci sulla  realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di violenza  diretti contro l’autorità, le alte personalità e l’ordine costituito, poiché fintantoché voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e fintantoché vi cardio  diseguaglianze, esisteranno sempre individui risoluti, i quali, facendo getto della  propria vita, emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe”!    La realtà opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e  pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo  eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella  fraseologia dell’individualismo anarchico e già contenevano, in potenza, il  germe dell’anarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo Malusardi, si  può affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo profondamente.  l’intero percorso politico. i  Nella propaganda per l’intervento Malusardi manifestò un’ancor più  spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza organizzativa  rendendosi sin dall’inizio protagonista di un vivace dibattito, nientemeno che  con Luigi Molinari®?. La contesa sollevata dal giovane anarchico lombardo.  che investiva proprio la consistenza e la misura dell’adesione anarchica alle  tesi interventiste, finì per coinvolgere il direttore de Il Libertario», Pasquale  Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi  sul giornale spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli dell’anarchismo  italiano) come segno dell’orientamento tutt’altro che univoco degli anarchici  in merito alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare che il  condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori austro- TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale Il Cittadino» di  sal L’Agitatore», La prima sortita interventista di Malusardi apparve su L’Iniziativa» del 12 settembre 1914  (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dell’organo nazionale  repubblicano, Malusardi si scagliò contro Luigi Molinari, il quale, sull’ Avanti!» del 25  settembre, aveva definito bugiarda ed interessata» l’opinione, diffusa soprattutto negli  ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo più favorevoli  all intervento. La polemica fra i due si trascinò per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto  Malusardi tre anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta  a Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi]. tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi»? era cosa assai diversa dal far  attiva propaganda per l’intervento, con ciò riaffermando l’indirizzo  indiscutibilmente anarchico del suo giornale.   In verità, la condotta de Il Libertario», improntata, rispetto a quella di  Volontà» e de L'Avvenire Anarchico», a una maggiore elasticità,  costituiva di per sé la spia di un non trascurabile disagio. Non si può negare,  infatti, che il foglio di Binazzi  che, come si è visto, aveva pubblicato il  primo articolo “revisionista” di Maria Rygier  concedesse ampio spazio ad  enunciati e proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano  apparire quanto meno discutibili. Negli scritti di Tanini, di Baldassarre e del socialista-anarchico Francia (collaboratori di  lunga data del giornale e figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci,  scritti ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto  violento per 1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di nuove orde  di Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà  occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal pangermanesimo  delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di Francesco  Giuseppe e Guglielmo II come di due semi umani [...] avvinazzati, due  bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio militare»; e si evocava  il tragico lievito rosso» della guerra, da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle  rovine delle antiche tirannie, la palingenesi rivoluzionaria”.   Il fatto che, col passare del tempo, queste posizioni si andassero mitigando*°  è che Binazzi (come anche ebbe modo di chiarire nel dibattito a distanza con  BINAZZI, Non equivochiamo, Il Libertario» Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività politica e propagandistica €  nonostante la giovane età (era del 1889), godeva di molta considerazione. Costretto a riparare  In Svizzera per sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una  rubrica per Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana rossa. Cfr. ACS,  CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero].   © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: TANINI, La guerra dei titani, Il  Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice alleanza è morta per il bene del mondo,BALDASSARRE, /mperialismo barbaro, Ivi;  FRANCIA,  l.'apocalisse storica, Ivi.   ® Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono  che la loro manifesta simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il  desiderio di vedere l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in più di una  eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini s’ingegnò anche a mostrare la via per una  soluzione pacifica della questione nazionale: fare di Trieste una città libera e del Trentino una  provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero  pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, Il Libertario; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi    dell'agonia). Malusardi) fosse personalmente del tutto contrario al coinvolgimento degli  anarchici nel nascente movimento interventista rivoluzionario, non toglie che  il suo giornale, si consideri o no un segno di discutibile larghezza»,  rappresentò, almeno sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di  confronto, anche estremo, sui temi della guerra.    Fondamenti ideologici e riferimenti politici dell’interventismo anarchico    Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si è   già più volte accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché  l’individualismo fu fenomeno complesso e variegato, è indispensabile  cercare di definire i contorni di questa comune matrice dell’interventismo  anarchico e, più in generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti.  A tale proposito, considerata la sua influenza, è il caso di soffermarsi ancora  una volta sul pensiero di Massimo Rocca, per il quale, nonostante l’iniziale  infatuazione per Stirner, l’individualismo non s’identificava - e non si era  mai del tutto identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua  accezione più diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di  Stirner e alle sue conseguenti degenerazioni “metafisiche” (di cui egli  imputava la responsabilità a giornali come Il Grido della Folla» e che non  riteneva meno dannose per l’anarchismo dell’utopia comunista  kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione storica e “sentimentale”  dello stirnerismo, che sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che  costituirà il substrato culturale dei suoi futuri approdi politici. AI contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Francia (che era nato nel 1869 a  Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file dell’estrema  sinistra pugliese) non tornò affatto sui propri passi. Smessa la collaborazione con Il  Libertario», si schierò senza esitazioni per l’intervento e si arruolò volontario nei reparti  garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra aderì al movimento fascista e prese  parte, in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale  fascista (cfr. Il Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto fedele all’idea socialista-  anarchica, si distaccò dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di  destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in  virtù di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva all’isolamento)  Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta sorveglianza dell’autorità di Pubblica  Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia]. CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit., p.37.  Sull’atteggiamento de Il Libertario» riguardo alla guerra europea v. anche COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra mondiale, in Movimento  operaio e socialista in Liguria»,  Egli  aveva scritto di Stirner ai tempi del NOVATORE»  non predica il delitto pel  delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella Germania  profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua “potenza”, il suo  “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un significato, una portata non  Individuale, ma sociale [...]. L’individuo di Stirner non è dunque lo scialbo  calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei quattro soldi per truffare. E’ l’uomo  che si erge di fronte al sole e al mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha  trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi simili,  dalla gigantesca statura della sua personalità individuale” Rocca sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della filosofia di  Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria nell’esaltazione  del sentimento e dell’istinto. Ammettere questo significava riconoscere,  accanto all’individuo, ogni entità collettiva, dalla famiglia, alla classe, alla  nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale»; significava,  in una parola, negare l’astratto a favore del reale». Muovendo da queste  premesse, Rocca era approdato a quello che definiva “liberismo  rivoluzionario” o “novatorismo”, che era poi l’individualismo anarchico  ampliato e confrontato con la realtà». Noi  sono ancora sue parole  affermiamo altamente l’importanza dell’individuo  singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma comprendiamo pure le folle che  rovesciano impetuose un ostacolo al progresso dietro la spinta di una minoranza  rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si materia soggettivamente  dell’avversità sorda verso la classe opprimente; comprendiamo la nazione che si  forma per lunga eredità storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo  Interno che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le  rivolte; comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le  esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza al di  sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in  nome di un principio confessato e francamente servito sono infinitamente più nobili  e rivoluzionariamente più fecondi dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi  corrompendole nella generale mangiatoia”  TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo democratico, Novatore»,  New York,  Ivi   Ivi,  "Ivi,  A proposito dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo auto-apologetico,  Una difesa postuma (agli ex amici della Vir»), in Quand-meme» (un numero unico  pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel  quale Rocca difendeva la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di morbosità»   Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere i  presupposti teorici dell’interventismo di segno anarchico-novatoriano  (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli, come Gigli) e le  ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei suoi  protagonisti.   Quantunque il “novatorismo” fosse il tratto saliente dell’interventismo  anarchico, pure quest’ultimo non può non esser considerato nell’ambito di  quella vera e propria esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu  l’interventismo rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni  risorgimentali e dell’utopia garibaldina fece da ponte tra le forze  dell’estrema sinistra sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i  miti dell’azione e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo,  rimandavano a un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti  quanto ai discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua  carica eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici  propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana del  tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non  trascurabile nella campagna interventista”.  mossagli dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per  l individualismo, Vir»).   Fondamentali, per una testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli   inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora segretario del PRI  Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma,  Edizioni de L’Iniziativa», 1916.  ?° Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel e, in senso  più ampio, l’ideologia e la prassi politica sindacalista  v. FURIOZZI, Socialismo,  anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo  e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla nascita e all’attività dell’USI, v. anche  l’introduzione di Maurizio Antonioli a LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti  scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici  italiani, Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss.   A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina Lacerba», fondata l’anno  precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico, dando un  appoggio incondizionato alla propaganda per l’intervento. Nel quadro di un indirizzo  sostanzialmente nazionalista, le pagine di Lacerba» non disdegnarono di accogliere posizioni  di segno rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre,  Per la guerra, nel quale l’artista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva l’elogio  di Hervé.   Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto CIAMPI, Futuristi e anarchici.  Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni,  Pistoia, Archivio famiglia Berneri, Le differenti impostazioni ideologiche, cui però sottostava una molteplicità  di riferimenti culturali comuni, s’intrecciavano dunque nella complessa  trama dell’interventismo rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani  andarono a costituire uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal”  (ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come mezzo per l’abbattimento  violento del militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi),  la meta additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in un’intervista a Il  Resto del Carlino», divenne il tema dominante della campagna interventista  dei partiti estremi”; e il “mito” della guerra rivoluzionaria - come lo ha  chiamato Renzo De Felice - s'impadronì anche dell’interventismo anarchico.  Massimo Rocca firmò il famoso “appello ai lavoratori italiani”, lanciato a  Milano, per la costituzione di un Fascio rivoluzionario  d’azione internazionalista, punto d’inizio di un movimento che, di lì a pochi  mesi, avrebbe messo radici in tutta l’Italia centro-settentrionale”?. Da quel  L'intervista a Dinale (Ottavio Dinale dice guerra e germinal») si trova in Il  Resto del Carlino.   La biografia politica di Dinale offre un esempio emblematico del clima culturale  nel quale prese forma e maturò la corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista,  organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i  promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e fondatore del primo giornale  ufficialmente sindacalista, il settimanale La Lotta proletaria». Quattro anni più tardi aveva  Iniziato la pubblicazione prima a Nizza, poi a Milano del periodico La Demolizione,  caratterizzato da un’impostazione marcatamente antilegalitaria e da frequenti richiami sia  all'individualismo stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo  collaboratore del mussoliniano Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore dell’impresa  fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicinò infine al  fascismo, diventando amico intimo (e poi persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu  nominato Prefetto del Regno. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, op. cit., Vol. II, ad  nomen, € CIAMPI, op. cit., ad indicem.   "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca,  da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris,  Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio  Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da La Folla» del 4 ottobre 1914, quindi, sei  giorni dopo, dal primo numero della nuova serie di Pagine Libere» (la rivista quindicinale di  Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta sulla  guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier.   Sulla nascita, la diffusione e il significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il  classico VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia  neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e FELICE, Mussolini il  rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v. altresì il breve saggio L 'interventismo  rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, Infine, per  una riflessione sui primi giorni dell’interventismo rivoluzionario v. SERENI: alle origini dell’interventismo rivoluzionario, in Ricerche Storiche», 1981, nn.    2-3, pp. 525-574. momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei Fasci,  collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con le testate  dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero sempre  conservato una loro specificità. Alla fine di ottobre Attilio Paolinelli, con  Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e Torquato Malagola””, pubblicò La  Sfida», “giornale di polemica anarchica”, un numero unico che, se  testimoniava dell’organicità del manipolo anarcointerventista in grembo al  neonato movimento dei Fasci, voleva anche dar prova di una peculiarità  ideologica rivendicata con fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle  pagine de La Guerra Sociale»”*. Poco dopo la nascita de Il Popolo  d’Italia», Paolinelli (che peraltro auspicava per il nuovo giornale di  Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario)  scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,  addirittura un precursore Il fiorentino Agresti (1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo  rivoluzionario, collaboratore de La Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi  contributi di parte anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perché sono  interventista. Risposta all’opuscolo “La guerra europea e gli anarchici”, Roma, L’Agave,  1917 (l’opuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino per  la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista, come altri suoi compagni, a  cominciare dalla Rygier, Agresti finì per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo  proposito, una sua lettera pubblicata da La Libertà», organo del PRI ravennate). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si ritirò sostanzialmente dalla  vita politica. Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma,  proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi  si è allontanato dai compagni di fede  e non professa più principi anarchici. E’ un valoroso pubblicista, redattore de “La Tribuna”,  uomo d'ordine». ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio].   7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come  Agresti, anch’egli nel dopoguerra si allontanò dall’impegno politico, rompendo i ponti con  l’anarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato].   7 La Sfida» si apriva con una dichiarazione programmatica  a .firma gli anarchici  indipendenti d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (PAOLINELLI, Comunismo e  individualismo.  Ideologie metafisiche e realtà anarchiche; TANCREDI,  Dell’anarchismo; AGRESTI, Oggi e domani; RYGIER, Per la civiltà contro la  barbarie; MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni estratti da Lectres à un francais sur  la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale  trasparivano le simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”),  comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste.  Per le reazioni in campo anarchico ufficiale all’iniziativa di Paolinelli v. Accettando La  Sfida». Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero Tancredi, L’ Avvenire Anarchico»,  12 novembre 1914, e BERTONI, Agli “sfidatori”, Volontà», 28 novembre 1914.   ?° Caro Mussolini  scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un  foglio La Sfida», del quale ti mando alcune copie [...]. Il nostro numero unico di Roma,  come vedi, precorre il tuo bel quotidiano» (Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914). Inesorabilmente, più gli schieramenti si andavano definendo e più  l’accanimento col quale il gruppo degli anarchici interventisti reclamava il  diritto alla qualifica anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La  sera del primo novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe  luogo un comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de La Sfida» ed  altri anarchici dissidenti. A proposito di questi ultimi  commentava quasi  divertito un quotidiano liberale  occorre notare che essi sono invasati  dall’idea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e  stupore»®°. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero  attendere”, mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di  principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di  fronte alla spinosa e assai più concreta questione dei volontari.    Anarchici o garibaldini?    ]    Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento  la nobiltà dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata il merito di aver  educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non nutriva  però gran simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del celebre capo  anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i protagonisti del primo  internazionalismo italiano, aveva pagato il suo tributo di affetti al  mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la “malattia infantile”  dell’estrema sinistra italiana, retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento  generoso ma sterile, tanto più pernicioso in quanto distoglieva i partiti  popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la  rivoluzione sociale”.   Certo è che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero democratico  risorgimentale continuò ad esercitare un forte ascendente anche sui più       0° Un comizio al Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati,  Il Giornale d’Italia», 2 novembre 1914.   Alla fine di novembre si costituì anche a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione  Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei più attivi  propugnatori (cfr. L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i   ' Al riguardo v. Soprattutto TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione,  L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo libertario  romano “Martiri di Chicago”, pubblicata dall’ Avanti!» del 7 novembre.   "? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne  veda la prefazione a NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il  Risveglio,  accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, così il  garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima  guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un po’ ingenua, del  sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per i repubblicani, i  quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni di  politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealità mazziniane, non  deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito Socialista, quanto  meno in alcune sue correnti, quelle più vicine al socialismo delle origini.  Allo stesso modo, sebbene gli anarchici indulgessero assai meno alle  suggestioni della camicia rossa, anche in seno al movimento libertario  sopravviveva, qua e là, un residuo di mentalità risorgimentale, in cui - com’è  stato scritto - libertà dei singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si  confondevano e in cui la pianta dell’internazionalismo affondava le sue  radici in un terreno impregnato più del volontarismo mazziniano che del  determinismo del socialismo scientifico».   L’esempio più noto e certamente più suggestivo di questo modo di  concepire l’anarchismo è senz'altro quello di Cipriani; ma egli era,  in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di quell’epoca di mezzo che aveva  visto germogliare l’idea internazionalista dal tronco del mazzinianesimo,  sotto il pungolo della predicazione di Bakunin®'. Quel medesimo clima  ideale che aveva generato uomini come il romagnolo PCeccarelli, compagno di Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del   ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di  anarchici interventisti Su L’Internazionale» del 5 dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra”  - inaugurata il 21 novembre  comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare  Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo dell’interventismo rivoluzionario  (fu ripresa anche da Il Popolo d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo-  intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Boldrini tracciò un acuto profilo del vecchio rivoluzionario. Cipriani  scrisse Boldrini  è  l’uomo che sintetizza l’avvenire, ma con sistemi e con emotività passate. Non siamo feticisti:  Amilcare Cipriani è dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi  uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come il suo anarchismo del  processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e la sua rivoluzione sociale è la rivoluzione  dell’indipendenza italiana, che, con l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi,  per gli uomini d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà di tutti i  popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però qualunque forma di stato»  (BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De Ambris a Cipriani, L’ Avvenire  Anarchico» ibdiaibbici. Matese (di cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito  la camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®.   Ma qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari  anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non  avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e  all’anarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,  sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio  com’era nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) ‘, e  poi di nuovo, nnon ancora spentasi l’eco per le agitazioni  antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi!”  Sulla scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva  pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si è visto,  Sulla figura di Ceccarelli v. ANDREUCCI, DETTI, 0p. cit.,  Vol. II, ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo v. PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori Riuniti,  1973, ad indicem.   “© Cfr. L’ Alleanza Libertaria», 27 luglio 1911.   Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi  libertari romani, riuniti in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni  onoranze funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra  gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il  racconto che di quell’episodio aveva dato L’Agitatore» di Bologna è sintòmatico del favore  e del rispetto con i quali, anche in taluni ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si guardava  al garibaldinismo. Cosa non può aspettarsi aveva scritto l’anonimo articolista de  L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di solenne e malefica sbornia  di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque  pretesto [...] per inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca  del nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi dei resti mortali d’un nostro  eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni  della leggendaria camicia rossa, per l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla  dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una profanazione e  violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano, cittadino del  mondo, appartenevano al popolo, perché egli aveva combattuto, si era volontariamente  sacrificato, per la libertà e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista,  un propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e  cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto del suo meglio per donare la tanto desiata  libertà a quel popolo torturato dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma.  l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi del  ricordo terreno di chi per la libertà morìa, per dimostrare alla Turchia, da loro oggi  combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo  combatté contro di loro» (SPARTACO, // caso Troja, L’Agitatore»).   N Le insegne rosso-nere dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra  d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario l’anarchico napoletano Oreste  Ferrara. Cfr. TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba nella coscienza dell'estrema  sinistra italiana, in Spagna Contemporanea», PROPONI PORNIA dell’anarchismo individualista) dell’azione anarchica anzitutto come  ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa di  spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con l’epica del  garibaldinismo.   Pochi giorni dopo l’inizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi  confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le  infuocate polemiche dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di  Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta  della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. Erano  repubblicani? Erano anarchici?  commentò un foglio repubblicano qualche  tempo dopo  Non importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione  che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro, tutti militanti del PRI, si  trovava in effetti anche l’anarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale, un  veterano della camicia rossa (aveva preso parte come ufficiale alla seconda  spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912, combattendo a Drisko). Cinque  dei sette volontari, fra i quali lo stesso Cesare Colizza, erano caduti nello  scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il 20 agosto 1914”.   Era anarchico  scrisse di Colizza l’organo romano del PRI  il suo ideale  muoveva verso l’ universalità, ma la sua anima ribelle sentiva la protesta  contro ogni ingiustizia»”'. Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci,  che lo aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo  ideale che merita di esser ricordato perché rivelatore del modo d’intendere  l’anarchismo cui si è più volte accennato. Il suo dio  ricordava Spallicci   era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva fondato  il suo credo. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul  campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come  contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il  L'appello di Ricciotti Garibaldi [si veda], incitante la gioventù italiana a prendere posizione di  difesa e, in caso, di offesa», fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino Ravasini. Lo si veda in Il Fascio Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v.  MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima  guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, [s.d.]. MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue italiano, La Libertà», 12 settembre  1914.   °° Gli altri membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti,  Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la  loro fu un’iniziativa personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi,  infatti, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di una spedizione di camicie rosse in Serbia  (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini),  già il 9 agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da Il Fascio Repubblicano», con la quale  sconsigliava apertamente l’invio di volontari.   °! Eroi italiani caduti in Serbia, Il Fascio Repubblicano», 6 settembre 1914. turco che aggrediva la Grecia e, come nell’ultima sua trincea, contro  l’austriaco che aggrediva la Serbia»? La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli interventisti  rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i  garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di  Roma, in via Capo d’Africa, su proposta della locale sezione del Partito  Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima manifestazione di un  certo rilievo dell’interventismo di sinistra (anticipante, non solo sul piano  simbolico e iconografico, ma anche su quello più strettamente politico, le  assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano preso parte anche alcuni  anarchici, fra i quali Rygier e Paolinelli”. E’ indice ulteriore  delle incertezze e delle ambiguità di quel momento il fatto che la Rygier  avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi  anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno  nettamente contrario all’iniziativa repubblicana”, e che, ciononostante, ella  fosse convinta di poter avere con sé la maggior parte del movimento. I miei  compagni  aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del  Popolo  saranno ove occorra, ‘ al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le  percosse di secolari violenze».   L’episodio aveva profondamente turbato l’ambiente anarchico della  capitale, suscitando in particolare la dura reazione di Ceccarelli,  personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e la risposta non meno  infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a Il Giornale  d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi  trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli aveva replicatà, in questo  modo:  n MANNUCCI  " Cfr. Azione Socialista», e Il Fascio Repubblicano. I due soli superstiti della spedizione,Colizza e Reali, erano rientrati in Italia da  ochi giorni. Cfr. Il Corriere della Sera», 5 settembre 1914 e Il Lavoro», Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e Il Fascio Repubblicano» del 20, nel riportare la   cronaca della commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici   “Arganti”, “Salucci” e “Martiri di Chicago”. Cfr. Volontà», L’Iniziativa Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario “Martiri di Chicago”, operante nel rione  Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione   del 14 settembre   " Polemiche fra anarchici, Il Giornale d’Italia», 17 settembre 1914.  In quanto [...] alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro  l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realtà della guerra, si  convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di quelle che  possono lanciare i papi veri. L’anarchismo non è disciplinato, interpretato e letto da  alcun dittatore, né il Ceccarelli può arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli  anarchici, come se egli fosse l’unico depositario della verità e della coerenza?”    Se la spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato  clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più ne sollevò quella in Francia,  ben più consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto del cigno della  camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno utilizzata), ultimo bagliore  di utopie ottocentesche prima che la moderna guerra tecnologica e le mutate  condizioni della lotta politica facessero piazza pulita d’ogni residuo  romanticismo.   Già ai primi d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si  ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, diversi, fra anarchici,  sindacalisti, socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia,  ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari con  organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre, operanti in molte  località del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani, erano  cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia. L'indirizzo  all’impresa, tanto sul piano militare quanto su quello politico vero e proprio,  era dato dal Partito Repubblicano, il quale, sopravvalutando l'appoggio  inizialmente ricevuto dalle autorità francesi, mirava ad organizzare una  spedizione per la liberazione di Trento e Trieste, nonché a strappare  l’iniziativa dalle mani della diplomazia sabauda, così accelerando la  formazione di un vasto moto insurrezionale all’interno del Paese e la caduta  della monarchia'. All’intransigenza dei dirigenti repubblicani (soprattutto  di Eugenio Chiesa, il più risoluto sostenitore della spedizione adriatica,  mentre il segretario del partito Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più  possibilista) '°°, avrebbe fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di  Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza  perpiessità (legate più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio),  in molti riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino VIGEZZI, A questo riguardo v. ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit.   12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v. anche  CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del  XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma, Istituto per la storia del  Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss. Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla  costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il  semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera. Era  dunque nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni, con sede a  Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly all’inizio di  novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di netto orientamento  repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e forte di trecento  uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre dietro una precisa disposizione del  Comitato Centrale del PRI". La maggior parte dei suoi membri aveva fatto  ritorno in Italia; altri, come Massimo Rocca (che aveva raggiunto la  compagnia il giorno stesso del suo scioglimento) 104. si erano aggregati alla  Legione Italiana di Peppino Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi  combattimenti delle Argonne nel dicembre-gennaio.   Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro  che più si adoperarono perché la Legione fosse inviata al fronte) !%,  facevano parte di quel corpo di volontari altri anarchici, fra i quali sono certi  il veneto Gino Coletti, autore fra l’altro di una breve storia della  spedizione", i romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Pezzi  Su tutti questi punti v. VIGEZZI La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto del progetto politico  repubblicano, ma fu, in un certo senso, la. dimostrazione dell’impossibilità, per  l'interventismo rivoluzionario, di costituire un movimento davvero autonomo, in grado  d’influire in modo determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento  all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali molti sovversivi  erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di rientrare in Italia avevano agito  correttamente (cfr. GioDA, A proposito del battaglione Mazzini, La Folla).   104 |a data del 14 ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche da  Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto della comunicazione  ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS  MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo Zuccarini, FI e 3/18.   08 La Legione Italiana lasciò il campo di Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo  temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino  Garibaldi e quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un  accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) per partire al  fonte da soli», qualora l’ordine di partenza non fosse giunto per la fine dell’anno, V.  ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo  Zuccarini, FI e 1/3. + ì   10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento Poligrafico  Emiliano, 1915.   Sulla figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario  dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di rimandare a  LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso di Gino Coletti in una  lettera a Mussolini, in Nuova Storia Contemporanea», e Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi)   » e un certo Perati, descritto proprio da Coletti come anarchico  romagnolo profugo della settimana rossa, che perde la vita nello scontro delle Argonne. A tal episodio partecipò anche Rocca, che pare vi rimanesse ferito. Di sicuro egli si trovava  ricoverato in un ospedale francese quando La Folla»  pubblica un suo articolo presentandolo quale eminente anarchico disilluso, andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un ospedale Cfr. Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una lettera di Masetti dalla Francia,  nella quale l’anarchico romagnolo si lamentava del trattamento al quale i volontari italiani  erano sottoposti dalle autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione  Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Masetti era nato a  Ravenna. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo ravennate d’inizio secolo,  collaboratore assiduo de L’Agitatore», amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi, Masetti,  già prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica.  All’epoca dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a lungo  insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori socialisti e lavoratori  repubblicani (i “rossi” e i “gialli”, secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur  parteggiando per la causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in  quella lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione dell’anarchismo con il  riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato  dalle simpatie di Masetti per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre  Masetti a dichiarare di non aver più nulla in comune» con loro (L’Agitatore» 21 agosto  1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e Masetti era rientrato a pieno titolo  nel movimento. Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di  omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero. Terminata  l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a Ravenna, dove fu tra  i promotori del locale Fascio rivoluzionario d’azione internazionalista (cfr. La Libertà»,  Ravenna). Richiamato alle armi, cadde in battaglia. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti].   ‘°8 Cfr. Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915.   Panzavolta e Pezzi militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale  godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza. Era  espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno sino all’inizio del  conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto  costantemente sotto controllo dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la  guerra, progressivamente abbandonato l’impegno politico   dietro sua esplicita  istanza  fu cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose, dimostrato  buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta  [Panzavolta]. Domenico  Pezzi, al contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie origini,  segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto. Dalle informazioni della  polizia doveva risultare iscritto alla loggia massonica “Italia” (nota come focolaio di  opposizione al regime), sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente  abbonato a Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta [Pezzi Domenico]. Cfr. L’Internazionale», 27 gennaio 1915.   !!° Cfr. L’Iniziativa»,  gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si scatenarono in realtà le  ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio aveva invero del misterioso, se  le stesse autorità - come sembra - non erano in grado di far piena luce  sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata alla Direzione  Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la Regia  Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei combattimenti  delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si trovava  ricoverato perché ammalato di febbri»!!?. Il nuovo caso legato al nome di  Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della stampa anarchica italiana.  Ancora a distanza di due mesi dall’episodio, scrivendo sotto pseudonimo  (Dyali) per la milanese La Libertà», la nota scrittrice e propagandista  libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse stato ferito in battaglia e  affermò trovarsi egli in ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo  preso parte ad alcuno scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella  Croce Rossa. Libero Tancredi  ironizza Dyali  fino a oggi ha portato  alla Francia un aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva  servire a un ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima  ancora del diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio  anarcointerventista La Guerra Sociale», sostenendo che, se effettivamente  Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia respiratoria che da  tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli scontri, restando ferito a una mano. Fu lo stesso Rocca,  in una lettera da Parigi, a chiarire definitivamente la questione.  Egli  racconta - ammalato realmente di angina pectoris, cui in Francia si  era aggiunta una stupidissima bronchite, era stato ricoverato per motivi di   ll L'articolo, intitolato La rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì come effetto di  far nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Ceccarelli serisse fra  l'altro: Costoro [gli individualisti]  hanno arrecato danno al nostro movimento più di  quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme» (CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, La Folla», 31 gennaio 1915).   !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo].   !!! La Libertà», Milano.   Il La Guerra Sociale. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno  pseudonimo (Emme). ]   La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima,  rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un  intervento della Rafanelli sul giornale milanese Il Ribelle», nel quale l’autrice aveva  riconosciuto la figura morale» di Rocca, il babau dei pontificanti dell’anarchismo»,  sostenendo però essersi egli, mercé il suo acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del  movimento anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno  e  quindi a sé stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti  il diritto a dirsi anarchico (cfr.  EipoARDO MALUSARDI, Per la verità, L’Iniziativa»).   MA A A Ai    salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva  nondimeno preso parte ai primi tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi  stato proposto per il grado di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di  poco il suo rientro in Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9,   Durante il soggiorno nella clinica militare di Guyon, Rocca aveva  inviato a Il Resto del Carlino» una lunga corrispondenza. In essa,  prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario garibaldino, era  giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico”  (per le quali il garibaldinismo era l’espressione più genuina e più profonda  del rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che  l’esuberanza delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di sovversivismo  nazionale permanente e, per così dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il  modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta  combinazione tra libertà del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una  nuova Italia.    Il fenomeno garibaldino  aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate  del proprio “anarco-nazionalismo” è un egoismo intimo, perché lungi d’imporsi  collettivamente dalla nazione all’individuo, trova l’origine e la spinta nell’individuo  singolo che sente, da solo, tutta la propria nazione!"    E ancora:    Io sogno ed io scorgo una nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia  garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione, della  disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di forza nella  nazione interamente padrona de’suoi destini [...], nell’individuo eternamente libero,  pur nei limiti della compresa e voluta, perché necessaria, disciplina Una rettifica di Tancredi, La Guerra Sociale», Fatto rientro a Milano, dove  come si affrettava a comunicare la Prefettura  era  convenientemente vigilato», Rocca riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30  marzo era alle scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema “Classe e nazione”.  ACS, CPC, Busta [Rocca]. TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, Il Resto del Carlino. In questo stesso periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi fruttò  a Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra Rocca e  Il'Resto del Carlino» si nutriva evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima della  pubblicazione di detti articoli, l’autorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente  recensito l’ultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per    Sono parole, quest'ultime, nelle quali si può ragionevolmente cogliere  un’anticipazione delle future battaglie revisioniste condotte dal Rocca in  seno al fascismo.   Le vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria,  destando anche a sinistra un’ondata di commozione (non si deve dimenticare  che sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in  grado di risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Così, un foglio  anarchico di Senigallia che si definiva giornale razionalista» indirizzava ai  volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libertà, il saluto di  tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre il segretario della Camera del Lavoro di  Carrara Alberto Meschi, d’indiscusso credo neutralista, pur non approvando  le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni», non si sentiva per  questo di ritenerli dei rinnegati e dei venduti», e si augurava comunque la  sconfitta degli Imperi Centrali, causa di tanti mali e di tanto danno»!?!.  Persino Volontà», nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione  alla guerra, non poté evitare di esprimere simpatia e financo ammirazione  sincera» per quei sovversivi, pure anarchici, andati a morire sui campi di  Francia'”°. Sono esempi importanti, che attestano di un malessere vero, a  riprova che spesso, anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni  erano ben più sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far  credere.  La conquista di uno spazio politico    Quando si esuli dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti  interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse di  fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i caratteri di originalità e  di onestà intellettuale (cfr. VALORI, Un volume di Libero Tancredi sulle due guerre  della vigilia, Il Resto del Carlino). Il Resto del Carlino» occupò un posto  di primo piano tanto nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito  politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale  dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal “caso” Mussolini). A tale riguardo (in  merito, soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere  politico ed economico a Bologn, Milano, Guanda. Il Solco», 17 gennaio 1915.   Il Solco» era diretto da Ottorino Manni.   !:! MESCHI, Contro la guerra, Il Cavatore», Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese.   12 Ancora dei volontari e la guerra, Volontà» quella corrente politica, in genere refrattaria a precise regole  d’inquadramento e di organizzazione, è difficilmente quantificabile. Un  aiuto ci viene senz'altro dalle pagine dei giornali"? e soprattutto dalla  rubrica “Adesioni” de Il Popolo d’Italia», che ci offre uno spaccato  significativo delle divisioni in atto nel campo libertario. In appena dieci  giorni il nuovo organo socialista mussoliniano, che aveva iniziato le  pubblicazioni il 10 novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici  anarchici!”, svelando una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno  scorcio su alcune realtà locali particolarmente interessanti!”’.  A titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio Lotti, di  Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo libertario di Santa Croce sull’ Arno  (cfr. Ad un emerito girella, L’ Avvenire Anarchico»), e Baronti, di  Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro  dall’anarchismo, dichiarandosi di idee nazionaliste» (Una lettera significante, L’ Alfiere»). L’individualista Baronti, un violento con numerosi precedenti penali  (e senza alcuna influenza nel partito, secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina) si fa strada nel fascismo. S’iscrisse al Fascio di  combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla fine della guerra,  divenendo capo squadra della milizia. È addirittura chiamato alla segreteria dei  sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica  Sicurezza come un puro fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC,  Busta  [Baronti]. Nell’ordine: Pietro Battaglino, anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo    Pieraccini, anarchico individualista» di Genova; Navacchio, operaio  anarchico individualista» di Pisa; Farè e Franceschelli anarchici  novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti,  Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Monaci, tutti piombinesi (25  novembre); Ferrari, anarchico non fossilizzato» milanese; Facchini, del gruppo anarchico bresciano. Sfortunatamente, con l’eccezione  di Battaglino, la sommaria testimonianza de Il Popolo d’Italia» è tutto ciò che ci è  stato tramandato di questi uomini. Battaglino, nato a Novara, di professione  venditore ambulante, aveva collaborato a La Protesta Umana». Operoso nel campo  dell’organizzazione sindacale aveva dato vita a una “lega di  miglioramento fra venditori ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era  stato eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di  combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta  407 [Battaglino].   125 E? il caso di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra tra  neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti piombinesi citati  da Il Popolo d’Italia» il più conosciuto era senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del  Piano in provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba dei  liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa partecipazione agli imponenti  scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma  venne allontanato dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,  CPC, Busta [Monaci]. Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso  legate fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere;  come fece ad esempio l’organo del partito Social Riformista con chiaro  intento provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per  l’intervento) lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche e il fatto che i nomi più autorevoli dell’anarchismo  italiano sentissero la necessità d’intervenire personalmente nel dibattito. In  particolare, prima con una vibrante lettera pubblicata su un numero unico dei  sindacalisti parmensi!””, poi con una serie di articoli su Volontà», Luigi  Fabbri dovette ribadire le motivazioni ideali e politiche dell’opposizione  anarchica al conflitto in corso, contestando una ad una le affermazioni degli  anarcointerventisti, ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata  puntigliosità'?8.   Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra fautori e detrattori dell’intervento,  l’accanimento della lotta, non di rado alimentata da amarezze e da rancori  personali, contribuivano del resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo    10 Egli [I Avanti!»]  scrisse  Azione Socialista»- ci accusa di malafede  perché abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in  campo il deliberato dell’Unione Sindacale. La metà più uno! E” questa la norma valutatrice di  questi rivoluzionari dell’età della pietra! Noi invece, con buona pace dell’organo milanese,  crediamo di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo momento i  sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che  rappresentano un pensiero e che a queste correnti d’idee danno importanza nella vita  nazionale». ; Ù  127 Si tratta di Contro la guerra!», edito a Parma il 6 febbraio 1915 a cura di un gruppo di  sindacalisti», in aperta contrapposizione alla linea politica di De Ambris.   28 Si veda in particolare l’articolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra (Volontà»).   Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con l’uscita de La Guerra Sociale», furono  bersaglio di molte e appassionate repliche da parte della redazione del nuovo giornale  anarcointerventista (nell’ordine: RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, La  Guerra Sociale»; POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO  Giona, Contro una stupida speculazione; GIGLI,  Anarchismo: concezione storica e concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita  e nella teoria, Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi;  TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio  e c.,). ubi,  Circa la posizione di Fabbri v. altresì ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la  prima guerra mondiale. Il diario di Fabbri, in Rivista  Storica dell’ Anarchismo», Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte tendenze scaturì dalla diffusione di un  manifesto anarchico contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: Che  ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a portarci questa  civiltà, o sono più barbari e che vengano a civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un documento clima e su questo sfondo di passioni che dev’essere inquadrata la violenta  aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese,  una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico  genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per  avere tra l’altro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto,  condannato dalla redazione di Volontà»!!, fu invece accolto con  soddisfazione sia da Il Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore” del  foglio anconetano", sia da L'Avvenire Anarchico», che laconicamente  commentava: Di fronte a tanto strazio di vite non ci debbono essere rispetti  umani»,   Nel frattempo il processo di organizzazione  dell’interventismo  rivoluzionario e della sua frazione anarchica non aveva subito rallentamenti.  Si era riunito a Milano il primo convegno  nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione internazionalista, al ipa avevano  preso parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno penoso», esortando gli anarchici più consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi  Fabbri, che infatti non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a non  farsene complici con un ancor più penosissimo silenzio» (GIODA, Ben vengano?, Il  Popolo d’Italia».  Per la cronaca degli avvenimenti v. Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, Il Popolo  d’Italia», e Argomenti neutralisti, L’Internazionale». Il giornale di Mussolini pubblica una lettera aperta» di Gigli al deputato  socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio elettorale si era verificata l’aggressione. In tale  missiva, scritta all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori, in  maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. In questa folla feroce  scriveva  non vi  è più, se mai v’è stata, l’anima socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza  socialista al Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni  (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, Il Resto del  Carlino). Cfr. Volont Alla riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da  parte degli irruenti neutralisti finalesi, Volontà» aggiunse comunque un commento  significativo. Oberdan Gigli  sostenne l’organo anconetano  che è persona di cuore e  ragionevole deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del fatto lamentato. Pensi  egli all’impressione che deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo  fenomeno, di vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei  loro interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima libertà  individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a fare una propaganda che, se  ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la  guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai».   12 L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, Il Libertario», CHELOTTI, Giuste argomentazioni, L’ Avvenire Anarchico», A questo riguardo v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 305-306.   Per il resoconto del congresso si vedano principalmente Il Popolo d’Italia»  e  L’Internazionale» del 30 (ma anche gli articoli di Azione Socialista» e de L’Idea degli anarchici nella campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la  definitiva consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de La  Guerra Sociale». Il primo numero del nuovo settimanale anarchico  interventista» uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a La  Guerre Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé, mentre il  motto, rubato a Giuseppe Garibaldi (E’ inutile sperar alustizia se non  dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della  commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,  tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e  risorgimentale.    Il compito nostro  recitava l’articolo di fondo della redazione  è ben preciso:  rivendicare cioè ad alta voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico che i teologhi dell’anarchismo, in nome di non sappiamo quale “sacro  comandamento” ci vogliono negare; prepararci ad incitare all’azione la parte  migliore degli anarchici d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di  femmineo sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può  camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La Guerra  Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente anarchica" In prima pagina, Gigli riassumeva a titolo programmatico i  fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche dell’anarcointer-  ventismo. Nazionale», organo ufficiale dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi  contemporaneamente all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, si era riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa.   Il Popolo d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli anarchici  interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo repubblicano Cattaneo di via  Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di  un giornale di segno anarcointerventista, che, oltre che propugnare le tesi dell’intervento dal  punto di vista anarchico», proponesse anche di iniziare una sana ed audace discussione  d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i  pontificanti dell’anarchismo ufficiale». NES Rui Hervé era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo e  dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del La Guerre Sociale», aveva condotto una  feroce battaglia contro le istituzioni militari. E” singolare che gli anarcointerventisti italiani si  richiamassero a quella storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto  un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé, passato alla  causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a La Victoire», organo del nuovo Movimento  Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione e la fortuna dell’herveismo nel nostro  pnese v. GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo  Bartalini e La Pace», Milano, Angeli, La Guerra Sociale», SI  Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici  scriveva  e accettiamo la guerra per  evitare una oppressione. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta  liberatrice. Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con  Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo coi nazionalisti nella rivolta  contro gli inglesi. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un  enorme male per la civiltà nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dell’autoritarismo  cattolico più inflessibile, dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più  prepotente: sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel  riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali. Noi vogliamo al contrario  che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione  proletaria. Noi manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico!» Più oltre, in una lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi, lettera  che esprimeva il comune sentire di tutti gli anarchici interventisti, Mario  Poledrelli negava di sentirsi un revisionista dell’anarchismo per il fatto  d’essere favorevole alla guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco  della migliore tradizione libertaria!”.   La Guerra Sociale», che uscì con una  discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in forma  unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e le  passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto importante, sotto  questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale apparivano nitidamente,  nelle varie coloriture, gli umori della “base”. Così, fianco a fianco  all’anziano anarchico rivoluzionario» Alfeo Davoli, già garibaldino, che da  Milano esortava alla guerra rivoluzionaria che abbattesse per sempre  qualunque sia forma di governo»"‘', si schieravano il maestro elementare    GIGLI, Perché siamo interventisti, POLEDRELLI, Revisione?, Ivi.   Poledrelli si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si era  trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A Milano aveva anche  progettato la pubblicazione di un periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi L’ Adunata», ma  era stato fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perché disoccupato.  Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053  [Poledrelli Mario].   10 Nell’arco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a  Milano, e beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal capoluogo  lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano  grandi cifre  tanto che il 10 aprile, in un trafiletto indirizzato ai compagni», la redazione  invitava apertamente i lettori ad essere più generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni   ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta ovviamente  eccezione per le tre grandi testate a diffusione nazionale La Guerra Sociale», Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che si  dichiarava per l’intervento, a dispetto dello slombato anarchismo  menefreghista»!!, e l’anarchico individualista Costa, di Verona, il  quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virtù dei propri  convincimenti catastrofici»; mentre il genovese Ciotto  chiama a fondamento del proprio interventismo entrambe le eredità del  bakuninismo e del mazzinianesimo! Sulle pagine de La Guerra Sociale» si avvicendarono dunque i principali  portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da  Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta  però non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato possibile  ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono  comunque alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine proletaria, la cultura  approssimativa, la fede individualista, il “ribellismo”, vissuto talvolta nelle  sue manifestazioni più eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla  maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma anche il  valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia. Quanto  all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza, non  automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte personali, diverse caso per  caso. Ciò a conferma che la semplicistica equazione anarcointerventisti    prima-fascisti poi, non è motivo sufficiente - e d’altronde nemmeno  Davoli era nato a Reggio Emilia nel 1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630  Davoli Alfeo].   4° La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915.   Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava a  Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie, antimilitariste e  radicalmente anticlericali (era membro di un’ “Associazione Razionalista”), e in virtù del suo  ruolo di educatore, era dalle autorità considerato estremamente pericoloso in linea politica».  Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di sottotenente)  Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di  Castelfiorentino (del quale, per breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno  più tardi, alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta 4543  {Salvadori Alceste].   4 La Guerra Sociale», Cfr. /bidem, 10 marzo 1915.   Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse  persuaso che la divisa non avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la  speranza di tornare, un giorno, a fianco dei compagni in buona fede contro la guerra» per  combattere insieme le future battaglie» (// saluto di un anarchico interventista, Il Popolo  d'Italia», 5 luglio 1915). ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo degli  interventisti di estrazione libertaria!” Scrissero per La Guerra Sociale»: Consalvi, Canapa (Ambra), Rivellini, Fraschini, M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando  Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e Raffaele De Rango. Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era nato a Firenze. La sua  partecipazione alla vita del movimento anarchico era stata contrassegnata da numerose  disavventure giudiziarie. La Prefettura fiorentina lo aveva dipinto tra i  più entusiasti seguaci delle dottrine libertarie a Firenze, assiduo a tutte le riunioni e  manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli anarchici, attesa  la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi  fogli anarchici, specie d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto  D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino  che fu membro del Fascio  rivoluzionario del capoluogo toscano  dimostrò un particolare accanimento, per lo più  ricorrendo al consueto pseudonimo e solo occasionalmente servendosi del suo vero nome  (come nel caso del lungo articolo polemico Anime di fango, L’Iniziativa). Canapa si arruolò volontario (cfr. Il Popolo d’Italia») e cadde  sul Carso. ACS, CPC, Busta 992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne  celebrò la figura di eterodosso dell’anarchismo, eretico impenitente, scomunicato  del “Santo Sinodo”» (ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, L’Iniziativa); mentre Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe  richiamato il nome nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo. Rivellini era nato a Milano, da famiglia poverissima. Carattere fra i più  irrequieti e impulsivi» - come scrive di lui la Prefettura milanese n -,  Rivellini, nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del capoluogo  lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività sovversive. Allo scoppio della guerra  fece da subito lega con gli interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di  difendere così i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» (Il Popolo d’Italia). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria, lo stesso  di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una medaglia di bronzo e un  encomio solenne. Si congedò con il grado di tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte  all’impresa di Fiume (e come delegato fiumano presenziò al congresso nazionale  fascista), conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica.  Risulta iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].   Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina, provincia di  Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e propagandista anarchico Giovanni Gavilli,  che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era  non vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a Il Grido della Folla». Nel  dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera.  Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato disciplinato,  rispettoso e contento della vita militare». Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e muore. /bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo].   Armando Senigallia era nato ad Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico molto pericoloso»,  Senigallia, pur senza mai abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva  collaborato assiduamente a Il Grido della Folla», a La Protesta Umana» e al romano Il  Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata, numerose condanne per  istigazione a delinquere». Attivo nel campo dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva    pPAT TEST PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777  Grazie a La Guerra Sociale», per un periodo di tempo tanto breve quanto  decisivo, gli anarchici interventisti poterono dunque disporre di uno spazio  autonomo ed ebbero modo di precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di vista all’interno della multiforme realtà  dell’interventismo rivoluzionario.   La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci risultò comunque assai  intensa, specie là dove il movimento era più forte. A Parma gli anarchici  collaborarono fattivamente al quindicinale Guerra alla guerra» (24 gennaio-  I maggio 1915), edito a cura del Fascio locale, roccaforte della politica  deambrisiana e fra i principali centri propulsivi dell’interventismo  rivoluzionario. All’incirca nello stesso periodo in cui vedeva la luce il  giornale di Malusardi, era anche degno di nota (vuoi per il rilievo dei  protagonisti, vuoi perché Pisa era una delle città italiane dove il movimento  anarchico era maggiormente radicato) il contributo degli anarchici Alberto  Fontana e Ruffo Sarti alla nascita e alla diffusione de La Guerra del  Popolo», organo del Fascio rivoluzionario pisano!‘.  preso parte al congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno  anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi relativi alla  struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre forze operaie. Nel gennaio del 1914  la Prefettura di Ancona annotava sul suo conto: E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di  Ancona, prende parte a tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico “Studi  Sociali”». Nell'agosto del 1916, avendo fatta dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la  mitezza delle sue idee politiche e la completa adesione alla guerra», fu inviato al fronte con  una squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comportò coraggiosamente,  finché non cadde prigioniero degli austriaci. Aderì al fascismo e, nel gennaio del 1935,  divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti.  Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando].   Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dell’estrema sinistra  parmense, in quanto segretario di un “Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario”  intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruolò volontario,  combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta  [Colla].   Di Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco,  se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come  mezzo per far piazza pulita di tutti i rivoluzionari di carta e da comizio» (Liquidazione di  rivoluzionari, La Guerra Sociale», 10 marzo 1915), riallacciò i rapporti col movimento  libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a  Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunità anarchica  italiana, collaborando al foglio di San Francisco L’Emancipazione». Da oltre oceano  l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico  Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [Rango].   14% 1] primo numero de La Guerra del Popolo» uscì. L’iniziativa di Ruffo  Sarti e Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in particolare  D'altra parte, i Fasci compivano il  massimo sforzo di coordinamento. Pur nella diversità di vedute, la  preoccupazione principale di tutte le forze che componevano lo  schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare  l’ingresso dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di dover  accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il  10 aprile L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con la quale il  gruppo dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua “rivoluzionaria” se la  monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di quel  documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24 aprile  l’organo sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi) Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per  protestare contro l’uccisione del giovane operaio elettricista Innocente  Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una  manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito anche  i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori principali),  Rocca auspica che non si verificassero più simili episodi,  temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in un pretesto per una  manifestazione neutralista, comunque un tentativo per intimidire il Governo l’articolo in tre parti di OTONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, L'Avvenire  Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale  estraneità dei due interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare ai  compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa, con l’anarchismo era una  delle scappatoie di cui gli anarchici si avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia  ha sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”. Così, nel  caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due rappresentavano poca cosa,  politicamente e quantitativamente, nei confronti del vasto movimento cittadino» SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà,  Sarti e Fontana erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la  Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana era stato redattore de L’Avvenire Anarchico. Cfr.  ACS, CPC, Busta  [Fontana]. Sarti era noto anche a livello  nazionale, avendo collaborato a Il Libertario» e al milanese Il Grido della Folla» e potendo  vantare, come sembra, stretti rapporti di amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori.  Nell'ottobre del 1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei  carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente anarchico e che gli  era costato lunghe disavventure giudiziarie e due mesi di carcere. Durante la detenzione  annotava la Questura fu largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono  anche le spese occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo]. Il testo completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a FELICE,  Mussolini il rivoluzionario. Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra sera, Il  Corriere della Sera», 13 aprile 1915. con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di decidere la  guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a tutto subordinare»   all’eventualità del conflitto!‘    Il periodo bellico    A poco più di un mese dalla proposta de L’Internazionale» per la tregua  “rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia all’ Austria realizzò gli  auspici di tutti gli interventisti. La partenza per il fronte dei principali  esponenti dell’interventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di  generale incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non  certo propizia al normale dispiegarsi dell’attività politica, contribuirono  peraltro a sfaldare progressivamente il movimento dei Fasci. ua  Anche Rocca, Gigli e Malusardi, si  arruolarono volontari". L'altro grande protagonista dell’anarcointerven-  tismo, Gioda, che a suo tempo era stato riformato, partì per il fronte  soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora, incalzato dalle accuse  d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo di Azione Civile” di  Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e di svolgere propaganda a  TANCREDI, A proposito di sciopero generale, La Guerra Sociale Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del 1915, prestò giuramento in una  caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7° reggimento fanteria prestano  giuramento, Il Corriere della Sera) e fu inviato al fronte alla fine del mese.  Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di  complemento nel 2° reggimento artiglieria campale pesante di Modena, partì per la zona di  guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si  arruolò nel 68° reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi  Edoardo]. mia i o  Mentre l’esperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all intero  svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di guerra di Malusardi - un  memoriale di un certo interesse, anche se, con tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore  - si trova in EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma, Torino, Druetto, Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato al 7°  reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. Il Popolo d’Italia», e L’Iniziativa). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte solo  pochi mesi. favore della guerra) ‘°° si batté con passione, che non c’è motivo di non  ritenere sincera, per la revisione dei riformati!”,   Insieme ai nomi più celebri dell’anarcointerventismo, partirono,  volontariamente o perché richiamati alle armi, la maggior parte degli altri  anarchici interventisti. In taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli  quasi parossistici. L’anarchico romagnolo Ghetti, ad esempio,  riformato per evidenti questioni di salute, passò gli anni di guerra  nell’estenuante tentativo di farsi arruolare.    Cosa c'entra la visita  scrisse ad un periodico fiorentino    l’abilità o l’inabilità, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei  difetti organici, tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi  minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la libertà di un  popolo, dell’umanità, voglio dare il mio sangue, la mia vita contro  l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio di coraggio,  così è il mio sentimento di libertario Qualche giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da  bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato Il “Gruppo di Azione Civile” si era costituito ad opera del tipografo mazziniano Grandi e di altri esponenti del repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del  1917, quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr. L’Iniziativa», 1  settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di  Gioda narrata da Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed erano in  ottimi rapporti. In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato e  spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto riconsiderata la  posizione di tutti i riformati. Io poi scrisse prima categoria della classe 1883, sono stato riformato...per deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli  amici del “Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei riformati, Il  Popolo d’Italia). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato  l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò decisamente sull’argomento. E  un’umiliazione  affermò  inflitta a tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva militare, è  quasi un bollo, che contrassegnerà, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e  discutibile. Noi avremmo capito la revisione dei riformati  da noi ardentemente  sollecitata e poscia magari se necessità assoluta l’avesse richiesta  la tassa applicata ai  veri riformati, a quelli cioè che non potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero  rassegnatamente accolto l’imposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza  nazionale» GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva avere la  precedenza, Il Nuovo Giornale» Ghetti era nato a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato  in Germania, poi in Svizzera, cambiando più volte residenza, e stabilendosi infine a Berna. In  quella città Ghetti aveva svolto un’intensa propaganda anarchica, facendosi anche promotore D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera e  propria, l’entrata in guerra dell’Italia provocò, in seno al movimento  libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del  1915, amplificata dal quotidiano romano Il Messaggero», si diffuse la  notizia (parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra  anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi  libertari capitolini “Sante Caserio” e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato i  propri aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina  riportata da L’ Avvenire Anarchico» del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non  si corrompono), Ceccarelli condannò senza mezzi termini  quell’iniziativa, negando l’esistenza di un circolo anarchico intitolato a  Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il foglio pisano pubblicò una  dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate,  a nome dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”, nella quale si affermava che il  comunicato apparso su “Il Messaggero”, invitante gli anarchici a inscriversi  nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al  richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella  della suddetta istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e  dunque ch’era erroneo il commento dei compagni che avevano creduto  sottolineare tale invito come addirittura un reclutamento anarchico ced  adesione di anarchici alla Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito,  quest’episodio è a nostro avviso indicativo dell’incertezza che colse parte  degli anarchici all'indomani. i   Nonostante il clima di eccezionalità seguito allo stato di guerra, la ténsione  tra gli opposti schieramenti della vigilia non diminuì che in minima parte (ed  è significativo che persino l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava  evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una coda di di un “Comitato di difesa sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità  anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos'è /a caserma?, L'Avvenire  anarchico) gli era valso un’incriminazione per istigazione a delinquere. Due  mesi più tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perché trovato in  possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, beneficiò  dell’amnistia concessa la momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di  un suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo  arrestato (questa volta a Torino) per aver causato gravi incidenti durante un  comizio di Rygier. Ghetti riuscì infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr.  ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico]. è 156 dea SPERO da 9  polemiche) ‘°°. La verità è che la frattura tra neutralisti e interventisti non si    sarebbe mai più ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine  delle ostilità.   La crisi dei Fasci, seguita all’entrata in guerra dell’Italia, non valse affatto a  rasserenare gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il  movimento. L’involuzione subita dall’interventismo rivoluzionario,  d’altronde, prima ancora che la sua capacità di sopravvivenza politica, in  ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente  ricostituiti solo alla fine del 1915) '5”, investiva la sua stessa ragion d’essere.  Così, lungo tutto l’arco della guerra, si assistette al tentativo (non sempre  fruttuoso) da parte degli interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie  fila e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli  avvenimenti, la propria specificità ideale.   In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo  Corridoni, una delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo  rivoluzionario, acquistò un significato che trascendeva l’episodio in sé, per  assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe-  simbolo dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”  sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra, come  a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di ricordare  le parole di Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23 ottobre,  perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione politica che  ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di “managgia” (Il Risveglio  Comunista-Anarchico», Ginevra), nel quale il giuramento di Massimo Rocca  era fatto oggetto di commenti particolarmente malevoli.   Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato d’animo è rappresentato da un saggio di Nerucci, pubblicato su interessamento di Fontana e con prefazione di Malato (Da/ di là del Rubicone, Pisa, Tipografia  Mariotti). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della propaganda  anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la  necessità di difendere la civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del  pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari. L’apologia  interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine,  appariva ancor più incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra  dell’Italia. In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci  abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di Marsiglia, annunziò di  aver preso la tessera del Partito Repubblicano (cfr. L’Eco d’Italia).  Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto per evitare la trincea,  ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta  3526 [Nerucci Raffaello].   !57 Per un quadro complessivo delle traversie dell’interventismo rivoluzionario negli anni  della guerra, v. soprattutto FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al  quale si rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte.  aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della  vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella  tragica sorte di Corridoni.    Egli è  scriv Gioda ricordando il compagno scomparso - la nostra gioventù,  tutta la nostra vagabonda, ardente gioventù balzata fuori tra gli sterpi d’una bassa  politica e il dissolvimento de’partiti, tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia  de’mercanti !5    AI combattimento che costò la vita a Corridoni prese parte anche  Edoardo Malusardi. Il racconto di quell’episodio che l’anarchico lombardo  inviò all’organo mussoliniano è interessante sia come esempio di  autorappresentazione politica (l’interventista rivoluzionario che, ricolmo di  fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo), sia come  prima elaborazione del mito “corridoniano” (Corridoni che cade  eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a crescere in  breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista,    Malusardi in testa.    Mi trovo degente in un ospedale da campo riferiva dunque Malusardi ferito in  quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto alla  baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci perché  impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del  romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo  Corridoni, comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi, è caduto vicino a me cantando  l’inno d’Oberdan'°    158 Il Popolo d’Italia Sulla figura di Corridoni v. il contributo di MELOTTO, Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in Storia in Lombardia», Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, Il Popolo d’Italia» avviò una sottoscrizione  er l'erezione di un “ricordo marmoreo” dell’eroe.   © Il Popolo d’Italia La battaglia detta della “trincea delle frasche è fatale anche ad un anarchico  interventista toscano di nome Contini. Egli era - scrive di lui Malusardi - un  ANARCHICO NOVATORE. Un eretico su cui grava l’anatema del “Sinedrio Anarchista.. Il  suo anarchismo, come il mio, non è la fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso, ma bensi la teoria di tutte le libertà e sintesi di ribellione fattiva contr’ogni oppressione. I  suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Troja, caduto per 1 indipendenza  ellenica, e Colizza, la maschia figura di spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in  difesa della Serbia aggredita L’Iniziativa. RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N    Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative più  interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di  far confluire tutte le forze dell’interventismo rivoluzionario nel Partito  Repubblicano. Rygier (che dallo scoppio della  guerra era andata sempre più accentuando la sua vicinanza al  mazzinianesimo) '°, reputando fondamentale  anche in vista delle sfide  politiche del dopoguerra  rinsaldare l’unità del fronte interventista  rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di  ogni scuola e partito, s’iscrivessero al PRI!9. L’invito di Rygier fu  raccolto da Malusardi. In una lettera inviata a L’Iniziativa»  l’anarchico lodigiano si disse persuaso della necessità di unificare tutti i  partiti della sinistra interventista e d’accordo con Rygier nel ritenere che  ciò potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’ Edera”, a condizione,  però, che questo non significasse un appiattimento sui programmi  repubblicani.    Gli unici che potrebbero trovarsi a disagio  notava a questo proposito Malusardi saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli  impenitenti utopisti della società paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto  d’accordo. Noi siamo degli esaltatori dell’individuo, non nel senso  esageratamente Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al  falso ed imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi  codardi capeggiatori. Mentre i repubblicani subordinano la volontà individuale  a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici, Il definitivo approdo di Rygier al mazzinianesimo era avvenuto con l’articolo  L'ombra sua ritorna ch'era dipartita (L’Internazionale», 1 gennaio 1915), una lunga e  sentita celebrazione di Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e  destato speranze negli ambienti repubblicani. Si auspica che l’esempio della Rygier  aveva  scritto Alfredo Poggiali sull’organo del Partito Mazziniano Italiano  ch’era partita, ne’suoi  primordi, da premesse non esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici» (Lettera  politica dalla Romagna, La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra,  Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste, intensificò, se possibile, la  collaborazione con la stampa repubblicana, massime con L’Iniziativa». L’infatuazione della  Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti  rivoluzionari (a cominciare da Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in  particolare, il quale - come si è visto - nutriva già una viva simpatia per le idee e per i  programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, l’articolo Mazzini e l'ora storica, Il  Popolo d’Italia», 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva tra l’altro sostenuto che tutti i sovversivi,  non schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o  intedescate», avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforzò negli anni di  guerra il proprio filo-repubblicanesimo.   " Cfr. RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future, L’Iniziativa»,  pur coadiuvando in tutte le contingenze l’azione collettiva, non intendiamo che si  È RA ERI F 16  debba tarpare le ali alle iniziative individuali e le minoranze    Il rispetto delle minoranze e delle singole individualità era stato a  fondamento dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il PARTITO REPUBBLICANO  avesse offerto le stesse garanzie politiche, nulla - concludeva  Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in esso di tutte le forze  dell’interventismo rivoluzionario, anarchici compresi'‘. Il progetto avanzato  da Rygier rimase lettera morta, ma il problema dell’unità tra le forze della  sinistra interventista si sarebbe ripresentato più volte, durante come dopo la  guerra. In ogni caso, quale che fu l’esito della sua proposta, il cammino  personale di Maria Rygier verso le “idealità nazionali” non subì inversioni di  rotta. Ella è al congresso nazionale repubblicano di  Roma.  Non ho ancora la tessera  disse in mezzo agli applausi dei congressisti  ma  voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza  nuova, perché ha disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul determinismo  economico più gretto. E noi torneremo al vostro Mazzini    L’ex madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a Mazzini, e quella  tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano l’ebbe in realtà  pochissimo tempo dopo!.   Il prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilità, il malumore ognora  crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla  propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli  interventisti rivoluzionari. L’esigenza di opporsi alla presunta opera  disgregatrice del neutralismo “socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza  molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu all’origine della  nascita e della diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per la  “resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia, gli  interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati il  e su  AI congresso giunsero anche i saluti di Gioda, che diceva di seguire con vivissima  simpatia il lavoro dell’unico partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano  sconvolto»; di Rocca, il quale auspica che l’assise repubblicana potesse porre le  basi per un sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più vasto d’idee e profondo di  sentimento»; e di Lotti. più delle volte in minoranza (tipico il caso del “Fronte Interno”, costituitosi a  Roma ad opera di forze prevalentemente democratiche,  che finì assai presto per essere egemonizzato dalle destre). L’interventismo  di destra, infatti, e in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla  radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico, prese  senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa azione delle  sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti scenari.  La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella, più o meno  consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei propri ideali,  dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari, che si riunì a  Milano. Pochi giorni prima dell’inizio di quel  congresso, Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande  perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo  spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e Austria,  agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a esempio  dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità, Gioda si era  augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di malcontento che  stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era detto convinto del buon  senso e delle virtù patriottiche del popolo italiano. Malgrado ciò, l’anarchico  torinese aveva avvertito la necessità di ribadire la ragionevolezza della  guerra in atto. La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perché  risolutiva» e perché avrebbe schiuso la via per maggiori conquiste, in un  ambiente europeo non più accidentato da agguati tedeschi e da barbarie  prussiana. Per la cronaca del convegno v. Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le  dichiarazioni del Congresso dei Fasci, L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La grande adunata  di Milano e la parola dei nostri compagni, L’Internazionale», GIODA, Perché questa guerra è giusta, Il Popolo d’Italia», 17 maggio 1916.  Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare  lettere quale fosse ormai il proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. Mentre il  mondo  aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione d’una rivoluzione decisiva per  l’avvenire dei popoli, è per lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di feste  di primo maggio per quella ascensione economica di classe che il proletariato non conquisterà  se non a condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni» (GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio, L’Iniziativa», 1 maggio  1916). Del resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da Il  Popolo d’Italia» del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non avrebbe  mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso  socialismo, se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto  risolversi, edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò, non  avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da valutare  secondo le circostanze. Nel caso contrario, l’organizzazione di classe sarebbe diventata fine AI convegno milanese presero parte Maria Rygier, che vi svolse una  relazione sul tema “Neutralismo e neutralisti”!’°, eRocca, in  licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece portavoce di una convinzione che,  in forma più o meno velata, cominciava a circolare anche tra gli interventisti  di sinistra: la convinzione, cioè, che il Governo dovesse adottare dei  provvedimenti, i più severi possibili, per eliminare il pericolo neutralista.  L’azione contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi:  positiva» e negativa». Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero  dovuto intensificare l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era  giunto il momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure  energiche alle provocazioni dei “nemici di dentro”. Noi afferma Rocca dobbiamo avere il coraggio di dire: contro i neutralisti  abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di  domandare che il Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace di  porre un freno. La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da lui  sostenuto alla vigilia della guerra in merito all’opportunità di una condotta  realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in risposta a quanti, in  a se stessa, e nessun alito di umanità e di generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso  nelle sue ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso Gioda -  non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini economici», ma un insieme  complesso di individui, formanti una comunità con più alte e profonde aspirazioni; ed era  pertanto inutile, sciocco e disonesto il ripetere al popolo che solo la lotta di classe lo  avrebbe dovuto interessare», ogni altro problema essendo problema borghese». Questi î  passaggi sono a nostro avviso di capitale importanza. E” infatti in questa visione dei  rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che  deve rintracciarsi il motivo dell’adesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle  ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per successive  corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del passaggio di molti di loro  dall’antisocialismo all’antioperaismo tout court.  In Il Popolo d’Italia» sati   !! Il Popolo d’Italia» riporta le adesioni al convegno di altri due  anarcointerventisti: Fanelli e Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo  qui per la prima volta, può esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è  giunta notizia. Il panettiere Fanelli è nato a La Spezia. Anarchico  convinto, che prende parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito (come lo descrive un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto), Fanelli è gerente responsabile de Il Libertario. Divenuto  interventista, fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di La  Spezia. Nel dopoguerra adere al fascismo, iscrivendosi al PNF. ACS,  CPC, Busta [Fanelli].Il Popolo d’Italia sede di discussione, avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente  l’operato dei Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore  realismo politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva  assumersi per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la  quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?.   Nei restanti due anni di guerra Rocca è, insieme alla Rygier, il  più attivo del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde egli venne ricoverato all’ospedale militare di Milano  per una grave forma d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei  mesi (rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di  dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione  politica’. Vede altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica  predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come attestato  dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro // Mare  Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni dei  nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un interesse  passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a segnare in modo  drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata - insieme ai temi di politica  economica. - la nota predominante dell’attività di Massimo Rocca nel  biennio 1918-1920. Nel febbraio del 1918, del resto, Rocca entrò nella  redazione del quotidiano milanese La Perseveranza», avviando, sulle  pagine di quel giornale, una serrata campagna a sostegno dell’italianità della  Dalmazia, campagna che gli attirò gli strali polemici di Salvemini. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362, [Rocca].  L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un attivismo capillare che non  disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione  indetta dal Fascio interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in procinto  di partire per il fronte. Cfr. Il Popolo d’Italia). Ancora la Prefettura romana annota che Rocca, pur conservando le sue idee sovversive»,  continua a svolgere attiva propaganda a favore della guerra. ACS, CPC, Busta [Rocca].  La posizione di Salvemini (espressa a chiare lettere nel volume La questione  dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di  nazionalità, e che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di  Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista settimanale,  L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal  canto suo, non risparmiò le critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per  l'onestà politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, La  Perseveranza). L’approdo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo Arrivabene, un  foglio di chiaro orientamento conservatore, non deve sorprendere. Infatti,  sebbene Rocca avesse già in passato manifestato simpatie per la destra, fu in  questo arco di tempo, compreso tra il congedo dalle armi e la fine della  guerra, che si consumò la sua definitiva trasformazione politica; fu allora,  per meglio dire, che l’ex anarchico maturò un completo distacco, non tanto  dal movimento libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni  residuo sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale,  passando attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,  Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso posizioni  che  semplificando - potremmo definire di conservatorismo “illuminato” sul  piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni produttiviste, sul  piano economico. In entrambi i casi, però, i legami con il fondo elitario del  novatorismo restavano evidenti. L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla .  sua personale convinzione di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla parte  nobile - più meritevole perché più capace - del popolo italiano (proprio in  quegli anni, d’altra parte, l’ex tipografo autodidatta compiva con successo il  suo ciclo di studi) '”, giunse in pratica al suo esito naturale. In questo  passaggio era già compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dell’istituto  monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza,  fino alla “trincea” revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di Rocca  non fu mai, nella sostanza, granché diverso dal suo liberalismo. Rocca aderì al “Comitato d’azione per la resistenza  interna”, sorto a Milano su iniziativa di Dinale allo scopo di  coordinare tutte le forze interventiste e d’infondere nuovo vigore alla loro  opera'??. In qualità di delegato di quell’organizzazione, Rocca partecipò al  secondo convegno nazionale dei Fasci d’azione internazionalista, convocato  a Roma all’inizio di luglio, il quale si concluse con l’approvazione di una Rocca conseguì la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla  facoltà d’ingegneria del Regio Politecnico di Milano. Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione patriottica, bene lo illustrava  un ordine del giorno votato a una riunione del Comitato: Reclamare dal.  Governo provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che  infestano il nostro Paese» (Il Popolo d’Italia). Alla fine del mese il  Comitato inviò un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche  l’azione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava un’azione draconiana contro  tutti i “nemici di dentro”. Il memoriale, pubblicato in parte anche da Il Popolo d’Italia» del  27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA,  Fascicolo [Movimento interventista].  sorta di documento programmatico dell’interventismo rivoluzionario!”?.  Nonostante il tentativo d’imprimere all’azione dei Fasci un indirizzo certo,  tanto sul piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le  grandi questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle  misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per così dire relativa  all’indole stessa del movimento) della salvaguardia della propria identità  rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle tensioni interne al  Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di Caporetto, con ciò che ne seguì, a  livello politico-militare come a livello emotivo, e la conseguente  demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe contribuito non poco a  mischiare le carte in tavola, spostando decisamente a destra l’asse della  politica interventista. Le divergenze tra le diverse forze dell’interventismo  finirono per appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi  riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine  della guerra. V. Il Popolo d’Italia  e l’articolo // Congresso Interventista di Roma in  difesa degli operai e della pace giusta, L’Internazionale» (l’organo  sindacalista parmense riprese le pubblicazioni dopo una sospensione di  quasi un anno). E° molto difficile, per l’assoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli  anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma è ragionevole credere che  la loro opinione non differisse da quella degli altri protagonisti dell’interventismo  rivoluzionario, sempre più orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza  importante, anche per l’estremismo del linguaggio usato, è quella di Edoardo Malusardi, il  quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali avanzata ai sindaci e agli  ‘amministratori socialisti da Lazzari (un gesto che, nell’opinione del segretario del  Partito Socialista, si sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe  potuto accelerare l’uscita dell’Italia dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano  perché facesse alfine giustizia di un così ributtante fenomeno di perfidia e di vigliaccheria (EMME, Son purl.). FASCISMO L’anarcointerventismo alla prova della nuova Italia  Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo nel caos del dopoguerra non  è impresa facile. Già nei mesi successivi all’armistizio, il blocco  dell’interventismo rivoluzionario cessò di esistere come un tutt'uno, per  disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la nascita di nuove  formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte i Fasci di  combattimento), aggiungeva imprevedibilità a un’atmosfera politica di per sé  già molto fluida. L’anarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per  sua stessa natura, una rigidità organizzativa e ideologica, non sfuggì a questo  processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha più molto senso, dopo Vittorio  Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in sé, è  tuttavia possibile  come si accennava nell’introduzione -, attraverso la  vicenda personale dei suoi maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i  segni nella politica italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti,  alcuni, come Gigli e Rygier, finirono per isolarsi  progressivamente dal gioco politico e per non avere che una parte di secondo  piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri, come Attilio  Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con il movimento  anarchico, rientrando a pieno titolo nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine,  Nel caso di Gigli, si può affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto  termine la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la politica,  tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima  guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti.  Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni successivi alla guerra la Rygier si  ivvicinò all’Associazione Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un  atteggiamento sostanzialmente ambiguo. È comunque costretta ad espatriare in  Francia, dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la sua  travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Muore a Roma.  (fr. FRANCO ANDREUCCI,  DETTI,  Paolinelli è arrestato con l’accusa di aver preso parte al complotto di  Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani e arditi, tentò  d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli  anarchici individualisti - a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione antifascista. come Gioda, Malusardi e Rocca, si guadagnarono  un posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,  quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda  all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel  prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in  relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare in  essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e coerentemente riconducibile alla doppia e complessa eredità dell’individualismo anarchico ©  riconoscervi, pur |  nell’eterogeneità delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non | e dell’anarcointerventismo, è però possibile  pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella tradizione. Nel  valutare l’apporto della cultura anarcointerventista al movimento  mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo trascurabile),    occorre poi tener presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un |    monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di Mussolini,    si distingueva piuttosto - come lucidamente nota Felice  nell’introduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per  essere una serie di stratificazioni»ì, un accumulo di passioni e d’idee    diverse, non di rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e |  contraddittorio universo che fu il primo fascismo, la vena. anarcointerventista, proprio in ragione della sua disorganicità  evidente nei  diversi orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -, costituisce inoltre, per  così dire, un modello in scala ridotta.   La storia dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in  ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia d’individualità, anche  se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi all’armistizio, si  verificarono, qua e là, sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della  corrente anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito, in  grado di misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal    rivolgimento bellico. A prescindere da alcune iniziative isolate, come quella |  partita da Domenico Ghetti‘, l'esperimento di maggior sostanza in questa |  È condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo  nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli].   i FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII.   4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de Il Popolo d’Italia», apparve un appello di Ghetti agli anarchici interventisti milanesi» perché facessero giungere la loro adesione alla  nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno  del 1919 la Prefettura di Milano, città nella quale l’anarchico romagnolo si era trasferito alla  fine del conflitto, lo segnalava tra i più accesi propagandisti dei principi mussoliniani» in  seno al partito» anarchico). ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti]. direzione fu quello tentato da Roberto D’Angiò. Nella primavera del 1919,  gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò si era trasferito a La Spezia a guerra  in corso) furono messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal  noto propagandista, nella quale si dava per imminente la pubblicazione di un  nuovo giornale anarchico d’ispirazione interventista.    Le concezioni di D’Angiò sull’anarchia  annota il 31 marzo il Prefetto di  Genova  non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente del  periodico anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto  deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale anarchico intitolato La  Protesta», che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione  avrebbe come programma l’illustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi  tempi sortiti in seguito all’opera di rivoluzione fatta dalla guerra”    Il prestigio che ancora ispirava il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre vivo,  delle dure polemiche d’anteguerra, indussero Il Libertario» a prendere  nettamente le distanze da quell’iniziativa.    Parecchi compagni da varie località  ammoniva il foglio di Binazzi - ci chiedono  spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò, colla quale si  annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a Spezia. Rispondiamo in  blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo non ha più nulla di comune cogli  anarchici di Spezia e tanto meno con noi del Libertario»®    Alla fine di maggio, Il Popolo d’Italia» - ormai organo ufficioso dei nuovi  Fasci mussoliniani - ospitò un accorato appello di D’Angiò a tutti i libertari  interventisti», affinché dessero il loro contributo, anche economico, alla  realizzazione de La Protesta».    Ciò che io desidero  scriveva D’Angiò, precisando il proprio punto di vista  è che  tutti gli anarchici d’Italia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano,  abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non è lecito star  zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo  reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le  nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci  opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri  anarchici” + Ibidem, Busta [Angiò]. Il Libertario»,Il Popolo d’Italia» IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA  Il primo numero de La Protesta» uscì. Noi  si afferma  nell’editoriale  facciamo qui una pubblicazione anarchica, né più né  meno». Come prima della guerra, dunque, obiettivo principale degli  anarchici interventisti era quello di rivendicare la propria appartenenza alla  famiglia anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero più che  mai propizi per una riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva  passare attraverso una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie.    Lo sconvolgimento europeo  sosteneva un anonimo articolista de La Protesta» -  ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici, che a costui predichiamo di  emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel passato, non seguire il sistema del  socialismo ufficiale, per il quale il numero, o meglio una somma di numeri, è tutto. Noi, nel rivolgerci alla massa, dobbiamo parlare all’individuo Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e nonostante i favori raccolti in  ambito anarcointerventista'’, il giornale di Roberto D’Angiò non sopravvisse    al secondo numero, e il suo fallimento convinse lo stessoAngiò a ritirarsi a vita privata.  Lo sforzo, tentato da Angiò con La Protesta», di connettere gli anarchici    interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente rinnovatrice del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli .  narchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu fecondo    anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso diretto con |    l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare brevemente. E’ nota, ad  esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso biennio, gli    interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di combattimento - guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le divisioni tra i due  schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano tuttavia i motivi    d’incontro, particolarmente la comune ostilità nei confronti dei socialisti    “bolscevizzati” e del loro inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e  “parolaio” (Malatesta manifesta a più riprese le sue riserve nei  confronti dell’esperimento leninista) '’. Sul piano puramente strategico non 8 La Protesta   ? Le coscienze volitive, Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni  - per un totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de La Protesta»  ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Gigli a Sarti,  da Fontana ad Senigallia. Cfr. /bidem.   È Angiò muore a Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto].   © L’iniziale cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasciò  gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del comunismo era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad un’intesa d’azione  in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la vicenda del progettato  tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto  estendersi da Fiume, occupata dai legionari di Gabriele D’ Annunzio, a tutta  la Penisola. Il piano, che vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in  Italia nel dicembre 1919, grazie all’interesse del segretario della Federazione  dei lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto  favorevolmente dalla stampa filo-fiumana), fallì, a quanto pare, solo per la  ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto  all’impresa'‘.   La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico del dopoguerra si  manifestò anche per altre vie e in altri modi, che, sebbene inconsueti, non  devono però meravigliare più di tanto, quando si tenga conto. della  multiformità delle posizioni all’interno del mondo anarchico. D’altra parte, il  processo di ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita  di connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la posizione  di Malatesta riguardo al bolscevismo è essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati  all’argomento. Una scelta significativa di questi scritti (originariamente  apparsi su Umanità Nova» e Pensiero e Volontà») si trova in MALATESTA,  Individuo, società, anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma,  Edizioni e/o, 1998.   ! Il 27 dicembre, Il Popolo d’Italia», che seguì con simpatia e partecipazione il rimpatrio di  Malatesta, rilevò, a proposito dei rapporti di questi con l’interventista Giulietti, ch’egli era  forse meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli apprezzamenti  dell’organo mussoliniano, in verità, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro valore  strumentale (al riguardo v. BORGHI). Del resto, l’infatuazione  del fascismo per il vecchio capo anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il  duro articolo Una leggenda che si sfata, in Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia, l’antibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato, dai   iornali fascisti, in aperta polemica con i “pussisti”. Su questi fatti v. FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel  carteggio Ambris  Annunzio. Tra gli esempi più significativi di questa sorta di diaspora anarchica dev’essere ricordato  quello degli anarchici triestini Andriani e Ukmar. Dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani e Ukmar (che sono membri di riguardo  del gruppo libertario “Germinal”, il più importante di Trieste) entrano nel Fascio Nazionale,  costituito dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione della città irredenta alla  madrepatria. Dimentichi di ogni divergenza di programmi  recitava il manifesto del Fascio  Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo  costituiti in Fascio Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad un’unione con la  Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!, La Nazione). Su Andriani e Ukmar v. MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il  dominio asburgico, Milano, Giuffrè La Testa di Ferro», l’organo dei legionari fiumani diretto dall’ardito e  futurista Mario Carli!’, che fu, per circa un anno, luogo d’incontro e di  confronto tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo politico e  certo anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a riviste  dal titolo emblematico, come Nichilismo» e L’Iconoclasta»!”. Attraverso  la rubrica “Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che iniziava le  Carli, nato in provincia di Foggia ma fiorentino d’adozione, è uno  dei protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del  giornale Roma Futurista» (Settimelli, Marinetti, Rocca,  Bottai, ecc.) è tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il futurismo politico, al  quale dettero un apporto considerevole gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano  degli arditi, si fece promotore dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), è decisamente orientato a sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani,  contribuendo altresì ad influenzarne gli orientamenti. Il programma dei Fasci di  Combattimento creati da Mussolini  commenta Roma Futurista» - è  sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le due istituzioni  finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E” lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei  combattenti. Sulla figura e l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Roma, Istituto  della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché il contributo di SCARANTINO,  L'Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12  ss. Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. FELICE, Mussolini  il rivoluzionario, GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalità e al  ruolo di Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia,  Ravenna, Longo. Li Nichilismo», diretta da Molaschi, uscì a Milano; L’Iconoclasta», fondata da Gozzoli, vide la luce a Pistoia. Cfr.  BETTINI, op. cit., ad indicem.   Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si veda l’articolo // mio  individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su L’Iconoclasta» (ma se ne potrebbero citare molti altri). Quale differenza  vi si legge  corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il patriotta che si fa uccidere pel suo  paese, e il sovversivo che cade evocando la redenzione collettiva? Nessuna! Nella stessa  guisa han perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile. Sono dei deboli. Essi non sentono la propria individualità che vuole affermarsi, godere,  vivere. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico. Vorrebbero  che mi sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare. Io che voglio bere il  profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare l’aere della Libertà  sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte. Io tanto superiore alla mediocrità. Io  lotto per me, unicamente per me. Sono al di la del Bene e del Male. In ogni caso,  posizioni di questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli (che -  come recitava il sottotitolo - era aperta a chiunque»). In un articolo significativamente  intitolato /ndividualismo o futurismo?, Berneri definì deliri letterari», prose pazze  e vuote», gli scritti di Villafiore e compagni, e pazzoidi» e megalomani» i loro autori, pubblicazioni, si aprì ai contributi di quegli anarchici  individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla retorica  “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano un’arma  potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un mezzo di  realizzazione personale"8.   In polemica con Umanità Nova» (il primo quotidiano del movimento  anarchico italiano, fondato da SUCKERT Malatesta), che guardava  con naturale diffidenza alla “rivoluzione” fiumana e alle velleità sovversive  dei futuristi”, Carli affermava recisamente il carattere proletario e  progressista del futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con  l’anarchismo. Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del  mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i carceri, il  papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, l’archeologia e i corrieri della sera, E°  per questo che, non potendo più accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né  avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla  concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo libero  e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini”  A sua volta, Marinetti, rispondendo a un anarchico che,  pur plaudendo all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno  dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!, invitava gli  anarchici a lasciarsi dietro le spalle il pessimismo vano», per aderire alla  lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti - che, mentre  gli anarchici erano tutti più o meno dei futuristi antipratici, platonici e  pessimisti», i futuristi erano degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un  campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cioè la patria. Tra gli anarchici collaboratori de La Testa di Ferro» si contava anche Ghetti,  responsabile dell’ufficio di corrispondenza del giornale a La Spezia.   !9 Si veda, in modo particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Damiani), in  Umanità Nova» CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, La Testa di Ferro Cfr. BrUTNO.   22 Ivi.   In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le edizioni de La Testa di Ferro»,  l'opuscolo A/ di là del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”. In  esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove, della  sinistra, e definiva le coordinate del suo individualismo futurista rivoluzionario. Vogliamo   afferma tra l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei  carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di  individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci». K }  Sisonialitga al quale facevano riferimento Carli, Marinetti e  u uristi de La Testa di Ferro» era il medesimo c  in l’individualista Abele Ricieri F.  ov. o ETTARI FRI 3  atore, descriveva come agilità volitiva,  poesia    i gli altri  he, in quello stesso meglio noto come Renzo violenza creatrice [  dl . »_ x . O . uo: 4  ca di ei o minoritario, puramente concettuale, pio  Ismo nietzschiano, che niente a 6  $ d F Veva a che veder  il movimentismo malatesti ì sconti  stiano, così pervaso di i È  i mala umanesimo, né con il  comunismo libertario di Umanità x i  ità Nova (col qual i, si i  munism i i quale, anzi, si poneva in netta  antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo storico  I primi contatti col fascismo. Chiusa questa parentesi, è dunque il momento di tornare alle vicende dei  protagonisti dell’anarco-interventismo in procinto di vestire la cami ta nese  di seguirne il cammino nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di  Rocca. i vandi.  In questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca è per lo più  rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd  dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità di  propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri Sebb  Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la vera.  Rocca non ne condivide le smodate mire imperialiste. Come si cilea dai  MANTRA TORE: Oltre ogni confine, La Testa di Ferro.  Bocea È, pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de L’Iconoclasta».  sponenti della corrente anarco-individualist: i È  Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri;  va in F. UN FIORE SELVAGGIO, Pi  A pr E; beds  seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di Cimmii o ui  fr vm Testa di Ferro, un certo Atomon ribade che i futuristi  Ri nino ma sh individualisti, bollando come anti-anarchica l'Unione Anarchica  ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i limi  e À comuniste, si limita a fare della  a, la vera anarchia non dove dare al i fattore economico dell’esistenza, ma rici i FI nat) ; ercare la perfezione dell’individuo nella vi i  sopra di ogni pregiudizio o di ogni do, Ò ITA a  opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo futuri  distinguere il gruppo di Umanità Ni i pic ae a  s ova» dal Partito Socialista, mostrando di ire i  primo al secondo, e define Malatesta, d i quaglie  do, lel I  morale», un agitatore e apostolo». - AE  Rocca è membro del “Fascio delle iazioni iotti  2€1 ro. dels associazioni patriottiche” e del “Comitat i  L'ing irredente” di Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca] Faggi  Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. suoi numerosi articoli per La Perseveranza», a cui continua a collaborare  fino a quando il mutamento della linea editoriale,  sopravvenuto a un cambio di proprietà, gli consiglia l’abbandono), la sua  posizione non anda oltre la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia, che  egli non dubitava essere geograficamente, culturalmente e politicamente  italiane. Una certa moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli impedì  di attaccare violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida  Bissolati, sia dopo l’intervista da questi rilasciata al Morning Post», sia  dopo il suo celebre discorso alla Scala?”. Rocca prende  parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e Dalmazia italiana”, che  fu la risposta data dai “dalmatofili” all’iniziativa del Zeader socialriformista,  comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il compito di sostituire  Mussolini, che preferì non intervenire per evitare incidenti»”8. Ai primi di  marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio lungo la costa orientale italiana,  da Venezia a Brindisi, giungendo quindi a Spalato, sulla sponda opposta  dell’ Adriatico. Dalla cittadina dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece  pervenire al suo giornale un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la  consueta e un po’ pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare  l'italianità della Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due  nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino”; quindi, all’inizio di  aprile, partì per Parigi, inviato speciale de La Perseveranza», a seguire da  vicino i lavori del congresso di pace”. Dopo il messaggio di Wilson agli  italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla capitale  francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti del  wilsonismo, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*”, abbandona 7 A questo riguardo v. TANCREDI, // ministro della piccola Italia, La Perseveranza», e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491.   Per la cronaca del congresso v. Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919.   29 Cfr. TANCREDI, La passione di Spalato, La Perseveranza», Cfr. Il Popolo d’Italia», e La Perseveranza», ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77.   32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega  latina, fondata sull’alleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo “imperialismo”  anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente americano, dicendosi  favorevole ad una partecipazione italiana alla Società delle Nazioni. Essa sola  scrisse -  avrebbe potuto garantire giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani  dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi» (LIBERO  TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, La Perseveranza). ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito dell’annessione, ormai  - a suo dire - l’unica via percorribile». AI congresso “per l'annessione di  Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a Milano, su iniziativa del “Fascio  delle associazioni patriottiche”, Rocca non lesina le accuse  a Wilson, denunciando il torbido retroscena bancario internazionale che si  nascondeva dietro la figura del presidente filosofo».   Da questo momento i toni della propaganda estera di Rocca si  fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo torinese  dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a prefigurare la  necessità di un imperialismo senza confini», qualora la crescente ostilità  internazionale e Ia fantastica corsa allo sciopero» all’interno del paese, con  i suoi effetti negativi sul livello di produzione, avessero a tal punto  danneggiato le esportazioni e fiaccato la ricchezza nazionale da impedire di  provvedere pacificamente all’acquisto delle materie prime indispensabili”.  Questi ultimi accenni alla situazione interna dell’Italia ci consentono di  soffermarci sugli aspetti più propriamente economici del pensiero di  Rocca. La sua visione economica, infatti, che rimarrà pressoché  inalterata negli anni a venire, si veniva proprio allora configurando come una  mistura di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano.  Così, a proposito della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca  esprimeva l’esigenza che ad essa si accompagnasse tutto un sistema  otganico di educazione ed istruzione professionale che accrescesse il  rendimento degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo  economico della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro  accresciute responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra  capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei  lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. l’estraniarsi dalla storia e  dal divenire sociale, dai problemi, dai doveri e dalla responsabilità  ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena compartecipazione al  ciclo produttivo, secondo il modello del sindacalismo nazionale. Quanto alla  borghesia industriale, suo compito doveva essere, da un lato quello di  comprendere il cambiamento introdotto dalla guerra, ossia di prendere  consapevolezza dell’ormai inscindibile legame tra politica ed economia;  dall’altro, quello di dimostrarsi autentica classe dirigente, in grado sia di  Audacia (appunti per l'On. Orlando), Il Popolo d’Italia TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un fenomeno d ‘impotenza, La Riscossa  Nazionale». Le otto ore internazionali di lavoro, La Perseveranza», ID., Assenteismo e collaborazione di operai e di industriali, opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia di provvedere  all’integrazione e all’educazione del proletariato”. Occorre che la classe  dirigente - scrive Rocca - od almeno i suoi elementi migliori,  comprendano che il loro ufficio non è solo di “resistere” o di “concedere”,  ma di persuadere e di guidare. Questo modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale,  nel frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti  e dei produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione  che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la “demagogia  bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai Fasci di  combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”. Questa  affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è però altrimenti  accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per tutto il 1919 - non  dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un grande interesse per  l’iniziativa di Mussolini. Di  Il Popolo d’Italia» lancia un invito  per la costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le  molte adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23 marzo,  ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il vecchio anarchico»  Vittorio Boattini (che si dice toto corde» con Mussolini, per le sante  bastonature interventiste ed anti-bolsceviche») Rivellini e  Ghetti. Gli anarchici coscienti  scriveva quest’ultimo al suo  conterraneo Mussolini  non potranno che aderire al vostro appello» “. i  Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu senz'altro presente Mario  Gioda, che aveva da subito aderito all’appello di Mussolini i Secondo Mario  Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato testimone diretto dell’accaduto, fa  riferimento alla cronaca de Il Popolo d’Italia»), vi avrebbe preso parte  Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919.   sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31.   "i olo d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT  i è nato a Meldola, nei pressi di Forlì. Manifesta idee anarchiche. Si trasfere a Milano, dove aveva a Li  collaborato a Il Grido della Folla». la Prefettura milanese scrive che,  avendo egli, durante la guerra, militato nel campo interventista, si dimostra un  fervente nazionalista, in tal senso svolgendo attiva propaganda. Il figlio di Boattini, pe  è per qualche tempo segretario politico del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta  679 [Boattini].   #2 Il Popolo d’Italia», anche Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso, in un  telegramma di adesione a Il Popolo d’Italia», si era detto dispiaciuto,  trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare personalmente,  limitandosi a garantire la sua presenza in ispirito», per riaffermare  recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il fatto che, anni dopo,  Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘, non è affatto  probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima ora, a  retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di coscienza. GIAMPAOLI, Roma, Libreria del Littorio. In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare Il Popolo  d’Italia), Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e  di Bologna. Il Popolo d’Italia Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e Commiato, in Audacia», 28 maggio e Degli anarchici interventisti che sposarono la causa fascista, uno fra i più intraprendenti è Arpinati. Il futuro gerarca, peraltro, adere al Fascio di Bologna a più di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio bolognese - nato  nell’aprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica -  Arpinati ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la notorietà  conquistata, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio di  Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed egli, che faceva parte del servizio  d’ordine, fu arrestato insieme ad altri cinquanta “camerati” (cfr. Il Popolo d’Italia»). È in parallelo con  l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio bolognese (culminata  con la fuoriuscita degli elementi democratici e di sinistra), che Arpinati iniziò una  spregiudicata ascesa politica. L’11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli  affidò la responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso fascista di  Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo direttivo del movimento (cfr. Il  Popolo d’Italia). Tra il settembre e l’ottobre successivi, Arpinati, complice  il subbuglio seguito all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria  riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare, guadagnandosi  il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più conservatori. Il Fascio di Bologna, così  ricostituito, accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di primo  piano, divenne una delle centrali dello squadrismo emiliano-romagnolo, rendendosi  protagonista di un’impressionante escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le  elezioni amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a Palazzo  D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei fascisti. Su tutti questi punti  v. TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio di combattimento: note sulle origini del  fascismo a Bologna, in Bologna Le origini del fascismo, a cura di Casali, Bologna, Cappelli, e ONOFRI, La strage di Palazzo  Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano, Feltrinelli, Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e operaismo A differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo gradualmente e  con un certo distacco‘, Gioda si gettò anima e corpo nella nuova  avventura. Due giorni dopo l’adunanza di Piazza San  Sepolcro, Gioda, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i  promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la  segreteria‘. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda -  come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva un ometto  dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito  marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si direbbe - che quello del  tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente prese sede nei locali della “Lega d’azione anti-tedesca”, un’associazione  patriottica di destra sorta ad opera del nazionalista Cian.  Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in misura  notevole gli ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire incontro  alle esigenze e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di far apparire il  fascismo come il legittimo rappresentante dei loro interessi) nacque  dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra, distinguendosi da  Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nell’accostarsi al fascismo fu  dovuta anche ai non ottimi rapporti tra quest’ultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto  granché in simpatia colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato,  obbligandolo, nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe  preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia  di un regime, Roma, Editrice La Rocca).  Cfr. Il Popolo d’Italia. AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di Torino, La  Stampa In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro Torino”, in Galleria Nazionale,  un'associazione patriottica di stampo sabaudo presieduta dal CONTE BARBAVARA DI GRAVELLONA. Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono  un’opera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del Fascio, il 29  marzo, l’anarchico “trincerista” Boario recò le adesioni dei gruppi fascisti del  Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle. Cfr.GIODA, Il fervido lavoro dei  fascisti a Torino, Il Popolo d’Italia)   La coscienza combattentistica di Gioda, benché inevitabilmente ammantata di retorica,  appariva sincera. Già prima della nascita dei Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si  era fatto promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di congedo  agli smobilitati, rappresentanti l’Italia più vera e coraggiosa, quella in grigio verde» (ID.,  Sino all'ultimo sussidio militare e l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919). PORT PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA       subito per le forti venature non solo antisocialiste”*, ma, spesso, antipopolari  tout court. Ciò divenne ancor più evidente dopo l’avvento di Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice piemontese  (cattolico militante e monarchico senza riserve», secondo la definizione che  egli da di se stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio alla metà di aprile, ne  divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La  convivenza tra i due uomini forti del fascismo torinese, così diversi per  indole, per estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivelò subito  molto difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra  l’ironia e la commiserazione, che Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha  lasciato di Gioda: un povero diavolo dalle molte vicende».   Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla  simpatia e dalla complicità dei ceti più tradizionalisti. Se Torino - come  rimarcava l’organo del nazionalismo piemontese - era stanca di essere  diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana»*, allora il  fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento  d’ordine, più che mai indispensabile» a svolgere una decisa azione di  vigilanza e di controbatteria»’”. Così, già alla fine di aprile, il Fascio di  combattimento poteva vantare l’adesione di ben 31 associazioni liberali  torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente  frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto delle destre valse a favorire la  graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. Il lavoro   Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto  efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino  riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al Fascio, di un ufficio [...] con mandato di  seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico»,  vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,  Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e  riservati (d’ora innanzi Affari gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino].  Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia,  »p.I/.   Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad nomen. VECCHI, La Riscossa Nazionale Cf. Il Popolo d’Italia», Al Fascio aderì anche il comitato “madri dei combattenti”, presieduto dalla contessa Eleonora  Contini di Castelseprio.   Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di un’occasione, sulle  pagine de Il Popolo d’Italia» (per il quale curava la cronaca di Torino), del trattamento  riservato ai fascisti torinesi dalle autorità cittadine, nonché della presunta campagna  diffamatoria della giolittiana La Stampa» nei confronti del Fascio di combattimento.  scriveva Gioda a Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del  Fascio - procede benissimo e tra molto entusiasmo». Il Fascio si è  imposto  confermava di lì a poco a Mussolini  e se noi non ci lasciamo  sfuggire il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!.   Ma qual era, in tutto questo, il vero ruolo di Gioda? Se egli era  senz'altro consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino  dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però  scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della  reazione antipopolare l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio  dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a quella,  più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e sempre  sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur difendendo il  carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad esso  accorressero tutte le forze sane, giovani, italiane», senza distinzione di parte  o di colore politico (perché il fascismo doveva essere  anarchicamente -  l’”antipartito”), teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo e  antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per dei nemici  del proletariato». Questa stessa esigenza fu da lui espressa al primo  convegno regionale dei Fasci piemontesi, all’inizio del giugno 1919%, e a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (d’ora innanzi MRF), Carte del Partito  Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta, Lettera di Gioda a Bianchi, Lettera di Gioda a Mussolini, MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di  Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, L'idea di antipartito era già da tempo al centro della riflessione politica di Mario Gioda.  L’avversione alle forme tradizionali di organizzazione politica, già tipica dell’anarchismo  individualista, trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e  antiparlamentari del dopoguerra. L’antipartito  aveva scritto Gioda    vuol essere il sunto della nausea che in Italia nutrono combattenti e produttori verso i  politicanti». Contro il feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi coll’elettamente  dinamica modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva suscitare  l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa iconoclasta e squisitamente anarchica»,  in grado di restituire dignità e centralità ai singoli individui (GIODA, L'antipartito, Il  Popolo d’Italia). AI di là dei riferimenti ai temi del reducismo e del  produttivismo, tipici dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e prossimo fascista  Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e individualista di una simile  impostazione di pensiero appare comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik  Ibsen uno dei padri spirituali dell’antipartito).   Sul concetto di antipartito nel primo fascismo v. GENTILE, Le origini dell'ideologia  fascista, GIODA, Aspetti del fascismo torinese, Il Fascio Cfr, Il Popolo d’Italia riaffermata poi in più di un frangente. Ad esempio, Il Popolo  d’Italia» riportava un’intervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto,  che l’autore stesso definiva un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel  campo dell’organizzazione e del socialismo italiano». L’intervista verteva  sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle otto  ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che l’approvazione, da  parte del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri» non poteva non  destare un senso di legittima soddisfazione», dal momento che vedeva  tutelati i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il fatto che poi, in occasione dello  “scioperissimo, il Fascio di Torino assumesse, nei  confronti degli scioperanti, una posizione di aperta sfida‘, non muta i  termini del problema, in quanto l’iniziativa dei fascisti era ancora indirizzata  contro la politica “irresponsabile” dei bolscevichi (ed era pienamente  condivisa da tutti i partiti della sinistra interventista) e non contro la totalità  dei lavoratori!”.   E’ però vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente  sbilanciato a sinistra‘î, Gioda - come ricorda Felice - espresse  qualche perplessità, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta  pregiudiziale istituzionale. Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio  Longoni - è rimasto male poiché ha intravisto tra le riforme anche quella  definitiva della monarchia. Forse è necessario mettere i puntini sugli “i” e   Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in quell’occasione, faceva intendere senza  mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela  dell’ordine, onde salvare il paese dal tragico caos bolscevico». Allo stesso tempo, il  manifesto ricordava ai lavoratori che nessun partito socialista ufficiale aveva scopi  violentemente innovatori come i Fasci di combattimento, e di immediata attuazione. Sullo “scioperissimo” a Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. La  Stampa». L’atteggiamento dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato dalle  lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava alla  redazione de L’Ardito», il giornale dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a  Mussolini (che ne definì la lettera un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna  intenzione di subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro, il sindacato a  cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul posto di lavoro (Il Popolo d’Italia). Su Il Giornale del mattino» del 30 luglio (organo ufficioso del Fascio  bolognese, diretto da Pietro Nenni) comparve una lettera non meno polemica del ferroviere  Arpinati. Secondo il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica  proprio in occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna, il  20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i colleghi favorevoli all’astensione dal  lavoro (cfr. NANNI programma, elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la  rappresentanza integrale, fu reso noto da Il Popolo d’Italia», chiarire i nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di  Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri  interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in netta  preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua lettera a Longoni  un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato  le vicende successive alle elezioni politiche, non aveva rinnegato il  proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi dettate da  considerazioni di ordine strategico e in questo senso, piuttosto che in quello  di un suo personale mutamento di rotta, devono essere interpretate le sue pur  numerose concessioni alla destra.   La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto con la  sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti  riformisti), si presentò con sempre maggior forza in previsione delle elezioni  politiche dell’autunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il  movimento fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo romano  a ridosso del voto) ”, ma che, a Torino, prendeva un significato particolare.  Già il primo agosto 1919, in una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda  definì l’eventualità che si addivenisse a un blocco elettorale di tutto  l’interventismo di sinistra  la soluzione preferita da Mussolini - una sterile  palla di piombo»”!. E’ chiaro che Gioda pensava a salvaguardare l’unità del  Fascio da lui guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non  avrebbero mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i  propri obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de La  Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per le ripetute  dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i  fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in quella china”. Gioda,  consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi,  intervenne a dissipare le perplessità dei “destri”. Mussolini  sostenne -  esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta,  almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale fascista.  Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali  di sorta. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose alla  decisione, votata dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di aderire alla  “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai liberali di destra e dai nazionalisti (cfr.  Dichiarazioni futuriste sulla situazione elettorale romana, Roma Futurista», 2 novembre  FELICE, Mussolini il rivoluzionario RAVA, Posizione di battaglia, La Riscossa Nazionale», 3 agosto 1919. Se fuori dal Fascio  affermava Gioda - stimo politicamente certi nazionalisti di  indubbio valore e intelligenza, al Fascio io non ne conosco nessuno. Così come  ignoro repubblicani, monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI  Fascio, che non può essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un  dato programma di realizzazione immediata. Tra parentesi, sono stato proprio  io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista, e Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio” Ora, ciò che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto uno  scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il carattere  antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica della  vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel caso  specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche misura)  anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di significato,  d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità rappresentata dal  fascismo rispetto alle categorie politiche d’anteguerra, richiamasse tuttavia la  propria identità di anarchico, e non già come semplice attitudine o abitudine  mentale, ma come un dato di fatto politico. In ogni caso, chiarito che il  fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda  poté confermare che il Fascio di Torino avrebbe davvero costituito l’asse  per una grande intesa degli interventisti» in vista delle elezioni; ma che  questa. sarebbe appunto avvenuta fascisticamente», fuori dagli schemi  destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal colore della tessera di  partito».   La “marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di  Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di  unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore di  in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta Italia), nel  quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di sinistra e di destra, dai  repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava di un entusiasmo passeggero,  che avrebbe ben presto ceduto il passo a una più grande incertezza.GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, tai Ip., Gli aspetti del fascismo torinese, cit.  Nel corso di un’adunata del Fascio torinese alla presenza del segretario politico  generale del movimento Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero  battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr. Il Popolo d’Italia Cfr. Il Fascio. Dal congresso fascista di Firenze non venne affatto, contrariamente alle  aspettative del segretario del Fascio torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo  defilato), un’indicazione univoca in senso elettorale. Alla relazione di  Bianchi, fautore di una linea politica possibilista (la politica del  “caso per caso”), fece da contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in  modo non esplicito, lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire  l’accordo con le sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del  giorno compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli  Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra, finì  per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella sola  Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una lista  autonoma) 7”.   I deliberati del congresso di Firenze, nella loro elasticità, andavano  sostanzialmente nella direzione auspicata da Gioda, il quale, libero da  condizionamenti di sorta, poté rivolgersi alle forze politiche torinesi con  l’invito ad abbandonare le fazioni» e a dar corpo ad un potente fascio di  energie», in funzione antibolscevica e antigiolittiana”. Per questa via si  addivenne infine alla costituzione di un “Blocco della Vittoria”, peraltro  chiaramente orientato a destra, quanto meno nella sua composizione. Ne  facevano parte, infatti, radicali, liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali  alcuni membri del disciolto “Fascio Parlamentare” (Daneo, Sull’occupazione di Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista v. VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo Dalla fine  della guerra all'impresa di Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, LEDEEN, D'Annunzio a Fiume, Bari, Laterza, PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, e OSTENC,  Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a ANNUNZIO, La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, Cfr. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni (per la cronaca v. Il Popolo d’Italia). Vecchi entra a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza dei  Fasci piemontesi.   Di tale lista faceva parte Edmondo Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di  combattimento di Milano al momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori  della sede dell’ Avanti!. La sua candidatura  scriveva Il Popolo  d’Italia»  significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per  formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione. Nella lista dei Fasci egli  rappresenta l’operaio onesto e che non usurpa il nome di lavoratore». Mazzucato risultò 14°,  su un novero di 19 candidati, con 56 voti di preferenza. GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, Il Popolo d’Italia», 24 ottobre 1919,  e Il Fascio», Bevione e l’ex Presidente del Consiglio Boselli), mentre il  Fascio vi era rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il generale  Etna, già comandante del corpo d’armata di Torino (deposto su  ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli alpini Garino e il capitano Revelli”. L’Unione Socialista Italiana, che in un  primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se ne tirò fuori quasi  subito, per far causa comune con i repubblicani nella “Alleanza Elettorale”®°.  A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto di aver imboccato una  strada a rischio. Si nota infatti, nella sua attività politica prima delle elezioni,  la preoccupazione ricorrente di non far apparire la lista del “Blocco della  Vittoria” troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo  illustrativo per Il Popolo d’Italia» - era la più organica», la più  rappresentativa anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un  contenuto sociale notevolissimo»? In particolare, egli rimarcava ancora  una volta che il fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i  lavoratori nel loro insieme, ed operava altresì una netta distinzione tra  “pussisti” e socialisti rivoluzionari.    Un accenno alla lotta contro il bolscevismo  scriveva Gioda a commento di un  passo della piattaforma elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse, da  Cfr. Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919.   AI “Blocco della vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione Nazionale  Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel corso di un'assemblea del Fascio,  Gioda critica duramente la scelta dei combattenti, non tanto perché non ne  condividesse le ragioni ideali (la volontà, cioè, di non compromettersi nella lotta  parlamentare), quanto, piuttosto, perché la riteneva controproducente sul piano tattico. I  fascisti  disse Gioda  hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare, ovunque e  comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo  originale autografo del discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare il  carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale fascista. ACS, MRF,  Esposizione, Busta[Documenti].  Il Fascio  commentava a questo riguardo Gioda  non ha potuto far blocco con l’Unione  Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non tanto per divergenze programmatiche, quanto  per la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe  impostare la campagna elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo. GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, Il Popolo  d’Italia). Il programma elettorale del Blocco della Vittoria. Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria” figuravano:  l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema  doganale (per abbattere parassitismi e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione  obbligatoria contro l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma degli organi  legislativi che garantisse alla classe lavoratrice [...] una diretta e specifica rappresentanza». nisticntiititnm parte dei redattori del programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”.  Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario  sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da  Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo  rivoluzionario. Le elezioni del 16 novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei  fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file del “Blocco della Vittoria” i soli  Bevione e Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riuscì Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino. Rispetto alla vera e propria  débacle registrata dal fascismo in altre parti d’Italia, non si trattava di un  esito disastroso, ma occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non  ottennero alcunché (Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo  parlamentare giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne,  sottolineava il rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di brillante  risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di una  ben magra consolazione . su   In verità, la sconfitta bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento  all’interno del Fascio di Torino. Si riunì l'assemblea  generale dei fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo  Ruggeri, spalleggiati da Gioda, criticarono l’involuzione conservatrice del  Fascio, sostenendo la necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori  delle fabbriche??. Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiara Per l’esattezza, il “Blocco della Vittoria” riporta 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti  unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dell’Aratro, i 10.093 del Partito  Economico, i 6.547 dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro  esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. La Stampa». GIODA, / risultati elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, Il Popolo d’Italia», 28  novembre 1919.   #5 Cfr. Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l  Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala  operaista del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni è ben testimoniato da un suo discorso  al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo più di  socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza rivoluzionaria e  proletaria del programma fascista, evidenziandone le differenze ma anche le affinità con  quello socialista, in ciò rivelando il timore  comune anche a molti altri fascisti - che una  troppo accentuata politica antisocialista potesse condurre all’isolamento del movimento  fascista dalle masse. E’ significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante le  aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con gravi incidenti tra fascisti Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che oggidì occorra molta, ma  molta circospezione prima di avventurarsi ancora in altri blocchi, se non vogliamo  [...] negare sempre la nostra giovinezza d’idee e la nostra combattività a beneficio  dei vecchi partiti e dei vecchi loro rappresentanti. Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio, eletta subito dopo,  entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri, Cantinetto e Giraudo) L’allargamento della base del Fascio - come auspicava Gioda  (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire la  ripresa, in vista di nuovi cimenti» e di più gagliarde lotte politiche e  sociali»**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e credibilità a sinistra  restò senza seguito. L’assenza di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un  movimento operaio forte e, a Torino più che altrove, schierato su posizioni  di avanguardia), le irrisolte contraddizioni della politica fascista - rese ancor  più stridenti dalla nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le  resistenze della destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe più  opportuno parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima  metà del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di ristagno, per  non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le sorti”,  tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu la  costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”, In  occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel maggio,  Gioda pronunziò un importante discorso, che, sebbene non si discostasse  granché da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un nuovo  mutamento di prospettiva politica, nel senso di un’attenuazione delle velleità  operaiste. L’insuccesso della linea di sinistra propugnata da Gioda e il  prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un indirizzo e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta  112 [Fascio di Torino].  80 Il Fascio», cit.  n Cfr. Il Popolo d’Italia», 25 dicembre 1919.  Di GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi.   AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss.  2 bt “Avanguardia Studentesca” torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta  dallo studente d’ingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, già membro della nuova  Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. Il Fascio. Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra fascismo e  associazionismo giovanile, l’opera più circostanziata rimane quella di NELLO,  L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra del  fascismo torinese. Ancora nell’aprile, in risposta della grande agitazione dei  metallurgici (il cosiddetto “sciopero delle lancette”), un manifestino del  Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il  bolscevismo - che aveva corrotto l’idea socialista di giustizia e di libertà» -,  per stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali erano per le più ardite  riforme e le più audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non  significassero la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!. Nel  discorso del maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo dire)  dal piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con un’accentuazione  dei temi più strettamente produttivistici. I fascisti  dice Gioda  sono delle volontà e delle capacità che seguono direttive senza dogmi e senza battesimi politici. Per questo sono, all’occorrenza, rivoluzionari  e conservatori. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo  sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere è  una bestia da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica  possono asservire. La questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’ una  questione innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance rivoluzionarie e  parlamentari. E” una questione di volontà superiori maturate attraverso l’esperienza  produttiva di tutte le energie nazionali”?    Gioda prese parte al secondo congresso nazionale fascista, che si riunì a  Milano, quello della svolta a destra e della   °! ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti].  Il Fascio, cit.   Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato anarchico e  repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza però tralasciare di considerare che la  disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo  fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei Fasci  piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda, commentando la relazione di  Umberto Pasella sulla questione sindacale, difese il principio, in essa affermato, della  legittimità dello sciopero economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte,  un cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per Gioda, non  dovevano essere organizzazioni di guardie bianche o comitati di difesa civile» e avevano il  dovere di battersi per qualsivoglia riforma, sia pur audace», quando essa avesse arrecato  beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto caro  all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese auspicò la trasformazione del  movimento politico e sindacale fascista in un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF,  Esposizione, Busta [Documenti]. Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €,  più in generale, sugli orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo. GENTILE., e soprattutto NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista,  Bologna, Il Mulino, conseguente trasformazione del movimento”. D’altro canto, l’ingresso di  Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi,  rappresentò - come ha sottolineato Felice - l’unico successo  dell’ala sinistra del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul piano  nazionale non corrispose però il rafforzamento della sua leadership  nell’ambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il  rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta  affermazione della destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere la  Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la propria  influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia costringevano Gioda  a forzati periodi di assenza dalla scena politica cittadina. Da questo  momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo, di cui Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua  espansione’. Gioda, dal canto suo, recuperò il proprio ruolo soltanto a  I nuovi “Postulati” programmatici del movimento fascista, approvati a Milano,  modificavano radicalmente  in senso conservatore - il programma fascista.  Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta dell’assemblea  costituente (l’anarchico Ghetti, rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i  pochi a pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo,  Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonano il movimento. Per il resoconto del congresso v. Il Popolo d’Italia», e Il Fascio. Sull’intera vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario Cfr. Il Fascio». Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo  torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita un’assemblea straordinaria  del Fascio per decidere circa l’atteggiamento da assumere di fronte alla crisi di governo.  Caduto il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti l’eventualità di un esecutivo affidato a Giolitti: una soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso  dell’assemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni  intesa con i giolittiani, definendo un’ingiuria alla nazione vittoriosa» il rientro sulla scena  nazionale dell’uomo politico di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i  fascisti di Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata  assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro  Giolitti, Il Fascio). Di fronte alle resistenze incontrate all’interno del  Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire  l’accordo con Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di  affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a convocare la nuova  assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo della Commissione Esecutiva. Su questi  avvenimenti v. MANA. Con l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le violenze  fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del settembre contribuirono a  legare il fascismo torinese agli ambienti del grande capitale (che si erano visti minacciare nei   setter cirrretricdatietnttittztt sac, allorché assunse la direzione del nuovo  settimanale del fascismo torinese: Il Maglio. Rocca: il fascismo come nuova élite    AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo Rocca. Le sue  conclusioni non dovettero dispiacergli, se è vero - come ha lasciato scritto -  che egli non si era entusiasmato all’originario programma sansepolcrista,  giudicandolo troppo impeciato di socialismo. Ma Rocca, sia pur attento  osservatore delle traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un  giornalista. Inizia le pubblicazioni la rivista  settimanale Il Risorgimento». L’intendimento della redazione, guidata dal  conte Arrivabene, ex direttore de La Perseveranza», era chiaro: occupare lo  spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo la sua  conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse le idee e le  aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne divenne uno dei  più continui e più stimati collaboratori, le credenziali dell’ex novatore  anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite. Sulle pagine de Il Risorgimento» Rocca riprese la polemica adriatica. E’  indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu proprio su tale delicata  questione che si venne realizzando l’incontro definitivo tra Rocca e  Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza,  scagliandosi contro la Lissa diplomatica», cui, a suo parere, la politica dei  rinunciatari avrebbe condotto il Paese”. Quasi nello stesso tempo, tuttavia,  prese ad emergere, dai suoi scritti, una posizione diversa, più conciliante e  realistica. Di fronte alle mille difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla  Jugoslavia alle rivendicazioni italiane, Rocca si persuase che la sola via loro interessi e non si sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul  iano dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Il Maglio», fondato dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel   gennaio, evolvendo dal quotidiano La Patria», un foglio interventista vicino ai nazionalisti.   Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la   rubrica “Senza guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin), una finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide impegnato in schermaglie a   distanza con la stampa avversaria, in particolare con Ordine Nuovo», organo del PCdI   torinese.   9 Massimo Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura TANCREDI, La lingua nostra, Il Risorgimento», Milano,  d’uscita fosse quella dell’applicazione integrale del patto di Londra del 1915.  Consapevole che ciò sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che  pure aveva avuto una breve esperienza come legionario dannunziano) !° si  disse convinto che la città, confinante con un'Italia signora del Carso, delle  Alpi Giulie, dell’Istria e dell’ Adriatico», si sarebbe sentita infinitamente più  forte», che se fosse stata abbandonata, senza continuità territoriale, ad una  larva di sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta autoproclamazione di Fiume  in stato indipendente, Rocca si rafforzò nella convinzione che l’Italia non  dovesse legare i propri destini a quelli della città “martire”. In un articolo gli elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione  fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano d’Annunzio. Noi - scrive Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dell’annessione di Fiume  all’Italia. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi, l’Italia non può  contemporaneamente annettere la città del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra:  anzi, che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell’ Adriatico e contro gli Alleati,  l’eroica passione di Fiume è più d’impaccio che d’aiuto. Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro  (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate sul  piano dell’ordinamento politico), non ne scalfiva l’opinione che la  reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle aspirazioni  internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano era, in ogni  caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato 100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi  Rocca, giunto a Fiume subito dopo la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi,    durante i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera di D’Annunzio. A Fiume si erano  ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali Mazzucato e Malusardi.   !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, Il Risorgimento», 20 maggio 1920.   !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa. In particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta d’Ambris e messa in bello stile d’Annunzio) fosse sancito il dovere di produrre,  quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte questo, egli  condivideva l’abolizione del Senato e l’istituzione di un camera tecnica, espressione delle  diverse corporazioni professionali. Le corporazioni, secondo Rocca, erano l'istituto  fondamentale», il solo in grado di raccogliere e disciplinare» le masse e di dar loro una  norma e un’idea». (ID., La costituzione di Fiume). Nondimeno, al  di là delle convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore  di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano. Sulla  costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi d’Ambris e d'Annunzio, a cura di Felice, Bologna, Il Mulino, eli ita tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro  colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi interventi  su Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo italo-jugoslavo,  Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito dei negoziati!”. Si  trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso calcolo  politico (in questo modo il “duce” avrebbe realizzato il suo inserimento nel  gioco politico-parlamentare a livello nazionale») ', che disorientò la  maggior parte dei fascisti ma trovò consenziente Massimo Rocca. Il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si  riunì per discutere della questione. Rocca, presente come semplice  osservatore (e perciò senza diritto di voto), si schierò apertamente dalla parte  di Mussolini, imitato dal solo Rossi. Il Trattato di Rapallo - dice  Rocca - risolveva il problema adriatico dal lato di terra, mentre lasciava  insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a  quest’ultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero far buon viso a  cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo e soprattutto senza  assecondare improbabili disegni di sedizione militare. Non si trattava -  sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi espresse negli articoli di  Mussolini!” - solo di una ragione di opportunità, in quanto il problema  marittimo per l’Italia non si fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno  sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico  obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione più ampia dei  problemi di politica estera.    O noi  concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni  d’Italia e facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure persuadiamoci  che impiantare una politica estera armata accanto a quella ufficiale, senza essere  capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe forse essere un male gravissimo  MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, Il Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e  Ciò che rimane e ciò che verrà, .   Su questi fatti v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e  fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento. Il  Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana, Il Popolo d’Italia», Gli italiani  scrive Mussolini nel suo fondo   non devono  ipnotizzarsi sull’Adriatico. C'è anche  se non ci inganniamo  un vasto mare di cui  l'Adriatico è un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilità vive  dell’espansione italiana sono fortissime. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit. Dopo accese discussioni, la riunione terminò con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, largamente compromissorio, che, se snaturava  completamente la primitiva mozione di Mussolini»! apparendo come un  successo della corrente filo-dannunziana, in realtà non andava oltre una  generica dichiarazione di solidarietà a D'Annunzio e non comprometteva  affatto la strategia del duce, come gli avvenimenti delle settimane  successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del “Natale  di sangue”, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la riunione del  Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver votato contro  l’ordine del giorno (come aveva fatto Rossi) solo in quanto non ne  aveva legalmente» diritto, riconfermando la propria solidarietà al duce. Da quel giorno Rocca entra a pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non  soltanto, infatti, riprese la collaborazione con Il Popolo d’Italia» (per il  momento continuando ad occuparsi del problema adriatico, sempre  nell’ottica mussoliniana) !'?, ma iniziò l’ascesa politica che, nel giro di pochi  mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di  Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta  dal fascismo all’indomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli  era andato sviluppando posizioni sempre più conservatrici. Nella sua  riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed  economico attraversato dall’Italia andavano rintracciate, oltre che  nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi governanti, nell’irresponsabilità delle  classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e dedite allo  sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di un  gaudentismo sfarzoso e gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca - il  dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre  politiche che mettevano a repentaglio l’integrità della produzione. A fronte  di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente il dovere di resistere e di    FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1 ’intesa italo-jugoslava - recita l’ordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro  Marsich, De Vecchi, ecc.) - era insufficiente per Fiume», nonché deficiente ed inaccettabile  per la Dalmazia».   !!! Il Popolo d’Italia !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello  marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre  1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal  titolo // trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nell’estate  del 1921 per le edizioni de Il Popolo d’Italia».   !!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, Il Risorgimento  Gli articoli citati facevano parte delle rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca è il  principale curatore.  vincere»"!, ma troppo spesso paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti,  burocratici e parassitari, assolutamente non in grado di comprendere i  fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico industriale»!!5. Il  nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, nella  perdurante e anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la  classe borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre  l’economia andava sempre più controllando la politica, fino ad imprimerle le  sue necessità e direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva rispondere con  la rivoluzione della competenza»: la rivoluzione della classe borghese. La  borghesia produttiva, la sola capace di gestire con criteri tecnico-  produttivi» tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva  l’obbligo morale di realizzare un rivolgimento aristocratico» della società  italiana. Solo così, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando  effettivo sarebbero tornate in mano ai migliori, anziché ai molti, ai capaci e  ai competenti». Alla borghesia, finalmente consapevole della propria  autorità, sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in  questo processo la parte migliore e più responsabile del proletariato”. In  attesa che ciò avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a  suo modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema  economico, a cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. Se si  vuole che si lavori  scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo  dell’interesse e del puntiglio individuale, alla precisione ed all’accrescimento  delle responsabilità singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano;  all’abolizione radicale dei privilegi di cui godono i funzionari  pubblici»!!8,   Dopo l’occupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure  “draconiane” contro gli eccessi del bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un  governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di  reintegrare il pieno dominio della legge», senza indulgere a pietismi    TANCREDI, Scioperi politici. L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza dei metallurgici torinesi.  ROCCA, La crisi maggiore, ID., La disperazione dei servizi pubblici, si  In seguito, Rocca tornò più di una volta sulla convenienza di restituire ai privati l’esercizio  dei servizi essenziali (si veda, a titolo di esempio, l’articolo / servizi che non servono il  pubblico). La privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini  del programma economico fascista, elaborato da Rocca con Corgini. Cfr, ID., La vertenza dei metallurgici, democratici. Come si rileva da un articolo Rocca pensa a  una qualche forma di “dittatura”; a un uomo nuovo», che avesse già fornito  prova di volontà e di giustizia», il quale avrebbe potuto far cessare l’orgia  di tutti i disordini. Non è chiaro se egli si riferisse direttamente a  Mussolini, ma è molto probabile. E’ comunque significativo - come si evince  da quello stesso articolo - che Rocca ritene l’assunzione dei pieni poteri  una soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata  l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo,  ma solo in quanto strumento temporaneo dell’azione politica fascista, utile a  frenare le prepotenze e le intemperanze dei rossi, Quando la violenza  fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe  indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro l’estremismo  squadristico, in difesa della legalità. Non riteniamo esservi contraddizione  nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da  Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo la “marcia su Roma”.  Certamente, egli non seppe o non volle vedere la gratuità e la scelleratezza  delle violenze fasciste del periodo “eroico”, e, in senso più ampio, che quelle  violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica, visione  connaturata all’essenza stessa del fascismo, che nello squadrismo (e prima  ancora nella mentalità squadristica, esprimente non soltanto un disegno  rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale) aveva  il proprio stile politico qualificante‘; ma occorre tener presente che Rocca  si poneva, appunto, dall’angolo visuale del fascismo, vale a dire da una  prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da  guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie  nere fosse la risposta più che legittima alla violenza antinazionale dei i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920. In un commento a margine dell’assalto a Palazzo D’Accursio guidato dalla sua ex guardia  del corpo Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo  squadrismo. I fascisti  scrisse  costituiscono oggi un comodo paravento per scusare alle  masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono anche un pietoso alibi per  giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al codice penale non ancora abolito, una  propaganda ed un’azione da veri delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la  violenza delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno atroce»  (Ip., Bologna, Sulla violenza come aspetto caratterizzante della cultura e dell’azione politica fascista v. il  fascicolo n. 6, 1982, di Storia Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,  particolarmente il saggio di NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo  nazionalrivoluzionario, Dello stesso autore v. anche le riflessioni in merito  contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit., e Liberalismo,  democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, Pisa, Giardini, “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa al potere di Mussolini,  reputando esser venute meno, con la sconfitta dei socialcomunisti, le ragioni  dello squadrismo, fosse in buona fede nel denunciare il perdurare  dell’illegalità fascista.  Rocca consolida la sua già rilevante posizione  all’interno del movimento fascista. Un suo articolo in difesa  della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il giornale di Mussolini,  contribuì a rinfocolare il dibattito circa l’orientamento istituzionale del  fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a tutela  dell’istituto monarchico, non solo per motivi di opportunità strategica (una  rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco le forze del  sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del Paese e del fascismo  stesso), ma anche in ossequio a più complesse valutazioni politiche  (monarchico di ragionamento, si autodefine Rocca molti anni dopo) 1a,  che investivano l’intero assetto della realtà nazionale. La società economica e politica che va sotto l’appellativo convenzionale di  borghese - scrive Rocca - si è capovolta nel suo contenuto produttivo ed  ideologico. Economicamente essa è sindacalista e non più individualista: tanto  che l’economia tende ad assorbire la politica, compresa quella estera. Se una  rivoluzione è matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da  arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di forza se  divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed operai, e gli organismi  sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi. La funzione dei  Parlamenti è oggi totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi  erano le rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui il  popolo rispecchiava se stesso. Oggi il Parlamento [...] è diventato pur esso una  casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie. E allora resta da  chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di  fronte una sola casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche  quella monarchica, per usare dell’una qual mezzo di controllo e di pressione  sull'altra. ROCCA, La realtà italiana, ABC.  ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, Il Popolo d’Italia» (anche in  ROCCA, /dee sul fascismo).  L'articolo di Rocca, scritto in forma di lettera a Mussolini, fa parte della rubrica  “Orientamenti e discussioni”, inaugurata da Il Popolo d’Italia» in previsione delle adunate  regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale del movimento nel gennaio,  avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee  orientative dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui  era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate rispettivamente da  Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e Pasella, concernevano il problema agrario, i A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta  emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione  di Rocca. Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver  rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,  riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così come,  più tardi, avrebbe riscoperto l’importanza etica del cattolicesimo) Del  resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni psicologiche e  di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca espresse il  convincimento che l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale,  d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che l’ascesa e l'emancipazione,  come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi, un’auto-ascesa,  un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento. Era dunque necessario -  chiude Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo inequivocabile la  matrice individualista della sua cultura politica) - “tornare agli individui” e  farla finita una volta per sempre con il culto demagogico della massa. Malusardi: il mito del fascismo libertario”    Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di Malusardi.  Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale Combattenti!?”,  rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti  chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe  luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci  “ i combattimento, Il Popolo d’Italia. ROCCA, Una questione da non risolvere, Il Risorgimento. La questione menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca riteneva non dovesse  essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il  proprio carattere di universalità. L’articolo conteneva un giudizio altamente positivo della  funzione storica e persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e  la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E’ probabile che quest’interesse  fosse da attribuirsi ad un’autentica conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in  seguito, Rocca pare interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento di autorità  e di disciplina interiore.  te ID., Quarto e quinto stato. La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3  marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse doveroso, oltre che utile, “educare” il  proletariato, così da poterne estrarre un nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado di  cooperare con la borghesia alla gestione della produzione. Spintovi dalla passione trincerista, Malusardi adere entusiasticamente all’ ANC  (per qualche tempo ricoprendo la carica di redattore capo de L'Eco della Vittoria», organo  della sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso  nazionale di Napoli perché contrario ai ventilati propositi di trasformazione Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con Il Fascio» e  (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale) una altrettanto  frammentaria attività di propagandista per conto del Comitato Centrale  fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove era  stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa  anche quell’esperienza Malusardi giunse a Verona,  chiamatovi da Italo Bresciani, segretario politico del locale Fascio di  combattimento (nonché ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare  l’ala di estrema sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e  apprezzava le doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di  segretario propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè  l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo un  maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come prima  cosa Malusardi dette vita a un giornale (Audacia»), che doveva  immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero, contribuendo al  graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera. Egli, in particolare, vi  affinò le proprie qualità giornalistiche, rispolverando tra l’altro una rubrica  dei tempi de La Guerra Sociale» (“Foglie d’ortica”), che divenne un punto  di riferimento importante nella dialettica politica cittadina. Come si è detto,  Malusardi proveniva da Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla  fede repubblicana e a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni  libertarie, retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la  Carta del Carnaro e il sindacalismo nazionale di Corridoni  il suo compagno di trincea - e Alceste De Ambris. Nel Fascio veronese,  dell’Associazione in partito. A parte i suoi articoli per L’Eco della Vittoria», per lo più  improntati al tema dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di Malusardi in  seno all’ ANC non è agevolmente documentabile. Anche sulle date dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza. Il  Fascio» riporta un avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle  Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere con la Segreteria  Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più l’incarico di segretario propagandista  del Comitato Centrale, in quanto, già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città  “olocausta” Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista La Conquista», del quale non ci è  stato possibile reperire una collezione (lo stesso Felice, dal cui Sindacalismo  rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa  informazione, cita da fonte indiretta).   n Bresciani, classe 1890, già convinto militante anarchico, è fra i promotori del  Fascio veronese di azione internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta [Bresciani]. Cenni alla formazione sindacalista di Malusardi si trovano in MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico  Commerciale, PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE PP decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale per  portare avanti le proprie idee. Si riunì a Venezia l’adunata regionale dei Fasci del  Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del movimento  Umberto Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi ebbe  modo di esporre il proprio programma. Riguardo alla controversia  repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio che i fascisti si facessero  portavoce di un fiero atteggiamento antimonarchico». La monarchia  sabauda affermò aveva tradito in più di un’occasione: prima della guerra  perché favorevole al “parecchio” giolittiano, durante perché colpevolmente  “latitante”, dopo perché sostenitrice della politica rinunciataria di “Cagoja”  Nitti, a Fiume perché’ complice della repressione sanguinosa    dell’insurrezione dannunziana'”.  Noi, che siamo repubblicani e libertari  concluse Malusardi - in determinati  momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia sembrava essere gettata  nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma quando una monarchia  esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che si commettono nel suo nome, non è  per noi che un anacronismo inutile e ingombrante! AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani presentarono un ordine    del giorno repubblicano, che raccolse però soltanto nove voti (quanti erano i delegati del Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione  Pasella, rivendicante il carattere antidogmatico e antipregiudiziale del  fascismo» in materia di regime. È sulla questione sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che  Malusardi ottenne i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema  dell’organizzazione sindacale era oggetto delle preoccupazioni della  dirigenza fascista. Nel novembre del 1920 era sorta infatti la Confederazione  Italiana dei Sindacati Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati  autonomi, d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come si  usava dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera vicenda, Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, Audacia Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a precisare l’essenza libertaria del proprio   fascismo Pi n toda re: 4 det H rado   In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente anti-operaio. Poiché la UIL, il  sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del sindacalismo fascista, era  se l’azione sindacale dovesse avere natura politica oppure apolitica, vale a  dire se i Sindacati Economici dovessero agire in stretto accordo con i Fasci  di combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al contrario, se  dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di agire  nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la più ampia autonomia. Nel  suo intervento al convegno veneziano, Pasella afferma che i fasci dovevano  ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi -  facendo così intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati  Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate “caso per  caso”. Infatti  rileva -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli  scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però opporsi alle legittime  richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano un più ampio diritto alla  vita, e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con gli  interessi superiori della Nazione. Le preoccupazioni operaiste di Malusardi  si rivelarono ancor più manifestamente allorché egli dichiarò che, quando i  lavoratori avessero saputo dimostrare una capacità tecnica intellettuale ed  una preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e  delle officine», i fascisti (che non dovevano essere la guardia bianca di una  classe, ma i difensori della Nazione») avrebbero dovuto riconoscere loro il  diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine del  giorno votato dall’adunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte  relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali  recita - i  fascisti, pur non condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di  prendere posizione “volta per volta”, in base alle circostanze. Anche in materia di politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze  dalla linea ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale  di sangue”, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato  D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a  Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma di momento di misurarsi direttamente nel campo dell’organizzazione del lavoro. I nuclei  sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo più di  modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo  sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma il  16 febbraio, dalla fusione dell’ Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine a  questi argomenti v. principalmente CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti, Roma-Bari, Laterza, e ERFETTI, // sindacalismo fascista.  Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo, Roma, Bonacci, La grande adunata fascista di Venezia, feticismo» e non esitò a rimproverare al “duce” di aver ingiustamente  sacrificato Fiume sull’altare della ragion di stato”.  Le prese di posizione di Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero severe  critiche da parte sia di Pasella, sia di Freddi (il segretario  generale delle Avanguardie studentesche), che gli rimproverarono di fare  della demagogia. In un fondo per Audacia» Malusardi, quasi lusingato di  aver suscitato tanta apprensione nei piani alti del fascismo, replicò ai suoi  detrattori con queste parole:    Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E’ un aggettivo che non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati è prodigalmente distribuito a  tutti coloro che si permettono di pensare con la propria testa Riaffiora - come si può notare - lo spirito polemico che aveva    contraddistinto il giovane anarchico nei giorni dell’interventismo;  riaffiora, soprattutto, l’orgoglio individualista, la presunzione di sentirsi |    fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma anzi compiacendosi) di essere tacciato  come “eretico”. Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni su Audacia», Malusardi è comunque indotto a dimettersi dalla carica di segretario propagandista del  Fascio di Verona. L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza, respinse all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti veronesi apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato  di dimostrarlo, già in occasione dell’appuntamento elettorale. Queste affermazioni di Malusardi sul “feticcio” Mussolini rimandano significativamente a  quanto Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il  fascismo. Per provare poi annota Rocca - che non tutti i primi fascisti erano  mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi tutti,  e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedicò  all’organizzazione operaia, come Malusardi ed altri. Degli anarchici di cui  mi ricordo nessuno è stato squadrista, nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma,  parecchi anzi si ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta    a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un uomo; la mentalità di questi anarchici era  l’antitesi di quella dei socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano l’intransigenza settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale solida e indipendente»  (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura MALUSARDI, /n margine all’adunata, Audacia», cit.   L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia al nostro  direttore. Dalle elezioni alla “marcia su Roma  Le consultazioni generali, mercé l’inclusione dei Fasci  di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso  del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare italiana. Una riunione straordinaria del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche  Mario Gioda) ratificò la decisione  che Mussolini aveva preso già da tempo  - di dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze “nazionali. Il  giorno successivo, a un’assemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca    difese la legittimità di quella scelta.    Non è colpa nostra dice se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e i  comunisti malgrado il rosso di cui s’incipriano, ci hanno imposto di scegliere fra  l’Italia com’è, con certe sue caste dirigenti e le incapacità e le brutture che ne  derivano, e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla  Russia. La nostra scelta è dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni  costo, in qualunque modo l’Italia. Però sia ben chiaro con questo che noi non  rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma conservatore e  rinnovatore nello stesso tempo. Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta  contro la proprietà e il capitale improduttivo, quando è tale veramente e non secondo  le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della  Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] né contro  lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le  funzioni di cui s’incarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e  collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘ Del pari, a Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica bloccarda,  giustificando l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo con l’esigenza di  salvare l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del Cfr. / Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, Il Popolo  d’Italia Su questi punti v. soprattutto FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, Torino, Einaudi, 1! n Popolo d’Italia», Rocca riprende questi concetti in un saggio per Il Maglio», intitolato Arrestare la dissoluzione.  La decisione del Fascio milanese fu salutata con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. Il programma dei fascisti e l'adesione al Blocco, Il Corriere della Sera. Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, Il Popolo  d'Italia. Nel corso dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda faticò a  imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle perplessità della sinistra interna  che   (Ai li A A ici    Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò tutt'altro che agevole. I fascisti torinesi inaugurano la  campagna elettorale con un comizio di Rocca. Gioda annunciò  l’avvenuto raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune  condizioni poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento,  l'Associazione  Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito  Socialriformista, 1’ Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e  l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasciò  trapelare la possibilità che il Blocco comprendesse anche l'Associazione  Liberale Democratica, tenendo però a sottolineare come la fermezza  antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo dell’azione politica  fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell’ Associazione  Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare  dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a Torino, dove un Blocco  che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità di  affermarsi ed era perciò nell’interesse dei fascisti non tirare troppo la corda.  Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda definì  “penoso” e “difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco, con    l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così, non soltanto i fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda  lamentasse l’ingerenza immorale» da parte del Governo, il Fascio accolse il    veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura dell’ex  parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile dell’Ufficio i  egli personalmente condivide  riguardo all’opportunità di far blocco anche con gli odiati    giolittiani, il segretario oppose la necessità di far fronte all’avanzata delle forze antinazionali i    e, riprendendo un concetto proprio dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò il    carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere né radicali, né liberali, né anarchici», |    ma solo fascisti, uniti nell’interesse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta  elettorale, Il Maglio» Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale a Torino, Il Popolo d’Italia, 15 aprile 1921, e  Un poderoso discorso di Libero Tancredi, Il Maglio», 16 aprile 1921.   Rocca si dimostrò, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo  l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio inaugurale della  campagna elettorale fascista (cfr. Il primo comizio elettorale a Milano, Il Popolo d’Italia).  Queste prevedevano: schede elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che  comprendesse la valorizzazione della guerra e della vittoria, l’assistenza ai combattenti, la  tutela dell’italianità all’estero; il riconoscimento dell’opera di salvamento nazionale compiuta  dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la difesa e la  valorizzazione dell’impresa fiumana e dalmata; la lista bloccata» GIODA, Un primo    accordo fra i vari partiti a Torino. Sarà possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti. Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi unici candidati fascisti  Vecchi e Rocca, che  fa così il suo ingresso nella lotta elettorale. Dove la linea bloccarda incontra fortissime resistenze fu a Verona. Il 10  aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della  provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non  avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero  compromessi in un’alleanza elettorale con le forze della borghesia moderata  e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello  schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese, arrivò a  definire l'eventuale accordo con i fascisti una necessità sacra») ‘’, il Fascio  di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disertò il Blocco.  Così, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono  una lista autonoma!‘’. Va detto che Mussolini non negò il proprio assenso  all’operazione e che anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si  congratulò con loro per aver agito fascisticamente», giacché, ove  mancavano certe elementari condizioni di probità politica», occorreva non bloccare ma sbloccare. Cfr. Ibidem. pl so  Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per non compromettere la formazione e  Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile rinuncia dell'On. Giretti). la candidatura di Rocca è particolarmente spinta da Gioda. Rocca  scrisse  quest’ultimo, presentando l’amico agli elettori torinesi è stato un novatore e un divinatore.  Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo è Stato  scomunicato quale eretico dai pontefici rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I  candidati fascisti). “   Cfr. Audacia A questo proposito v. anche / fascisti veronesi lotteranno da soli, Il Popolo d’Italia. I DTA  148 La costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico:  fascisti a voi!, Arena», 24 aprile 1921. : i  fo La composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion  fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il generale  Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare Piovene, l’ex parlamentare  Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor  Alberto De Stefani (che risultò l’unico eletto). Cfr. Audacia» i   150 11 Popolo d’Italia», 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche  in MussoLINI, Opera omnia, a cura di SUSMEL (si veda) e SUSMEL (si veda) Susmel, Firenze,  La Fenice).  Mussolini si reca a Verona per la campagna elettorale e riconfermò  l'apprezzamento per la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle  urne. Cfr. Il Popolo d’Italia. Rocca figura dunque candidato fascista a Torino. La  Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia  decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse    Il Popolo d’Italia» - conferiva un tono e un colore patriottico e passionale  alla listay. Rocca espone le linee del suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il  maggio, in una serie di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi  (importante soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di  Competenza) Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma  tecnocratica della rappresentanza parlamentare. Una riforma seria e duratura scrive - dovrebbe consistere nel riconoscere  l’impossibilità della politica astratta, l’immoralità parassitaria dei politicanti  puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le  sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che fanno  e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie elettorali l’incarico di  eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di più, per affidarlo alle collettività ed ai  nuclei organizzati sulla base di un’attività specifica a profitto della vita sociale,  attività alla quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile  allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero parte alla  Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è competente: e i  Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e  meno le disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli. A questo intervento ne seguirono altri, più specifici (una sorta di vera e  propria piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca suggellava i  princìpi fondanti del suo rinnovato credo politico: libertà economica,  decentramento, rispetto della legge. L’economia liberista - argomentava  Rocca nel primo di questi articoli programmatici - veniva accusata di essere  caotica, anarchica, antisociale ed egoista, ma ciò non rispondeva a verità,  poiché il vero liberismo non si risolveva nell’individualismo fine a se stesso.  Esso, infatti, trascende e comprende tanto l’individualismo quanto  il collettivismo; racchiudeva, cioè, tutti i sistemi di vita, tutte le forme  economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe in  atto dalla società umana. In altri termini, il liberismo era l'economia  spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al liberismo  significava, né più né meno, tornare all'economia naturale della vita  Cir. / candidati per il Blocco, Il Corriere della Sera». ne Il Popolo d’Italia» ROCCA, La riforma fondamentale, Il Risorgimentosociale», al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'”. Le  affermazioni di Rocca in materia economica, come del resto l’intero suo  pensiero, avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo  senso, non v’è dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti  moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere  quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja  definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita  economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-  individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilità anarchica verso  lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva emergere là  dove Rocca, nella seconda parte del suo “manifesto” elettorale, additava la  necessità del decentramento amministrativo e politico quale condizione  essenziale per una maggiore libertà e una miglior gestione delle risorse  nazionali. Nel terzo ed ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della  legalità. La legalità  scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto  esercizio della libertà, la quale, se svincolata da regole e da limiti  preordinati, si risolveva in un non senso, una negazione di se medesima,  attraverso l’arbitrio individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi, non  sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la  disciplina, in tutti i settori della vita civile e politica: disciplina di governo,  di vita pubblica, di nazione, di vita privata». Disciplina era anche sinonimo  di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare Ia gerarchia  in ogni campo», affinché il valore cosciente» tornasse a primeggiare sul  numero. L’articolo terminava con l’auspicio che finalmente, in Italia, fosse  ristabilita la legge contro tutti !59, i  Simili affermazioni imponevano equanimità di giudizio; imponevano, in  altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata contro gli  scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle camicie nere.  In futuro - come si accenna - Rocca non avrebbe esitato a prendere  posizione contro la perdurante illegalità fascista; ma allora anch’egli riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che  legittimo di lotta politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo  articolo su Il Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di Ritorno all'economia) y  “Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il 6 maggio nei  locali dell’Associazione Commercianti Industriali Esercenti di Milano (cfr. Il Popolo  d'Italia» ROCCA, Ritorno alla semplicità, Il Risorgimento». Ritorno alla disciplina. a A mm PPTIPONI    violenza fascista a Torino (l’assalto e la devastazione della Casa del Popolo),  Rocca lo definì una sacrosanta vendetta» contro il dispotismo comunista,  dopo mesi e mesi di longanimità»!?. In circostanze misteriose, l’operaio fascista Odone è assassinato da un militante comunista. All’alba del giorno  seguente, bande armate di fascisti prendeno d’assalto la Casa del Popolo. Nel  terribile conflitto che ne segue restarono gravemente feriti tre comunisti e un  studente fascista di Reggio Emilia, Maramotti, che muore poco  dopo in ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti,  sono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli squadristi -  riporta La Stampa» - impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle  fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati  dall’assalto fascista sono stimati intorno ad un milione di lire!°. Nei giorni  successivi, l’autorità giudiziaria ordina il fermo di nove fascisti, tra i quali il  segretario della sezione torinese dell’Associazione Arditi, Bruno Ricolfi,  mentre gli stessi Gioda e Vecchi sono denunciati con l’accusa d’istigazione e complicità morale (senza peraltro che la denuncia  sorte alcun effetto). Non è affatto chiaro se Gioda è coinvolto nella  decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto rifere il  Prefetto di Torino Taddei al Ministero – è organizzata  prontamente e nel massimo riserbo), ma appare evidente dal suo  comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse  prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un   ll  Che cosa è “già” il controllo operaio a Torino, Il Popolo d’Italia. Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, “La Stampa Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente  Giona, Un fascista  mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, Il Popolo d’Italia», 27 aprile 1921,  e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista, L'Ordine Nuovo Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, La Stampa» L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo  (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli assalitori, ma gli  avevano persino assecondati (cfr. Come è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro  di Torino, L'Ordine Nuovo). Il comportamento delle guardie regie fu  oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta, voluta  dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari avessero preso le parti degli  squadristi, ma accertò altresì - come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la  deplorevole negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine, dimostratisi incapaci di  fronteggiare adeguatamente e con fermezza d’animo l’offensiva fascista. ACS, MINISTERO  DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 112 [Fascio di Torino].  Cfr. Il Popolo d’Italia».    !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., cit,  aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo senso,  accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento coessenziale  imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un esempio di  questo ambivalente stato d’animo si trae da un articolo di Gioda di poco  precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione subita da GRAMSCI (si veda) ad opera di alcuni squadristi, il segretario del Fascio  torinese define sacrosante le ritorsioni fasciste contro le vili  imboscate e la violenza liberticida dei pussisti, ma, al contempo, vivamente deplora quell’episodio, del quale non comprende la  necessità. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla Casa del  Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa la reale  portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza dei fatti, che  essa aveva avuto natura anticomunista ma non antiproletaria tout couri n  Fino a che punto Gioda fosse consapevole della contraddittorietà della  propria posizione non è dato sapere, ma è certo che egli non aveva la forza  sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva ormai al suo  controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi. All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35  seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una lunga intervista a  Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso parte  alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura alla presenza di re Vittorio Emanuele III, il duce risponde. IL FASCISMO NON HA PREGIUDIZIALI MONARCHICHE O REPUBBLICANE -- ma è tendenzialmente  repubblicano. In ciò differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono  GRAMSCI (si veda) è aggredito all’uscita dalla sede di one   Nuovo». Il leader comunista non sube in realtà alcuna violenza, mentre l’ardito del  polo Torrero, accorso in suo aiuto, resta gravemente ferito. Cfr. Ibidem.  GIODA, in tema di violenza, Il Popolo d’Italia. E   Che Gioda non nutre molta simpatia per gl’eccessi degli squadristi è me provato   dall’impegno che egli mise nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c pipa Lo recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo   pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis   e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò ! urgenza li ata  fine una buona volta» a quella fosca teoria di violenze, destinata ad attizzare MEA ‘odio  olitico» (ID., Un monito opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921).   to Ip., Un rilievo opportuno dopo l'incendio vendicativo. Rocca non è eletto. Soltanto 18° su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza  (cfr. Il Corriere della Sera», 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE  35,282 voti a Torino città e 88.670 nell’intera circoscrizione (cfr. La Stampa»). pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterrà  ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale!$ Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente  tutto l’ambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti Fasci,  è stabilito di rimandare ogni decisione in merito a una riunione congiunta  dei deputati fascisti, dei membri del Comitato Centrale e dei segretari delle  Federazioni regionali, al Teatro Lirico di  Milano. Tra i Fasci dove la questione ha un'eco maggiore vi sono  quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di Audacia» (poi  rivendicato da Malusardi) fa giungere a Mussolini il consenso dei fascisti  veronesi. L’originario programma fascista - vi si legge - quello di piazza  San Sepolcro, intransigentemente repubblicano, è stato purtroppo messo in  disparte, mentre è giunto il momento di rinverdire lo spirito rivoluzionario  del fascismo. Le dure apostrofi dell’organo fascista destano viva  apprensione negl’ambienti moderati di Verona, al punto che, rispondendo  all’articolo di Audacia», il liberale Carli lascia addirittura  intendere che la borghesia veronese non esita a difendersi con le  armi da un’eventuale insurrezione repubblicana fascista. L’assemblea generale del Fascio si chiude con l’unanime approvazione di un  ordine del giorno Malusardi.  Il Fascio Veronese di Combattimento  recita il documento - richiamandosi alle  origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la propria  incondizionata solidarietà con Mussolini nella tanto dibattuta questione della  tendenzialità repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti facciano parte anche di altri partiti. Dopo che la riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno  successivo, si fu risolta in un nuovo compromesso (una soluzione molto  confusa e contraddittoria», secondo la definizione di Felice Il Giornale d’Italia, L'intervista a Mussolini fu riprodotta anche da Il Popolo d’Italia Sulle conseguenze dell’intervista di Mussolini v. FELICE, Mussolini il ‘fascista, Cfr. NOI, Cose a posto, Audacia», CARLI, Difendo il Re, Arena, Audacia», FELICE, Mussolini il fascista, che eludeva l’essenza del problema, Malusardi non nascose il proprio  malumore e manifestò la speranza che il prossimo congresso nazionale  sciogliesse definitivamente il nodo dell’indirizzo istituzionale del fascismo.  E? ora di finirla  scrisse tra l’altro di vedere e liberaloni e nazionalisti e  rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file coll’unico scopo di  rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è ora di finirla anche con  questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il nostro programma e  mascherano gretti interessi individuali o di classe»!”?.   La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a Torino, dove portò a  un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in  un’intervista rilasciata a un quotidiano locale, dichiarò che i deputati fascisti  del Piemonte avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale. Per testimoniare il proprio dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si  dimise dalla carica di segretario politico del Fascio di Torino e dalla  direzione de Il Maglio»'”. La Commissione Esecutiva del Fascio, riunitasi  il giorno seguente, ne rigettò tuttavia le dimissioni, inviando altresì un voto  di piena, assoluta solidarietà» al “duce”. In un articolo di commento alla  vicenda, Gioda, rinfrancato dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si  lasciò andare a valutazioni ottimistiche. Nessuno  scrisse - aveva il diritto di  meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini. Ben  più strano, infatti, sarebbe stato se il fascismo, il giorno dopo le elezioni,  fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o sorvolare su una  delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di essere un movimento  tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce” - secondo Gioda - era  giunta a proposito, così da smontare una volta per sempre la favola di un  fascismo antiproletario e incatenato al servizio della borghesia agraria e L’ordine del giorno approvava l’operato di Mussolini e decretava la nascita del gruppo  parlamentare fascista, riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta  reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale. MALUSARDI, Vogliamo il congresso nazionale!, Audacia». Cfr. La Gazzetta del popolo. Nel corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in guerra  dell’Italia, il futuro quadrumviro riconferma quanto dichiarato il giorno prima al quotidiano  torinese (cfr. Il Popolo d’Italia»). Nelle sue memorie, De Vecchi si  compiacerà di ricordare che Gioda, nell’ascoltarne il discorso, era diventato sempre più  pallido, finché, esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr.  VECCHI). Cfr. Il Popolo d’Italia», cit.   In conseguenza dell’abbandono di Gioda Il Maglio» sospese le pubblicazioni per quasi un  mese. Cfr. Il Popolo d’Italia», industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana e  libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse in buona fede.  Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza nella  situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello nazionale,  ed erano, perciò, fatalmente destinate a soccombere.   Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo l’assemblea del  Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non edulcorata, de  Il Popolo d’Italia» - si risolse in un duello personale tra Gioda e De Vecchi.  Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un ordine del  giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del programma politico  fascista) che, in definitiva, suonava come un’attenuazione della linea  intransigente sostenuta da Gioda'”. La riunione al Teatro Lirico, nel corso  del quale De Vecchi non mancò di fare una manifestazione di fede  monarchica»!?8, confermò la vittoria dell’indirizzo moderato.   A distanza di pochi giorni De Vecchi prese l’iniziativa - del tutto personale -  di convocare un vertice dei segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose  all’invito e non si recò all’incontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che  riuscì a far passare una mozione rivendicante il più assoluto agnosticismo in  materia di regime. L'assemblea conferì a De Vecchi l’incarico di designare il    nuovo direttore de Il Maglio» e la scelta, com’era logico, cadde su un uomo    di sua fiducia, l’avv. Ruella'” Torna a riunirsi la Commissione  Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda volta, lasciando  capire di non aver intenzione di recedere dalla propria decisione'*°. Dieci    giorni più tardi, un’ennesima assemblea straordinaria dei soci del Fascio ‘|  provvide all’insediamento di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua volta, riunitasi il 4 luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo di  De Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, già comandante della legione  dalmata a Fiume Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un | la disciplina fascista, All’assemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia  intervenire nella discussione.   LOI ‘imponente convegno fascista a Milano. Cfr. Il Maglio Cfr. Il Popolo d’Italia  La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano degli arditi Mario  Gobbi. Cfr. Il Maglio», e Il Popolo d’Italia,   I membri della Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei.  Cfr. Il Maglio», GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari. Per mese, tuttavia, mercé i contrasti suscitati dal patto di pacificazione nel  frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mutò ancora una volta. Il 6  agosto, a riprova della gravità della crisi, Il Maglio» interruppe nuovamente  le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una  settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, l’assemblea generale fascisti torinesi votò la nomina di un’altra  Commissione Esecutiva.   La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi. Si svolge un’adunata provinciale straordinaria dei Fasci e dei  Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema  dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli,  contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro  Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad  autonomia “ridotta”, si oppose l’idea di Malusardi, per il quale, mentre la  prima rivelava chiaramente la qualità di agrario» del suo suggeritore, la  seconda era troppo generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il  fascismo doveva adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto  nel “testamento politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità  dell’adunata furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico  all’interno del Fascio veronese, per motivi di salute e non politici. Al  riguardo mancano purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua  decisione, anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, più  o meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai  suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un uomo tutt’altro che  dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da parte e che,  persuaso della bontà dei propri convincimenti, riaffermava la propria  indipendenza di giudizio. Su tutta questa vicenda v. MANA. Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva già espresso il proprio  punto di vista in un precedente intervento su Audacia». I sindacati - aveva rilevato -  dovevano mantenersi il più possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano  rinunciare al sostegno e alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi  interessi padronali. Come fino ad oggi aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono  serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi serviranno per prelevare a domicilio  quei proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente. MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici, Audacia). Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani  d’intesa con il presidente dell’assemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale),  per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici nazionali», aventi autonomia  finanziaria e politica. Ho sempre pensato scriveva Malusardi - come meglio mi è parso. Non ho mai  avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte  venissero. Perché io non sono di quelli che marciano sulle rotaie dell’anchilosi  cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade. Sempre ho    irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono d’aver la privativa  dell’infallibilità. E interessante, in questa lunga “confessione” di Malusardi, il modo in cui  egli tornava ad illustrare la propria concezione sindacalista. Il tono e i contenuti - come si può vedere - non erano granché mutati dai tempi de  L’Agitatore. Benché sono [sic] orgogliosamente individualista affermava - fui tra le masse  lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o creda nella  elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualità e  delle minoranze intelligenti e volitive, capaci d’innalzarsi realmente ad un più alto  livello di comprendonio e di personalità. Poiché io non dimentico che la storia è  sempre stata scritta dagli individui e dalle minoranze. Il sindacalismo, quale io  lo intendo è individualista ed è una realtà avveniristica nella quale predomina il  “mito” della singola responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un continuo  superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo  statali rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di tutti!8*    Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dall’evidente sapore  programmatico.lo non sarò mai per il conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera  bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo e  pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver  molto contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina e  ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento fascista! n definitiva, l’allontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il  suo temporaneo “esilio” in provincia - pareva dettato, più che da cattive  condizioni di salute, da valutazioni di opportunità “ambientale”. Egli, del  resto, non abbandonò affatto l’attività politica. Al congresso provinciale  MALUSARDI, Commiato A seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di Audacia» fu ereditata da Grancelli. fascista, Malusardi è infatti presente in rappresentanza dei  piccoli Fasci di Legnago e di Cologna Veneta, figurando altresì quale  segretario generale della Federazione fascista intermandamentale del basso  veronese. In quel frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole  al patto di pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, per ragioni di  ordine nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti  a favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Bernini, del  Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto.  Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese  manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi appoggiasse la strategia  distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche possibile desumere dalle  sue future prese di posizione in tema di violenza, Malusardi riconosceva il  bisogno di una “tregua d’armi” con le sinistre (la sua intransigenza sui  principi non dev'essere confusa con l’estremismo squadristico), ma è anche  presumibile che egli mirasse in parte a recuperare credito agli occhi delle  gerarchie!”, Tra l’agosto e il settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa  opera di propaganda a sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la  provincia di Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a  collaborare con Audacia», di cui riassunse la direzione, poco tempo prima del III congresso nazionale fascista Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo Rocca, benché, in un articolo di poco precedente alla firma del patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta  di un eventuale accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica  aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna, Il  Risorgimento). Dopo che l’accordo fu denunciato - in conseguenza dei gravi  incidenti scoppiati al margine de! III congresso nazionale fascista -, Rocca attribuì la  responsabilità del suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una  pacificazione Su tutte le questioni connesse al patto di pacificazione v. FELICE, Mussolini il  fascista. Audacia A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato Centrale, mentre  rimproverava a Grancelli e agli altri dirigenti del Fascio di Verona, il loro semplicismo  politico», si disse piacevolmente sorpreso che l'ex anarchico Malusardi» condividesse  l’iniziativa di Mussolini per la pacificazione (MARINONI, Dopo il Congresso  Provinciale). In preparazione dell’assise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si  radunano a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dell’annunciata trasformazione del  movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello  dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi dei ferrovieri  fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilità  di un sindacalismo integralmente fascista, si andava vieppiù riconsiderando la funzione dei  Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche di autorevoli Il congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il 10  novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo Rocca.  Questi si preparò all’appuntamento con una serie di articoli d’indubbio  interesse, nei quali  per la prima volta in modo compiuto - formulò la sua  proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di Rocca, i Fasci  avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di avanguardia politica e  ideale, come lo era stata la Destra storica cavouriana. La vita politica  italiana, costretta in avvilenti compromessi, aveva bisogno di un eccesso di  spiritualità», tale da bilanciare l’eccesso di politicantismo mercantile» che  la sommergeva; e solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi  della cultura e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe  potuto svolgere questo compito di equilibrio e di correzione». In quella  tradizione risiedeva del resto un grande insegnamento realistico e morale»  dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che non le  masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo» e che il progresso  consisteva nel succedersi di aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non ne  dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di  rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come forza  politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di sovversivi,  alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il proprio passato.  Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati  Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e  rappresentavano la tendenza filoproletaria» del movimento: una tendenza,  sia pur degna del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici  della sinistra, plasmando una sorta di demagogia fascista», non meno  deprecabile di quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva esponenti della gerarchia fascista, da Bianchi a Grandi, da Rocca allo  stesso Mussolini (su questi punti v. CORDOVA). Al congresso  veronese Malusardi si pronunciò contro la costituzione di sindacati prettamente fascisti» e  difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale (la tesi patrocinata a livello nazionale  da Edmondo Rossoni). I sindacati “di partito”, rilevò Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità  di tutte le forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il  monopolio dei sindacati socialcomunisti. Se in politica  affermò  le divergenze son  profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello  miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono tutti d’accordo nel volere il proprio  miglioramento economico e morale». Di concerto con Bresciani, Malusardi presentò  dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinché sorgesse, all’infuori  dello stesso Partito Fascista, un forte organismo sindacale che raccogliesse sotto il suo  vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano la realtà Nazione (Audacia ROCCA, Pér una nuova destra, Il Popolo d’Italia, anche in  Idee sul fascismo.  la destra reazionaria, formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da  residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva nel fascismo l’arma di difesa e  di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile», ed era responsabile del  carattere offensivo e violento» assunto dai Fasci in talune zone del Paese,  Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto centro  moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del primo  nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di destra, del  liberalismo, cioè, non ancora “inquinato” dall’utopia demo-sociale. Una  zona media del fascismo, dunque, fondata sulla disciplina verso la Nazione,  al di sopra degli esclusivismi ideologici e degli interessi particolari», che  Rocca confida sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a  costituire il perno della “nuova destra” di governo!” Nel suo intervento al  congresso di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo  disse  - doveva innanzi tutto svolgere un’opera di educazione sulle masse», per  volgersi infine alla trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi  italiana era una crisi d’incompetenza e le questioni economiche e  amministrative, per le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere  demandate ai tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali  avrebbero potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati  divenissero strumento di selezione delle élites proletarie.  L’assise dell’ Augusteo decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia  Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di Castellanza)  sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anch’essi al  Un neo liberalismo?, “Il Risorgimento” anche in Idee sul  fascismo Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altresì GENTILE, Le  origini dell'ideologia fascista Il Popolo d’Italia. L'intervento di Rocca al congresso dell’ Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui  problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca confermò la convinzione che  l’Italia dovesse avere una politica estera rettilinea e chiara», senza le incertezze del passato,  e che spettasse al fascismo far sì che ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle  glorie e alla potenza d’Italia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso che  l'organo dell’Associazione Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di  Massimo Rocca, L’Idea Nazionale Cfr. Il popolo d’Italia» Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato  inaugurato alla presenza di Rocca, che aveva fatto da padrino.  Ne è segretario Schejola e conta 67 soci, in prevalenza operai e impiegati. L'assemblea generale dei soci designa Rocca a rappresentare il Fascio al congresso nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i  Fasci di combattimento,Busta [Castellanza]. congresso, votarono a favore della trasformazione del movimento in  partito!” Dal congresso scaturì inoltre il nuovo organigramma fascista:  Massimo Rocca entrò a far parte della Commissione Esecutiva del PNF°%,  mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo,  rilevò Gioda nel Comitato Centrale?”   Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo articolo  celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema  dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai Consigli ; A Errante " Si raduna l’assemblea generale dei fascisti torinesi. Nella sua relazione  Gioda si era pronunciato a favore del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare -  la stessa parola partito gli ripugnasse istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che il  movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava, perciò, soltanto di ratificarne  ufficialmente l’esistenza. La creazione di un partito fascista era altresì indispensabile per  imprimere un carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato alle  singole realtà provinciali; e per porre un freno alle lotte infeconde» tra le sue diverse  correnti, espressione, nella maggior parte dei casi, d’interessi localistici o addirittura  personali. Si noti, a questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di  Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista Italiano, Il Popolo  d’Italia». Anche Malusardi, in occasione del già menzionato congresso provinciale veronese del 30  ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto  che la nuova compagine politica ereditasse il patrimonio ideale del vecchio partito d’azione  mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista della Costituzione Fiumana, alle  esigenze della vita moderna» (Audacia»).   In seguito, Rocca riferì che Vecchi, a nome di amici nazionalisti e sindacalisti», gli  aveva offerto la segreteria del partito, da egli rifiutata, malgrado le insistenze», per non  venirsi a trovare in una situazione difficilmente gestibile. Qualunque segretario del partito   scrive Rocca ricordando l’episodio  avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in un compito  amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche settimana il rivale e poi il nemico del  Duce» (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del  PNF fu quindi nominato Michele Bianchi.   Per la cronaca del congresso dell’Augusteo v. Il Popolo d’Italia. Sulle vicende legate a questa importante tappa della storia del fascismo v.  FELICE, Mussolini il fascista. Stando al resoconto de Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro 0  contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’ Associazione Nazionalista. In  base a quanto da lui stesso riferito anni dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la  doppia tessera (cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il  tema dei rapporti col nazionalismo domina a lungo il dibattito interno fascista all’indomani  del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca, dopo aver  sottolineato lo spirito aristocratico» che animava il nuovo Partito Fascista, si disse convinto  che il fascismo, il nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando  qualcosa che, un giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò la  formazione di un unico partito nazionale (Il fascismo e la crisi italiana in una nostra  intervista con Tancredi, L’Idea Nazionale), Tecnici. Rispetto ai sindacati - rileva il neo dirigente fascista -, il partito  poteva scegliere di prevalere aristocraticamente» su di essi (come egli si  augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una visione  demagogica della lotta sindacale. Alla necessità di delineare gli orientamenti  sindacali del fascismo si accompagnava quella di riformare gli organi  elettivi, in armonia con la economia sindacale moderna». Secondo Rocca,  un primo passo verso questa riforma era rappresentato dalla decisione, presa  in ambito congressuale, di dar vita a organismi professionali ristretti - i consigli tecnici appunto -, da affiancare ai Parlamenti generici e politici,  inadatti per loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero  competenze tecniche specifiche.  Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei deliberati del congresso  nazionale fu Malusardi. In primo luogo - com’ebbe a scrivere su Audacia - egli dissentiva da Mussolini in merito alla concezione statale.  Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della Carta del Carnaro, sanciti a  Roma, gli apparivano difatti come la negazione dello spirito originario del  fascismo. Quando egli [Mussolini] rileva Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,  superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici nella vita  della Nazione, ecco che viene ad ammettere che dalla Carta del Carnaro  possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più, poiché appunto nella  Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella ideologia mazziniana che il fascismo,  secondo lo stesso Mussolini, non deve ignorare ma integrare    Quanto all’annosa questione istituzionale, Malusardi ribadì il proprio  repubblicanesimo, solo in parte stemperato da considerazioni di opportunità politica. Rocca, Un congresso di vivi, Il Risorgimento» (anche in  ‘cismo). DIE   n prete anre ie del PNE, accolge le indicazioni del  congresso circa l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare).  Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito, subito dopo gli  organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei  Fasci, avrebbero dovuto raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di  servizi pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto sul piano  nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile ! analisi di ogni problema  politico, economico e sociale secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e  Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, (lo statuto/regolamento del partito è pubblicato in prima battuta da Ii Popolo d’Italia» MALUSARDI, /n margine al congresso, Audacia», Anche Mazzini  scrive - pur mantenendo intatta la sua FEDE REPUBBLICANA, per  raggiungere l’unità d’Italia, scrive la famosa lettera a Carignano e non ostacola di  salire al trono Vittorio Emanuele SAVOIA (si veda). Ma il veggente ligure, però, mai si adatta a  servilismi o incensamenti cortigianeschi. Così, pure noi fascisti, pur riconoscendo  inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perché verrebbe sfruttato  dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria  tendenzialità repubblicana?    Infine, Malusardi deplorò la scarsa attenzione volta dai congressisti ai  problemi sindacali e alla questione agraria, attribuendo la ragione di questa  grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al fascismo, di agrari  dalla mentalità antiquata». Per contro, egli affermò la necessità di  combattere il latifondo, per giungere alla «sproletarizzazione» delle  campagne, incrementando la piccola proprietà e la cooperazione, L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona è la partecipazione al  congresso provinciale fascista. Anche in quella  circostanza egli non tralasciò di riaffermare la propria fede sindacalista e di  celebrare il «sindacalismo/corporativismo dannunziano genialmente  dettato nella Carta di Fiume». Due giorni dopo, il congresso nazionale  delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sancì la fine dei  Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente  ideologizzato’”. Il sindacalismo “puro”, nella tradizione corridoniana e   Malusardi abbandonò la direzione del giornale (che fu rilevata da Grancelli). Intorno a questi avvenimenti v. CORDOVA. AI congresso di Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono tre  posizioni: quella di Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso  Malusardi), quella del neo segretario del PNF, Bianchi, per l’istituzione dei sindacati  “di partito”, e quella, mediana, di Grandi e  Rocca, a favore di un’autonomia  “controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si veda NELLO, Grandi: la  formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione Rocca sostenne  che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi  di Competenza. Prima di allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano sperare di  sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro  la facoltà di organizzarsi in modo autonomo. D’altro canto, creare dei sindacati fascisti, come  proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per questi  motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di sindacati semplicemente deambrisiana, usce dunque dall’orizzonte programmatico del fascismo, ma  Malusardi pare non rendersene conto. Lasciata Verona per Brescia, dove  rileva la direzione del locale organo fascista, Malusardi si presenta ai  camerati bresciani con queste parole. Se noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi  dittatura bolscevica, ciò non significa che siamo dei conservatori e dei  reazionari. Noi siamo, invece, profondamente NOVATORI. Se Malusardi si considera ancora e sempre un NOVATORE, Rocca,  ch’è l’iniziatore e il maestro” del NOVATORISMO ANARCHICO, è ormai  un integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del  liberalismo si spinse anzi sempre più a fondo, giungendo, in un articolo carico di reminiscenze sonniniane, ad invocare la  restaurazione di tutte le prerogative della corona, usurpate dal parlamento,  secondo la lettera dello statuto albertino. Di pari passo con la maturazione  conservatrice di Rocca crescevano le sue responsabilità politiche e  organizzative all’interno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo  prestigio e la sua influenza, come l’esplosione, in marzo, del caso legato a  PMarsich, avrebbe pienamente rivelato.   A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale  vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e  rivoluzionaria), rese nota una lettera di quest’ultimo alla Segreteria del  partito, nella quale egli lamentava la “degenerazione” parlamentarista del  nazionali, guidati da fascisti e da uomini della cui fede patriottica non fosse possibile  dubitare» («Il Popolo d’Italia. Rocca prende parte anche al congresso nazionale delle Corporazioni (Milano), durante il quale svolge una relazione sull’emigrazione italiana all’estero  (cfr. Il Lavoro d’Italia). Malusardi arrivò a Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei primi giorni di  febbraio. In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del locale  sindacato fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del partito  (rispondendo alle richieste che già da due mesi giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva  sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo  del Comitato Centrale con i fasci di combattimento, Busta  [Brescia]. MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma» ROCCA, La più grande crisi, «Il Risorgimento», col pretesto di vendicare l’assassinio del fascista ed ex legionario Alfredo  Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo  autonomista di Riccardo Zanella e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana si  concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a capo  provvisorio dell’esecutivo. fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di Mussolini,  contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele D’Annunzio?!. Il  “duce”, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne definì lo sfogo  nient’altro che una tragicommedia, Lo scontro tra Marsich e Mussolini,  che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto personale, concerneva l’indirizzo  politico del partito, innestò una lunga serie di polemiche, a tutti i livelli (a  Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al segretario provinciale  uscente, Minniti) °!*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a  prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana - scrisse in  una lettera a «Il Popolo d’Italia» - è una leggenda priva di fondamento.  Quanto alla “deriva” legalitaria che negli ultimi tempi, secondo Marsich, si  sarebbe venuta a creare nel fascismo (una situazione che Rocca si vantava di  aver contribuito a determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo,  dal momento che l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e non  aveva, perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si  domandava Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una volta SIRO Gebo a : Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Marsich, «La Riscossa dei legionari fiumani», (la lettera è ripresa anche dall’«Avanti!» del giorno  seguente).   La filippica di Marsich, già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico  del fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di Mussolini  sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio 1922), nella quale il duce”,  commentando la caduta del governo Bonomi, si era detto ben disposto verso un eventuale  rientro in scena di Giolitti.   Sul caso Marsich v. FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197 ss.  us «Il Popolo d’Italia. Nel corso di un convegno straordinario dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi  prese le difese di Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,  tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi colpevolmente adeguato  alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo, quanto nell’assenza di un orientamento  politico univoco; una lacuna grave, in ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano  elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del  lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e di corruzione».  Il dibattito di Brescia riveste un’importanza notevole, soprattutto perché la discussione  intorno alla vicenda Marsich toccò anche il tema della violenza. Turati affermò che i  rilievi contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò, soprattutto  dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del Veneto, notoriamente “feudo” di  Marsich, non conducesse all’apologia dei metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al  “manganello”, affermò il futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe  fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con l’approvazione di un  ordine del giorno unitario, col quale i fascisti della provincia di Brescia, «non riconoscendo  nelle critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,  reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta politica fosse  «restituita la forma di un civile contrasto» («Fiamma»).  entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema rappresentativo,  semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe senz’altro avvenuto,  grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti tecnici. Riguardo a Gabriele  D’Annunzio - proseguiva Rocca - l’atteggiamento di Marsich era poi del  tutto irragionevole: non solo perché, dopo le infinite vicissitudini dei  legionari dannunziani, nessuno era in grado di dire quali fossero le idee  politiche del “comandante”, ma anche, e soprattutto, perché era privo di  senso attaccare Mussolini per poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle  seduzioni del dannunzianesimo. «Il fascismo concludeva Rocca  dev'essere anzitutto un’accolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una  causa ed un’azione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio  di un uomo. La Direzione del partito votò una mozione di biasimo a Pietro  Marsich°!°, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio  Nazionale del fascismo. Rocca conosce forse il suo periodo di maggior popolarità come dirigente  fascista. In quei mesi, che prepararono l’ascesa al potere di Mussolini,  sembra per molti versi che le idee di Rocca potessero concretizzarsi in un  progetto politico di ampio respiro. Parve, cioè, che il fascismo (com'era  nelle aspirazioni dell’ex anarchico) potesse davvero configurarsi come élite ROCCA, Chiarificazioni, «Il Popolo d’Italia». nonna  Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge  «lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella  intelligente e consapevole che viene accettata dagli uomini liberi» (MALUSARDI, Sincerità delle sincerità [cf. GRICE, APING COOPERATIVE PRINCIPLE], «Fiamma», 1 aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e  Malusardi  se così si può dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn  politiche dei due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, È;  fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno aggiornata del tiberalismo i  destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a recuperare l’ispirazione  i ionaria e i programmi del Partito d’ Azione mazziniano.  una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato, «Il Popolo  "Italia). ù  dI Of La prima pra del Consiglio Nazionale Fascista;  Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni, durante i quali furono Pv  temi importanti, dalla vicenda di Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a  quest’ultimo punto, Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi -  affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega "  rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della credibilità, si doveva avere il coraggio di  fare la rivoluzione sul serio, non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del  Consiglio Nazionale Fascista. Rocca dirige anche la  Federazione provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. PARETI RIE IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT  dirigente, capace di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra  e di guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio di  luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di procedere alla  costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene contemplati dallo  statuto/regolamento, erano rimasti sulla carta) ‘!; quindi  nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato nazionale.  Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare l’opera dei  singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo tale ch’essi  servissero «da legame e da organi d’informazione fra il Partito Nazionale  Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da punto di raccolta dei  «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a formare la classe dirigente del  futuro - Per l’ex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che da  anni andava predicando l’urgenza di una rivoluzione dei competenti, si  tratta di un riconoscimento personale importantissimo e di una grande  occasione politica. Anche per questa ragione, il fallimento dei Gruppi di  Competenza (al quale dovevano contribuire le resistenze opposte dalla  “oligarchia” fascista e dai «capi locali più ignoranti») ?”, rappresentò, per    Rocca, una cocente delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne |    il mutato atteggiamento riguardo al fascismo.   A fine agosto «Il Popolo d’Italia» rese noto un programma in due parti “per  il risanamento finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento,  che doveva dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia  economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed era,  in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista. Proprio a  motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini suscitò commenti  benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”? e valse, insieme  Cfr. «Il Popolo d’Italia». Gli unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello  statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli “assicuratori fascisti  triestini” (cfr. CORDOVA). Il Popolo d’Italia   Su tutti questi punti V. principalmente AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del  primo fascismo, in «Nord e Sud», nonché CORDOVA,  Ka cit., p. 101 ss.  si Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico,  pubblicato dall’organo mussoliniano il 18 luglio.   «Il Corriere della Sera», in un fondo del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente  (senza firma, ma opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul  programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di risalire alle  «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente concedere alla facile demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di regime?”4, a spazzar  via le residue diffidenze dell’opinione pubblica moderata nei confronti del  fascismo, nel momento in cui esso si candidava scopertamente a forza di  governo. AI centro della riflessione di Rocca e Corgini è l’idea che il Parlamento  italiano è ormai diventato un organo di sperpero, in balia di gruppi  parlamentari irresponsabili, e che occorresse per questo abolire l’iniziativa  parlamentare a proporre nuove spese. Tra i provvedimenti atti a risanare  l’erario, il programma annovera: la riforma della burocrazia (affinché gli  uffici pubblici cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati  nella lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle  industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la  soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici, ai  privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione all’essenziale dei  lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che “inceppavano” la  produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero sistema tributario, nel  senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano a detrimento  della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle dirette, che,  colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle esportazioni”,  La seconda parte del programma, dedicata alla situazione degli Enti Locali,  era senz'altro molto più “politica”. La responsabilità prima del dissesto dei  Comuni e delle Province italiane - affermavano infatti gli estensori del “socialistoide”. Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate,  scrisse che il programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso «andasse oltre  l’ideologia liberale. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura,). nell’ambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini  afferma che la rivoluzione fascista non insidia il trono dei Savoia. Lasceremo in  disparte dice, fuori del nostro gioco, che ha altri bersagli visibilissimi e formidabili,  l’istituto monarchico, anche perché pensiamo che la gran parte dell’Italia vede con  sospetto una trasformazione del regime che anda fino a quel punto  (Un forte e chiaro  discorso ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessità  storiche della Nazione, Il Popolo d’Italia. Il discorso di Mussolini è molto apprezzato e non puo essere altrimenti  da Rocca, che, in un  telegramma al duce, dichiara di condividerne entusiasticamente ogni parola. Più sfumata la reazione di Gioda. Le considerazioni di Mussolini in  ordine alla questione istituzionale - scrive il segretario del Fascio torinese - doveno essere  valutate serenamente. Dopo tutto, osserva Gioda, anche REPUBBLICANI INTRANSIGENTI come  Mazzini e Crispi si sono piegati, nell’interesse d’Italia, ad accettare la  monarchia. (GIODA, Il discorso di Udine, «Il Maglio.   ROCCA, CORGINI, Pel risanamento finanziario dello stato italiano.  Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia», Ae documento - era delle amministrazioni di sinistra, socialiste e popolari  dell’azione «immorale, disordinata e dilapidatrice dei sovversivi». Un  rimedio poteva consistere nell’obbligare gli amministratori rossi a  preparare e fare approvare i bilanci comunali e provinciali nei modi e nei  tempi stabiliti dalla legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi  termini ed eufemismi»), ma, ancora una volta, la soluzione vera del  problema doveva passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale  Rocca e Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia,  di un «comitato centrale di difesa dei contribuenti Dalla metà di settembre sino alla vigilia del congresso fascista di Napoli Rocca è impegnato a dirigere la campagna di comizi per il  risanamento finanziario, che attraversò tutta l’Italia. Quattro giorni prima  dell’inaugurazione del congresso partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblica lo  statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a  ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del primo  fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale  l’autore esponeva in modo lineare la propria dottrina della competenza.  Per prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti  e i sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli  effetti, formazioni di massa, all’interno delle quali «i produttori restavano  raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità singole», al fine di  salvaguardare «interessi particolari e soprattutto economici»; i primi  dovevano configurarsi come «nuclei esigui di persone», le quali, in quanto  «partecipanti ai gruppi medesimi», non dovevano avere «alcun interesse  specifico, né personale né di classe» da tutelare. Ai Gruppi doveva  quindi competere una funzione eminentemente «consultiva e di studio», ma    anche una funzione, per così dire, di “armonizzazione” dei diversi interessi,  un’opera «il cui precipuo carattere spirituale» fosse quello di favorire «la  concordia fra le diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito  e le corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non  erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni e  i Lo (1g ARA  ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali. Relazione per i comizi di propaganda    del Partito Nazionale Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922.   Entrambi i programmi furono in seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza  pubblica. Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria  dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922.   Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di organizzare i comizi. Rocca è l’oratore principale a Genova, Livorno, Savona,  Alba - dov’è previsto un suo contraddittorio con Sturzo, saltato all’ultimo momento  (cfr. «Il Popolo d’Italia») - e Palermo.  di discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la  diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito. Nella sua relazione al congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato  per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il  progetto di statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di  Competenza avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione  meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Rocca, che egli avrebbe in  seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una  parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il fascismo,  che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa, mirava a mettere  radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai sempre più concreta - di  una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione  politica e militare anche nei territori a sud della capitale. Si è riunita la Direzione del PNF, «per studiare l’organizzazione  fascista in rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole», e  definire l’ordine del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso  della discussione Rocca si era mostrato scettico sull’opportunità di  considerare la questione meridionale  anche in relazione alle tematiche  riguardanti l’ordinamento del partito  un problema a se stante, slegato dalla  più complessa realtà nazionale, e aveva espresso il timore che il congresso  potesse risolversi in una contrapposizione artificiosa tra nord e  Il Popolo d’Italia A norma dello statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre, i  Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria, commercio, agricoltura,  trasporti, amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali, provinciali e  nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal Segretariato  nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non doveva eccedere i venti elementi,  scelti, secondo il criterio della capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso,  iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di offrire un  sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere  indagini, raccogliere materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni», che  servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di  circondario e a quelli provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual  volta avessero dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e quando  si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In questo caso lo statuto prevedeva che  i Gruppi, o parte di essi, potessero essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a  comporre i conflitti tra capitale e lavoro.   Lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in  Rocca, Relazione al Gran Consiglio Fascista sui Gruppi di  Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella  nuova vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata di Napoli: vigilia della Marcia su  Roma, Milano, Imperia, Cfr. «Il Popolo d’Italia», sud del Paese, o, peggio, in una guerra di frazione o di campanile tra le  diverse regioni del Mezzogiorno. Nell’insieme, si può dire che il torinese  Rocca non manifesta una particolare sensibilità verso i problemi del meridione. Eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del  Governo, egli è uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Rocca compe un viaggio di studio in Sicilia per conto  della Direzione del partito, e ne rifere al Gran Consiglio. Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni siciliane egli  rimane invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del consorzio  zolfifero), che ne hanno in qualche misura condizionato il futuro  politico. Il punto è oscuro, ma deve essere richiamato, dal momento che, tra  le accuse mosse a Rocca da Farinacci e dagli altri ras provinciali nel pieno  della polemica revisionista, quelle di corruzione hanno un peso  non secondario. Stando a quanto ammesso dallo stesso Rocca al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trova per  seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e nordamericani),  egli ha i primi contatti con i responsabili del consorzio zolfifero  siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio  palermitano nell’ambito della campagna fascista per il risanamento  finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiara Rocca al suo intervistatore -  doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti dell’industria zolfifera  siciliana, da tempo alle prese con una grave crisi, anche «attenuando» il  proprio intervento «nelle faccende del Consorzio». Ora, a quanto risulta da    un documento conservato nelle carte di PS (un dattiloscritto anonimo), alla sollecitudine dimostrata da Rocca verso le sorti    dell’industria zolfifera sarebbe in realtà corrisposta una ricca contropartita. I produttori di zolfo, riuniti in  consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di  esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore del    settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva prelevato Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo d’Italia» Cfr. PNF, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Editrice Nuova  Europa, Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli avrebbe individuato nella «regolazione delle  acque e nel miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e necessaria,  sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle popolazioni meridionali (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura PELIZZI, La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo  Rocca, «Il Popolo d’Italia arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo assicurazioni del sindacato  zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo di rendiconto. La decisione,  chiaramente illegale, aveva incontrato l’opposizione tanto del Ministro del  Lavoro del Governo Facta, quanto del suo successore nel nuovo esecutivo a  guida fascista, il popolare Stefano Cavazzoni. A questo punto - secondo la  medesima fonte -, sarebbe entrato in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro  adeguata “ricompensa”, avrebbe fatto valere il proprio peso politico,  intercedendo con successo a favore del consorzio zolfifero. Le  informazioni contenute nella relazione citata rispondevano probabilmente al  vero, ma non è da escludere, tenuto conto del momento in cui il documento  in questione vide la luce (al termine, cioè, della seconda “ondata”  revisionista), che esse fossero montate ad arte nel tentativo di screditare  Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un oppositore dichiarato del  Governo.  AI di là dei proclami ufficiali, l’assise napoletana servì  quale adunata generale in vista della “marcia su Roma”. Già da tempo, e  precisamente dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in occasione  dello sciopero “legalitario” indetto dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di  luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori  del fascismo, riunitisi a Milano, a pochi giorni dalla  conclusione dello sciopero, avevano discusso a lungo sull’eventualità o  meno di un'insurrezione armata”. Insieme a Grandi, Rocca è il  più convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea insurrezionale  aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Farinacci, Balbo e lo stesso segretario del partito Bianchi”. Dopo la “marcia  Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca].   L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del Gruppo  parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della Confederazione delle Corporazioni)  era stato dominato dalla relazione di Bianchi sulla situazione politica. Il segretario  del PNF aveva chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza  offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più disposto a tollerare lo sfacelo del  Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due  tendenze, la legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno alla  relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a mezza via, e i due ordini del  giorno votati il 13 agosto (il primo, per l’istituzione di un comitato militare ristretto; il  secondo, firmato anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della  Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente del “duce”.  Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale Fascista, «Il Popolo d’Italia Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano, Rizzoli, su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla  Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa al  potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa comportava,  dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della rivoluzione e inaugurare  quella della ricostruzione, in spirito di concordia nazionale, e  soprattutto -  nell’assoluto rispetto della legalità. L’esigenza di porre un freno alle intemperanze dello squadrismo era del  resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti fascisti della “prima  ora”, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue peregrinazioni (egli  stesso amava definirsi un “nomade”), dopo aver retto per qualche tempo la  Federazione Sindacale padovana??”, Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in  provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico di segretario  politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista” I fascisti di Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria. È in discussione il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati  episodi di squadrismo verificatisi in molte zone del  genovese Malusardi, secondo l’impostazione cara anche a Rocca, a Gioda e  ai fascisti più moderati (una forma mentis di cui abbiamo già rimarcato i  limiti intrinseci), rilevò che la violenza squadrista, utile e legittima  fintantoché si manteneva «chirurgica e cavalleresca», non era giustificabile    quando assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al governo del fascismo, le camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e  politico, di essere disciplinate. Su questo punto di grande importanza v. altresì CHIURGO, Storia della    Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, e NELLO, Dino 4 Grandi: la formazione di un leader fascista Cfr. ACS, CPC, Busta  [Malusardi].   Malusardi è chiamato a Padova e vi si è  trattenuto, contribuendo, grazie alle sue capacità di organizzatore e di  propagandista, e alla vena popolare del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il  suo maggior successo è il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione  Agraria, alla fine di giugno. L'accordo è tendenzialmente favorevole ai lavoratori  (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, l’imponibile di mano d’opera e la  creazione di commissioni paritetiche per dirimere i conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai  propri convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche i  più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte dell’associazione  padronale, il congresso sindacale provinciale si  conclude con un ordine del  giorno molto duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed inesorabile, per far piegare,  innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...] datori di lavoro» («Il Lavoro  d’Italia». Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964  [Malusardi Edoardo]. Noi non possiamo più  sostenne Malusardi a proposito dell’autorità politica I  scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo coadiuvare e vigilare perché applichi  inflessibilmente lo imperio della legge. E conclude: Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di ricino, la gradassata inutile,  e chiedete invece delle biblioteche e delle scuole di cultura    Aspettative e delusioni    Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza del  Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi subirono  un’impennata, culminando nella strage di Torino.  L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche nella  storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze  che ebbe sulle sorti politiche di Gioda e di Rocca. Accampando come d’abitudine il pretesto di vendicare  l'uccisione di due camerati, gli squadristi torinesi, capeggiati da Brandimarte, scatenarono una sanguinosa rappresaglia contro le  organizzazioni socialcomuniste. In quella che Salvemini define  una vera orgia di sangue trovano la morte una ventina di persone, tra  le quali l’ex anarchico Berruti, consigliere comunale comunista e noto  L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza.  sn  «i pa del dicembre è solo l’apice di una lunga teoria di fatti di sangue. In un telegramma al Ministro Di  Interni, il Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la  situazione («Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O  rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni comuniste  accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma violenta ed improvvisa») e  chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris., Busta [Fascio di Torino]. : It i  La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in FELICE,    I fani di Torino in «Studi Storici», SALVEMINI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, esponente del Sindacato Ferrovieri. Gioda, il cui potere effettivo  all’interno del Fascio torinese era andato vieppiù scemando (tanto che, negli  ultimi mesi, la sua attività si era limitata a curare le corrispondenze per «Il  Popolo d’Italia»), non ebbe alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al  pari di Rocca, non si fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi. Vecchi, al contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti,  se ne attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non    quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che aveva    incaricato una commissione d’inchiesta di far luce sull’accaduto), «la sua |    figura di ras di Torino e del Piemonte»? Con una mossa a effetto, carica  però di significati politici - e non solo per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo torinese -, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di    fiori sul feretro di Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi -  nota Rocca a distanza - non gli avrebbero mai perdonato quel  gesto.  Episodi come quello di Torino contrastavano drammaticamente con la |  necessità - posta in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una |  normalizzazione del fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini Sulla figura di Berruti v. ANDREUCCI, DETTI, Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata ordinata a sua completa insaputa. Cfr.    FELICE, / fatti di Torino Popolo» FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.    % Cfr. GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il Popolo  d’Italia. Gioda scrive di Berruti ch’egli era «indubbiamente un uomo in buona fede e dotato di    qualità intellettuali non comuni. Cfr. MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura L’inchiesta ordinata da Mussolini, affidata a Giunta e Gasti, accerta le  gravissime responsabilità degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle indagini, il  Gran Consiglio si limitò a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino,  delegando l’incarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato fiduciario con  pieni poteri, mentre Gorgolini e Gobbi (due dei più stretti collaboratori di Mario  Gioda), autori di un memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per  esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente  compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a Vecchi la sua  indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo,  ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo la  sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare l’Italia.  In una vibrante lettera a Mussolini, poi allegata agli atti dell’inchiesta,  In un discorso al Teatro Ambrosiano, il quadrumviro difese l’operato di |  Brandimarte e si assunse la responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del | furono segnati da questa stridente contraddizione, in un difficilissimo  equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e propositi riformatori,  ricerca del consenso e violenza indiscriminata. Sebbene funzionale agli  interessi del partito, il dibattito sulla legge elettorale, che monopolizzò la vita  politico/parlamentare italiana è UNO DEI POCHI MOMENTI REALMENTE COSTRUTTIVI DEL FASCISMO. Rocca, già da tempo schierato  per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale commissione  per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio, primo  passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un certo  MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale, in «Il Risorgimento.   Sulla delicata questione del sistema elettorale Rocca ha un vivace scambio di vedute con  Farinacci, fautore di un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci,  Rocca definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale vigente (che  se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue nuovo» nell’asfittica vita  parlamentare italiana), un’eventuale reintegrazione del collegio uninominale; una formula  dominata «dalle aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre con  mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di acutizzare «Io spirito  campanilistico» (La discussione sul sistema uninominale. Una lettera di Massimo Rocca  all'on. Farinacci, «Cremona Nuova). Nella sua pronta replica,  Farinacci obietta che la rivoluzione fascista ha a tal punto innovato i costumi politici  degl’italiani che il ristabilimento dell’uninominale non puo considerarsi un semplice  ritorno al passato. «Se allora, nel passato  sosteneva Farinacci  sono le clientele  che  decideno, adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione  provinciale fascista e dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo  giudizio, non più formulato in virtù della potenza della clientela, ma in forza del valore del  candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la loro educazione fascista». Quanto al  problema del campanilismo  questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si  consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al fascismo  provinciale -, il ras di Cremona fu ancora più esplicito. «Tu  rimprovera infatti a Rocca   prescindi dall’efficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i quali  sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse della provincia con quello della  nazione, subordinando l’uno all’altro» (FARINACCI, // perché del ritorno al collegio  uninominale).  a conclusione dei suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a  Rocca, Michele Bianchi, Roberto Farinacci, Rossi, Maraviglia, Bastianini e Sansanelli) si pronuncia ufficialmente per il sistema maggioritario secondo uno schema elaborato da Bianchi e contro l’uninominale. Rocca, che si trova in  Sicilia e non poté esser presente alla riunione, invia una lettera di piena adesione, di cui da  conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo d’Italia). Il Gran Consiglio accettò le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a favore,  contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era  fascista), dopodiché il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo  Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto all’esame  preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la cosiddetta commissione dei VIT  PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI    periodo, parve che alla riforma elettorale  com'era negli auspici di Michele  Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una più ampia azione  di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta della sessione di aprile il  Gran Consiglio deliberò la creazione di un Gruppo di Competenza per la  riforma costituzionale, affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi  all’allarme suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si  affrettò ad «assicurare ogni patriota in buona fede» che né l’istituto  monarchico, né i principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in  discussione”. In realtà, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti  della maggioranza e il timore che essa potesse incidere negativamente sul  cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni  velleità riformatrice. Rocca, che finalmente intravede la possibilità  di legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera  propositiva di riforma, ne resta amareggiato. Questa volta  scrive a distanza di tempo  la delusione è profonda. Il  movimento fascista, che da quattro anni parla senza tregua di rivoluzione e già ne  invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava intraprendere la  più modesta riforma, meno radicale di quella “corporativa” attuata d’ANNUNZIO (si veda) a  Fiume; una riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le  gesta passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo  nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze  verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad un'etichetta,  dal significato puramente negativo, comodo pretesto per trascurare la legalità |  vigente, senza però curarsi di foggiarne un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava    diciotto) - che lo approvò -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo   una lunga discussione. Su tutti questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista Il Gruppo comprendeva anche: Bianchi (presidente), Costamagna (segretario),  Corradini, Maraviglia, Casalini, Rossoni, Tamaro, Panunzio, Lolini, Gatti e Vecchio. «Il Popolo d’Italia», FELICE, Mussolini il fascista Fedele a una visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno  schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati «d’ogni  categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei dirigenti e delle federazioni sindacali, di    consigli tecnici dell'economia, «comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e  nazionale; il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato  vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro ogni preoccupazione elettorale  ed assicurare il contributo dei migliori uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di    proporre nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come il  fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138). un'occasione unica di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore,  ai capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti esteriori    La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto all’accantonamento dei  disegni di riforma costituzionale si aggiunse il concomitante naufragio dei  Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale egli aveva riposto le maggiori  speranze. In un’intervista a un quotidiano romano  (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur ribadendo che  i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente aristocratica»,  rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe che la loro  attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di utilizzarli»?9°. Dietro  questa semplice constatazione si nascondeva l’amara consapevolezza delle  grandi difficoltà fin lì incontrate dai Gruppi all’interno stesso del fascismo  (si tenga presente che, a quasi quattro mesi dall’entrata in vigore dello  statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti erano quello  per la pubblica amministrazione e quello per l’educazione, quest’ultimo,  peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) AI Gran Consiglio  del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione generale dei Gruppi,  affermò la necessità di riconoscere loro una «franca autonomia», sola  condizione per garantirne un'effettiva operatività”. Nei mesi successivi  qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio,  Rocca poté annunciare l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza  provinciali, ottenendo l’assicurazione che gli organi direttivi del partito  avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo”. Nonostante le  apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano un’esistenza  stentata, senza un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria  nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del  partito e dalle stesse corporazioni”! L’insorgere della prima crisi  revisionista, conclusasi con l’insuccesso di Rocca, diede loro il definitivo NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola,  l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con Rocca, «Il Giornale d’Italia». A questo riguardo v. CORDOVA, op. cit., pp. 166-167.   258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista V. altresì / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella relazione di Rocca  al Gran Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia. Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse minimamente affrontato il tema  dei Gruppi di Competenza. Cfr. CORDOVA, op. cit., p. 164. colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita del  governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e politiche, di  Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex  anarchico alla sua ultima battaglia polemica.   Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre Mario Gioda tornava  faticosamente alla vita politica (il Fascio di Torino, sciolto in conseguenza  dei fatti del dicembre, fu ricostituito), il  biennio vide la consacrazione di Malusardi come  dirigente sindacale; e tuttavia  non sembri un paradosso -, proprio nel 1924  la carriera dell’ex stuccatore rischiò di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi  vecchi compagni sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trovò a  dover fare i conti con la trasformazione del fascismo in regime.  Malusardi lasciò Sestri Ponente, per dirigere la  Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli seppe conferire  all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina maggiore stabilità ed  efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu    nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco  costituita”, Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in materia sindacale e  quanto essi si discostassero dalla concezione operaista di Malusardi,  alimentata dai miti corridoniano e dannunziano, lo mostrò chiaramente il cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato tra la Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segnò  «il fallimento, almeno nell’industria e in quel momento, dell’ipotesi di In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni attività di partito, Rocca lascia la segreteria dei Gruppi di Competenza al suo vice Costamagna, che la  assunse a titolo definitivo. Nel frattempo, il Gran Consiglio daveva disposto la trasformazione dei Gruppi in Consigli Tecnici nazionali,  organismi ancor più evanescenti, dei quali ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.AQUARONE al Teatro Scribe, ha luogo l'assemblea del Fascio per l’elezione del nuovo  Direttorio. Questo, radunatosi quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario  Gioda. Cfr. «Il Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia. Cfr. MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, E A n past p   In base alla relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle  Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze sei mesi  dopo il suo arrivo a Firenze – erano XIV (I agricoltura, II commercio, III industria, IV impiego,  V professioni intellettuali, VI scuola, VII sanità, VIII dipendenti monopoli e aziende statali, IX stampa, X teatro,  XI trasporti e comunicazioni, XII ospitalità nazionale, XIII industrie artistiche, e XIV belle arti), per un totale di  circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia», Ctr. sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della  collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo,  sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Si riunì a Roma il consiglio nazionale delle Corporazioni, nel  corso del quale si manifestarono due tendenze: la prima (più conciliante e  che finì per prevalere) facente capo a PANUNZIO (si veda) e sostenuta dal  segretario generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il  riconoscimento giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda,  rappresentata da Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione  diretta contro gl’industriali. Nel clima di confusione seguito al  rapimento e all’assassinio di Matteotti, Malusardi si dimise dalla  segreteria dei sindacati fascisti fiorentini (dove è sostituito da Lusignoli) 2°. È un primo atto di ribellione, al quale fa seguito la costituzione - con Galbiati (segretario della  Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi -  d’un comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni, Nell’ordine del  giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la debolezza,  l’incertezza programmatica e l’autoritarismo che contraddistinguevano  l’opera delle Corporazioni fasciste, e s’invoca un totale revisionismo,  nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni  proseguiva il documento - dovevano agire «in senso nettamente  sindacalista», avendo presenti gli «interessi effettivi della classe produttiva»,  senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici («di lotta di classe e di  collaborazione aprioristica») e politici, ma anzi ricercando l'intesa «con le  masse e le organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale». Quanto  ai rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma di  libera e consapevole alleanza»? Pochi giorni dopo, PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Su questi punti v. CORDOVA. PERFETTI, Il   sindacalismo fascista. Per la cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia»,  e «Il Lavoro d’Italia. Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La Giustizia». Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, «La Voce  Repubblicana. AEREI ; i i  Dal 13 settembre il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale: «L’Idea  Sindacalista». Jai   Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce  Repubblicana», che, da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali  del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una «diagnosi perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato milanese). Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzionò l’allontanamento «dal movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!, il quale però,  all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro del  decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale motivo Malusardi si decise a  quella mossa, ma è certo che, così facendo, egli salvaguardò la propria  carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le proprie radici  anarcosindacaliste (si può dire infatti che la sua azione nell’ambito del    sindacalismo fascista continuò a vivere di velleità operaiste) ?”?, Malusardi la cui fedeltà al fascismo non fu comunque mai in discussione - rientrò |    disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre più ai modelli imposti dal  regime. Nell'autunno del 1924, preludio all’avvento di una lunga dittatura, si  concluse quindi  almeno formalmente  la vicenda “libertaria” di Malusardi: un’uscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a  Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica. Si riune a Roma il Direttorio nazionale delle  Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata come l’atto «di quattro persone  che non avevano alcuna autorità e alcun seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia Hi Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni. Sull’intera vicenda v. CORDOVA 2a Dimissioni!, «L’Idea Sindacalista Un mese dopo Malusardi presenzia regolarmente al secondo congresso nazionale delle    Corporazioni (Roma). Cfr. «Il Popolo d’Italia. Esemplare, a questo proposito, l’esperienza di Malusardi come segretario dell’Unione  provinciale dei sindacati fascisti di Torino, segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in particolare  (al riguardo v. SAPELLI, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino, Milano, Feltrinelli. Le aspirazioni libertarie di Malusardi trovano un    ultimo rifugio nell’utopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ha   comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non gli risparmia dolori e amarezze (uno  dei suoi figli, divenuto partigiano, è fatto prigioniero dai fascisti e condannato a morte,  Malusardi si rivolge a Mussolini, il quale intervenne personalmente affinché al ribelle è risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria  particolare del duce. Nel dopoguerra, nonostante la non più verde  età, Malusardi partecipa attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL. Il  suo approccio alle questioni del lavoro resta di fatto immutato, sentimentalmente ancorato  alle memorie di Corridoni e Annunzio (a titolo di esempio si vedano i saggi Corridoni e Socialità di ANNUNZIO (si veda), pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de «Il  Maglio. Muore a Torino. Sulla figura e l’opera  di Edoardo Malusardi, quale rappresentante dell’ala sinistra del fascismo, v. infine PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad  indicem. L’inizio della polemica revisionista è giustamente fatto coincidere # L  pubblicazione su «Critica Fascista», dell articolo  Rocca Fascismo e paese . Già da qualche mese, tuttavia, dinanzi al  protrarsi delle illegalità fasciste, i settori più lungimiranti del PNF -e I  ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di  un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento  del fascismo nell’ordine statutario. Intervenendo alla Camera,  l’on. Misuri, già parlamentare fascista, anticipa, di fatto,  alcuni dei temi poi sollevati da Rocca nel suo celebre articolo. In RT  Misuri chiede la smobilitazione delle squadre e | inclusione le ;  MVSN nell’esercito regolare; la cessazione, da parte del segretario si  Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i  affari di competenza dell’esecutivo e delle prefetture; ! allargamento va  base del Governo a tutte le «sane correnti nazionali». Il discorso kr  deputato perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di  breve stagione del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ché Di  furono altri tipi di dissidentismo) ‘, fenomeno parallelo  e in un certo sen   L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il Giornale d’Italia», che lo definì  «notevole». Lira : Epi  ? Alfredo Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn  i fasciste, dovette abbandonai  Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f, d a r i ua  ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li  1922 a seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di  i P ta nel PNF rientrò per bre  i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr |  lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi di a. MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un  uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924.  i i i 95-122.  | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘,  hà vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni sgherri  fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e malmenato Cs  sull’episodio v. Per l'aggressione all’on. Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i  ) Il dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun  concreta nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”, evocante, gi: speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve espresse  dai dissidenti - e da Misuri in particolare  sul revisionismo e su Massimo  Rocca, tra le due “eresie” fasciste correva una differenza sostanziale. Come  già notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non  nutrivano grandi speranze circa la capacità del fascismo di autoriformarsi  (tant'è che finirono per distaccarsene quasi subito), Rocca s’illudeva di far  trionfare la propria idea “da dentro” il partito”; credeva, in altri termini di  poter cambiare il fascismo dal suo interno, nella convinzione - per dirla con  le sue parole - che esso potesse realmente diventare «l’ala marciante e  riformatrice del liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che  nei mutevoli umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e  «degli altri ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo  (che avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa  «lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della  sconfitta di Massimo Rocca.   Come detto, l’articolo di Rocca vide la luce su «Critica Fascista», la nuova  rivista di Giuseppe Bottai, che aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno nel nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti  I associazione prese a pubblicare il settimanale «Campane a stormo» (poi riesumato da Misuri  nell’immediato secondo dopoguerra). n  Sul dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e  ramificazioni, v. principalmente LOMBARDI, Per le patrie libertà: la dissidenza  fascista tra mussolinismo e Aventino, Milano, Angeli, ma anche con più  esplicito riferimento all’operato di Misuri e Corgini, ZANI, L'Apsocio4iali    costituzionale “Patria e Libertà, in «Storia Contemporanea», ‘ondamento delle loro critiche al revisionismo i dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano  la considerazione che fosse ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione del fascismo».  Pisi «caotici costruttori di teorie», in quanto convinti di poter salvare qualcosa del  ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per esso (Revisionismo, «Campane), PSR A E e  Cfr. LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle prime  manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana dei Fasci  Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi al fascismo “puro” delle  origini. «Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia  scriveva Lumbroso nelle pagine  ug se suo da Ta sono rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del  cismo debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i  f ì iu  indegni. RIA: dae Re) 2a  ” Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. ZANI. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto interprete di una  concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da  premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca -  riteneva finito il tempo della “rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento del  partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista «con una nuova  élite» che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese. Un mese e  mezzo prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro  collaboratore di Bottai, l’ex sindacalista corridoniano Marsanich, chiara in modo inequivocabile l’orientamento della  rivista.    Noi  scrive Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare  subito un’opera di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi  metodi, che se furono utili prima, oggi non servono più, se non ad intorbidire le fonti  della nostra forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio  uno dei nostri compiti necessari, in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e cresciuta  nel parlamentarismo, è quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo  istituto storico e politico dell’età nostra, di riconciliare insomma la Nazione col  Parlamento. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessità di smobilitare e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di sintesi  nazionale, l'eventualità di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i suoi nemici di ieri"! Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile che Rocca, il quale da  tempo esorta alla normalizzazione, trova in Bottai e nella  redazione di «Critica Fascista» degli interlocutori attenti e ben disposti. Ma ? Sul ruolo avuto da Bottai e da «Critica Fascista» nel dibattito interno al fascismo  durante il primo scorcio degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v.  soprattutto MANGONI, L ‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo,  Bari, Laterza, GENTILE, GUERRI, Bottai fascista critico, Milano, Feltrinelli, BOTTAI, Disciplina, «Critica Fascista. Che il fascismo, compiuta la sua “rivoluzione” e conquistate le leve del potere, dovesse por  mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un programma  propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti più “politici”. Lo stesso  Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo numero di «Critica Fascista» (e  riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 30 giugno), aveva scritto: «Caro Bottai, prima  ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un  gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale, raggiunto  il suo secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacità di controllo e di critica».   !! Augusto DE MARSANICH, Revisione Su MARSANICH (si veda), figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel secondo  dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neo-fascista, v. Dizionario biografico degl’italiani. cosa scrive Rocca che desta tanto clamore? La “rivoluzione” fascista   questo in sintesi il suo pensiero aveva avuto il merito di strappare l’Italia al  baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion d’essere soltanto  se finalizzata al bene della Nazione, di “tutta” la Nazione, e non alla propria  autoconservazione. Il fascismo - spiega Rocca – dove servire il Paese e  non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali, interessati solo a  perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi responsabili del perdurare  dell’illegalità e del clima di tensione, da guerra civile permanente, che  ancora dominava in certe regioni"’. Ora, nella battaglia intrapresa per la  sprovincializzazione” del fascismo, Rocca era convinto di trovare in  Mussolini un alleato naturale, ma quest’opinione, se non mancava di  riferimenti nella realtà, non teneva nel dovuto conto la spregiudicatezza  tipica del modus operandi del “duce”, ed era perciò, in definitiva, frutto di  una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo l’articolo di Rocca si ha  I impressione che l’autore tendesse a sopravvalutare certe prese di posizione  di Mussolini é che, più o meno inconsapevolmente, finisse per attribuire al  duce” la propria personale visione del fascismo. I segni più evidenti della    volontà conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano  stati:    la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del  Paese tutti gli elementi di valore, persino se provenissero dall’estrema sinistra: l’appoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di  diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere  l’opera sindacalista compiuta nei ceti proletari; la costituzione di un governo  non esclusivamente fascista;  l'immissione di ufficiali dell’esercito nei quadri  della Milizia, per maturarne la futura fusione con l’esercito medesimo; il rifiuto  ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese d’impiegati e di favori da  parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dell’ultima pes;    Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la caduta in  disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di lì a poco ai Gruppi di  Competenza; all’effettivo strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e  proprio esercito di profittatori, d’intriganti e d’incapaci che affollava  l’entourage di Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della Cfr. MassIMo Rocca, Fascismo e paese, «Critica Fascista. L’articolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri ilti i  STE, con, prodotto  sotto il titolo //  l'Italia - anche in Idee sul fascismo. pan sua sfiducia negli uomini, trovò sempre inutile opporsi), abbiamo la  misura di quanto Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene  accolto da «Il Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e  nel complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il giornale  diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò apertamente le fatiche.  Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai esporsi in prima persona,  dette una mano alla campagna revisionista, ma la ragione di questo suo  favore non derivava tanto, come crede Rocca, da un’intima convinzione  ideale, bensì - come ha ben sottolineato Felice (e com'era,  d’altronde, nel carattere del duce) - da considerazioni di opportunità politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti, è quello di una  graduale apertura verso le forze costituzionali (liberali, cattolici, ma anche  socialisti riformisti), che consentisse un ampliamento  e dunque un  consolidamento  della sua maggioranza. A questo progetto si opponevano  scopertamente gli intransigenti alla Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza  di una corrente revisionista, moderata, all’interno del fascismo, poteva  servire a un duplice scopo: a rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica  sulle “buone intenzioni” del governo e a tenere a freno i ras, in vista di un  possibile compromesso!   Fu quindi grazie a Mussolini che il dibattito inaugurato da Rocca  sulle pagine di «Critica Fascista» poté uscire «dall’ambito piuttosto limitato»  della rivista di Bottai per diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi  di stampa, «un fatto politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito  strettamente fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di  assecondare i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di  Filippelli, «L'Impero» di Carli e Settimelli, e,  inizialmente in misura più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si  trattava di fogli dalla linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più  conta - legati a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno Su questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE FELICE,  Mussolini il fascista. Cfr. FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo  d’Italia Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista. «Il Corriere Italiano» era sorto grazie a finanziamenti di origine  imprecisata ed era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti  ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Finzi, sottosegretario al Ministero degli  Interni, e Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran Consiglio del  fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le pubblicazioni e si distingueva per  l'accento smaccatamente reazionario, spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi dette a Rocca l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più  vasto, è altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto  alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato Rocca  anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche, offrì a suoi  avversari il destro per muovergli accuse, più o meno esplicite e motivate, di  corruzione.  Rocca  rileva al riguardo Lumbroso puo ridersi di certe accuse  poiché la sua probità privata era inattaccabile; ma sta di fatto che i giornali di  cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua  campagna non erano certo i più indicati a parlare di epurazione del Partito; ed è  innegabile che certo fascismo provinciale, illegalista, dispotico e violento, in del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che nei vincoli  strettissimi con Filippelli e il suo giornale («L’Impero» apparteneva alla stessa cordata  economico/finanziaria editrice de «Il Corriere Italiano», la società “La vita d’Italia”, di cui  Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro esasperato “mussolinismo”, nell’ammirazione, certo non disinteressata, per il “duce”, verso il quale i due |    reduci del futurismo, un tempo cantori dell’anticonformismo e dell’individualismo anarchico,  tenevano un atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise in  imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e dell’opportunismo che  caratterizzava la redazione de «L’Impero» si ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il  giornale, già revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il “giro di vite” e la  soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di quella dolorosa vicenda, Carli pubblica un saggio, con la prefazione di Farinacci, (Fascismo intransigente. Contributo alla fondazione di un regime, Firenze, Bemporad), che è  tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. Il Nuovo Paese» apre i  battenti su iniziativa di Bazzi. Questi, che ècompagno di  Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del  movimento repubblicano che, in polemica con l’orientamento antifascista prevals o in seno al  partito d’origine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici del  fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore di una Unione  Mazziniana Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi giri d’affari, essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che subito dopo la marcia su Roma si annida ai margini del fascismo al governo»; una lobby multiforme «che aveva  tutto l’interesse che il fascismo rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una  normalizzazione che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale di  Bazzi alla causa del revisionismo FELICE, Mussolini il fascista.  Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda CANALI, Cesare Rossi: da  rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino. Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico  sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo e politica nel  primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino. Su Bazzi in  particolare v.SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione dei residuati  bellici, Storia Contemporanea.Infine, a proposito  de «L’Impero», v. SCARANTINO. complesso si era mantenuto puro dalla piaga dell’affarismo, e non vi ha dubbio che  ci erano dei ras, tipo Farinacci, persuasi in buona fede di giovare alla causa del  fascismo e dell’Italia, dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed  incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari governativi"?    Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di Rocca su «Critica Fascista», «Il  Corriere Italiano» prese di petto la questione e, in un fondo che avrebbe  sollevato l’indignazione di Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro  «l’arbitrio capriccioso e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a  prospettare, neanche troppo velatamente, la possibilità di uno scioglimento  del PNF, il quale, vivendo ormai di rendita alle spalle di Mussolini,  costituiva «l’inciampo più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi  insinuata dal quotidiano di Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo  di polemiche. «L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il  «feticismo ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna  giustificazione e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della  “rivoluzione” fascista ed essendo stati «lo spirito e la mentalità» del  fascismo «gradualmente ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non  vi era più ragione di conservare in vita il partito. Nel frattempo, Rocca non perde occasione per riaffermare il  proprio punto di vista. Personalmente contrario, almeno nel breve periodo,  allo scioglimento del PNF, il leader revisionista prosegue imperterrito  lungo la via intrapresa. I problemi più gravi del fascismo -  insiste Rocca - consisteno nell’equivoco perdurante tra partito e  governo, vale a dire nell’identificazione del primo col i secondo;  nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari provinciali; nella LUMBRO50 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere Italiano». SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero»Così, ad esempio, a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei  Gruppi di Competenza. Nel suo discorso, che riceve il plauso dGioda, Rocca non  tralascia di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie critiche agl’intransigenti (cfr. Il discorso di Rocca sulle funzioni dei Gruppi di Competenza, «Il  Piemonte»). In una lettera pubblicata da «L'Impero» (Partito e Governo fascista),  Rocca scrive non essere ancora giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e  consapevolmente fascista, si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non esclude  che, in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei Gruppi di  Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo gli strumenti necessati di questa trasformazione. Il giorno seguente Rocca ribade i medesimi concetti in un’intervista a «Il  Corriere Italiano»,  parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia; nel predominio  degl’organi esclusivamente politici di partito su tutto ciò che pur  rientrando nella vita corrente del fascismo, non è strettamente ulivo (ad  esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa ragione, il partito  ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca - conduce ad una vera forma di nuovo bolscevismo, DISSOLVITRICE DELLO STATO E DELL’ITALIA, cui si dove assolutamente porre rimedio. Contro la campagna revisionista, che raccolge i favori dell’opinione  pubblica moderata variamente  filo-fascista, insorsero invece gl’intransigenti. Nell’ambito di una riunione del Consiglio  Provinciale di Cremona, Farinacci difende il principio dell’intransigenza, si  disse contrario all'inserimento della milizia nell’esercito regolare e minacciò  una «seconda ondata» rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza  fede» che si servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici, Più  avanti, in un editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò  seccamente alle accuse dei revisionisti. Non era affatto vero scrisse - che  Mussolini non dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.   costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito in  modo schiacciante al trionfo. Se si distrugge il fascismo delle provincie  si domanda Farinacci  che cosa  resterebbe del fascismo? Io non ho l’acume di Massimo Rocca, ma come  caffoncello” di Provincia mi permetto di fare uno sforzo mentale  pari a quello di    he pero della terza elementare  calcolando che Provincia più Provincia fa  ‘azione!” ROCCA, Partito e Governo fascista, cit.   Tra gli organi “indipendenti” che offrirono spazio e considerazione alla campagna  revisionista, oltre a «Il Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla destra liberale, si  segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole quotidiano romano diretto da Olindo  Malagodi, «Il Corriere d’Italia», organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e  «L’Epoca», un giornale d’ispirazione combattentistica. Proprio «L’Epoca» pubblicò un’intervista di Montalto a Rocca (Il momento  attuale e il fascismo), dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un  pubblico non strettamente fascista. di Un forte discorso dell'on. Farinacci, «Cremona Nuova» FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia. Il giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del bolognese Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure più note del fascismo  emiliano/romagnolo (su di lui v. NELLO, Grandi: la formazione di un leader  fascista, cit, ad indicem). L’articolo (intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in  contemporanea anche da «La Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto»)  era una difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”, interessato e Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicità, non mancava di logica  e di veridicità e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al  cuore delle contraddizioni della politica revisionista. Il fascismo delle  provincie, caotico, brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero,  assai più del fascismo “addomesticato”, costituzionale e legalitario di Roma  e di Milano, l’anima del movimento”. Mussolini ne era ben consapevole,  tant'è vero ch’egli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una  liquidazione in tronco del “rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno  ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti più radicali e più  difficilmente gestibili; alla qual cosa, come già si è detto, la propaganda senza anima, propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e  violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano, per  mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca avrebbe meritato lo stesso trattamento  riservato a Misuri, in quanto il suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far  pari col famigerato discorso» dell’ex deputato fascista (PEDRAZZA, Polemica fascista.  Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera. A Piacenza, IL CONTE BARBIELLINI (si veda) punta l’indice contro le trame affaristiche sottostanti alla campagna revisionista. Per quali anonimi lestofanti  tuona il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di  torbidi nel fascismo? Vi secca la attività fascista di provincia? Vi secca che dai ras  provinciali si siano mandati all’aria diversi grossi affari che gruppi capitalisti avevano qui  realizzato ai danni dell’Erario Nazionale? (BARBIELLINI, Perché non molliamo,  La Scure). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche  dell’estremismo provinciale fascista  con particolare riguardo a Farinacci  v. GENTILE. E” interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura  antifascista, Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e gli altri ras  del suo stampo erano gli autentici e più genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli  non certo teneri nei confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrive di  preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di spirito di  sacrificio, al politicantismo senza pudore e al «trasformismo, senza decoro e senza  intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi, «professionisti della politica» il cui  revisionismo era nato in mezzo alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A  parte gli aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la predilezione,  tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale dell’intransigenza), l’intellettuale  torinese coglieva nel segno allorché metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e  culturale in senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce di  sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive, aspirazioni palingenetiche, e  godeva di un seguito che mancava invece completamente alle fredde teorie dei revisionisti.  Dietro ai vari ras di provincia - notava lucidamente GOBETTI (si veda) - vi erano «centomila giovani, che  al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria  disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata aberrazione, la repugnanza per i  compromessi e gli opportunismi» (la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, La  Rivoluzione Liberale; le restanti da Secondo elogio di Farinacci. Anche in GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino,  Einaudi. revisionista (anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia  di scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio.   Queste considerazioni parevano sfuggire a Rocca, il quale, vittima  forse anche della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo  arco più frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla  reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,  perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui stesso  suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse. Non ci si è ancora accorti, evidentemente  scrisse in un nuovo articolo per  «Critica Fascista»  che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia più salda  che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare e  ingrandire un’Italia unitaria, ove la forza armata, anche solo di manganello,  dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno solo il governo che fa le  leggi e le applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il diritto di mettere in  galera anche i più autorevoli fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si  adattano ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene,  facciano essi i prefetti, e pongano nella legalità il loro dominio personale e  continuino pure l’opera meritoria compiuta nel fascismo. Ma quest’opera è  indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito non  riguardano; ma per continuare tale funzione non è necessario instaurare repubbliche  dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta federare  degli staterelli autonomi, ove l’augusto signore sentenzia “qui comando io” e  fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli  platonicamente sotto l’egida di Mussolini, sopporta col platonico omaggio di un  alalà. Bisogna disfarli.Tutto ciò per la fronda fascista, nuova specie di  sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo e  ingombrante oggigiorno. Tutto ciò per la Fronda insorta personalmente contro  una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi vassalli un  modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se  non quello del Duce, né altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile  dal procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegherà?”    La “fronda” non si piegò. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di  questo articolo, la Giunta Esecutiva del PNF  - istigata da Farinacci - decretò l’espulsione di Rocca dal partito «per grave Rocca, Diciotto brumaio, «Critica Fascista» (anche in ID.,  Idee sul fascismo). Questo saggio di Rocca è preceduto da una significativa postilla della redazione. Siamo  perfettamente solidali con l’autore  vi si legge - e con gli scopi altissimi della sua battaglia, che è anche la nostra battaglia.  VIPATTTTRA VENTO ile A  indisciplina e indegnità politica. MUSSOLINI RICEVE ROCCA in qualità di vicepresidente  dell’istituto nazionale dell’assicurazioni, ufficialmente per trattare di questioni riguardanti l'ente ma in realtà per aver modo di esprimergli la propria solidarietà. La sortita del  duce, da cui egli si aspettava le dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva,  ebbe invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cioè  di una parte soltanto della Giunta), il che  rilevava prontamente «Il Popolo  d’Italia» - «non risolveva affatto la questione». Era in atto, come ben  notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio regolamento di conti. Ora si domanda il quotidiano romano è per le espressioni crude ed aspre  adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione è dn  stabilita? Se è vero che il “Cremona Nuova” di Farinacci sarebbe  dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del partito, sarebbe da  dedurre che le lamentate tendenze, diremmo così, provinciali, localistiche avrebbero prevalso?”  E prosegue: La lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono  Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali IRPROI Crisi i  coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta di due opposti elementi: quelli  che vogliono avvicinare il fascismo all’anima, del Paese e quelli che vogliono  mantenerne la formazione chiusa e intransigente La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessità della manetta  compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del Governo, «Il Popolo d’Italia. tif, side Hib: La Giunta Esecutiva del PNF, istituita in luogo della disciolta Direzione, sa  composta da: Farinacci, Lantini, Bianchi, Marinelli,  Sansanelli, Teruzzi, Bolzon, Bastianini, Maraviglia,  Caprino, Dudan, Zimolo e Starace. La decisione  contro Rocca è presa all’unanimità. i i   31 Rocca ricopre la carica di vicepresidente dell’INA. Cfr. Ibidem. TSI VII j;  La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi,  Starace e Bolzon. bri Bata  La Giunta esecutiva del PNF espelle Rocca il revisionista. Mussolini intende  che tale decisione è ri-esaminata. La Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni  al duce, «Il Giornale d’Italia gii vl  Nell’insieme, l’espulsione di Rocca solleva un’ondata di sdegno  Si scrive di procedimento sommario, di decisione grottesca che ha  il sapore della rappresaglia, mentre anche il consiglio bazionale dei gruppi di competenza fa sentire la sua voce, votando un ordine del giorno  di pieno sostegno al proprio segretario. A Torino, Gioda, che fin  dall’esordio della polemica revisionista aveva preso le parti di Rocca” si  dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidarietà con il suo vecchio  compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra  Gioda e De Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle    mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte  significato politico.    Non è la prima volta riconosce a questo proposito l’organo mussoliniano che,  durante clamorose polemiche, Gioda si schiera apertamente per la corrente  temperata del Partito Nazionale Fascista, ed è ancora ricordato a Torino  l’omaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista  Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso dicembre‘' Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie dimissioni anche  dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito più che esplicito, con  parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti. Li «L’Epoca L'Impero Cfr. «Il Giornale d’Italia. In un fondo per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon  senso), Gioda define i saggi revisionisti di Rocca un meraviglioso,  poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo. In un articolo di poco  successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista, perfettamente in  linea con gli assunti dei revisionisti. «I fasci scrive tra l’altro Gioda  non sono sorti per  soddisfare le ambizioni militari o politiche di TIZIO, CAIO, O SEMPRONIO, ma per l’Italia,  unicamente per la salvezza e le fortune d’Italia (GIODA, Corfù, Roma e il Fascismo,  Il Maglio). Cfr. «Il Popolo d’Italia Gioda riassume la carica di segretario del fascio e la direzione de «Il Maglio» da  pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua  grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le sue dimissioni, è rilevato da Bardanzellu, già presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale Combattenti. Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente «per ragioni di carattere famigliare» («Il Maglio»). Mongini è  sostituito dal milanese Rossi. Il Popolo d’Italia. Le polemiche de’ passati giorni  scrisse - mi hanno trovato pienamente,  apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta revisionista  capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico che è Rocca. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi parve inconcepibile che si  potesse appartenere ancora un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi  uomini più formidabili [...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta  gramigna Mussolini convoca Bianchi a Palazzo Venezia.  Questa volta Il duce richiede espressamente le dimissioni della giunta  esecutiva, decide il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali e decreta la prossima convocazione del Gran Consiglio del  fascismo. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri della  Giunta non restò altro da fare che obbedire. Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa (così  almeno rivelava «Il Giornale d’Italia) dal provvedimento  disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al contrattacco,  dichiarando in un’intervista che la Giunta, essendo parte in causa, non aveva  diritto alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non  sarebbe indietreggiato di un millimetro. A primi di ottobre Rocca si ritirò  nella sua Torino" e lì, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e  ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese  l’ex anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente  retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e in  ossequio alla grandezza d’Italia.  MagriO Giona, Commiato, «Il Maglio. L'articolo di Gioda usce accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di  Colisi Rossi, che definiva “inopportune” e ”intempestive” le parole del direttore uscente. Cfr. «Il Giornale d’Italia», 30 settembre 1923.   In un editoriale (/ncoscienza?) «Il Popolo d’Italia» plaudì alla richiesta di  dimissioni avanzata da Mussolini alla giunta esecutiva. Quest'ultima - secondo l’organo  milanese - manca di rispetto al duce, il quale, oltre a non esser stato messo al  corrente del proposito di mettere fuori gioco Rocca, è allora interamente assorbito  d’impellenti questioni d’ordine internazionale e non dove essere trascinato in polemiche  artificiose. «Egli  scrive il giornale diretto da Mussolini (A)  ha altro da fare. I capi  fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo. Se i fascisti locali non intendono  ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di appartenervi. La giunta esecutiva si dimise infatti. Cfr. «Il Popolo d’Italia». «L’Epoca», Cfr. «Il Piemonte», Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca]. AI cospetto di un fatto così grandioso  scrive -, noi, uomini che alla nuova  creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo sentire la nostra  pochezza individuale al confronto con la creatura che non è soltanto nostra e ci  sovrasta nello spazio e nel tempo; dobbiamo comprendere che nulla sarebbe più  folle, più sterile del voler monopolizzare l’Italia nuova per noi. Dobbiamo  sentire che anche il Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del  fenomeno storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza del ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le serve di  ase Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero dovuto «placare ogni  dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo temperamento, Rocca si  era ormai invischiato in una fitta ragnatela di polemiche. Tipica, in questo  senso, la controversia che lo oppose in quei giorni a LANTINI (si veda), uno  dei maggiori esponenti del fascismo ligure. Sulle colonne del suo giornale  Lantini  ch’era membro della Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato  Rocca, definendo la campagna revisionista «denigratrice, svalorizzatrice ed  offensiva, e denunciandone la «ben meschina» origine, «di carattere  prematuramente e comicamente elettorale». In una lettera di poco  successiva, Rocca replica al suo detrattore con una serie di accuse  minuziose, in particolare rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia  fascista» nei giorni infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi  ROCCA, L ‘intangibile grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID.  Idee sul fascismo). f  L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi anche da «Il Piemonte» (10  ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre).  di ID., /dee sul fascismo, LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova. AI breve editoriale di Lantini fa seguito una chiosa di Pala, il fiduciario  provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si professa completamente solidale con l’autore. Fin dal suo apparire Il Giornale  di Genova suscita sospetti circa i suoi finanziamenti. In polemica con «Il  Messaggero», che in un articolo svela i legami esistenti tra il nuovo  quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala smente [cf. GRICE DISIMPLICATURA] seccamente,  dichiarando che la proprietà del giornale appartene alla società anonima Compagnia  Editrice, di cui egli è presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia»). A Genova, tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero legalitario” aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle  agitazioni, il Fascio genovese da corpo a un comitato d'azione, del  quale fanno parte, tra gli altri, Lantini, gli onorevoli Torre e Stefani, e Rocca, il cui nome è però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache  de «Il Popolo d’Italia», la qual cosa fa pensare ad un coinvolgimento minimo del futuro isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere  Consigliere Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascina a lungo, in un  intreccio di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello  (peraltro sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le  armi) *, a tutto scapito della credibilità complessiva della campagna  revisionista.  Come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al  termine di una lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava  l’espulsione di Rocca in una ben più blanda sospensione di tre leader revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i  fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale della violenta  offensiva fascista è stato il Consorzio autonomo portuario, cuore del potere socialista a  Genova, che riuniva le cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto. Dopo che i capi fascisti lanciano un  manifesto contro la camorra portuaria dei vigliacchissimi socialisti («Il Popolo d’Italia), le camicie nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da Carrara, da  Alessandria e da Torino, assaltano Palazzo San Giorgio, sede del consorzio  (nell’attacco, che fa numerose vittime, rimane ucciso lo squadrista carrarese Martini, poi entrato trionfalmente nel martirologio fascista. Il senatore Ronco,  presidente del Consorzio autonomo, è stato costretto a firmare una dichiarazione capestro,  con la quale si impegna a revocare le concessioni di lavoro alle cooperative socialiste.  Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia. Su questi avvenimenti v. altresì REPACI. La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di Massimo Rocca a  Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX (anche in «Il Giornale d’Italia»). «Il Secolo XIX» segue con partecipazione le polemiche tra revisionisti e intransigenti, mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risente dell’avvenuta  pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla pubblicità» - e ne  chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza  cavalleresca, «Il Secolo XIX». A un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda assunse i  contorni di un vero e proprio «torneo». Si aggiunga che anche il dissidio tra Rocca e Lantini cela un più vasto conflitto  d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova» costituiva un  risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il controllo di  Genova: da una parte il trust formato dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di  Sconto (allora in via di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente  capo a Mastromattei, amico di Rocca; dall’altra la potente azienda armatoriale  Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva l’appoggio di Lantini e dei suoi  (su questi punti v. LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo,  Bari, Laterza). Tale contrapposizione travagliò a lungo il fascismo  genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte intestine. Il primo atto della crisi fu il  pestaggio, ad opera di alcuni squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, Loiacono, di cui erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia), +55 de i fee .  mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si risolveva in un accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia» allorché scriveva  che: Senza esaminare il merito delle polemiche da questi Rocca sollevate, è certo che  tra la prima condanna all’espulsione per indegnità politica e la sospensione per tre  mesi inflittagli ieri sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di  un compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze  che essa impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili    Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio riordinamento del  partito, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a governatore della  Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val Cismon dall’Italia (un  provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di doversi misurare con le  irrequietezze del quadrunviro), fu una grande vittoria di Mario Gioda, il  quale - come si è visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente nel  dibattito sul revisionismo e poteva ora, mercé la messa in disparte del suo  rivale, aspirare a recuperare credito all’interno del fascismo subalpino. Ai  primi di dicembre, con la rielezione a segretario politico del Fascio di  Torino”, ebbe inizio l’ultima fase della sua vicenda politica.   In un'intervista di quel periodo, Gioda espose il suo progetto per la  “normalizzazione”. Occorre  dichiara - puntare sullo sviluppo dei  sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base effettiva del  fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione con le altre forze  sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della possibilità di realizzare una  federazione di cooperative di tutti i colori e di tutte le tinte politiche.  Come a livello sindacale, così anche sul piano politico i fascisti avrebbero  dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia» con Per l’esattezza, il testo dell’ordine del giorno recita.Il gran consiglio prende atto delle  dimissioni della giunta esecutiva, revoca l’espulsione di Rocca e, per le  degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da  ogni attività di partito a cominciare dalla seduta odierna («Il Popolo d’Italia»). Una nuova fase, «Il Giornale d’Italia». V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo Paese»e l’articolo di Carli Il palladio della rivoluzione, «L’Impero» La Giunta Esecutiva è sostituita da un direttorio di IX membri, V con funzioni politiche e IV con funzioni amministrative. Giunta divenne il nuovo segretario  generale del PNF. Cfr. «Il Piemonte».  Gioda non riassunse la direzione de «Il Maglio», che resta a Rossi, tutti gl’elementi politici nazionali. Relativamente ai temi della violenza e  del rassismo, Gioda è perentorio. È oggi doveroso per i fascisti  afferma - orientarsi verso un'attività più Sa  ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le disciplinatissime forze della milizia a  Fascio può svolgere la più intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È  è rappresentato unicamente dal Prefetto. Essendo paladini le 1A ri  fascisti sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio. De n ci br  grande partito moderno come il nostro non può reggersi unicamente sulle Vi  o qualità politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi  vitali e poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE  Mussolini in sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea  organizzazione che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu  compagnia di guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap:  che troveranno tutte una dura parte da reggere Il programma illustrato da Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto  al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi.  Oltre il fascismo La sospensione di Rocca attenua ma non pose fine alla poni  revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse: Ha   le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad pi c iosa  per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno i un ie sà  Il fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima dinamica Hd  decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua trasformazione e le  circostanze che avevano reso possibile 1 pr  delle teorie revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù n   per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero più simonos e pel  mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res me  ma inesorabilmente, la “benevolenza” di Mussolini, i sostenitori di suse  defilarono (chi per calcolo, chi come Bottai perché ormai persua i i i i itico GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese. Intervista col segretario pol    io Gioda, «La Gazzetta del popolo», 12 dicembre 1923. È o ;  ca parzialmente anche su «Il Maglio») fu rilasciata da    Gioda all’ospedale San Giovanni, durante una delle sue ormai abituali degenze. Il Direttorio era entrato in carica. IRE SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT    dell’inanità della lotta), mentre i giornali che gl’avevano dato man forte  manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima servendosi della  copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il  ministro Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare dall’altra  parte della barricata. Così, quasi senza rendersene conto (e forse, come al  solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca s’infilò in un cu/ de sac  vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in poco tempo  mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a fattori esterni  certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori personali.  Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della propria cultura,  Rocca conferì un tono sempre più concettuale e filosofico al suo  revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppiù cervellotici, colmi di citazioni  libresche, in uno sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con la  conseguenza  inevitabile - di distogliere il grande pubblico dal cuore del  problema e di stancare anche gli osservatori più benevoli, facendo apparire  la polemica revisionista  in confronto alle concrete argomentazioni di un  Farinacci - poco più che una bizzarria intellettuale.   Scontato il provvedimento di sospensione, Rocca riprese - inizialmente con  cautela  l’ordito dei suoi disegni. In una sequenza di nuovi articoli,  pressoché concomitanti, per «Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per  «Critica Fascista», l’ex anarchico torna sul tema della legalità. Sebbene  “paretianamente” convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese  verso il Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo (in virtù della  degenerazione dell’istituto parlamentare) e dunque che la responsabilità  della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla  “rivoluzione” delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico  irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca  non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo  restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti  episodi di squadrismo, e in particolare dall’aggressione ad Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire l’urgenza di ristabilire  il confronto politico entro i confini della normale dialettica costituzionale, e  l’obbligo, per il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali. Solo così  si sarebbe giunti «ad una nuova e più alta normalità», fondata sull’imperio  della legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi garante Rocca, Fascismo e Costituzione, «Il Popolo d’Italia (anche in  Idee sul Fascismo). Cfr. «Il Nuovo Paese (anche in Idee sul Fascismo), nel suo stesso interesse. Il primo segnale che i rilievi critici di Rocca  cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che dagli irriducibili del  manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de  «L’Impero». In un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Settimelli si chiese se, alla luce delle sue più recenti affermazioni, egli  potesse ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a  tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca non  dissimulò affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo  scrive - è un  superatore più che un negatore assoluto dei principi liberali. Infatti,  fatto salvo il dogma della Nazione, la cui accettazione era il requisito  essenziale per potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero  minacciato quel dogma e che non si fossero risolte «in una negazione della  Patria, doveno essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto  maggiore del liberalismo è - secondo Rocca - quello di voler ancora  comprendere da solo tutta la società, assai più complessa e  articolata che in passato, così come il difetto di fondo del parlamentarismo  era quello di voler fare del Parlamento, un puro organo politico €  generico», uno strumento tuttofare. È dunque necessaria un’inversione di  rotta e l’esecutivo fascista ne possede i mezzi nei consigli tecnici, l’unico proposito veramente rivoluzionario» scaturito dal fascismo, la pietra  angolare di ogni autentica riforma in senso tecnocratico. A parte l'enfasi  posta sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a  fronte del naufragio dei “suoi” Gruppi di Competenza, dei quali essi  avrebbero dovuto raccogliere l’infruttuosa eredità), l’essenza delle  considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva più volte  sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi  più posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla s Ip., Tornare alla normalità, «Il Nuovo Paese»,  (anche in Idee sul  Fascismo,). SETTIMELLI, Fascista o liberale energico? (Risposta a Rocca),  «L’Impero. Più tardi, conclusasi la polemica revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca  dal PNF, Settimelli, in risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista  (cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!), avrebbe rievocato proprio  quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. “L'Impero e Massimo Rocca ”,  «L'Impero»). Ciò non toglie che, nel giro di poco più di tre mesi,  l’organo romano avesse completamente mutato la  propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando dall’iniziale sostegno alla decisa  ostilità. Rocca, Fascismo e liberalismo (anche in ID., Idee sul  Fascismo). a i idee    pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del  Partito Fascista diramò un comunicato nel quale s’informava che il  Direttorio Nazionale aveva inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca a  motivo dei suoi ultimi saggi. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo  di un discorso che Rocca pronuncia al  Teatro Scribe di Torino è sottoposto alla preventiva approvazione del duce, Ciò che colpiva nel lungo intervento torinese di Rocca (un vero e  proprio compendio della sua dottrina dello STATO, quale anda  formandosi negli anni) è l’assenza - certo non casuale - di qualsiasi  riferimento al partito fascista. Perciò, nonostante il discorso dello Scribe  non contene cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva  lo scheletro, il fondamento concettuale. Nella FILOSOFIA di Rocca,  sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica, individualismo,  liberal/nazionalismo e fascismo, non c’è più spazio per la mediazione del  partito. LO STATO, vertice della piramide, è il dogma intangibile e  indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e vicissitudine  partigiana, superiore, quindi, allo stesso fascismo.  Il discorso è l’ultima uscita pubblica di Rocca prima  dell’appuntamento elettorale. Egli, tuttavia, non disarma affatto e  anzi lavora ad un volume antologico dei suoi saggi “revisionisti” (il più  volte citato “Idee sul fascismo”), che vede la luce dopo le elezioni,  nell’ambito della collana “I problemi del Fascismo” diretta da SUCKERT (si veda). Il saggio, significativamente dedicato a Gioda («un fratello che  sa valutare e comprendere la testimonianza d’un travaglio spirituale)  contene anche due inediti di grande importanza. Nel primo di essi,  intitolato Una legge agl’italiani, Rocca invoca l’avvento di una legge che è inattaccabile nella sua  imparzialità serena, amministrata da uno stato capace di farne sostanza della  Il Nuovo Paese», Cfr. Il discorso di stasera del comm. Rocca, «Il Piemonte. Il testo completo del discorso si trova anche in MAssIiMO  Rocca, Idee sul Fascismo, come La ricostruzione morale della Nazione.  Le considerazioni di Rocca riceveno commenti benevoli da «La Stampa» (Il discorso di  Rocca), da «Il Nuovo Paese» (Il discorso di Rocca a  Torino) e financo da «Il Maglio», che ne definì l’intervento un mezzo di  lento riavvicinamento all’anima del fascismo (Il discorso di Rocca).   ROCCA, Idee sul Fascismo sua eternità, al di sopra degl’uomini e dei governi e dei partiti e delle  classi.   Il secondo inedito, Il Fascismo nel pensiero moderno, rivela pienamente i  segni dell’involuzione concettualistica che contraddistingue la ripresa  della campagna revisionista. Perno di questa lunga e spesso contorta  digressione storico-politico-FILOSOFICA è la condanna della modernità, di cui  Rocca  come altri anti-modernisti - individua l’origine nella riforma  protestante e di cui segue le successive incarnazioni, dal razionalismo allo  scientismo, per giungere, sul terreno politico, all’astrazioni della  democrazia demagogica e del socialismo. Contro la decadenza e la  dissoluzione d’ogni gerarchia innestate dalla critica moderna, si leva, in  passato, la rivolta isolata d’alcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma -  è in Italia - prosegue Rocca - che la reazione anti-intellettuale da i frutti migliori e più durevoli, generando prima la riscossa nazionalista,  poi quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella  fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza, è ancora, per il teorico  del revisionismo, una energia formidabile ma grezza, contenente i germi  d’una creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali. La  pienezza restauratrice del fascismo - conclude Rocca - dove passare  attraverso la riscoperta della centralità e della missione della chiesa cattolica romana, unica depositaria della certezza del dogma. Negli ultimi  due paragrafi del suo saggio - Il valore del Cattolicesimo e Fascismo e  religione -, Rocca immagina un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro  ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura, quale  approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto  l’egida della Chiesa. La critica di Rocca al moderno e la sua rivalutazione  della tradizione mostrano non pochi nessi con la contemporanea  riflessione di Suckert, senza tuttavia possederne né l’originalità, né tanto  meno l’anima romantica e sostanzialmente rivoluzionaria. Puramente e  Il riconoscimento del cattolicesimo romano come base fondante dell’unità nazionale e, più  in generale, della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, è al centro della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di  ABC, la rivista fondata da Bottai, Rocca ampiamente tratta  questi temi, sia sotto un’angolatura puramente storico-FILOSOFICA, sia in riferimento alla nuova  situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella dottrina della Chiesa cattolica  l’unico vero antidoto alla degenerazione partitocratica caratterizzante l’Italia repubblicana. DA proposito dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua  centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. GENTILE, € MICHEL deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex anarchico lo  fa dunque assomigliare più a Maistre che a MAZZINI. AI di là di  queste considerazioni, è ormai chiaro che Rocca esprime posizioni  personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi intellettuali, trovano nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non esita a  farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario. Le elezioni e la crisi del fascismo torinese  Rocca e Gioda parteciparono alle elezioni nelle file del listone governativo”. La candidatura di Rocca incontra invero moltissime  difficoltà. Apertamente osteggiato dagl’intransigenti, il leader revisionista  dove rinunciare a correre nel sicuro collegio di Torino (dove è invece  candidato Gioda), per accontentarsi di un posto in 1 quello di Milano/Pavia,  non senza incontrare le forti resistenze di Farinacci. Sembra, peraltro, che  Gioda condiziona la propria candidatura alla presenza nel listone  dell’amico Rocca. Avendo Rocca  rileva infatti un giornale torinese -,  con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia,  OSTENC. Sul pensiero politico dell’intellettuale toscano v. la monografia di PARDINI, SICKERT (si veda) Malaparte. Una biografia politica, Milano, Luni. Non solo Farinacci, a dire il vero. E’ singolare che quasi a voler  rinverdire le polemiche d’anteguerra, la comunità anarchica di New York, gravitante attorno  al giornale «Il Martello» (uno degli organi più autorevoli dell’anarchismo italiano all’estero),  da alle stampe un saggio intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto a  vecchi scritti anti-clericali di Mussolini e di Hervé, riproduce il testo di una conferenza  tenuta da Rocca a Providence allo scopo di dimostrare che il  mangiapreti d’un tempo è in realtà un voltagabbana. Due anni dopo, peraltro, il foglio  anarchico italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello stesso  Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei confronti di Mussolini (cfr.  Rocca, La verità su Mussolini, «Il Martello»). Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione elettorale v. FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. «Il Piemonte. Il ras di Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la  diramazione della lista ufficiale dei candidati, Farinacci si rassegna  ad accettare il fatto compiuto. Ora che le liste sono approvate, col sigillo del duce e del PNF  - scrive con evidente disappunto -, dev’essere bandita ogni discussione, anche se nel listone. V'è qualcosa d’indigesto; vi è il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione nostra avesse sepolto per sempre (FARINACCI, Ora basta!, «Cremona Nuova). il Segretario politico del fascio di Torino rimane candidato nella lista  nazionale.   Quella di Rocca è, necessariamente, una campagna elettorale in tono  minore, né molto diversa  a causa della salute malferma  è quella di  Gioda; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera. Il  dopo elezioni apre un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo  sub-alpino; crisi significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine  ambientale, s’inscrive nel più generale contrasto tra revisionisti e  intransigenti. La Stampa» pone l’accento  sui contrasti tra la tendenza transigente filo-liberale del fascismo  locale, rappresentata da Rocca, e l’ala più, giottosa e ribelle,  nostalgica dei metodi squadristici, arroccata in provincia. Come effetto di  queste lacerazioni intestine, la formazione della lista nazionale era stata  difficoltosa e, complessivamente, la percentuale di voti ottenuta.In Piemonte  da tale schieramento era risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%). A una settimana dalle votazioni si riunì a Torino  l’assise dei Fasci provinciali. In un’atmosfera satura di tensione (il discorso Il Piemonte. «Io  rinfaccia più tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il duce, ho accettato di  abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia,  quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono  andato, infischiandomi dei voti» (ROCCA, All'onorevole Farinacci despota  e censore, «Il Nuovo Paese. La propaganda elettorale fascista fu inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi  per la proclamazione dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo  al Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una lettera  “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto elettorale in Piemonte si  mantenesse nell’ambito della correttezza, come si conveniva ad una «lotta d’idee e non di  uomini», e professava «disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di  Mario Gioda ai fascisti torinesi, Il Popolo d’Italia. Anche in «Il Piemonte). Il segretario del fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il  proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu l’unica sua uscita  pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. il forte discorso di Gioda al Teatro  Alfieri, «Il Maglio»). Nelle 328 sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior  risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il Popolo d’Italia»). Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze in  Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La Stampa»). Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale. A confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era presentato anche un  raggruppamento di fascisti “dissidenti”, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che  vantava un largo seguito tra gli agrari e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle  simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. MANA del segretario federale, Rossi, fu interrotto più volte), il  congresso si risolse in un tumulto generale, con violenti scontri tra i membri  del Fascio del capoluogo e i rappresentanti delle province”. Il punto era -  come ancora evidenziava «La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del  nuovo Direttorio, all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata da Gioda, 1 margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo  subalpino si erano definitivamente assottigliati. di fascismo nella provincia  registra l’organo giolittiano - tende ad avere una  Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio, un carattere,  cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi    intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è i  L de, È già ed è ancora definito coi i  schiettamente piemontese st GR Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità della  situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso parte alla  concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla Direzione del  partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le decisioni più importanti, in  realtà, erano già state prese, indipendentemente dalle valutazioni di Gioda  Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del  Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Brandimarte, Orsi e Gorgolini. Il provvedimento colse di  sorpresa Gioda, il quale, in un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo  definì un «atto inconsulto e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel  modo più assoluto lo scioglimento del Direttorio del glorioso e  laborioso Fascio di Torino». La Segreteria Federale, forte  dell’approvazione dei vertici nazionali del partito, non si curò minimamente pie È  si “a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche contuso, «La Stampa». x tt n   : In una lettera della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il Popolo  d Italia») l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole esagerazioni». «Il  Maglio» attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra» a misteriosi  provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per conto terzi».   «Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924,  Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. GiodaIl giorno prima il segretario del fascio torinese invia un telegramma ancor più duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del direttorio  un imbecillesco provocatore colpo di mano e chiedendo la nomina di un «commissario avente pieni poteri» che facesse piena luce su ;  pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7%  DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta e delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come una  manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Giunge a  Torino Starace, in qualità di supervisore, Su decisione di Starace  il decreto di scioglimento del direttorio cittadino è esteso all’intero fascio, la cui ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario  straordinario, nella persona del ras Lantini. La nomina  dell’intransigente Lantini, uno dei più accaniti avversari del revisionismo, ad  arbitro delle sorti del fascismo torinese aveva un evidente significato  ammonitore”. Gioda, ormai sfinito dalla lotta contro la malattia, uscì  definitivamente di scena, assistendo impotente alla rovina politica dell’amico Rocca”. Minato dalla leucemia, l’ex tipografo si  spende in un ospedale torinese. Quale che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse  potuto essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche del  fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di Torino - in  particolare l’annosa contrapposizione con Vecchi e le sue stesse  esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando sulle  celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con Gioda Il Piemonte Cfr. «La Stampa, e «Il Piemonte. Cfr. «La Stampa», e «Il Piemonte». Non a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da «Il Maglio». In un precedente fondo, l’organo fascista - che significativamente non  da  spazio alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti,  affermando di non credere «alla utilità di mutamenti programmatici nei postulati fondamentali  del partito e negando addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo,  revisionismo e speculazioni avversarie. Sull’intera vicenda v. anche MANA. Dopo l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interroga su quali  sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già avvenuto in  occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione di  Rocca. In realtà, come riferì a Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo  stesso Gioda, questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non poter  cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Gabinetto Finzi,  Busta.   si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de  «Ii Piemonte» e de Il Maglio, pubblicati all’indomani della sua morte), il già citato  volumetto La vita diGioda narrata da Croce. Nel secondo dopoguerra, la  memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del sindacalismo di estrazione fascista (più  propriamente salodina), organizzato nella CISNAL. «Fondatore Gioda» campeggiava  sul frontespizio della nuova serie de «Il Maglio», come “periodico del sindacalismo  nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da    siii. ef .1.}  scompare un protagonista appassionato di una fase cruciale della storia  politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un certo senso    simbolo dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad un unico criterio  interpretativo. Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta di Rocca. Mentre si consuma la crisi del fascismo torinese.  Rocca riapre formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione come confessò più tardi di giungere ad un risultato pratico di epurazione e  di chiarificazione. In una lucida intervista a “L’Epoca”, che riattizza  immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato ribadì uno ad uno  i capi-saldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco  contro quelle «classi industriali». che, prive d’ogni idea generale  nobilitante, s’illudevano «di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la  civiltà foraggiando i vari capetti fascisti, in cambio di utili tranquilli.  Alla domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un  «orientamento verso sinistra» del fascismo, Rocca replica. Verso una  sinistra politica, democratica o liberale d’idee, no. Verso una democrazia di  fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione, si».   Il governo fascista - osserva Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni  politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di ampliare la propria base  favorendo, a tal scopo, «una profonda collaborazione» tra le diverse  componenti della società civile e del mondo del lavoro. Una collaborazione   Malusardi, che di quel giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Gioda, «Il Maglio»).  a MAassIMO Rocca, A Farinacci despota e censore, cit.   Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on. Massimo Rocca,  «L’Epoca». Rocca riprende questi concetti in un saggio su «Il Nuovo Paese» (//  bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in quella circostanza - non era nato per  tutelare gli interessi delle «cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e  vecchi imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica, proprio come certi  “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle provincie un terreno di conquista politica  e militare». Tra i due deprecabili fenomeni - aggiunse Rocca  vi era un nesso profondo, in  quanto gli squadristi «dell’ultima ora» erano sovente finanziati da industriali e proprietari  «senza scrupoli». Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» all'on. Massimo Rocca, cit, di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non «isterilita da pure  considerazioni economiche o da un’opera di gendarmeria a favore di una  classe sola», poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista  abbandonasse ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte  integrante della Nazione”. A queste considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli  pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi - soprattutto  su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi concetti. In un  articolo particolarmente duro per il giornale di Bazzi (una sferzante  requisitoria contro le «camarille locali» fasciste), Rocca, quasi presentendo  la resa dei conti finale, sostenne che la normalizzazione non poteva più esser  rimandata. «Dopo le elezioni  scrive -, il Paese ha diritto di pretendere un  assetto definitivo del Fascismo. Il 1924 dovrà assolutamente assistere  all’inquadramento completo del partito nella Nazione,   Com’è lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una  pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, però,  Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle  Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del  governo Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda “ondata” revisionista L’Epoca», diretta allora da Madia (subentrato a Falbo), dedicò  almeno  inizialmente  molta attenzione alla seconda fase della polemica revisionista. Pochi giorni  dopo la pubblicazione dell’intervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò  un’altra, anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità del  revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai). «Mussolini  ricorda Rocca a questo proposito - mi fa pregare, da Paolucci de’Calboli  Barone, di abbandonare la polemica. Rifiutai qualsiasi impegno in merito, perché volevo giungere ad una chiarificazione definitiva (Rocca, Come il fascismo divenne una  dittatura). Il Nuovo Paese» prende, di fatto, il posto che è stato de  «L'Impero» e de «Il Corriere Italiano». Il favore accordato dal giornale di Bazzi al  revisionismo era però caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo,  un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si  accompagnavano critiche all’eccessiva «astrattezza filosofica» delle sue tesi, il tutto in una  cornice di disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve  chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga, nell’ipotesi, rivelatasi realtà,  che i revisionisti finissero per soccombere.   102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Questo articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di “Mezzi per  normalizzare” veronese Stefani, deputato  (è eletto - come si è visto -  nell’ambito della lista fascista patrocinata da Malusardi), era entrato nel governo  Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte del popolare Vincenzo s’intrecciò con la violenta campagna scatenata contro Stefani da «Il  Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri equivoci giri d’affari alla  temuta opera moralizzatrice del ministro'. Secondo Felice, il  coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre  fu probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il sostegno  di Bazzi, ma è certo, in ogni caso, che il leader revisionista ha in tutta  quella vicenda una parte solo marginale. Rocca, del resto, nega sempre di  esser sceso in polemica personale con Stefani; e in effetti, sfogliando i  suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a  questioni economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””.  E’ bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato  con Corgini fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il  suo accantonamento da parte di Mussolini) pubblicò un intero volume  contro la politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il saggio uscì  quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese»  non resta che l’eco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale Tangorra, anche il Dicastero del Tesoro. La sua azione di  governo, sostanzialmente improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre  direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio drastico della  spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte); contenimento della dinamica salariale;  ripresa di un liberismo doganale “controllato”. Cfr. Dizionario biografico degl’italiani, fe   Su questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista. Il Nuovo Paese» rimproverava al ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi  l’equilibrio del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della Nazione;  ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”, essendo ben altri, in realtà, i  motivi dell’ostilità del giornale nei confronti di Stefani. Tra le principali imputazioni  mosse al ministro, la più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della  lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi presunti favori alla  potente Banca Commerciale (accusata di mirare al monopolio di tutte le attività industriali,  bancarie e finanziarie), a discapito soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione  (ofr. Per gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese»).   si Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista. In una lettera successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata da «Il Corriere della Sera»), Rocca si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo  nome fosse stato collegato alla diatriba «Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non aver  «mai attaccato» il ministro.  1°? Una sola volta, con l’articolo La tirannide finanziaria (pubblicato da «Il Nuovo Paese» il  14 maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca  Commerciale.   Ra Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli). Il saggio, che fa parte della   collana Pagine Politiche diretta d’Angiolillo, raccoglie il testo di un  dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a Stefani ha un riflesso del  tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle province  l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento nella  lotta contro gl’affaristi” romani, all'opinione pubblica moderata, che  aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della  normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato il  principale organo revisionista ad un conservatore come Stefani (il quale  godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo politico ed  economico liberale, come Einaudi) apparvero incomprensibili e  gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe mai accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi collaboratori. discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati (anch'esso,  dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie di note nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo dissenso dalla linea politica di  De Stefani, ribadendo peraltro la propria estraneità alla polemica tra il ministro e Il Nuovo  Paese, e definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso dal  Partito Fascista a motivo di essa. Quanto alla sostanza delle sue critiche a  Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nell’imputare al responsabile delle  Finanze il suo economismo professorale - troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se  stesso - e la sua incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione sindacalista della  produzione, colta invece dal programma economico fascista. Per un economista di  tal razza  argomenta Rocca  esiste soltanto la libertà economica, cioè della classe  borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre classi, con la conseguenza di favorire il  dominio della plutocrazia bancaria e affaristica, la quale rappresentava l’applicazione  quotidiana, esagerata e unilaterale della scienza economica classica e borghese. Pi «La lotta contro Stefani  scrive Farinacci in tono minaccioso - deve cessare. Il  Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una volta il Nuovo Paese e i  suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come l’on. De Stefani non può essere lasciato  aggredire da chi è privo di ogni diritto e autorità morale» (FARINACCI, Solidali con  Stefani, «Cremona Nuova). palla giolittiana «La Stampa» (CABIATI, Il ministro Stefani)  ai filo-fascisti «Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul “revisionismo” e pro 0  contro De Stefani) e «Il Resto del Carlino» (FLORA, Per  l'onorevole Stefani), la stampa liberale prese, compatta, le difese  dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento  di Flora per il quotidiano bolognese è forse il più indicativo di questo comune sentire. Nulla  di più enigmatico e di più doloroso per il pubblico italiano  scrisse l’articolista de «Il Resto  del Carlino»  della campagna ostile contro il ministro De Stefani, riuscito in soli due anni  con una politica finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella,  a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della nazione dall’estrema rovina. I  revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo Paese» contro De Stefani, apparivano  dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali, per sostenitori della finanza “allegra”, al  punto che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della  legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per passare in fe TE avitbicee    In un’atmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si avviò  incontro alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora incerte al  momento della sua intervista a L’Epoca, si andavano d’altronde sempre  più definendo. «L’Impero», dopo un lungo silenzio, scese in campo a dar  manforte a Farinacci. In un editoriale  Il pugno e la  biblioteca -, Settimelli prende le difese dei selvaggi delle province  (il pugno), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di filosofare  vanamente sui massimi sistemi, tradendo l’anima guerriera del  fascismo. A parte la disinvoltura dei suoi ex alleati, è però indiscutibile  che Rocca si compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a  virtuosismi da erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione  e le fonti del Fascismo, uscito su L’Epoca in contemporanea all’articolo di  Settimelli), col risultato come si diceva - di togliere mordente e  immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno  sterile e noioso esercizio di critica filosofica.   A strappare definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide Mussolini (A) con un fondo durissimo per «Il Popolo d’Italia. Gli onorevoli Rocca e Bottai  scrive il fratello del duce -, ai  quali non si può negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a  demolire, a precipitare ciò che anda semplicemente attenuato. I patriarchi non  si mettono a fare la boxe coi capi di provincia. Se non ci fossero stati gli  squadristi, se non ci fosse stata la violenza, l'ordine, la disciplina, la ripresa di  tutta la nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembra infine un mezzo necessario per salvare l’integrità dei bilanci. Persino Il Mondo, l’organo dell’opposizione costituzionale  amendoliana, che pure precisa di non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni  caso, non ha mai risparmiato critiche all’operato di Stefani, convenne  sull’inopportunità della campagna contro il ministro. Indifferenti come noi siamo a qualsiasi  esito - scrive infatti il giornale diretto da Cianca  di una cosa sola possiamo  rallegrarci: che non ha vinto una campagna che appare troppo minata da rancori e da  vendette d’uomini o di gruppi che si sono trovati in contrasto con le ragioni dell’erario, ed  hanno sferrato contro l'ostacolo Stefani attacchi di stile inusitato perfino nell’attuale  depressione del costume politico (Il caso Stefani. La logica del pugno in opposizione alla biblioteca - replica Rocca a Settimelli -,  l’esaltazione cieca della forza, il mito dell’ITALIANITÀ, conduce il fascismo alla  dissoluzione morale (Rocca, Il problema morale del fascismo, «L’Epoca»). Il problema d’educare  e quindi di responsabilizzare  i quadri fascisti è avvertito dai dirigenti più accorti. Dopo la marcia su Roma, nel pieno delle polemiche sullo squadrismo, Malusardi - allora a Sestri Ponente - si batte per l’apertura, nei  locali del fascio, di una biblioteca di cultura varia, in modo da offrire ai fascisti  un'opportunità di crescita “etica” e “intellettuale” (cfr. «Giovinezza»). di oggi puo parlare da Roma, sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il  tono ieratico degl’eunuchi. Le brusche parole di Mussolini (A), in perfetto stile farinacciano,  colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché  non imprevedibile  voltafaccia de Il Nuovo Paese, Rocca prova  dapprima a parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisa di  non aver mai inteso offendere l’eroiche camicie nere. Quindi, di fronte  agl’insistenti affondo di Farinacci, si decide a pubblicare una lettera aperta al  proprio rivale. Benché traboccante di retorica, la lettera di Rocca è un fiero  atto d’accusa a Farinacci (il viceré spagnolesco di Cremona) e al fascismo  provinciale che egli rappresenta, degenerante nella volgare brutalità del  cazzotto o del randello. È stato scritto, molto suggestivamente, che in  questo modo Rocca ridiventa l’anarchico Libero Tancredi esi prepara  a riprendere la via dell’esilio. Non sembra, tuttavia, che Rocca si è  del tutto reso conto d’esser giunto al capo-linea della sua avventura  fascista, sebbene non è difficile prevedere, come riuscì a un giornale  MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo d’Italia. Lo stesso giorno, con grande tempismo, L'Impero titola: Gridiamolo ancora: il fascismo ha fatto la rivoluzione per avere uno STATO FASCISTA, non per appuntellare lo stato liberale. 3 ‘gu i i  ni C'è una fronda in giro?  si chiede il giornale di Bazzi, riecheggiando il  titolo del saggio d’Mussolini (A). Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che è spezzata. La dichiarazione di Rocca è pubblicata da «Il Nuovo Paese» e ripresa, il  giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia» e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo  giornale, si dice indignato per quella che considera un’autentica virata di bordo da parte  del suo avversario («Cremona Nuova»). In realtà, Rocca si era DERER a  esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della vecchia guardia (come sO resto  aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le violenze dei teppisti pc  quelli di tutte le seste giornate, ma anzi sottolineando che egli continua a attersi  per l’epurazione all’interno del panic affinché questo puo realizzare il suo genuino  di disciplina legale e materiale. Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la lettera si trova riprodotta  anche in Come il fascismo divenne una dittatura). Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffunde un comunicato con il cbr no  notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio  d’amministrazione della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica  che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», e «Il Nuovo  Paese»).  BEGNAC, è ti  18 In. effetti, ancora dopo che il direttorio fascista ne sanziona il definitivo  allontanamento dal PNF, Rocca nutre la speranza che il suo caso è ri-esaminato, come  già è avvenuto in occasione della sua precedente espulsione. Ed ora  dichiara il dell’opposizione, che la sua lettera a Farinacci ne ha con tutta  probabilità determinato l’espulsione dal partito. La sera stessa il direttorio fascista, riunito a Palazzo CHIGI alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una visita ufficiale in Sicilia), DECRETA L’ESPULSIONE DI ROCCA dal PNF. Essa, commenta «Il  Popolo d’Italia», non è solo: la punizione ad un sedizioso, ma un monito severo e una minaccia solenne a  tutti quegli PSEUDO fascisti o FALSI fascisti che rinnegano la fede, offendendo la  patria e turbano colla smania e la follia dell’arrivismo quel che è il dovere  fascista più grande: la ricostruzione nazionale. Il direttorio decide altresì l’espulsione di Bottai, ma questi, grazie  all’intercessione di Marinelli (non si sa a quali eéindizioni  probabilmente la promessa di rientrare nei ranghi), ottenne la revoca  del provvedimento, cosicché Rocca si trova, di fatto, a sostenere da solo il  peso dell’epurazione. Nel giro di pochi mesi, dunque, il revisionismo passa d’una concreta,  benché ingannevole, speranza di successo al più cocente fallimento, mentre  a «Il Giornale d’Italia»  più fascista che mai, se il fascismo è legge statale e  disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere un po’ di giustizia, non  Importa se più tardiva che nello scorso settembre. Avanti!: Cfr. «Il Popolo d’Italia. Ogni commento da parte nostra - rileva Farinacci trionfalmente  è superfluo. Costui  [Rocca], da noi, è considerato fuori del fascismo già da un anno (FARINACCI  Virando di bordo, Cremona Nuova. GUERRI. La marcia indietro di Bottai addolora Rocca, che ne attribuì la ragione alle  preoccupazioni carrieristiche del  intellettuale fascista. Bottai  scrive  Rocca --, teme di veder spezzata per sempre la sua  carriera. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. Il punto è  che il revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muoveno da  premesse culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca, infatti, che  vanta una militanza politica pre-fascista di tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua  breve stagione futurista, si e form politicamente col fascismo, al quale dedica  tutto se stesso, e di cui  se così si può dire - puo considerarsi l’unico vero intellettuale  organico. Nonostante l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non è  assolutamente in discussione. È così  come sottolinea efficacemente Guerri - che Bottai, il  quale crede nel FASCISMO COME TEORIA POLITICA, non volle rinunciarvi sempre  ripromettendosi di migliorarne la prassi, mentre Rocca, assai meno fascista e anebra molto  anarchico, piuttosto che accettare la disciplina di un partito che considera irrimediabilmente  marcio, prefere rinunciarvi del tutto (GUERRI. Rocca vienne abbandonato al proprio destino”. Perché MUSSOLINI decide di sacrificare Rocca, di cui aveva personalmente preso le difese meno  di un anno prima, è questione di non facile interpretazione. La risposta può  essere ancora una volta ricercata nella duttilità strategica del duce.  Mussolini, infatti, coltiva ancora il disegno d’un allargamento della  maggioranza, da realizzarsi soprattutto grazie a un’intesa con la CGL -- un  progetto a cui il capo del fascismo tiene in modo particolare e che, se non  è sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in  porto.  Un'operazione tanto importante  scrive Felice  dove essere  realizzata con le minime possibili scosse interne. Gl’intransigenti dovevano essere  convinti ad accettarla. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro è la  fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non puo certo esimersi da Rocca è quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è giusto ripetere  che egli sconta anche gravi errori personali. Con la sua definitiva espulsione  | commenti della stampa italiana sono variamente ma unanimemente favorevoli alla  decisione del direttorio. Settimelli, su L'Impero ha parole di  stima per Farinacci (il suo programma semplice e schietto, energico e fiducioso, è il nostro  programma) e di riprovazione per Rocca (Rocca non ha una visione chiara e  sintetica della situazione. È farraginoso e analitico). «Il Resto del Carlino», che vede  con favore la battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarca la degenerazione  personalistica della polemica revisionista  concretatasi negl’attacchi a Stefani -  augurandosi che Rocca si convince dell’opportunità di rientrare in un completo  silenzio (Il provvedimento contro l'on. Rocca). Con argomenti simili, «Il  Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità del revisionismo degl’inizi, ne critica  l’involuzione dottrinale (non si capisce quale è la meta, per quali vie concrete  raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponeno) ed espressa soddisfazione per  l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube risolta).  FELICE, Mussolini il fascista. A una successiva riunione del gran consiglio del fascismo (in piena crisi  Matteotti), Mussolini si mostra ancora moderatamente ben disposto verso certe tematiche  revisioniste. Dichiaro  dice il duce -- che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti  vogliono andare a parare. Bisogna che questi nostri amici specificano. Si tratta di una  ricaduta nello STATO democratico/liberale con tutti gl’annessi e connessi? Si vuole invece  rivedere i quadri ed i gregari? O si vuole  come è logico  ri-vedere le posizioni  morali e politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del potere  politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo ha una reale utilità. E evidente che,  assunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei ribellisti. Oppure il revisionismo vuole condurci ad un ri-esame delle nostre posizioni programmatiche?  Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un ritorno al passato? (PNF, Il Gran  Consiglio nei primi danni dell'ERA FASCISTA). dal PNF, Rocca (che non si dimise da deputato e presenzia regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera)  ©’ concluse la propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa  coscienza anti-fascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne,  riguardo al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di  odio/amore), di cui è testimonianza il suo saggio, Come IL FASCISMO  divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo  momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tenta la via  dell’opposizione interna; quindi lascia l’Italia per la  Francia, dove vive a lungo come appartato in rapporti di reciproca  diffidenza con la concentrazione anti-fascista e in ristrettezze economiche,  scrivendo saltuariamente per Il Pungolo, il giornale diretto dal socialista  Lemmi che raccoglie anche molti ex fascisti espatriati in seguito  alla vicenda Matteotti (fra i quali Rossi e lo stesso Bazzi) !°8. Dalla Francia Rocca passa in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a 15 Cfr. «Il Giornale d’Italia. Rocca, PRIVATO DELLA CITTADINANZA ITALIANA  dopo l’espatrio in Francia, è dichiarato decaduto  dal mandato parlamentare. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei  Deputati, Legislatura, Discussioni, Rocca è aggredito più volte: le più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad  opera di Bonelli, Masini e Nardo (rispettivamente il segretario del  fascio di Genova e i comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti  contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo genovese e i gruppi  armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna»,); e in Galleria a Milano da  parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS, MINISTERO DEGL’INTERNI, Dir. Gen.  PS, Affari gen. e ris., Busta 7 [Rocca comm. Massimo]. Un telegramma del prefetto di Verona al ministero degl’interni informa d’una riunione  in una trattoria di Peschiera, nel corso della quale Rocca,  illustrando il programma revisionista, propugna la formazione di fasci autonomi, che  avrebbero dovuto raccogliere tutti gl’elementi dissidenti degni di militare nel fascismo (a  questo proposito Rocca lesse le adesioni di Forni, Padovani, Sala e  Marsich) e ricercare la collaborazione dei combattenti e dei mutilate. Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo  fascista intorno a un programma e a degl’obiettivi comuni, prende corpo nella Lega Italica,  sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà  e sotto l’egida del poeta e drammaturgo BENELLI (si veda), figura, se possibile, politicamente ancor più contraddittoria di ANNUNZIO (si veda). La Lega Italica, che avrebbe dovuto  costituire l’embrione di un vero e proprio partito dei dissidenti, si dissolve però nel giro di  pochi mesi, vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi. ZANI. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. Per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblica il saggio “Le fascisme e  l'antifascisme en Italie,” anticipante molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il  fascismo divenne una dittatura.   ci giornali e riviste  soprattutto di lingua francese - e sempre mantenendo,    nei confronti del regime, un contegno altalenante (lex anarchico  approva pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma non ha esitazioni, in  seguito, a prendere posizione contro le leggi razziali). Rientra in patria  soltanto dopo un periodo di detenzione nelle carceri  belghe, riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista. Muore a  Salò. Tra questi spiccavano il settimanale Cassandre e il quotidiano Le manna  entrambi editi a Bruxelles. I saggi di Rocca, per lo più firmati con pseu toni   il più ricorrente), vertevano principalmente su questioni di politica RENO È RAT.  Rocca è arrestato subito dopo la sesta di sg Ù tgp ° so ta I È  Il suo nome appare nella lista egl de ni   iale». L'ex anarchico nega sempre di aver avuto a che fare con nig   ela aa e, su ricorso del figlio, St  cancellato dall’elenco (al riguardo v. Rocca, Come il dae pri, i  dittatura). Ciononostante  a quanto i; a un FOA È documentatissimo studio (FRANZINELLI, I tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN  e viftime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, ta pare ani  Rocca fa effettivamente parte dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome di Omero. Le battaglie perdute sono generalmente dimenticate, poiché i vincitori non sentono alcun interesse a ricordarle, almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o una  stessa nazione. Ciò non toglie che, se non gl’uomini,  almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si vendichino,  attraverso le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla è  più facile, ad esempio, che deridere e sopprimere certi  valori spirituali, quando si dispone della forza sufficiente per impedirne la affermazione e persino il ricordo. Nei  giorni della sventura tuttavia, cioè quando la forza vien  meno, si misura l’importanza negativa della loro assenza, e  meglio ancora la misureranno coloro che, più tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti  (Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo, «ABC»). Con l’uscita di scena di Rocca, coincidente con il fallimento della  linea revisionista, ha termine questo saggio. La caduta in disgrazia di Rocca  (cui si accompagnarono, pressoché contemporaneamente, la scomparsa di Gioda  e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco  ridimensionamento delle residue velleità libertarie” di Malusardi),  può infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica  dell’anarco-interventismo, quanto meno di quella parte dell’anarco-interventismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali  esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se infatti, come giova  ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza storiografica, considerare l’anarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e Malusardi come  fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto (perché il conflitto  mondiale comportò un’effettiva trasformazione della società italiana, contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche prebelliche; e  perché il fascismo, al di là delle sue molte anime, fu comunque un fatto  nuovo, impensabile senza la svolta epocale della guerra), pure, come crediamo di aver illustrato, l’atteggiamento di fondo con cui questi  personaggi si accostarono al fascismo può in qualche modo esser ricondotto alla loro formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa  parlare della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena  anarchica, che, innestatasi in esso tramite l’interventismo, si esaurì, progressivamente ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della  rivoluzione” fascista. ‘Renzo Novatore’ (Arcola) filosofo. ‘Renzo Novatore’. Keywords: implicatura, l’anarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The Swimming-Pool Library. Abele Ricieri Ferrari. Ferrari

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferraris: la ragione conversazionale e filosofia italiana – la scuola di Galatone -- Luigi Speranza (Galatone). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferraris – he analyses all the implicata of The Lord’s Prayer – pretty complicated – my favourite is his excursus on the implicatum of ‘thy will be done’” Figlio Pietro De Ferraris e Giovanna d'Alessandro. Studia a Nardò. Passa quindi a Napoli. Molte sono le conoscenze che fa all'Accademia. Entra in contatto con Gareth detto il Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza, Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si trasferì poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della reggia partenopea, nella corte di Ferdinando I.  Si adatta a Gallipoli, dove si sposa Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La serenità della sua vita fu turbata dall'invasione di Otranto da parte dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce annotando gli eventi drammatici che in seguito sarebbero stati il canovaccio per un'opera composta in latino. Si sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato dottore al servizio della corte aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di residenza. Inizia anche a scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i ringraziamenti a Barbaro per la dedica ricevuta; è seguente la redazione di Altilio Galateus εὐ πράττειν e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum de distinctione humani generis et nobilitate; e una seconda epistola a Barbaro e il saggio Ad Pancratium de dignitate disciplinarum.  Dopo la morte di Ferdinando e Alfonso II, abbandona Napoli non prima di avere composto Galateus medicus in Alphonsum regem epitaphium. Torna a Lecce dove forma assieme L’Accademia dei lupiensi. Scrisse Ad Chrysostomum De villae incendio, per celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta dal fuoco. E a Napoli, convocato dal re Federico d’Aragona che lo volle con sé, ma l'inasprimento del conflitto con Francia lo spinse a ritornare nella provincia salentina. Godette dell'ospitalità di Isabella d’Aragona, presso cui ebbe modo di comporre in latino lavori di filosofia, filosofici. Una delle pochissime trasferte dal Salento fu quella che effettuò a Roma presso Giulio II, a cui offrì una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata nella biblioteca di Casole. Fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi contemporanei, riuscì a coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni scientifiche. Le sue conoscenze erano di ampio respire. Il suo bagaglio filosofico include la cultura classica di Aristotele, Platone ed Euclide. Considera che la filosofia classica era stata traviata dai filosofi come Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salvò solo Boezio e la sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civiltà classica e autori come Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio, Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante, Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere di Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associò Ippocrate e Galeno.Non trascurò gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue opere. Ma non sfuggì a Ferraris il quadro generale della società dei suoi tempi e della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali criticò la diffusione delle cattive consuetudini.  Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato storico-geografico sul Salento.  Mentre era a Bari ha notizia della "Disfida di Barletta" e ne narrò per primo la storia nel suo De pugna tredecim equitum.  Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le seguenti epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium Sincerum de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio indignis collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de nobilitate, Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae, Ad comitem potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis militis Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi Apuliae, Ad Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae,  ad Chrysostomum de pugna tredecim equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad Chrysostomum de Prospero Columna, phiilosophi praestantissimi de situ elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium, Esposizione del Pater noster De educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, ad Antonium de Caris Neritinum episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo  Iulio II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae ad clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas, Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), “Gallipoli” (Lecce, Messapica Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il poeta nel marzo con l’apposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie, Galatone, in Treccani Enciclopedie. PULITEZZA SPECIALE, •tifi' m CONVERSAZIONI, ' r Or^ne delle eatwersm Umi e specie. M AUorohè, dopo il IX -secdb, ff mase sciolto quasi ogni vincolo governativo in Europa, ciascun uomo, secondo le sue  forz6%  procurò di rapire o distruggerot  £Dibbmar fortezze per difendersi o adonar prmi  per  assalire. Tra gli oggetti rapiti  prìpieggiavano  le  donne  ragguardevoli  per  bellèzzà. I  cavalieri  o  sia  gli  uomini  a  cavallOy  che  più  de*  fanti  erano  anticamente  pregiati  alla  guèrra,  spinti  da  avidità  e  da  amore,  da  vanità  e  da  gloria»  ^i  assunsero  il  carico di  difendere  il  bel  sesso »  come  vedremo nèlF articolo seguente.Quindi 8i uoiiODD in croecbi talora ne' ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de' principi i cavalieri per fare  pompa  delle  loro  lAiprese,  le doniM/ per  onorare  i  loro  difensori  e  trarne vanto,  i  poeti  pec  cantare  il  valore  degli  uni  e  la  bellezza  delle  altrer Le  donne,  i  cavalier,  ràrme,  gli  aniiori., Ile  cortesie,  le  audaci  imprese  io  canto. Siccome  le  dame  e  le  principesse  l'oggetto  sono della  poesia,  così  ne furono  le  sovrane  in  '  M  giudizio  e  prò  tribunali.  Imperocché  tenevano  »  nelle  lor  Corti  e  castella  corte  W  amore  o  par lamentoi  oyè  trattai^nsi  i  problemi^  le  cause,  le  »  liti  amorose  e  cavalleresche;  concorrendovi  gen-  iiluomini  e  dame  dappresso  e  da  lungi,  e  sopratutto  poeti e cantori, quasi avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che  se  contenti  non sono  {  litiganti. (kyUa  sentenza  de'{>ai:lamenti   allora  sorgevano  le  Tenzoni  o  sfide  poetiche,  eolle  j>  quali  r  un  contra  T  altro  scrivevano  i  trobadori  a  difesa  dìJoi^  eauÉT'e  di  lor  belle»  onde  sono sempre  in  giro  messagi  e  proposte  e  risposte,  e lamenti  e  disQde  novelle  d'^inore  e  di  poesia  Cresciuti  in  fom  i Governi ne suasegnenti secoli,  e  cessati  i  pericoli  delle  belle,  non  fu  più  necessario,,  per  ere  ammesso  in  queste  conversazioni, Taver  rottopiù  lancia  in  onore  d-ona  prin*  eipessa  o  d' una  lama,  ma  bastò  Q^ie  vi  scendesse 1)  BeUifiellf.  j  ^  oj  by  vmmztA:  sfigxale  30&   Per  lungo )>  pi  magoanimi  lombi  ordine  il  sangue»  Purissimo  celeste»;   per  appriezz^re  meglio  i  sentiBientì  del  poeta  e  salire  air  origine  degli  usi,  il  lettore  può  consultare  la  nota.  Xe  ài  Londra  del  dicono:  Le  péU^ni  presentate alla  carte  dei  rUelami  nella  circostanza  dell'incofonazione   delFattufide.re  d*  InghQterra),  cofi   tengono  pretensioni  singolarissime,  e  che  ricordano  usi  antlchissimi.  il  conte  d'Abergaf enny,  come  signore  della  cascina di  Sculton,  riclama  l'uffizio  di  capo  deUe  dispense  cl:àedetìàa di  farne  il  servizio  sia  personalmente,  sia  .col  mezzo  del  sup  deputato,  e  riclama  per  suo  emolumento  tutti  gli  avanzi  deUe  pietanze  e  delle  carni  dt^o  il  pranzo.   Due  petizioni  furono  presentale  dal  duca  di  Norfolck.  Colla  prima,  nella  sua  qualità  di  conte  maresciallo  ereditario,  egli  chiede  di  compiere  personalmente  o  col  mezzo  d'un  deputato  gli  idficii  di  primo  boUiqUm'e  d'Inghilterra,  e  di  ricevere  perciò  la  migitor  coppa. d'oro  con  «Q[M$relìio,  tp  rimarranno  sotto,  il  inezzule,  e  tutti  gii  orciuoll  e  coppe,  eccetto quelli  d'oro  e  d'argento  che  resteranno  nel  celliere  dopo  il  pranzo.  Colla  seconda  petizione  li  nobile  duca  dimanda,  come  signore  della  cascina  di  Workoop,  di  presentare  al  r^  un  guaoto  di  mano  destra,  f»'di  soistoiieife  il  destro- liran^lo  dei  re  nel  menti»  ch'e  tiene  lo  scettro  reale.   n  duca  di  Montrose,  grande  scui^ere;  dimanda  di  fare  il  servizio  di  sargente  di  lavatoio  dell'argenteria,  e  di  ricevere  tutti  i  piatti  e  tondi  d'argento  serviti  sulla  mensa  del  re  il  giorno  dell'incoronazione,  e  cogli  emolumenti  che  ne  dipendono, e  di  portare  eziandio  gli  speroni  del  re  dinanzi  S..M.   n  8lg^  CampbeU,  come  signore  della  cascina  fi  Lyston,  reclama  il  diritto  di  fiir  de  cialde  pel  re,  e  d' imbandirle  jsulla  mensa  reale  al  banchetto  dell'incoronazione. Rimasero  quindi  a  poco  a  poco  e  dovettero  rimanere esclusi  i  poeti;  giacché,  se  nello  stato  primitivo delle  conversazioni,  mentre  il  poeta  si  mostra ricco  d'idee,  vantavano  i  cavalieri  destrezza  e  le  donne  pericoli^  nel  seguente  stato  il  poeta   solo  sarebbe  rimaso  oggetto  degli  astanti,  quindi  ne  avrebbe  sofferto  la  vanità  degli  altri.  Muniti  di  privilegi  reali  ed  onoriQci  che  dalle  altre  classi  li  separavano,  facendo,  principalmente  in  Francia,  professione  d'ignoranza,  i  nobili  chiusero  ad  esse  la  loro  conversazione,  e  avrebbero  creduto  di  degradarsi,  se  alla  loro  confidenza  avessero  ammesso chi  soltanto  di  talenti  o  d'altre  abilità  personali  si  fosse  potuto  dar  vanto. Appena  comparvero  leprime  scintille  delle  scienze,  i  pochi  spiriti  gentili  che  non  rimanevano  impaniati nelle  sensazioni  materiali  del  volgo,  provarono  il  bisogno  di  unirsi,  per  fare  acquisto  delle  altrui  cognizioni  e  dare  in  cambio  le  proprie.  Questo  bisogno  era  tanto  più  forte,  quanto  che  prima  della  stampa  altissimo  era  il  prezzo  de'  libri,  come  tutti  sanno;  nacquero  cosi  le  conversazioni  letterarie  od  accademie,  le  quali  da  principi  illustri  vennero  proli) Esistono  scritture  del  XVH  secolo,  sulle  quali  persone  d’alto  rango  fecero  la  croce  perchè  non  sapevano  scrivere.   Nello  stesso  secolo  parecchi  parenti  del  celebre  Cartesio  si  sforzavano  di cancellarlo dalla  loro  memoria,  i)ersuasi  che  la  filosofia,  di  cui  egli è il  corifeo,  fosse  macchia  alla  loro  schiatta. V.  Thomas,  Eloge  de  Décartes.  PUL1tBZZ4  SPB€ULE  tette,  giacché  i  principi  illustri  non  temono  le  sciepze  è  sanno  che  degli  Stati  il  principale  pregio  son  MSe  e  lo  splendore.   Per  consimili  motivi  sors^  eonvecsi^ioni  di  pit»  tori,  di  musìei,  e  con  maggiore  coneorrenza,  giae*  €bè  la  capacità  d' apprezzare  le  bellezze  di  questo,  «ti  egregie  è  men  rara  di  qa$Ua  che  per  appresare  le  scienze  richiedesi. Lo  spirito  di  commercio  svegliatosi  dopo  I."  un  decimo  secolo  in  Itatta^  pisogfessivattiente  4)reseii|U>  ne' susseguenti,  fu  larga  fonte  di  ricchezze.   Si  vide  allora  che  si  poteva  essere  ricco  e  considerato senza  essere  nobile  o  possessore  di  fondi. Il  desiderio  di  far  pompa  di  ricchezze,  unito  al  bisogno  di  conoscersi  peraccrescere  le  relazioni  commerciali, formò  le  adunanze  de' commercianti.   La  ricchezza  de' mercanti  cozzò  colla  ricchezza  de possidenti,  e  nette  città  libere  ottenne  quegli  o  maggi  che  altrove  si  era  riservati  la  nobiltà. La  classe  direttrice  de' lavori  nieccanlci  si  diviso  in  altrettante  masse  quante  sono  le  specie  di  essi.   L'analogia  de'lavorit  il  desiderio  d'imporre  legge  ai  lavoranti,  la  necessità  di  conoscersi  per  ripartire  le  imposte  che  i  principi  esigevano  dall'  industria, rkniirono  i  direttoli  delle  varie  arti,  o  sia  i  fabbricatori,  in  altrettante  compagnie  o  cow/rafernite  che  ebbero  te  loro  regole  e  tennwo  le  loro  Mssioni  in  gicrni  determinati» Le'ricebezze  perdute  ddia  iiobiUàyer  ie  ragimif  ehe  diremo,  furono  raccolte  da  persone' intelligenti  e  attive,  che,  senza  appartenere  al  ceto  de'commercianti  o  de'fabbrieatori,  sepp  ero  farle. vafere.  I<on  contente  delle  nuòve  ricchezz  e,  aspimono  tfUa  siderazione,  e -giunsero  ad  otxeaerla  colf  affluenza  de'commengali:  si  fòrmaronò  così  de'nuovi  erocebi  composti  d'ogni  specie  di  per  wne;  vi  si  vide  il  fittaittolo  che  viene  sovente  alla  città  per  ta  vendita  de'  prodotti  agrarii;  il  sensale  i  ^he  propone  de'oontratti  prontamente  lucrosi;  il  basso  impiegato,  il  eol^  zelo  è  neoesBarìo  al  itadronc  )  nelle  sue  relazioni  col  Governo;  il  nobile  decaduto   cke  ha  semjjre .  prontf :  1^  E  sali  e  frizzi  e  lepijdi  racconti  il  militare  che  più  d' ogni  altro,  abbisogna,  di  piaceri rumorosi;  il  parassito  che  il  naso    Air  odor  dell'arrosto  arri  ccia  in  alto  e  ia  cambio,  dell'  arrosto  vende le  novelle  della  ^ittà  ai  commensali,  e  del  padre  ne  Le  signorili  stupidezze  in  dora  ».   La  plebe  che  eseguisce  i  lavori  materiali,  non  rsi  cedeva  per  r  addietro  fuorché    pubblici  spettacoli sulle  piazze,  o  per  bisogni  momentanei  alle  «osterie,  o per pratiche  religiose  nt.  Ue  chiese.^  Occupata  più  a  gozzovigliare  che  a  di.  «correre,  si  troìsava  inoltre  separata  dalle  altre  clas:  li  pel  sucidume  uii<cui  era  involta.. I    P  VI.   cause  per  cui    aprjiréao  eotmiaicaìiioDi  tra  .  le  varie  adunanize  sociali,  e  dalPana  aU^altta  Horo- membri  trasaugrai'ono,  sono  le  segueati:  li  La  passione  del  gioooa,  Jartìssima  io tutti i tempi e per  faddietro  di  più,  come  vedremo  nel.  r  articolo  aegueote,  rappe  la  barriera  ciie  separava  la  nobiltà  dal  eomtnereio:  alenai  n(*ili  noli'  ere.  d^ero  ài  avvitire  i  loro  stemmi  awicinandosi  ai  commercianti  col  non  troppo  nobile  desiderio  d'ottener parte  del  loro  denaro  giuncando. Molte  famiglie  nobili rimaste rovinate dalle carte  dai,  dadiy  sen  tirono  pèr  csperieuza  ebe  tati  i  di filomi  gentilizi  non  bastavano  per  comprare  un  .  "Jbraceio  di  panno  o  una  libbra  di  caroe^  La  plebe  :Che  ne  era  stata  insultata,  cessò    rispellartedacehè^  •'BOQ  le  vide  più  in  carrozza;  quindi  divenne  popolare proverbio  i^e  nobiità  sema  ricf^M&ia  è  fimo  s^enza  arrosto,  Il  celiiba'oo  cui  erano  condannati  per  l' addic:  tro  i  AobiH  cadetti,  mentre  le  nobili,  fanciiille  sì•senti  .vano  tutte  chiamate  al  chiostro^  gli  spinse  non  -di  r jado  ìft  traccia  di  beUezse  plebee.  Usciti  dal    p»'iazzo  pàtrizio,  non  isdegnarona d*  ei^ar  nella»  1?  asaccia  del  calzolaio,  del  falegname,  del  parrucchiare,  ecc.,  e  talora  .    airaer  bruno,  Seguir  fanciulle  che  espugnò  U  digiuno   fn  questa  caccia  la  nobiltà  contrasse  un  poMi  fango,  e,  quel  che  è  peggio,  si  lasciò  rapire  molto  sostanze;  quindi  per  doppia  ragione  scemò  di  credilo.    u.1^ -o  c  UBaO  TEMO   I  principU  a  eui  Jiegli  scorsi  seeoli  a?éa  fatta   paura  la  nobiltà  potente,  colsero  tutte  le  occasioui  di  dìmìnùinie  i  privilegi^  fonte  di  copiose  riccbezze  e  maggtadri  angherìe;  qtuiidì  il  coectiio  chiB«ra  tirato da  otto  cavalli,  non  ne  ebbe  che  quattro,  poi  due,  e  talvolta  rimase  polveroso  nella  rimessa;  audà  per  óonseguensa  diradandosi  la  nebbia  ehe  eòprìva  gli  alberi  genealogi  e  li  rendeva,  grandi  agii  occhi  del  volgo. «  I^a  filosofia,  i  cui  delitti  som  precisamente  misurati  dalle  perdite  subite  dal  feudalismo  e  dalla  superstbUone,  vantando  i  diritti  dei  meiito»  personale,  non  volle  riconoscere  alcun  valore  nelle  vecchie  pergameqe,  e  disse  ehe  nao  zoppo  «ansava  4'  essere  eoppo  perohe  sao  nóniio  aveva  avuto  le  gambe  diritte,  e  che  quiodi  doveva  essere  |RÙ  Stimato  -m  artista  che  con  indmtria  mmhit»  accresceva il suo peculio,  di  quello  che uni  nobile  .che  co^suoi  vizi  daya fondo  al suo  patrimonio. La  poesia,  più  coraggiosa  della  fttosefia  «  arA  supporre,  ridendo,  che  le  nobili  matrone  non  erano  siale  tutte  Luccesie,  e  che  talvolta  la  moglie  £^  eompaefréde'figli  men  patriasii  M attrito; iati soumi»  la  purità  del sangue  soggiacque  a  molti  dubbi  anche neU'opteione  dei  volgo il  quale    sempre  ragione  a  chi  riesce  e  farlo  ridere  fP^.  l  pometti  dell'  inimitabile  Parini) la  onta  di  tutto  ciò  vi  sono  tuttora  pAreeehie  petsone  ebe  appresEiaiD  gli  stemmi  geiitittzii  ed  «scludono  dalla  lem  CONVERSAZIONE clii  non  n'  è  fornito,  per  la  stessa  ideutica  ragione  per  cui  i  pacftUtici  apprezzano  le  stampelle. L'aumento  de'teatrì  dimiouì  il  concorso  alle  eonversaziODi  particolari;  quindi  restando  istesso  il  bisogno  di  conversare,  fu  forza  essere  meno  ritrosi  fieir  ammettere  nuovi  membri:  dapprima  Tetichetta  voleva  un  diploma,  posdà    eratenlò  un  abito  di  seta.   VL  Le  invenzioni  teoriche  e  pratiche  mis^D  in  contatto  f  dotti  «  gii  artisti;  «iaseanaf  di  queste  elassi  seuA  il  bisogno  di  consultare  Faltra;  la  prima  per conoscere  de'£atti,  la  seconda  per averne  la  spiegazione: il  dotto  imparò  a  rispettar  Tartista;  Tartista  s' accorse  che  i  consigli  del  dQtto  gli  potevano  essere  utili. Crescendo  i  punti  di  comunicazione  ed  i  contatti  sociali,  crebbero  i  bisogni  del  lusso  e  si  estesero;  quindi  ì  lavoranti  ottennero  meqo  scarsa  mercede  che  negli  scorsi  secoli;  disparve  così  a  poco  a  poco  «  almeno  in  parte  «il  sucidume  dalla  plebe,  ed  ella  potè  conseguire  un  abitof  ebe  sebbene  inferiore  nella  ùiìQZZà  a  quello  del  ricco,  ne  imitò  l'apparenza.   Vili.  In  questo  stalo  di  cose,  dissipato  il  fumo  géntìlizio,  si  vide  qtioli  persane  concorrevano  al^  fMienda  sociale^  e  quaU  na;  ciascuno  ottenne  un  valor  d'opinione  corrispondente  alla  ricchezza  (caraitto  reale),  o  air  abilità  (caratto  pemnale)  di  cui  era  fornitQuindi  fu  concesso  un  grado  di  stima  alla  bassa  plebe,  fu  tolto  un  grado  .di  stinia  alla  nobiltà^  fu  diviso  il  restante  con  proporzione  graduale. Lo  aprezzo  rimase  a  quelli  che  volevano  vivere  a  apese  aitnri,  questumuUh i;  ^J9ibami^  a  quatti  dtie,  volevo   vivere  a  spese  altra«  TiAa^do  '  "tkmf^^   lAi  pubblica  beneficenza  s'interessò  per  quelli  €he  erano  impotenti  al  lavoro  9  cioè  noa  eiano  caratìtisti  per  'maacanga  di  volontà»  ma  (fi  potere.   L'idea  che  tutti  i  carattisti  coDCorrevano  all'amada  iMeiale^  e  ohe  ciaseuso  a?^  bisogno  degli  altri,  fece  allargare  le  porte  delle  conversazioiii  con  miituO'  vantaggio  de'  concorreati,  come,  v^^mo  i|iel  seguente  gitolo. Utilità  e  nemtìtài  delle  conversazioni.  LE CONVERSAZIONE, questo  mezzo  di  felicità  sociale,    pronto,    innocente,    facile  a  tatti  gl’uomini,    convenevole  a  tutte  le  condizioni,    necessario  a  ttttte  le  etsu  LA CONVERSAZIONE non potevano sfuggire al  morso  della  censura. Giacché,  essendo  «wscettive  di varii aspetti  offeivano  campo  ai  poeti  di  farne  delle  caricatore;  esseialo /cm^i  di  piaceri  dovevano  essere  scopo  alle  declamazioni  de' moralisti pedanti. Gli  uni  e  gl’altri imitarono  le  due  donne  ddia  favola,  Tuna  delle  quali,  un  pp^  vecchia, strappa  al  marito  i  capelli  neri,  V  altra,  un  po'^ome^  gli  strappa  i  bianchi,  tantoché  il  pover'uomo  finisce  per  restar  calvo.  Infatti^  siccome  chi  non  esagera,  non  djesta  che  lie^e  impressione,  perciò  ai  difettnedi  reali,  ddla  CONVERSAZIONE sono aggiunti  de' fittizi!,  e,  secondo  il  solito,  si  bearono  degli  spetri  a  spavento  de’ fanciulli  e PULITEZZA speciale- <  delle  irnmaginazioni  deboli:  con  eguale  LOGICA  si  'screditerebbe  il  sonuo,  perchè  talvolta  i  sogni  ci  conturbano. PARLO DELL’INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI SULLA FELICITA SOCIALE. ^l,-V.^J^  ?o^l  miseri  mortali  a  cui    spesso   Il  tesoro  del  tempo  è  incarco  e  noia,  TROVANO NELLE CONVERSAZIONI UN MEZZO D’INNOCUO E PIACEVOLE TRATTENIMENTO. Qualunque  in  fatti  sia  l'origine  del  bisogno  di  sentire,  egli  esiste.  Questo  bisogno e forte  in  tutti  gl’uomini  dopo  il  lavoro,  lO;  studio,  gli  affari;  yi. È  più  forte  ne ricchi  sciolti  dall' obbligo  del lavoro,  dello  studio,  degli  affari. È  fortissimo  nelle  donne,    perchè  dotate  di  maggiore  sensibilità,    perchè  a  maggiore  monotonìa di  vita  condannate. Questo  bisognò  viene  alimentato  dall'ISTINTO DELLA SOCIABILITA CHE INDUCE GL’UOMINI A RACCOGLIERSI INSIEME PER COMMUNICARSI a  vicenda  le  loro  speranze  o  i  loro  timori,  le  loro  pene  o  i  loro  piaceri. Quindi  vediamo formarsi  unioni  sociali    tra  le  orde  selvaggie de’ deserti come tra le persone più urbane delle  nostre città. Questo BISOGNO,  a  guisa  di  calamita, attrae  spesso  e  lega  insieme  anche  le  persone più  indifferenti,  e  perfino   »I   v  VI 'i.'.-Che  amabile  città  si  è  mai  Venezia,  mi  dicòva  una  signora!  E  che  cosa  vi  avete  voi  trovato  di    seducente?  Vi  parlavo  lutto  il  giorno.  Siiiipatizzaat|r,c|oaìe  g&u^  cani.   LE CONVERSAZIONI CONSIDERATE COME MEZZO diaria*  nimsffe'lefoi^jHanguidife,  od^né  sensasibbi  plccaoti  sull’intervallo  che ì  bisogni  BOddisfatti  disgiiioée/'da!  bisogni  da  soddi^fàrsi^  fiume  parte  degfi  altri  trastulli,  e    liiaocenti  sono  in    stesse  come  un  passeggio  in  aoieap  giardino.  jL  1  piisicerf  die  gustiàoio  mila  «oUtodine^  eccettuato il  caso  di  speciale  affezione,  illar^uidiscooo  pcesto  e  perdono  -parte  delle  lóro  attrattale.  AU'op*^  postò  "Àé^ii  GonAunicbiamo  agl’altri,  sembra  ebò  si  riofolrzjao  e  si  estendano;  s^  polli  gustiaipo  in  loi   oòqspàgnia,  dnréno  di più  .  ci;  «ièà^M  frià  cari /e  per  tutto  T  animo  si  diffondono,    Ctf ombra  è  piacerj^se  noi  condisce  affetto. In  un  crocichio  di persone  che  si  stimano  e  si  amano,  cresce  il  sentimento  delia  fór;ca  phe^inijoezaa  Bile  vicende'  sociali  ci  abbisogna. Ciascuno,  oà^  noscendo  le  disposizioni  coniuaì,  appliea; nella  sua  jAiente  le  foi^e  altrui  ai  b^ogni  [tfopri. LA CONVERSAZIONE io  accerta  che  in  caso  di  calunnia  tror  .'.Vei^U  apologisti;  di  rovescio,  de' protettori }  -iil^^Qì^v  die^oonsigUen;  dWaoQK^t  delle,  perr  Possiamo  dunque  t^ccUre^  di  mansogna, !!  nolissinHi^  misaritropo  Timone:  pcanzàva  costui  lin  giorno  con  Apenuuito,  «Itr^  ihisaotrapo,  eelébnttido  ii»ienie  la  festa  delle  libazioni    fttfiebri.  Dopo  lungo  silenzio  Apemarilo  disce:  Fa  d'  uopo  convenire,  o  Timone,  che  il  nostro  pramo  è  molto  allegro:  e  questi  rispose. Lo  sarebbe  di  più  senza  la  tua  presenza.   sone  pronte  a  scemarlo  partecipandovi.  Questa  PERSUASIONE abituale reagisce contro i vaghi timori che o  nascono neir immaginazione naturahnente, 6 dalle  mosse de'nemici vengònb prodotti;.Brorbabilmente  egli  è  questo  il  motivo per cui,  he^popoli che concedorto  n^iplto  tempo  alla CONVERSAZIONE,  non  suole  essere-"^ sovèrchia  T  inquietudine  sul  futuro j  se  ne  potrebbero  trovare  esempi  a  Venezia  ed  a'  Parigi,  ^i't' S  if  J'W FLUENZA DELLE CONVERSAZIONI u  ii.  V,.,  \^  sull'istruzione.  v;   ì.  Alcuor  !eggoB(>  (>er  spacciare  le  loro  idee  nelle CONVERSAZIONI i^altri  per  non  mostrarsi  digiuni  delle  notizia  più  triviali. La  lettura  cominciata  per  vànìtà,  continuata  per  abitudirte,  talvòlta  in  passione  si  cambia,  e  i  frivoli gusti  tìghoreggia  o  discaccia. Chi  léggCi  o  per  istruirsi  o  innocentemente  intrattenersi, toglie  sempre  degli  istanti  alla  covi^  ruzione,  e  talvolta  le  toglie  de'  capitali per  la  compra  de’libri di cui  abbisogna. I  gabinetti  di  lettura  sono  una  conseguenza  dello  spirito  socievole  dello  scorso  secolo;  si  procura  a  tutti  un  mezzo  d’istruzione  con  pochi  soldi. Non  tutti  possono  leggere  tutti  i  libri;  ciascuno  è  costretto  a  ristringersi  nella  sua  sfera;  ma  NELLA CONVERSAZIONE i  libri  letti  da  uno,  divengono  mezzi d'istruzione  per  gli  altri. In  caso  di  bisogno  egli  vi    in  UQ  quarto  d'ora  il  frutto  di  dieci  ore  di'  lettura. Se  nelle  dispute  che  sogliona  nascere  NELLE CONVERSAZIONI,  i due contendenti restano per la  più dèi loro parere, l'influenza delle dispute sulle opinioni non lascia d'essere reale, giacché. Gli spettatori  disinteressati formano il loro giudizio sulle ragioni allegate prò e contra dai disputanti. La voce, il  gesto,  il  tuono  di essi rendono, per così dire, più acuti i tratti del loro spirito e più profondamente neir altrui  memoria gli  imprimono. Quegli tra i contendenti che ha torto, e che nella disputa chiuse gl’occhi alla verità, non conserva questa ostinazione,  allorché  riflette  poscia  di  sangue fredddo,  e  sovente  s'accosta  al  sentimento,  che  aveva  combattuto.  In  una CONVERSAZIONE GENERALE,  quegli  che  parla,  si  vede  cinto  d'una  specie  d'uditorio  che  lo nima  e  lo  sostiene. Questa  circostanza  da  allo  spirito  maggiore  attività,  alla  memoria  maggior fermezza,  al  giudizio  maggior  penetrazione,  alla  fantasia  de’ LIMITI CHE NON GLI PERMETTONO DI DIVAGARE.  IL BISSOGNO DI PARLAR CON CHIAREZZA lo  sforza  a  dar  qualche  attenzione  allo  stile  e  ad  ESPORRE CON QUALCHE ORDINE le  sue  idee. Il desiderio  d'essere ascoltato favorevolmente gli suggerisce tutti I MEZZI D’ELOQUENZA DI CUI LA CONVERSAZIONE famigliare é capace.Quindi LA CONVERSAZIONE è  la  prima. Intendo  qui  di  parlare  delle  persone  di  spirito  e  di  buonafede;  giacché  gli  spiriti  falsi  e  vani,  o  gli  uomini  di  parUto,  pe’ quali  LA CONVERSAZIONE E UN’ARENA OVE COMBATTANO DA GLADIADORI, non  aspirando  di  giungere  alla  verità,  ma  di  conseguire  un'  apparente  VITTORIA,  quesU  non  riescono  nelle  loro  dispute  che  a  raddoppiare  il  velo  che  ingombra  il  loro  intelletto,  e  a  vie  più  nelle  loro  opinioni  smarrirsi. e  la  migliore  scuola  per  gli  uomini  che   {tarlar  ia  pubblico  si  dispongono. Sj:  f   Air  opposto  un  uomo  che  vìve  solitario  nel  suo  gabjìiettOr  noD  stimolato  a  farpas^re.le  sue  idee  tìjrii'Mtrui'anittio,  noin^eriteiidosr'itvymffiairii  a fronte  non  avendo  obbie;{.ioni  da  combattere,  non  impàérà.  fót^  gìàmàm  qiiest'acle  delicata  ebe  convincere  gli  spiriti  senza  offender l’amor  proprio. •€0Dà  bel  garbo  costringe  l'altrui  inerzia  airesame  «j^ttì  prègiuritzie^  pungèndota  con  x^iche  tmjU*  piccante Altronde  sempre  solo  con    stesso,  e  ^imsM  aggeUi^^L^4xm/twitoi  disposto  a  niguardmi  x^iascuna  4rfeache  gli  si  pcesèdtay.came^una  scoperta. Non  mai  esposto  a  queste  piccole  lotte  di  società  che  danno  si  prontamente  a  tiascufiei. la  misura  delle  sue  forze,  egli  inclinerà  a  formarsi  mt  ppinione  esagerata  de'  supL  talenti  e  ad  eBpone  le  ^nierìdee  con  atìsi  fmpfariosa  edoffenshra.  Si  può  dire  delle  CONVERSAZIONI ciò  che  ALFIERI  dice  dei.  vhiggi;.vY|    impara^  più  assai  che  in  su  le  cartCi   tH\   stimare  o  spregiar  l'uomo^  ^^^j  »;Ma  a.cònoscer    stesso  e  gli  altri  jn  parte  v. ^i^ìLo  studio  ia£atti  de'libri  rie^oe  ua  mol  languido  é.  ddN)le^  che  esercitai  non  agita!^  non  riseaMa  la  mente  come  LA CONVERSAZIONE.  S'io  discorpo  con  CdbustO/  ragionatore,  dicis  Montaigne^,  egli  mi  ein|[e e  iB.Incalza  da  tulteie  parti;  lé^sa$  fdee  ri^egllaiio  le  umi  la^^osàia,  la  gloria,  .la  QQnte^ziQpe  mi  spingena,  mi  riali^aho  sopra  di  me,  e  non  diradortni  presentano  nuove  combinazioni  ideali. INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI.  sfil  costume U  de6Àderio  4i  piacere  a^i  atoi  vaddoldsee  ia  pale  mseefen  dèir  mm^i  ìnra  questo  Aderto  si  svolge,  ci  aDiina NELLE CONVERSAZIONI  e  l' abitudiM  d!eq^ijmerl€t  forma  J'abìMdiBe  di  aeotirlo. DACCHE LE CONVERSAZIONI DIVENNERO COMUNI, nacq[iie fiorì  «/quell'eleganza  di  tratto. e  quella  non  9  80  quale  gra^ìa^-d* urbanità^  quel  Aresentorsi  plà  9.  disinvolto,  quel  più  leggiadro  atteggiarsi,  e  quei  n  versatili  modi  e  politi  cbe.  imlla  sentano  V  ioatr  titudiiie  6  TimbaMaso;  quindi  quel  wiàsm  wtm  u  più  dilicato,  e  que'  mutui  riguardi  e  qua'  molti*  pliei  uffieii  di  olviltàt  johe  quaai  ad  egiH  .ubante  »Ja  vanità  e  L’AMOR PROPRIO  dona  e  riceve.  Le passioni  .medesinia  c)ie  erano  prima  iutratta*  ».iMtt'.,  Mnreggendo  in  pfttte  la  toc  nafitf  wtm^  i>  biaoza,  sonosi  anch'  esse,  dirò  così,  incivilite.  L'oigo^iosa  superbia  si  è  maaobei^ata  sotto  la  spoglia  d'  doa  finta  modestia;  T  invìdia  siesta  sa  pronunciar  delle  lodi,  e  IL PUNTIGLIOSO E CALDO RISENTIMENTO   V  obe  quasi  ad  ogni  parola  aveva  li  fuoco  negl’occhi  e  la  mano  sull'elsa,  ha  ».tesBiperato.  queir  indole  sua  ferqee  »;  si  è  im«  parato  a  dissimulare  un'offesa,  a  Dasedndelw  tipatìa,  a  rispondere  pacatamente;  e  benché  questa    re   P   if   M  lusinghiera,  gradita  e  di  realissimi  vantaggi  sociali  /ecandq,  ^jper-^^la.^[y&lio  ostacolo  a  mali gravU-. Finalmente  sogliono  non  pochi  giudicare  del  mento 4'  uoa  pecfiona  dalla  sua  maniera  di  caavMr*  sare^'  nè,  si  eiitano  di  porre  al  vaglio  sue  buone  0  cattive  qualità^,  ma  ue^  formailo  giudizio  dalle  idfie  cb'ella  .presenta:  Bé^ordeobi  sociali;  qoiadi  £0^  forza  entrare  nelle  società,  giacché  le  abitudini  del  ^eatil  couversare  aoit  possooo  in  soUngo  gabinetto  aljgnistarsi. INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI SULLA MORALE.  h  AUotcfaè  gli  uomini  s'uniscono  in  CONVERSEVOLE  ecMohior^  49orge  tea  di' essi  un'  opinione  la  quale  condanna  gl’atti  che  riescono  nocivi  a  tutti  od  a  qualcuno  deglj  uniti:  ciascuno  ò  costretto  a  nascosi dere  1  eentiméQti  criminosi  che  per  avventura  cova  neiranimp.  £  aiccMie.  anche  ci»  maàqa  éi  virtù,  vuole  mostrarne almeno  l'apparenza,  quindi,  se  qualcuno  d^li  uniU dà mentore  di  vì^i, la van^à  degli  altri .  si  uniseè  to6t»  pericaeeierlo  dal  loro  imo,  ae^  non  corra  voce  «che  lo  tollerano  o  f  approvano. Dnn^e  quanto  {mù.  erescé  lar  bc^ma  di  PARTECIPARE AI PIACERI DELLE CONVERSAZIONI, tanto  più  cresQono  i.  motivi  per  isciogli^sii  dai  vizii  che  esse  ooodamiaiiD.    1  ref  mordendo  a  lungo  GIOCO,  è  d'uopo  »  Che  r  oprare  al  gridar  conforme  eqch^ggi  )\   II;  Screditando  gli  altrui  vizii  ciascuno  si  lusinga  ^  iter  provn  di  .contiaria  virtù;  quindi  NELLE CONVERSAZIONI cìascuoo  cbiSuna  a  indicato  la  riprover  vole  condotta  degli  estranei  od  assenti:  ciascuno  ride  delle  umiliazioni  cui  è  condannato  un  leccazampe; ciascun  parla  con  orrore  d'un  tradimento;  ciascuno  sviluppa  le  circostanze  che  aggravano  un  delitto  ecc.  Escono  DALLE CONVERSAZIONI dalle  de'  gridi  che  chiamano  gli  sguardi  del  pubbblico  sul  magistrato corrotto,  sul  giudice  venale,  sull' amministratore infedele  ecc. Allorché  la  condotta  di  qualche  persona  potente  non  è  ben  nota,  ciascuno  degl’astanti  comunica  agli  altri  le  sue  viste;  si  mettono  al  vaglio  i  fatti  e  le  congetture,  si  confrontano  le  realtà  e  le  apparenze; si  richiamano  le  notizie  anteriori  e  concomitanti,  e  dualmente  si  giunge  a  smascherar  l'impostura.  L'opinione  pubblica  va  ad  attingere  ALLE CONVERSAZINI  i  documénti  che  giustificano  i  suoi  decreti  d’onore  o  d'infamia.  LE CONVERSAZIONI sono  come  le  sentinelle  notturne che  ad  ogni  ora  si  comunicano  il  grido  di  sorveglianza,  onde  reprimere  ne' pubblici  perturbatori il  desiderio  di  far  del  male.  LE CONVERSAZIONI offrono  il  destro  di  pronte  benefiche soscrizioni  a  vantaggio  dei  poveri.  L'interesse che  la  padrona  di  casa  sa  destare  nell’animo  de'suoi  amici  a  favore  d'una  famiglia  o  d'una  classe  sventurata,  il  desiderio  comune  di  dare  prova  di  generosità,  l'altrui  esempio  che  fa  forza  anche  ai  più  renitenti,  tutto  concórre  a  far  riuscire  immediatamente un  progetto  generoso,  che  senza  LE CONVERSAZIONI le  resterebbe  sventato  o  verrebbe  troppo  t^rdi. Quindi  con  piccolo  incomodo  degl’astanti si  raccoglie  ia  più  orocebi  una-samiQil  ragguai:de*  voìfi  e  safficieate  ^1  Jbisoguo, INFLUENZI DELLE CONVERSAZIONI  sulte  càrtL   Le  conversioni avviemando giornalmente uomini,  e  ciascuno  bramando  di  comparire  ricco  e4  legaste,  €i:e5C0ifo  i  compratori  dette  merci  4^.e  adornaao  le  persone  e  le  case. Quindi  si  eslesero  toi^amei^te  l^.arti  così  dette,  di  lusso.  Il  popolo  firàneese,  "^tmiò  H  quale,  E MASSIMO IL BISOGNO DI CONVERSA  è  divenuto IL DOMINATORE DELLA MODA. JBari'addietrqi  etmano  scarsissime  LE CONVERSAZIONI,  e  moltissimi  gl’obbriachi;  ti  capitale  che  ora  si  spende  in  abiti,. allora  sj  spendeva  in  bagordi.  Quelii  cbe  ftnaot rimprovero  ALLA FILOSOFIA  d'avere  esteso  lo  spirito  di  socievolezza,  son  costretti  a  dire  cAteun  uomo  ubbriaco    preferibile  ad,un  nomo  legante. Per  disgrazia  dell'  umanità  questi  Ostrogoti  sitrovano  talvolta  alla  testa  degli  St^i,  e  con  ottime    A  Verona,  trovandomi  unà  sétat  alla  convetsadon'e    d^iHia  signora  che  non  soleva  andare  al  teatro,  ma  univa  nella  sua^eas£i  vaeii  amici,  ella  ci  dice:  Signori  :  dimani  a  sera  no^  qi  vedremo,  perchè  uadcò  A  teatro,  t  t:ome  al  teatro  t  ^  Si,  gbusehè  la  serata  va avaatagato  ^ povecL^Dunque  ci  vedremo,  risposero  tulli..  fiaÉattì'  la  ««ra.  susseguente non  solo  ciascuno  degl’astanjti  andò' ài -tealro,  ma,  conduce  seco  quattro  o  cinque  amici cosicché  il  palco  déUa  signora  fu  un  andirivieni  continuo,  ed  una  specie  di  goecrà  a  ÌMdamà  V  ini4$mt0  >  la  ^àte  si  fonava  neUa  sua  sconfitta.  Beco  la  ^àvOlz^adone  :  beaefioenònt  ìuoit^  alpia^.  cerei  onore  al  bel  sesso  cbe  la  proinoveiL   intenzioni  li  rovinano.  Pio  IV,  declamando  contro  l'uso  delle  carrozze,  indusse  i  cardinali  a  cavalcare le  mule;  si  moltiplicarono  le  mule  in  ragione  de'capitali  che  non  erano  più  impiegati  nelle  carrozze  cioè  le  ìnule  presero  il  posto  degl’artisti.  Non  vi  par  bella  e  sensata  questa  trasformazione?  Andate  avanti,  beatissimo  Padre,  e,  giusta  le  massime predicate  da  altri  moralisti,  induceteci  a  privarci  del  cappello,  della  giubba,  delle  calze,  delle  scarpe;  e  così  dopo  d'  aver  fatto  sparire  gli  artisti,  se  pur  questi  vorranno  sparire  senza  cagionarvi qualche  timore,  venderete  le  vostre  derrate agl’uccelli.  Torniamo  al  fatto:  IN FORZA DELLE CONVERSAZIONI si  sono  cambiate  le  abitudini  economiche,  e  l’eleganza  è  sottentrata  all'ubbriachezza. Quella  massa  di  liquori  che  per  Taddietro  consumavasi  da  un  solo  con  danno  della  salute  e  della  ragione,  ora  sopra  dieci  innocuamente  si  distribuisce,  cioè  sopra  gli  artisti  che  fabbricano  cose  comode  ed  eleganti. Dunque  nell'aumento  DELLE CONVERSAZIONI  hanno  guadagnato  l’arti  e  la  morale. II  lettore  che  non  fosse  abbastanza  persuaso  de'  vantaggi  che  ho  attribuito ALLE CONVERSAZIONI  ed  in  generale  allo  spirito  di  socievolezza,  è  pregato  a sospendere il suo giudizio sino all'articolo secondo,  ove  esaminerò  gli  usi  e  i  costumi  de'tempi  barbari  e  semi-barbari,  ne'quali  di, socievolezza  non  v'  era  quasi  traccia., Accennate  nel  Tranató  del  Inerito  e  ^elìt  KieomfitnUe. «  Gli  oMPOstt  Oggetti   V  Rende  più  chiaro  il  paragoo.  Distìngua,  »  Meglio  ciascun  di  noi;  »   ic.i».n  NeimalehegIiattnopprm««4lb9A€. Scelta  deHe  tantféfsaatcni:    r  .f'/.v;r   li  Cki  .vcdesgft  sfogare  il  coosoitia  di  tutti  f   reprobi,  correrebbe  pericolo  di  viver  solo.   Pupi  restare  ia  casa  nfm  ioKdarti  kfijoarp^t  ma  restando  in  casa  ti  privi  d'una  passeggiata  utile  e  4^Uzio9a«   Dpnque  non  potendosi  p^r  noi  crear  uoniiiil   perfetti,  sarà  sempre  miglior  consiglio  accrescere  la  forza  della  j[M*opria  virtìi5  di  quello  che  i'irrita^  biKtà  agli  altrui  vizi. Dire  che  aoa  dobbiamo  essere  cestii  a  lordarci  ^  le  weqMi  pi^  jurooucarci  una  buona  passeggiiitaii  nm  è  dire  che  dobbiamo  innoitrarci  nel  fango  sìao  agli  occhi  e  con  pericolo  di  spezzarci  una  gamba  :  per  anpdogìa  dite  lo  stesso  delle  conversazioni.   Adombrati  gh'  estremi,  dirò  al  giovine  che  nella  soelta  delle  conversazioni,  più  ctie  gli  adulti  ed^  i  veoohi  egli  debb' essere  riservato;  giacché,  mancandogli la  loro  esperienza»  può  facilmente  .restare  tra  queMaeei  che  essi  spezzerebb^o..   Inoltre  il  credito  degli  adulti  e  de'  vecchi  è  giàformato;  le  loro  buone  qualità,  sona  note,  un'abì.  tudine  provaUi  da  più  risponde  ad  ogni  dub*  bia  apparenza.  All'opposto  il  giovine  dee  tuttora  £ar  nascere  questa  b|io)ML, opinione  neir^ltrui  animo  "^à4   è  di  hidd^oi^eail  giadhao  ebe  gU/a^    noi,  quando  dalie  persone  che  fréquentiamo  ci  giudicano;  e  fa  d' uopo  osservare  che  la  yafiitÀ  vieta  lo«o  di  cambiare  j&KitiAièDte  h  ptàtàà  opinione che  di  noi  concepirono,  vera  o  falsa  che  ella  sia,  Dun(]ue,  beii|^è  ^^iva  Aacora  molto  istrutto,  otterrà  il  giovine  più  gradi  di  stima  se  correrà  voce  eh'  egli  conversa  . spes$p.^^£on  parsone  di  merito e  gode  fa  loro  confidenza.  LA CONVERSAZIONE colle  ballerine,  colle  persóne  di  dubbia  fede,  o  p^leseqiente  scelleraté,  macchia  la  riputazione  di  clrinncpie:  i  càm  'lodtì  insudiciano  queUi  tui  ft^no  maggiori  carezze. Tutti  consigliano  ai  giovani  di  non  trovarsi  NELLE CONVERSAZIONI bve  s!  tengono  giuócW  d'at^  zardo;  giacdiè,  quaiunqué:  sia  la  lóro  risoluzione,  ossi  finiscokio  peir  teàdere  e  rovinarsi;  Essi  cedono,  alte  suggestioni  ed  all' esempio  altrui,  al  timore  d'essere  dichiarati'  spilorci,  paurosi,  vili  o  schiavi  d^e^voiéiri  patemi;  essi  cedono  «1  defsiderlo  di  ìdlve*  .  nire  prontamente  ricchi,  desiderio  che  prontaménte  SI  a<^de  e  divamìm.  aUa  Tista  deU'oro.^ T  '  tia  passione  del  giuoco,  principalmente    è  {giuoco  d^azzardo,  produce  i  seguenti  danni. Perdita deità feliùità  ifolividuale.  Le^^- òende  del  giuoco  quand' anche  siano  favorevoli,  CHceitano  scosse  si  rapide  e    gagliarde  che  confiììano  ^co)  dolore;  Ora  queste  scossè  ^gliono  por  :  "lo  più  essere  sinistre,  giacché  la  massima  parte    D'altra  parte  la  brama  dell'oro  che,  in  vece  di  restare  sazia,  cresce  colie  vincite,  ed  è- tormentata  dalie  >peràite,  'la  brama  aìzsata'dell'oro  è  i|tra  caiH  crena  ciie  rode  l'animo  del  giuoeatore,  è  una  sottile fiamma  che  lo  consuma.  Ommetto  di  parlare  de' suicidi  prodotti  dalle  perdite  nel  giuoco.  Perdita  della  salute.  È  questa  una  conseguenza  dell'accennato  stato  dell'animo.  Infatti  sotto   razione  ripetuta  del  giuoco  si  sviluppa  un  carattere  irascibile  ed  una  viziosa  energìa  di  sensibilità  che  alla  macchina  corporea  riesce  sommamente  nociva;  perciò  la  massima  parte  de'giuocatori  sono  decrepiti a  40  anni.  Perdita  delle  sostanze.  Per  un  giuoeatore  arricchito  dal  giuoco  ne  conterete  cento  rovinati.   4.  Perdila  delta  fama.  Cicerone,  per  iscreditare  i  giudici  di  Clodio,  li  paragona  a  quelli  che  frequentano le  case  di  giuoco.  Benché  tutti  i  giocatori non  siano  persone  infami,  ciò  non  ostante  la  massima  parte  non  lasciano  d'essere  riprensibili  perchè  si  espongono  al  pericolo  di  divenir  tali. Nissuno    la  sua  figlia  per  isposa  ad  un  gioca^  tore;  nissuno  lo  accetta  per  compagno  in  uh'  intrapresa; nissuno  lo  vanta  per  amico;  nissuno  lo  vorrebbe  per  padrone;  ogni  padre  vieta  a'suoi  figli  la  di  lui  compagnia  come  la  peste.  Perdita  della  sensibilità  ai  piaceri  intellettuali e  morali.  Siccome  le  persone  abituate  all'uso  del  più  acuto  rapè  divengono  insensibili  ai  soavi  effluvii  del  garofano  e  della  rosa,  così  le  persone  abituate  alle  scosse  gagliarde  del  giuoco  rimangono  insensibili  ai  piaceri  della  commedia,  della  trage-;  dia,  della  pittura  e  delle  altre  arti  belle;  quindi  1*  momenti  che  i  giocatori  non  impiegano  nel  giuoco,  sono  occupati  dalla  noia.  Il  giuoco  accresce  il   bisogno  di  sentire,  e  diminuisce  il  potere  di  soddisfarlo. Il  giuocatore  s'espone  al  pericolo  di  perdere,  e  perde  talvolta  quell'unico  denaro  che  è  necessario  alla  sussistenza  de'  figli  e  della  moglie;  la  sorte  infelice  di  questi  fa  dunque  minor  impressione  sopra di  lui  che  il  bisogno  di  giuocare:  in  quale  punto  sarà  sensibile  il  di  lui  animo  alle  loro  carezze  ?   Un  giovine  dedito  al  giuoco  sfugge  la  compagnia  de'  suoi  genitori,  sdegna  i  loro  innocenti  piaceri,  sprezza  i  loro  consigli,  amareggia  i  pochi  istanti  della  loro  vita,  diviene  ladro  domestico,  e  talora  i  disonora  con  azioni  che  gli  fruttano  la  prigionia  0  il  capestro.   6.  Perdita  del  senso  comune.  Ogni  giocatore  sragiona  cosi  come  sragiona  il  volgo,  allorché  dai  sogni  deduce  ì  futuri  numeri  del  lotto.   L' abitudine  di  prendere  per  norma  a'  suoi  giudizi i  rapporti  fantastici  delle  cose  distrugge  l'abitudine di  consultarne  i  rapporti  reali,  costanti  e  ragionevoli.  Un  giocatore  non  avrà  vergogna  d'attribuire la  sua  perdita  alla  sua  scatola;  un  altro  alla  presenza  d'un  nemico  ecc.;  alcuni  non  giocano che  denaro  tolto  a  prestito,  quasi  preservativo contro  la  sorte;  altri  destinano  parte  delle  yincite  ad  opere  pie,  quasi  pegno  di  vincita,  ecc. L' idea  del  guadagno  allorché  soggiorna  lungo  tempo  in  una  testa  debole,  ardente,  soggiogata  da;  vane,  combinazioni,  converte  il  dubbio  in  certezza,  e  fa  riguardare  come  infallibile  ciò  che  fervidamente desidera.  L'illusione  è    forte,  che  non  è  distrutta  dall'esperienza  delle  perdite,  e  in  onta  di  esse  rinasce  e  si  rinforza. Gli  animi  fórtenfienté  agitati,  dice  Tacito,  inclinano alla  superstizione,  cioè  la  causa  delle  loro  sventure  riconoscono  in  cose  o  parole  incapaci  di  produrle;  quindi  le  invocano  o  le  maledicono,  ne  sperano  o  ne  temono.  La  fortuna^  nome  vuoto  di  senso,  agisce  sull'animo  de'giocatori  cóme  se  fosse  un  ente  reale  :  a  lei  attribuiscono  le  vincite  e  le  perdite.  La  fortuna  è  un  concorso  di  cause  ignote  ove  la  temerità  fa  tutto  y  e  la  prudenza  nulla. I selvaggi dell'America,  dice  il  padre  Lafiteau,  si  preparano  al  giuoco  con  austeri  digiuni,  quasi  volendo  interessare  la  Divinità  al  successo  de'loro  stolti  e  ingiusti  desideri. Dopò  ^li  antecedenti  riflessi  è  quasi  inutile  l'osservare che  nel  giuoco  ogni  sentimento  di  decenza  si  perde  e  di  gentil  costume;  si  diviene  rozzo,  villano,  grossiere,  caustico,  mordace:  non  si  ha  riguardo    alle  qualità  altrui    ai  diritti;  si  offende l'altrui  amor  proprio,  si  tradiscono  ì  sentì-'  menti  del  proprio  animo,  ecc.  Dopo  la  fama  di  decenti  ed  oneste  il  giovine  '  preferirà  quelle  conversazioni  ove  è  maggiore  la  libertà.  Siccome  il  piacere  è  d'indole    schizzinosa  che  non  sempre  apparisce  ai  cenni  del  desiderio';  e  fugge  rapidamente  allorché  vede  un  laccio,  fosse  anche  tessuto  di  rose,  riè  di  tempo  serba  regola    di  luogo,  riè  a  tutti  i  discorsi  sorride;  quindi  dirò  al  giovine:  allontanati  da  que'crocchi  ove  devi  rendere  ragione  perchè  non  venisti  a  tal  ora,  perchè ti  parti  pria  del  consueto,  e  t'è  forza  al  posto  assiderti  che  non  t'aggrada,  e  con  tale  foggia  d'abito comparire  che  non  ti  conviene,  e  sulle  altrui  maniere  irremissibilmente  atteggiarti  e  deporre  sulla soglia  il  tuo  carattere  originale  per  rivestirtene  allorché n'esci.  Fuggi  pure,  perchè  il  rituale  esat-"  tissimo  delle  cerimonie,  i  complimenti,  gli  inchini,  i  baciamani  si  .frappongono  ai  cuori  che  corrono  a  contatto,  e  i  sentimenti  ora  rispinti  dall'  altrui    orgoglio,  qui  umiliati  dai  titoli,    repressi  dall'aria di  comando,  e  tra  imperiosi  e  inetti  doveri  allacciati,  non  possono  scorrere  rapidamente  qual  elettrica  scintilla  e  propagarsi  per  tutta  1'  assemblea; quindi  l'allegrezza  sfuma  ed  ilpiacere,  e  al  loro  posto  va  assidersi  mortai  tiranna  la  noia.  Taccio  il  civile  barbaro-bugiardo  V  Frasario  urbano  d'inurbani  petti,^  t  w  Figlio  di  ratte  labbra  e  sentir  tardo.  »   iVs.   k  IV.  Il  giovine  non  fuggirà  la  conversazione  delle  donne  oneste,  giacché  solamente  in  loro  compagnia  imparerà  a  rattemprare  l'effervescenza  dell'età,  a  ingentilire  colla  grazia  le  maniere,  a  piegare  i  movimenti a leggiadria, la placidezza  del  discorso  senza  viltà,  la  modestia  senza  timidezza,  il  coraggio senza  impeto,  il  brio  che  sa  rispettar  la  de,  cénza,  l'allegrezza  che  non  diviene  smodata,  quelle  fine  attenzioni  che  prevengono  i  desiderii  senza  mostrar  d'occuparsene,  e  quel  conversare  libero  e  cordiale  che  non  degenera  in  confidenza  temeraria  e  plebea.  v  Swift  attribuisce LA DEDADENZA DELLA CONVERSAZIONE in Inghilterra  all'esclusione delle  donne;  da  ciò  nacque  una  famigliarità  grossolana  che  porta  il  titolo d'allegrezza  e  libertà  innocente,  abitudine dannosa,  egli  dice,  ne'  nostri  climi  del  Nord^  i)  ove  la  poca  pulitezza  e  decenza  che  abbiamo      r    DM.è  introdotta,  per  così  dire,    contrabbando  e  ^  contro  la  naturale  inclinazione  che  ci  spinge  »  continuamente  verso  la  barbarie,  ^e  non  si  manfi-T  tiene  che  per  artifizio. SOGGETTO DELLE CONVERSAZIONI. Qualunque  argomento  frivolo  o  grave  basso  o  sublime,  lepido  o  serio,  p^rcAè  piaccia  agli  astanti,    noìi  offenda  la  morale^  PUO ESSERE ARGOMENTO DI CONVERSAZIONE:  qui  più  che  altrove  debb'essere.  é   ragione  e  legge  «  Ciò  che  il  consenso  universale  elegge.  »   ytl  poeti  satirici  hanno  voluto  ristringerci  in  più  angusti  confini;  quindi   1.  Pongono  in  ridicolo  le  dimande  relative  alla  salute quasi  che  la  salute  non  fosse  l'oggetto  più  interessante  per  gl’uomini,  e  una  buona  digestione  non  valesse  cento  anni  d'immortalità;  r  2.  Non  vogliono  che  parliamo  del  tempo,  quasi  che  le  vicende  delle  stagioni  sullo  stato  tìsico  e  morale  della  specie  umana,  sui  prodotti  delle  campagne, sul  corso  del  commercio,  e  non  di  rado  sui  pensieri  degl’uomini  grandi  e  piccoli  aon  influissero ;  c  giornalmente  non  fossero  occupati  i  fisici  ad  osservarne  Tandamento  progressivo,  retrogrado,  irregolare.  Qualche  poeta  ci  deride  QUANDO NELLE CONVERSAZIONI PARLIAMO d'arti  e  di  commercio,  di  pace  e  di  guerra,  di  governa  e  di  politica,  é  vuole  poi     x   che  ci  occupiamo  dé'satelliti  di  Giove  é  dell'anello;  di  Saturno.  Certamente  che  anche  Giove  e  Saturno  possono  ESSERE OGGETTO DELLE NOSTRE CONVERSAZIONI,  ed  è  cosa  desiderabile  che  Io  sieno,    perchè  pascono l'animo  di  idee  sublimi,    perchè  servono  di  guida  al  nocchiero  che  va.  errando  sulP  immensa  superficie  de'  mari,  ecc.  Ma  avreste  voi  vietato  ai  Romani  di  parlare  quando  Cesare  ottenne  dal  Senato il  diritto  sopra  tutte  le  mogli?  Quando  Vespasiano,  che  si  mostrava    tenero  pel  bene  del  popolo,  pose  un'imposta  sulle  orine?  Vi  sono  delle  cose  che  ci  toccano    dappresso,  che  è  assai  difficile  di  non  tenerne  discorso,  come  è  difficile  di  non  gridare  ahi  !  quando  il  fuoco  ci  scotta.  Se  poi,  per  opposta  ragione,  si  riflette  che  LO SCOPO PRINCIPALE DI QUELLI CHE S’UNISCONO IN CONVERSEVOLE CROCCHIO si  è  d'intrattenersi  e  ridere,  si  scorgerà  che  è  quasi  impossibile  d'allontanarne  gl’argo menti ridicoli,  da  qualunque  sorgente  provengano.  I  Romani  non  potevano  contenere  le  risa  allorché  parlavano  dell'imperatore  Costanzo,  perchè  costui,  quand'  era  in  pubblico  non  osava  movere  il  capo,    fare  un  gesto,    tossire,    sputare,  lusingandosi in  tale  guisa  di  rendere  più  imponente  la  dignità  imperiale.  Il  retore  Temistlo,  il  quale  era  stato  fatto  senatore  da  Costanzo,  trasformò  l'imperatore,  che  non sapeva  sputare,  nel  più  gran  filosofo  dell'universo;  avreste  voi  voluto  che  i  Romani non  ridessero    dell'impeiratore    del  retore? Si  può  parlare,  senza  cognizione,  della  pace  e  della  guerra  come  delle  zucche  e  dei  ravanelli;  dunque  IL LIMITE DI FISSARI AI DISCORSI NELLE CONVERSAZIONI,  rispettata  la  mòralé,  come  si  disse  di  sopra   non  dalia  qualità  dell' argomeiita  8i-d«U)e  ildsomere,  ma  dalh'giioliàiiza.di    parla  o  dalla  noia  di  chi  ascolta. Dopo  4 avere  eseldso  dalle  cQiiVèi^sjùtidid^l  discorsi  più  interessanti,  si  è  fatto  loro  rimprovero  perchè  spasso  non  s'occupano  che  di  coseJrivoJes  eoitià  jfoalè  èènsbra  si    a  divedere  d^aver  diinìenticato  che  IL PRINCIPALE OGGETTO DELL CONVERSAZIONI si' è  il  piacere:  Se  il  caippo  in  cui  il  piacerò  ap^  l^^cev  è  di  già  anche  troppo  ristretto,  per  quale  motivo  vorrete  voi  ristringerlo    più?.  Vi  furono*  de' grand' iiòinini  che  ridévanó  di  cuore  alle  tlSt^  tezze  di  Pulcinella,  vorrete  voi  condannarli?  Più    spirito  è  3tato  avvolto  in  cose  serie,  più  assav\*  porà  il  contrasto  delle'frfvolezze'  Ne'momenti^'ózia  non  vergognava  Esopo  di  giuocare  alle  noci,  Ca*  tbfifó  alla  pafla  nel  eàmpo  Mairzio;  Pascal  facevi  delle  scarpe,  Malebranche  cucina  delle  vivande^  di  SCIPIONE e  di  LELIO dice  CICERONE,  che,  ritiràti  alla  esfiìpagna,  non  isdegnavano  di  bamboleggiare,  incredibiliter  repuescere.  Queste  frivolezze  .offrono  uni  trastullo  necessai^io,  senza  che  lascino  neil' a»  ttimo  alcuna  traccia  da  che  sono  svanite. «  Rispettiam  dunque  la  follia  gradita    l^.QWBe  balsamo  dolce  d«Ua  vita.  »   Cbesterfield  dice  che  le  frivolezze  DELLE CONVERSAZIONI   €l^0B&  tòné  ti  compénso  delie  àliiine  piccole,  ebé  neri  pensano  e  non  amano  di  pensare.  Avrei   «fimyandatQ  volontieri  a  questo  scrittore  s' 6|^i  addlìjMMMte      per  pensare^  Le  frivolezze  DELLE CONVERSAZIONI,  simili  alle  immagini  scucite  4el  sonno, servono  a  farci  ridere  e  nulla  più.  Io  sono  stanooc  a  segno  che  non  mi  reggo  in  piedi,  e  voi  mi'con-À  sigliate  di  passeggiare?  Che  cosa  direste  d'un uomo  che  per  sgombrarvi  dall'animo  la  melanconia,  viponesse  tra  le  mani  le  Notti  di  Yòung  ?    Si  devono ammirare  quelli  che  dopo  d'essersi  occupati  di  studio  0  d' affari  nel  gabinetto,  possono  ritornare  agl’affari  o  allo  studio  NELLE CONVERSAZIONI;.  hna  non  si  possono  spregiar  quelli  che  dopo  avere  eseguito  il  loro  dovere,  abbisognano  di  riposo.  Sic,  .come  i  pranzi  non  sono  eccellenti  se  non  quando  possono  soddisfare  tutti  i  gusti,  così  non  sono,  eccellenti  LE CONVERSAZIONI se  una  varietà  di  soggetti  corrispondenti  ai  bisogni  di  ciascuno, non  presentano. Generalmente  parlando,  i  discorsi  serii  non  possono piacere  alla  maggior  parte  degl’astanti,  giacchè  la  maggior  parte  vanno  a  ricercare  NELLE CONVERSAZIONI riposo  alla  riflessione  e  pascolo  alla  fantasia. Non  si  può  quindi  approvare  la  condotta    Locke,  il  quale,  mentre  tre  milordi,  Hallifax,  Anglesey.,  Shaftesbury,  jgiocavano  tra  di- loro,  egli  '  occupaVasi  a  scrivere  ie  parole  che  uscivano  loro  '  di  bocca.  Per  quale  motivo  ridete  voi,  gli  disse  Ànglesey?  Perchè  nou  perdo  nulla  di  quanto  voi  dite,  rispose  il  filosofo,  e  gli  mostrò  la  nota  delle  parole  poco  assennate  che  ciascun  giocatore  aveva  detto. Questa  censura  era  fuori  di  proposito,  giacché da  persone  die  giocano,  e  giocano  per  divertirsi, non si  deve  aspettare  che  argomentino  in  barbara  o  in  baralipton.  Quando  prendiamo  una  medicina,  dobbiamo  noi  osservare  se  è  bianca  o  nera,  leggiera  o  pesante,  bella  o  brutta,  graziosa 0  no  alia  visita,  di  qualche  astante  ?  £Ua  ci  ridona  la  salute,,  e  bastai    Airincontro,  dice  Gozzi,  certi  Catoni  vorrebbero  che  oca  si  uscisse  mai  dal  malinconica  e  dal  ^rave,  come  se  gli  uomiiri  fossero  d'aeciaio  e  non  di  carne.  Questi  tali  ci, vorrebbero  affo.»  gati  nella  noia.  £  quando  Fanioio  ò  kifastfdilOt  »  non  è  buono    per      per  altrui.  Il  meglio  è  un  bocconcello  colla  salsa  di  tempo  in  tempo,  »  e  poscia  un  grosso  boccone  delle  vivandé  usuaK.   La  misura  ne' passatempi  è  rimedio  della  vita;  ed  io  jtanto  ve^  magri  sparati  è  disossati  quelli  V  che  non  pensano  ad  altro  che  al  sollazzo,  quanto    queUi  che  tirano  continuamente  quella  benedetta  li  carretta  delle  fecceade.  Soggetti  ge^ieralni^nte  noiosi    Sogliono  essere  soggetti  noiosi  ed  opposti  allo  SCOPO DELLA CONVERSAZIONE i  seguenti. Gl’incessanti  lamenti  sopirà  viali  a  cui  non  si  può  opporre  rimedio..  Talvolta LA CONVERSAZIONE in  vette  d'essere  un  tessuto  di  piacevoli discorsi  e  ameni,  è  un  vero  piangisteo,  o,  per  dir  meglio,  un  miserere.  Se  qualcuno  riesce  a  dìipenticare  i  Riali  eomuni,  T  unó  o  l'ailro  degli  astanti  glieli  rammenta  con  circostanze  nuove,  e  il  sentimento  dolorosa  ne  aggrava  colla  prospettiva  «d'un  avvenne  peggiore.   Che  cosa  direste  di  schiavi  che  per divertirsi  parlassero  delle  loro  catene. É  questo  up  difetto  de'  veccM  che  non  sànm  aprir  l'animo  alla  speranza;  degli  ignoranti,  incapaci di  riguardare  le  cose  da  più  aspetti;  delle menti  deboli  che  ad ogni lotta  succumbono. Alcuni  velano  questa  incivile  abitudine  col  sentimento  di  compassione  pe'mali  altrui,  cioè  per  mostrarsi  compassionevoli verso  gl’assenti  tormentano  gl’astanti. Pietro  è  morto  improvvisamente;  Paolo  si  è  ammazzato;  il  pane  è  troppo  caro;  la  tempesta  ha  distrutto  la  vendemmia ;  le  imposte  sono  eccessive;  la  guerra  è  imminente;  la  peste  s'avvicina,  ecc.  Poco  manca  che  non  ci  predicano  la  flne  del  mondo,  come  si usava negli scorsi secoli, idea che tuttora  s' insinua  ne'  discorsi  della  plebe  quando è  afflitta  da  qualche  calamità. Sarebbe  pazzia  il  pretendere  di  non  sentire  i  mali  della  vita,  ma  è  pazzia  maggiore  il  non  sforzarsi  di  dimenticarli. Sarebbe  imprudenza  l'andare  verso  il  futuro  colle  spalle  indietro,  ma  è  imprudenza  maggiore  il  riguardare  i  mali  futuri  come  successi  e  non  distrarne  lo  sguardo.  La  novità  della  cosa  può  qualche  rara  volta  sciorre  da  inciviltà  l’annunzio d'una  trista  novella. Ma  richiamare  continuamente r  idea  di  mali  che  tutti  conoscono,  è  l'eccesso  deirinurbauità,  giacché  questa  ricordanza,  oltre  d' essere  dolorosa  per  se  stessa,  conturba  e  piega  a  melanconia  i  sentimenti  degl’astanti.  In  questa  situazione  degl’animi  non  osa  spuntare  sul  labbro  il  sorriso. Cento  detti  spiritosi,  pronti  a  ravvivare  LA CONVERSAZIONE,  tornano  indietro. Ora  rinunziare  a  cento  piaceri  per  procacciarsi  un  dolore è  un  calcolo  da  matto.  Si  può  procurare  agli  spiriti  de' momenti  di  distrazione  fissandoli  sopra  oggetti  diversi  dagli  abituali. Sì  pùo  'Yìntiizzare  la  sensazione  4el  dolore  riguardando le  cose  dal  lato  ridicolo. CìasGuno^  può  cogliere  de'jnoti?!    eoasolaaàone  paragonandosi  con  quelli  che  in  più  tristo  statoci  trovano.  Chi  vuol  viver  tranquillo  i  giorni  sui,  »  Kon  conti  quanti  son  di  lui  più  lieti,  'Ma  gitanti  sod  più  miseri  di  lui.  »   Si  può  innalzare  l’animo  alla  speranza,  mei]itre   il  volgo  s'abbandona  al  timore,  considerando  tutta  Festeosione  delle  eventualità  possiinli  Mentre,  aeU'  ulUmo  assedio  di  Genova,  i  soldati  ca?   scanti  (li  fame  facevano  la  guardia  seduti,  uno  di  essi  disse:  Ma^séna  non  voiTà  arrendersi  iìnchè  non  ci  ha  fatto  mangiare  i  «udì  stivali. Questa  facezia  induce  gl’astanti  a  dioie  ai-^  tre,  e  intanto  U  sentimento  deUa  fame  fa  tr^;ua. Un  generale  francese,  ferito  in  battaglia^  sta  per  far^ta-*.  gliarc  una  ^aniba;  il  suo  servo  piange  in  un  angolo  della  stanza:  Meglio  per  te^  <t*\idìce  il  paziente;  non  vedi  tu  che  quando  avrà  una  gamba  di  meno^  non  ti  resterà  più  da  lur  sitare  che  un  solo  stivale  ?  Quindi  ritrova  forza  per  subire  r  operatone.   Io  ammiro  la  notissima  donna  spartana,  che  dice  al  fi^io  tornato  zoppo  dalla  battaglia:  Ad  ogni  passo  rammenterai  U  iuo  valore  e  la  tua  gloria,  Gbe -bella  idea,  che  idea  ingegoosa,  si  é  quella  obe  ia  tacere  U  senUmento  spia((Kev<^  un'jmpedeilone  fisica  090  un  sentimento  miòrale  »^  desca  l’amor  proprio,  e  a  sublime  sfera  lo  innalza  1^   Si  clìiama  leggerezza  1'  abitudine  di  considerare  le  cose  dal  lato  ridicolo  :  preziosa  leggerezza  che  ci  fa  sorrìdere  in  mezzo  al  dolore,  tratto  caratteristico  che  distingue  i'  uoma  dai  bruti.   n  seniimenio  della  speranza  si  cambia  ki  finrza  lMee^,  qualunque  sia  U  modo  misterioso  con  cui  siffatta  4ra8torma  Una  bella  imipagmazioQe,  un' iinaiagiiiazioiie  rideate  sa  creare  delle  róse  anehe  ia  mezzo  ai  deserti.  S'ella  è  in  parte  dono  della  natura,  si  può  aecresceria  coirabitudine  e  migliorarla  coirarteLe  insipide  SOTTIGLIEZZE.  Profondere  sfarzi  di  spirito  sulle  parole,  sulle  cosev  solfe  idee  senza  trarne  alcun  vantaggio  o  lepore,  è  eccitare  nell’animo  degl’astanti  il  sentiménto penoso  della  fatica,  è  indisporne  ramon  proprio  coir  idea  della  pretensione,  è  rendersi  ridicolo pel  non  successo.  Un' uomo  cbd  tenta  di   ziODé  «tkseede.  emrva  questo  fenomeno  negli  stesKi  animali:  il  cavatto,  statico  dal  viaggio,  aeeorgendoiii  d'essere   vicino  all'  albergo,  trova  forza  per  accelerare  il  passo.   il  Destrier  che  air  albergo  é  vicino,    Più  veloce  s'  affretta  nel  corso;  Non  l'  arresta  1’angustia  del  morso,  .Non  la  voce  che  legge  gli  diu  >  'l'n  imbecille non crede che  T  innesto  possa  costringere r  albero  selvaggio  a  produrre  de'  fruin  domestici  e  sa.  porlti  :  le  anime  deboli  non  credono  che  possa  lo  spirito  innalzarsi sul  senthnento  d^I  dolore  e  dominarlo  :  tanto  peggio  per  esse.  Al  contrarlo  lo  ho  conosdiito  m  nomo  di  tempra   '    forte,  che,  detenuto  per  opinioni  politiche,  non  sog^^iacciue    che  un  giorno  alla  melanconia  in  quattordici  mesi,  benché  gli  fosse  negato  il  conforto  de*  libri.   Far  r  elogio  della  melanconia,  come  i^ero  alcuni  scrittori detti  sentimentali,  è  fere  F  elogio  delle  nubi  che  f\  tolgonp  la  vista  diìl  lìriuaniento.  In  mezzo  a  tante  forze  die*  tendono  a  dislrng^<»rci,  vanteremo  noi  i  pregi  d' uu  seati ;    meato  che  accelera  la  distrusdone  /Itìtt   saltare  al  di    della  sua  ombra,  rapi^resMM  Udi**  fetto  che  ho  io  animo  di  censurare  :  eccone  degli   1  Far  contrapposti  ad  ogni  paroluccja  t   »  Stirar  con  le  tanaglie  5  concettwzzi,  Attaceonar  le  i^ime  con  Ja  eer^i  '  V    ogni  aetento  far  éegìi  eqntvociasm;   É    Lodsi^  le  inoscbe,  f  grilli  e  il  raTanello\  »  Ed  altre  scioccherìe  c'hanno  corliposto  ^  li  Bernì,  il  Maiire,  il  Lasca  ed  ii  Burcbiellò.»   Le  tante  quistìoni  di  metafisica  che  si  facevano  per  Faddietro  sopra  cose  ehe  la  ragione  non  intese  giammai,  dovevano  generalmente  fruttar  noia  agli  ascoltanti.se  non  erano  interessati  nella  disputa  pef  amor  proprio.  Di  sottili  insipidezze  ei.  diede  un  esempio  d'altra  specie  Uvezio,  allorché  esaminando  dottamente  quale  è  la  positura  naturale  diell'uomo  tra  lo  stare  in  piedi,  «edato  ^  coricate,  genuflesso  0  passeggiare,  dopo  d'avere  discusso  a  lungo  gl'inconvenienti cai  andremmo  ìncdntro  tenendoci  continuamente nell'una  o  nell'altra  di  queste  posizioni,  conehiude  clie  lo  astato  naturale  dell'uomo  si  è  di  panenderle  tutte  sticces^mmente.  Era  forse  neete-^  serio  che  l'erudito  vescovo  d'Avranches  si  stillasse  il  cérvello  per  provarci  questa  verità?  Perciò  ma*  dama  Geoffrin,  parlando  d'iino  di  questi  stucclievoli  Ciceroni,  diceva  :  «  Allorché  egli  mi  parla,  »  vorrei  che  Dìo  mi  facesse  la  grazia  di  rèndermi  n  sorda  senza  che  questi  se  ne  accorgesse  \  egli     n  sarddbe  perisuasa  eh'  io  T,ascolUi$si,  e  s^reòiflio  »  contanti  ambidUie.  xii  ^n  k^-m^  ?   Cresce  ri  motivo  di  censuràre  le>  insipide^  6Mi«»  gliezze  allorché,  divenute  triviali  affatto,  da  uq  Iato  si  ripetono  eoo  pretensione  di  novità,  con  che  si  dà -segno  dignopàhza,  daU'aUra  riescono  ofhn^  sive  alfuno  o  all'altro  degli  astanti.  Il  poeta  Despréaiix^  che  iioa  eika^ dotate  della  pazienza  di  ncia^  daina  €reoffriti  ^  se^ténde'^un  giorno  Bordaloue  a  rìpeteìre  le  vaghe  analogie  sulla  pretesa  follia  dei  poeti^  gU  dis9eH»xi(  pp^€auslieanlellte:  Io  so,  mio  Caro  padre,  quanto  si  dice  d'ingegnoso  su  questo  »  9fg0jQsento;  se  v^i  y/»lete  venir  meco  aU'o»  spedate  de'matti,  io  son  pronto  a  mostrarvi  dieci  «  predicatori  per  i^u  poeta  ^  e^roi  vedrete  a  tutte   lo  4(>ggb  deUdjiàaal  «he  dividanp  il  loto  dteooiso^   in  ti;e  punti.-'   r^Uriaql^oedenti  riiles^iiaioa  condanaano  Fuso  dir  propÌMie  quistioofdligegncile^  le  quali,  rispondendo  ciascuno  a  capriccio,  servono  di  piacevole  esercizio  ag^fipiiNiti  ^'^liti  iNToiy^ e  vivaci  che  sci^piana  impftlìiéisamente  y  -e  talvélta  a  lode  di  qualche    8ti^t(^  v.|ieUa  mwì^m^lkm^  della  duchessa  del  MaifMVféei^lìiB»^ a  dar  risalto  alle   pili  sfuggevoli  differènze  tra  i  diversi  oggetti  pro^  ||9^iM^>^^  dis$A,Ma  giorno  ai  cardinale  di  p4>)igw%]^IÌnatot^difi6ie^  passa  tra  me  e  il  mio  oralogio? —  Il  vostro  orologio,  rispose  il  cardi*  nia^e  ^  ($tliirieor4a(^/<w:ftViJ^  ee  le  iate  dimenticafei   Tutti  i  di^corsir^ehe  esconodal  limiti  della   conmmens,a^  j§^S^tk^<^^  si^o  alla  98.   BiitArà  qui  aàmmi?^  il  earattère  degli  astanti  è  Ufi  limite  ^pwa^iii^iqQfP 'ir^iacchè  per  quanto  siano generalit  per  es.,  le  vostre  iodi  ad.  toia  vjrtà  e  le   vostre  censure  ad  un  vizio,  vi  si  attribuirà  non  di  rado  l'intenzione  di  far  rimprovero  quello  degli  aistanti  ebe  manca  della  prima  q  è  allaceiato  dal  secondo.   Finalmente IL SOGGETTO DELLA CONVERSAZIONE diviene  noioso  allorché  Tidea  della  nostra  per*  sona  e  delle  cose  nostre  presentiamo  per  lungo  tempo  agli  altrui  sguardi  j  .  come  Aireìùo  nel  e9«  Soggetti  aggrademli. Se  una  parte  della  civiltà consiste  nel  dire  a  ciascuno  ciò  che  gli  conviene»  è  chiaro  che,  acpiò  non  manchi  SOGGETTO ALLA CONVERSAZIONE,  devi  parlare ad  ognuno  delle  cose  che  più  roccupano  o  più  gli  aggradano,  della  sua  arte  o  professione,  de' suoi  gusti  o  delle  sue  avventore,  de' figliuoli  o  della  moglie,  ecc. Acgomento  al  nocchier  son  le  procelle  «    I  bovi  airarator  :  le  sue  ferite  ^  Conta  il  guerrier»  conta  il  pastorale  agneHe.  »   Chiederai  dunque  al  giovine  galante  a  .  A  qual  cantore   9  Nel  vicin  verno  si  darà  la  palma  >  Sopra  le  scene;  e  s'egli  è  ver  che  rieda  »  L'astuta  Frine  che  ben  cento  folli  »  Milordi  rimandò  nudi  al  Tamigi;  »  O  se  il  brillante  danzator  IXarciso  9  Tornerà  pure  ad  agghiacciare  i  petti  »  De'  palpitsgoiti  italici  mariti.    Ai  vécrthfo  dfititafidefai  conto  degli  u^i  eivlii,  po*'  litici,  religiosi  clie  negli  anui  di  sua  gioventù  si  costuinarona,  onde .  procurarti  il  piacere  d!  con*   frontarli  cogli  attuali.  Preparati  però  a  sentire  eccessive lodi  dei  passato;  quindi  avrai  Tavvertenza  ^di  separare  i  f alti  dal  giudizio  di  chi  "gli  e^one.  Spingerai  anco  con  bel  garbo  il  di  lui  animo  verso   l- piaceri  che  più  Tadescarono   ».  '  «Onde     misero  cor,  che  il  ben  p^dtita.  »  Non  ha  più  di  goder  speranza  alcuna,,  »  Kesii  il  conforto  stiinen  d'aver  goduto.»,  Colle  donne  volgari   Or  di  polii  ragiona,  or  di  bucato*  »   Colle  donne  galanti  parla «  Di  veli  e  enfile  e  femminili  arredi.  »  Colle  donne  gentili  che  uniscono  ii  bel  costiime   airistruzione,  porrai  sul  tappeto  le  arti  belle,  e  a  norma  del  loro  genio  particolare  proporrai  quaiclie  problema,  acdocohè  al  piacere  di  discorrere  umscano  il  piacere  di  soddisfare  la  tua  curiosità.  Ad  una  giovinetta  ohe.  occupa  vasi  a  dipingere,  chiese  un  giovine,  se  provava  più  diletto  nel  ritrarre  gli  uomini  o  le  donne  ^  i  giovani  o  i  vecchi.    Sono  indififerente  a  tutti.    Eppure?    Pre/e^  risco  le  fisonomie  sensibili  senza  riguardo  al  sesso.    £  quali  sono  i  segni  fisionomici  che  caratterizzano  la  sensibilità?  ^  Qui  cominciò  un  discorso  che  durò  due  ore,  la  giovine  facendo  pompa,  di  sentimento,  il  giovine  di  metafisica.  Le  letture,  cui  talvolta  sono  occupate  le  signore,  Yf  jfffft^mo  U  ctesbro  di  jebi«der«  loro  ^ii^li  f^m  le  colpiscano  di  più,  e  quali  autori  in  tale  ò  tal  altro  ramo  di  letteratura  preferiscano,  e  se  avrete  l'av»  mieuM  proporrà  loro  qualche  obbiezione  pet  dimostrare  che  non  vi  sfuggono  le  loro  idee^  prò*  curerete  ad  e^  il  diritto  di  pmlan^  à  lun^iit^  mmBM  ^^nimm/^:èe9lL  mUoMi  poesn  Uteek^lé  d*  inciviltà  y  poiché  ciascuno  ba  diritto,  di  difen^  dflisi:  e  giustìicare  cìòl  cbe  dm*'  Della  fanciulla  vorrai  yedere  i  dis!^,  i  ricàini,  la  scrittura,  ecc.   Chtederstt  «drifcaamom»  ohe  ms»  w^ò  ^^IpM^   che  brillano  neH*azzurra  volta  del  cielo.  Per  quaH  €ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^  altri  cambiarono. di   MlOfe.  D' oode.  amnga  che  i  pidi^  si  <  inafapo  nello  stesso  senso  da  occidente  in  oriente.  Perchà  mail  eaegaiscjoao  i  laro  fioti  ia,,)ioa  ^iBl|a  s^oa»V  mentre  te  comete  vanno  errando  liberamente  per  latte  le  r^ipai  del  cìe^o.  Ove  v^aono  e  d'onde  veór  gono  questi  astri  che.  spa^epteeo  11  wlgoéoUli  fatarba  .e  colla  coda. Delle  erranti  stelle   »  Segai  il  cammino,  e  le  eagion  disveli  ^Degli  aerei  portènti;  onde  Je  nufci,  v   »  Onde  il  tuono  e  la  pioggia,  e  di  qual  fuoco »  Aceendesi  il  balen;  perchè  sì.  lenti  . I  caldi  soli  estivi,  e  qua!  ritardo:   Le  fredde  notti  deirinverno^allQpghi..   Inviterai  l’economista  ad  esporti  le  cagioni  dell'alto  0  basso  prtìsìo  de'generi,  dell'abbondanza  o  scarsezza  d'una  specie  di  monete;  l'influsso  delle  imposte  suiragricoitura  e  sai  mestieri;  se  convengft  dare  la  preferenza  alle  manifatture  nazionali;  ia  quali  casi  e  con  quali  mezzi  debba  il  Governo  promoverle  ecc.   Parlerai  al  filosofo  di  leggi,  all'avvocato di  liti,  al  medico  delle  malattie  dominanti  ecc.  Ma  guardati  bene  di  decidere  tu  stessQ,  principalmente avanti  queste  persone  sugli  accennati   argomenti,  giacché,  non  appartenendo  essi  alla  tua  professione,  ti  esporresti  facilmente  al  ridicolo  cui  si  espose  un  sarto,  il  quale  avendo  composto  e  ^presentato  ad  Enrico  IV  un  libro  di  regolamenti  .•^civili,  sentì  il  re  a  dire  agli  ^stanti  :  Chiamatemi  dunque  il  cancelliere,  perchè  mi  prenda  la  misura  d'un  abito. Allorché  ti  trovi  in  una  compagnia  di  stolti,  non  mostrare    la  distrazione    lo  spregio  eh'  ei  meritar  si  potrebbero.  Lascia  alla  fatuità  libero   '  Campo  di  far  pompa  delle  sue  scempiaggini  senza  farle  giammai  temere  d'essere  repressa  e    anche  giudicata.  La  Motte,  persuaso  del  proverbio  spagnuolo,  che  non  havvi  stolto  da  cui  non  possa  trarre  qualche  profitto  il  saggio,  applicavasi  a;  ricercare  negli  uomini sprovvisti di spirito il lato favorevole dal quale poteva, sia per propria istruzione,sia  a  conforto  della  loro  vanità^  riguardarli.  Facendo  cadere  destramente  il  discorso  sopra  quanto  avevano  veduto  o  sapevano  di  meglio,  procurava   Convengo  non  essere  impossibile  che  un  uomo  si  formi  in  mente  idee  ragionevoli  anche  sopra  oggetti  estranei  alla  sua  professione;  ma,  essendo  la  cosa  alquanto  improbabile,è  necessaria  in  simili  casi  somma  riservatezza  e  difidenza  speciale  nel  proporle.'   tolto,  senza  il  piacere  di  smérthi^  il  poco  bene  che  possedevano;  «  mentre  non  annoiavasi  con  es^  vH  wodeite  ^mtentr  4I  di  14  delle  lo»   speranze. Sargenti  di  ridicolo sociale.]   Tu  mi  dirai  che  ti  porti  alia  conversazione  non  .p«r  esenatare  la  pazienza^,  me  per  andare  a  ^écia  d(  piaceri  innocenti,  e  vorresti  poterli  córre  0  tra  i.  fiori  del  discorso,  0  ndie  maniere  delle  persione^  0  tra.  ameni  sentiiilenti  e  gentili.;   Ti  ricorderò  dunque  la  massima  raccomandata  di  sopra,  cioè  avvezzati  a  riguardare  le  cose  dal  fatto,  ridicolo  :  eéecotene  aicniie  fonti  suceinlamente.  TI  porgeranno  grato  spettacolo.  "   ù  Le  variazioni  deile  passioni  pet  em  io  jrteaso  uomo  passe  facilmente  dal  giardini  d' Epicuro  ai  portici  di  Zenone^  ed  è  a  ticenda  di  vota,  e  fiv>n dano  per  trimestre,  e  per  cai  non  di'  rad^   Osan  profoni  e  fetidi  servacci   »Di  libertà  mentire  il  nobil  fuoco.   »  Quanti  ancor  ne  veggiam  d'animo  incerto  1^  E  di  dottrina 5  in  cui  fondarsi,  ignudr,  Che  quel  clie  sol  mattino  era  lor  Aoia,  *  »  Chiaman  perfetto  al  tramontar  del  sole  ?    A  vicenda  gli  scorgi  ora  del  véro  Difensori,  or  del  falso:  ora  baciarti  9  In  fronte  amici,  or  affrontarti  infesti, Tanto  che  sotto  a  due  stendardi  e  volti       A  due  partiti  un    solo  li  yede.  m    :}/  Le  qifMate^  ripugnanze.  Più  Qti  gusto^  um  aUbsrimfó,  wi  senliflliefite  'è'  tsemofie,  piò  :AigMé  alcuni    mostrarsene^  alieni.  Così  adoperando,  i^etnbrà  loro  di  «tacearsì  dalla  massa  volgare,  e,   collocatisi  in  alto,  divjenire  r  oggetto  degli  altrui  sguacdi. Essi  contrasto- eternò  \  i.  Fanno  a  ragion,  per  voler  esser  sempre  \  P,  Singolari  dagli  altri;  e  picca  occulta  »  Hanno  in    .d'esser    buon  gusto  soli/    Jton  d'altri  àppresse,  e  veder  soli  il  vero;;; V  I  più  di  quQSti  incaputendo  avvezzi  Son  del  sénno  a  c^rcpr,  lontani  ognoi^ Dalle  profane  popolari  turbe.  Onde  se  ayvjen-che  il  popolo  par  caso Dia  pur  nel  segno,  e  ragiohevoi  pènsi,  Sc£i.nt.onan  essi^  e  mal  pensano  e  a  torto;.  \  Perchè  purificate  eceèlse  menti. Non  seguan  mai  popolaresche  teste.  »'   ISome  vi  sareste  voi  contenuto  con  Euripide,  il  quale  assicbrava  di  non  amare  le  donne,  dopo4'essersi  amìtaogliato  tre  volte  ?  Seguendo  i  precetti  sinora  esposti,  voi  avreste  dovuto,  senza  lasciar  {scorgere  dubbio  sulla  sua  sinceritià^^avreste  dovuto  ^  c^tedérgli  la  storia  di  questi  tre^esseri  tatfto  odiati,  e  con  cui  egli  strinse,  alie^inz^  forse,  ad  esercizio  di  sua  pazienza.  Gli  sforzi  della  vanità  per  cui  ciascuno  tenta  d*  associare  V  idea  delia  propria  persona  aWidéa  delle  cose  pregiate  o  delle  persane  il*  lustri.  Se  taluno  vanta  un  bel  libro,  un  letterato  yi  accerterà  tosto  che  lo  possiede,  benché  forse    OdÉflii  ahbia  and'  vodafe  fiè  i^die  pti^iAMii  r''^  si  tratta  d'un  grand'uotno,  questi  vuo!  essere  suo  parente^  e  qu^i  ^la  ^ide  a  Parigi  .0  a  Londra  ^  o  viaggiò  còn'lai  tstXto  ^ièséo  meeilòV  e  wd  tm  vanto  come  l'asino  della  favola,  il  quale  portando  delle  reliquie,  slnun^gmava  d'éèsere  adorato»- Orasio si  vantava  d'urtare  impulitamente  chiunque  inco»»trava  per  if^rada^  purché  potesse  giungere  presto  .^"^M^eeniib  i^irefdete  l'asMKia  o  aia  il  eàttraito  dieK*  ^i'àinclr  proprio  :  egli  vi    una  parte  della  sua  ri-piitai^we^^  cieè  ti  concede  d'  essereimpulHo,  af«  finché  Io  crediate  in  lega  col  ministro' d'AiagteMU  in  somma  quatti  .ad  ogni  istante  si  scorge  che  ^  ttMàini  iielle  loro  pretensioni  sohcf  pìù^  iirragione*  voli  di  que'facchini  che  seqtendo  a  lodare  le  belle  sonate  d'un  organista,  si  gloriane  d'avere  levato  i  mantici. A^'^Aeciocchè  i  giovani  non  prendano  abbaglio,  farò  >dHervare  ebe  il  vantarsi  d'essere  i'amioo  di  qiiid(die  persona  virtuosa  od  altrimenti  stintiablle,  qtiando   10  si  è  veramente  V  non  è  un  vanto  irsagtonevole  èoftie  gli  anteeedenti  -,  giaeeliè  le  petiOfle  Y«MMia^  le  stimabili  non  concedono  la  loro  amicizia^se  non   11  persone  eh' elle  stimano.  »  >r  .  /  pregiudizi  comuni.  QuéSIft  torgenté^^i  ri*  dicolo  non  ti  può  mancare  se  ti  trovi  in  compagnia di  donnìeeiuole;  giaeehè  ae  pe)r  ea. 'favai  oggetto del  discorso  un  male  0  l'altro,  esseti  spac^i^attno  tosto  de'rimedii  simili  a  quelli  del  medico  Quinto  Sereno,  il  quale,  per  guarire    quatìwia»   '  j^neva  sotto  il  capo  del  febbricitante  il  quarto  li%fo  éeir  Ilìade.  Contìnua  tu  la  storia  dellegaia*   lattier  ed  «fisa  Mtttiiuieraiiil^  dei  recale   che  ti  farebbero  ridere,  fossi  anche  moribondof/   Mi  è  stato  di^and^to  se  e  come  si  può  iotrat*  teimrsi  e  ridere  eofievj^aeecherew   yeramente  il  problema  è  un  po'difflcile,  ma  se  il'tettora  premelte  di  noa  tradisuii)  gli  affiderò  il  Le  pinzochere  chiamano  chiunque  al  loro  contoitton^e;  e  il.  loro  eootoi^  cresce  in  ragione  delle  persole  ehé  eoodamano;  ^  Quando  adunque  mi  .tcp vo  in  compagnia  d'  una  di  queste  signore,  le  em^to  avioti  '  una  ventina  di  peccatori  per  te  meno,  e  tutti  colle  loro  colpe  sulla  fronte  :  qui  si;iegge  rnode^  ik  ieàtfo^  più  Jungi  pas^eggiy  smmii   "La  vista  di  questi  piaceri,  a  cui  per  motivi  rispettabili, madama  ha  rinunziato,  riscalda  la  sua  bHe;  quindi  eceolar assisa  prò  tribunali,  e  scrivendo  sentenze  da  Radiunante,  colle  mani  e  co'{»icdi  eac*  «la  tìPotw*  filpifi  poveri  profiud.   -Appunto  perchè  so  che  la  pinzochera  è  ineso-.  rabitef  io  mi  interpongo  e  chieggo  pietà  ora  per  Vhi^.  ora  per  rsAtro  :  tento  Tapologia  della  moda;  dimando  qualche  tolleranza  pel  teatro;  il  concerto  dèlie  (Sfere  mi  serve  ja  difendere  i  ^oni,  gli  au«  gelli  vengonoin  soccorso  de'  canti  ecc.;  succede  dunque  una  contesa  tra  il  giudice  e  V  oratore,  e  coi  {a  siessioné.  criminale  continua^  giàcohò  ie,  ob*  bieziofifi  ragionevoli  ed  a  proposito  sohq  uhq  sti"molante DELLA CONVERSAZIONE. E  eieoofm  lo  zelo  di  madama  è  . scevro  di  mallaia,  quindi  riscaldandosi  ella  facilmente,  ini  permette  di  i^ere  n$l/wdo  delsuo  euHmofÀ ravviso  allora  sotto  tinte  superstiziose  quelle  false  idee  che  leggo  in  alcuni  libri  sotto  tinte  poetiche,  ed  imparo  a  stimarne  profondamente  gli  autori! Crescendo  il  calore  di  madama,  io  diminuisco;  l'opposizione,  e  le  lascio  assaporare  il  piacere  d'avermi persuaso e vinto  :  in  questo  modo  usciamo  dalla  conversazione  soddisfattissimi  entrambi,  ella  di  me, ed  io  di  lei.  Gli  sforzi  per  comparire  ricchi;  del  che  vedi  un  cenno  alla  pag.  89, .Basterà   qui  il  dire  che  il  ridicolo  in  questi  casi  cresce  in  ragione  della  differenza  che  passa  tra  l'apparenza  e  la  realtà,  sicché  il  massimo  ridicolo  ci  verrebbe  offerto  da.  colóro  che  imitassero  i  comici  di  campagna,  i  quali,  dopo  d'avere  rappresentato  Cesare  e  Pompeo,  muoiono di  fame.  La  saccenteria la  quale  si  è  di  due  specie:),  appartengono  alla  prima  quelle  persone  che,  non»^  facendo  mai  uso  del  loro  giudizio,  spacciano  le  idee  altrui  senza  discernimento  e  come  proprie.   Molti  vedrai  che  proferir  non  sanno  ^  \%  ' »  Mai  sentenza  da  sè;  corrono  in  gìra'^    Per  la  cittade  di  pareri  a  caccia;,  1 Intendimento  è  in  casa  lor,  da  cantò    Mobile  disusato  e  inutil  ciarpa.  L'opinioni  più  travolte  e  false  »  Succian  avidamente,  e  a  grande  onore.  Premon  la  spugna  ad  opportuno  tempo,  E  fan  lago  d'umor  sorbito  altrove.  La  seconda  specie  di  saccenti  contiene  que*  cerretani che,  forniti  d'un  capitale  scientifico  come  10,  fanno  pompa  d'un  capitale  come  100,  e  otten-,gono  facile  credenza  prineipalmeate  presso  le  donnicciuole  che  pizzicano  di  letteratura.   Non  basta,  dice  Gozzi,  l'aver  buone  merci    nella  bottega;  ma  il  saperle  mostrare  è  di  grande   utilità.  Succede  a'ietteral,  quando  sanno  acqui»  starsi  l'opinione  degli  uomini,  quello  che  accade  >  a  qualche  benestante  o  giocatore,  che  se  il  primo  »  ha  tremila  ducati  d'entrata,  si  dice  cinquemila;  »  e  se  il  secondo  ne  vince  cinquanta,  corre  la  voce  '»^di  cento.  Così  se  l'uomo  di  lettere  avrà  buona  V maniera  d'insinuarsi  nell'animo  altrui,  non  vi    sarà  cosa  al  mondo  che  non  si  creda  eh'  egli  i^intenda.  Una  così  fatta  avvertenza  fu  buona  in  »  ogni  tempo.  È  vero  che  secondo  i  costumi  del>»  l'età  e  delle  nazioni  la  fu  anche  diversamente  »  posta  in  opera.  Ma  che  credete  che  fosse  quella  »  ruvidezza  d'Antistene?  Che  quel  mantellaccio, quella  valigia,  quel  bere  con  le  giumelle,  e  la   casa  nella  botte,  e  le  altre  poltronerie  di  quei  »  malcreato  di  Diogene?  Non  altro  che  un  saper  »  vendere  le  sue  mercanzie.  Perchè  quando  uno   f a  con  una  certa  signoria  d'animo  quello  che  gli  »^altri  non  usano  di  fare,  tira  gli  occhi  di  tutti  a   *  sè,  e  a  poco  a  poco  la  maraviglia.  Aristofane  V  che  intendeva  le  cose  pel  buon  verso,  e  diceva  "  al  pane  pane,  per  aprire  gli  occhi  agli  Ateniesi,  »,  volendo  far  conoscere  l'artifizio  di  certi  studianti,  »  li  fece  comparire  sulla  scena  magri,  smunti  e  ^  del  colore  della  terra,  che  pareva  che  si  fossero  »  distrutti  a  studiare;  poi  le  loro  dottrine  erano,     quanto  spazio  salta  una  pulci,  e  se  la  zenzala  »  ha  la  tromba  nella  gola,  o,  con  riverenza  vostra,  di  sotto.  Le  industrie  d'oggidì  non  istanno V  più  nelle  goffaggini  di  Diogene,  o  nel  colorito  »  della  faccia  che  gialleggi.  Non  importa  più  che  '  »  i  letterati  siano  magri  o  scoloriti,  no;  chè  ce  »  ne  può  essere  d'ogni  corpo  e  d'ogni  colore;  solamente  è  necessario  un  poco  di  baldanza  per  »  dar  cognizione  di    al  mondo.  È  vero  che  per  »  rendersi  baldanzoso  bisognerà  prima  invaghirsi.^  »  del  suo  fare  e  del  suo  dire;  e  a  forza  di  dare  »  ad  intendere  a    medesimo,  che  si  sa,  comin>»  fciare  a  crederlo  finché  la  coscienza  noi  nega  più,    e  allora  poi  darlo  ad  intendere  anche  ad  altrui.  »  Poi  entrare  in  ogni  ragionamento  tanto  animati,  »  e  tanto  a  bandiera  spiegata  da  far  credere  che  quello  che  si  dice  abbia  proprio  la  radice  nel»  rintelletto,  e  sia  studio  di  tutta  la  sua  vita.'  »  Qualche  picchiata  agli  autori  può  ancora  giovare,  M  Verbigrazia,  se  un  dice  :  Come  vi  piace  l'opera'  '  »  del  tale     Non  ho  avuto  pazienza  di  leggerla. ALIGHIERI (vedasi) .J  È  rancido.  PETRARCA (vedasi)?  Troppo  lavorato;>   poi  malgrado  gli  so,  perchè  ha  fatti  tanti  Pe»  trarchisti  che  sono  una  noia.  L'Ariosto?  Divino;  »  ma  molte  volte    nel  basso  che  m'uccide.  Il  »  Tasso?  Semper  corda  oberrat  eadem.  Insomma  »  eirè  come  dice  Leopardi:     a  Vuoi  tu  parere  un'  arca  di'  scienza  ?   Biasima  sempre,  e  vedrai  la  brigata  »  Starti  d' intorno  con  gran  riverenza.  »   »  Un  grand'uomo,  un  grand'uomo  è  costui,  dirà  la  brigata,  che  conosce  dove  sono  difettivi  gli  »  autori.  Proviamolo.  Si  ragiona  di  questo  mondo  »  e  dell'altro.  Su  due  piedi  l'uomo  ha  da  saper  »  rispondere  tanto  del  corso  de' pianeti,  quanto sentenziare  deiinitivamente  delio  arricciare  ca»  pelli;  e  s'egli  ha  grande  animo,  sempre  terminera  col  dire  :  In  un  mio  Trattato  spero  di  far    vedere  al  mondo  eh'  è  goffo.  Le  signorie  loro  »  tra  poco  vedranno  l'opinione  ch'io  tengo  sopra  »  ciò  in  un  libro  che  quasi  ho  terminato:  per  modo  »  che  empiendo  il  capo  de' circostanti  di  sentenze,  »  di  libri  e  di  simili  abbondanze  letterarie,  egli  è  »  impossibile  che  quando  prende  licenza  dalla  com»  pagnia  non  si  bisbigli  :  Oh  che  uomo  !  Oh  che    profondo  sapere  !  Costui  è  una  libreria  che  cam»  mina.  Una  stamperia  che  tira  il  fiato.  »   Ma  se  ti  è  permesso  di  ridere  delle  stoltezze  degli  uomini,  come  gli  altri  ridono  delle  tue,  la  pulitezza  vuole  che  il  tuo  sorriso  al  loro  guardo  s'asconda,  e  che,  d'ogni  malizia  spoglio,  non  sia  diverso  dal  sentimento  che  eccitano  in  te  due  puU.  Cini  che  vengono  a  contesa. /,  giuochi  di  società.   Classificazione  dé*giuochi  e  vantaggi.   Da  un  lato  non  è  sempre  possibile  nelle  lunghe  sere  iemali  alimentare LA CONVERSAZIONE con  soggetti nuovi  e  interessanti;  dall'altro  il  discorso  pende naturalmente alla  satira. Ora  è  meglio  giocare  che  annoiarsi,  è  meglio  giocare  che  maledire  «  purché  regola  si  serbi  e  misura. Le  jeu  fùt  de  tout  temps  permis  p9ur  s'àmuser;  Oh  ne  peut  pas  t^mjours  travailler^  prier,  lire;  //  vaut,  ìnieux  s'óccuper  à  jouer  qiià  médire.   1  giaoehi  poksoAo  esheré  indotti  a  cpiattro-elattf:   La  1.  esercita  le  forze  corporee  (per  es.,  il  «orso,  la  lotta,  il  pigiato  eec^«.  )•   La  2.^  esercita  le  forze  intellettuali  (  per  es.  gli  teaochif  vari!  giuochi  colle  carte;  eec}«    La  S.*  lascia  Inerti  le  fonie  corporee  e  intrilel»  tuali  (per  es.  i  dadi  e  tutti  i  giuochi  d'azzardo)^   La  .  4  esercita  coDtemporaoeaoieDte  le  forze  fi»  siche  e  tntellettualf  in  diversi  gradi,e  In  parte  anco  dipende  dall'azzardo  (  per  es.  il  giuoco  della  palla  «  cavallo^  del  pallMe.eo'piedi  ecc.).  I*«r?{^  volanti  divertono  nel  verno  tutte  le  corti  d'oriente:  vi  si  appendono  de'  fuochi  che  seml^rano  astri  in  mezeo  al  cielo.  Quello  del    di  Stam^  sèmpre  in  aria  ciascuna  notte,  e  i  mandarini  ne  tengono  alternatìvamente  il  cordone.  In  Itàlia  querto  diiier^  timento  è  rimasto  ai  ragazzi  ne'giorni  festivi  d'estate e  nelle  ore  pomeridiane,  e  unisce  il  piacere  deHa  vista  airesercizio  delle  membra  (t).   *  L' opinione  comune  vuole  (  ed  io  l'aveva  segnita  Bell0  antecedenti  edizioni  di  questo  scritto  )  che  Fuso  delle  carte  da  giuoco  fosse  ignoto  pria  del  XV  secolo,  e  che  ne  sia  stato  inventore  Già*  cornino  Crtn^nneur,  pittore  di  Parigi,  verso  la  fine  dei  secolo  XIV.  Pare  che  non  si  possa  dubitare  della    (!)  I  cervl-volanU  meritavano  una  menidone  pnrtlcoIw?c,  |H9cchè  la  loro  storia  è  unita  a  quatta  deU'  el^tlrieitè.    falsità  di  questa  opinione  allorché  si  legge  il  manoscritto italiano  del  1295,  citato  dal  Tiraboschi  e  dal  Dizionario  della  Crusca,  nel  quale  si  parla  del  giuoco  delle  carte,  come  già  largamente  diffuso  in  quelTepoca.  Forse  ella  è  questa  un'invenzione  asiatica  come  il  giuoco  degli  scacchi.  Che  che  però  sia  della  sua  origine,  egli  è  certo  che  le  carte,  ugualmente  che  altri  piaceri  innocenti,  censurate  caldamente  da'  predicatori,  proscrìtte  con  pene  rigorose  dai  governi,  resistettero  a  tanti  nemici  potenti  congiurati contro  di  esse.  Dopo  che  l'esperienza  e  i  progressi dell'economia  politica  hanno  insegnato  ai  governi  a  trarre  un  partito  flscale  da  ciò  che  avevano inutilmente  proibito,  le  carte  da  giuoco  godono, per  così  dire,  d'un  esistenza  legale,  impinguano il  pubblico  tesoro,  occupano  alcuni  fabbricatori,  e  il  piacere  deglr  uni  diviene  sorgente  di  lavoro  per  gli  altri.  Le  carte  formano  parte  de'  divertimenti  delle  quattro  parti  del  mondo. Le  prime  carte  differivano  dalle  attuali  nell'apparenza e  nel  prezzo;  esse  erano  dorate,  e  le  loro  figure  dipinte  e  alluminate,  sicché  la  fabbricazione  richiedeva  talento e lavoro  particolare;  quindi  ne  era  alto  il  prezzo,  in  conseguenza  raro  Tuso. L'invenzione  delle  carte  introdusse  de' cambiamenti ne'modi  di  divertirsi.  I  differenti  giuochi  a'  quali  esse  aprirono  il  campo,  costarono  più  tempo  che  dertaro;  quindi  anche  nel  loro  abuso  furono  meno  fatali  de'  dadi.   In  generale  i  giuochi  d'industria,  ì  quali  appartengono alla  seconda  classe,  possono  essere  utile  e  innocente  esercizio  allo  spirito  di  combinazione    ed  io  dirò  francamente  alle  madri:  Se  il  vostro  ligliuoio  è  stupido  i  inspirategli  qualche  gusto  pe^  fuochi  d'industria;  k  vanità  punta  ed  aaiouAa  ^Ue  vìaende  delle  pmlile  a  deHe  Tioctto  risyeglìà  Tattenzione  e    qualche  iittività  allo  spirito.  Aggiungete  che  una  persom  ohe  UM  sa  gioem^   costringe  altre  due  o  tre  a  rimanere  oziose  come  eis^  in  una  coaversazione.  r  o:  Additando  i  iWDtaggi  det  giooéo  tmè  paioob  al  bisogno  d'intrattenersi,  non  intendo  di  vantarne  la  passioiie^  «amo  ehi  addita  i  pragl4el  vino,  iolande  di  gkistifioare  rubbriaebeeza..  : vi  .v>iJE  che  dite  dei  degli  scacchi?   «  Quello  earia  è  mutile  JiilfatteDHMBta  ai  kh   »  gegnoso  (risponde  il  Castiglione);  ma  parmfebe  »  un  sol  difetto  vi  si  trovi;  e  questo  è  che  si  può  »  saperaé^  troppo,  di  modo  che  a  cui  vuol  ^ssaere  »  eccellente  nel  giuoco  degli  scacchi,  credo  bisogni  »  consumarvi  molto  tempo,  e  mettervi  tanto  studio  9  quanto  ii^  vatésse^iiiiparar  qoaiehe  wbil  aefeaza,  »  o  far  qual  si  voglia  altra  cosa  ben  d'importauiia;  »  e  pu;  ìd  utolme^  etn  tanta  letica,  non  w  altep  »  che  un  giuoco.  GU^^fOiiiAi^gi^o^i  qtiai  eh' essi  siwa^  purché  noi!  eseatiè 'dal  liaMi  .  della  deeema^  s$ao  imta  pià  pregiabiUy  quca^o  maggiore  esercizio  offrono  ^iifoftj%roei;iq»ipHfi^^  alU/0rze^is»tellet'  tuali;  quindi  tra  tutti  i  giuochi  t  meno  pregiabiii  e  i  più^daiinoat  aooo  i  giuochi  d'azzardo.:  ^   'Regote  di  civiltà  nel giuoco.   iVoti  mQSif4Ue  mal  umore  se  vi.  toccano  cat'  ièbe  coorte  o  se  perdete;  giacebè,  altvimenli  facendo, dareste  a  divedere  che  la  vostra  tranquilK può  essere  turbata  da  un'inezia,  e  cte  apprezzate  WfmhiiaMnlle  una  pieeola  niQneta«  .  If  Nm  siate  troppo  fento  nel  giocare,  sia  per  non  dar  prova  d'inerzia  intetlettpale,  sia  per  non   Se  il  vostra  compagno  commette  degli  ^rrorif  ó&rreggetelo  €on  gwbo^  iberna  fare  schiaiNMS^  6  dar  wgM  4t  troppo  dispidoere  R  che  violerebbe  la  prima  regola;  d' altra  parte  dovete  fiewdarvi  di  ^fuiatli  %ìt»  eonunetlete      steasò. Se  giocate  con  persone  schizzinose,  difendeté  il  vostro  diritto  seaza  riscaldarvi  e  soprattutto  «iiM  paiéfo  «iSniiiKe;  #^  Ae^po  é'a?^  sposto  }e  vpstre  ragiooi)  cedete  con  beila  maniera. Io  giòco  per  diletto  e  per  conforto;   chi  vuol  far  quistion vada  aila^guerr^  E  giuochi  ad  ammazzare  o  ad  essèr  morto. Non  moxtrMe  ecee$sÌoa  é^ili^rwsa  fpumdo  vincete,    percbò  Waii^prez»  maggiore  dell  impmtattca  éeila  Msa  t  dtnot»  picooiMza  di  apicito sì  perchè  la  vostra  allegrezza  produce  nel  perdente  im  (dispiacere  più  sensibiie  d^a  perdita,. ed  è  riguardato cornai  m  prìmo''gmb  d'iMuttOk  Infetti  nissuno  ama  di  perd^e  a  nissun  giuoco,  non  tanto  per  h^resse  guanto  «par  amair  propria;  giaacbè  dalla  perdita  risultane  idee  umiliamli  eeonlrarie  aii/opinione  abituale  die ci3scuno  arasi  formata  in  mente  della  stia  destrazza  e  della  sua  fortuna.  Vod*  taire,  benché  uomo  di  spirito,  o  perchè  uomo  di  .  troppo  spirito,  non  poteva  tollerare  il  padre  Adam,  quando  guasti  lo  vinceta  agli  scaccili    al  tò*  ie;lìardo.  Un  principe  assiro  uccise  il  Aglio  di  ^>o  Jbyas  alla  i:accia,  perebè  quel  giovine  era  riuscito  a  ferire  un  orso  ed  pn  (ione,  contro  tsni  il  pnriiicipe  aveva  slanciate  le  sue  freccie  inutilmente. Un  uomo  probo  non  si  permette  la  minima  sùperchieria  nel  giuoco;  egli  vuole  poter  dire»  io  non  ho  fraudato  giammai,  senza  che  la  coscienza  Io  smenta  :  egli  temè  che  V  abitudioe  d' ingannare  neHe  cose  piccole  diminuisca  la  sua  delicatezza  nelle  grandi. Ogni  frode  dovrebbe  essere  punita- còlla  perdita  una,  due  o  tre  partite,  secondo  la  sua  impor*  tanza,  ed  a  giudico  inappellabile  d^gli  astanti. La  somma  giocala  deve  essere  tenuissìiha  e  sempre  inferiore  alle  finanze  del  men  ricco  tra  i  giuocatori;  altrimenti  alcuni  non  giocheranno  per  non  resbré  esposti  a  gravi  perditè,  altri  giocheranno con  grave  loro  daqoo  per  non  comparire  spilorci:  Tono  e  l'altro  caso  annuUa  il  piacere  delibi  CONVERSAZIONE e  lo  deprava.  Il  prodotto  delle  vincite  debb' essere  mpSeguito  4Z  vasutaggio  tornirne;  QUESTA REGOLA dimti)uisce  il  dispiacere  delle  perdite^  e  neutralizza  l'avidi del  guadagno. Il  tempo  destinato  al  giuoco  non  deve  superare i  due  terzi  del  tempo  consecFato  alla  cw^  ireflsasione  i  e  questa  non  deve  succedere  a  ^e»e  'de' doveri  e  degli  affari  di  maggiore  importanza.  .      Jiton  ai  deve  costringere  con  importuniià  sèsamo  a  giocasi,  come  non  ti  deve  èoatriogere  . jaissuno  a  bere.  Non  si  devono  accoppiare  mi  friwM  >er*  sos^ie  nemiche  o  reciprocamente  odiose.  Egli  è  quf$ta  un  probienia  teìvoita  dilGcile  per  la  padrora iiratO  TÉMÙ   di  casa,  e  a  scioglierlo  beae  ci  vuole  occhio  Qao  e  pratica  di  aioDdo..  «  Lieto  così  tra  ramichevol  turbai  »  L'  ore  dividi  delle  amene  sere,  )*  E  n'abbiao  parte  gli  eruditi  detti,  «  £  parte  ancora  al  genial  oe  dona  »  Breve  «ommercio  di  piacevol  gioco,  »  Cui  mutua  gioia  e  scarsa  speme  avvivi,  •>  Ma  sete  d'oro  non  corrompa,  o  il  renda  '  »  Torbido  e  taciturno,  e  tal  che  dopo  »  Al  vìnto  Insieme  e  al  vincitore  incresca. DOVERI NELLA CONVERSAZIONE. ATTENZIONE.  L’attenzione  ne' crocchi  sociali  si  divide  in  doe  rami  distintisdmi*  Il  prim^  coDuprenda  quatf  a^ttnsa  sansibiiilà  che  immagina  i  bisogni  degl’astanti,  li  previene  od  asseconda;   Il  secondo  oom|ltettde  le  affetftudini  «steHori  dimostranti che  Taitrui  discorso  occupa  interamente  il  nostro  anunob*   L  Supponiamo  una  signora,  che,  animata  dal-,  raoeenaata  sensibilità  dirige  ufia  CONVERSAZIONE,  0d  «serviaoMMie  ^v%ibM^  La  ptontezza  era  mii  ella  risponde  alle  dimande,  vi  fa  supporre  che  la  sua  attenzione  sia  tutta  ooeupata  nelle  risposte;  V ingannate;  ella  si  diiFÌd6, si  moltiplica,  ed  è  presente  a  tutti  i  pensieri  degli  astanti;  non  vi   S&7   sfogge  uno  sguardo  eh' ella  noi  vegga;  non  {orinate- tto  degiderk)  ch'elici  non  conosca}  noa  pfo^  ferite  una  pàroia  eh'  ella  non  ascolti;  non  v'  ha  individuo  nella  conversazioae  eh'  ella  dimentichi  iQ&tti  ella  vede    Ja  un  angola  ehi  wa  paria  per  timidezza,  6  gh  dirige  con  sorriso  di  confidenza  una  dimanda. Ella  s'accofge^  che  U  discorso  d;qualcuQó  eomiaeiab  ad annoiar  la brigala,  e  gli  .  cambia  cofx  bel.  garbo  il  soggetto tra  le  mani.  Il  vosl^  ^vvtirsacio  vi  stringe»eoa  afgomenti.iQeal»Dtì  a  segno  che  siete  vicino  succumbere;  ella  viene  in  ip(ra  soccorro,  con  una  celia.  . Vi  jsf uggì  di  bocca  dna  parola  a  cui  sh    sinistro  senso,?  ella  spiega  la  vostra  intenzione  e  la  presenta  in  beir  aspetto.  Cadeste  per  inavvertenza  iiv  uno  sbaglio  che  può  divenirvi  nocive  ?  ella  vi  trae  d'imbarazzo  colla  sua  presenza  di  spirito  Uh  Voi  non  ardite  leggere  una  iatteira  che  vi  viene  pre^eotida/netta  ewiversaziaiie;  ella  dimanda  per.  voi. il  permesso  agli  astanti,  pro^testando  che  ne  conosce  Timportan^a.  Voi  vorreste  .partire  e  non  osate;  elja  vi  et  rimprovero  che  4ih   1  'Ferdinando  VI  re  di  Spagna,  benché  di  carattere  buono  jed  amano,  era  alquanto  severo  controquelli  che  facevano  uso  di  tabacco  proy[>ito.  tJn  gìomò  in  sua  presenza  un  grande  di  Spagna  trasse  di  tasca  una  scatola  piena  della  polve  proscritta.  Il  re  slanciò  sopra  di  lui  uno  sguardo  minaccioso. L' ambasciatore  di  Francia  (  M.r  di  Duras  ),  accortosi della  faccenda,  s' avvicinò  alio  Spaludo  e  gli  disse:  Ohi  ecco  la  ndaia|iaocbierache  V.E.,  per  prenderai  giuoco  di  me,  mi  aveva  tolta.  Questo  felice  espediente  trasse  d^ impaccio il  reo  6  disarmò  il  monarca.  (NB.  I  membri  del  corpo  diplomatico  non  erano  soggelU  alla  legge  della  proibizione  ).   menrichiate  i  vostri  affari  pe'vostri  amici,  e  v'ordina di  partire  sotto  pena  della  sua  disgrazia.  Vinse  ella,  è  vero,  al  giuoco,  ma  se  la  destrezza  del  suo  compagno  non  avesse  corretto  i  suoi  errori, sarebbe  rimasta  succumbente.  Quest'oggi  ella  è  libera  dalla  sua  emicrania  e  ne  furono  medicina  i  bei  motti  della  scorsa  sera.  Osservate  con  quale  compiacenza  arresta  di  quando  in  quando  il  suo  .  sguardo  sopra  uu  astante,  e  pare  che  la  sua  fisonomia  s'animi  e  s'abbellisca  :  ne  volete  conoscere  il  motivo?  Questi  le  presentò  l'occasione  d'essere  utile  ad  un  infelice.  Senza  pretendere  dominio  nella  conversazione,  sa  dirigerla  con  destrezza,  e  quasi  direi  fa  comparire  sul  palco  i  personaggi,  restando  essa  tra  le  scene.  Ella  sa  far  valere  ciascuno senz'aria  di  protezione,  perchè  sa  distribuire  le  parti  secondo  V  abilità,  il  genio  e  i  talenti  di  ciascuno.  Voi  avete  fatta  una  bella  azione,  e  non  ne  parlate  per  modestia;  credete  voi  ch'ella  non  la  conosca  ?  che  l'abbia  dimenticata?  Aspettate  che  la  conversazione  sia  piena,  ed  ella  verrà,  per  così  dire,  a  prendervi  per  la  mano  e  vi  presenterà  agli  sguardi  di  tutti  in  mezzo  ai  raggi  della  vostra  gloria. Parecchi  scrittori  che  frequentarono  i  bordelli,  hanno  fatto  la  satira  del  bel  sesso  :  essi  avevano    Nel  testo  ho  abbozzato  con  lievi  tinte  il  carattere  d'una  signora,  la  cui  amara  perdita  lasciò  profonda  sensazione  nelr  animo  di  quelli  che  ne  ammirarono  le  virù  :  parlo  della  signora Marianna  Morigi  Réina.    ragione  :  il  primo  dovere  d' un  viaggiatore  si  è  d' essere  esatto.  A. chi  ha  conosciuta  deile  dooae  che  il  flore  delia  gentilezza  uDivana  aHe  fià- amabili virtù,  iocumbe  l'obbligo  d'esattew  eguale.   IL  Mostrare  che  degli  altrui  discorsi  nóu  f«t»  dete  una  parola,  e  che  le  affezioni  risentite  che  il  parlante  tende  ad  eccitare,  è  dovere  si  evidente,  che.  d' ulteriori  schiarimenti  non  abbisogna  dopo  quanto  è  stato  detto  nel  libro  primo.  Se  npn  mostra  che  il  turbi  o  che  il  conforti  Ciò  che  sente  chi  ascolta,  non  dirai  '   f  O  ch'egli  è  sordo  o  che  poco  gt'  importi?  Con  somma  attenzìon  dunque  dovrai  Ascoltar  ehi  proponga  o  chi  risponda,,  n  Se  avrai  iuteìrrogato  o  se  il  sarai*  »  £.se  avversa  al  tuo  genio  o  pur  seconda  Sarà' la  eosa  iM^t  dèi  mei  visito. Mostrare  impressione  aspra  o  glo<M)ndd. Conviene  assistere  ai  discorso  di  chi  parla  come  si  assiste  In  teatro  ad  una  seeua  nuova;   n  E  però  sii  disposto  ad  ascoltarlo  »  Come  di  tutto  ignorante  tu  fossi,   »  E  n^suoi  vari!  sensi  a  seguitarlo.  È  quindi  grave  inurbanità,  allón^è  qualcuno  parla,  trastullarsi  ooHentaglio,  col  cane,  coi  guanti,  colla  td^oduera,  eoi  cappello,  ovvero  Volgere  qua  ^.    il  capo,  e  far  gesti  con  questo  e  sorridere  a  qucHo,  ioBomma  mostrare  un'  aria  di  volto  che,  alla  sensazione  comune  eccitata  dai  dkeeni.  del  pariante  non  eorri^poada.  In  forza  di  queste  distrazioni,  quando  il  discorsa  è  innoltrato  e  diviene  interessante,  siamo  costrettJ  ^  a  confessare  che  ce  ne  sfuggì  il  filo,  e  con  altrui  .  noia  preghiamo  chi  parla  a  rannodarlo  nella  nostra  mente. Egle  distratta  intanto Torna,  disse,  a  ridir,  ch'io  nulla  intesi. L'altrui  distrazione,  oltre  d'essere  un  affronto  .  a  chi  parla,  giunge  a  turbare  le  di  lui  idee,  mentre  all'opposto  l'altrui  attenzione  le  raccoglie. E  se  ascoltando  astratto  o  per  stanchezza  «  Volgi  l'occhio,  si  ferma  chi  favella;  »  Ma  guardalo,  e  il  discorso  raccapezza. La  distrazione  poi  è  dannosa  a  noi  stessi  in  tre  modi  nella  CONVERSAZIONE  A,<vr  riv  i/,   1'.  Ci  fa  ripetei^e  le  stesse  dbnande ^prova  labilità  di  memoria,   Una  principessa  volendo  dire  qualche  cosa  graziosa ad  una  giovine  dama,  le  dimandò  quanti  figli  aveva. ‘Tre,’ rispose  la  dama.  Un  quarto  d'ora  dopo,  la  principessa,  la  cui  attenzione  era  straniera a  questo  trattenimento,  dimanda DI NUOVO  alla  dama  quanti  figli  aveva. Siccome non ho partorito dopo la prima dimanda che aveste la bontà di farmi,” replica la dama, “così i miei figli restano tuttora tre.” Ci fa commettere sbagli e contrassensi che ci rendono ridicoli. Un  negoziante  cui  fu  esibito  da  sottoscrivere   l'estratto  battesimale  d'uno  de'suoi  figliuoli,  scrive  :  Pietro   6  compagni.  Egli  non  s'accorse  della sua  stoltezza  se  non  se  dopo  la  risata  generale  che  eccita.  Ci  fa  si^elare  i  sentimenti  del  nostro  animo  contro  nostra  voglia.  . Una  dama  alla  presenza  di  suo  marito  parla  della  destrezza, di  cui  si  era  servito  un  galante  per  introdursi  nella  casa  d'una  signora  ch'egli  ama,  in  assenza  di  suo  marito.  Ma  nel  mentre,  dice  ella,  se  la  intendeno  tra  di  loro,  eccoti  il  marito  che  batte  alla  porta. Ora  immaginatevi l’imbarazzo in  cui allora io mi  trovai. La verità  sfuggita alla moglie pose il  marito in altro imbarazzo maggiore. Sogliono  essere  causa  di  distrazione. La  noia  prodotta  da  discorso  poco  interessante o  già  notoy  e  il  poco  concetto  che  si  ha  di  chi  parla. Quindi  dell'altrui  distrazione,  siamo  non di  rado cagione  noi  stessi. L’abituale  irriflessione  che  lascia  errare  sbrigliatamente  la  fantasia  senza  riguardo  alla  realtà  delle  cose  da  cui  siamo  circondati. La  voglia  di  rispondere  per  vanità  od  altr,  simile  sentimento.  Allorché  qualcuno  parla,  alcuni  concentrano  il  pensiero  sopra  ciò  che  devono  rispondere. Tutto  occupati  nella  risposta,  non  resta  loro  alcun  grado  d'attenzione  per  ciò  che  ascoltano. Temendo  che  sfugga  loro  l'idea  che  vogliono  esporvì,  il  loro  spirito  s’occupa  a  conservarla,  e  ad  impedire  che  altre  al  di  lei  posto  sottentrino.  L'astratto  è  una  testa  debole  che si lascia  predominare dalle idee che gli vanno per la fantasia, o un  uomo  vano  che  si  finge  occupato  in  grandi  pensieri. In  atto  Di  pensator  profondo,  altero  sembra   Quasi  seder  della  ragion  sul  trono,   E  il  semi-chiuso  ciglio  abbassa  appena  .ijfiltSul  non  pensante  vegetabil  volgo. Pretendere  di  mostrarsi  filosofi  mostrandosi  stratti  e  sgarbati,  è  pretendere  di  mostrar  ricchezze  con  un  tabarro  rattoppato.  Chi  alla coltura delle scienze  accoppia  gentil  costume,    segno di  forza  d'animo  come  due. Chi  alla  coltura  delle  scienze  rozzo  costume  unisce,  dimostra  forza  d'animo  come  uno:  poiché  se  la  rozzezza  è  naturale,  la  gentilezza  è  figlia  dell'educazione;  dunque,  rigorosamente  parlando,  in  vece  d'innalzarsi,  l'astratto  si  degrada,  giacché  la  sua  condotta  prova  o  può  provare ch'egli  basta  a  coltivare  le  scienze, non  basta  a  coltivare  le  scienze  e    stesso.  Si  possono  dunque coltivare  le  scienze  senza  essere  villano. Le scienze vogliono che dalla  solitudine passiamo alla società,  più amabili,  perchè vogliono de' seguaci^'  non  degli  stupidi  ammiratori  o  de' nemici. È  quasi  straniera  sulla  fronte  dell'  uomo  buono  la  severità,  mentre  non  di  rado  comparisce  sul  suo  labbro  un  dignitoso  e  piacevole  sorriso,  f.^^   L'uomo  buono  non  s'offende  d'uno  sgarbo,  non  fa  rumore  per  un'altrui  svista;  dissimula  le  mancanze d'ossequio  e  di  rispetto  che  a  prava  inten'  zione  non  si  possono  attribuire.   Non  isdegna  d'occuparsi  di  cose  frivole,  se  piacevoli agli  altri:  e  nelle  partite  di  piacere  più  l'altrui genio  consulta  che  il  proprio.    iìlLìmaii   Di  contrasti  ignara. Condiscendenza  che  alle  propri  voglie  Cede  coàì,  che  delle  altrui  s'indonna.»,  ^   liwiisilegoa  di  prestare  orecchio  agli  imbecilli  che  non  gli  dicono  BuUa,  e  Ji  toUwa,  lofitaoissiuKi   4  Gli  altrui  detti  e  qualche  »  Sbaglio  sfuggito  e  naturai  difetto   AiranouDcfo  d' un  vizio  egli  inc^inà  a  porlo  in,  dubbio;  e  se  il  vizio  è  certo,  ricorda  il  pentimento  «^he  potrà  cancellarlo.  Quindi  egli  prende  spesso  taliKesa  degli  assenti,  e  conchiude,  quando  può,  Hi  modo  analogo  a  quello  che  usò  Boiingroke^  aiJorchè  intése  a  laccfriiré  la  riputsbsions  éi  Maftou-,  Tough  :  Egli  ayeva  .tante  virtù,  che  ho  dimenticato  I  suo»  mi.    t  .Egli  scusa  gli  altrui  difetti  anche  a  spese  della   P.erità  allorché  non  ne  viene  danno  ad  altri  ^1).    (I)  IMusladin  Saadì  nel  suo  Mosarium  poUticwm  riferisce  «che  un  cèrto  re  condannò  a  morte  naa  de*  tuoi  sehiavi,  e  ^lie  quesU}  non  vedendk»  speranza  ^  grazia,  ^ede  sfogo  al  .  suo  dolore  con  nalèdieloini  e  ìmpreeaslofxl  d'ogni  genere  'contro  il  re.  Questi  non  intendendo  ciò  che  diceva  lo  schiavo,  \  ne  chiese  la  spiegazione  ad  uno  de'  suoi  cortigiani  :  il  corti .  ji^iono,  il  quale,  per  rara  sorte  aveva  il  cuor  buonore  desi^   derava  salvare  la  vita  al  colpevolé^  riiposè:  fflgilore,  questo  povero  diavolo  dfeè,  che  U  parafo  srta  preparato  perqueUi   (  c:{]c  moderano  la  loro  collpra,  e  che  perdonano  i  difetti  \  ed ;,   Egli  è il  primo  a  sottoscriversi  ad  un  progetto  di  beDeficeneà;  non  è  loataiio  dall'  imj^rtunare  per  ottenere un  beneficio  a  vantaggio  di  'qoalchè   bisognoso.; Egli  ha  la  delicatezfsa  dare  ad  un  brae&iio  l  apparenza  d\un  obbligo,  e  conta  pel  massinno  ptqioere  il  piacer  di  beD6fic9re  (1).  È  inotile  rag  iH  quésto  tfodo  egli  Implora  la  tostrà  d^iDenza.  AUora  ir  '  re  perdond  éló  woìàmo,  e  gU  aiscordà  dinuovi»  A  sua  gmìi.   Cn  altro  cortigiano  iniquo  per  carattere,  facendo  rlmpro'  veri  al  primo,  gli  disse  che  non  cpnveniva  ad  un  uomo  del,8U0  «Ugo  il  mentire  alla  presenza:  del  re;  quindi  rivoltosi  al,  principe,  te  vi  svelerò  la  verità,  gli  disse  :  i^ppiale  che  lo  «eMavo  fak  proferito  gouIbo  di  véf  1^  pUi;  «BecraUMi/in^  "  rioni,  e  questo  signore  vi  vende  una  merizegna.    M  re,  offeso  da  questa  graluila  e  inopportuna  malvagìtìu           può  ben  essere^  replicò;  Kta  la  menzlogna  che  voi  gU  r  ^cimbroverate,      eliè  la  vostra  ^^ìk  è  pregevole;  giac1»  cbè  con  questo  mé^  egli  procacciò  dfc>a)vare  la  vitàad  «  un  uomo,  mèùtre  voi  tentale  di  togliergliela  :  ignorate  vo^  »  questa  MASSIMA?  La  menzogna  die  frutta  un  bene,  vale  »  più  della  verità  che  produce  un  danno. Turenne  avendo  veduto  nella  sua  armala  un  olBciale  imesto  ma  povero,  fornito. di  cattivo  cavallo,  lo  invitta  pranzo,  e  dopo  pranzo  gii  disse  in  disparte  con  speciale  bontà  d'animo:  io  devo  farvi  una  preghiera  che  forse  voi  troverete  un  poco  ardila;  ma  spero  che  non  vorrete  ricali lìtillà  alvostro  generale,  lo  sono  vecchio  ed  anemie  malaticcio }  i  cavalli  Uroppo  vivaci  mi  ca^^ianano  disagio  e  pena;  voi  ne  avete'  uno  sol  quale  starei  còmodissimo.  Se  non  temessi di  domandarvi  un  sacrifizio  troppo  grande,  vi  pregherei di  cedermelo.    L'  officiale  non  rispose  che  con  profonda.  riverenza,  andò  ^  pifendero  il  suo  .cavallo  e  lo  condusse  nella  «cudfHriA  di  Turenne.  ^  Questo  generali^  gii  spedì  il  giorno  appresso uno  de*  più  belli  e  migliori  cavalli  dell*  acq^ta.  gfO^re  ch'egei  si  astiene  dalle  commi  ^UHaipai  a  iBer  di  labbro^  no»  aeeompagnaté  èA  desiéeria   d'eseguire^  e  che  si  debbono  chiamai'e  r   «  YeiMi  iógafinì  in  mmzognere  offerte,  r   fissare  sei^ro  co'  suoi  simili  è  dtmenticare  di   quante  qualità  siamo  sprovvisti,  da  quanti  difetti  funifflio  lur^ervati  dai  solo  azzardo,  quanti  oggetti,  qpante  circostanze  sulle  debolezze  degli  uomini  influiscano. Ma  per  e^eré  buono  non  siate  imprudente  }  e  ricordatevi  che  la  bontà  inclina  naturalmente  a  giudicare gli  uomini  no  quali  som  ma  quali  dovrebbero  essere;  la  quale  illusione  se  riesce.pia^  cevole,  perchè  ci  libera  dalle  spine  della  difliden^a,  spesso  di  molti,  e  gravi  sbagli  è  fonte.   §  8.  Modestia^.   Per  Qiodéscià  inteiAlesi  quella,  virtù,  die  si  astiene  dal  prevalersi  de'  proprii  talenti  e  della  prò*  pria  abilità  In  modo  spiacevole  a^  j^uèlli  con  cui  viviamo.   Ella  è  veramente  una  virtù  ^  gi^hè  riesce  a  reprimere  la  nittùrale  tendenza  che  spinge  ciascuno  ad  esagerare  i  proprii  pregi  e  farli  sentire  agli  altri.   ^  Io  non  credo  ch'uom  sia  sotto  la  luna,    Ch'il  suo  ingegno  cambi^^e  con  PLATONE,  »  Quantui^ue  egli  non  skppia  cosa  aìcuna.  Perche  a  ciascun  par  esser  Salomone,,  »  £  ui  essenza^si  giudica  da  tanto  «  Che  meriti  ogni  onor  da  le  persone.     Quindi  Timmodestia  cresce  in  ragione  dell'ign^^  .  ranza,  o  per  dir  meglio  del  falso  sapere;  perciò     Digi vi,'   la  Bruyère  dice  :  //  vanaglorlosOy  misto  di  sciocco  e  di  petulante^  sta  tra  questi  due  estremi.   Un  giudizio  troppo  favorevole  di  noi  stessi  offende i  nostri  simili,  ì  quali,  volendo  giudicare  liberamente  le  nostre  azioni,  veggono  con  dispiacere che  si  assegni  a  se  stesso  nella  loro  opinione  un  rango  o  delle  ricompense  che  essi  non  ci  assegnarono.   L'uomo  modesto  somiglia  a  que' fiori  che  umili  steli  tolgono  all'altrui  vista,  e  che  solo  il  loro  profumo fa  conoscere.   La  modestia    ai  talenti,  alle  virtù,  alle  abilità quell'incanto  che  il  pudore  aggiunge  alla  bellezza.  '   «  Ippolito,  che  sài  più  in    A\  tanti  Fra  lor  che  sanno,  e  di  saper  dan  mostra,  Mentre  a  te  ignaro  de'  tuoi  proprii  vanti. Schietto  pudor  Tonesta  guancfa  inostra.  »  «  LaseianK),  dice  GOZZI,  il  commendarsi  da  se  medesimi  a  coloro  i  quali,  temendo  di    e  delle  y>  opere  loro,  tentano  di  sostenerle  coi  puntelli,  »  come  gli  edifizi  vecchi  e  cadenti.  Non  sia  disgiunta  da  noi  giammai  queir  onorata  modestia  »  che  è  condimento  e  grazia  di  tutte  le  virtù,  e  ^>  le  rende  più  care  e  pregiate.  Qual  baldanza,  vi    L’umiltà,  differente dalla modestia,  è  una  qualità  cha  brama  mostrarsi  agli  occtii  altrui,  perchè,  mostrandosi,  In  vece  d' offendere  la  loro  vanità,  X  adesca  \  ella  suppone  per  lo  più  in  quelli  che  la  ostentano,  un  sentimento  segreto  d'amor  proprio  od  anche  d'orgoglio  ch'ella  si  sforza  di  reprmiere,  desiderando  che  le  si  sappia  grado  della  sua  vittoria.    prego,  sarebbe  la  nostra  se  volessimo  privar  le  »  genti  della  facoltà  di  dare  il  proprio  giudizio  »  sopra  di  noi  ?  Perchè  vorremo  noi  essere  niae-^  »  stri  a  tutti  coloro  i  quali  ci  ascoltano,  e  coniandare  ad  ognuno  che  a  nostro  modo  favelli  ?  E   se  per  avventura  V  intendessero  altrimenti  da  »  quello  che  andiamo  noi  vociferando  di  noi  me»  desimi,  che  sarebbe  allora  ?  Le  nostre  voci  si  »  rimarrebbero  offuscate  nelP  immensa  furia  delle  »  contrarie,  e  noi  verremmo  giudicati  senza  cervello.  Quanto  è  a  me,  così  penso  e  tengo  per  »  fermo,  che  farà  sempre  inutile  opera  colui  il  »  quale  a  dispetto  di  mare  e  di  vento  vorrà  essere  »  d'assai  con  la  sola  forza  delle  sue  ciance.  »  r  Giusta  gli  esposti  principii,  l'uso  ha  introdotto  nel  conversare  socievole  certi  modi  di  dire  che,  lungi  dal  dare  segno  di  confidenza  eccessiva  nel  nostro  giudizio,  lasciano  scorgere  dubbio  e  diflldenzà.  Franklin  ci  dice  che  conservò  T  abitudine  di  non  impiegare  giammai  nelle  quistioni  controverse le  parole  certamente,  sicuramente^  indubitatamente^ od  altre  simili  che  il  dimostrassero  irremovibile nella  sua  opinione.  Io  diceva  piuttosto,  egli  soggiunge  i  fo  credo^  io  suppongOy  a  me  pare  che  la  cosa  sia  così,  per  tate  a  tale  ragione:  ovvero la  cosa  è  così,  se  non  m'inganno.  Prima  di  Franklin,  aveva  detto  Monsignor  Della  Casa  :  «  Bisogna  che  tu  ti  avvezzi  ad  usare  le  parole  gentili  e  rao  »  deste,  e  dolci  sì,  che  ninno  amaro  sapore  abbiano*  e  in»  nanzi  dirai  :  Io  non  seppi  dire,  che  Voi  non  m' intendete,    e  Pensiamo  un  poco,  se  così  è,  come  noi  diciamo;  pint:  »  tosto  che  dire:  Voi  errate,  o  E' non  vero,  o  Voi  non  la Poiché  gli  scopi  della  conversazione  sono  d'iVr^struirsi  o  d'istruire  gli  altri,  di  piacere  o  di  per»  siiadere,  è  cosa  desiderabile  che  gli  uomini  in-»  telligenti  e  ben  intenzionati  non  diminuiscano  n^vjl  potere  che  hanno  d'essere  utili,  affettando  »  d'esprimersi  in  modo  positivo'^  presuntuoso  che  »  vi|i9n  lascia  di  spiacere  a  quelli  che  ascoltano,, e  »  non  è  proprio  che  ad  eccitare  delle  opposizioni'  »  e  prevenire  gli  effetti  pe' quali  fu  concesso  al . uomo  Jl.s dono  della  favella/,  «tr   r  «  Se  volete  istruire,  ricordatevi  che  un  tono  af^, fejrmativo ^fidogmatico,  proponendo  la  vostra  -Ili  sapete;  perciocché  cortese  é  amabile  usanza  è  lo  Incolpare   M  altrui,  eziandio  in  quello  che    intendi  d'incolpaclo;^  anzi<^   »  si  dee  far  comune  Terrore  proprio  dell' amico, prenderne prima una  parte  per sè,  e  poi  biasimarlo  e  ripren i>  derlo. Noi  errammo  la  via  :  e  Noi  non  ci .  ricordammo   À  ieri  di  così  fare*  ^ome  che  lo  smemorato  sia  pur  colui   A  solo  e  non  tu  :  e  quello  che  Restatone  disse  ai  suoi  com »  pagni  non  istette  bene:  «  Foij  se  le  vostre  parole  moìi  men'   M  lono  n;  perché  non  si  deve  recare  ili  dubbio  la  fede  al »>  tmi:  anzi,  se  alcuno  U  promise  alcuna  cosa/e  non  tela   »  attende,  non  istà  bene  che  tu  dica:  Voi  mi  mancaste  della   •)  vostra  fede;  salvo  se  tu  non  fossi  costretto  da  alcuna  necessiti,  p«r  salvezza  del  tuo  onore,  a  così  dire  :  ma  se   n  egli  ti  avrà  ingannato,  dirai  :  Voi  non  vi  ricordaste  di  così  fare  :  e  se  egli  non  se  ne  ricordò,  dirai  piuttosto  :  Voi  non   »  poteste;  o  Non  vi  ritornò  a  mente;  che  Voi  dimenUcastc,   »  o  Voi  non  vi  curaste  d'attenermi  la  promessa:  perciocché   »  queste    fatte  parole  hanno  alcuna  puntura  e  alcun  ve »  neno  di  doglianza  e  di  villania;  sicché  coloro  che  costu »  mano  di  spesse  volte  dire  colali  motU,  sono  ripulaU  per »  sone  aspre  e  ruvide;  e  cosi  é  fuggito  il  loro  consorzio   M  conie  si  fugge  di  rimescolarsi  Ira'  pruni  e  tra'  triboli.   S6ft   »  proposizione  ^  è  sempre  causa  per  cui  si  cerca  di  eontraddìpvi'^  e  p«r  non  si^  aicoltato    con  attenzione.  Da  un  altro  Iato  se,  desiderando  »  d'essere  istruito,  e  di  profittare  delle  coignizteiii  »  «degli  altri  ^  toì  ti  esprimete  eooie  pensona  for<)>  temente  ostinata  nei  suo  modo  di  pensare,  gli  9  MouNAt  modesti  e  sensibiii  che  nm  amane  la  H  disputa,  vi  lasceranno  tranquillamente  in  pos»  sesso  de' vostri  errori.  Seguenda  un  metodo  or-»  y>  goglioso,  raire  volt»  potete  speme,  di  piaeefs  af  »  vostri  uditori,  di  conciliarvi  la  loro  benevolenza,  »  e  di  convincer  quelli  cui  voi  eravate  vago  di  £a9  »  aggradire  i  vostri  pensieri  La  ragione  non  lia  giammai  maggiore  impero  che  quaodo  alla  si  presenta  non  come  una  legge  che  si  deve  seguire,  ma  come  un'opinione  che  può  meritare  d'essere  esaminata;  perciò  ne'  crocchi  di  Filadelfia  pagavasi  un'ammenda  tutte  le  volte  die  facciasi  uso  d'un'  espressione  decisiva.e  dogmatica.  Gli  liQmini  piià  intrepidi'  nella  loro  c^rtsasa  4^rano  obbligati  d'impiegare  le  formole  del  dubbio,  e  prendere nel  loro  linguaggio  l'abitudine  della  modestia^  la  quale,  quand'anclie  s*|uerestasse  alle  sete  parole,  L*  abate  Polignae  sapava  presedtave  le  ime  Idee  i^a   aria    modesta  e  gentile,  clieil  Pontefice  Alessandro  VIU  gli  diceva:  Voi  sembrate  sempre  essere  del  mio  parerei  ma  alla  line  de'  conti  é  sempre  il  vostro  che  prevale.   Luigi  XIV,  dopo  d*avere  ascoltato  U  suddetto  abate  sulla  ìiegoziazkme  Intrapresa  à  Boma  per  le  celebri  proposiztoid  idei  clero  Oallleano,  disse  :  R!l  sono  Inlratlenuto  con  un  nomo,  e  glovìre  uomo,  U  quale  mi  ha  sempre  controddetUi  c  mi  e  smifte  piaciuto,  /   ai*  uno  xiMa    ^  *   avrebbe  già  il  vantaggio  di  non  offendere  1'  altrui  amor  proj^io,  ma  che^  per  rinfluenza  delle  i^aaroie  MHe  idee  y  ém  fiiialMefite  etftfindent  4mU6  fltetse  opkìioai..Ii6  pmone  gemili  sapendo  die  ralttni  wiità   soffre  allorché  si  vede  convinta,  sogliono  terminare  la  contesa  con  una  lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo  icrtet»  dall'oppoeisimd,  eh0  Ellero offendere  il  loro  antagoniata,.  che  non  si,  vantano 4Mla  vktona».C&a^imazi(me  dello  stésso  argomento.  Siccome  T  ombra  sola  della  pretensione  offende  Faltmi  amor  proprio,  perciò  i  titoli  di  vano,  suIUrbò,  anrogantef  tallita  si  regalane  a  tollo^  a  torto  si  dichiarano  offensive  le  giuste  ragioni  con  cai  l'Qinocenza  e  il  nierito  rivendicano  i  loro. diritti.  Costretto  non  di  rado  Tuomo  grande  ad  imporre  silenzio  air  orgoglio  soperchialore,  £a  conoscere    di* egli  è,  sbalza  nella  tua  possa  e  torreggia  dinanzi  alla  mediocrità  impertinente  che  vorrebbe  avvilirlo.   a  Di  modestia  »  Tempo  or  non  è,  voce  d*oner  n'appella.  »   Infatti  la  vera  modestia  è  eome  la  vera  bravura,   ÌJ  quale  non  oltraggia  giammai,  ma  sa  rispingere  gli  oltraggi  y  fuorché  quelli  che.  li  fa  non  sia  vile  à  segno  da  non  meritare  che  disprezzo.  Chi  avrebbe  potuto  tacciare  d'arroganza  Cicerone,  allorché,  totnato  dall'esilio,  pregiavasi  d'avere  salvato  gli  Dei  del  Campidoglio,  il  Senato  dalla  vendetta  di  CATILINA,  il  popolo  dal  giogo  e  dalla  schiavitù  ?  Non    era  egli  giusto  che  mostrasse  a'suoi  nemici  il  suo  Dome  cancellato,  i  suoi,  monumenti  distrutti,  la,  sua  casa  demolita,  e  c6l  peso  della  sua  gloria  gli  opprimesse?  I^aseiando  da.  banda  il  caso  assai  rara  di CICERONE  Cice«ronC)  e  consultando  la  giornaliera  esperienza,  vedremo  che  ì^Uoìtdi..  l'esternare  giusto  sprezzo  per  gUr  aUH  e  giusta  sHtim  pctsé^  è  gittstij^ato,  ^alr altrui insolenza. Gbe  cesa  dite  di  quelH  ohe  scrivono  la  propria  vita? Il  severo  Tacito  non  ha  osato  fare  rimprovero  a  parecchi'  famosi  ingegni  dell'  antichità,  che  le  loro  gesta  pubblicarono,  non  per  ostentazione  e    Un  prelato  cortigiano,  il  cui  merito  consisteva  ne'suoi  avi,  ccedevasi  disonorato  vedendo  in  Flechier  un  confratello,  che  Dio  aveva  fatto  eIoqu$inte,  caritatevole,  virtuoso,  ma  non  gentiluomo  :  egli  era  ^sorpreso  che  Fléchier  fosse  passato  dalla  bottega  de*  snoi  paventi  affa  ^e  tescovfle,  ed  èMie  r  impertinenza  di  dirglielo  :  Con  questo  modo  di  jwmare^  rispose il  vescovo  di  Nìmes,  temo  assai  che  se  voi  foste  nolo  f  ai  posto  m  cui  io  aono^  rum  ne  feski  disceso  far  delle  eandéU»   Anche  H  «lareseiallò  de  la  Feuììtàde,  tanto  più  soper cliialore  con  quelli  che  credeva  inferiori  a  sè,  quanto  più  era  vile  alla  Corte,  disse  al  sullodato  Flechier,  eh'  egli  non'  era  a'  suoi  ocelli  che  un  meschino  borgliigilino  di  Nimes,  e  SQg^nset  Gmmdt»  ehs  vostro  padre  sarebbe  6m  sér^  preso  nei  vedérvi    che  voi  siete.  Forse  men  sorpreso  che  non  vi  sembra^  rispose  il  prelato,  giacché  non  il  figlio  di  mio  padre^  ma  io^  fui  fatto  vescovo.    Il  diritto  di  difesa  giustificava  questa  risposta; poiché  l'  alta  opinione  che  U  buon  vescovo  mctetiava  di  sè,  oltre  d' essere  fondata  sul  veiO}  ten«  deva  a  reprimere  un  ioigjusto  8pcegio« arroganza ma  p«r  quella  tonfideasa  the  .la  'pvobità  inspira. Alfieri  che  ci  ha  lasciato. la  sua  vita confessa candidamente  che  il  parlare  e  molto  più  lo  scrivere  ^.^i  se  sl^esso  nasce  da  molto  amor,  di se stessa.  '^ìkipo  questa  ingenua  confessione  rautece  giustifica  *  la  sua  condotta  nel  modo  seguènte:  '^-Avendo  ia  oramai  scritto  naolto,  e  troppo  pià   forse  che  non  avrei  dovuto  ^  è  cosa  assai  nàturate  che  alcuni  di  quei  pochi  a  chi  non  saranno  dispiaciute  le  mie  Opere  (  ée  non  tra'  miei  con^,  »  temporanei,  tra  quelli  almeno  che  vivran  dopo  ),   avranno  qualche  curiosità  di  sapere  qlial  i<^  mi  »  fossi.  Io  ben  posso  ciò  credere,  senza  neppor  »  troppo  lusingarmi,  poiché  di  ogni  altro  autore    andie  minimo  quanto  ad  valore,  ma  voluofiinoso    quanto  alle  opere,  si  vede  ogni  giorno  e  serin  ver^^e  leggere^  q  vendere  almeno  la  vita.  Ondo^  quand'anche  nessun' altra  ragione  Vf  fosse ^ è  )».jQ^^pur  sempre  che,  morto  io,  un  qualche  »  lyÉsJo  peir  càyaore  alcuni  più  soidi  da  una  nuova  edizione  delie  mie  opere,  ci  farà  premettere  una  »  qualunque  mia  vita»  £  quella  verrà  verisimil<*  »  mente  scritta  da  uno  che  non  mi  aveva  o  niente  »  0  mal  conosciuto,  che  avrà  radunato  le  materie  »  di  essa  da  fonti  o  dubbi  o  parziali;  onde  codesta  vita  per  certo  verrà  ad  essere,  se  non  »  altro,  alquanto  meno  verace  di  quella  che  possa  dare  io  «team;  E  ciò  tanto  più,  perchè  lo  scrit«  »  t<(^  a  soldo  dell'editore  suol  sempre  fare  uno  »|,smto  panegirico  dell'autore  che  si  ristampa^  sti^  »  mando  amendue  di  dare  così  pià  ampio  snriercio  »  alla  loro  comune  m^canzia.; L'illustre  Alfieri  adunque,  a  ragione  persuaso  che  il  suo  iiome  sarebbe  grande  ^ucbè  restasse  scintilla  di;gusto  sul  nostro  globo  ^  scrisse  la  sua  vita,  acciò  Aa  stolta  e  mercantile  adulazione  non  venisse  presantata  ai  postai  sotto  falso  aspato.  '   Questa  difesa  è  modesta  nel  tempo  stesso  e  sa«  gace.  L' auto  re  avrebbe  dovuto  aggiungere  «  che  anche  lo  spirit  o  psfrtitp  s'accinge  spesso  a  scrivere delle  vite  o  de'romanzi,  e  di  censure  è  largo  o  di  lodi  ugualmente  contrarie  al  vero. Ossian,  dice  Cesarotti,  non  ha  difBcoItà  di  far  Assentire  la  goista  estimazione  ch'ei  possedeva  V  presso  la  sua  nazione.  L'uomo  grande  è  sincero;  »  parla  di  se  stesso  come  degli  altri,  ed  è  giusto    Ugualmente  con  tutti.  La  decenza  moderna  è   È  compftrsaìn  Franeia  ima  cosi  delU  SiUtoteca  de gli  uomini  viventi  ecc.  GU  ignoti  autori  di  questa  miserabile rapsodìa  mettono  i  vivi  nel  sepolcro,  contaoo  i  morti  tra  i  vivi,  di  più  individui  ne  fanno  un  solo,  squartano  un  Individuo  10  tre,  C8nd>iano  U  medica  in  «rrocato^  lo  stampatore in  consigliere,  ll^canieiioe  in  arlecchino:  raccontano  fatti  che  l' opinione  locale  smentisce,  citano  libri  di  cui  non  conoscono  il  frontispizio,  alterano  le  date  per  creare  odiosità od  affezione,  censurano  quelli  che  non  li  pagano,  vendono le  lodi  a  tre  centesimi  per  jMigina,  gindicano  ^  af-*  lui  coir  acume  della  stupidezza,  parlano  degH  uomini  come  ne  parlerebbe  un  Ourangoulangh,  ecc.  ecc.  :  speculazione  libraria che    dà,  ne  toglie  riputazione,  perchè  nissuno  guarentisce nè  i  fatti,    i  giudizii,  ma  che  può  far  ridere  sinceramente le  persóne  di  éenno,  giacché  le  persone  di  senno  hanno  diritto  di  ridere,  quando  veggono  lin'  impòsta  «icfAi  credulità^  sidV invidia  e  tuUo  $pitii0  di  fmrUio  ^  affezioni  tanto  più  pronte  a  pagare  quanto  più. goffe  son  le  menzogne  die  lor  $i  vendono»   molto  schizzinosa  su  questo  punto:  gli  uomini,  »  non  osando  lodarsi  in  pubblico,  si  adulano  più  »  liberamente  in  segreto,  e    credono  in  diritto  »  di  risarcirsi  della  loro  Onta  modestia  col  detrarre'  »  alla  fama  degli  altri.  Così  non  abbiamo  guada-*  »  gnato  che  virtù  apparenti  e  vizi  reali.  »   Eccettuati  i  casi  di  difesa  accennati  di  sopra,'  a  me  pare  che  il  giudizio  di  Cesarotti  dia  in  falso;  giacché  chi  vanta  i  proprii  meriti,  in  vece  di  far^  parlare  gli  altri  a  suo  favore,  li  fa  tacere;  In  vece  di  farsi  degli  ammiratori,  si  fa  de'nemici;  quindi  il  dignitoso  silenzio  della  modestia  sarà  sempre  preferibile: II  merito  più  grande  è  il  più  modesto. Se  facesse  d'uopo  confermare  questa  idea  popolare  con  autorità,  sceglierei  tra  gli  antichi CATONE,  il  quale,  a  detta  di  SALLUSTIO,  faceva  grandi  cose  senza  menarne  rumore,  e  avrebbe  potuto  dire  :   a  Cedo  a  tutti  in  parole,  a  nullo  in  fatti.  Tra  i  moderni  v'  additerei  il  poeta  Despréaux,  il  quale,  eccitato  da  un  incisore  a  far  qualche  verso  pel  suo  ritratto  :  Io  non  sono    malaccorto,  rispose,  da  dir  bene  di  me,      stolto  da  dirne  male.   §  6.  Rispetto  ai  pregiudizi.   I  giovani  non  conoscendo  ancora  per  esperienza  quante  passioni  vegliano  alla  conservazione  degli  errori,  ignorando  che  tra  gli  errori  v'  è  una  fortissima lega,  e  tale  che  scotendone  uno,  gli  altri  si  risentono  e  CQjrrono  in  difesa:  i  giovani,  dissi,   si  danno  a  credere  che  ogni  verità  potssa  essere,  sRa- presenza  di  chiunque  proclamata,  e  fanno  le  maraviglie  se  più  ostacoli  le  si  oppongono.  Come  inafi  ha  (iNDlnto  il  sensate  Bandi  riguardare  il  rispetto  ai  pregiudizi  come  un  legame  inventato  dai  eapriccio  e  dalla  moda?  Se  qualcuno,  entrato  in  una  moschea  zeppa  di  adoratori  di  Maometto,  grl-> classe  ad  altissinia  voce  che  Maometto  era  un  impostorcr  credete  voi.  che  farebbe  HK>lti  proseliti,  e  che  non  verreUe  in  pezzi  dagli  astanti?  Ma  senza  anco  voler  calcolare  i  danni  cui  si  espone  ehi  spaccia  una  verità  imprudente,  fa  d'uopo  con-f  venire  che,  offendendo  i  pregiudizi  contrarii,  non  le  rende  più  agevole  la  strada^  ma  più  scabrosa.  Ella  è  infatti  cosa  difficilissima  il  convincere  un'  uomo  dopo  che  abbiamo  offeso  ilsuo  an^or  proprio,  '  Se  il -sole,  dice  d'Alembert,  ^lene  ad  illuminare  in  un  istante  gli  abitanti  d'una  caverna  oscura,  e  dardeggia  impetuosamente  i  suoi  raggi  &m  loro  occhi  non  anco  disposti  e  preparati,  e  quindi  gli  irrita  soverchiamente,  renderà  loro  per  sempre  odioso  lo  splendore  dei  giorno,  di  cui  non  conoscono ancora  i  vantaggi,  mentre  sentono  il  dolore  che  loro  cagiona.  Se  ai  contrario  introducesi  in  questa  inverna  un  debole  raggio  che  per  insensibili gradi  vada  crescendo,  si  riuscirà  a  dimostrare  il  pregio  della  luce,  e  gli  abitanti  stessi  ne  branieranno  l'aumento.  Per  la  medesima  ragione  conviene rattemprare  la  luce  dei  vero,  ed  aspettare  che  rintelletto  a  poco  a  poco  si  sciolga  dalle  false  idee  che  l'ingombrano,  divenga  gradatamente  più  forte.  I  s' abitui  e  s' addomestichi  cpl  nuovo  ospite  f^he  non  conosceva  per  anco. Pretendere  che  tutti  gli  intelletti  ammettano  tosto  le  stesse  verità,  è  pretendere  che  tutti  gli  stomachi  digeriscano  egualmente  le  stesse  vivande.   La  pulitezza  vi  fa  dunque  un  dovere  di  conoscere il  carattere  personale  e  la  situazione  sociale  delle  persone  che  al  solito  crocchio  concorrono,  acciò  le  vostre  idee  ed  affezioni  non  vadano  a  dar  di  cozzo  contro  quelle  degli  astanti,  e  con  reciproco risentimento  rimbalzino.   F'élo  alle  antipatie.  Lo  sprezzo  che  merita  la  vile  adulazione  ha  in-,  dotto  a  fare  distinto  elogio  della  franchezza,  e  come  virtù  assoluta  raccomandarla.   La  massima  di  velare  le  proprie  antipatie,  come  quella  di  rispettare  i  pregiudizi,  è  stata  riguardata  qual  legame  inventato  dal  capriccio  e  dalla  moda  da  più  scrittori.  Si  dice  che  dassì  prova  d'integrità  allorché  la  lingua  ed  il  cuore  essendo  d'accordo,  le  parole  rappresentano  i  sentimenti.   Ciascuno  per  altro  s'  accorge,  o  sente  almeno  confusamente,  che  se  merita  sprezzo  un  cortigiano  che  ci  protesta  stima,  affezione,  amicizia,  mentre  nell'interno  dell'  animo  egli  si  ride  di  noi,  merita  disprezzo  maggiore  un  cinico,  che  senza  necessità  viene  a  dirci:  Io  v'abbomino  e  vi  detesto. Dunque  tra  la  menzognera  adulazione  e  la  frani  chezza  eccessiva  vi  debb'essere  un  mezzo. La  necessità  di  questo  mezzo  è  dimostrata  da  tre  ragioni.   f  i.  L'amor  proprio  di  ciascuno,  costantemente  avido  di  farsi  degli  amici  e  degli  ammiratori,  agevolmente  lusingasi  di  ritrovarne  dappertutto,  e  sente  in  lui  sorgere  e  crescere  il  dispiacere  in  ragione delle  persone  da  cui  si  vede  sprezzato.   Il  dispiacere  risultante  dallo  sprezzo  è  copiosa  fonte  d'antipatie,  animosità,  odii,  e  perciò  di  gravissimi danni  sociali.-Noi  c'inganniamo  sovente  nell'opinione  che  concepiamo  degli  altri,  e  più  volte  siamo  costretti  a  ritrattarla  V  senza  riuscir  sempre  a  giudicare  più  sanamente. Laonde  quando  alcuno,  giusta  l'interno  suo  sentimento, dice  ad  un  altro,  Vi  sprezzo,  è  sempre  certo  che  gli  cagiona  un  dolore,  non  è  sempre^  certo  se  colpisce  nel  vero,  -^y,  Ora,  escluso  il  caso  di  necessità,  fa  d'uopo  essere  0  crudele  ò  pazzo  per  cagionare  ad  altri  un  dolore'  che  ppò  essere  ingiusto,  e  farci  un  nemico  che  può  riuscirci  funesto. ^i^V'-Alcuni  dicono:  Da  un  lato  v' è  sèmpre  piacére  neir  esprimere i sentimenti  quali  nascono  nel  nostro animo,  mentre  si  prova  pena  nel  reprimerli;  dall'altro  noi  non  abbiamo  bisogno  di  nessuno*f^i  Di  questo  raziocinio  la  prima  parte  è  sempre  vera,  ma  la  seconda  è  sempre  falsa,  finché  re^*  stiamo  nella  società.  Voi  non  avete  bisogno  di  Pietro,  e  forse  senza  danno  presente  o  futuro  potete dirgli  :  Ti  disprezzo;  ma  la  faccenda  non  va  così  con  tutti  gli  altri  uomini.  £ntrate  in  una  CONVERSAZIONE con  quella  franchezza  encomiata  da  alcuni  scrittori,  e  presentandovi  successivamente  a  ciascuno,  dite  a  questo  :  Voi  pretendete  di  piacere  a  tutti,  e  tutti  si  ridono  di  voi;    a  quello  :  Voi  siete    sciocco che m'eccitate compassione;    a  un  terzo  :  Non  saprei  dirvi  il  motivo,  ma  sento    ars  avversiófte  Contro  di  voi,  ecc.  Se  voi  così  operate^  'mi  par  certo  che  tutti  s'alzeranno  per  cacciarvi'   fuori  della  conversazione  a  ceffate;  e  vi  succederà  lo  stesso  in  tutte  le  altré.  ^^'o^mii  ' La  franchezza  non  consfete  nell'  offendere  inu^  tilmente  l'altrui  amor  proprio,  ma  nel  difendere  con  coraggio  i  dirìtti  deWinnanità  contro  r  orgoglio  che  li  calpesta^  e  nel  convenire  de'prqpri  difetti  ed  emendarsene.  '  •/ ^,»iliisidu6m;2  In  vece  dunque  di  dire  al  giovine  :  Alza  il  vélo  che  copre  il  tuo  animo  e  mostra  a  tutti  Podio/  lo  sprezzo,  la  noia,  il  dispiacére  che  in  te  producono le  loro  debolezze  e  i  loro  difetti;  gli  dirò  piuttosto  :;  Jpl^;  Uflf' lato  sii  pronto  a  compatire  le  loro  debolezze,  dall'altro  non  crederti  infallibile  j  ne'juoi  giudizi.  L'uomo  franco  può  conservare.  il  j  suo  sentimento  senza  offendere  l'altrui  amor  prò  =5  prio;  non  si  deve  offendere  l'altrui  amor  proprio  se  non  in  vista  d'un  vantaggio  maggiore,  come  nònr  si  taglia  una  gamba  se  non  per  salvare  la  vita.  Mi spiegherò meglio  con  un  esempio:  ^ Uno  de'confratelli  di  Guettard  lo  ringraziava  un  giorno  perchè  questi  gli  aveva  dato  il  suo  voto  4  allorché  quegli  fu  accettato  membro  dell'accadenriia  delle  scienze,  roi  non  mi  dovete  nulla,  risponde  il botanico  :  s'io  non  avessi  creduto  che  era  giusto  it  darvelo  ^  non  r  avreste  avuto  ^  giacché  io  non  v'  amo. Questa  risposta,  benché  lodata  da  Condorcet  mi  sembra  riprensibile,  perchè  gratuitamente  offensiva.  Per  quale  motivo  cagionare  un  disgusto  e  dire,  non  v'amo^  a  chi  viene  a  protestarvi  un  sentimento  di  riconoscenza.^  Se  Guettard. avesse,SW'   d(^V  Nèl^ire  tt  'mi§^i^  te  eoasultù  te  giùsUzìa  e  niente  altro;  non  ringraziate  ddnqiié  me^.  ina  voi  stessè,  giicebè  se  nra  avessi  creduto  cto  lo  meritaste^  ndw  ?ir«fcMè  »v«to;<catìh  riq^^mileaddi^  Gtiettard  sarebbe  stato^^  franco  senza  essere  offeasiw  é  «liand.  L'abAté  S.  ae«l  (Aragofift*  la  indotta  4egH4t9^   mini  nel  mondo  a  quella  de' ciechi  in  uiìà  casa*  vàs|sì  è  ^nregoiare  :  rj^^iH^^  I  più  sensati  a  tentone. Quelita  irregolarità  di  condotta  non  succede  per   Tapplicarle.  Non  uscendo  dai  limiti  deirargomento  che jdiscitto^  dirò  aduncfue,  che  in  mezzo  a  tanti  earattefi  diversi,  tr«*te-vtóc  pMftéser^Ue  ^pasaitini^*  neK'aod^giQjnento  costante  de' gusti  e  de’  pareri,  tiatf 'si  eMre  'pericoiè  di  sbaglio,  «dlforicbè  attenlèiidòsi  allo  scopo  della  conversazione^  che  è  il  rfi*  ^rtimento,  si  ha  riguarda  alla  vanità  di tia^  scuìw,  che talvolta  è-il  prineifmte\08tàiiUù^  fatti, se; nelle  botteglie  predomina  l'interesse,  nelle  cooversaÈtoni  prevale  la  vanità,  e  I  bkdgtii -deila  vanità  sono  anteriori  al  bisogno  di  trastullarsi. La  vanità  è  più  o  meno  maneggiaste  secondo  iindole  delle  altre  qualità  eiA  f&  trova  uffitt;  Mvl^  viene  dunque, tener  queste  presenti  al  pensiero  per  rttrovkre  i  bieztl  onde  adescai  qaè)la  {  o  dmetio   iVon  irritarla.   Vanità  e  ignoranza.  AUorisliè  la  vanità  è  Hìnalgamatà  coH'ignoranza,  apre  foreccbio  aHé  più  sciocche  menzogne,  e  delle  più  improbabili  illusioni  si  pasce.  L'uomo  vano  ed  ignorante,  per  es.,  gongola  di  piacere  alle  Iodi  che  voi  date  al  suo  eappello,  alla  sua  giubba,  al  suo  abito,:  mentre  un  uomo  di  spirito  ne  rimane  offeso. .  f^anità  e  riflessione.  In  questa  combinazione  le  lodi  impudenti,  anche  desiderandole  per  altri  fini, dispiacciono: i Romani  non  sapevano  come  contenersi  con  Tiberio,  il  quale  non  voleva  la  li;  berta  e  odiava  la  schiavitù.  A  Traiano  éfie  aveva  Io  spirito  sodo,  non  andavano  a  sangue  le  basse  maniere  e  servili  che  usava  seco  lui  Adriano.  Carlo»  ^.V  disse  ad  un  adulatore:  IVF  accorgo  che  pensate  a  me  ne'  vostri  sogni.,3.  Fanità  e  viisantropia.  In  questa  combina .'zlone  la  vanità  è    schizzinosa  e  bizzarra,  che  una  |  lode,  benché  veridica,  e  ravvolta  in  gentile  scorzi  V  la  offende,  amando  essa  meglio  essere  contradidetta  che  encomiata.  Infatti  egli  è  un  mezzo  quasi  infaUibile  per  conciliarsi  l'animo  del  misantropo  il somministrargli  occasioni  di  esercitare  la  sua  bile  contro  quanto  succede,  e  procurarsi  così  una  specie   ^di  celebrità,  essendo  ohe  nessuno  maltratta  il  genere umano  se  non  per  occupare  di  se  stesso  il  genere  umano.   4.  Fanità  e  sesso  debole.  Benché  le  lodi  alla  bellezza  non  siano  vere  lodi,  ciò  non  ostante  suonano piacevolmente  all'orecchio  delle  donne  comuni, ed  anche  degli  uomini.  Osley,  famoso  mendicante a  Londra,  fece  fortuna  servendosi  del  se-,guente  stratagemma.  Quando  era  permesso  di  mendicare in  Inghilterra,  egli  si  appostava  ove  era  maggiore  la  concorrenza  delle  persone  di  buon  tuono;  e  allorché  vedeva  delle  donne  eleganti,  cercava  loro  la  limosina.  Se  esse  gliela  ricusavano,  Madama,  diceva  egli  all'  una,  In  nome  di  questi  begli  occhi  neri;  all'altra,  In  nome  di  questa  bella  capellatura;  a  quella,  In  nome  di  questo  bel  taglio  incantatore;  a  questa,  In  nome  di  que' labbri  di  rosa;  finalmente  venivano  le  gambe  divine,  i  piedi  leggiadrt,  il  portamento  da  regina:  nulla  era  dimenticato :  ed  egli  andava  a  casa  colla  borsa  piena.,  inanità  combinata  con  qualunque  sorta  di  carattere. La  qualità  più  costante  della  vanità  in  qualunque  combinazione  di  cose,  o  sia  considerata  nell'uomo  in  generale,  si  è  il  piacere  crescente  in  ragione  delle  persone  che  parlano  di  lui  senza  svantaggio.  Un  principio  d'involontaria  allegrezza  scorgerete  sul  volto  di  chiunque,  appena  gli  dite  che  avete  fatta  menzione  di  lui  in  tale  conversazione;  che  Pietro  ne  ha  parlato  in  tal  altra,  ecc.  È  successo  un  piccolo  urto  nell'amor  proprio  di  due  famiglie,  il  cui  rumore  non  è  giunto  alla  fine  della  contrada?  Gli  individui  di  esse  vi  diranno  che  ne  ha  parlato  tutta  la  città;  e  se  voi  mostrate qualche dubbio ivyi^ si dimanderà se siete caduto  dalle  nubi:  tanto  è  vero  che    brama  d' essere  r  oggetto  degli  altrui  pensieri  c'  induce  a  credere  d'esserlo  realmente,  e  la  supposta  esistenza  nell'ai:  trui  opinione  è  centupla  dell'  esistenza  reale  :  in  somma  gli  uomini  in  generale  somigliano  quel  miserabile  principe  dominante  sulle  coste  della  Guinea,  il  quale  seduto  a'  piedi  d' un  albero,  avente  per  trono  una  grossa  pietra,  per  guardie  quattro  ISegri  armati  di  picche    legno,  diceva  ad  alcuni francesi  :  Si  parla  molto  di  me  in  Francia?  Atteso  questa  forza  estensiva  della  vanità,  ciascuno,  spesso  di  buona  fede^  rappresenta  la  sua  opinione^  privata  comè  opinione  pubblica,  di  modo  che  nel  ^progresso  del  discorso  vengon  affibbiate  al  pubblico cinque  o  sei  opinioni  talvolta  contraddittorie  sullo  stesso  argomento.   Conoscendo  le  principali  combinazioni  della  va;ìiità,  e  i  prodotti  sentimentali  che  i^'e  risultano  >  saprà  il  giovine  adescarla  con  garbo  senza  compromettere la  dignità  dell'uomo;  ritroverà  il  limite  che  separa  la  dissimulazione  dalla  simulazione,  e  idalla  vile  falsità  si  terrà  lungi  ugualmente  che  ridalla  sincerità  gratuitamente  offensiva.  Dapprima,  in  vece  di  mostrarsi  stupido  e  silenzioso alla  vista  dell'altrui  nierito,,  il  giovine  ne  sar  \  pronto  encomiatore,  esternando  gradi  di  sti?nu  proporzionati  alle  qualità  utili  e  lodevoli,  associando alla  stima  gradi  di  rispetto,  se  di  particolari virtù  si  tratti  e  di  grandezza  d'animo;  in  tulli  i  casi  egli  procurerà  che  il  sentimento  rappresentato da' suol  atti  e  dalle  sue  parole  s'avvicini  ìi  quello  che  gli  altri  vogliono  ritrovare  in  lui,  non  dimenticando  che  quando    tratta  di  riguardi;  e  men  male  peccar  per  eccesso  che  per  difetto.  Sta  dunque  attento  nel  passar  del  guado,  ^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli,  Da cui  scampano  pochi, o  almen  di  rado.  »  ft  ben  che  in  questo  mar  la  nave  sciogliCol  rischio  a  destra  ed  a  sinistra,  ancora  :^  »  Salvar  ti  puoi,  se  il  mio  consiglio  accogli.  .  Va  per  la  via  di  mezzo,  e  se  pur  fuora  ^.;»vDel  relto  calle  fantasia  li  mena,    AH  pilo,  e  non  al  basso  tien  la  prora.  »  '  d'avvilirsi^  isostràndosi  indulgente  alle  umane  de^lez29e,  aUoìr«][iè  nmaa  dmm  ne  risulta^*  EUa^Mftì  isdegna  A  tendere  agli  altri  tachè    più  di  quel,c^e  hanno  diritto  d'esìgere,  sapendo  ejie  nel  com* smercia  <  deUa  vita  cU  ai  ostinàsae^  a  coVmmr^  gli  uonuni  nel  loro  vero  posto,  correrebbe  pericob  di  ppjRsi  ia  coi^esa  eoja  tutti.  >Le  aote  anima  ficoole^  jpqttìtfe aidle iaM pretemttoi, speaae^ sospette jti guardando  come  furto  fatto  a  se  stesse  lutto  ciò  (^p  c(NM«doiif^  figli  aitai  >  Ungotìé  goolàùiaf^^    tfiiancia  in  mano  per  pesare  a  rigore  ciò  che  4«!^oiiq|  fat^f^iiidaie  o  musare:  é  sg^s^  sotto  pr^  testo  di  non  degradarai,  si  im»lmiio*iiliiv^tlaeif|i  .(^io^Q  usfmli    inferiori. I  Lacedemoni,  che- neri  peccavano  per  eccesso  di  bassezza,  hanno  lasciato  un  beli'  esempio  dell'  indulgenza  che  si  debba  alla  follìa  de'  grandi.  41e^s^^o    piccolis^iiaio,  qMlido  péélèadava  drenare  figUo  4i  Giove,  e  JHo  egli  stessè,  ^ireeheper  Melo  rieooosotaeiDo  tutti  gU  8ta(l.éella  Grecia  :  in  occasione    queste  pretensioni  i  Lacedemoni  fecero il  «eguente  decreto,  veramente  laconico  ~  Poiché  AlessaneÉto  vuol  essere  Dio  che  lo  sia.  '  .  Attai  meao  ladolgeiito  si  moslflò  FilosseiMr  een  Dioiiigi  fttotteo.  Questo  ttasniio,  peidiè  era  vètf  laceva  de*very,  pre*  tendeva  al  vanto  di  pòela.  Ef^li  prff^ò  un  giorno  Filoss^ne  a  correggere  una  sua  opera  teatrale;  e  questi,  avendola  rappezzata e  rifatta  4al  primo  verso  air^Himp,  il  re  lo  condannò  alla  lettere, ^acciò- fi  Imipamse  a  rispeltase  ia  regia  pc^la.  li  giómò  sussegnèiYte^  tra(toìòdi  cacGasKe,^K>'amiiiis8  alla  sua  mensa,  e  liniio  il  pranzo,  dopo  avergli  fettOfaleciDl  versi,  gli  domandò  il  suo  parere.  Il  ponila,  senza  rispon iV?^  Raccomanderò  finalmente  ai  giovani  di  non  imitare la  vile  e  perfida  condotta  di  coloro  che  lodano  alcuni  collo  scopo  di  denigrarè  altri.  Ih  ciascuna  carriera  alcuni  personaggi  distinti  occupano gli  sguardi  del  pubblico  :  cbe  cosa  fa  V  invidia per  defraudarli  ?  Suscita  loro  de'rivali,  colma  di  lode  degli  imbecilli  che  appena  hanno  il  senso  comune,  e  si  sforza  di  ripeterne  i  nomi,  acciocché  il  pubblico  s'induca  ad  occuparsi  di  essi  e  dimen-,/tichi  i  primii   -^^Nel  corso  della  giornata  si  riproducono  ad  ogni  vistante  de'  casi,  ne'  quali  alla  sola  azioiie  d'innocente  lode  si  può  ricorrere  per  conseguire  l'assenso  di  alcune  volontà,  e  diminuire  la  resistenza  di  altre;  perciò  ad  esercizio  de'  giovani  soggiungo  i  seguenti  problemi,  ciascuno  de'quali  ammette,  col    dere,  si  rivolse  alle  guardie  e  disse  loro:  Riconducetemi  in  ctarcere.  ^f-^u    i   Un  uomo  ^11  «pirilo  nel  case  di  Fllossene  sarebbe  uscito  d’ impaccio  con  una  celia.  Infatti  la  condotta  di  questo  poeta  sarebbe  ammirabile,  se  si  fosse  trattalo  d'una  cattiva  legge  od  alli-a  operazione  daivàosa  al  pubblico;  ma  scegliete  jl  carcere  pcrclié  un  Uranno  vuol  essere  poeta,  é  paizrja. Maggiore  imprudenza  commise  rarchitelto  Apollodoro,  il  quale,  sapendo  quanti  l' imperatore  Adriano  è avido    lodi,  critica  un  di  lui  tempio  in  modo un  po’ burlesco,  osservando cbe  se  gli  Dei  e  le  Dee  si  fossero  alzale  in  piedi,  si  sarebbero  rotta  la  testa  nel  soffitto.  Questo  scherzo  gli  costò  lii  .vita.  11  quale  fatto  Ù  dice  che  i  coltivatori  dozzinali delle  belle  arti  hanno  una  vanità  atraordinaria,  superiore a  qualunque  sentimento^  e  capace  di  sacrificoì'c  la  slessa  amicizia, mezzo  della  lode,  soluzioni  indefinite  nelle  varie  circostanze  sociali.  Disarmare  la  collera. .Aureliano  faceva  rimprovero  a  Zenobia,  perchè non  aveva  riconosciuto  gl’imperatori  romani. La  principessa  lo  calma,  dicendogli. Io  riconosco  voi  per  imperatore,  voi  che  sapete  vìncere. Galieno  e  i  suoi  pari  non  mi  sembravano  degni  di  questo  nome. Addolcire  l'amarezza  d'uri  rifiuto. ( il  gran  Condè,  pregato  dalle  dame  di  lasciarle  uscire  da  Vezel  ch'egli  assediava,  prevedendo  che  Ja  loro  uscita  ritarderebbe  la  resa  della  piazza,  rispose che  non  poteva  acconsentire  ad  una  dimanda  che  del  più  bel  frutto  del  suo  trionfo  lo  prive,  rebbe.,  Accrescere  pregio  ad  un  favore. Luigi  XIV  nominando  al  vescovato  di  Lavaur  Flechier,  che  predicava  alla  corte,  gli  dice:  Vi  ho  fatto  aspettare  alcun  poco  un  posto  che  meritavate  da  lungo  tempo,  ma  non  voleva  privarmi  così  presto  del  piacere  d'ascoltarvi.  ) '   elare  il  lato  offensivo  d'una  verità.   (  Despréaux  interrogato  da  Luigi  XIV  sopra  alcuni  versi  da  lui  composti:  Sire,  rispose,  nulla  è  impossibile  a  Vostra  Maestà  :  ella  ha  voluto  fare  de' cattivi  versi,  e  vi  è  riuscita.  )  Un  soldato  francese  si  faceva  chiamare  col  nome  d|  Turenne,  celebre  maresciallo  di  Francia:  quesU  mostrò  d'esserne ofifèso:  il  soldato  rispose:  Generale,  io  sono  invaso  dalla  gloria  de’nomi:  se  ne  avessi  conosciuto  uno  più  bello  del  vostro,  l' avrei  preso.  L'uso  della  lode  è  ragionevole  finché,  fondato  sul  vero  o  verisimile,  è  stimolo  o  ricompensa  ai  talenti,  all'industria,  alla  virtù.  L'uso  della  lode  è  riprensibile  quando  o  fondasi   sul  falso,  0  di  gran  lunga  oltrepassa  la  misura  del  merito  encomiato,  e  allora  dicesì  adulazioìiél  Vi  sono  de'Iodatorì  eterni,  i  quali  non  vi  danno  una  lode  fuggiasca  e  dilicata,  ma  vi  inondano  e   opprimono  d'elogi;  e  ciò  per  ogni  inezia,  ad  ogni  istante,  alla  presenza  di  qualunque  persona;   cosicché  se  non  rispingete  le  loro  lodi  smodate, acquistate taccia di vanità ;  e  se  le  rispingete,  essi   '.  le  replicano  con  usura,  e  per  così  dire  non  vi  incensano, ma  vi  danno  il  turibolo  nel  naso.  Tre  caratteri  distinguono  l'adulazione  dalla  lode ragionevole  0  meritata:   L'adulazione  cambia  i  vostri  vizi  in  virtù;  ^   m||||(  Ella  vanta  in  voi  delle  qualità  che  non  avete; Ella  innalza  eccessivamente  quelle  che  avete; .Nel  mentire  esperto,  »  Maestro  in  adulare,  egli  senz'  onta   V  Chiama  faconda  indotta  lingua,  e  bella  I   »  Schifosa  faccia;  un  sottil  collo  e  lungo  I  ))  Agguaglia  a  quello  d'Ercole,  che  innalza   I  .  Di  terra  Anteo;  magnifica. una  voce    »  Stridula  e  chioccia  qual  d'irato  gallo Che  alla  mogliera  sua  morde  la  cresta. L'adulatore  adunque È  un  ipocrita  che  finge  &entimeoti  c^^ptmru  a   qutìlìi  ohe  cg^  ffi^U' animo;  ^  Z  m  vile   «  Buffon,  perpetao  l^ioMM'  di  eaptf  «,     die  trama  ai  cenni  del  rìccOf  e  Ib.ecQ  ai  detti  deUd   persgy|;iefiu  viziose  i   %    soroccatore  cl)e.)dà  .menzogne  per  fitleoi^rj;  vantaggi  personali;   É  un  ladro  che  toglie  alla  virtù  r.eiicomio  ehe  profonde  al  vizio;   £  un  infame  che  »  io^i^^i^te  ali'  onore  »  non  teme  il  pubblico  disprezzo;   L  infamia  delPadulazione  cresce  in  ragione  della  pubblieU^  ddta  aUe  lodi  menzognere.   Pera  colai  che  sa  malnati  fogli  «  Famelfto  eerifter  vende  sue  lodi,  »  E  d'aura  popolar  Talme  rigonfia.  »  Sid  labbro  a  lai  le  venenate  tazze  »  Vota  menzogna,  e  Favvilito  incenso  »  Onde  frodonne  di  virtù  gli  altari,  »  La  lusinga  vénal  pria^nde  a  Itti;  »  Che  col  prestigio  d'un  error  che  piace  19  Cangia  il  ?izio  in  virtù,  traiforma  in  mmie  »    Ignoranza,  follia,  viltade,  e  mira  »  Sorger  Tersità  emulator  d'Achille  »  E  nn  Sfida  infame  in  an  Traian  rivolto.  Allorché  Filippo  di  Macedonia  divenne  guercio,  il  cortigiano Clisofo  usciva  di  casa  con  un  empiastro  sulF  occbjo,  e  si  traeva  dietro  una  gamba  allorché  il  re  zoppicava  per  una  lecita. Sono  arcìpochissimì  quelli  che  facciano  sforzi  per  acquistare  le  qualità  che  loro  mancano  allorché  vengono  accertati  che  le  posseggono;  e  meno  sentono stimolila  salire  ad  alto  grado  di  gloria  se  quelli  che  li  circondano  dicono  loro  ad  ogni  istante  che  sono  giunti  alla  cima.  Si  può  asserir  anco  che  più  personaggi  potenti  non  divennero  tiranni  se  non  perchè  fu  fatto  lor  credere  che  tutto  era  loro  dovuto,  e  che  il  loro  rango  scusava  qualunque  colpa  potessero  commettere. Da  un  lato  essendo  utile  l'uso  moderato  e  ragionevole della  lode,  dall'  altro  non  essendo  difficile  d'essere  tacciati  d'adulazione,  perciò  ricordecò  la  regola    Montaigne,  il  quale,  nel  lodare  le  virtù  e  i  pregi  reali  de'  suoi  amici,  compiacevasi  bensì  d'esagerare  alcun  poco,  ma  limitavasi  a  cambiare  un  piede  in  un  piede  e  mezzo  :  secondo  Montaigne  adunque  il  rapporto  tra  il  merito  e  la  lode  che  possiamo  tributargli,  non  deve  oltrepassare  il  rapporto di  uno  ad  uno  e  mezzo. Quindi  pria  di  profondere  lodi  dobbiamo  esaminare le  qualità  delle  ji^rsone;  e  se  ci  accade  d'esserci per  bontà  o  generosità  d'animo  ingannati,  non  essere  restii  a  ritrattarci.  Squadra  ben  ben  Tuom  che  commendi,  ond'onta  »  De'  falli  altrui  non  ti  rifletta  in  viso,  w  Diam  talor  nella  ragna,  e  ottien  l'indegno  M  Da  noi  favor;  dunque  la  man  delusa  «  Sottrai  da  chi  va  di  sua  colpa  onusto.  »  Delicatezza animo. Si'  dic0  delicato  oa  fiim  aUovcbè  al  ooniatto  '   d'aurà  un  po'  pungente  s'attrista,  e  al  raggio  meridiano piega  ti  capo  suUo  stelo.   Pèr  drantMre  quanto  è  dUiaiad  r  onora  dette  donne,  lo  parago;iiaDao  a  terso  cristallo,    i,  :A  debìl  canna  y  »  Ch'ogn'aur9  mchina,  ogni  respiro  appanna   Si,ah)ai;pa  animo  dilicató  quello  che  alle  tnioime  seai^kKÌon|,m&raUj^iK^  od  a  vanjia^o  aly   4rui  si  risente.   \\.  pi^Q  4^,  essere  bontà  d'animo  senza  de.  Rcatezzas  ^  uoma  ìytiòno  vi  &rà  tosto  il  piae^  ^ebcgli  domandate  :  un  uomo  dilicato  farà    più;'  egli  Vif  risparmierà  la  peqa  41  domandare,,  e  éa^rà  tenere  segreto  il  beneficio.   Vi  può  essere  giustim  Sj^nza^  delicatezza  :  un  uomo  giusto  difenderà  con  calore  i  vostri  diritti  nel consiglio: un uomo dilicato difenderà anco le vostre convenien^, e s' affiretterà  a  .spedirvi  la  Booi^  del  felice  enccesso.   La  delicatez^  d'animo  è  un  misto  di  speciali  qni^ità  e'si  manifesta  coi  caratteri  di  esse,  ^esie.qualità  sono  le  seguenti. Finissima  sensibilità.  1  generali  Ateniesi  a  '  Maratona,  ecc^itati  dall'esempio  d*ArÌ9tide,  cedettero intero  a  Milziade  quel  comando  che  gionialmmte^ed  a  vicenda  toccava  a  dascuno*  Milziade,  acciò  la  vittoria  che  lusingavasi  di  conseguire  non  fosse  cagione  di  rincrescimento  a  qualcuno  de'ge9erali,  spinse  la  delicatezza  al  segno  da  non  dare   la  faiOtagli^  che  giorno  ia  cui  gli  dpparlBomirjeoinandd.  «iW^^h-T^  Cemdido  disinteresse.  Nelle  cose  di.seasibite  vitloree  boa  hm^wYv^laà^fe^  kk^eosa  offerta  e  Ja  cosa  (zccettata.  serve  à  misurare  la'  delicatez;uhi  [wgìio  àir^  che  è  t^Qto  <  aiaggMtr^  Jid  dftlieatez»  quanto  è  mifiore  raccettazione  a  fronW  deirofi^rta^  Neirampiezza  del  terreno  che  i  Mitll^nesi  offerserb  a  Pfttaco«  loro  cooeittadiao»  la  ri^'  compensa''  averiò  per  la  repubblica  acquistato,  non  accetto  egli  fuorché  io  spazio  che  perocMrsa  un  dardo  per  esso  lanciato.  E  tra  ta  iikunifiteàza  de*  doni  che  il  console  Postumio  mise  avanti  a  Marzio  per  ncojfj^seiaieiUo  del  sjao  vatoré,  idtro  non  volle  il  generoso  romano  ch0  un  prigionièro  col  quale  ebbe  comune  l'albergo,  ed  un  eavallo  da  guerra  di  cui  potesse  natile -biittaglie  ^sl^irvirsi. ÀU'opposto  non  si  vedé  ombra  di  ^éélloiieas  net  ée^   guente  fatto.  Il  sopranlcnclente  delle  finanze  francesi  BuUion,  nel  ^640  fece  battere  a  Parigi  i  primi  luigi  che  comparvero  in  JPrancia;  e  avendo  invitato  a  pranzo  cinque  nobilissinù  •signori/  fecfe  postare  A  deueré  .^6  badll'  pieni  di  i|uesle  wm,  specie,  e  diése  loro  di  pMnd^è  quanto  ne  VolévatfO;  Clàacun  signore  si  gettò  avidamente  sopra  questo  nuovo  fruito,  ne  riempì  le  sue  tasche  e  fuggì  colla  sua  preda,  senza  aspettar  la  sua  carrozza,  di  modo  che  11  soprantendente  rideva  di  cuore  dell'imbarazzo  che  ciascun  signore  mostràva  eànoninando.  Io  vece  di  delioateàa  qoà  vedAwM^  vmssimo' interesse^  e  liiffà  y.  IndiacSMzione,  giacché  ciaseano,  di  cosa  non  bisognevole,  accetta  quanto  gli  viene  ofiferto  e  se  ne  carica  in  ragione  della  capacità  delle  sue  tasche.  V   Ne' casi  comuni  V indiscrezione  cr^^e  a  misura  che  è  ptà  '^keoìù  U  vafitaggiù  chei'eonkBgue  accettante  y^ejiiù grande  it  danno  che  re$ta  alt  offerente. Vo6ite  fierezza.  Il  tratto  più  hello  che  somministri la  3to];i^-)re]^tijKaiiiaate  airargpmeittP^  si  è  il  wgaeaté,  se  la  memprìa  noii  m*in*  gauna.  Roberto,  duca  di  Normandia,  padre  di  Gu^  gUelmo  ll^^tmgttistatore  ^  trovaadasi  a  Xgfitif|tìDQr  poli  diretto  per  Terra  Santa,  erft  eéldbre  p#  tt  fiv^cità  del  suo  spirito  ^  per  la  sua  a£fai^iUtà  t,  fi*  WaMlÀ  sd  altre 'vir^ L^jQipera|M)ré  ^  ^ogHo  farne  prova^  Io  invito  co'  suoi  nobili  a  pranzo  nella  «graiijsàla  del.palazz^  iniperial^i  quindi^or^inò  che  tutte  lè^  tavd^v  é  tutti  gli  seaniii  £MSerd':bQé^patt  dagli  altri  commensali  pria  deU'ajr^iì^Q  de*  quali  prescrisse*  clie  nissunà  A  prendlésse  >  stero.  Giunto  >  il  duca  co'suoi  nobili,  tutti  riccar  m^te  vestiti,;  avendo  os^rvato  che  gli  scandi  erano  oecopati,  «  die  nissano  rispondeva  alle  sue  gen*  .  tilezze,  si  diresse,  senza  mostrare  la  minima  sorp^^.  joè  II  4iiniQiO  turbamento.,  veysp  jl'una  delle  estremità  della  sala  che  rimaneva  vuota,  si  levò  il  mantello,  lo  piegò  con  bel  garbo,  lo  pose  sul  pa- imento  e  vi  si  assise  sopra,  nel  che  fa  imitato  dal  suo  seguito.  Pranzò  in  questa  posizione  colle  vivande  cl^e  gli  vennero  polite,  dando  segno  d^lla .  più  fèrfetta  soddis&zione.  Finito  ìi  pranzo,  il  iw»  e  i  suoljaobìli  s' alzarono,  presero  congedo  dalla  ^mpagàrai  nel moda più  grasìoso ed uaeiroao  dalia  sala  colle  loro  giubbe,  lasciando  sul  pavimento i  mantelli  che  erano  di  gran  valore.  L'imperatore che  ^y^Va  ammirato  b  tòro  condòtta,  fa  sorpreso  da  quest^^ul)imo  tratto,  e  spedì  .upo  de'  suoi  còrtigìani.jal  sappUcare  U  dqcft  iiA  il  sao.  se^  guito  a  riprendere  i  loro  mantelli.  Andate,  a  dire  al  vostro  padrone,  rispose  il  duca,  che  i  ]!>{ormannì    non  usano  portar  via  gli  scanni  di  cui  si  servirono  a  pranzo.    "Questo  rifiuto  era  delicato,  nobile,  convenevole  e  fiero  nel  tempo  stesso.^  r*vi-Gentili  sorprese.  Il  czar  Pietro,  che  viaggiava in  Europa  per  istruirsi  nelle  manifatture  europee,  si  fermò  alcuni  giorni  a  Parigi,  e  tra  gli  altri  stabilimenti  visitò  quello  della  zecca.  Si  coniarono molte  monete  alla  sua  presenza:  una  di  queste  essendo  caduta  a'suoi  piedi,  egli  la  raccolse  e  vi  vide  da  un  lato  II  suo  ritratto  in  busto,  dalraltro  una  faRia  appoggiata  col  piede  sul  globo,  e  questa  leggenda  :  Fires  acquirit  eundo^  felice  alIasione  ai  viaggi  ed  alla  gloria  di  Pietro  il  Grande.;  D( queste  monete  ne  furono  presentate  a  lui  ed  'alla  sua  comitiva.  Il  czar  non  potè  ritenersi  dal  dire  :  I  soli  francesi  sono  capaci  di  simili  gentilezze (o.;2'!!C  -^..rT.'^''   Dopo  d'avere  adombrati  i  quattro  principali  elementi  che  caratterizzano  la  delicatezza  dell’animo,  passiamo  ad  osservarne' qualche  combinazione. Lo  spirito vivace  e  la  pronta  sensibilità  di  questa  nazione rendono l’uso  delle  sorprese  gentili  men  raro  che  altrove, anche  nelle  basse  classi  sociali.  Dopo  la  battaglia  della  Marsalte,  vinta  da  CaUnat,  egli  passò  la  notte  sotto  la  sua  tenda  alla  testa  delle  truppe»  Trovavasi  egli  in  mezzo  alla  gendarmerìa  e  dormiva  inviluppato  nel  suo  mantello.  I  gendarmi, che  avevan  presi  ai  nemici  28  stendardi,  immaginarono  di  circondarlo  di  quesU  trofei:  gli  altri  reggimenti  portarono  essi  pure  gli  stendardi  conquistali.  11  giorno  comparisce:  Catinai  si  sveglia  circondato  dai  trofei  della  sua  vittoria,  e  salutato  dalie  acclamazioni  dell' esercito.    V%Mm  Waniniù  diHcata  sa  mggeHrìs  de*  vtm*  sigli  senza  mortificare  V altrui  vanità  y  ad  imitew  zione  di  Livia,  la  quale  gettava,  per  così  dire,  a  e^w  nella  convèrsazione  delle  fdee  trtlK  ad  Aogostò  senza  che  egli  s'accorgesse  ch'ella  aveva  più  spirito  di  lui.  .  Non  suole  offrire  alta  per  rinfacciare  penuria^  contento  di  mostrare  la  sua  disposizione  a  chi  volesse  approfUtqme*  Nelle  poe«e  d'Ossian^  mentre  Gaulo  viene  circondato  da  Svarano,  Fingal  s'alza  ma  non  si    fretta  d'accorrere;  egli  non  vude  rapire  a  Gaulo  l'onore  di  rimettersi  e  liberarsi  dal  nemico;  troppa  sollecitudine  sarebbe  stata  un'  offesa alfa  sua  gelosa  delicatézza  su*  questo  pùnto.  '  Egli  sa  coprire  il  soccorso  con  qualche  p7 etesto  plausibite^  e  all'idea    mortificante  della  Kmosìnà  sostituisce  quella  d'un  credito,  d' un  compenso,  d'un' indennizzazione,  d'un  onorario. Eccone  alcani  esempi: Un  sigDoi»!  per  mr  'eampd  di  benefleare  un  aVvooatò  miserabfle,  ed  aUonlanare  dal  suo  animo  l'idea  umiliante  del  soccorjK),  lo  consultava  $opra  cause  immagiaarie,  e  pagava  largamente  i  consulti.  AJCcesUao  visitando  il  suo  amico  Ctesibio  ammalato,  e  vista  la  sua  Indigenza,  trovò  modo  di  cacciargli  destramente  sotto  II  capeuftle  U  denarb  che  abbisognavagll.  l  signor  Dubois  all'  epoca  del  terrorismo  in  Francia,  essendo  stato  destituito  dalia  sua  carica  e  rinchiuso  in  pri^one,  il  botanico  (^ll^ei^t  portò  ciascun  mese,  e  finché  durò  Uk  detenzione,. alla  fl^posa  dell'  amico  detenuto^  la  metà  del  proprio  onocario,  acclorcb',  ella  non  sospettasse  la  destituzione del  marito,  e  non  iscoigesse  tutto  il  pericolo  cui  rimaneva  esposto.  Facendo  de' benefica,  egli  si  guarda  dal  rammentarli sì perchè  aspira  al  piacere  delle  belle  anime,  non  a  quello  dei  despoti;    perchè  sa  che  la  ricordanza  de'beneiizi  riesce  gravosa  al  beneficato.   CiLstode  deW  altrui  gloria  y  e  quasi  dimentico  della  propria  y  si  trova  infinitamente  lontano  dal  più  vile  di  tutti  i  sentimenti,  F  Invidia Che  d'altrui  ben,  quasi  suo  mal,  si  duole. Allorché  Ulisse  e  Diomede  ritornano  dal  campo  troiano,  conducendo  i  cavalli  di  Reso  e  riportando  le  spoglie  di  Dolone,  Ulisse,  che  poteva  dividere  col  suo  amico  la  gloria  di  questa  spedizione,  si  fa  un  dovere  di  lasciargliela  intera  :  egli  racconta  minutamente  tutto  ciò  che  fece  Diomede,  e  nulla  dice  di  se  stesso.   Dimenticando  ch'egli  ha  dello  spirito,  sa  far  valere  quello  degli  altri,  ed  incoraggiare  il  merito  nascente  talvolta  timido,  si  perchè  non  crede  che  possa  essere  offuscata  la  sua  gloria,    perchè  si  regola  coll'idea  del  pubblico  vantaggio.   Apre  r animo  a  tutti  i  sentimenti  che  ingrana  discono  la  natura  umana,  e  vorrebbe  pur  chiuderlo a  quelli  che  la  degradano.  Egli  sarebbe  slato  buon  credente  in  Grecia  ove  si  divinizzavano  gli  eroi,  miscredente  in  Egitto  ove  si  divinizzavano  gli  animali.   Riceve  con  riconoscenza  gli  altrui  avvertimenti  anchè  quando  offendono  il  suo  amor  proprio,  e  ne  profitta,  mentre  le  anime  piccole  e  grossiere  ingrognano  e  riguardano  come  nemici  quelli  che  additano  loro  i  mezzi  per  divenire  raigliori.      S#S   buisce  a  virtìt,  collo  scopo  di  ravvivarne  l'imagioe  e  promoverne  resecozione     Ltmgi  dal  brigare  sotta  mano    carica  del  sm  amico  i  egli  è  disposto  a  rinunziare  ad  una  pen^  sione  a  vantaggio  di  chi  la  merita  più  di  lui  (  Proporziona  la  riconoscenza  non  al  beneficìoy  ma  air  intenzione  di  chi  V  eseguì,    crede  che  cessino  i  suoi  obblighi  se  ìì  benefattore  cKvièhe  sventurato.   Egli  è  penuaso  che  la  rottura  deW  amiditAa  non  Vautorizza  a  manifestare  i  segreti  che  furono  affidati  alla  sua  onoratezza,  e  non  vuole  screditare   la  sua  causa  con  un  tradimento,  come  fu  detto  a  suo  luogo.   *  Costretto  a  correggere  qualcuno,  egli  nùn  lo  fa  alla  prssenza  di  estranei,  e  quando  può  ^  il  fa  a  quattr'occhi;  sa  anco  condire  la  correzione   con  lodi.  che  animano,  in  vece  di  ricorrere  a    Dopd  Ta  tn?6«n  dèUa  fertem  di  SoltneU'riainiflt,  nid  4657,  ì  primi  soldati  che  entrarono  nella  piazza  avendovi   ritrovato  una  bellissima  donna,  la  condussero  al  celebre  maresciaUo  di  Turenne  come  la  parie  più  preziosa  del  bollino. U  maresciallo,  fingendo  di  credere  che  essi  altro  scopo  non  s'avessero  proposto  che  di  sottrarla  alla  brutalità  de'  loro  compagni, il colmò  di  lodi  per  si  onesta  condotta,  fece  quindi  ricercare  il  di  lei  marito,  e  gli  disse  alla  loro  presenza: Voi  dovete  alla  morigeratezza  de'  miei  soldaU  l'onore  della  vostra  sposa. Dugnay  Trouin,  dopo  una  campagna  gloriosa  nel  1707,  ricusò  una  pensione  che  II  ministro  voleva  dargli,  ma  la  dimanda  e  l’ottenne  per  Saint-Auban,  ^uo  aiutante,  ciie  aveva  perduto  una  coscia  nella  steslsa  campagna.    t  è    f4i.   villanie  che  avviliscono.  Egli  procura  di  scemare  la  colpa  attribuendone  parte  alle  circostanze;  e  per  eccitare  la  voglia  del  ravvedimento^  ne  lascia  intravedere  la  speranza.  Egli  dice,  per  esempio  :  .<(.  Nissuno  di  quelli  che  vi  conoscono  e  vi  stimano  ')  vi  credeva  capace  di  tal  errore,  ed  io  meno  degli  »  altri.  È  vero  che  i  compagni  sorpresero  la  vo»  stra  buona  fede,  o  l'impeto  della  passione  v'ac»  ceco,  ma  io  sperava  di  più  da  quella  perspicacia  »  e  forza  d' animo  di  cui  ci  deste  tante  prove,  e  ^>  che  certamente  non  è  estinta;  in  somma  Y  er»  rore  è  indegno  di  voi.  Come  mai  non  vi  cadde  »  in  mente  che  esponevate  i  vostri  genitori  alla  w  taccia  d' avervi  istillato  cattive  massime  ?  Do»  vranno  essi  cogliere  disdoro  dove  speravano  lode  »  ed  onore?  I  vostri  amici  che  tentano  di  nascondere  il  vostro  fallo,  accertano  che  ne  sentite  w  profondo  rammarico  : Vorrete  voi  smentirli  ?  »  Dovrò  io  accertarli  che  s' ingannano  ?   ecc.   Vuomo  dilicato^  nelle  contese  co^nemici  sdegna  le  vie  segrete,  le  quali,  essendo  favorevoli  alla  calunnia  e  alla  frode,  sono  preferite  dalle  anime  vili  Non  abusa  della  vittoria perchè  non  v'è  merito  neW  abusar  del  potere^  e  v' è  viltà  nell'insidtare  i  cadaveri.    li Son  frmvde  ncque  occuUis^  sed  palam  et  armatum  populiim  romanum  hostes  suos  vlcisci,  diceva  Io  stesso  Tiberio.  Achille,  che  fu  da  Omero  divinizzato,  insulta  Ettore  moribondo,  e  gli  protesta  che,  in  vece  d  onorata  sepoltura,  Io  farà  pasto  de' cani.   Dopo  che  Achille  ha  attaccato  egli i  /V  fl  sentimento  della  vendetta  confondendoci  coi  bruti,  egli  si  sforza  sempre  di  reprimerlo,  perché,  ^  .ogniqualvolta  il  può,  vuole  distinguersi  da  essi.   Egli  tenta  quindi  di  soggiogare  il  nemico  più  ^  colla  generosità  che  colla  /orsa  i'  pffl  '<H)f  menti  nobili  che  con  atti  freddamente  feroci;  é  .  neri  può  reprimere  il  sorriso  dello  sprezzo  alla  vista  di  chi  aspira  alla  gloria  del  carnefitcefi  r  S varano  nelle  poesie  d'Ossian  è  vinto  da  Fingal:    la  condotta  e  i  discorsi  di  questo,  l'  artifizio  cgrtV  cui  s'insinua  nell'animo  del  suo  nemico,  sono  e-r  qualmente  ammirabili.  «  Poteva  Svarano  esser  esa cerbato  verso  di  Fingal  per  quattro  motivi  :  per  '  »  l'inimicizia  nazionale  degli  Scozzesi  e  dei  Da-..,;»~'nesi;  per  l'inimicizia  personale  tra  lui  e  fingal  »  per  la  vergogna  della  sua  sconfitta;  e  per  desi derio  di  risarcirsi.  Fingal  prende  a  superare  tutti  -    unesìi  ostacoli  colla  nobiltà  de'  suoi  sentimenti./    Comincia  dal  primo,  e  mostra  che  le  guerre  delle  loro  famiglie  non  venivano  da  un  odio  ereditario,  »  ma  da  una  gara  di  gloria,  e  che  anzi  esse  da  »  principio  erano  amiche  e  congiunte.  Passa  indi  »  ad  allontanargli  dall'animo  l'idea  della  vergogn ch'era  il  punto  più  delicato  e  più  necessario;  e    f^ì\iì  grande  elogio  del  valore  di  Svarano,  |n V   'rslesso  il  cadavere  d'Ellorc  al  suo  carro,  dopo  die  Io  ha  strascinalo  tra  i  sassi  e  il  fango,  sferzando  a  più  non  posso  .1  suoi  cavalli^  dopo  che  ne  ha  fatto  il  più  feroce  strazio,  il  poeta  viene  a  dirci'   »  Ch'ei  non  è  ^lollo,    villan,    iniquo   il  suo  eroe  11  !;  *  j^v,   v  dicando  che  nel  suo  spirito  egli  non  ha  perduto  V^Al^iuUa  dell'antica  sua  gloria.  La  lode  non  è  mai  \  «  più  lusinghiera  quanto  in  bocca  d'un  nemico,  i  ^  f  Riconfortalo  l'amor  proprio  di  Svaranp  con  que•:^.filo  calmante,  Fingal  mette  in  uso  ì  modi  più  *^  >>  blandi.  Lo  chiama  delicatanriente  fratello  d'Aganadeca,  per  destar  in  lui  Sentimenti  teneri  ed  amichevoli  coll'imagine  d  una  sorella  amala  non  ij^rjf^^^no  da  lui  che  da  Fingal.  Mostra  che  sin  dal  ^  »  tempo  di  quella,  egli  avea  concepita  molta  pro))  pensione  per  lui,  e  gli  rammemora  la  prova  sen/^h  sibile  che  glie  ne  diede  in  quella  occasione.  Con     >  ciò  égli  induce  Svarano  a  vergognarsi  di  conservar  odio  e  rahcore  con  una  persona  che  già;s;3i;:da  gran  tempo  1*  avea  provocato  in  affetto  e  in  ..p  benevolenza.  Finalmente  mette  in  opera  un  tratto   di  generosità  singolare  che  doveva  espugnare  l'a.:;t4.oimo  il  più  indomabile. Svarano  era  vinto  :  Fingal  era  padrone  della  sua  vita  e  della  sua  libertà.  >»^«  questi  si  scorda  della  sua  vittoria  ?  suppone  ^,>)  (:he  Svarano  sia  libero  come  innanzi  la  battaglia,  jfc)»/^- propone,  per  soddisfarlo,  un  nuovo  cimento   personale,  come  se  il  passato  non  dovesse  deci-jf^'  dere.  Svarano  non  è  un  nemico  vinto,  ma  un   ospite  nobile  a  cui  si  desidera  di  far  onore^  A;d  tanta  generosità  Svarano  s'ingentilisce,  e  la  sua  V  ferocia  si  va  cambiando  in  grandezza. Svaran,  disse  Fìnga],  nelle  mie  vene   »  Scorre  il  tuo  sangue  :  le  famiglie  nostre,   »  Sitibonde  d*onor,  vaghe  di  pugne,  jj   w  Più  volle  s aCfronlàr,  ma  più  volte  anco   W^iti  n^^l^  cqnv.ersa:;>ioni .   §  1.  Cohcorrenza  superiore  alla  capacità  "  .  y'^^  :  'del  locale, *JL.  '   j    I    Invitare  più  persone  dl  qiiel  che  possa  compreu  dere  il  locale,  è  invitarle  ad  essere  soffocate  dal  ^  (ialore,  a  restare  in  piedi  con  sommo  disagio,  a  i  non  i^ssere  servite  se  h<innQ^  sete,  ecc.  Quest'\jsQ   *  .'X  Festeggiarono  fnsiéme,  e  Tona  hU' altta  . .  W     V  i  • ospitai  cortese  dono.  ^^À  ^^l^^j^  Ti  rasserena  dunque,  e  tiel  tuo  voltò'  '^f  »  .f^-V   »  Splenda  letizia,  e  alla  piacevol  arpa-Apri  rorecchio  e  '1  cor.  Terribil  fosti  ^  ^  iij  »  Qual  tempesta,  o  guerrier;  de'  flutU  tuoi  '  .  i>  Tu  sgorgasti  valor;  l'alta  tua  voce  »  Quella  valea  di  mille  duci  e  mille.   »  'Sciogli  doman  le  biancheggianli  velCj;'  'Pt^lu^'^w   Fratel  d*  Aganadeca;  ella  sovente  Viene  all'anima  mia  per  lei  dogliosà   /J^   Qual  sole  in  sul  merìggio:  io  mi  rammento. Quelle  lagrime  lue;  vidi  il  tuo  pianto. Nelle  sale  di  Starno,  e  la  mia  spada      òt^   »  Ti  rispettò  mentr'  io  volgeala  a  tondo     Rosseggiante  di  sangue,  e  colmi  avea   »  Gli  occhi  di  pianto,  e  '1  cor  ruggìa  di  sdegnò^J  »>  Che  se  pago  non  sei,  scegli  e  combatti  :  \x  ' Quell'aringo  d'onor,  che  i  padri  tuoi      »>  Diero  a  Tremmor,  l'avrai  da  me:  gioioso   (;   Vo'  che  tu  parta,  e  rinomato  e  chiaro Siccome  Sol  che  al  tramontar  sfavilla,  n  regna  in  Inghilterra  ne'  così  detti  routs  0  GRANDI CONVERSAZIONI.  Una  signora  sceglie  una  giornata in  cui  terrà  un  rout.  Ella  spedisce  de'biglietti  d'in-;.,.-^vìto  a  più  centinaia  di  persone,  non  perchè  sono  suoi  parenti,  suoi  amici,  suoi  conoscenti,  ma  per^,  chè  le  ha  vedute,  e.  perchè  la  loro  presenza  acqui»         sterà  credito  alla  sua  assemblea.,  « .un  vano    »  Secreto  genio  femminil  che  gode     Di  un  numero  maggior,  non  sceglie  i  buoni,  Ma  tutti  accoglie, e popolando il foco. D'un incomodo stuol, cresce la turba. Minorando  li  piacer. Pria  delle  11  ore  della  sera  (il clie si  chiama  il  momento  dell'alta  marea  )^  la  casa  brulica  di  persone  d'ogni  rango  e  d'ogni  sesso.  Si  pongono  \  i  tavolini  da  giuoco  in  tutti  gli  angoli  della  casay  e  tanti  in  ciascuno  quanti  ifc  può  contenere,  la-,  sciando  appena  spazio  bastante  onde  i  giocatori  possano  passare  o  sedersi.  Il  caffè,  il  tè,  la  limo*  nèa  circolano  negli  appartamenti. La  confusione  è  la  vera  essenza  d'un  rout.  Una  dama  che  tiene  queste  assemblee  non  consulta  la  capacità  delle  sue  sale,  ma  la  lista  delle  persone  ..  di  buon  tuono.  Elia  invita  sempre  più  persone  di  quel  che  possa  ricevere;  ella  si  compiace  degl'in*  convenienti  della  stanchezza,  del  rumore,  del  calore con  tanta  soddisfazione,  con  quanta  un  attore  '  ascolta  i  gridi  e  il  fracasso  degli  spettatori  che  assistono  ad  una  scenica  rappresentazione  destinata  a  suo  beneficio.  Gli  sbagli  de' servi,  la  perdita  di  qualche  gioiello,  le  ripetute  esclamazioni  buon  Diot   come  fa  caldo!  sono  vicino  a  svenire!  riescono  estremamente  piacevoli  alla  padrona  di  casa.  Non  manca  nulla  alla  sua  felicità  s'ella  viene  a  sapere  \  che  v'ha  tumulto  nella  strada,  che  I  servi  d'alcuni  Pari  si  sono  battuti^  che  de' cocchi  si  sono  spezzaiì  j  e  che  qualcuno  della  compagnia  è  stato  derubato  alla  porta  ecc.;  giacché  tutti  questi  accidenti  romoreggiando  per  la  città  porteranno  il  nome  di  madama  da  una  estremità  all'altra.   Il  giuoco  è  il  solo  piacere  che  vi  si  trovi  :  delle  perdite  considerabili  procurano  rinomanza  ad  un  róut,  e  se  un  giovine  erede  vi  resta  rovinato,  la  celebrità  della  casa  è  sicura  per  sempre.  Talvolta  si  .danza  nei  rowte, e  il  ballo  è  seguito  da  un^|;,gran  cena;  ma  vi  manca  sempre  ciò  che  fa  la  delizia  della  danza,  la  grazia  e  l'allegrezza. Il  locale  destinato  ad  una  conversazione  è  semM  '  pre  difettoso  quando  i  concorrenti,  atteso  la  situazione  de' canapè,  non  possono  unirsi  in  linea  ciri  ^  colare,  o  stare  a  fronte  gli  uni  degli  altri. Allorché  restano  seduti  in  linea  retta  da  una  sola  banda,  la conversazione  si  spezza,  e  da  generale  diviene  pa^^;  tìcolare.,  il  che  va  soggetto  a  più  inconvenienti^  come     vede  nel  seguente  paragrafar  CONVERSAZIONE PARTICOLARE SOSTITUITA. v.'^T  alla  CONVERSAZIONE GENERALE.  LA CONVERSAZIONE è  gehèVatè  allorché  ciascuno  defili  astantì  vi  contribuisce  come  attore  o  spettatore. LA CONVERSAZIONE é  particolare  quando  gli  astanti si  dividono  in  più  crocchi,  stranieri per  così  dire,  j  gli  uni  agli  altrii  benché  riuniti  nella  stessa  stanza.  Supponiamo,  a  cagione  d'esempio,  UNA CONVERSAZIONE DI DODICI PERSONE -è  facile  cosa  Io  scorgere  che  se  esse  restano  unite  in  un  solo  crocchio  '! '  conseguiranno  maggior effetto con minore  sforzo;    quello  che  se  in  quattro  si  dividessero. Infatti  nel caso  per  intrattenere XII  persone  ne  basta  una;  nel  2.o  per  intrattenere  XII  persone  se  ne  richieggono  tre.  !' Nel  1.^caso  una  celia  fa  ridere  XII  persone;  I   ^  ngl2.«  s'arresta  nel  circolo  di  quattro.   VAllorché  LA CONVERSAZIONE  è  generale,  un'idea  vera  ma  inesalta  annunziata  da  un'individuo,  viene  rettificata  da  un  secondo,  commentata  da  un  terzo,  dimostrata  da  un  quarto,  ecc.,  sicché  alla  fine del  discorso  si  ha per prodotto  una verità  lampante. All'opposto separate in IV  crocchi  questi'  contribuenti,  e  vedrete  che  in  vece  di  quella  verità  penduta  comune  a  XII  teste,  restano  in  ciascuna delle  semi-idee,  delle  nozioni  inconcIudenti,  delle  notizie  qui  inesatte, là  false,  e  dalle quali nulla si può dedurre. Succede  NELLA PRODUZIONE DEL PIACERE NELLE CONVERSAZIONI ciò  che  succede  nella  produzione  delle  ricchezze  nell’agricoltura  o  nelle  arti. PIETRO  possedè  l'aratro.  PAOLO  i  buoi,  GIOVANNI  ra))llitó  tì' arare. Se  questi  individui  s'associano,  ^  Taratura  $\  leffetliia,  non  si  effettua  se  restano  di:  sgiunti.   Allorché  dunque  qualcuno  trae  a  se  due  o  tra  /  astanti,  commette  una  specie  di  furto  verso  gli  altri,  poiché  li  priva  del  piacere  che  produrrebbero in  essi  le  persone  spiritose  e  gioviali  ch'egli  '    rapito.  Egli  stesso  debb'essere  riguardato  come  un  disertore  od  un  contribuente  moróso.  È  un  fatto  dimostrato  dall'  esperienza,  che  le  scosse  sensibili  s'accrescono  comunicandosi,  atteso  la  forza  sussidiaria  che  loro  presta  l'immaginazione  degli  astanti. Quindi  una  celia  che  fa  ridere  quattro persone  in  un  grado  come  quattro,  ne  fa  ridere dodici  in  un  grado  come  cinque  o  sei.. Inoltre,  se  assistono  XII  persone  al  discorso  del  parlante,  con  maggior  cura  ed  attenzione  egli  svolgerà le  sue  idee  di  quello  che  se  assistessero  quattro  solamente. Allorché LA CONVERSAZIONE è generale, un fatto qualunque, esposto da chi parla, va ad agitare XII immaginazioni, nelle quali sì trovano associate altri fatti e diversi in ciascuna. Dunque  si  deve  sperare  maggior movimento  NELLE IDEE CHE ALIMENTANO LA CONVERSAZIONE e  maggior  varietà. Se  in  vece  di  XII  persone  (numero  preso  per  ipotesi),  gli  astanti  fossero  di  più,  i  crocchi  a  parte  sarebbero  meno  condannevoli;  giacché  ammettendo  gli  accennati  vantaggi  della  CONVERSAZIONE GENERALE,  bisogna  anche  ammettere  che  in  molti la voglia di parlare è  vivissima:  e  che  questa  meno  NELLA CONVERSAZIONE GENERALE resta  soddisfatta che  ne’ crocchi  parziali.  D'altra  parte,  QUANDO LA CONVERSAZIONE è  troppo  numerosa,  scema  in  alcuni  l'allegrezza, perchè  scema  la  confidenza.   È  cosa  rara  che  LA CONVERSAZIONE resti  generale,  i  allorché  in  XII concorrenti  si  trova  più  d' una  donna;  giacché  ciascuna  diviene  centro  particolare,  intorno  al  quale  parte  degl’astanti  naturalmente  si  unisce.  Ho  detto  è  cosa  rara,  poiché  non  é  certamente impossibile  che  una  speciale  gentilezza  nelle  donne  si  sforzi  di  prevenire  la  divisione.    V     %  Z/parlare  motti  insieme^  '   V  v  '  ^  IMa  lsto^^      idi  tàiite  :   '  »,'Vòcr  distordf  e  gareggianti  iiisiéme   »  Pur,  ua  senso  accoppiar?  Tutti  ad  un  tén^o;   »  VoglioB  la  boeèa  aprire'  é  n^n^  i^/^  ^  "  Affastelfano  insieme.  Quanti  argomenti. Ad  ua  sol  puQtot  AKri  di  cuCQe  ed.  «tiri  «failli  ragiona:  Qui  ài  iMe;;    ^si  contrasta^  e  la  quisti^ja  si  .  cribra  '  r-^»  Con  oàikktò  ttpljcàre  altertm  '   v  vf  .  r"  ^ Di    e    no.  Di  trenta  voci  acutaV/f  -Stridule,,  rauche,  reboanti  e  gravi,;     V  DIssoiiaQti  tra  ior  odi  lin  eóiifiise  : ì  ».  Frastuono  ingrato  di  parole  e  d'^rK,  '  .1»  fìi.  tumulto  e  di  «tiMa^^nde    T^ta  *;  Concava  echeggia  e  riinbombahdò  à&sorda,  »    civile  modestia  ed  il,  buon  senso    i^  v  /  y>  Lèi  ift'iifi  àngolo  stringono  le  labbta E  Storditi  ai  tarano  gli  wecchl  ».  /   f^iimando  ii^Iti^fBirJdiio  Jnsiemip  i  Yh9^wf»à'  d'M^ .   gara  per  superarsi  a  yieè(ida,  «.tpro^\irii^^^  4'a8sor49tffe:^gli  ^istanti^   >     A  >  ?  :ì *  /.  Ili  alcuni  SI  uniscono  tré _d[i|etti  ',   1 .  La  sfnania,  di  int^rrpmp^e  glt  alt^i^; jlk  X'impazkiDza  di  seiitìr  Hiténrétii  .m  stessi;  '   a.  La  pretensione  che  gli  alJLrì  uoa  siano 4istratti>  «lontre  es^i  li  aiuioiaiiò. Allorebò  iiHrfli  parlano  insieme  .  '   L  Si .  stancano  i  iK>liuoni  f  gli  iBSofi^  d0'  par-!  istori'}'- V.  \  ^  V t'O'V.  \ I  &i  annoiano  gii  astanti  con  un  fraatiMno  in* intelligibile;   Si  è  costretti  a  ripetere  più  volte  la  stessa  cosa;   Si  afferrano  male  le  idee  altrui. Si  oonsuma  tempo  e  fasica  a  combattere  delie  eliimére.   Siccome  poi  si  parla  per  piacere  o  istruire,  non  j)er  fajr  pompa,  4i  cognizioni»  quindi  allorché  Taltrui  impazienza  ci  interrompe,  è  miglior  consiglio  lasciarle  libero  il  campo,  e  tacere,  di  quello  che  battere  inutilmente  gli  orecchi  di  chi  non  vuole  ascoltarci  CO*    L’imp^iua  e  la  vivacità  che  domìDano  mi  carattere  della  Jiazlone  francese  r  assoggettanó  al  difetU  accenùaU:  mi  testo.   Cornino^,  riportaiado  B  Trattato  di  VERCELLI Vsegnato  ft  40  oUobi^  4495  tra  Carlo  VILI   e  gli  Ualiani,  osserva  come  un  tratto  caratteristico  dello  spirito  francese  la  suania  di  paelare,  per.  cui  molte  («rsone  parlando  insieme  ed  alzando  a  vicenda  la  voce  ^  nesaùna  é  realmen^  inte^.  AH*  opposto,  egli  aggiunge,  degl’italiani  nessuno  parlava, 'ftioréhè  il  duca Lodovico,  il  quale  perciò  dice  ai  francesi :  Gii  I  ad  uno  ad  uno.   le  memorie  dell*  Accademia  francese  hanno  conservato  per  IradlikHQé  no  moUirdI  If^ miran,  R  quale,/oireso: piò  d'ogni  aHeo  dell'aeeennato  difetto,  disse  un  giorno  seriamente  a' suoi  confratelli:  Signori,  io  vi  propongo  di  decretare  che  non  parleranno  qui  più  di  quattro  persone  Insieme    forse  così  riusciremo  ad  intenderci  1  !  Un  francese  diceva  a  numel,  vescovo  di  SaUsboiy/  oMe  il  fàesi  eei^Uisini  eea  stola  cosa' molto  merìtosia  per  cjH'Imglfeaf)^  non  potendo  essi  die  difficilmente  rinunziare  ad  un  pezxo  di  manzo.  Al  che  iiurnet  mpo.se  :  Non  è  men.  meritoria  per  voi  altfi  francesi,  atteso  la  legge  del  silenzio. y  .i^co  L.Allegrezza  clamorosa.   Un  grado  moderato  di  sale  rende    vivande  gradite  a  tutti!  palati  :  i  gradi'  maggiori,  1  quali  non  riescono  piacevoli  che  a  poeliissimi,  estinguono  Tappetito  negli  altri*   L'allegrezza  moderata  nelle  conversazioni  passa  facilmente  d' animo  In  animo   ed  è  accolta  con  lieta  fronte  da  tutti.  L'allegrezza  clamorosa  si  comunica a  pochi,  e  spesso  muore  sul  labbro  di  chi  Tolle  eccitarla*   Del  quale  fenomeno  tre  sono  le  cagioni. 1 .  I  caratteri  freddi  non  essendo  suscettivi  d'aU  legrezza  clamorosa,  s'armano  contro  di  essa  e  le  oppongono  la  reazione  deirindifferenza.  '   L’ allegrezza  clamorosa  dipendendo/ da  un  ino4o  particolare    vedere  le  cose,  alquanto  strano,  6  spesso*  da  ^ccolezza  di  spirito,  i  ^'arett^  ragio*  nevoli  e  sensati  non  possono  approvarla.  L'jiUegrezza  moderata  più  facilmente  che  la  clamorosa  si  coniiunica  agli  ^stariti,  perchè  dista  meno  dallo  stato  abituale  degli  spiriti.   Qualunque  sieaa  te  dause  deli'  accennale  fono*  meno,  egli  è  fuori  di  dtfbbio  che  se  V  allegrezza  moderata  fopienta  ta  CONVERSAZIONE,  l'allegrezza  clamorosa  tènde  ad  estinguerla,  e  la  cosa  non  può  ^essere  altrimenti;  infatti,   U  Durairte  lo  scoppio  dfille  risa  smodate  ma  potendosi  comunicare  agli  animi  i  moti  d'  un  aU  legrezza  piti  mite,  tutti  quelli  che  non.  parteoi|iane  aHe  prime,  si  veggono  'ditfraudaft  de'  secondi;  quindi  mentre  alcuni  ridono  a  piena  gofà,  restano gli  altri  atteggiati  a  sprezzo  o  sbadigliano;  essi  provano quell'ingrata  sensazione  che  prova  chi  attento  al  dolce  suono  dell'arpa  viene  im;«rovvisainente  assordato dal  rumore  delle  campane.  Dopo  lo  scoppio  di  risa  smodate  succede  una  serietà  agghiacciata,  come  dopo  un  fuoco  d'artifizio  ci  sembra l’oscurità  più  profonda.  Un'allegrezza  clamorosa  ci  balza  improvvisamente  fuori  di  strada,  e,  per  così  dire,  sopra  un'eminenza,  ove  non  sappiamo d'  onde  siamo  venuti,    dove  dobbiamo  andare;  da  ciò  poi  la  serietà,  il  silenzio,  qualche  esclamazione,  e  la  difficoltà  di  riprendere  il  filo  di  ameni  discorsi.   L' allegrezza  clamorosa  non  comunicandosi  agii  altri,  ed  assai  pochi  essendo  capaci  di  rianimarla,  quegli  che  la  eccita  si  trova  nella  necessità  di  farne  tutta  la  spesa;  quindi  se  vuole  restare  sulla  scena  è  costretto  a  rappresentare  il  personaggio  del,  buffone. L'  allegrezza  moderata,  figlia  d' una  buona  coscienza,  animata  da  un'  immaginazione  ridente,  trova  facilmente  motivi  d'innocente  trastullo  e  dignitoso sorriso  nelle  scene  morali  esposte.  L'allegrezza  clamorosa,  figlia  talvolta  dello  stravizzo, talvolta  d'un  immaginazione  irregolare,  per lo più d'una sensibilità ottusa e piccolezza di spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza,  trova pascolo nella goffa derisione degli astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti  sguaiati,  plebei,  vHlanì. Loquacità eccessiva. LA CONVERSAZIONE è COME UN’AZIENDA COMMERCIALE; ciascuno dee pèrvi il suo caratlo e ciascuno partecipare al prodotto. L’uomo  che  tace  sempre IN UNA CONVERSAZIONE è  uomo  che  vuole  essere  a  parte  del  prodotto  senza  essere  carattista.  L’uomo  che  parla  sempre  è un  jearattista  che  vuole  tutti  i  prodotti  dell’azienda.   In  generale  NELLE CONVERSAZIONI  ciascuno  ama  meglio  spacciare  la  propria  mercanzia  di  quello  che  acquistare  l’ altrui;  e,  in  vece  di  formarsi  giusta  idea  degl’altri,  aspira  a  darla  di    stesso. Agitati  dalla  smania  di  parlare,  non  pochi  bramano di  comparire  sempre  alla  tribuna,  senza  volerne mai  discendere. Quindi  vi  tengono  discorso  su  di  tutto,  d'  un  libro  nuovo  dopo  la.  lettura  di  quattro  ò  cinque  pagine  a  salti,  d’una  nuova  macchina  dopo  d'averne  veduto  un  pezzo,  d’un  quadro  dopo  d'averne  ammirata    cornice  ccCm  e  decidono  e  sentenziano  senza  interruzione,  simili  al  giudice  d'Aristofane,  che,  chiuso  in  casa  dai  parenti vuole  almeno  dar  sentenza  tra  due  cani. GOZZI fa  il  seguente  carattere  dell'imperlerrito  parlatore.  SIgpor  jS.  N.  y  a  penai  la  algaoria;  vostra  «ente  un  cct»  stailo,  un  luteo,  o  un  ebfeo  a  oomlnclaM  uara^hmar  »  mento,  eh'  ella  si  scaglia  ìà^  e  glielo  rompe  a  mezzo  col  dire. La  non  é  così. Io  so  l' ordine  delle  cose,  e  ve  la  D  iUcò  lo;  e  dàlie  dàlie  dàlie,  non  la  finite  più,  tornando  Gir  irteoiiTenienti  a  coi  va  incontro  uu  uomo  che  parla  troppo,  sono  i  seguenti:    molte  volle  da  capo,  con  molle  cosette  di  mezzo,  clje  sono  uno  sfinimento,  come  sono,  per  esempio,  que'vostri  colori  »  r^ttorici  :  E  dov'  era  io  oca?  Ah  sì.    toeno  due  passi  indietro:  e  la  fu  da  rìdere,  e  verbi^eazlai  ecceleira,  tanto  ohe  mm  lasciate  più  tirare  il  fiato  a poveri  drcaslanti. Così  quando  avele  assassinali  e  ammazzati  ì  primi  a  uno  a  uno,  eccovi  a  volar  via  di    in  qualche  cerchio  d'amici   -o  di  patenti,  clie  cagionana  de'fatU  lorO|  e  piombate  sopra   que  povereUi  come  un  uccello  di  rapina,  sbaragUandogliì  »  e  facendogli  andare  qua  e  colà  per  paura  della  furia  vostra.  M'  ha  dello  un  certo  maestro,  che  qualche  volta  andate  al suo  collegio,  e  che,  appena  entratovi,  stornate  i  discepoli  n  dallo  studio,  e  i  maestri  dall' insegnare,  parlando  di  dot*     tftoe,  di  scienze-,  d'armeggiare,  di  salière  U  cavallo,  e  di tutto  quelló  che  volete  e  potete,  si  che  nessuno  si  può salvare  dalla  furia  vostra.  Se  un  pover  uomo  prende    cenza  da  voi  per  andare  a  casa  sua,  e  voi  subito  volete  »  accompagnarlo  per  forza  come  se  foste  l’ombra  di  lui,   petseguitandoto  fino  In  sali' nscìo  e  sulle  scale,  e  nette  »  stante  ancoia.  Se  per  caso  si  narra  qualche  novella  per  la  »  citt;i,  voi  slète  come,  ma  rondine,  ora  qua,  ora  colà  a  »  dirla  e  ridirla  a  tulli  quanti.    giova  punto  eh'  altri  vi     iaficìsL  intendere  che  la  sa:  perche  voi  volete  cominciarla  »  a  dispetto  di  ttUU,  aggMtigendevi  anche  Im  proemio.  Parli late  di  predicatori,  dlmiàinoranenli,  di  battaglie,  del  vostro  »  servo,  e  delle  fmestre  di  casa  vostra  con  tanfo  tedio  di  chi  »  v'ascolta,  che,  appena  avele  favellato,  Tuno  si  dimentica     tutto,  Taibro  sbadiglia  sonniferando,  e  c'è  chi  vi  pianta    »  nel  meo»  Aet  ragionamehto.  Siccliò  se  vi  trovato  con  uno  »  ch*ahliis  '4a  sedere  .a  un  magistnito,  a  una  predica,  a  »  mensa,  a  una  commedia,  siete  cagione  che  slede  mezz'ora  A  dopo  il  bisogno  alla  sua  faccenda.  E  credo  che  piuttosto  »  vi  contentereste  di  morire,  che  di  non  superare  il  cicalat'  mento  delle  gasze,  de'  pi^papHii  delle  rondini,  e  di  quanto    Egli  affatica  i  suoi  polmoni. É  spesso  costrétto  a  ripetere^  le  stesse  cose  il  che  cagiona  noia  agli  altri  e  svela  i  limiti  del  suo  «pirUo  S'espone  a  dire  degli  spropositi  vc^ndo  parlare  di  cose  che  non  gli  sono  familiari^,  e  dimostra  di  non  saperne  alenna,  giacché  quelli  che  sisinno  una  cosa  bene  si  astengono  dal  parlare  di  quelle  che  ignorano. Offende  quelli  che  vorrebbero  parlare  in  vece  di  lui  (2>; «  bestie  Gidiio, schiamaizo.  Oh  |^  é  puie  un  eraii  peccato  »  a  non  aver  (ante  gole  quante  canne  hd  l'organo,  da  poter cavar  fuori  le  parole  da  tutte  1  Basta  cbe  siete  i^unto  a  Il  tale,  che  non  v  Imporla  più  che  ciascheduno  si  fugga  da  »  vqL  cpme  da  un  can  guasto,  e  cbe  fino  i  fanciulli  di  casa  »  vostra  si  ridano  di  voi:  petclièquando  la  sera  il  sónno comincia  ad  aggravarli,  vi  pregano  a  contar  lo;o  qualche  i)  cosa  per  dormire  più  presto. Saggio  e  cauto  ad  un  tempo j  e  spesse. voHe  Timido  un  poco,  lentanijenle  sffgno  . Dà  di  stia  decisloa  uom  che  ben  vede,  E  in  brevi  detti  ognor  spiegarsi  agogna^  Clii  ragiona  a  proposito,  di  rado,    S'allarga  ragioiUMiKlo ma  la  folle  .  SupecUa  )  che  a  scloe&bezza  si  cong^mge  Si  diffonde  In  loquela  ^  e  s^gue  solo,  I.  suoi  fantasmi  ^  e  a    paria  e  risponde.   E  alcuni  altri  tanta  ingordigia  hanno  di  parlare,  che  non  lascian  dire  altrui.  E  come  noi  veggiamo  taUolki  su  »  per  r  aie  de’  contadini  X  un  pollo  torre  la  spLca  di  becco  %  atf  allvo;  ^^osl  cavano  costoro  i  EagtonaoieiiU  di  bocca  a  colui. che  li  cominciò,  e  dicono  essi.  E sicuramente  che eglino  fanno  venir  voglia  altrui  d'azzuffarsi  con  esso  loro.  Rende  gl’altri  più  severi  nel  giudicarlo. Impedire  la  diffusione  di  idee  migliori  delle  sue;   ?•  Svela  talvolta,  per  procurare  alimento  al  dìscorso,  ^11  altrui  segreti. Quindi  si  mostra  indegno  e  si  "pfwù  deirallrui  confidenza. Dimentica  spesso  la  convenienza,  non  ha  riguardo al  caratterie  delle  persone  con  cui  i^rla,  al  luogo  In  cui  si  trova  alla  situazione  degli  animi.  Per concentrare  in    viémmargiormente  gli  altrui  sguardi,  balza  in  piedi,  molti  gesti  facendo  colle  mani  e  col  capo;  e  se  qualcuno  ardisce  non  di  t»orre  in  dubbio  la  di  lui  infallibiUtà,  che  verar  mente  la  sarebbe  un'impertinenza  senzjj  pari,  nia  perciocché  «e  tu  guardi  bene,  ninna  cosa  muove  Y  uomo   piuttosto  ad  ira,  die  quando  d' improvviso  gli  è  guasta la sua.  voglia  e il suo  piacere,  eziandio  minimo;  siccome  »  (|umd0  i^  avrai  aperto  la  bocca  per  isbadii^re,  e  alcuno  !>'    la  Cura  con'  mano,  ò  quando  tu  liai  alzato  il  braccio  «  per  trarre  fa  pietra,  e  egli  l' è  sùliitamente  tenutò  da  colui, che  V  è  di  dietro. Ecco  l'origine  del  pedanlimo:  quegli  è  pedante  che,  s(M*gendo  io  .piedi  ed  alzando  una  voce  magnale  e  dura  »  detta  le  sue  opinioni  e  pronuncia  l&  sue  sentenze  eoi  tuono  che  adopera  il  maestro  di  scuola  co' suoi  scolari. Pedantìfimo  si  dice  anche  rusò  troppo  frequente  e  inopportune delle cognizioni tecniche pella conversazione  ordiiiìarte,  e  lapresunzione  ebe  ravvisa  in  esse  importanza  eccedènte ;  quindi  i  seni-détll  Geminano  ^ppertutlo  H  lor6  .falso  sapere,  allegano  Platone  e  S.  Tommteo  in  eosii  ebe  ai  accertarle  ba«ta  Tasserzione  d'un  facchino.   Pedantismo  finalmente  s'appella  un'  eccessiva  severità  ed  uu^ndeféssa  affettazione  nella  scelta  delie  parole  e  delle  frasL    solo  di  fargli  qualche  obbiezione,  esso gli volta gentilmente le spalle sorridendo tra sè dell'altrui dabbenaggine, o gli risponde alla maniera della Pitia la quale furiosa mostravasi allorché non sapeva come sottrarsi  ad  una  dimanda  importuna.   Questi  eterni  parlatori,  per  lo  più  teste  superficiali,  e  talvolta  prive    senso  comune,  affettano  di  sapere  ciò  che  non  sanno,  d'intendere  ciò  che  è  superiore  alle  loro  cognizioni,  di  possedere  ciò  che  loro  realmente  manca.  Si  tratta  egli  d'una  notizia?  essi  la  sapevano; d'una  scienza? Thanno  studiata; d'un  fatto  straordinario  ?  ne  sono  stati  testimoni; d'  un  giuoco  ?  i'  hanno  insegnato  al  loro  nonno,  ecc.:  e  per  voglia  di  comparire  istrutti,  allontanano  da  essi  l'istruzione.  Chi  ha  poco  senno e  dovrìa  starsi  ignoto,  Vuol  far  tutte  le  carte  in  compagnia  :  »  In  simile  maniera  un  carro  vuoto  )'  Fa  il  fracasso  più  grande  per  la  via  ».  La  loquacità  presuntuosa  de' giovani  è  una  conseguenza necessaria. Della  vanità  generale  comune  a  tutti  gl’uomini. Dell'educazione  particolare,  supposta  scientifica, e  veramente  insensata  che  ne’ prim’anni  della  loro  giovinezza  ricevettero.   Siccome  ciascuno  procura  di  mostrare  ricchezza  collo  sfoggio  degli  abiti,  così  molti  procurano  di  mostrare  spirito  collo  sfoggio  delle  cognizioni.  Essi  crederebbero  d'aver  perduto  tempo  e  fatica  se  aprisserola  bocca  senza  aver  detto  qualche  cosa  spirit,.cT    Volendo  presentare  tratti  ingegnosi  e  superare  l’altrui  aspettazione^  fanno  degli  sforzi  che  tormentano  gl’astanti,  e  ad  essi  fruttano  ridicolo.  Presumer  vanto  di  sagacé,  arguto»  E  senza  aver  punto  di  sale  in  zucca, Imprudente  mostrarsi  e  linguacciuto  v.   Rendere  eunuco  V intelletto  e  feconda  l’immaginazione tale  era  il  problema che si proponevano grinstitutori  nello  scorso  secolo. Un  sonettino,  una  canzoncina,  un  po' di  latino,  uno  sche-T*  letro  cronologico  detto  storia,  un  elenco  dei  nomi  delie  città  e  de’ fiumi,  chiamato  geografìa,  ecc.,  in  somma  parole  e  poi  parole,  e  non  mai  cose,  èò*v,.^.  stituivano  il  capitale  intellettuale,  l'immenso  fogliame senza  frutti  che  i  giovani  compravano  s  caro  prezzo.   Abituati  ad  accettare  parole  senza' conoscerne  IL SIGNIFICATO nelle  prime  scuole,  accettarono parole IN FILOSOFIA senza  corrispondenti  idee. Si  pronunciando per es., le parole mistiche di KANT, redetterjo di essersi innoltrati nella scienza dell'uomo;  e così  dite  di  tanti  altri  sistemi  cui  la sola  magìa  delle  parole  e  Tbitudine  di  ammetterle  r'^  senza  esame  acquistarono  rinomanza.  Quindi  LE CONVERSAZIONI brulicarono  di  cianciarelli,  che, essendo verbosi, credevano d'essere eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere si lusingarono e d' istruire. Ma  fatai  cosa  eli'  è  ch'ove  più  abbond)a  Un  bel  parlare,  ivi  la  specie  umana    Sia  seccatrice  almen  quaut'  è  faconda  ti  dono  di  parlare  con  facilità  e  prontezza  è  cosa pregevolissima,  e.  non  può  essere  Irascui'alo     doq  da  chi    PITAGORA,  ìper reprìmere ne*  giovani  I  '  eccessrvà'^  loquacità,  esige  da' suoi  discepoli  un  assoluto silenzio  ne V  primi  anni  delle  sue  lezioni;  il  che  era  spingere  le  cose  all'  estremo  opposto,  e  spezzare  il  ramo  per  raddrizzarlo.  Più  saggia  Tao-tìca  cavalleria  diceva  a'  suoi  seguaci:  Siate  semjore  l’ultimo  a  parlare  in  mezzo  agl’uomini  che  vi,  superano  in  età e  il  primo  a  battervi  alla  guerra.  Non  arrogarti  dunque  il  diritto  d'eterno  parlatore,  ma   «  Solo  i  tuoi  detti  nel  comun  discorso  »  Ifitreccia  a  tempo,  e  in  un  civile  e  cauto  »  Le  tue  parole  e  il  tuo  silenzio  alterna. Colui  che- si  finge  dotato  di  cognizioni  che  non  ha,  perdi il diritto  d’essere  creduto  negl’affari   sociali.  Volendo  mostrare  troppo  spirito,  si  resta  caricati  di  TUTTO IL PESO DELLA CONVERSAZIONE,  e  si  perdé  in  affetto  ciò  che  si  acquista  in  ammirazione;  gidoo  ^    ignora  che,  per  convìncere    spirilo,  spesso  é  forza  sedurre  le  passioni  che  gli  fan  siepe. Ma  questo  dono  per  se  stesso  ilion  è  sicuro  indizio  di  profondo  pensare.  Parecchi  buoni  spiriti  non  riescono  a  svolgere  le  loro  idee  fuorché  col  mezzo della  meditazione;  ed  è  stato  osservato  che i filosofi  non  sono  quelli  che  brillano  di  più  ne'  crocchi  sociali.  Ne'  discorsi  di  ROUSSEAU neppur  l’ombra  scorgevasi  di  quello  stile  che  ne'  suoi  scritti  si  ammira.   NICOLE,  uno  de'  primi  scrittori  del  XVn  secolo,  stanca quelli  che  l’ascoltano. Perciò  egli  dice  del  sig.  TREVILLE,  U  quale  parla con  facilità:  Egli  mi  batte  rulla  camera  :  ma  egli  non  è  g^cora  in  fondo  deHa^caìa  eh  io  V ho  confuso,  t    4t&l   chè,  generalmente  parlando,  gli  uomini  non  amanq '  quelli  che  li  offuscano.  >   -^pm  >  ^Allorché  non  avete  argomento  interessante  da  proporre,  la  civillà  vuole  che  vi  astenìate  dal  parlare,  in  vece  di  mettere  alla  tortura  l'altrui  pazienza con  puerili  e  non  gradite  scempiaggini.  Perciò  r  abate  S.  PIERRE,  il  quale  non  discorre  gran  fatto  NELLA CONVERSAZIONE,  non  per  sterilità    per  disprezzo,  ma  per  tema  d'infastidire  i  suoi  ascoltanti,  dice. Quando  io  scrivo,  nissuno  è  obbligato a  leggermi. Ma  quelli  ch'io  vorrei  costringere ad  ascoltarmi  si  darebbero  la  pena    farne  almeno  le viste,  ed  io  la  risparmio  loro  per  quanto,  posso.  Inoltre  chi  vuol  parlare  di  ciò  che  non  intende,  al  quasi  certo  rischio  si  espone  di  guadagnarsi il  titolo  d'ignorante.  Quindi  l'abate  Choisj',  il  quale  non  era  dotto,  ma  lontanissimo  dal  volerlo  comparire,  scrivendo  ad  un  suo  amico  sulle  sue  CONVERSAZIONI o  sul  suo  silenzio  coi  dotti  missionarii  che  nella  sua  ambascerìa  egli  aveva  ritrovati  a  Siam,  si  esprime  così.ii^^  Io  occupo  un  posto d' ascoltante  nelle  loro  assemblee,  e  mi  servo  sempre  del  vostro  metodo  :  una  gran  modestia  e  nissun  prurìto  di  parlare.  Quando  la  palla  mi  viene  naturalmente,  e  ch'io  mi  sento  istrutto  a   fondo  della  cosa  di  cui  si  tratta,  allora  mi  lascio  »v forzare,  e  parlo  piano,  modesto  egualmente  nei  D  sono  della  voce  che  nelle  espressioni.  Questo   metodo  fa  un  effetto  mirabile,  e  sovente,  quando  non  apro  bocca,  si  crede  ch'io  non  voglia  parli lare,  mentre  la  vera  ragione  del  mio  silenzio  si è  un'ignoranza  profonda  ch’egli  è  pur  bene  di nascondere  agli  occhi  altrui.   tjttl^  ^ Da  qiiesta  modesta  confessione,  soggiunge  d^A^^.  lembert,  si  raccoglie  che  l'abate  Choisy  non  rassomiglia  certi  ciarlieri,  i  quali,  presi  dalla  manìa  di  parlare  di  quanto  ignorano,  meriterebbero  la  risposta  che  un  artista  greco  fece  nel  suo  laboratorio  ai  ridicoli  sragionamenti  d'un  dilettante:,.  Guardatevi  dal  farvi  sentire  da' miei  scolari. Infatti  parlano  costoro  con  leggerezza  tale,  che  spesso  l'uomo  pulito  si  astiene  dal  far  loro  un'obbiezione  per  tema  di  vederli  ammutolire.  I  chiacchieroni  si  fanno  tacere  col  non  dar  retta  ai  loro  discorsi,  come  appunto  un  suonator  di  violino  ferma  i  danzatori  cessando  di  sonare. Co?itimcazione  dello  stesso  argomento. La  loquacità  eccessiva  è  un  difetto  che  i  moralisti  sogliono  rimproverare  al  bel  sesso.  Quindi  essi  dicono,  che  mostrare  molto  spirito colle  donne  non  è  il  miglior  mezzo  per  conciliarsi,  il  loro  animo.  Una  dama  d'alto  tono  che  si  era;  I,     scelto  per  amico  un  uomo  di  beli'  aspetto  e  di  molto  spirito,  gli  disse  un  giorno  che  poteva  ritirarsi,  perchè  ella  non  ama le  persone  che  parlano  troppo.  .    vFin  dal  pergamo  fu  rimproverato  alle  donne  ' l'accennato  difetto  :  un  predicatore  parlando  avanti  I  UA  consesso    monache  nel  giorno  di  Pasqua/   I  diede  loro  ad  intendere  che  Cristo  risuscitato  coin '  parve  alle  donne  prima  che  ai  discépoli,  acciò  la   nuova  della  sua  risurrezione  più  rapidamente  si  diffondesse.   i  11  suddetto  difetta  potrebbe  essere  confermato dall'uso  delle  donne  negre  della  riviera. di  Qs^m  d  j    tot.  le  ^uaH  essendo  applio^tisshne  ai  labori;  glioBO,  a  fina  ^'^fitace  hi  maldicdiusa  0  i  diseoiti  inutili,  empirsi  la  bocca  d'acqua  mentre  lavorano..   La  leqoacità  dette,  domiet  seoondo  che  io  ne  giu«  dieé,  a  due  Ani  d^lta  fimportanzia*  éorridi^nde.   L'uno  si  è  che,  essendo  é$$e. te  prime  educa-triei  éé  faneiiilll')  detona  esiereltttfe  te  fero  .tenere^  orecchie  con  un  cicaleccio  continuo,  e  imprimere  Ìb  ^ue'édb^li  cernili  oiolte  tracce  ideali,  che  senza,^  questo  soccorso- diffleHmente  Vi  «gioirebbero.  '  .'1)  seeogdq  si,  è  .  che,  essendo  esse  destipate  a  «ìMi^iEnfel^ra  aspra  la  vita  airaomo,.  dover*   vano  essere  dotate  d'una  sensibilità  squisita  che  a  lotti  ì  di  lui  affetti  prontamente  si  risentisse,  e  della  facoltà  d'  insiniìàVs^  gqrbo  nqf  di  l«i   allibo,  ìi|jtrattenerlo  oaa  sentimentale  colloquio  ed  àHeirtariiét    pene:  tton  saprei  ben  dire  se  questo  sia  il  motivo  per  cui  generalmente  le  donne  superbie gli  n^minLoella  gra^^ia  della  voce  e  del  canto.   GIOVENALE,  come  tanti  altri  poeti  dopo  di  lui  v  ha  eensurato  la  loquacità  deUe  donne  letterate  ne',  segufati^'veirn:  .  SI  tosto,   ^  '  i>  T'assidi  a  mensa,  essa  1^  mensa  in  scuola^.  »  EcQO  ti  cangia  ^  é    sentenze  e.-npr|Be,  /  »  Loda  il  cantor  d'Enea,  s'intenerisce. Per  la  pQv.era  Elisa  ^  i  due  poeti  '  '  »  Mette  al  paraggio;  a  ima  bitaneia  appende,  »  In  un,  gùscio  Maron,  neir  altro  Òmero.  »  Orammatici,  rettorìd,  seolastiei  «.^    i>  Ite  a  rfporvi  :  i  convittor  son  muti PiissuQ  fisponde;  e  chi  tentar  latria  .    s  ;    »  D'arresUrue  la  foga?  Un  avvócatd,     y  B'altre  donne  uno  stuol;  tal  dalla  bocca  <  Vei^  (NTi^vio  ^  parote^  e  tale   r-Stridor  mòtesto;  e  tintinnìo  di  voei^ Che  un  picchiai  di  patini  e  cauipaneU.!  '  »  D'udir  ti  sembra  i  »rrà  piHtrìa  sot;  .)i  Senz' altra  aggiunta^  di  caldaie  o  trorobe. Recar  ^eoisso  ^ti!  ii^iHuitata  inaa  «^t»  .  Qnestà  gairrulita  è  condannabile  n^lle.dQnàè  gualmente  che  iiegli  uoinini  i.  e  ciò  che  Aiolièjre  ba  detto  nella  sua  commedia  cóntro  le  donm  sac^  cenli^  ai  saccenti  in  generale    applica.  La  noia  cheviene  prodotta  dalla  loquacità  noq. scema  in  milione  della  barba  di  chi  parla,  meatre  air  opposto un  bel  detto  cresce  di  |^regio  se  esce  da  bel  labbro. TaciturnUà.,   lia  storia  d' Atene  e  di  Sparta  due  estremi  -ci  piTe^nta  nel  modo  di  parlare.  Gli  ^Ateniesi  érana  talmente  invasi  dalla  manìa  ciarliera  ^  cbia  lunghe  dissertazióni  dicevano  so|tfa  Inezie,  vi  spiavano  dottamente  in  quanti  modi  può  eseguirsi  una  CAvriola,  parlavano  ad  alta  vo((e  in  pub|ilic0|  disputavano per  le'  strade,  si  fermavano  eui  mereati,  e  ricoveravansi  sotto  d'un  portico  per  risolvervi  dQ*  problemi  nel  modo  più  rumoroso.  Plauto  li  de scrive  in  atto  di  portare  sotto  le  pieghe  del  loro  manto  pateechi  libri  per  convincere  i  loro  avver-»  Mrii  eon  assiomi  e  sentenze  decisive.  Gli  SpUrtUfir-all'opposto  erano  più  silenziosi  delle  pietrcr    Disapprovando  la  verbosità  degli  Alenicsì  e  la  V  taciturnità  degli  Spart.an?,  condannerò  con  maggior  y  ragione  il  laconismo  degli  ultimi,  i  quali  non  ri|  >^'1^pondendo  che  con  monosillabi,  lasciavi^no  scor^  '^gere  un  orgoglio  offensivo..  Filippo  re  di  Macedonia  avendo  scrìtto  agli  Spartani  che  avrebbe  fatto  i   le  sue  vendette  se  entrava  nel  loro  territorio,  que^  Bti  aljro  non  risposero  se  non  che  Se.  Gli  stessi Spartani  scrivevano  lettere  molto  laconiche,  cioè  H  impertinenti;  ma  dacché  furono  compiutamente.    'i. i  battuti  a  Leutre,  cominciarono  ad  allungar loro frasi.  Son  io,  diceva  Epaminopda,  che  ho  inse^  guato  loro  questa  civiltà.  La  taccia  d'inurbana  data  alla  tacilurnilà  è  dun^  'ì'  ì  que  molto  antica,  e  con  ragione  /  principalmente  i  quando  son  le  persone  adulte  che  tacciono;  giacchè  se  è  necessaria  la  riservatezza  per  non  esporre  pensieri  che  poscia  si  vorrebbe  invano  rivocare,    non  fa  d'uòpo  spingerla  al  punto  da  rendersi  muto.  Una  persona  taciturna  nella  conversazione  è  una  persona  che  vuole  entrare  in  teatro  senza  biglietto  d'ingresso;  è  una  persona  che  vuole  godere  senza  contribuire.    Una  persona  taciturna  diviene  incomoda  per  più ragioni. Ella  arresta  la  comunicazione  de'sentimenti,  i  quali  sogliono  acquistar  forza  diffondendosi. Presenta  l'idea  d'un  censore  severo  che  semr  brà  accusare  gli  astanti  di  frivolezza. Eccita  una  diffldenza  non  favorevole  alla  giovlalità. Una  persona  chè  parla  ci  dà,  per  cosi  dire,  la  misura  delle  sue  forze  :  le  sue  idee,  i  suoi  sentimenti,  i  suoi  gusti,  i  moli  della  sua  fisonomia,  \a  qualità  de'  suoi  gesti  la  palesano  al  nostro  sguardo  :  noi  sappiamo  come  fa  d'uopo  regolarsi  con  essa.  All'opposto  una  persona  che  tace,  inspira difUdenza,  perchè  si  diffida  di  tutto  ciò  che  non  si  conosce.   D'altra  parte  non  si  sa  che  cosa   'possa  piacerle  o  spiacerle:  questa  incertezza  diviene  un  limite  illegittimo  alla  facoltà  d'agire  e  di  parlare,  quindi  è  penosa.  Finalmente,  siccome  nel   i^commercio  V  amor  proprio  d'  un  negoziante  resta  offeso  allorché  vede  rigettate  1^  sue  cambiali,  cosi  nella  conversazione  spiace  all'  amor  proprio  degli  astanti  la  vista  d'una  persona  che  non  corrisponde  alla  loro  allegrezza,  e  ricusa  d' accomunarsi  con  essi;  perciò  più  facilmente  viene  perdonata  la  frivolezza che  la  taciturnità. La taciturnità può essere prodotta da cinque cause. Mancanza  d'idee  o  stupidezza.  In  questo    caso  è  certamente  miglior  consiglio  tacere  qhe  parlare;  giacché  parlando  si  procurerebbe  spregio  a  se  stesso  e  noia  agli  altri.  Le  persone  taciturne  che  appartengono  a  questa  classe  sono  tollerate  "nelle  conversazioni  come  si  tollerano  nella  società  '^1  bisognosi  impotenti  :  la  pubblica  beneficenza  gli   alimenta.  Non  potendo  CONTRIBUIRE ALLA CONVERSAZIONE,  esse  devono  rappresentare  il  personaggio  dèlia  scimmia,  cioè  atteggiarsi  a  norma  de'seutimenti  che  si  dimostrano  dagli  altri. Diffidenza eccessiva di se stesso. Questa qualità si trova talvolta anche nelle persone di carattere amabile, e proviene da mancanza d' educazione e  di  pratica:  è  una  debolezza  che  merita  Indulgenza,  almeno  sul  principio,  benché  faccia  torlo  alla  società  privandola  di  molte  idee  utili;  dico  almeno  sul  principio,  giacché  un  po'  d'esperienza  dandoci  la  misura  delle  altrui  forze  e  delle  nostre,  questa  diffidenza  deve  sparire  se  non  é  unita  a  stupidezza,  ii» Scarsa  scienza  è  molta  vanità.  Alcuni  non  osano  di  contraddire  perchè  non  soffrono  d'essere  contraddetti;  la  loro  pazienza  non  é  che  un  timido  orgoglio;  il  loro  silenzio  é  un  mezzo  di  sicurezza;  essi  tacciono  per  non  esporsi  alla  censura.  /4.  Stolto  orgoglio.  L'amor  proprio  raffinato  e  tronfio  sdegna  di  prendere  parte  alle  frivolezze  della  CONVERSAZIONE,  e  di  comunicare  agli  altri  i  suoi  più  che  sublimi  concetti.  Si  danno  anche  uditori  disdegnosi  che,  per  non  accordare  leggermente la  loro  ammirazione,  ricusano  l'approvazione più  meritata. Malizia.  L'orgoglio  va  spesso  unito  a  cattivo  carattere;  quindi  il  silenzio  é  non  di  rado  effetto  della  malizia.  Ritornando  dalla CONVERSAZIONE, in  cui  non  proferirono  una  parola,  alcuni  passano  a  rivista  tutto  ciò  che  vi  fu  detto,  con  intenzione  di  censurare  i  discorsi  più  indifferenti;  osservatori  malevoli,  il  silenzio  de’  quali  é  uno  spionaggio  sempre  pronto  ad  abusare  del  vantaggio  che  le  anime  false  e  fredde  sulla  franchezza  e  la  veracità  agevolmente  ottengono.  Fu  dimandato  a  M.r  Fontanes  9  celebre  matematico,  che cosa  faceva  nelle  CONVERSAZIONI ove  slava  sovente  taciturno:  Sto  osservando^  diss'egli,  la  vanità degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un filosofo! Alcuni  finalmente  non  sono  taciturni  nelle  CONVERSAZIONI, ma  misteriosi:  essi  dicono  alcune  cose e  poscia  troncano  il  discorso  con  aria  d'importanza  e  mistero.  Questa  condotta  è  doppiamente  censurabile;  giacché  da  un  lato  eccita  una  curiosità che  non  resta  soddisfatta,  dall'altro  fa  supporre che  crede  gli  astanti  inoapaci  di  silenzio  o  capaci  di  tradimento.  EGOISMO  #   r  ir   Se  alla  loquacità  s' unisce l’egoismo,  cioè  se  parliamo  sempre  di  noi  ste&i,  de’nostri  gusti,  delle  cose  nostre,  in  somma  di  quanto  ci  appar.tiene,  siamo  certi  d'annoiari gli  astanti  oltre  misura. È  difficile  di  ritrovare  un  viaggiatore  che  sia  sobrio  nel  racconto  de'suoi  viaggi;  un  cliente  delle  sue  liti;  un*galante  delle  sue  avventare»  ecc.,  .  senza  aspettare  che  l'analogia  delle  idee  guidi  il  discorso  ove  essi  vogliono,  taluni  parlano  della  loro  moglie  che  è  un'ottima  creatura,  de'loro  figli  cJiie  hanno  sortita  ìndole  divina,  de'  loro  maestri  che  sono  altrettanti  Socrati,  de'loro  affari  che  tutti  vanno  a  maravigliai  de'  loro  nemici  che  sono  il  fior  de'  birbanti,  ecc.  : u  Di  sé,  de' suoi  pernierà  de'  sogni  suoi  »  Perpetuo  citator,  storia  e  giornale  »  Invasi  da  questa  manìa  si  mostrano  spesso  i  gipvàni  poeti,  perchè  lusipgandf^i  facilmente  d'avere  composto  sublimi  versi,  vogliono  recitarli  anche  ai  sordi. inedtartoir  acerbo  »  In  fuga  volge  e  ignorante  è  1  dotto;   »  Se  poi  ne  abbranchi  alcunOf  il  tìen,  l'uccsMIe*    Leggendo  ognor;  mignatta,  che  la  cute  »  Non.  lascia  pria  che  ae  rilK)cchi  ii  saague. La  stoUem  e  la  vanità  giungono  talvolta  a  segno^  che  non  potendo  far  oggetto  dell' altrui  attenzione  te  nostre  heUe  qualità,  le  presentiamo  i  nostri  incomodi^ lenostre  .  debolezze  9  la  nostra  pusillanimità, e  talora  que'raali  che,  essendo  comuni,  non  meritano  speciale  riflesso.   «  i'  A  che  lai  lezzi,   Schizzinoso  mortai,  e  con  qual  dritto  '  i>  Pretender  puoi  d' esser  tu  solo  esente    Da  la  sorte  comnn,  come  se  fossi  r>  Il  figliuolin  della  gallina  bianca,    Moi  vili  polli  e  di  vii  uovo  usciti  ?  »   Cresee  r impertinenza,  se  alla  voglia  di  ptflmre  sempre  di  sè,  si  unisce  la  pretensione  di  superare  in  tutto  gli  altri.  A  sentire  qualche  stolto,  i  suoi  cavalli  ilono  più  veloci  di  quelli  d' Achille,  i  suoi  jiervi  più  avveduti  di  Ulisse,  il  suo  cuoco  più  sagace  d'Apicio,  ecc.  Il  sole  comprimi  ed  ultimi  raggi  saluta  il  suo  palazzo;  l'aria  non  è  pura  fuorché nelle  sue  campagne;  in  nessun  gianlino  olezzano sì  soavemente  i  fiori  come  nel  suo.  Chi  si  move  in  una  danza  con  maggior > garbo  di  lui?  Al  paragone  della  beHesza  non  potrebbe  egli  contendere il  ponto  alle  tre  Dee?  ecc.  Quindi  ora  pretende  al  sublime  onore  di  passare  prima  degli altri ;  ora  si  lagna,  perchè  non  pieghi  sino  a  terra  la  fronte  chi  gli  fa  di  cappello  ecc. I  suoi  vanti  giungono  sempre  alla  menzogna  quando  parla  con  persone  che  non  lo  conescono.  !  a  E  sei  miglia  lontan  dal  suo  paese  »  Tal  faceva  il  signor,  barone  o  conte.Ch'ivi  guardava  i  porci  per  le  spese  ».  f  ^  Siccome  gli  uomini  vogliono  più  applausi  die  istruzione,  inclinano  più  a  censurare  che  ad  applaudire;  perciò  comparir  nelle  conversazioni  più  di    occupali  che  degli  altri,  voler  primeggiare  sopra  tutti,  pretendere  di  singolarizzarsi  a  spese  altrui,  è  il  più  sicuro  mezzo  per  rendersi  spregevole e  ridicolo,  /j/vj .  La  smania  di  rappresentare  un  personaggio  distinto nella  conversazione  e  rendersi  lo  scopo  di  tutti  gli  sguardi,  è  il  difetto  principale  degli  uomini di  spirito  ^  i  quali  perciò  amano  meglio  talvolta di  conversare  con  persone  di  poca  levata  cui  possono  dar  legge  coloro  discorsi,  di  quello  che  ritrovarsi  in  crocchio  coloro  simili,  da  cui  temono  di  .riceverla;  cioè  preferiscono  d'essere  re  in  una  cattiva  compagnia,  alPessere  sudditi  in  una  buona.  Ma  solamente  una  vanità  puerile  può  compiacersi  dell'omaggio  di  quelli  ch'ella  disprezza. Due  donne  di  primo  rango  ti  movevano  querela^  pretendendo runa  suir  altra  il  passo  in  una  chiesa  y  e  assordavano colle  loro  dispute  i  tribunali.  Carlo  V,  per  impedire  le  cabale  .cui  poteva  dar  luogo  questa    seria  contesa,  stimò  a  proposito  di  farsene  arbitro,  e  decise  che  11  diritto  d'  andare avanU  apparteneva  alla  più  stolta  delle  contendenti.   L'abate  Testu,  dice  d'Alembeit,  dominava  principalnieDte  all'  Hòlel-Richelieu,  ovo  era  l'oracolo  e  l'amico  intimo    ^iqitif L'amore  disordinato  di  noi  stessi  ténehdoci  fissa  avanti  lo  spirito  V  idea  delle  nostre  qualità,  V  ingrandisce snrìisuratamente,  come  il  sol  eadente  ingrandisce l'ombra  del  nostro  corpo  e  la  fa  comparir gigantesca.   Può  essere  citato  sotto  questo  articolo  il  difetto  4i  coloro  che  la  loro  arte  o  professione  innalzano  '  sopra  tutte,  e  vi  mostrano  i  beni  immensi  di  cui  è  fonte;  e  vi  provano  con  cento  argomjenti,  che  se  sparissero  tutte  le  altre,  essa  sola  sosterrebbe  la,  società  cadente  e  le  darebbe  lustro.  Da  ciò  nasce  una  serie  indefinita  di  sgarbi,  di>spregi,  di  censure  alle  volte  ingiuste,  spesso  false,  sempre  ìmpulit;e.  Un  buon  prete   cui  confessavasi  Despréaux,  gU  dimandò  Qual  era  la  sua  professione.  Io  sono  poeta,  rispose  il  penitente.  Cattivo  mestiere,  replicò  il  prete  :  e  poeta  in  qual  genere  ?  Poeta  satirico. Amora  peggio;  e  contro  chifate  voi  delle  satire?  Contro  i  compositori  difxommedie  e  di  romanzC  '^^Òh  !  per  questo aggiunse  il  prete,  alla  buon'  orix;  e  gli  diede  fassoluzione  immediatamente.  In  conseguenza  delPaccennata  impulitissima  pretensione  Alcibiade  diede  uno  schiaffo  ad  un  maestro  di  rettorica,  perchè  non  aveva  un  esemplare  delle  poesie  d'Omero;  ed  un  altro  adoratore  di  questo  poeta  fece  voto  di  .   della  duchessa  di  questó  nome,  ^lìceome  egli  non  amava  d'essere  contraddello,  ma  molto  di  essere  ammirato,  perciò  gli  andava  poco  a  sangue  il  commercio  degli  uomini,  più  conlenlo  di  brillare  in  un  circolo  di  donne  che  talora  col  suo  dir  sorprendeva,  talora  adescava,  secondo  che  meno  o  più  gli  piacevano.,   t   leggere  Ogni  giorno  mille  versi  di  esso»  a  riparazione     tarli  gli  venivano  iattL  \Irritabilità  e  ruvidezza.   Lo  spirito  stizMso  è  ii  flagello  deH^^Niéi^tà'i  come  il  carattere  dolc«  ne  è  il  ba)san(M),.»Iiiriitàbilità  rende  deeuplo-'il.fientìmjeiito.ctolAh  supposta  offesa:  e  spesso  ha  fonte  neir ìntima  p^sijasiooe  di  non  meritare  alcun  riguardo.  Quindi  le*  peiisMe  più  ^irtilei)Ui  smé'  per  lo  fiià4e? teste  più  piccole,  più  vuote,  più  prive  di  qualità  reati."  Gcnìvinte  dqlla  ..kro  .BiiUftà.>  iMiinam  amdenl  scopo  dell'altrui  spre^?o,  e  si  confermano  in  questa  idea  ad  j^oi/miaima  eerknoma  che  per  ioavverf  lénaa  vengà  cdii  «ssè  traseuràta.^  Uina  parole  eftig«  gita  in  un  momento  di  calprCi- di  vivacità,  d'àlle^  grezza,  viene  da  ^se  esaotlnata  con  tutto  il  rigorè,  non  dico  della  logica,  ma  del  puntiglio,  staccata  da  quelle  circostanze  che  se  non  la  giostificanò  pienain6iite<  la^dimò^tranO'  figlia  pintlMto''4eH',  riflessióne  che  delio  malizia.  r^-r  I    L-esser  tenera  e  vezzo6CKaBìci»*(it  ditdiee  aseai;"  »:dicc  monsignor  della  Casa,  e  massimamente  agli  M.  i^omioi;  iNsreiocchè  l'osare  con  si  &tta  maniera  «:  di  pet*s0Be  non  pme  eompagnia-me  servitù  re  »  certo  alcuni  se  ne  trovano  ohe  sono  tanta  tenerr  '>  e  fragili  4,  che  il  viv.ere  e  dimorar  con  «asdoìfo,  »  ninna  altra  cosa  è,  che  impacciarsi  fra  tanti    »  sottilissimi  vetri;  così  temono  essi  ogni  leggier   '^ercosisé,  e  così  conviene  trattargli  e  riguardar*  »•  gli  :  1  qijali  così  si  crucciano,  se  voi  non  foste  1*  così  pronto  ^  fioUeeìto  a  sduladii  a  visitarli,  a  »  riverirli,  ed  a  risponder  loro,  come  un  altro*.     farebbe  d'un'  ingiuria  mortale;  e  se  voi  non  dato  »  loro  così  ogni  titolo  appunto,  le  querele  aspris»  sime  e  le  inimicizie  mortali  nascono  di  presente.  »  l^oi  mi  diceste  messere^  e  non  signore.  E  per»  chè  non  mi  dite  voi  S.  ?  Io  chiamo  pur  »  voi  il  signor^  tale.  Ed  anco  non  ebbi  il  mio  »  luogo  a  tamia  !  E  ieri  non  vi  degnaste  di  »  venire  per  me  a  casa,  come  io  venni  a  trovar  i^voi  Valtr*  ieri.  Questi  non  sono  mòdi  da  tener  con  un  mio  pari.  Costoro  veramente  recano  le  »  persone^a  tale,  che  non  è  chi,  li  possa  patir  di  »  vedere,  perciocché  troppo  amano  se  medesimi  »  fuor  di  misura;  ed  in  ciò  occupati,  poco  di  »  spazio  avanza  loro  di  poter  amare  altrui;  senza  »  che  gli  uomini  richieggono  che  nelle  maniere  di  w  coloro  co'  quali  usano,  sia  quel  piacere  che  può  »  in  cotale  atto  essere;  ma  il  dimorare  con    ì>  fatte  persone  fastidiose,  l'amicizia  delle  quali    )^  leggiermente,  a  guisa  di  sottilissimo  velo,  si  w  squarcia,  non  è  usare  ma  servire,  e  perciò  non solo  norf  diletta,  ma  ella  spiace  sommamente.   »  Altri  a  nissuno  mai  fanno  buon  viso;  e  vo-~  »  lonlieri  ad  ogni  cosa  dicono  di  no;  e  hòh  prèri dono  in  grado    onore    carezze  che  loro  sf  >i  faccia,  a  guisa  di  gente  straniera  é '^barbara;  non  »  sostengono  d'essere  visitati  ed  accompagnati;  e  »  non  si  rallegrano  de'motti    delle  piacevolezze;  »  ^  tutte  le  proferté  rifiutano.  Messér  tale  m*im»  pose  dinanzi  ch'io  vi  salutassi  per  parte  sua.   Che  ho  io  a  fare  dei  suoi  saluti  ?  ^  E>l  messer  cotale  mi  dimandò  come  voi  stavate.^  »   Fenga,  e    mi  cerchi  il  polso  »  La  naturale  rozzezza  dell'  uomo,  fa  mancanza  d^educazione,  una  stolta  vanità,  la  piccolezza  di  spirito,  talvolta  dei  risentimenti  amari,  talvolta  Fimpossibilità  di  partecipare  ai  piaceri  sociali,  bastano a  spiegare  in  generale  gli  accennati  difetti.   Una  causa  speciale  d' irritabilità  e  ruvidezza  si  era  per  Taddietro  uno  stolto  orgoglio  di  famiglia,  per  cui  alcuni,  persuasi  d'essere  vasi  d'oro,  e  credendo tutti  gli  altri  di  fango,  sfuggivano  ogni  contatto con  essi,  si  mostravano  alieni  da  ogni  confidenza,  s'atteggiavano  a  sprezzo  abituale  come  queir  Omberto  ALDOBRANDESCHI a  cui  Dante  ALIGHIERI fa  dire,   «  L'antico  sangue  e  l'opere  leggiadre  »  De'miei  maggior  mi  fèro    arrogante,  »  Cbe  non  pensando  alla  comune  madre,  »  Ogni  uomo  ebbi  in  dispetto  tant*avante,  ^  Cb'  io  ne  morii   » Finalmente  vi  è  una  irritabilità  e  una  ruvidezza  che  è  figlia  di  timori  immaginarii.  Un  asino  sta  mangiando  il  suo  fieno;  voi  gli  passate  a  fianco  senza  pensare  a  lui;  egli  si  volge  e  vi  mostra  i  denti,  temendo  cbe  vogliate  rapirgli  parte  del  suo  pasto  o  tulio.    In  questo  stalo  d'allarme  si  trovano non  di  rado  alcuni,  percbè  credono  d'avere  sempre  qualche  nemico  a  fronte;  quindi  stanno  continuamente  sulle  ditese,  pronti  anche  ad  assalire chi  non  ha  giammai  pensato  ad  essi.  Uno  sguardo  incerto,  una  parola  dubbia,  un  atto  che  non  sanno  spiegare,  eccita  tosto  il  loro  mal  umore;  quindi  succedono  degli  sgarbi,  parecchie  amicizie  cessano,  delle  nimistà  sottentrano,  e  l' allegrezza  dalla  conversazione  sparisce. Contro  i  quali  difetti .  vatgpna  i  seguenti  riflessi.   La  società  è  una  piazza  di  commercia,  ove  8i    amor  per  amore  «  .stima  per  stima,  odio  per  odio,  sprezzo  per  sprezzo.   Jn.q«iesto  camliia  d'affetti  ciascuno  procura  di  non  essere  ingannato,  e  rieiisa  é}  dar  più  di  quel  ctie  riQeve.   L'orgoglioso  vorrebbe  violare  queste  due  lef^i;   egli    sprezzo,  e  vorrebbe  ammirazione  :  egli    poco  o  nulla,  e  vorrebbe  motto;  quindi  s' irrita  non  rfeevendo  !n  proporzione  delle  sue  pretensioni;  egli  è  irragionevole  come  colui  che  con  pochi  centesimi volesse  eomprar  delle  gemme.   Il  tempo  che  perdete  in  lagnarvi  inutilmente,  in  prepararvi  a  difese,  in  mulinare  contro  chi  non  pensa  a  voi,  occupatelo  a  rendervi  stimabile  in  qualche  cosa,  e  coglierete  rispetto  e  contentezza  >  mentre  attualmente  cogliete  sprezzo  e  rammarico. É  ottima  cosa  la  sensibilità  airopinione  pubblica, perchè  è  stimolo  alla  virtù  e  ritegno  ai  vizi;  ma  è  pazzia  il  far  dipendere  la  propria  felicità  dairopinione  eventuale  di  questo  o  di  quello.  «    «  Brami  invan  d'esentarti  alle  punture,  »  Se  fòf  d' A  pelle  infin  Topre  Immortali  »  D'un  ciabatti Q  soggette  alle  censure. Pretendere  che  la  nostra  condotta  ottenga l’approvazione  di  tutti,  è  nretendere  che  a  tutti  piacciano  le  stesse  vivande,  i  falsi  giudi%i  del  volgo  non  tolgono  pregio  alle  nostre  azioni,  come  le  nubi  non  tolgono  pregio  alla  hice  del  sole.    Chiama  in  Roma  più  gente  alla  sua  udlenea  »  L'arpa  d'aoa  Ucisca  cantatrice^  »  Che  la  eampafia  della  Sapienaa.   »  Laseino  omai>  le  dispute  e  i  litìgi   »  Il  Portico  e  il  Liceo,  poiché' et  MllM    »  Più  di  Talete  un  aarto  di  Parigi.  »   *i^ì  sono  delle  persone  dalle  quali  essere  lo4a(p  sarebbe infamia,  e  lo  sprezzo  delle  quali  è  segnò  4|  merito.  $iate  dunque  sensibile  air  opinione  pubblica^ e  sordo  alle  yoci  .p^rtioolari  cbe  da  es^   discordano^  ricercate  l'approvazione  delle  per som  assennata 2;iV^2^o5e,^e  ridetevL4f)U§  dpgli  sciocchi  e  de'yiziosL  *t   Uq  .vi^giatore,  dice  Boccalini,  era  importunato  dal  rumore  delle  cicale;  egli  yolle  ucciderle,  e    allontanò  dalla  strada;  egli  doveva  continuare  quietatneate  il  suo  viaggio,  e  le  Qical^  sarebbero  wprJje  4a  se  9|M8e  alla  fiue  di  otto  giomL.   I   •lE  fo  come  il  villan,  che,  posto  in  mez^  '  r  i  V  Al  romor  delle  stridule  cicale,   »  Semai  eurare  H  fimeo  strido  toro  D  Segue  traa^uìUamente  il  suo  lavoro.  »   III.  Se  avete  qualche  difetto  fisico,  siate  il  primo  a  riderne  voi  stesso;  in  questa  maniera  sfuggirete  airaltrui  motteggio  :  facendo  altrimenti,  mostran*  dovi  tenera  da  questo  lato,  ognuno  si  procurerà  il  piacere  di  pungervi.  Alfieri,  costretto  a  portare  la  parrucca  nella  $ua  gioventù,  allorché  trovavasi  in  collegio,  divenne  iminediataBiente  lo  scherno  di  tutti  i  suoi  compagni.  «  Da  prima,  egli  dice,  io    m'era  messo  a  pigliarne  apertamente  le  parti;  »  ma  vedendo  poi  ch'io  non  poteva  a  nisBua  patto  »  salvar  la  parrucca  mia  da  qaello  sfrenato  tor»  »  rente  che  da  ogni  parte  assaltavala,  e  ch'io  ao»  dava  i  rischio  di  perdere  anche  con  essa  me  »  stesso,  tosto  mutai  di  bandiera,  e  presi  il  partito  »  più  disinvolto,  che  era  di  sparruccarmi  da  me  »  prima  che  mi  venisse  fatto  quell'affronto,  e  di  »  palleggiare  io  stesso  la  mia  infelice  parrucca  per  D  l'aria,  facendone  ogni  titapero.  E  io  fatti,  dopo  »  alcuni  giorni,  sfogatasi  Tira  pubblica  in  tal  guisa,  »  io  rimasi  poi  la  meno  perseguitata,  e  dirci  quasi  v  ìa  più'  risj[léttàta  parroeca  fira  le  due  o  tre  altre  »  cb^  ve  n'erano  in  quella  stessa  galleria.  Allora  »  imparai  che  bisognava  sempre  parere  di  dare.  »  spontaneamente  quello  ebe  non  si  potea  impedire  »  d'esserci  tolto.  »;  >^  Benedetto  XIV  fece  di  più:  un  cattivo  poeta  aveva  stampata  una  satira  contro  di  lui:  il  Pontc0è9%^jBsaminò,  la corresse,  la  .  rimandò  air  autore, accertandolo  che  cosi  corretta  la  venderebbe   iV.  (%esterfi0ld  aggiunge:  «  IVon  mostìrate  iriai  »  il  più  piccolo  segno  di  risentimento  se  non  potete  i  in  qualche  maniera  soddisfarlo:  ma- sorridete^  »  sempre  quando  non  potete  punire.  Non  si  po:  »  trebbe  viver  nel  mondo  se  non  si  pocesserana^  »  scondere  o  almeno  dissimulare  i  giusti  motivi  di  »  risentimento  che  incontrano  ogni  giorno  in  »  un'attiva  vita  e  affaccendata.  Chi  non^è  padrone  »  di  se  stesso  in  tali  occasioni,  dovrebbe  lasciare   ilmondo  e  ritirarsi  iu  qualche  romitaggio  o  de«  »  serto.  Mostrando  m  inutile  e  cupo  risentimento^,  LIMQ^EUO,   »  autorizzate  quello  di  coloro  che  vi  possono.  of«*    fendere,  e  oh/f  voi  olCeodigre  aoa  potete}  porgete    loro  quel  pretesto  eoa  cui  forse  desiderano  di  ».  Komperla  cop  voi  e  d'iugiuriarvi,  mentre  un  op»  pqsto  coQtegBO  li  forzerebbe  a  star  ae'liiniti  delia  »  decenza  almeno,  e  sconcerterebbe  o  farebbe  pa»  lese  la  loro  otalfgoità  V  *  J   ^ii^'  In  somnia^  sodo  le  deboli  canne  che  si  lasciano  turbare  da  ogni  soffio  di  vej^o,  pentrj^  le  alte  gtt€pr0e  réslstoiK)  agli  aquiioni. Finché  dunque  si  tratta  d'ingiurie  lievi,  la  miglior^ risposta,  si  è  il  sorxiso  del  dispre^ui^o;  ma  Quando  iti  tratta  d' ingiurie  gravi  ché  offendano  l'onorey  chi  le  soffre  le  merita;  il  risentimento  in  'questi  casK  è  cosi  jiusto  come  è  giusta^lsi  legge  che  le  punisce.   ^à^l   \  i  10.  Curiosità  degli  affari  altrui.   >   Non  può  abbastanza  censurarsi,  perchè  contraria  alla  confidenza  e  quindi. all'allegrezza,  la  smania  di  eeloro  che  vogliono  conoscere  tutti  gli  affari  altrui^  saperne  le  più  minute  circostanze,  e  dei  nomi  chieggono notìzia  a  de' luoghi,  e,  per  trarvi  di  bocca  qualche  cosa  di  più,  pria  fingono  di  non  avere  bea  intesot  poi  vi  dimandano  schiarimento  ad  un  dubbiti^  orarvi  piantano  avanti  un  sospetto  come  in*  fallibile,  e,  vedendo  che  lo  respingete,  mostrano  di  riciedersì  passando  al  sospetto  opposto,  e  dalla  nuova  vostra  negativa  o  maraviglia  fatti  accorti  si  ripiegano  aopra  se  stessi  per  ritornare  airattacco;  e  0  non  gran  pompa  «di  tolleranza  v'  invitano  ad  aprir  V  animo,  o  con  improvvisa  ed  isolata  interrrogazione  vi  sorprendono  :  e  tenendo  gli  occhi  fissi  sopra  di  voi,  cercano  di  leggervi  nel  volto  V  impressione che  fanno  i  loro  discorsi,  la  quale,  pav  - ragonata  e  unita  alla  vostra  risposta,  serve  loro  di  via  per  giungere  al  vero.  Questa  curiosità  conduce  -i  ciarlieri,  i  parabolani,  gli  invidiosi,  i  tristi  per  tutte  le  case,  i  palchi,  i  caffè,  onde  raccogliere  e.   raccontare  i^.^^     >  '  it     ie  vicende  ascose:    w  Degli  instabilì  amor,  le  cagion  lievi    Dei  frequenti  disgusti,  i  varii  casi   »  Del    già  scorso,  le  gelose  risse,   Le  illanguidite  e  le  nascenti  fiamme Le  forzate  costaiize  e  le  sofferte.  Con  mutua  pace  infedeltà  segrete,     »  Dolci  argomenti  a  feraminii  bisbiglio. Questo  prurito  d'indagare  le  faccende  altruf  è  tanto  più  attivo,  quanto  più  si  manca  di  idee  e  di  sentimenti  proprii;  giacché  il  nostro  animo  volendo  ^un  continuo  pascolo,  se  non  ne  trova  in  se  stesso  .  va  per  le  altrui  case  a  questuarne.  v    ^  Senìbra  che  anco  la  vanità  concorra  a  rendere  il  pungolo  della  curiosità  più attivo.  Si  crede  acqui"  *i  '  ir   L'Imperatore  Claudio  sarel)be  morto  di  noia  se  noi)  si  fosse  occupalo  ad  ascoltare  tutte  le  cause  che  si  agitavano nel  foro,  ed  a  conoscere  tutti  i  segreti,  gli  accidcnU,  le  sventure,i  piccoli  odii,  gli  intrighi,  i  pelegolezzi  delle  famiglie.  Gli  avvocati,  cui  era  nota  questa  sua  debolezza,  lo  prendevano alle  volte  per  i  piedi  e  lo  trattenevano  in  tribunale  allorché egli  voleva  partirne.  Le  dimande  inopportune,  le  rispostestolte,  i  riflessi  ridicoli  di  qlieslo  preteso  giudice  mei  \  levano  in  tale  evidenza  la  sua  stupidezza,  che  un  avvocato  :,v.',.Starsi  qualche  grado  di  gloria  nel  poter  dire  lo^lo  io  l'ho  veduto  :  infatti  gli  stolti  e  gli  scioperati    amniirano  queste  notìzie,  e  credono  uom  d'acuto  e;  perspicace  ingegno  colui  che  le  spaccia;  mentre  tutto  :  il  suo  ingegno  si  riduce  a  prestare  le  sue  orecchie  ai  discorsi  degli  altrui  servi  e  nio;izi  di  stalla.  >^  Siccome  in  tutte  le  classi  sociali  sta  la  realtà  all'apparenza  come  la  grossezza  della  rana  alla  grossezza  del  bue;  siccome  ciascuno  si  sforza  di  coprire  con  color  lusinghiero  le  proprie  debolezze,  quindi  il  curioso  che  vuole  spingere  lo  sguardo  /sotto  al  velo  delle  cose,  offende  sensibilmente  l'altrui amor  proprio,  e  tanto  più,  quanto  che  da  un  lato  si  temono  maligni  commenti,  dall'altro  si  vede  minacciata  pubblicità  alle  proprie  miserie  ed  ai  difetti,  sapendosi  da  ciascuno  che  il  curioso  è  indiscreto  e  ciarliero.  Sarebbe  desiderabile  che  i  ^  curiosi  venissero  a  scoprire  nelle  loro  impulite  ricerche ora  un'azione  virtuosa  che  la  modestia  voleva sottrarre  agli  altrui  sguardi,  ora  qualche  accidente che  offendesse  il  loro  amor  proprio,  come  •successe  a  Catone,  il  quale  stimolando  Cesare  a  mostrare  una  littera  che  questi  ricevette  in  pien  senato,  e  di  cui  faceva  mistero,  Catone,  dissi,  vide  con  sua  sorpresa  una  lettera  galante  scritta  i"di  pugno  di  sua  sorella.   Allorché    tratta  di  cose  alcun  poco  ragguardevoli,  il  curioso  corre  pericolo  d'assicurarsi  Tonoratissimo  titolo  di  spia. Gozzi  dipinge  nel  modo  seguente  la  comune  curiosità de'  faUi  altrui  e  i  suoi  ridicoli  commenti.     Sarà  uno  nella  sua  slanza  cheto,  solitario;  penserà,    Franklin  ci    un  metodo,  se  non  per  liberarci  dai  curiosi,  almeno  per  troncarne  Y  importunità;   1  .v.    Jegc;erà,  scriverà,  o  farà  qualche  altra  opera  onorala  :  »  uscirà  di  casa,  anderà  un  poco  inlorno  a  ricrearsi  all'aria;  »  saluterà  due  o  tre  amici,  perché  pochi  più  ne  avrà  voluti^  »  sapendo  che  di  rado  se  ne  trova  anche  uno  che  sia  vero:  »  e  appresso  rientrerà  come  prima  a  fare  i  falli  suoi.  Che  »  uccellaccio  è  questo  ?  diranno  alcuni  :  non  è  possihile  che    un  uomo  sia  fallo  a  questo  modo.  Si  comincia  ad  inter»  prelare  ogni  suo  atto,  ogni  parola.  Sapete  voi  che  ha  voluto     dire  quando  alzò  le  spalle  ?  quello  che  significò  queir  oc*,  »>  chìala?  e  quella  parola  tronca  ch'egli  ha  proferito?  Sicché  il   pover  uomo,  senza  punto  avvedersene,  ha  dietro  il  notaio   »  e  Io  strologo,  e  chi  nota,  chi  indovina,  chi  fa  commenU   alla  sua  lingua,  e  a  quante  membra  egli  ha  indosso.  Vo »  lete  voi  più?  Tanti  sono  i  sospetU  del  fallo  suo,  che  egli   »  avrà  fatto  nell'  opinione  d'  alcuni  quello  che  non  ha  fatto»  mai,  o  che  non  avrà  sognato  di  fare. Le  cose  di  questo mondo  sono  come  una  matassa  di  filo;  chi  non  sa  trovarne  il  capo,  la  lasci  stare,  perchè  s' impiglierà  sempre   »  più.  A  me  pare  che  quando  s'  ode  a  raccontare  qualche   »  cosa  d'uno,  si  dotesse  prendere  questa  matassa,  metterla   »  sull'arcolaio,  come  fanno  le  femmine  appunto  del  filo,  scio »»  gliere  con  accortezza  il  primo  nodo,  e  preso  il  bandolo  in   »  mano,  cominciar  a  dipanare  con  diligenza,  e,  secondo  che  si  trovano  gli  intrighi  e  i  viluppi,  tentare  se  col  candore dell'animo  e  con  la  verità  si  possono  sciogliere.  Se  non  si   H  può,  buttisi  via  la  matassa,  ma  quasi  sempre  credo  che sì  potrebbe  da  chi  non  corresse  troppo  in  furia,  per  vo^   H  lontà  d'ingarbugliare  piuttosto  che  di  snodare.  Questa  u-^   r  ganza  è  quasi  comune.  Benché  la  logica  insegni  in  qual   »  forma  s' abbia  a  fare  per  venir  in  chiaro  di  certe  faccende incredibili  o  inviluppate,  pochi  se  ne  vagliono,  e  menasi  il   n  basloie  alla  cieca,  e  suo  danno  a  cui  tocca.  Quando  il   »  capo  é  principalmente  alteralo  da  sospetti  o  dal  mal  volere   »  contro  una  persona,  si  può  dire  che  questa  sia  una  specie    ivi  4Sfl  umm  tmM   e  . questo  n^do  coo»ste  nel  precisare  il  disMMio  e  limitame  H  soggetto  in  nòde^  da  'Weliidero  quai^lunque  eventuale  dimanda.  Allorché  questo  filosofo    ni   1   0  che  dove  prenderei  sapendo  quanto  erano  curiosi  ^  kiterrogatorì  gli  Americani,  usava  dire  alle  persoAe  cui  dnrigevasi:  11  mionome  è.Franklm,  staoH'  patore  di  professione;  io  vengo  da  tale  luogo,  voglio  andare  a  tal  altro:  quale  strada  devo  tenere?   Dichiarando  impulita  l'eccessiva  curiosità,  av-^  verto  i  giovani,  che  in  molti  casi  la  curiosità  è;  vinù;  perchè l’indifferenza,  la  non  curiinza l’insensibilità  sono  la  massima  offesa  per l’amor  proprio x^he  vuple  occupare  gU  ititn  ili  S9  atpsso  V  é  ^  conservare  le  apparenze  della  modestia.  La  pulitezza v'  impioiie  adunque  dt  chiedere  frequenti  aptfeàief  di  mostrarvi  inquieto  suH' . altra!  aorte  ^  «d  esternar  piacere  o  dolore  alle  altrui  foi  tnne  o  disgrazie. L'infelice,  come  è  stato  detto  altrove ^\  sente  alleviarsi  il  peso  de'  suoi  mali  allorché  gli  4j^e^  al  suo  simile;  ma  q^olte  volte  temendo  d'imv  ^tf^unaito,  si  pasce  di  cordoglio  in  segreto,  allora fa  d'uopo  che  una  tenera  sensibilità  gli  faccia  una  dolce  vio^enzaf  e  "versi  il  balsamo  della  eon«  ^  solazione  sulle  piaghe  del  suo  animo:  la  curiosità  de' superiori  o  degli  amici  in  questi  casi  diviene  imlesto  rugiada.    Parimente,  «ccome  II  timore  dV  equistarsi  la  taccia  di  vani,  consiglia  alcuni  a  ve*  lara  le  loro  fortune  ed  onori  :  qòindi  la  pulitezza^,    y  d'ubbriache/za,  per  la  cui  forzii  l' uomo  non  vede,    sa   più  quello  che  si  dica  o  faccia,  e  appena  coiX)sce  più    »  medesimo    4Sr   eome. attrai»  ai  àìm  ^  vgoto^ehe  éiiigtaM  il  di*   scorso  da  questa  banda,  ma  con  destrezza  e  tale  eanfeaiaQsa  di  parole,  dm  la  congratulazione  e  l'elogio  seovri  é'adiilaamie  si  mostrino  e  di  men^   20goa.  V   In  «oMkia  > Ja  cnriofiità  ò  ripronslbile  qomdo  minaccia pubblicità  alle  altrui  debolezze  e  imperfé«  zioni;  è  lodevole  quando  tende .  a  dare  risalto  al  merito  o  porger  aoeeorsò  al  bisogno. Burrasche  delle  CONVERSAZIONI i  o  dispute.   'I  glardiAf  de'iilosofi  d'Atene  si  estendevano  dalla   rive  deirillisso  sino  a  quelle  del  Cefìso.  Gli  Epicurei sì  erano  stabiliti  al  centro,  i  discepoli  di  Piatone  vèrso  il  Nord,  e  quelli  d^Aristotite  al  Sud.  Non  si  videro  giammai  vicini  men  turbolenti    man  geloìsi:  un  sentiero  d*  ulivo  ^  un  boscbetto  di  mirto,  una  siepe  di  rose  separava  i  sistemi  e  serviva di  limite  al  regno  dell'opinione.  Le  conver*  sazioni  non  «ono  sempre  ugualmente  paciliche;  la  diversità  delle  idee  apre  il  campo  a  lotte  rumorose  accompagnato  e  seguite  da  parecchi  inconvenienti. Idea  della  personalità. Discutere  è  allegare  le  ragioni  e  gli  argomenti  cui  due  opposta  opinioni  si  '    0   sione  degenera  in  disputa  al  momento  che  qualche  personalità  vi  si  frammischia.   Per  personalità  non  si  intèndono  qui  quelle  patenti ingiurie  che  la  buona  compagnia  interdice,  ma  quelle  che,  sebbene  meno  gravi,  non  lasciana  d'essere  nel  tempo  stesso  pungenti  per  Taltrui  amor  proprio,  ed  estranee  alla  cosa.  .  Due  specie  di  personalità  sogliono  per  lo  più  introdursi  nella  discussione,  e  le  fanno  degenerare  in  disputa.    >   Colla  1.3  spede  si  fa  rimprovero  air  avversario  ch'egli  parla  per  motivi  particolari,  d'interesse  per  se  stesso,  d'affezione  pe'suoi  amici  o  per  la  sua  classe,  d'odio  contro  i  suoi  nemici,  ecc.  «  Voi  »  parlate  così  perchè  siete  militare;  e  voi  negate  »  perchè  siete  prete,  ecc.  »  Ognun  vede  che  queste  non  sono  ragioni;  e  quanto  è  facile  di  farne  uso  ad  uno,  altrettanto  riesce  spedito  all'altro  il  ribatterle.   Colla  2.3  specie    dice  all'avversario  ch'egli  non  conosce  la  materia  di  cui  si  parla;  ch'ella  suppone  cognizioni  superiori  alle  sue;  eh* ella  è  estranea  alla  sua  professione.  Anche  questo  modo  d'argomentare tende  bensì  a  deprimere  la  persona  dell'avversario, ma  non  scioglie  i  dubbi  eh'  egli  proipove.  Inoltre,  senza  essere,  per  es.,  giureconsulto,  non  è  impossibile  d'avere  delle  idee  giuste  e  nuove  sulla  giurisprudenza. Cause  delle  dispute.   Si  direbbe  che  gli  uomini  inciviliti  amano  le  dispute, come  i  selvaggi  i  combattimenti.  Sono  cause  di  dispute:   I.  //  desiderio  di  conservare  la  propria  libertà.  In  parità  di  circostanze  ciascuno  preferisce  all'ai'.   litti^ Ja«ia  »9§iMm^  «ppunto  perahà  ò  sm  ^ jqumdi  siamo  tanto  più  resti!  ad  ammettere  l'opinione  altri,  quanto  è  maggiore  13aria  di  epmaoido  con  om  ei  viene  proposta,  fiiif  sottopond  al  nostro  giudizio  un'idea  sotto  le  forme  del  dubbio,  riesce  fià,f«eibiimt0  a  eonYtnemi.  dr  ^oello  ^  ehi  >  senza  produrre  argomenti  maggiori,  nfH>stra  di  vo*  ler  dogmatizzare  e  vietarci  ogni  obbiazioiie L'uoma  ò  ai  geloso  detta  sua  libertà  intellettuale,  eoitae  la  è. della  «ua  libertà  civile  e  politica. Dopo  molti  acutissimi  argomenti     E  molte  riflessioni  pellegrine   »  E  belle  cose  détte  da^taienti   »    grandi,  la  questione  ebbe  quél  firó  v  '\l.  »  Che  soglion  tutte  le  quistioni  avere  v  "  Cioè  ^estò  ci€iscun,4el,  mo  parere  ».   IL  La  vanUé^^eàe^  uaa  apecie  d'avvilimento^  tìst  sommettere  la  propria  alF  altrui  opinione,  percKè'  lo  crede  segno  4'iaferiorità  intellettuale.  Il  dispia-,  cere    questa  supposta  infèricirità,  sensibile  in  ttìtì^  cresce  in  ragione  dell'alta  idea  che  ci  formiam  di  noi  stessi,  e  può  (  tant'  è  la.  debolezza  umana  j  )  .  giungere  al  plinto  da  cagionare  la  morte,  come  successe  ad  un  filosofo  dell'antichità  detto  Dìodoro.  Erano  state  fatte  a  questo  sedicente  filosofo  alcune,  obbiezioni,  alle  quali  egli  non  seppe  rispondere  :  lo  sgraaiato  .fu  punto  da    vivo  malincuore  e  dispetto,  perchè  il  suo  spilli to  lo  aveva  tradito,  tìm  spirò  air  istante.   è  si  ver4  die  la.  vanità  è  cavia  di  dispute^  che  il  silenzio  d'uno  de' disputanti  che  resta  nella  propria  opinifma diviene  offensivo;per  Taitro.  Il silenzio  in  questo  caso  sembra  provare  che  si  ha    basso  concetto  dell'antagonista,  che  qualunque  ragione  non  basterebbe  per  convincerlo;  quindi  si  risparmia  la  pena  di  parlare.  Costui  vede  dunque  che  mentre  egli  si  sfiata,  il  nemico  sorride,  e  lo  lascia  abbaiare  come  i  cani  alla  luna;  e  che  quindi  egli  non  ottiene  lo  scopo  che  si  aveva  proposto,  cioè  la  superiorità  sul  suo  avversario.  La  Mothe  aveva  detto  male  d'Omero;  il  poeta  Gacon  pretese  di  vendicarlo;  la  Mothe  non  rispose]:  roi  non  volete  dunque  rispondere  al  mio  Omero  vendicato'?  gli  disse  il  poeta,  f'^oi  temete  la  mia  replicai  Ebbene,  voi  non  V  evltet^ete;  io  pubblicherò  un  libro  che  avrà  per  titolo  :  Risposta  al  silenzio  di  la  Mothe.  Lo  spirito  di  contraddizione.  Alcuni  par  che  non  godano  d'altro  che  d'essere  molesti  e  fastidiosi a  guisa  di  mosche,  è  fanno  professione  di.. contraddire  dispettosamente  ad  ognuno  senza  riguardo.   «  Pria  che  tu  parli,   M  Nega  quel  che  vuoi  dir,  e  se  consenti  .   »  Pur  d'aver  torto,  Non  è  yero^  ei  grida^^^"  É  vuol  ch'abbi  raglotii"»/-'  E  siccome  taluni  si  mostrano  terribili  nelle  dispute  per  la  forza  e  capacità  de'  polmoni,  perciò  sembra  che  lo  spirito  di  contraddizione  si  debba  primieramente a  stolto  orgoglio  attribuire,  o  sia  indistinto  bisogno  di  dominare.  Lo  fomenta  fors'anche  una  causa  fisica  non  ben  nota,  chiamata  temperamento,  quella  causa  per  cui  il  can  rosso  dell'  abate  Casti  neinilustre  adunanza  degli  animali  parlanti. Di  petto  Instancabile  e  di  voce  »  Ringhia;  con  tutti  ognor  brontola  e  sbuffa,  »  Pronto  con  tutti  ad  attaccar  baruffa. Le  inimicìzie  sogliono  essere  una  delle  primarie ragioni  per  cui  si  rigettano  le  idee  altrui;  giacché  all'odio  sembrano  vere  e  reali  vittorie  le  mortificazioni  alla  vanità  dell'odiato.  Secondo  che  racconta  il  Castiglioni,  trovandosi  due  nemici  nel  consiglio  di  Fiorenza,  V  uno  di  essi,  il  quale  era  di  casa  Altoviti,  dormiva;  l'altro  che  gli  sedeva  vicino,  e  che  era  di  casa  Alamanni,  per  ridere;  toccandolo  col  cubito,  lo  risvegliò  e  disse  :  Non  odi  tu  ciò  che  il  tal  dice  ?  rispondi,  chè  i  signori  dimandano  del  tuo  parere.  Allor  TAltoviti,  tutto  sonnacchioso,  e  senza  pensar  altro,  si  levò  in  piedi  e  disse  :  Signori,  io  dico  tulio  il  contrario  di  quello  che  ha  detto  T Alamanni.  Rispose  rAlaiiianni:  Oh!  10  non  ho  detto  nulla.  Subito  disse  rAllovitì:  Di  quello  che  tu  dirai  !  !  i   V.  V  imperfezione  inerente  a  qualunque  cosa  umana  apre  il  campo  a  rinascenti  dispute.  Questa  imperfezione  risulta  :   Dagli  oggetti  che  hanno  molti  lati,  e  de'quali  ciascuno  considera  quello  che  più  gli  piace;   2.  Dalle  persone  che  non  hanno  gli  stessi  occhi,  gli  stessi  interessi,  gli  stessi  principi!,  le  stesse cognizioni,  gli  slessi  gusti. Petrarca  parla  iV  un  uomo,  il  gusto  del  quale  era  si  depravato,  che  non  poteva  tollerare  il  dolce  canto  degl'usil^nuoli,  e  gongolava  di  piacere  al  crocidar  delle  rane.   Dalie  parole  che  non  sono  abbastanza  moltiplicate ne  abbastanza  particolari  per  essere  sempre  esatte  ^  e  corrispondere  ali^  varie  modiGcazioni  de'  sentìment!.   Quindi  tutto  ciò  che  si  dice  e  si  scrive  essendo  SQfi^ettfvo.  di  «varietà  indefiaila^  non  deve  recare  maraviglia  se  a  costanti  opposizioni  va  soggetto,  ^»1ra  le  eansa  delle  dìApntei  e  sotta  questo  arti*  colli  fa  d'uopo»  ace^nramia  monto  di  spiegm^  i  futti  prima  d'esserBi  accertati  della  loro  esistenza ^  e  .per  col  si  dispala  con- taMd  maggioi*  calwes  quanto  che  ciascuno  parla  y  ccilne  si  dice,  in  aria,  e  M  batte  con  strali  di  nebbia. Nel  lì>05  corse  rumore  elio  essenilo  caduU  ideali  ad  qiì  faiìciailo  df  sette  anni  nella  Slesia,  gUe.tté  era  sorlo  uno  d'drd  al  poslo  d*tino  de'ipollftri  eadutt.  HorsHus,  professore  di  meileina  mellf  università  ^i  ffelmaMftd,  sf  rìsse  nella  storia  di  questo  dente,  e  pretese  ch'egli  era  in  parte  naturale, in  parte  nìiracoloso,  e. che  era  stato  spedito  da  Dio  a  questo  fanciullo^  a  fine  di  consolare  i  Cristiani  afflitti  per  le  vittorie  de'Turéhi.  t^lguratévt  quale  consolazione  poteva  recare al  cristiani  tm  dente  d' oro,  e  quale  rapporto  poteva  unire  un  dente  e  i  Turchi.  Nello  stesso  anno,  attìnchè  questo  dente  noB-manoasse  di  storici,  RuUandtui  ne  diede  una  nuova  storia  con  VMOvI  cijmiDelitIt  SuaUnni  dopo  ^  IngloBlerns  ^  altro,  dpU^  tedesco,  scdsse  contrq  II  sistema  esposto  da  iWlandus^  W  quale  rispose  cpn  una  pix)fonda  arcihelllssima  replica, come  è  ben  naturale  di  supporre.  Un  altro  dotto  d'eguale calibro  raccolse  tutta  ciò  i^ìha  era  stato  detto  sopra  questo  dente  maravtgliosOi  e  vi  aggiunse  i!  suo  parere*  A  tante  béHe  òperé  aitro  non  mancava  se  non  che  la  cosa  fosse  vera,  doè  òhe  II  dente  fosse  d'oro.  Onando  un  orefice  Tebbe  esaminato,  risultò  che  questo  preleso  dente  d'oro  era  umi    Incmvementi  delle  disputé/   L'imn  araltya  éelle  sopraece&nate  peirsonalità   suole  inacerbire  gli  animi  nelle  discute  :  Ordiìiariamente  ricorre  piò  spesso  aite  personalità  chi  più  scarseggia  di  ragioni,   3.  Nel  calore  delia  disputa  ^li  animi  perdano  di  vista  rargomento'  primitivo^  'e  vanno  divagando  fra  idee  accidentali  Tuno  all'oriente,  Taltro  all' occidente,  questi  in  >Icò;  quello  al  bassé  ^  èDsicchè  dopo  lungo  alternare  di    e  di  no,  dopo  un'ora  di  tempesta,  dopo  d'ayere  perduto  la  voce  e  i  polmoni,  i  conteodeati  più  cbe  pria  trovansi  lootàn!  dalla  meta,, ]^fiMii0  di  4U08|ta  dUpQsizione  d^   loro  che  la  decisione  della  disputa  temono  contraria alle  lor  viste;  quindi  s'arrestano  sopra  «oa  parola,  contendono  sopra  una  slhfiìfrtudine,  scÌMainazzano  sopra  un'idea  accessoria  ecc.;  il  perchè  .talvolta/a  cdlwosa  i^ntesa  sopra  circoif^s^nze  ac'  cideìitali  potrà  smprirpi  la  dubbia,  fede  di  lai  uno  da'  coniendentL   foglia  d'oro  destramente  applicata  al  dente  ma    cominciò  «A  disputale  e  aompprre  de'libn,  posd^  ^  consultò  l'oreiice.   foMaeeademfeo  A  Seeliao,  me^ibro  d' altre  acc«deoUe,  in  vm  giOg^Mti  |MdÉb1k»ta  ael  4821,  j^ailmdb  deUa  pcovinda  Lodigiana,  dice  che  ivi  si  fabbrica  .iV- celebre  formaggio  deUo  parmigiano;  nel  che  ha  ragione  :  ma  il  bello  si  v  che  ag.  SiWgB  cbe  questo  ((nrmaggio  si  fabhi:ie^  col  latte  di  asina. Se  quaala  gcariaso  M^ddoM>  ò  oneduto,  possiamo  aspi^tacci  uoa  feoiioa  di  dissertazioni  sui  nostri  formaggi  ffasipati Dal  riscaldameato  contro  le  ragioni  si  passa  al  risealdtmeiiio  Mnlro  Je  feraipei»;  e  :i  disputanti  dimpslrano  Negli  occhi  il  fuoco  e  sulle  labbra  il  tosco   In  somma  dalla  disputa    pass^  alle  ingiurie,  gentilissiiue  ed  edificanti  ragipni  degli  eroi  di  Omero.  Iqfatt^  Giove  non  parla  mal  a  .Giunoné  .senza  dirle  molti  improperi!,  e  Giunone  non  risponde  che  sullo  stesso  tonOì.  Dopo    npbiU  esenipip  figuratevi  come  dovevano  parlare  gli  Dei  minori. In  forza  di  questo  riscaldamento,  o  in,  mezzo  a  questa  lotta  di  vanità,  ciascuno  a'osti^ia  nel  pri (i)  jF^ra  i  IraUi  caratterisUci.degli  awpcaU  iligìéiil,  1   an'impudeittà.  Que  <sai^dìet.  à  permettoBÒ  I  sarcasmi  'più  indecenti,  le  personalità  più  ingiuriose  contro  la  parte  avversaria;^ essi  apostcatapp  A|¥rt^^  i  iestimoDii  nel  mado  più  villano ed  .offeosivo,  colio  scopo  di  turbarne  ranimo  e  indeboliroe  te  deposizioni/ EMI  per  attro  Urano  Ulv<^  addosso  delle  repliche  che  gli  espongono  àlle  risate  deir  udienza.  In  una  causa  che  discutcvasi  avanti  il  banco  del  re,  fu  prodotto  un  testimonio  che  aveva  il  naso  estremamente  rosso:  l' avvocato avversario  volendo  intimidirlo,  gli  disse,  dopo  che il  testimonio presta  il  fjlufaiiiento  :  Vediamo  ciò  che   r   avete  da  dirci  col  vostro  naso  di  rame.  Pel  giuramento  che  ho  prestato,  repricò  il  testimonio,  io  non  vorrei  cambiare  il  mio  naso  di  rame  còlla  vostra  fronte  di  broDso  . Ua  paesano  det  Berkslìire  andava  a  ^tepoMre  isT  una  oauM  che  dteutevad   GnMinH  «  Cdmo  dàVMUÈ  ét  ^lle/  gH  «disrie  »  V  avvoi^alb  '  Wallace  /  quanto  guadagnate  voi  ^  giurare  ?     Signor  avvocato  onoratlssimo,  risponde  il  paesano,  se  voi  non  guadagnaste  ad  abbaiare  ed  a  mentire  più  di  quel  che  '  lo  a  giurare,  voi  portereste  ben  prèìrtn^m  abllo  di^ili9;€0iiie  lo  porto  io^   mitivo  parere,  benché  il  discorso  il  dimostri  persuaso del  contrario. Gli  amici  delFabate  Regnier  gli  davano  il  titolo  di  abate  pertinax,  perchè   ''^<'V?'Pìù*duro  ed  òslinato  degli  incudi  »,  »   egli  aveva  l'abitudine    disputare '^fehacemente  ne^  crocchi,  lìnché  i  suoi  avversari!,  più  per  stanchezza  che  per  convincimento,  fossero  costretti  a  sottomettersi  al  suo  parere.  Tra  cento  contendenti  forse  se  ne  trova  un  solo  che  finisca  col  dire,   et  lo  parlo  per  dir  vero,  r.  f  ».    \y\  .^jil»  Non  per  invidia  altrui    per  disprezzo.   r4^oi)>;.Mia  gloria  non  ripongo  in  ostinarmi,,  i  <:Iì;»  Nel  mio  pensier.  lia  debolezza  è  questa  ri  Delle  piccole  menti,  ed  io  mi  credo  oii^(ffiiGrande  abbastanza  per  lasciarti  tutto  ^  iMi^P  L'onpr  d'avermi  persuaso  e  vinto    Regole  per  impedire  o  diminuire  .  gli  iìiconvenienli  ielle  dispule.,   i  Nelle  assemblee  numerose  astenersi  dalFindicare  col  nome  proprio  l'individuo  cui  si  risponde^  Quando  un  uomo  s'è  ostinato  a  dire:  La  non  ha   ad  essere  allrtmenii,  io  Intendo  che  la  cosa  vada  così,  o    così;  va,  picchialo,  spingilo,  dagli  d'urto,  tu  cozzi  con  una  >».  torre,  hai  a  fai*e  con  un  greppo,  e  non  ti  riesce  altro  se  »  non  ché  tu  medesimo  t' induri,  e  a  poco  a  poco  senza  *»)  avved<^rtene,  come  chi  é  tocco  dalla  pestilenza,  che  dall'uno  »>  s'  appicca  air  altro,  tanto  sei  tu  ostinato  e  duro  nella  tua  n  opinione,  quanto  egli  nella  sua,  e  non  c'è  più  verso,  che  »    l'uno    Taltro  si  creda  d'avere  il  torto.  Nella  camera  de'comuni  d'Inghilterra,  chi  discute  r  altrui  mozione  o  risponde  ad  un  argomento,  in  vece  di  'designarne  l'autore  col  di  lui  nome  individuale, ricorre  a  qualcuna  delle  seguenti  circonlocuzioni  :  l'onorevole  membro  alla  mia  destra  o  sinistra,  il  gentiluomo  dal  cordone  bleu,  il  nobile  lord,  il  mio  dotto  amico  (parlando  d'un  avvocato)*  ecc.,  ovvero  semplicemente  il  preopinante.   La  ragione  di  questa  regola  si  che  la  specifi<;azione  del  nome  è  un  appello  più  vivo  all'amor  proprio  che  qualunque  altra  designazione.  Col  primo  modo  di  parlare  si  dimentica,  per  così  dire,  la  persona  individuale,  e  non  si  considera  che  il  di  lei  carattere  politico.  Si  scorge  Tutilità  di  questa  regola,  se  si  riflette  che  nel  calore  della  dìsputa  i  contendenti  durano  fatica  a  sottomettervisi,  e  la  passione  tende  a  violarla.  Allorché  Tex^ministro  Decazes  montò  alla  tribuna  della  camera  dei  deputati per  rispondere  al  notissimo  segreto  di  Rignon,  e  cominciò  per  chiamare  a  nome  il  Bignon,  mostrò tutta  l'amarezza  del  risentimento,  e  dimenticò  le  regole  della  pulitezza  francese  c  delle  assemblee  numerose.  ^  t.fn  .  Non  attribuire  giammai  a  pravi  motivi  od  intenzioni  perverse  V  altrui  opinione.   Anehe  questa  regola  è  osservata  rigorosamente  ne'dibattimenti  brittanici.  Voi  potete  con  tutta  libertà rimproverare  al  preopinante  la  sua  ignoranza,  i  suoi  errori,  le  sue  false  interpretazioni  d’un  fatto,  ma  fa  d'uopo  che  v'asteniate  dall'accusare  i  motivi  che  riaducono  a  proporre  od  a  rispondere.  Estendetevi sopra  tutte  le  conseguenze  nocive  della  mi  Sttm  poopoata  o  doiropinioQe  «h'egli- dtf&nde;  diìnositraie  ehe  saifann^  fenestè  atta  Sl^,  ehe.-la?»^  riranno la lirannia o l'anardua;  ma  non  fate  giam f  mei  siipporrèch'egH  abbia  iiMvediite  a  ¥ol«teqìieslfi   conseguenze.  -,  f^^oi'^ii.vRigorasamente  parlando,,V  aocennata  regola  è  fondata  nella  giustisia;  potùhè  se  è  dfffidto  U  conoscf^re  i  mi  e  segreti  motivi  che  agiscono  sul  no^tta  aiilmo  «  è  edsa  taneruria  il  preMiém  di  ravvisare  quelli  che  movono  Faltrui;  e  ciascuno  sa.  per  pisoptfia  «sperienra  quante  volte  i  nostri  spetti  diano  in  fate»  in  queste  ricerche. La  risérta^  tMZza  imposta  d^UA  suddetta  regola  è  olile  a  tutti,  perchè  è  scM»tegiia>  aOa  libertà  delle  opitueitì  é  schermo  contro  le  ingiuste  accuse.  Nei  dibattimenti  pplitieìii  com(9  HeUa^gju^rra^'  ciascuna  deve.  asteneESì  da  que'  mezzi  che  ragjionevoitnente  non  yorrcèbe  Msati  opntro  di  sè.  » )  ?  1  -Ma  sQi^rirttutto  poid'Memoata^^liegek  ètepiiliMr^  alla  prudenza.  Infatti,  voi  credete  che  il  vostrb   a^jta^aui^  «'apfiig^  al.  torto^^  oi^.  egli  ummrk  torse  restìo  ad  abbracciale    vostra  opinimie*    gliela  presentate  nella  sua  nudezza  scortata  sold  dagli  argofwoti  elM  la  dinioetiaadv  Me<  se  eontet   ciate  dal  rendere  sospette  le  sue  inten2ionì,  voi  Toffendete,  voi  lo  provocate,  voi  Mn  igH  toseiete  la  calma  neeessaria  per  ascoltafvi  con  atteKione.  Egli  diviene  parte  contro  di  voi.  Il  calore    oem  munied  dairun^idraltro;  i  suoi  amici  sMotereasMit  per  lui;  e  tfiiindi  nascono  non  di  rado  de'risenti^   associano  alV opposizione  politica  tutta l'aqj^retua  4e;gB- od&if^iia»opti|b.  Un  uomo  di  carattere  benevolo  ^  modesto  nella  superiorità,  generóso  4iieHa  siDei  for2a,  *  confida  solo  ne'  suoi  argomenti,  e  sdegnerebbe  di  dovere  la  vittoeNiv  alla  Intenwopi  siiippioste  prave  del  rao  nemico.  %  8;  Gmrd(VFU- dal  perdere  tempo  e  parole  nel  eùnfuiar^  èùse  pafpàbttmenl^  fake.  '   In  questi  casi  è  meglio  troncare  il  discorso  e  fkàMatA  allTopiniaiie  degli  astantì  )  giiBicehè  la  discussione recherebbe  noia  ad  essi,  senza  riuscire  a  persuader  ravver^ariou  Zenone  nega,  l'esistenza   M NfnMo  Diogene,  -senza  spendere  parole  V    mise  a  passeggiare  :  Zenone  persistette  nel  suo  pnadoiw  y  '  e  Dìo^e  eontÌlm6  il  sùo  passeggio;  Allorché  Didone  s' incontra  negli  Elisi  con  Enea,   da  €w  «ra  stata  si  ingiustamente  e    barbaramente  abbandonata,  s'airesta  ella  per  argonventare  con  lui  e  convincerlo  ?  Enea  cerca  di  riacquistare  il  di  lei  aflhMt  dia  gK  tolge  spregevolmente  le  sptflè  senza   dir  verbo. Badale  bene  elle  nel  -caso  pratico  rorgéglio  potrà  ingaummled  ff^durvi  a  sopporre  palpabilmente  false  le  >altnù  idee,  o  palpabilmente  vere  le  vostre.  La  mAt    r^ppfovairtmi»  'che  4wdrete  sut<vdlto  degli  sitanti,  v*r  servirà  di  norma  per  troncare  la  discus*  skma  o  oantiomrla.   4.  NoH  rispondere  alle  ingiurie  thè  net  co*  lùT  della  disputa  fuggono  di  bocca  aWaivver*   Battiy  ma  ascolta,  dicf^va  Temistocle  ad  Euribiade  «  il.qsale  alzava  il  bastone  per  provar  la  sua  tesl^  Questa  fermezza  d'pnimo  in  un  uomo  che  era  tutt'altro  che  vile  i  ci  dice  cbe  si  devono  lasoiat    uigiii^LCi  4^ &è  sentite,   e*  difendere  le  proprie  idee  con  tutto  il  sangue  freddo  deJla  ragione.  '  IitfAtti  ib^  in^lalfi^l   della  disputa  sfuggon  di  bocca  parole  che  si  ritrattalo appena  cessata;  dialiaitro  l 'altriii  (?;4iit»'*ftifi^  .  giustiflcberebbe  la  nostMi.    la  questi  casi,  una  risposta  urbana  che  dimos^i.   torrente  di  villanie.  Perchè  mi  dite  voi  delle  ingmiy^  in  luogo  M  rg^ionVf  Avreste  voi  preso  if  niie  ragiónt  per  ingftif^^iN^w  ion.  all'impetuoso^B^^j^^  BQiUiOW^.as:  salilo  da  ^if^jT  Menai^ev^^' ùiia  dlà^wiéy  ''   ne  raccolse  un  centinaio  delle  più  villane,  quindi  vi.  aer4s^^Mtl,Q  qi^e^te  {K^cha  psirol^  :  ìuAi^z^^i^r   polito. jiv '';^'ì'^T''-^òJ    (4)  La  fissa  concilio  degli  Dei  tra  Gipve  e  Ciunone,  relativamcnle  alla  causii  de'  Greci  e  dtMroiabi  .  fa  assopita  dalla  deitrem^dl  Vincano.  Vulcano  ^soM'^  .  e  i  sereMi»  ìa  spirto  »  Retta  ìnadre  abbat|u(o;  Oh,  dfssé,  ìnrvéto  /  »  Strana  fia  questa  e  memoranda  istoria^  . Che  per  la  dispregevole  e  meschina  "  »  ^a2ià  idectri  v&da  a  soqnjaadro  H  clélo.  '  »  brande  è  fl  perigito  : 'addiovconittt  e  èè^^e,    Se  preval  la  discordia;  addio  retema  »)  Gioia  che  ne  fa  Dei  :  sei  saggia,  o  madre,  »    d'uopo  hai  tu  de' miei  consigli;  ah  cedi  »  (U  pur  dirò  ),  VolgiU  a  Giove,  e .paìià  »  CompiacenUi  *,  sòmniessa,  onde  dal'ciglia  »  Sgombri  quel  cupo  nuvolo  cbe  offusca^  f  >   nSMI'iBltM^'^  I   me  ii^KmMà^  cAft»  ee^Hunà^  Urisùt  faecia  ces\   queista  me:&2;o  già  iicceooato  di  sopra.  Chi  ael  eà<«   - n  ^éiien  d^lfa  leste^^  -  .>.  Qqanlo  forte  e  pòsseote  :  e    dicendo,  .    '  v\  Prende  capace  coppa,  e  a  lei  con  questa,   »;  Presentandosi  innanzi  :  Ah  soflri,  o, .madre  n  SommessameotéJ^lgllando  a^unse'^,   i  $Qnrif  èiiie'yoòH^^Impiinem^EHtftlei 9  N<m'''SI  còzza 'con  Giove;  ab  se  noi  tutti'*  ^    '  »  »  Ei  vuol  cacciar  da' nostri  seggi,  il  sai  j  4      sei  potrebbe;  q  4Uor  che  fora  (ip  tf^igio):  ., »  pel  tuo  VulcaD»,sé'8i  ioateoricio  atioor^   '  V  fio^mi  dal  «^n^i^  r  Stramassaf  Bulla  teìrra  ?  A  coUi  detti  »  L' afflitta  Dea  V  annuvolata  faccia   '  «  Rallegrò  d'un  sorriso.  Or  che  ^i  tarda,  i(  .Gridò  'lesali  già  vineitor;;  a*  Assaggi  -i    tazza  della  gioia  :  el  ff  alt»  tefaa  "      V  Neltarè  afiMfWanre,  e  posto  a  fronte,  Alza  il  nappo  alla  Diva.   Ella  lo  prese  \  Dalle  mani  del  figlio  :  e|  poscia  Jo  giro  »  N'andò  agli  fdhi  .m^sceBdoV  id  volto  ^  agli  atti,-,;  .  All' qfDr^ttar  ddlModampante  passo,  '.  »•  IJn  ìIso  sollazzevole  si  sparse   «  Fra  la  turba  dei  Numi,  ognun  applause    t  Al  vivace  coppiere,  ed  ogni  fronte  '  9  Basscjreoossi  :  fra  letizili  e  festa  .  <ft  /Pràscorre  II  ^rno,  ^  hon  vi  nùiDca  i^^o*  ». Cpnla  dorata  cetra,  e  non  le  Muse  »  Con  rarmonìca  voce  e  l  canti  alterni,  '  »  E      tutto  di  gioia  esulta  Olimpo   hJre  (Sella  disputa  scappa  fuori  con  una  celia  ai»*  gaia,  sembra  direi  dlie  rimo^a.alla  vìltaria^^^  vi  rìhuDzfa  spontaneàmente,  e  die  mfoìe  iestarei  amico  liei  tenipo  stesso  chejn  iuìla  nQ$tra  vanità  iir  ftiigeira  W  nemleio.  t^óeslo  tirAtfa-^g^AeiféM^  sorprende  piacevolmente;  e  quella  vanità  che  volea  vineere  n:0lia  .dìapQta>  non  vuole  mtate-fiirta'  in  generosità. Quindi gl’animi si acquietano. Lo spiritoso Voiture ha punto e  ìnareeiNto  un  cor  ^hHoi  queétf  vt)léva  èomingerlo a battersi in duello. La partita non è uguale, risponde il poeta. Siete grande io soa piceola;  \voi siete bravo ed io poltrone. Voi volete uccidermi? ebbene, eccomi morto.  £gU  dissirma il suo nemico  facendéM  Quando i contèndenti non la finiscono, e  kt  disputa è alquanto loalorom  y  pànM  dàvèf^  degli  astanti  d'interromperla  con  suoni,  cantij  giuochi^  soniniinistraziani  di  Jiqwri  o  «ifn|li.   V  Al  suon  {piacevole.»  D'arpe  trèniafitr,  »  Mescete,  o  vergini,  »  Mescete  i  canti Satira  itréanà.   t   I.  UtilHà  della  satira  urbana. Condannando  come  inurbane  le  villanie  e  le  ìngiuriC)  non  intendo  di  vietar  Tusa  savio  ed  op^    pòrttino  deli'  ironfa  o  idetta  a^ttn  eh»  flUt^  pregiU'*    tifiao  tElujO  »   volta  giunge  a  porre  sul  trono  il  vero,  )ridendo«  .  Jà'amor  pri^Mifo,  che  non  ahbaadana  uomini  m  aoQ  qiiMd^,9m  abtoodoiiwo  la,  vk»;  iìi  toi^  temere  sópra  ogni  altro  male  la  derìsione,  e  scuote  Jovb    dos89  .r  uidolenza,  e  daUe^  i^j^  cai^  feUìe  gir  spoglia  per  non  rimanere  esposto  ai  frizzi  del  ridicolo^:  i)  che  jpes^.  non, ottime  la  piìi  l^mpaoti^  Térìià  6d  ligguerrìta  >ragiònir./$e  Aristo&iie  avelie  dato  agli  Ateniensi  In  una  concione  quegli  ani*  ma^brameoti.  etie  died^.loro  .aeU^  cooiniedie,  l'avrebbero lagnato  a  pezzi;  laddove  in  teatro  ridevano smasc^llatamente  e  di^vaiio  eh' egli,  aveya  vagioiie.  Bèi^chè  i  Geniti  aTesaerc^  veduto  CiaerOQe  assalire  Tedificio  dellldolatrìa  con  armi  prestategli  dalla,  filosofia V.  poro  iiea.  aapavafio  lodimi  .ad  abbandonarnei  tempii.  Comparve  in  mezzo  d'essi  Ladano,  il  ^uàiQ  fece  la  guerra  al  gentilesimi.  doI  .«lotteggio,  fi  se  non  ne  distrMse  gli  altari,  ne  d^  sperse  in  gran  parte  gli  adoratori.  Il buon senso ha {iròseritte.  la^  mz^ia  cavallefescfae  in  fspagna,  pria  che  nasces^è  d^rvanfes;C    quella  nazione  non  riuscì  a  spogliarsene  se  non  dopo  ^'tgii  abbe  preÉcutato  al  ptibbli^,  11  suo  ridico*  Kssimo  Dpn  Chisciotte.  Tanto  è, véro  ciò  che  dice  Orazio:   «  fPnoa  graVf  sèstenza  ottieB  più  spesso  »  II  desiato  Cne  arguta  celia  ».   Si  deve  adunque  riguardare  la  satira  come  una  apecia  d'ammenda  censoria  che  aerve  a  corriere  quei  difetti  i  quali,  senza  cessare  d'esser  molesti  e  talora  4muk)sì  alla  aociatìb  non  triy^Qsijaei  codici,    St   inosservati  dalio  stesso  colpevole  seoza  la  caule  àmmo9lmùe  della  satira  \  del  an^tteg^;  «  dello  scherzo.  Il  suo  pungolo  viva  e  leggiero,  vibrato a  tempo,  può  divenire  suppUmento  alla  le*  <  gìslazioue,  più  ef&eaée  dei  gravi  sèrmoni,  più  acutd  di  qualche  pena  afflittiva,  e  il  rimedio  blando  e  specifica  dei  morbi  lìpn  ^ilcerosi  fleiranljsgo,  e  f^ec  così  dire  cutanei:   V  \   Seguasi  il  Venosin,  che  ride  e  taglia  »  Chi  sfugge  a)  Fpro.  IJ  satiresco  uffizio   f  »  .Piiif  die  II  fratesco  può  levarti  il  pelo    ».  P%chè  il  frizzo  piii  scotta  che  il  y^j  L'ironia  però  e  la  satira  sono  armi  pericolosissitne  di  cui  egli  è^estMmametite  foeìle  di  alm^  sare,  sia perchè questo genere di discorso non è il più  difficile^  sia  perchià  la  sottra,  .presenta  UM  .  fat^B  sembi^^^  sia  perche^   deprimendo  gli  altri,  sembra  airaniòr  proprio  d'ionateaiÀ  80  stesso:,  perciò  riesce  iiiiripido  11^k»gio%    e  il  motteggio  piacevolissimo  (3);  ed  Ennio  sog-*  gittiige^  ch'egli  è  più  facile  ad    uomo  di  spiriló  il  wlbeare  ««Ha  bocctt*  de'  carboni^  àeeeal,  di  quello,  che  riteoere  .un  iiiottti  s^tipco  che  gli  corra Un  giovine  gloriandosi  d' avece  composto  una  satira^  CiebiUoD^gU  dice:  lUcón^spele  cpsnfo  è  JMle  qiiesl^  niera  di  scrivere,  giaccbiè  ij  siete  riusdto  aUa^^vesbrft  et^u   Maliffnilad  falsa  species  liberiate  inesL  Xacit.,  Hist.,  I.  OblrectaU<K  et  Uvor  prouU  wiuihm  accifiuntuTn  Idem,  m  ^^ '-^fi   tiimo  s'assoèia  spesso  l'invìdia,  la  quale  stiilerf>ià  mtnvte  azioiii'  altrui  ^l»U&ee  severa  inquisizione,  A  fiiie  ét  iìtùywfì  qualche»  «aeGateBa^  e;.coii  wAì^  gni  >ep]orì.  adoaibrarla: €  Di  tutti  invidioso  diceà  malQ  Sénisa  rispetto,  e  pretendi^vii  ardito  '  .  »  Piovra  i  costumi  altrui  far  da  fiscale   Quindi  suUe  cose,  sulle  follìe  ^  sui  pregiudizi,  sulle  |ti*€itensi(^ai  d^lj'aiuor  proprio,  '  sui  vizi  in  generale àevc  H  'jmotteggit)  più  spesso  cadere  che  .non  suiruomo  particolare,  àccioecbè  alpri,  vo^ndo  eedtaré  iH  .rteOi  non  apra  una  piaga  mortale  mei4'altrui  animo,  e  non  s'esponga  all^d^o  delle  per SOM  emeste  se  la /SMira    in  ialso,  .  FqItio  che<  per  diletto  o  per  malignò   V  Animo  Valtrui  fama  è  a  morder  presto^ Ch'infin  giunge  a  sp^ieqiar  pef  corbe  un  cigQps  '  »  IQ  ebt^nt'odio  vìen^  eh' ogn'uoin  ené  i  Lo  d^nna  con  ragion,  l'abborre  e  fugge  \VÌ»:Con9e  mostrò  all'umah  éóusdrzio  inlissto   Meii  voglioT^f  '  ommettere  d'és8èrvà?e,  ehe  ai   rinvèi^iore  di  falsa  maldicenza  o  d'ingiusta  sdittra  è  ripr^sibiie,  lo  à  pure  quello  ebe  la  difiba^e:  lAi-'appiceando  il  fuoco  all'altrui  casa  si  scusasse  dicendo,  che  ha  ricevuto  il  fuqco  da  altri,  non  oV  Mrrebbcf  cotnpatimento;  per  he  stessà  ragioné  t>t-.  tenerlo  non  debbe  chi  spargendo  false  maldicenze  e  ingiuste  satire,  dice  d'averle  intese  da.  Pietro  a  d9  Martino,  io  un  caffè  o  in  un'osteria, enones^  i^ne  egli  rinventore^  '  »   SenCilor  W  raceontar, fti  un  trombe]^  Preso  una  volta  da'nemici  in  campo    r  »  Mentre  stava  sonando  alla  veletta:  V  \\  qiial,  per  ritrovar  riparo  o  scampo/  »  Dicea  che  solamente  egli  sonava, Ma  eoi  stio  fèrro  mai  non  tinse  il  campq.  Gli  fu  rispo$to  allor,  ch'ei  meritava    Maggior  iien^  pero;  poichò  sonando^  >  Alle  stragi,  al.  furor  gli  altri  irrita. Dopo  (Tavere  stabilita  la  legge  generale,  fa  d'  uqpo  aggiungere  le  ecceziotU,  le.  qvali  per  lo  piiij  dall' e$amé  delle  ragi«ni  w  cut  fondMli    4lessa  legge^  risultano.   y  url^nità  jno!»  coBdaQQa  ne  nel  convenar  ab  eiale    nella  repubblica  letteraria  i  modi  satìrici  più.  0  .iDeoo  .piccanti,  ma  veri,  contro  gìi  indk^i^,  dui  tÈ^  seguenti  casi  e  pe'  seguenti  motivi:  /,  1^  Rispingere  m  impertinente  aggressore»  ^  jMtiasiiiio  Oacier^  entuaiasta  della  àeiMza  ^digb'  antichi,  ascoltando  un  giorno  una  dama  che  non  ne  parlava  Qon  troppo  rispetto,  e  prioiHpdknj^qt  del  divino Platone,  le  .disse  con  tatta  la  gentilezza degli  eroi  d'Omero:  Certdment;^  madama  non  degnasi  di  leggete  dtro  Sèrittere  anticò  che  Petronio  (ciascun  sa  che  Petronio  è  ràutore  prediletta de'  dissoluti^;  Perdojiate^,  replicò  ellat    aspetto,  per  leggerlo  \  che  voi  fie  abbiate  Jatto  un  santo.  Chi  vorrejìèe  dare  al  {rizao  di  quella  dama  ia  ttisoiii  dimpulito?  Un  principe  volendo  divertirsi  a  spese  d'  un  suo  cortigiano I  eli'  egli  avm  impiegido  ip  diversè  amb^^ecie,  lo  Mendicar  la  ragione  degl’attentati  d’uno  stolto  o  d'un  impostore. SOCRATE adoprava L’IRONIA – cf. Grice -- colle  persone  presuntuose,  con  que'  pretesi  dotti  universali  che,  non  sapendo  nulla,  davano  ad  intendere al  popolo  di  saper  tutto,  e  pronti  mostravansi  a  rispondere  sopra  qualunque  argomento.  Luciano  smascherò  il  celebre  Peregrino,  il  quale  profittando  della  dabbenaggine  popolare,  e  facendo false  predizioni,  aveva  aperta  una  bottega  d'impostura  nella  Grecia  e  s'era  arricchito  a  danno  del  senso  comune  e  del  pubblico  costume.   Mendicare  i  diritti  del  giustOy  delVonestóy  .della  patria  dagli  attentati  de’malvagi,  per  falsa  opinione  potenti  o  per  forza'  reale.  Chi  avrebbe  potuto  condannare  Cicerone,  allorché  metteva in  evidenza  i  vizi  di  Catilina  e  i  suoi  atr  tentati  cóntro  la  Repubblica?  Il  giudice  che  espone  un  delinquente  alla  berlina  con  un  cartello  sul  .  pettOj  ove  t\  leggono  i  suoi  delitti,  è  senza  dubbio un  maldicente;  ma  questa  maldicenza  personale è  necessaria  a  scorno  del  delitto  ed  a  fine;di  prevenirlo'    rassomigliava  ad  un  barbagianni.  Io  non,  so  bene  a  obi  mi  ral^omlgli,  rispose  il  cortigiano  :  tutto  ciò  cb'io  so  si  é,  che  ho  avuto  l'onore  di  rappresentare  molte  volte  vostra  maestà.   '  Anche  nel  «eguente  madrigale  il  frizzo  è  giustilìcato  dal  diritto  di  difesa:   «  D'un  ponte  al  passo  stretto. Stando  sopra  d'un  carro  Tommasetto  y  hicontrossl  In  due  fraU  zoccolanti -,    n  Che  disser  :  Villanaccio,  Ur  avanU. Ed  egli:  Aspetto  che  passiate  voi;  •^   »  Non  to'  mettere  11  carro  innanzi  t*  buoi  ».    a..  m   f-Il  pdjdrone  che,  interrogato  sulle  qualità  d'un  servo  licenziato,  dietro  la  sua  esperianza  lo  dìchiara  ladro,  è  senza  fallo  un  maldicente;  rna  que*  sta  maldicenza  o  diffamazione  è  utile,  giacche  è  meno  male  che  resti  senza  padrone  un  ladro,  di  quello  che  vengano  derubati  più  innocenti. ChesterOeld  non  distinse  con  precisione  i  con*  fini  che  la  satira,  la  derisione,  la  maldicenza  utile  e  necessaria  separano  dalla  maldicenza  inutile 0  ingiusta,  nel.  seguente  paragrafo. La  privata  maldicenza  non  deve  giammai  es*^  sere  accolta  e  divulgata  volontariamente,  perchè  »  sebbene  la  diffamazione  possa  al  presente  ap»  pagar  la  malignità  e  Torgoglio  de'nostri  cuori,  i>  pure  la  fredda  riflessione  trarrà  da    fatta  inclinazione  conseguenze  sfavorevolissime  per  noi.  »  In  fatto  di  maldicenza,  come  di  ruberia,  chi  la  »  raccoglie  è  sempre  creduto  colpevole  quanto  il   ladro  stesso  ».  Distinguete  la  maldicenza  che  svela  le  altrui  innocue  debolezze  per  sola  voglia  di  denigrare,  dalla  maldicenza  che  svela  i  vizj  veri  e  i  delitti  reali  che  possono  essere  dannosi  al  prossimo.  La  prima  è  ingiusta  e  riprensibile,  la  seconda  utile  e  necessaria.  L'uomo  cui  siete  per  affidare  la  direzione  della  vostra  cassa,  è  un  truffatore,  xxn  giocatore,  un  dissoluto:  mi  farete  voi  rimprovero se  ve  ne  avvertisco?  Qualcuno  vi  imputa  dei  vizi  e  dei  delitti  falsi:  vi  lagnerete  voi  di  me,  se  gli  strappo  dal  volto  la  maschera,  e  Io  dimostro  bugiardo  ed  impostore?  È  giunto  in  città  un  cavaliere d'industria  che  co'  suoi  ingegnosi  stratta  gemmi  scrocca  l'altrui  denaro:  vorrete  voi  che    noR  ne  dia  avviso  a'  miei  amici,  acciò  la  loro  jomoaa  fede, non  cada  in  laccio?  AU^  corte;  sevo]  amate  il  gregge,  darete  la  caccia  ai  lupi;  e  se  gli  uoiiiiali.  accennerete  loro  i  cani  arrabbiati. Jieyole  ^er  V  uso^  della  satira. Tre  sono  le  fegole  che  debonsi  osservare   motteggiatore,  acciocché  il  motteggio  riesca  onesto e  Jegittiibo,  cioè  non  offenda    la  giusti^à^  ijè  Yumanitày    la  convenienza.   Il  motteggio  è  ingiusto  in  due  modi:  1^  quando  t>un^e  (^ersóne  esent!  dal  vizio  ìniputato;'  2^  qMando  cade  su  difetti  che  non  possono  ascri'  versi  a  colpa,  come  le  imperfezioni  fisiche  ^  ovvero  le  sventure  accidentali. L’umanità  rimane  offesa  quando  il  motteggio  nialigno  ò  acerbo.    segno    malignità  chi  mostrasi  avido  del  male  altrui  y  M  si  delizici^  e  còn^piaep  neirinsuJtare  e  nel  nuocerer^$idà  segno  d'acerbità,  qualora  il  motteggio  è  sproporzionato  alla  jcolpat  .e  flagella  a  sangue  chi  ^on  merita  che  un  lieve  colpo  di  stafile  (I).,  (\\  V  itotàh'  SoMÉe  m  rattopprata  .^iHn'^Mee»  delle  sue  maniere  ^  dairameDìià  abituale  de'suoi  sguttdi,  dal  tiorriso    bonlA  sempre  pronto  a  Dc^cere  sui  suoi  labbri,  di  modo  che  4'icoDia  cessa  d'essere  aiuara,  e  diveniva,  per  oqsì  dite,  ua  agro-dolce  eondile  dalle grazia. Cresce  or  '  t*inK>, or  riiRro  di  ifuéstt  due  efemeiilt,  secondo  cbe il  difeifò  Tdie  Socrate  voleva  correggere,  era amb  nodfO.  Voltaire  dice,  che  volendo censurare  Cornelio,  imiterebbe   iioid4>  Il  Quatoy  nellA poomi^edl»  del  Uakiouuto  pet  ior^a  y  .i.Lo  u   Si  Tìola  la  convenienza,  quando  i  motteggi  di'  sconvengono  al  motteggiato  o  al  motteggiatore  éHa  «iveostanza  di  ioogo  e*  di  tmf^;  qrówto  sono  sconci  o  villani,  quando  si  scialacquano  senza misara^  e  :  se  ne  fa  professione  aperta  «  perpetnà»  L'ingiustìzia  nel  motteggiatore  o  è  maliziosa  o  '  irriflessiva^  la  prima  nasce  dal  bisogno  di  umiliar  PMtrttì  merito  ptat  inoftlnorsi  sulle  f«^tie  deli"  ftb^*  battuto  rivale:  la  seconda  proviene  da  un  errore  d3iiteUetto  originalo  de  rislielftesie  di  idee^  siste*  mi  esclusivi,  rigidezza    carattere,  tenacità  d'opìnìoni.  Da  quesi^a  causa  derida  j^e  tal,Y9|ts^  l'aicer*  Utà  prodotta  p*^ii  spesso  umor  eausticeié.  etrabiUariqi^  JLi|i  causticità  è  sovente  figlia  4/  <^uor  depravato  i  ebbro  d' orgoglio  malefico,  e  pasciuto  del  fiele  deirinvidia;  talora  una  cattiva  organizzazione,  o  le  persecuzioni  ostinate  deUa  Tortutia  giungòtiò  e  guastare  aiidie  unendole  Me^'-e  ad  avvelenarne  Io  spìrito. Le:  e^  ke  peir  'sóei  pìriii dpii  0  una  natura  grossolana,  0  la  mancanza  d'educazioney  o  una  vita  isolata  e  lontana  dalla  so^  eietà,  0  il  pocò  studio  dell'uomo,  o  le  compagnie  yolgi^p^^  ioQne  T  abitudine;  di  parlare  spensier^ taméirter;   ji    non    giottliBat  ma<>  bailaalata  a'  Sganardio'w  non  previo  un  eoDipUmento  rispeUoso,  e  colla  protesta  d'essere  disperalo  per  essere  caj[tr41o  di  Cario.  Questo  inpdo.di^ceosarareiM»ja  debb'  esjsere  escluso  dai  croccili.  sociaB ,  se  ma  cb0  in  vece  di  porre  in  m&no  al  censore  uh  bastone  j  fa  d*  uopo  dàrgfr  un  fltigeRò  di  jNMe. Jl}ìm^  li6)Ia  ùimwènms^h  satira  appoggiate  al  falso  va  mordendo  lievemente  i  costumi  degli  assenU,  non  ta  99vero  cepsore  aggrotterai  tosto  ki  eiglia,    tomi  icon  mano  ardita  qoeatò  tenoe  piiiBere  alla  mediocrità  che  si  consola  della  prò-!  |lrìa  batwzza  sfoirmndosi4i4«pcimi^V  J'alte^^^  n»erito  V  ma  a  condiscendenza  atteggiato  più  che  ad  a88.ei)  .ammirerai  lo  spirito  di  ehi  censura,  e^ter^  modo  dabbii  mU'applicaaioQa.  Sa poi  U  piacere  di  satireggiale  gua4dgi]ia  gj[i  9Staim  al  puntp,,(^e  'aQi;ga  qwlcha ;vt.-(:;-  Tewité  et6lrti0  nrò?atord^^  f'':: Motti  protervi,  onde  a  maligno  riso  V  »  Mover  la  dorma  e  la  virtù  schernire ti  sarà  permesso  di.  troncare  em  jdigailà  V  altrui  aiscorso,  e  assumere  la  difesa  degli  assenti;  ma,  per  non  scemar  fede  alle  tue  parole  ^  non  devi  mostrare  alterazione  di  spirito;  giacché,  altrinieriti  operando,  al  piacere  di  satireggiare  si  assoeierà,  nell'animo  .del  satìrico  il,  piacere  di  conturbarti,  e  gl}  assenti  verranno  ad  essere  danneggiati  dalla  tua  stessa  apologia.  L' e^peri^jdza  dimostra  infatti  che  il  calare  della  difesa  rendè,  tahotta  gli  assalitori più  feroci,  e  allora  la  conversazione  rasso»  miglia  i^ue'aiigrifizi  sbarbarì  ne' quali  immola vansi  ijjttime  omaiie.  '  Lascia  dunque  qualche  pascerlo  .alla  malignità,  se  vuoi  ch'ella  ti  permetta  un  elo.gìo;  MBt  per  prosare  la.  itiocei^ità  del,  4iio  ttlo,>  allorché  tu  stesso  produrrai  in  mezzo  le  azioni  di  qualcuno,  in  cui  siano  difetti  frammisti  a  vir^,  userai  la  dèstrézza  di  quel  pittore  che,  dovendo  ritrarreAntigono  guercio,  lo  pins^  di  profile. Facezie.   Un  discorso  che  inaspettotanieiile  e  contro  JTapparanza  caoibid  il  rimpjTovero  in.  lode,  it  male. in  .tiene,  il  lisGMHre  iO;  sqi^exanza,  lo  spmzo  iii  istinni^  e  talora  anche  ali'oppostcs  si  chiamai  face zùa  La  facezia  si  divide  in  due.  specie;  La  l>  ^  un  hréYé  raceoitto  che  fa  passare  IV  nimo  tra  alcune  d\Tenture,  e  dopo d’averne  alimentota  la  curiorttà,  ikiisce  con  iin  sentimento  non  preveduto. Dionigi  il  tiranno  avendo  sapulo  che  una  sua  coni-'  me^Ua^  dajui  spedita. 4l: concorso  in  Atene,  era^t^ta  eorooata^  ne  injpti  «r«lleg)nem.  CiH  Ateniesi  dissesn  cbe^ise  *av«flh  aero  preveduta' questa  tdaf^t^jotià  i  vsu^hf^eio  cèronatQ.Dlou^  venti  anni  prima.  in  qiieslo  caso  la  iode  copre  un  vero  disprezzo,  e  mmìtesta  la  Viziosa  compiacenza  ct^e  dovevano  provare  que'  repubb|i^|AMr  la  moi>t€i  d'un  tiranno  tanto  abbòminato;  Sorge^^fftiBrmo  piaqèvolissitna  sorpeesa  nel  vedere  etie  «gl’ateniesi  potevano  liberar  Siracusa  onorando  Dioniiii  in  Atenei  Jjl.  padre  Le  'i'cìlier,  che  mentre  era  confessurti  di  Luigi  XÌV,  tenne  il  protocollo  de’beneticii  ecclesiastici,  dice  ad  uti  abate:  Yoi  altri  esitanti  agli  impieglil  sièle  oost^  amfei'  finché  aVeté,  bisoerio  di  noi;  'ma  qìiéaida  siete  saziati^  ci  dimenticate.  Ah,  non  temete  nulla,  rispose  ridendo  Tabate:  io  iK>n  vi  dimcoUciierò  giuiumai,  giaccliè  solip  iosa^   In  questo  ciùo  tt  timore  si  cambia  in  speranza^  e  nel  -tempo  slesso  éi  si  pres^ta  improvvisamenfe  nùi^  upa  brama   I     che  con  somma  gelosia  suol  tenei:sì  nascosta.,  i,  Eia è  un  semplice  detto  pronto,  rnaspettàtoi  opportuno t  un  vivo  ^^apidgi£ripo  che  vellica  e'  punge  piaeevoimente. Con  maggiore  chiarezza  e  precisione  di  ter^  Quni>giusta  il  suo  costume,  spiega  la  cosa  il dottissimo Gberardffil  dksemkK. La  giocondità  delle  lacezie  par  che  nasca  ordinariamente  da  un  ingé^  gIMMt»'  ed  iroproiovlM  'aecoppiftiBentcr  W  d«ie  idee  disparatCL tra  loro  e  disconv^jiienti. lì  riso,  semjira  il  prodotto  4i  due  sensai&ioni  uiike,  sorpresa  e  piacere,  eccitate  da  Jien  elitra»-,  stì  0  da  finissime  analogie.   L'impressione  oagionata  nel  nostro  animo  da  un  oggetto  nuovo  o  inaspettato  sidsiiania  sorpfesia.  La  sorpresa  è  maggiore  quando  T  oggetto  .coni0  la'  eosa raeectea'  è  eonivìirìa  a/  qiiai^  suole  comuneipente  succedere. Quindi  la  aorptesa.  è  massiin»  allorché  è  massióio  il  contrasto  tra  il  fatto  ^pcaditio  .eJa-Hft:  stifi.jaspettazione*  Ciò  posto: jChie  éel  jtUo  abbia:  kmga  la  sorpresa^  è  di^  mostrato  dai  seguenti  notissimi  fatti: Ridono  frtù  spe&so  gli  ignoranti  che  gli  o^-,  mini  cotti,  poiché  ì  primi  nón  conosGéndo  i  rapporti die  uniscftpo,  ie  cas.e,  9,  WAggiori  sorprese  soggiacciono. 11  saggio  appena  sorride  mentre  lo  sciocco  t'abbandona  a^  riso  sgangherato,  ^acchè  il  sagg^ìo  .  EIcmonti peesla  ad  uso  delle  scuole.  trava  presto  le  idee  intermedie  che  imi»sip>pi^jlor^  liuie'  afeiluate.  ddto  «òse  .«col  fi^  k»q^«if^ì^^  successo  e  che  sembra  smentirlo.  ^  r  ">  a<«  fy.  mette*  «bea  fUe^  Ue9ggiOt4t^^l<^  f^eioeco  non  ride;  e  questo  accade  quando  il  contrago'  ma  è  immediatamente  espresso  »  ma  dietro  rapporti  pBBfiìm.ài  idee  s'asconde  «  e  quaìdie  mé^  noento  di  riflessione  per  essere  EientUp  o  ricono 4.0  '6H  uomini  faceti  e  lepidi  dicono  e  sanno  rHl^yar  jOOi^e  che  lanno  ridere  gli  altri,  ^senza  die  .  «et  irfdeno^tesifi.  Man  vidptin  esa  perchè  veggenti*  ril  nodo/cUe^unisce  le  idee  in  apparenza  contrastanli;  ^Qao*.  ridwe  gli.  altri.  4^rehè  hfinBQ  T  artiiisio.  di.  ^asconderlo  ai  loro  occhi.  >'  r^r?  II  riso  die  ecdta  .una  facezia^  sentila  la  fush  ma  yoitai  è'«moltn  pjéore  alte  sead^a,  e  posbin  diviene  millo,  perdiè  le  cose  note  fioii  lasciano  Ittoga^^liia  ijorp».   IL  Che  a/  riso  non  basti  una  sorpresa  q^it^*'^  limqu^f  ma  si  riohicgga  Vaggiìmla^i  sensaziaue  piacevole,  seop^ira  rieattare  -dat  ft^^fuenti  ietti: Noi  ridiamo  ricordando  le  nostre  passate  fi^lÀ^  Qv^j^m^  aUoiaOia  annessa   jd^a  del  .disi^nore,  perchè  questa  Vicordanxa    risalta  al  sen^  limentOc:4^4.;POSti;a  #Utuaj|^e  .saggezza  »  e!,  quasi  «  dissi,  le  accresce  piregio;  t,  evi^  rvjV/.   2.  <>  Noi  ridiamo  aH'udire  le  altrui  goffaggini;  il,*  cl\e  fiorse  d^riiui  dairamor  (HPQpriOr  il  qmlei  gica-f,  see  nello  scoprire  in  altii  de'difetti  de'quali  egU  ait  crede  esente.  Koi  rìdiamo  alle  sveMure^dei  ncNMvl^nemicti.  allorché  non  sono    forti  da  interessare  la  nostra compassione;  poiché  le  accennate  sventure  adé^  scano  piacevolmente  il  sentimento  dell'  inimicizia  e  della  vendetta.,i^>>i  -^^t^^fi  r/Ji^U\p>y'4,i ^j'^Mip^i  4.«  I  beffardi  ridono  nello  scliernìre  questò  o  quello,  giacché  il  loro  orgoglio  coglie  tanti  gradi  di  piacere,  quanti  gradi  di  depressione  ed  avvilimento fa  subire  agli  altri  co'suoi  motteggi.     ^fi.p  Noi  ridiamo  nello  scoprire  somiglianze  tra  oggetti  che  credevamo  non  ne  serbassero  alcuna,  come  rìdiamo  in  generale  sentendo  ingegnosi  tratti  di  spirito;  perchè  il  facile  esercizio  della  nostra intelligenza  nel  rapido  passaggio  da  un'  idea  dtf  un'altra,  ì  cui  rapporti  lontani  non  erano  ben  noti  e  distinti,  é  per  se  stesso  piacevole,  com'  è  piacevole  un  moderato  passeggio,  il  respirare  aria  nuova,  la  comparsa  d' un  lume  neiroscurità  e  simili; 2.0  perchè  quella  cognizione  diviene  argomento della  sagacità  nostra^  la  quale  ha  saputo  cogliere  un  elemento  che,  i:estìo  all'analisi,  al  comun  guardo  ascondevasi*  V. "4(^j»*,   III.  j4cciò  la  sorpresa  e  il  piacere  cagionino  riso,  vogliono  essere  prodotti  da  lievi  contrasti  0  da  finissime  analogìe;  ecco  qualche  fatto:     1.°  Alla  vista,  per  es.  d'un  bel  quadro,  all'udire  una  bella  musica,  noi  proviamo  sorpresa  e  pia-»  cere,  ma  non  rìdiamo;  dite  lo  stesso  allorché  al'  vostro  occhio    presenta  l'arcobaleno  od  altro  simile grandioso  ed  innocente  fenomeno. "i.^  Vi  cagionerà  sorpresa  e  piacere  senza  farvi  ridere  la  vista  d'un  animale  selvaggio  non  mai  veduto  prima,  per  es.  la  grossa  scimia  chiamata  Qurang-outang.   Ma  se  la  scimia  vi  si  presenta con  berretto  da  cardinale  in  testa,  voi  non  potrete comprimere  il  riso:  v'è  qui  un'  contrasto.   Osservate  bene  che  non  tutti  i  contrasti  fanno  ridere^  ma  solamente  i  contrasti  lievi,  e  son  quelli  che  escludono  la  compassione  e  l'orrore.  Se  un  uomo  millantandosi  di  poter  saltare  un  fosso  vi  cade  in  mezzo  come  un  animale,  voi  ridete  sgangheratamente; ma  se,  cadendo  si  rompe  una  gamba od  altro,  voi  non  ridete  più;  qui  il  riso  è  compresso dalla  compassione.   Dire  con  Aristotile,  che  il  riso  è  prodotto  da  una  deformità  senza  dolore^  è  ristringere  di  troppo,  secondo  che  io  ne  giudico,  il  campo  del  ridicolo;  poiché  spesso  noi  ridiamo  saporitamente  senza  che  alcuna  ombra  di  deformità  al  nostro  spirito  si  appresemi.  Infatti  ci  fa  ridere  la  scoperta di  finissima  analogìa  non  prima  supposta,  l'unione  di  qualità  che  sogliono  essere  disgiunte,  la  disgiunzione  di  qualità  che  vanno  ordinariamente  unite  insieme. TI  rasllf^'lìone  raccoma  come  un  dottore  vedendo  uno  che  per  giusti/.a  era  frustato  intorno  alla  piazza,  e  avendone  compassione,  perchè  'I  meschino,  henchè  le  spalle  lìeramente  gli  sanguinassero,  andava  così  lentamente,  come  se  avesse  passeggiato  a  piacere  per  passar  tempo,  gli  disse. Cammina,  poveretto,  ed  esci  presto  di  questo  affanna  Allora  il  luion  uomo,  rivolto,  guardandolo  quasi  per  maraviglia,  stette  un  poco  senza  parlare,  poi  disse  :  Quando  sarai  frustato  tu,  anderai  a  modo  tuo  \  eh'  io  adesso  voglio  andar  al  mio.   Vediamo  in  questo  caso  disgiunte  due  quaìilù  che  sogliono  essere  unite;  cioè,  sotto  Fazione  delle  percosse,  non  scorgiamo né I SEGNI DEL DOLORE [cfr. Grice – frown], nè lo sforzo a liberarsene. Abbiamo dunque d’un lato una forte sorpresa, dall’altro Fonti  4ija0ezie€ Le  numerose FONTI da cui s^possoikl  tram  ìetà^cezie, vogliono esser ridotte a cinque capi generali. Deformità logiche, deformità  morali, deformità  fisiche; opposizione artifiziale tra lo stile – Grice: THE HOW -- e il soggetto (Grice: THE WHAT), e somigh'aoze e contrarietà lontane o LATENTI (implicit – Grice) ed  miprovvisamente  svelate. Sono DEFORMITA LOGICHE le  deviazioni dal retto raziocinare; e i gradi d’esse sono sempre maggiori quanto più peccano – GRICE: flout, INFRINGE] contra le regole del giusto raziocinio. L'rghpranza quindi delle 1) pili facili combinazioni, la credulità  soverchia,  i>  la scimunitaggine sono FONTI sicurissimi dia'qiiali emerge quella deformità logica che provoca il riso [man is a laughable animal – Grice on Aristotle] senza eccitare nè rodjQ nèla compassione. Quindi le  parole o prive di senso o storpiate, le interrogazioni, le risposte fuor di proposito, e le incoerenze, la pertinacia neg’errori evidenti, e quella abitudine che i goffi hanno  dì dir sempre e credere le cose a rovescio dei logici detr  »  tand  ». un sospettò dié quel padeiité o non  gòffrissC} il che fa tacere n denttinéoto penoso della  compassione o ituscisae a deoilnare il dplòre il che dà  luogo ad anudirazione scevra d'invìdia. Io non saprei come  innesLire sulle  azioni e sul discorso di quest'uomo L’idea della  deformità  mentre  vi  veggo cbiarrsslmo un bel  contrasto con quanto succede comunemente. DUn esemplo di  ^&r^giooaaieuto logico cagionato aà  '  bijióna  dó^e  d'òirgotglia    vede  nel  discorsa 'die ALFIERI (vedasi) mette in bocca al suo conte, allorché costui viene a contrasto  eoU'abate, futuro  mae^a  .de'suo]  pglì^  sup'ofiiararto che gli vuol dare. Ora, venendo al sodo,  .S.  ^   Del salario parliamo.  V  do tre scudi; Che tutti  in casa far star bene io godo. Ma, signor, le, par egli? a me TRE SCUDI?  S  Al cocchier ne da SEI. Che impertinenza?  Mancan forse i maestri anco a DU'scudi? Ch'è ella in somma poi vostra scienza?  '^r%  Chi siete^D somma voi, che  al  mi' cocchiere Veniaté  a contrastar la precedenza?   l  ìK  GU  è nato in casa, e d'un mi'cameriere:  i  i Mentre tu sei di padre contadino, e lavorano  i tucti  r/altrui  podere^  H Compitar, senza  intenderlo, il latino. Una  zimarra, un mantello n  tallare, i  »  rCn>  coUaru^cia  sudi-rcelestrino, Vaglion iòrse a natura in voi cangiare  r. Poche  paròle: io p^go^ereibeiiissimo: C  .  u  '  Se  a lei non quadra ella è padron d'andare. Atteso una grata sorpresa sono parimente mate)ie di RISO (laughable animal – Grice on Aristotle)  le imle^  intelligenze come allorché un discorso vien preso ih UN SENSO OPPOSTO – cf. Grice, IRONY -- a quello che gli è dato da chi. Jo pronunciò; d'onde nasce una contrarietà fra la dimanda – How is he getting on at his new job at the bank, I’m out of gas -- e la  risposta – He hasn’t been to prison yet, there’s a garage round the corner --,  ed una sensibilissima divergenza. Per es., Pietro  dimanda a Paolo – robbare a Pietro per pagare a Paolo – “Dove va?” Paolo risponde jparfii pesci.  ij,.i^L.o  i.Appartengono a questa ètasse té  ISu'tle contengono un certo inganno inaspettato, per cui nasce molestia ad alcuno senza dolore però e senza grave incomodo. Per DEFORMITA MORALE intendesi quella che NON E CONSONA ALL’USATA MANIERA CON CUI CONVERSANO GL’UOMINI, ma sì però che non turbi o funesti  l’ordine socievole, poiché allora questa deformità anda congiunta colla scelleratezza, e ingenererebbe ODIO – My lips are sealed --, NON RISO. Quindi fanno ridere l’incongruenza de’caratteri, perciò sembrano piacevolmente assurde – alla You’re the cream in my coffee -- le millanterijs in bocca d'un vile, e LE GRAVI SENTENZE SUL LABBRO D’UNA MERETRICE e  simili. Tutti i caratteri e tutte l’azioni che hanno l'aria di singolarità cioè che si scostano dalle ricevute costumanze; la discordanza tra i mezzi e il fine (METIER) pròpostosi – Grice: conversation as goal-directed rational discourse --  o le pretensioni maggiori delle forze. Le passioni gagliarde svegliate da  lievi cagioni; talvolta  per  es., resta annullato un progetto di matrimonio, di commercio, od altra associazione, per contesa sui titoli de'contraenti da  inserirsi nella carta di CONTRATTO – Grice: “For a while, I was a quasi-contractualist, and my pupils suffered my seminars as a result!”--; e le reciproche vanità rimbalzano come rimbalzano e retrocedono due palle elastiche che, moventisi in opposte direzioni, vengono ad urtarsi in mezzo al bigliardo. Allorché il cardinale Mazarino, ministro francese, e don Luigi di HarO) ministro spagnuolo, convennero nell’isola de’FaggianI (in mezzo alla Bidassoa sul confine de’due regni), per concertare tra l’altre cose il matrimonio d'una S. Gli sforzi per attribuire agl’altri la colpa, de nostri sbagli.r  A scanso di ripetizioni vedi il passagio. DEFORMITA FISICA si è quella che emerge dalle deformità visibili, corporee, naturali. Vastissimo campo di ridicolo – CYRANO d’ALFANO -- si è questo, poiché infinite sono l’aberrazioni che notarsi possono nel regno della natura, e nell'uom principalmente, che per eccellenza è detto re della natura – Grice, natural/nonnatural -- medesima. Quante mai numerar si possono deformità corporali,  sia nei membri, sia nel portamento, tutte sono GIOCONDISSIMA FONTE DI RIDICOLO – cf. Trump --,  perché le deformità che prendonsi  D per oggetto di scherzo non siano indecenti o col  dolore congiunte, poiché allora non riso, ma ecciterebbero di leggieri odio – O COMPASSIONE. Un uomo urbano per altro non fa MAI oggetto di scherzo quelle fisiche deformità che non si  possono attribuire a colpa – cf. Grice on Strawson on Freedom and resentment --, come ho già detto più volte. Ito  L’infante di Spagna, Maria d'Auslda, con Luigi  XIV re di Francia, sono tante le reciproche pretensioni, sorgeno si gravi difficoltà sul cerimoniale e l’etichetta, che trascoreno due mesi prima che i ministri possono accordarsi. Un ingegnere mezzo ul)briaco e barcollante  prende a misurare un terreno, e commette: ercoli tali die gl’astanti ne fanno le maraviglie. Il buon uomo in vece di rendere giustizia a sè stesso, se la prende col suo strumento, e dice  balbetttUìdo: Ehi ma il difetto é nella mia pertica: ora ella lia otto piedi, ora non ne ha quattroj e la getta sul fuoco. In questo esempio primeggia la deformità logica sulla deforniifà morale. Ceretti.  .j^  xxl  i^\.^r  Jife  àctoi^  v ti. "'llr,  il ridicolo nasce alle volte dal veder trattali con uno stile lepido e scherzevole gl’argomenti gravi e severi, il che vellica piacevolmente la malignità del cuore umano, il quale gode nel veder posti a livello gli’oggetti eminenti coi più comuiif, ed è questo il copioso fonte delle parodie. Talvolta all'incontro s'induce riso col ragionar d’oggetti bassi e plebei in un  tono grandioso ed elevato – cf. Grice, The theory of context --,  dal che vengono essi a ricevere un’aria comica e faceta, mentre sotto aspetto di lode son fatti ridicoli, e LA CRITICA RIESCE TANTO PIU SALSA QUANTO PIU E DISSIMULATA – cf. Grice: “Miss X. executed a series of sounds that closely corresponded to the score of ‘Home, Sweet Home.” --. Senza alcuna specie  di discorso si può eccitare ridicolo con una lode apparente smentita dal fatto (“A fine friend! +> a scoundrel – Grice).  Batru, che ha motivo di lagnarsi del duca d'Epernon, fa un libro che ha per titolo, “Le grandi imprese del duca d'Epernon” – cf. H. P. Grice, “Prejudices and predilections; which, become, The life and opinions of H. P. Grice” -- ma tutti i fogli del libro sono bianchi.   tt Debbono essere collocati sotto questo titolo que’CONCETTI D’AMBIGUO SIGNIFICATO, onde può trarsene una grave sentenza ed una arguta faì) cezia. DAMN BY FAINT PRAISE – He has beautiful handwriting – Grice. Così a dire d'un uomo liberale, che quello che ha non è  suo può divenir salso ove si V torca a biasimo d'un  ladro: e salso riesce – cf. Grice on the philosophy tutor on Socratic midwifery: stranging error at birth -- per D non dissimil ragione quel motto citato da Tullio – CICERONE (vedasi),  )i  a proposito d’un servo infedele, lui essere il y>  solo, per cui mdla vha in casa disuggellato e di chiuso; il che a lode d'un servo LEALE  po»  irebbe dirsi  ugualmente. Se non che sì  fatti  >p scherzi vengono commendati più per ingegnosi  .?>>  che  per festivi, essendo manifesto INDIZIO – DICTUM di Grice -- d'acuto ingegno il tor LA PAROLE IN ALTRA SIGNIFICAZIONE DA QUELLA IN CHE SOGLIONO ESSER USATE – Grice on Humpty Dumpty, Impenetrability. Ordinariamente questi scherzi riescono insipidi, perchè per lo più d’un lato lasciano scorgere la voglia di scherzare e l'impotenza di riuscire. Dall'altro,  non producono effetto sensibile sull'animo per mancanza d'acume. Tra tutte la maniere onde si perviene a movere RISO --- Grice on Aristotle: a laughable animal --,  piacevoli senza fine riescono, tanto il torcere contro d'altrui quel  frizzo che a farci ridicoli è proferito, a quel modo che CATULLO (vedasi), interrogato da Filippo perché abbaiasse. Perchè vedo il ladro, risponde; quanto  dal concedere argutamente all'avversario ciò stesso con che ti morde, trarne appunto occasione di vituperarlo, siccome usa avvedutamente  L. CELIO (vedasi), al quale essendo da taluno di bassi natali rimproverato che egli è indegno de’suoi maggiori: Affé, ripiglia, che tu se' degno de' tuoi. In questi e simili casi il piacere risulta da doppia fonte. Primo, dalla depressione  d'un impertinente, aggressore, o sia dalla cessazione d'un  dolore; il  che, quando  succede  rapidamente nelle  cose  mo-.^  fall,  equivale  a  piacere. Secondo, dagl’improvvisi rapporti di somiglianza tra la pro-posta e la ris-posta. Il ridicolo risultante dalla scoperta improvvisa di somiglianze o contrarietà non comuni, non si Luigi  XV dice un giorno al conte Eric di Sparre, che è due volte ambasciatore in  Francia pel re di Svezia: SigfioF di  Sparre, provo dispiacere vivissimo in pensando che voi non siete della mia  religione. Un giorno o lallro io anderò in cielo, e non vi troverò. Perdonatemi, sire, risponde l’ambasciatore. Il mio padrone m’ha ordinato di seguirvi dappertutto. ,  f  può assolatamaote attribuis alia  iiialigQilà|ii»Ma, come si dovrebbe, se in queste indagini si preip  (fesse  peK  gttidé la  ^ola teoria d’Asistoteteì il che multerà meglio dall'analisi del seguente  fiattóv. Un contadino, venuto a dolersi pon un podestà perchè gli è rubatali sto  «ino^ dopo d'aerare; parlato della. Sfla povertà e dell’inganno fattégH dal ladro, per. fine  pjè  grave la perdita sua, dice. Messere, se voi aveste veduto  il  «lio  asioo^, aiio0r, fiitt  riconoscereste quanto io ho ragion di  dolermi; chè quandi veva il suo basto a^osiSiH   f iHraa  :f  sopriam^iM^  *ii8^^i^hevci  cagiona  qiipste  4i8Cor^^  non  n^sce dal vedere depresso  TulHo a livello  dell’asino, ma  DèVoiedei^x  s£orz;aur  dosi  d'ingrandirne l’idea, scappa  &ori  improvTl^  ^saQiente con un confronto nuovo, e si  Insinga   t^^ré  sowiigliaiwa.tra  Basilio e TiilfiQ^r    ttótele  cose  vi  sono  certi  limiti  che non si éebboào oltrepassare, certe condizioni alle  qu^lì  jEa  d'uopo sottomettersi  -- l’argomento trascendentale debole di H. P. Grice. Altrimenti  facendo, si va lungi, dalla meta – o METIER, GRICE -- cui si propone di giungere, non si consegue lo scopo che si vagheggia (Don’t bite more than you can chew – Grice).  Lo  ^opo cui miriamo, i mezzi che possiamo porre m  <>pera,  servond a farci ricondscere quelle condizioni e que’limiti. Le facèzie  x) celie che teodono a rendere festiva a brigata, sì possono considerare nella  persona che le dice;.  i.o  Ifelia  persona che m è l'oggetto;r3«. Migli «auuiti  eh», le  aseetbp^i' Persiona  che^  celia .  1^*0  uomo geutila    ride    fa  ridere  aUa  foggin  de'pazzi^  degU  seioeioliii  id^IL  iilériichif degl’inetti,  de’buffoni, Fenelon non ischerza come arlecchino: uè  Xmsm    §M8to  eaft£<)iìde.il «mono  de^G^'. dfiH' a||ia  C9I  fracaaso  assordante  ddle  campane. Vupmo  dmiene^  bttffime,  Mihrchà  Mace^  altri  a  ridere  per  le sue  sciùcchezzey  allorché  ai4eiU  axgiuti  smtilm$c$  de'mUi  arJecJmetehif  ed  a  misura che  si  fa  attore  in  vece,  «fi  restare  semplice  narrale;  perciò  alquanto buffonesca, aeeottdo  <die  10  Be.^iiuiieo,  fa. la  wnéatta  iK  Imo gene  nella  seguente  occasione.  Ne’giuochi  pubblici d'Atene si distribuivano un giorno de’piemii a quelli che dano saggio di maggior destrezza negl’esercizi dell'arco, della  Jotta e.  delia  €om«  Ira  qnoUi  v^Ae  ^tiravmo  Tareo,. prìmèggiaìFa  4100  per la sua gofiferìa. DIOGENE anda a collocarsi PRECISAMENTE ALLA META cui mira l’arciere. Gli si dimanda perchè sceglie quel posto. PER NO ESSER FERITO, risponde il cinico. Il motto è arguto. Ma la condotta è bu£fonesèa PER UN FILOSOFO. Ed  oltre  a  ciò  troppo  acerba  p^r  Tarciere. Minore  taccia,  perché  accompagnata da minore pubblicità, merita la  condotta  di  SoeriOe,  «norcHè ALCIBIADE  rKoniò  d’Olimpia  vincitore  di  tre  premi  al  cdi*8o  deH^tìt  Tutta  la  Grecia  lo celebra per  questa sua vittoria. Al suo arrivo tutta Atene anda a ritrovarlo. SOCRATE solo  non    i.^  iloiiici 'ébe  fiol^iioi  detti argutt  impirtii ad eccitare  negli  altri IL RISO,  nofì^debb'igssere il priino a rideriie;,iina  facezia. detta  cojxsei^età  riei^eepiù  piccante; Egii  si  tenderebbe  ridieak)  m  per  si  fatte  ^ver ti  questa  0  quella  brigata  coi»  tale  o  tal  altra  ciUa vJd^iJpÉltaatf '  0MÉ  i^ipateMa  divanto. Non  conviene  fare  oggetto  di  celia  mordace   Gl’uomini generalmente stimati  e  non  taiiitave  JiliisMfiMM^ al  qlMpte'dól^  tanfiNBeoolt  rifèane  ancora la macchia  d'aver  messo in  deriso SOCRATE; La  peiaM»  troppo  atolido«'  pat«hè  nott  v*è  glo^  im'nel venire  a contesa con esse;.1  miaer»  ed- ìi^ìcÌy  perchè  sarebbe  (grude^;  eÓMtMatd  a ^isaÉo  cbe  immé^  mmaMMori;  GU  ttomini  troppo  sensitivii  peròhè  motteg*^  gio  ^  alvvilifiM;  I  vendicativi, perché ci esponiamo  a  pagarne  ii  ioo  lo  «tesso si  diea^  degli  igMraQtl«^|K)l^tf9  ai  1pllaI^^tlri  strale  acutis8i«M  €be  ai pianta nel loro animo 1 comparve che il giorno appresso,  e,  in  vece  di  domandare  il  vincitore,  dimanda i  vincitori,  (ili  schiavi  non  comprendendo  il  suo  pensiero,  egli  ordina  loro  di  conduco  alta  stalla.  Ejf^li  vi  étitrò  col  suo  seguito ed  essendosi  fatto  mosiràre  iisavalli  iIMNmati  d’Olimpia,  si  avvicina  ad  essi,  li  salutò  con  rispetto,  fa  loro  de’gran  complimenti sulla loro agilità  e  sulla  gloria  che  si sono acquistala.  Alcuni del suo seguito recitarono  loro  l'oite  cl^e EURIPIDE compone  in  onore  d'ALCIBIADE. Dopo  questa  scen^  i^oiffonesqa^  Socrate  si  ritira  senza  domandar di  vedere  il  Iripoiiilbre.  m,  la  calimi»  «W»  si  4^  iii^o^teggiare  alj[a  cìepa;   It.'  Persona  cui  è  diretta  la  eeiia. it^  .  l^aiwlla  è.pegUa  4^i9r  cadere, una  eelia senza  disposta, di  quello elie^  ifnpegnar<A  hi  im  4Kmi}^atUi|i^to  con  p^r$pua  che  forsp  non .  mirò  1^  yvWWfH;  (»Hr«4|^  «l  wilapfi  dagU  scbiarimenti  che,  ìoi  vj^  d'^vj^icio^r^  g^lj  ajoÀmU,  gli  allontaDano   ifi  QMfidla  BOB  Vi  è  pcmHHle  dUsimulare,  e  vedete  gli  altri a ridere a vostre spese, ridete voi iwret e topralMiO' hm imetistelAsMtbneDto dispiacere, come è stato detto di sopra. Si veg-^  goao ogni giorno persone incivili che non sanao rispondere ad-mi innoceote scherso fncMrchè con ingiurie e viHapì^ pgiKJiq  pgpi, ((erflQpa  prudepte  cli^  qQ|i,.vi|ote  {s^ii^Qin^  8filg(;e  il  loro  in•  contip»  a.  Se  nQg.èyfk^m^  dirìiy^  ^   to,  è  penDcsso  re4argi|ìre,  e  ripnandare  la  palla  a  chi  la  gettò;  è  que||9  |i  dii^itto  dal  ^iit^cp^.  ob^ Le  facezie  che  piacciono  al  volgo,  riescono  il  .  #iii  d«U«  y9H&.  tPWH^ (Ursone  aeasat^. !  <P^(^'lwmle  p9S9<wkQ  sembrai^  tra  gravi  matrone  qpelie  ce|'^  cbie,  proiferite  in  un  croccilo  d  up .  Altronde  Ya?iaipo  4»^Qto  i  giudizi  degli  noli jnini  interno  4, n^P^T^^i^  $SO)hra  qnasj  iip»  Dosaihile  il  iiSBarae il véro  ed  essenzial  caratatère;  conciossiacliè  a  taluno  parrà  lepido  e  gentile  un  molto  che  ad  altri  riescirà  dispiacevole e rozzo. Sappiamo in sfatti che a CICERONE (vedasi), ricco altronde  del  talento  della  facezia,  ivano  a  san 'fi'' gue  gli  scherzi di PLAUTO, mentre ORAZIO (vedasi)  li  ri»  prova  siccome  illepidi  ed  inurbani. ED ECCO buovi MOTIVI PER CONOSCERE INTIMAMENTE IL CARATTERE E IL GUSTO DELLE PERSONE CON CUI SI CONVERSA, acciocché i nostri detti non fanno nascere nel loro animo la noia, mentre aspiriamo ad eccitarvi il  diletto.  'ik' Qualità  delle  celie. È  necessario  iin"^tìsto  fino e delicato  per  diStinsuere  ...ì,j*»«u«u^ y-mm-^:,   l.«  Ciò che adesca da ciò che punge. Ciò che punge da ciò'ché è insipido Ciò che è insipido da ciò che è triviale. Basta il senso comune per discerncré ciò che è triviale – Grice, War is war, women are women -- da ciò che è ributtante. Questi quattro gradi servono,  a  i^oèì  dire, di scala per apprezzare le celie. La finezza del gusto è il risultato di certa facilità d'immaginazione, volubilità  di  spirito, fecondità d’idee, rapidità di confronti, acutezza di giudizio, delicatezza di sentimento. Colla scorta di queste facoltà si riesce a coii4porre un  misto felice di serio e di giovfale, a vestiredi forme leggiadre l’idee piu astratte, a ritrovare una  massima che corregge piacendo, uri pungolo che scuote senza irritare, una censura che nè il rispetto offende – Grice, He has beautiful handwriting -- nè ramìcizia. Allorché dunque muniti di queste fàcòltà  Vac^  cagete che gli asMatì fiono disposti ad éseoltarvì; che n soggetto vale la pena che parliate; che tutte le circostaii^e vi sono favorevolij se  ^udebe idea festiva e cap^ d’irallegrare una società amabile si presenta al vostro spirito, commettereste una ispeéfe d'ingiustizia se ne la privaste^  qualunque.' sia n vostro  carattere qualunque carica occupiate nello stato italiano. Le celie fehe si possono chiamare il fiore dello spirito, vogliono essere dilicate. Alembert  rK portando il  deita*M Bourdaloué relativo à Despréaux. Se Despréaux mi mette in ridicolo netà sue satire, ìq gli rènderò  ta^rigtia Mite mie prediche Alembert con tutta la delicatezza attica soggiunge. V'ha, apparenza che questo non  sarebbe successo nella predica del perdono delle ingiurie. Per non ripetere ciò che è stato detto  iòtaTear pttolò antecedente, F. si ristringe ad accennare alcuni difetti che si debbono sft^ire:nel  maneggia delle  celTe.^ Le celie non vogliono essere insipide. Sono sempre insipide le celie che si risolvono in EQUIVOCI (“I have Scinde” – Grice), IPERBOLI esagerate – Grice: “Every nice girl loves a sailor” --,  giuochi  di  parole – Grice, “He was caught in the grip of a vice -- , verbi a doppio SENSO – Grice: unfettered, unbridled --,  cui la vera – Grice on Austin on trouser word ‘vero’—Keith Arnatt, I’m a real artist  -- SIGNIFICAZIONE si toglie per sostituirle un'altra che non l'è. Essendo più facile il RIPETERE delle parole – Grice, be brief --,  dei suoni, delle sillabe  di Quello che awiéihare le qualità lontane delle cose o scoprirne le LATENTI – implicite – Grice, what is unsaid --; perciò le suddette, celie piacciono al volgo, mentre danno noia alle persoa#  seiiHAe»  I fanciulli confondono le carte nel mezzo della partita quando non hanno buon giuoco. Gli scìoli non potendo ALIMENTARE LA CONVERSAZIONE coll’amenità dei sentimenti e  dell’idee, le interrompono con bischizzi, calembonrg^ discorsi che sembrano dire qualche cosa, mentre non dicono nulla, e sono il tormento di chiunque è dotato di qualche spirito, ij  Le celie non devono essere scurrili. Esse sono tali allorché versano sopra cose la cui immagine offende il gusto, come la loro realtà offende i sensi. Si chiamano anche scurrili quelle celie che fanno arrossire  il pudore. Le celie non devono peccare per eccessiva ìiìalignità. Le celie non devono peccare per eccessiva  acerbità dovendosi bensì far uso del sale, ma con moderazione. I bischizzi consistono nel mutare ovvero accrescere o minuire una lettera o sillaba  d'una parola; cóme colui che  disse. Tu dèi essere più xlollo nella lingua latrina che nella lingua greca. Pecca pec bassa e villana  scurrilità il seguente epitaffio che Lasca fa ad un Grasso. Qui giace il Grasso (noli ben chi legge). Che avendo il viso simile al cui molto, l'alma, non  discernendo il cui dal volto, se n'uscì per la via dette coregge. Alla consccrazione d’un'abadessa, le magnifiche tappezzerie, i vestimenti  ricamaU, i diamanti, i profumi,  Iannisica, i molli vescovi esecutori dell’ecclesìasliche cerimonie sorpresero una buona donfia in modo che ella dice. Ecco il paradiso. Qualcuno risponde malignamente. Non vi sarebbero tanti vescovi (Grice, IMPLICATVRA +> stanno all’inferno). Una vecchia contessa assai ricca avendo sposato'un marchese malagiato, e nel contratto di matrimonio. Le celie, allorché il  soggetto lo comporta devono richiamare gli spiriti alla morale. Non si deve cambiare il mezzo in fine (METIER – GRICE), cioè non conviene consecrare alle celie quel tempo che è dovuto alle cose più gravi. Da tale passione pe'combaltimenti di spirito o duelli di mot, leggi e di celie sono invasi i normanni, che anche nell’ardore d'un assedio i nemici sospendeno talvolta l’ostilità –cf. Monty Python, THE HOY GRAIL -- per abbandonarsi ad una guerra meno  dannosa, guerra di motti, di redarguziom, de'buffonerie. Allorché qualcuno dei due partiti, è preso da questa vaghezza, si mostra all'altro in  abito  bianco, il che è riconosciuto ed accettato come una sfida di celie. La qual cosa certamente non è riprensibile in tempo di guerra, giacche non distrugge città guerra di lingue avendogli falla la donazione di luUi i suoi beni, lemelle, dopo molte  infedeltà, che il marito volesse disfarsi di lei, e un giorno sentendosi male, crede e dice d'essere avvelenata. “Avvelenata?”, risponde il marchese alla presenza di più persone. “E chi accusate voi di questo delitto?” “Voi,” replica  la  dama. “Ah, signori, nulla di più falso,” esclama il marito. Sventralela  subito, e toccherete con mano la calunnia. Qui l'acerbità e la malignità vanno insieme. Si fa rimprovero ad una donna perchè acconsente a sposare un uomo che urta di fronte gl’usi e le mode del suo tempo, un  orUjinale in una parola. Ma la singolarità di quest'uomo non è che un vizio dello spirilo, e nessuno ha l’animo più onesto di lui. Quindi la donna che lo conosce, risponde con finezza. “L’acconsento a sposarlo perchè spero che sarà buon marito per singolarità ed è  meàe male dileggiarsi che  iieoidev9Ì; ma  6ao^ vafìiìi di Salisbury rimprovera ai detti popoli quell'eccedente p^issiona aoebe ia tempo di pace. Kantagqi che si possono trarre dalle /ae^ie. Benché le celie sì riducano a momentanei tratti di spirito^  i^e,  ^imiU^alle  sciatillc,  jcoin|^ariscooo  -e  eeìssano m un utante Don segue pero che di grandi eventi non possano esser cagione. Infatti,  alloiìch^ei tvatta di  coscT mòrali, gl’effetti dipendono dalla determinazione della volontà. Ora a determinarle la volontà i più frivoli MOTIVI (Grice/Baker) bastano, sì quando mancano MOTIVI (Grice/Baker) più gravi, sì quandi questi si trovano in opposizione come una seinplice dramma basta  per'&r  traboccare la bìlaacta<t  allo^hè  i più gravi pesi là tengono in equilibrio. L'aftlisi  de' fatti porrà in maggior luce il mio pensiero. Coloro che nel CALCOLO (Grice, working out – CALCULABILITY) degl’effetti considerano solo le ma^se,. apparenti, inarcherapnò le ciglia se dirò loro che tma celia può in forza essere uguale ad  t^ailamato. Eppure bisogna rigorosamente ammettere questa eqtiaasione, aile^cbè si osserva che un'armata atterrita da maggior numero di  nemici,  può da uoa celia ricevere tanta torza coraggiosa da riuscire a vincerli, come lo ba provato più  volte  r^^sperieoza (Prima  della  battaglia  successa  a!  Trasknene, i cartaginesi sono  ì»pa\  untati  dai  iìuuiux^g  esi^rcilu  ROMANO  ^uppi   m. È noto che l'orgoglio de' tiranni non soffre indugi; che le loro volontà si eseguiscono in ragione del loro potere; che, sordi alla clemenza,  alla giustizia, alla  ragione, mandano a morte chi fa loro rimostranze, sicché per fare equilibrio ai loro desideri, converrebbe avere un potere uguale al loro. Questo potere si trova in una celia. Una celia può cambiare le più risolute voglie del più  feroce tiranno del  loro. Glscon ne esterna la sua sorpresa ad Annibale: V ha una cosa, risponde questo generale, che mi sorprende ancora di  più, ed è che in questo gran numero di nemici non v' ha un solo che si chiami Giscon. La storia dice che questo sangue freddo anima il coraggio de’cartaginesi; giacché  non  possono essi persuadersi che il loro generale è disposto a scherzare in un momento sì importante, $cn/a  essere sicurp di battere i nemici, come  infatU  li  battè  éJi vince. In caso simile un altro generale viene  sollecitato a far riconoscere i nemici che s’avanzavano in gran copia. “Noi li conteremo,” dic'egli, “quando gl’avremo DISFATTI.” Queste parole bastano per far passare i suoi soldati dal timore alla speranza, dall' avvilimento al coraggio, e renderli vincitori di quelli da’quali temeno pochi momenti avanti d'essere vinti. Tutti sanno quanto è dispotico e  feroce  Enrico  VIII  re  d'Inghilterra. Avendo egli  de'moUvi di scontentezza contro Francesco  I re di Francia, gli spedì per aipbasciatore un vescovo inglese eh' ci volle incaricare d'un discorso pieno di fiele, d'orgoglio e di minacele. Questo prelato scorgendo tutto il pericolo della  sua  missione, cerca di farsene dispensare. “Non temete niente,” gli dice Enrico, “poiché Se il re di  Francia vi fa morire, io faccio abbattere LA TESTA a  molU francesi che sono in mio potere. “Va  benissimo,” replica il vescovo. “Ma DI TUTTE QUESTE TESTE di nissuna s'adatterebbe sì bene al mio tomo SiTO  MnMwto  dàlPidea  impoiiml» Moveri  dTitn   mioistroi «lalla  gravità  de'  moti?! che devono de«ternmarlOt dai dami tnm aeea. demaail» chiamato^  atle  pubbliche  cariche,  si dora fatica a comprenda  <die  una ceiia si possa  j^om^  pénqueiMmpiego  «fttr^  em  ^tefe  mepatù  pér  demerito;  e  pure  gueata  posaihUità  ceaUuata  fili  Mita  tOvfyìsìo  come  quella  che  vi  é. ta  celia,  «heloee.Bidéee.  Bnlriè^  idasci a fario candMàre.'df  rlsolufeimiie;  senza  di  etto .'forse  l'Inghilterra  e  la  Francia  conlecebbero  una  guerra  di  più.   IVouchirevan,  re  di  Perula,  aveva  condannato  a  morte  uno  de'suoi  paggi  per  aver  ^uesU  kia)i{vertéDteaiea(e:8pas8a  sopra  lui della salla  ^intti)dèii>  a  mensa  i  il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo  ^mmà  di  perdono/ 'ifMò  tutto  II  piatto  sopra  tjùèll'liii||lah  cabile  re.  Nouchlrevan,  più  sorpreso  che  sdegnalo,  volle  saperi la  ragione  di  siffalta  temerità. Prìncipe,  gli  disse  i( paggio,  io  desidero  die te laia morte non rechi niacclìia. 1»  alia  «ofiiii»  Hplitazioiia; com vóe de'moffiirehi, mavoi perdereste quello bel titolo se là  po»  »slerìtfi sapesse che per lievissima colpa condannaste a morie •ano de’vostri  sudditi; perciò ho versalo tu  Ito il piatto. Nouchirevan  rientrato lo se stesso vergogpò della sua collera, e  gli  f(?ce  grazia. Il Marelìesé  d’Andrea  tnristeva  pressò  Lòuvóis  ministro  della  guerra  in Francia, onde  ottenere  una  carica^  il  ministro  die  aveva  ricevute  parecchie  lagnanze  contro questo officiale gliela ricusava. S  io  eoiniociassi  a  servire so.  ben  io  ciò  ^he faéel,  ri8|Mstf  roffieii|le  un  po^  eómmosso;  fi  che  fareste  vd  ?  gli  disse  fl  mli^stro  con  un  tono  risentila  Regolerei    bene  la  mia  coikloUa,  replicò  l'officiale,  che  non vi trovereste nulla da ridire. Il ministro sorpreso plaeevollafDte  da  questa  òsposia,  ac<;ordò    che  aveva  ne|{alo. Una  celia  può  ottenere  quel  premio  che,  non  ottenne  la  ragione  che  non  attenne  C  im^  portunità talvolta più valevolé detta fazione. Non v'ha cosa nè più comune pè più noiosa idè'n^lHantatork nàOB votte odirotia «si le ragioni <die condannano la loto condotta, e mille Tòlte toroano iii oamjio. eolie toorn celia può agevolmente ridérre' à  '^ Hlimzio  titt  wiWantoioìre; giacché, in genejrale riesce più difficile il rispondere  ad  unà:  ieHai  chà  ad  ma  tuona  ragione. Gli poeta aspettava tutu i giorni Augusto a certo passaggio còn un epigramma alta mano: eglli'sperava qualche ricompensa, mai la ricompensa nòn' Éttritic Blair Un giorno l’impilatore, per divertirsi a spese del poèta è IrastuHarlò cevolmcnle).gli.pi;sBsentò deVyéssi eh'egli  aveva  composti  10^41  Ijoi'.oiiore. Il poeia degpo4*«ieiji  Mtt  ti(Ui|  trasse  (U  tasca  dèi  deuaiO) e lo da ad Augusto (OTTAVIANO (vedasi)), dicéndo^lt  ch'io  v*ò£fro non è degno del vostro merito, ma iò nórt possere di più. AUGUSTO (OTTAVIANO (vedasi) incantato da questa risposta nuovia piccante, gli fa dare  fOO,(HW sesterzi  (circa  ^ 30,000  fr.) Ecco und  ttiolui  ì&àst»-oiprale  suttor  u  ^elo  d'una facezia. Iki  gie«iDe  a^'A  vantava  CU/Sapare  Hutto e  d'aveifo  imparato  in poco tempo, aggiungeva à-avere speso grosse somme per pagare i suoi maestri. Uno degl’uditori  non  potendo più contenersi a tali iat(tanze, gii disse freddamenté: Affé, se V voi trovato cento scudi per tutto ciò ebe sapete  ef«dètefni, Mn fiidagteite a pABderiLn detto e eccellente,  ma pùngeva un poHroppo  fUA'iM.   Uno  spiantato  lagnavasi  in un crocchio di  molte  perscibè  •pel  gK^asto  che  la  grandine  aveva  fatto nel suo paese e masirimanento  Re;siR>l  pcNlerl.-tin  ii|le  cl)e  a fondo  conosceva qitelmQlantaiofe è che sapea qaaiilk tasse povero in ràiim; non potendo più contènersi a laìl iattanze, gii  inosse  soìbi. Grice: “Ferraris’s Galateo was so famous that, unlike Vico with his ‘new science’, a few philosophers cared to consider seriously a ‘nuovo Galateo’. Antonio De Ferraris, Antonio De Ferraris. Galateo. Ferraris. Keywords: conversazione, il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi Speranza, “Ferraris e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferraris: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della supercazzola – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Ferraris is what the in the Renaissance used to be called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is “La svolta testuale” – he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard, and I still connect!” Si laurea a TORINO sotto VATTIMO (si veda). Insegna a Macerata, Trieste, Torino al Laboratorio di Ontologia dal  Centro Inter-Dipartimentale d’Ontologia. Studiato a Torino. In ambito teorico, lega il suo nome al rilancio dell'estetica come teoria della “sensibilità” a un'ontologia sociale intesa come ontologia dei documenti (documentalità) e a un superamento del post-modernismo attraverso la proposta di un nuovo realismo. Centro inter-universitario d’Ontologia Teorica e Applicata. I primi interessi di F. si rivolgono alla filosofia post-strutturalista (“Differenze”; “Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente a Derrida, F. dedica: Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione a Derrida, Il gusto del segreto e, infine, Derrida. Ritratto a memoria. Lavorando invece a contatto con Gadamer, si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust, Nietzsche e la filosofia, e soprattutto Storia dell'ermeneutica. F. sviluppa un'articolata critica alla tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria di una svolta, postfazione alla conferenza di Heidegger La svolta), che fa valere, in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come contestazione del retaggio romantico e idealistico che condiziona tale tradizione. La conclusione di questo percorso critico sfocia nella riconsiderazione del rapporto tra lo spirito e la lettera e in un ribaltamento della loro contrapposizione tradizionale. Spesso i filosofi e gl’uomini comuni disprezzano la letterale norme e i vincoli che sono istituiti attraverso documenti e iscrizioni di vario genere anteponendole lo spirito il pensiero e la volontà e riconoscendo la libera creatività del secondo rispetto alla prima. Per F. è la lettera a precedere e fondare lo spirito. Abbandona il relativismo ermeneutico e la decostruzione di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività e realtà, considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti dell'arbitrio. Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento teorico. Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant. Rilegge Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino BOZZI (si veda) (Il mondo esterno e Goodbye Kant! La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del sapere), di cui F. articola una tematizzazione critica fondata sulcarattere di inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si vedano in particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione sul realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism.  L'esito naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo inemendabile di un dominio d’oggetti in cui la filosofia trascendentale kantiana trova la sua adeguata applicazione: gl’oggetti sociali, l’intersoggetivo (Dove sei? Ontologia del telefonino,  Babbo Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La fidanzata automatic, Il tunnel delle multe. La tesi di fondo è che la distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento dell'autonomia ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli oggetti sociali (regolata dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente di correggere la tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del testo" (letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori testo”) per teorizzare che “niente di sociale esiste fuori del testo”.  Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce.In seguito la sua  si arricchisce di piccole ma significative metafisiche dei costumi artistici e scritturalifin anche ultratecnologici con Piangere e ridere davvero e Filosofia per dame, vere e proprie grammatologies, insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente quelli per Alfabeta e Alfabeta).  La svolta realista compiuta da partire dalla formulazione dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come ontologia della percezione e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore declinazione nel Manifesto del nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi sono anticipati da Ferraris in un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto  e che avvia un imponente dibattito, è in primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici (l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra individuo e realtà). Da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il Nuovo Realismo si identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia, Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti extrafilosofici.  In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha sollecitato una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare da Della realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti di Vattimo e Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum, di Rovatti sino a Il senso dell'esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Gabriel, Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione (Caro e F.), Torino, Einaudi,  e a Sociologia e nuovo realismo, Milano-Udine, Mimesis,  di Luca Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da F. e De Caro, che conta numerose pubblicazioni).  Al Nuovo Realismo di Ferraris hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Caro (cfr. Bentornata Realtà, a c. di Caro e F.), sia filosofi di formazione continentale, come Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Taddio (Verso un nuovo realismo) e Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia neo-realista), che ha raccolto il sostegno di filosofi come ECO (si veda), Putnam e Searle, e che si incrocia con altri movimenti realisti sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze affini, come il realismo speculativo di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo realismo, il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta che si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso.  Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo. In questo quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un realismo negativo: la resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi concettuali non va considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una prova dell'esistenza di un mondo solido e indipendente. Se le cose stanno in questi termini, però, il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo (Cfr. F., Realismo Positivo, Rosenber e Sellier ). Nella sua resistenza la realtà non costituisce soltanto un limite, ma offre anche delle possibilità e delle risorse, il che spiega come, nel mondo naturale, forme di vita differenti possano interagire nello stesso ambiente senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel mondo sociale, le intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da una realtà che è anzitutto data, e che solo in un secondo momento potrà essere interpretata e, se necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del postmoderno, il nuovo realismo ha intercettato un diffuso bisogno di rinnovamento in ambiti extradisciplinari come l'architettura, la letteratura, la pedagogia, la medicina.  L'ultima corrente filosofica inaugurata ha provocato resistenze e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e del pensiero debole.  Altre saggi: “Differenze. La filosofia dopo lo strutturalismo” Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Milano: Multhipla); Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova: Marietti); Proust, Milano: Guerini e associati,  Storia dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria di una svolta, in Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e conclusione,  Postille a Derrida, Torino: Rosenberg et Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma: Laterza); Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano: Bompiani); “Storia della volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon rationis, Milano: Pratica filosofica,  1nterpretazione ed emancipazione. Milano: Cortina); L'immaginazione, Bologna: il Mulino); Estetica, (con altri autori), Torino: Pomba); Il gusto del segreto, con Derrida, Bari: Laterza); Estetica razionale, Milano: Cortina); Honoris causa a Derrida, Torino: Rosenberg e Sellier); Una Ikea di università, Milano: Cortina); Il mondo esterno, Milano: Bompiani); L'altra estetica, (con altri autori), Torino: Einaudi); Derrida, Roma: Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!, Milano: Bompiani); “Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier. Ontologia dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano: Bompiani); Il tunnel delle multe. Ontologia degl’oggetti quotidiani, Torino: Einaudi); Storia dell'ontologia, Milano: Bompiani,  Una Ikea di università. Alla prova dei fatti, nuova edizione, Milano: Raffaello Cortina; “Piangere e ridere davvero. Feuilleton, Genova: Il melangolo); Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Derrida, Milano: Bompiani); Filosofia per dame, Parma: Guanda); Anima e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari: Laterza,  Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione, con Caro, Torino: Einaudi); Lasciar tracce: documentalità e architettura, Visconti e Capozzi, Milano: Mimesis); Filosofia Globalizzata, con Caffo, Milano: Mimesis); Realismo Positivo, Torino: Rosenberg e Sellier); Spettri di Nietzsche, Guanda: Parma); Mobilitazione Totale, Roma-Bari: Laterza); I modi dell'amicizia, con Varzi, Napoli-Salerno: Orthothes); Emergenza, Torino: Einaudi); L'imbecillità è una cosa seria, Bologna: il Mulino); Filosofia teoretica, con Terrone, Bologna: il Mulino,  Postverità e altri enigmi, Bologna: il Mulino); Il denaro e i suoi inganni, con Searle, Torino: Einaudi); Intorno agl’unicorni. Supercazzole, ornitorinchi, ircocervi, Bologna: il Mulino); Il capitale documediale. Prolegomeni, in Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, Torino: Rosenberg e Sellier. Responsabile scientifico di "Pensiero in movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale l'Espresso e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica si segnalano:   "Felicità. Cos'è la ricerca della felicità?", Roma, la Repubblica,  "Libertà. Quando si è davvero liberi?", Roma, la Repubblica,  "Arte. Perché certe cose sono opere d'arte?", Roma, la Repubblica,  "Male. È possibile vivere senza il male?", Roma, la Repubblica,   "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale degli altri?", Roma, la Repubblica,   "Bellezza. C'è una regola del bello?", Roma, la Repubblica, s  "Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,  "Morale. C'è un solo modo giusto di vivere?", Roma, la Repubblica,   "Potere. Perché si lotta per il potere?", Roma, la Repubblica,  "Pensiero. Che cosa significa pensare?", Roma, la Repubblica,  "Violenza: La violenza è inevitabile?", Roma, la Repubblica,   "Passione: Chi decide, la ragione o la passione?", Roma, la Repubblica,  "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica,   "Linguaggio: Si può pensare senza parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i filosofi?", Roma, la Repubblica, ha curato, oltre a partecipare con singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di Repubblica curandone gli epiloghi.  Nel biennio - ha diretto e condotto tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai Scuola. Nel  e nel  ha continuato tale lavoro nel programma televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Conduce la rubrica di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso canale.  “F.", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,   "Maurizio Ferraris", la Repubblica,  Per una rassegna completa del dibattito sorto intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo  R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis, Reperibileonline. Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli altri, Bazzanella, La filosofia e il suo consumo. Il nuovo New Realism, Trieste, Asterios,; Perché essere realisti? Una sfida filosofica, Andrea Lavazza e Vittorio Possenti, Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a cura di), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne,; Architettura e realismo, Milano Maggioli,  Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi  Lo stato dell`arteIl  di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in Il  di RAI Cultura dedicato alla filosofia.  “F.", in Antiseri e Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,  "Ontologia analitica e ontologie continentali: F. e i filosofi italiani di impostazione analitica", in Esposito e Porro, Filosofia contemporanea, Roma: Laterza,  dal  Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di tutti gli interventi a proposito della proposta teorica sul realism. Documentalità Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro Interuniversitario di Ontologia Teoretica ed Applicata, Laboratorio di Ontologia, su labont. Il «questionario Proust» a F., su elapsus. F., il Nuovo Realismo, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Parsons sociologo Parsons. Sociologo. Parsons produsse una teoria generale per l'analisi della società chiamata "struttural-funzionalista", nella quale sono evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale nonché all'etnologia. Cerca di combinare "azione sociale" e "struttura" in un'unica teoria non limitata al solo funzionalismo.  Il suo lavoro ha avuto grande influenza quando la ricerca era quasi solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più raffinata. Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti come Habermas e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il più importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto l'etichetta di "neofunzionalismo", si deve ad Alexander. Parsons nasce a Colorado Springs. Frequenta l'università ad Amherst, Massachusetts, ed è orientato allo studio della biologia e alla medicina, ma s’interessa progressivamente all'economia e alle scienze sociali, anche grazie alle opere di Durkheim e Weber.  Dopo Amherst, Parsons si reca alla London School of Economics, dove subisce l'influenza dei lavori di economisti quale Laski e Tawney, gli antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi Ginsberg e Hobhouse. Grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia, si trasferisce a Heidelberg, dove consegue il dottorato con una tesi sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart.  Tornato negli Stati Uniti Parsons insegna a Harvard. Entra a far parte del Dipartimento di Sociologia (diretto da Sorokin, con il quale Parsons è in disaccordo) e successivamente presso il Dipartimento di Relazioni Sociali (diretto dallo stesso Parsons). Viene eletto presidente dell'American Sociological Association.  Muore a Monaco di Baviera.  Lo struttural-funzionalismo L'approccio di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone di individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di Durkheim, il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per la sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque, in linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo dell'individuo, il secondo sul ruolo della società.  L'azione sociale In La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che l'azione (o atto) è l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto richiede i seguenti elementi:  L'attore, colui che compie l'atto; Un fine verso cui è orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano nuove linee d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali l'attore non ha possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore controlla e utilizza; Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore a preferire certi mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul sistema morale vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in questa visione di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè a ridurre l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo ogni ruolo alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni in base a un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le norme collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce il libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste norme sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono espressione dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione individuale vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme - Parsons ha già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del concetto di sistema.  Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana, per giustificare i ruoli:  Adattamento all'ambiente; (Adaptation) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema economico. Nella famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale attraverso il lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la sopravvivenza. Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema politico. Nella famiglia a guidare i vari membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il padre. Integrazione delle parti componenti; (Integration) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema giuridico e il sottosistema religioso. Nella famiglia, a regolare i conflitti interni, era il padre. Conservazione della propria organizzazione; (Latency pattern maintenance) i sottosistemi che svolgono questa funzione sono il sottosistema della famiglia e il sottosistema della scuola. Nella famiglia, ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli (latenti) di comportamento su cui, all'epoca, si reggeva la società, era la madre. In realtà nella visione di Parsons gli individui non sono singole persone ma persone che svolgono dei ruolispecifici, modelli di comportamento regolati da norme ed orientati all'espletamento di una funzione: Parsons non tratta dei signori X e Y, ma dell'insegnante e del meccanico. Il sistema sociale è dunque un sistema di ruoli. Nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso. I ruoli fanno anche parte delle istituzioni, sottounità del sistema sociale che implicano più ruoli interagenti tra loro: la scuola, ad esempio (fatta dei ruoli di insegnante, studente, bidello, ecc.), la famiglia (padre, madre, figli).  Lo stesso argomento in dettaglio: AGIL. Famiglia e socializzazione Si è già detto che in pratica il congiungimento tra l'individuo e la società avviene tramite le norme. Ma in che modo le norme diventano parte dell'individuo? Parsons riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in società attraverso la formazione di un'istanza psichica (il “super-io”) che riproduce l'autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel corso del processo di socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è nucleare, composta cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un'abitazione indipendente mononucleare. All'interno della famiglia avviene una differenziazione di funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa, cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa dell'interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari, l'uno non esiste senza l'altro. I figli e le figlie svilupperanno una personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei ruoli tra i due genitori.  Variabili strutturali e universali evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di parametri sulla base dei quali è possibile classificare società e culture diverse: sono le variabili strutturali (pattern variables). Esse sono scelte binarie di fondo compiute da una cultura nel corso della sua esistenza:  Particolarismo/universalismo. È la differenza tra il comportamento di un genitore e quello di un giudice. Il primo è ispirato a criteri particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio ma non un altro individuo. Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le regole che applica valgono per tutti indifferentemente ("la legge è uguale per tutti"). Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a tener conto di tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel secondo l'azione si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto dell'insieme della sua personalità; quando un commesso interagisce con un cliente tiene conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo. Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi). Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati (il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni particolaristiche e tratti ascrittivi.  Per universali evolutivi, invece, Parsons intende dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso della sua storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo successo rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana, le società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù dell'incesto), tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la natura). Nella rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti di sistema di stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società moderna è caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il mercato, le norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle società che nel corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti, questi universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità.  Parsons effettua una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il quale la classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata nella misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per tutti. Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo evoluzionistiche. Abbiamo quindi 3 stadi di società:  - società primitive: dove la parentela è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra gli individui - società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come passo fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne: dove abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto universalistico e dove la cultura ha un ruolo preponderante  L'evoluzionismo non è mai lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons procede quindi all'analisi specifica delle società seguendo la loro evoluzione:  - Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è forte l'influenza della mitologia e della religione e dove vi è uno stato di chiusura mentale che non dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale: l'organizzazione sociale è divisa per parentela e per gruppi di età mentre l'economia è semplice e si utilizzano risorse date dalla terra - Società tecnologiche: l'ambiente tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie ai macchinari, vi è una forte divisione del lavoro e una distinzione tra proprietari e consumatori che lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è quindi un'alienazione dell'uomo e una larga diffusione della burocrazia. - Società urbana: dove la città è il simbolo più evidente e dove le classi sociali assumono un ruolo dominante, esse sono divise in "élite" ovvero gruppi di persone che grazie alla loro influenza contribuiscono all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei tipi di élite: tradizionali, tecnocratiche, proprietarie, carismatiche, ideologiche, simboliche.  Ulteriore sviluppo Le teorie di Parsons sono state sviluppate ulteriormente da Merton, Luhmann e DONATI (si veda). Critiche. L'opera di Parsons apparve a lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa, per esempio dai sociologi Pitirim Sorokin e da Mills, che ne indicava efficacemente anche le implicazioni sociologiche conservatrici.  Il pensiero di Parsons è stato spesso accusato di etnocentrismo per il fatto di aver assunto le società occidentali come il modello a cui tutte le altre società dovevano tendere e conformarsi. Egli vedeva infatti il processo di modernizzazione come un processo unilineare. L'etnocentrismo di Parsons è presente anche negli studi sulla trasformazione della famiglia, facendo riferimento soprattutto alla famiglia nordamericana bianca, appartenente al ceto medio. In questo senso poi le critiche sono venute soprattutto dai movimenti femministi che non hanno accettato la tendenza di Parsons a ratificare la subordinazione di fatto della donna a partire dalla tesi di complementarità dei ruoli dei coniugi.  Parsons viene criticato anche da Merton. Attribuendo a Parsons una valenza sempre positiva all'ordine sociale, Merton ritiene che quest'ultimo è anche fonte di disordine. Per Parsons tutte le istituzioni sono funzionali per la società, mentre Merton rileva l'esistenza di disfunzioni.  L'attore di Parsons sarebbe un over-socialized man, cioè un uomo iper socializzato ai valori, che ha un comportamento del tipo conformistico e che si comporta come la gente vorrebbe che egli si comportasse.  OpereModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Elenco delle principali opere:  La struttura dell'azione sociale, Il sistema sociale, Toward a General Theory of Action (con Shils et alii), Working Papers in the Theory of Action (con Bales, Shils et alii), Saggi di teoria sociologica, Famiglia e socializzazione, Structure and Process in Modern Societies, Sociological Theory and Modern Society, Politics and Social Structure, Hamilton, Parsons, Bologna, il Mulino, Marinelli, Struttura dell'ordine e funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli, Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, Gerhardt, Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Marra, Parsons. Valori, norme, comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Segre, Parsons: un'introduzione, Roma, Carocci, Bortolini, L'immunità necessaria. Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, Hart (ed.), Parsons. A Collection of Essays in Honour of Parsons, Chester, Ruolo di genere Giddens Luhmann Dahrendorf Habermas Touraine A Parsons, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Parsons, su sapere.it, Agostini. Parsons, su Enciclopedia Britannica, Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University. Opere di Talcott Parsons, su Open Library, Internet Archive.  Portale Biografie   Portale Sociologia Funzionalismo (sociologia) posizione dominante tra le teorie sociologiche contemporanee  Merton sociologo statunitense. Grice: “There is a big difference between ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’ – and then there’s inter-active, co-active, and shared – intenzionalita condivisa --. Subject applies to object, so inter-subjective should be used when a neutral common ground (the object that both subjects perceive) matters. Usually, this is not the case, since our focus is communication or psi-transfer. However, ‘interpersonal’ is too vague because we never know what a person is. Co-active and inter-active seem better, alla Parsons. The dyad or interpersonal or interactional unit, where A orientates his action towards B and reciprocally or mutually so does B. Co-operation.” Keywords: the ontology of the intersubjective – intersoggetivo – a functionalist approach to the inter-subjective – Grice as an ‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist of the inter-subjective. The intersubjective conditions for the understanding of pretty subjective utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective intentionality, shared intentionality, and the inter-subjective – inter-subjective and inter-personal. ‘conversational’ as short for ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as relying on utterer AND addressee. Grice’s definition of communication as relying, obviously, on utterer and addressee. Ferraris reccognises the rhapsodies of Austin needed some systematization, and while Ferraris refers to Grice, he does so very superficially -- and more. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferraris” – The Swimming-Pool Library. Maurizio Ferraris. Ferraris.  

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferrero: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale arimmetica – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Just for having written on the influence of Pythagoras on the Roman world, Ferrero is highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras taught of course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!” -- Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra filosofia romana e  pitagorica, rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana classica.  Su questa base l’a. arriva a sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la formazione del politico.  Il piano dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice analitico che ne facilita la consultazione.  Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste.  Ferrero is not the first to claim Italianita and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father was an Etruscan! Numa learned from him! CICERONE corrects here – it’s the tradition that counts – Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by that time, the republic had an official religion and Pythagorianism was not part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino claims Plato is Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico asks Ficino for advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian. The important bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the rest of Europe via Italy, that always showed more of an interest for ancient history than the Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily to history! ARISTOSSENO ('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di svalutazione polemica.  Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni moderne di Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino), di Westphal (A. v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento, Lipsia) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes, introd. and index of words, Oxford). Bibl.: von Jan, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis, che contiene ulteriori indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d. Philos., Berlino; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans l'antiquité, Parigi 1924.  La restituzione della Geometria Pitagorica Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di Euclide.  PREMESSE. Proclo, capo della Scuola d'Atene, ci ha lasciato un prezioso commento su Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed importanti notizie che i moderni posseggano sui risultati conseguiti e le scoperte fatte in geometria da Pi-tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo Pitagora trasforma questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimonta ai principi superiori e ricerca i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura; è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure del cosmo (poliedri regolari). PROCLO, Com. in Euclidem, ediz. Teubner: la traduzione su riportata è quella del Tannery TANNERY, La Géométrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en savons, Gauthier-Villars, Paris). Non è una traduzione alla lettera; e non per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo greco non dice che Pitagora rimonta ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'alto i principi della geometria. Anche Loria (Le scienze esatte nell'antica Grecia), riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. Proclo ci attesta inoltre che Eudèmo, il peripatetico, attribuisce ai pitagorici la scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qualunque la somma degli angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un angolo piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei triangoli equilateri riuniti per il vertice riempiono esattamente i quattro angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti; questa somma non è data esattamente che dai soli Cfr. TANNERY, Le Géométrie Grecque, PROCLO, ediz. Teubner MIELI riporta il passo nel testo greco in Le scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1Eudemo da Rodi, l'eminente discepolo di Aristotele. poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È un teorema pitagorico. Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa di un triangolo rettangolo. Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta. Secondo Eudemo (οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la parabola delle aree, la loro iperbole e la loro ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel- la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica, dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner, PROCLO, ediz. Teubner Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), e da ATENEO. 6 PROCLO, ediz. Teubner PROCLO, ediz. Teubner Per quest'ultimo punto vedi anche GIAMBLICO – De Vita Pythagorae Queste, insieme a poche altre che avremo occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad Euclide da Eudemo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita Eudemo solo di seconda mano, e precisamente attraverso Gemino, un greco, probabilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare l'origine delle indicazioni passabilmente numerose e circostanziate perve- nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola pitagorica, Tannery sostiene che deve essere esistita un'o- pera di geometria, relativamente considerevole, che Eudemo deve avere avuto tra le mani, opera composta dopo la morte di Pitagora, approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse l'opera che Giamblico designa come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10 che, in base al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di geometria greca di cui si può sospettare l'esisten- TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr. TANNERY, La Géom. gr.,  za, il quadro era già quello che riempiono gli «Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due retti), al 10o (scoperta degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri regolari). Questo è il coronamento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di Proclo e degli Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen- taire nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de même que Minerve du cerveau de Jupiter. Nulla però sappiamo circa le dimostrazioni dei teoremi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la trattazione delle questioni riportate da Proclo – Gemino – Eudemo; nulla, all'infuori della dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non manca niente. La dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eudemo ai pitagorici, non coincide con quella che si trova nel testo di Euclide (prop. 32) ma ne differisce di poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di un triangolo è eguale alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi sopra la proposizione 29, a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle parallele o postulato di Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei tre angoli di un triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella proposizione stessa. Teorema e dimostrazione sono però, come osserva Vacca, anteriori ad Euclide; perché, come è stato osser- TANNERY, La Géom. gr., VACCA Euclide – Il primo libro degli elementi, Testo greco, versione italiana e note, Firenze vato da Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica si riferisce non solo a questo teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A questo punto dobbiamo sollevare una questione im- portante dal duplice punto di vista storico e teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è quella stessa che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come quella di Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente ammesso e formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da Eudemo del termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; fa lo stesso anche Eudemo, e fanno lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola: parallela? Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta l'altra di ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è necessario basarsi sopra il famoso postulato di Euclide, o sopra un postulato equivalente? Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si può fare senza ammettere o premettere il V postulato, o, ciò che è equivalente, senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato. Se infatti si ammette, per esempio come fa il Severi, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte di una retta ed aventi da questa una data distanza, è ancora una retta, si può osservare: che tale retta è unica; che per poter dimostrare come questa retta, cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è anche l'unica non secante della retta data, Severi ricorre al postulato di Archimede, il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente al postulato di Euclide; che la dimostrazione data dal Severi del teorema dell'angolo esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo (e che è quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta, non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà degli angoli alterni interni, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e non su quello di Euclide. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, È l'edizione non ridotta. SEVERI, Elem. di Geom.,SEVERI, Elem. di Geom. Vedremo in seguito come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato. SEVERI, Elem. di Geom., ISEVERI, Elem. di Geom. Ne segue che la dimostrazione cui si riferisce Aristotele può benissimo sussistere sulla base di un postulato come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente Loria. Una sola cosa bisogna notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo ragionamento, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un passo del commento al 1o libro delle Coniche di Apollonio (Apollonio – ed. Heiberg, Lipsiae) dica: Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei due retti a parte per ogni specie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, Hoepli interni di un triangolo sono eguali a due retti». «E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino». In conclusione anche questo dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an- goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti; particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria, «era noto il valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano dimostrare [come?] il relativo teorema; ad essi per universale consenso viene attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca- ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo: «per conto Cfr. MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze; ivi è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo nelle «Scienze esatte. LORIA, Storia delle matematiche, Torino mio ammiro coloro che per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di- mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento. Non è noto quale fosse la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata dal postulato delle rette parallele. Altrimenti gli antichi pitagorici, che per quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona, perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata riporta il testo greco di Proclo. ALLMAN, Greek Geometry from Thales to Euclid, Dublin, 1necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo, indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del triangolo rettangolo qualunque, egli completa il rettangolo (di cui si presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily (empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il triangolo rettangolo è così decomposto in due triangoli isosceli cogli angoli alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad essi rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si estende agevolmente, sebbene Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo isoscele, e da questo ad un triangolo qualunque. Tannery riconosce esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche egli inverte l'ordine dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino, prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che, seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que, soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno. Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai risultati nel- TANNERY, La Géom. gr., l'ordine indicato da Gemino, e che faccia appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive Tannery, «che se non l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle proporzioni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte, se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la dimostrazione, Tannery, dopo avere detto che «i greci introducevano il più tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo che Pitagora deve essersi TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr., servito della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente ammettendolo a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele. Ora, a parte il fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento, biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche secondo Loria la dimostrazione che presenta il massimo di verisimiglianza è quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che nascono abbassando la perpendicolare dal vertice dell'angolo retto sull'ipotenusa. Con una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi di Euclide. Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione accennata da Loria e da Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di TANNERY, La Géom. gr., LORIA, Storia delle Matematiche. Pitagora, non sia affatto quella originale; senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più felicemente osserva Allman che sebbene Pitagora possa averlo scoperto come una conseguenza del teorema sulla proporzionalità dei lati dei triangoli equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera deduttiva, e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito da Bretschneider. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due ALLMAN, Greek Geometry BRETSCHNEIDER Die Geometrie und die Geometer vor Euklides, Leipsig,  retti; ed è invece, come vedremo, indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua l'Allman, l'Hankel nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che «si può obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente greco, ma ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale del teorema mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli egiziani, da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che sia la stessa cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia pure derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa sarebbe, secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da Pitagora; si vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita dalla figura, la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe il merito che Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a Pitagora? Del resto l'apprezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia- no della dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed applicando codesto criterio è probabile che si dovrebbe assegnare una provenienza orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente greci. Noi mostreremo come una dimostrazione del teorema basata sopra questa figura si ottenga molto semplice- ALLMAN, Greek Geometry, HANKEL H., Zur Geschichte der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig. mente usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed, anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione del Menone.  32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, Da quanto precede risulta che occorre risolvere questa questione essenziale e preliminare: Trovare in qual modo gli antichi pitagorici dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo soltanto che essi ne davano una dimo- strazione che non era quella basata sopra il postulato delle parallele; e questo porta con una certa sicurezza a concludere che non ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per altro, trova conferma nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto stesso di rette parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che prolungate all'infinito non si incontrano mai, doveva apparire particolarmente ripugnante alla mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il compiuto e perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra parte, escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la 29a proposizione del libro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per- venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di dimostrare il teorema. Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il Tannery che al tempo di Pitagora il numero delle verità ammesse come primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso deve essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu- to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di questo teorema e non a quella arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale permetto- no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con sole considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere il postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo inspirazione e 25  non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la mentalità pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati conseguiti da essi, quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per bre- vità noi presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che a noi interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le proposizioni nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da quella euclidea. Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o no) ammettessero: i postulati di deter- minazione e appartenenza; i postulati relativi alla divisione in parti della retta e del piano (riferiti se si vuole a rette finite e piani finiti); i postulati della congruenza o del movimento. E riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le proprie- tà che cogli ordinarii procedimenti se ne ricavano, e cioè:  i criteri ordinari di eguaglianza dei triangoli; le relazioni tra gli elementi di uno stesso triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di- suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di ciascuno degli interni non adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due. l'unicità della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide. Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo postulato, ossia ritrovare l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di Euclide del Commandino, e come termine filosofico nella versione latina della Reth. ad Alexan. del Philelphus. La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα. Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo avvenisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario punto di partenza; né è detto che venissero  scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tenere presente che la mentalità geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della logica. Al contrario, osserva Rostagni, «Religione, morale, politica, scienze matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o veramente si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le domina tutte, indifferentemente. Archita, il pitagorico amico di Platone, in un frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio, dice che la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen- dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gioco degli scacchi; era la scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e dell'estensione. L'aritmetica è la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- ROSTAGNI, Il verbo di Pitagora, ed. Bocca, Torino Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie pythagoricienne; Paris, gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed esperienza sensibile umana ordinaria e non aveva per oggetto soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο, dell'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpicamente inalterabile ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza delle cose, l'al di là del περιέχον, della fascia cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti. Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna ancora all'intelligibile e non al sensibile gli oggetti della geometria. Tenuto conto di tutto questo, la verità primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano ruota rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato attorno ad un suo punto fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, dell'osservazione e dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e rigidamente connesso con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che più o meno gira la ruota; e l'intuizione e l'osservazione dicono che la rotazione del segmento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai pitagorici; giacché, secondo Eudemo, il problema, un poco più arduo, di costruire un angolo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di Euclide; ed Oinopide è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato parte dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito nessun pregiudizio. Il movimento, ed in particolare il movimento di rotazione, si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche nella geometria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai potuto procurarsi l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un pitagorico e gli basta che la definizione delle parallele ed il relativo po- stulato gli dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. Il postulato pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con l'ordinario postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione ci dice che quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O di un certo angolo α, tutti i punti di una retta qualunque AB del piano ruotano intorno ad O, in modo che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in OA', OB' tali che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro punto C della AB va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B' come C è disposto rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota dunque di α. Il postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre tutta la retta AB, con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa l'angolo α. Nel caso di un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si ottiene con la semplice rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una retta qua- lunque AB la sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale intorno ad un punto esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto di intersezione (se esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna traslazione. Il postulato afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto della AB ruota di α, non era naturale affermare che l'insieme di tali punti, ossia la AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente che se la ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 . Perciò la proprietà si estende subito al caso dell'angolo concavo e dell'angolo giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro di rotazione la perpendicolare OH alla AB, il raggio vettore OH si porta sul prolungamento OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il postulato pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con essa un angolo piatto. Ma siccome è noto che due rette perpendicolari in punti diversi H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere che in questo caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si incontrano. Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse debbano incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche enunciare sotto forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso in un certo senso intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta qualunque del piano con la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano compie due rotazioni consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima in r1 e poi in r2 allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 . Ma ci sembra che la forma che abbiamo prescelto aderisca in modo più immediato alla osservazione ed abbia quindi maggiore probabilità di coincidere con la verità primordiale ammessa dai pitagorici. Con l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso del triangolo equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò presuppone che esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un triangolo equilatero di lato assegnato. La considerazione del triangolo equilatero doveva comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la corrispondenza che essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la retta (individuata e limitata da due punti), il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche in Euclide la prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il triangolo equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una circonferenza ha il centro su di un'altra circonferenza ed un punto interno ad essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro caso par- ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to congiungente due punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta conoscere il 1o e 2o criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo equilatero (fig. 5), e quindi equiangolo. 34   La bisettrice dell'angolo ̂CAB incontra il lato opposto in un punto D interno ad esso, e poiché i due punti A e D si trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono eguali perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e ^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo ruotare la figura attorno ad O dell'angolo ^COB, ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse formato, cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB. Proseguendo nella rotazione, con due altre rotazioni eguali, la figura si sovrappone a se stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre angoli esterni del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro retti. D'altra parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo esterno; perciò la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d. d. 35  5. La verità del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai pitagorici è dunque una conseguenza immediata del postulato pitagorico della rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in questo caso particolare, era naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era naturale che pri- ma del caso generale essi studiassero l'altro caso parti- colare del triangolo isoscele. In questo secondo caso la dimostrazione non è così immediata; occorre premettere parecchie altre proposi- zioni tutte dimostrabili con una certa facilità e senza bi- sogno del postulato di Euclide, come del resto si trovano in Euclide stesso e nei testi moderni. Ad essi rimandia- mo per le dimostrazioni e ci limitiamo a ricordare queste proprietà, che sono del resto comprese tra quelle indicate innanzi: La bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo isoscele è anche mediana ed altezza. Esistenza, unicità e determinazione del punto medio di un segmento. Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. La somma di due angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. Se un angolo di un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono acuti. Se in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o minore di un secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente 36  maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ opposto a b; e viceversa. Se un triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il maggiore. In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due.  Definizione, esistenza, unicità della perpendicolare ad una retta per un punto. Teoremi inversi sopra la mediana e l'altezza del triangolo isoscele. Teoremi sull'asse di un segmento e sulle bisettrici degli angoli formati da due rette concorrenti. Premesso questo dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli interni di un triangolo isoscele è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo isoscele e sia AB = AC e quindi ^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si dimostra come nê l caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC incontra la AH in un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o criterio) dei triangoli BAO, CAO segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i triangoli OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL, e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo adesso ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per- pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicolare alla OK in K, e per il postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta eguale all'angolo di rotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed ^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale. Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano agevolmente per assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare. In un triangolo acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un triangolo ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato maggiore è interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA. In un triangolo qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque ABC. Abbassata l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è diviso in due parti dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH e congiungiamo A con B e con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali per il lo criterio, quindi BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H. 39  Per il teorema precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA', CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA '+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del triangolo isoscele BAA', si ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un retto, ^ABH+^BAA '=un retto . ^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti, ^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così dimostrato in generale. 7. La dimostrazione si è presentata immediata nel pri- mo caso menzionato da Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due casi da essi menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del primo caso è, da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso include il primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente in modo da includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale occorre solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali. Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40   Se BA = B'A' il teorema è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote- nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due triangoli, ^A=^A '=90°, BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele 41   B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB. Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC, ^ABC . Si dimostra al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo ABC. Gli angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel triangolo OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in tutti i casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno ad AB. Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti, dimodoché anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O sopra AC e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I triangoli rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto eguale; perciò sono eguali, ed 42   OK=OH. Analogamente sono eguali i triangoli OAH, OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC hanno l'ipotenusa in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è bisettrice di ^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di un triangolo qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale che, abbassando da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono interni ai tre lati, e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la figura attorno ad O, portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC andrà successivamente sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC per il postulato pitago- rico della rotazione risulteranno rispettivamente eguali ai tre angoli ^KOH, ^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e quella degli angoli interni sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende dunque superflue le due precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del triangolo isoscele include quella del triangolo equilatero. Se ne deve concludere che non è questa la dimostrazione in tre tappe degli antichi pitagorici, menzionata da Eutocio e Gemino? Concludere in questo senso equivarrebbe ad attribuire agli antichi la tendenza e l'abitudine moderna alla gene- ralizzazione, ossia significherebbe giudicare alla stregua della nostra mentalità. Per obbedire alle nostre norme avrebbero dovuto rinunziare a dimostrare subito il teorema nel primo e semplice caso ed attendere (e perché mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso. Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il teorema; ed è probabile che la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo equilatero; soltanto dopo ed in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore- ma valesse in generale, e solo dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a dimostrarlo negli altri due casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire non soltanto all'ordi- ne dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine cronologico, storico delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a dedurre ed in modo ab- bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con- vinti che le nostre dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi quasi riteniamo che anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione dal secondo caso, ma preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre ancora al postulato della rotazione. Si tenga presente ad ogni modo quanto scriveva il Tannery35: «credo inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere trovato i primi geometri ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici», citando ad esempio proprio il caso del teorema dei due retti. Comunque siamo giunti a questo risultato: Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un triangolo senza fare uso del postulato e del concetto delle rette parallele. È un risultato di una TANNERY, La Géom. gr. certa importanza se il postulato pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9. Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa, ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne deduce il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed S il punto d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r. Prendiamo sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno B da parte opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che porta r in r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA '=̂BOB ' l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi B^=^B'. I triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ', ^OTB'=^STB; e, se ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante, il terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo rr ' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il postulato pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza della somma degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati. Ammettendo quindi la costanza della somma degli angoli di un triangolo si potrebbe dedurne il nostro postulato della rotazione, ed applicandolo al caso del trian- golo equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è ammessa la costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è noto, la nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti in sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che, se si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri equivale ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente che se oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche quello di Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette altro, esso non equivale al postula- to di Euclide. Infatti Dehn dimostra che l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordinaria geometria elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non archimedea, dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano infinite non secanti rispetto ad una retta data. Math. Ann., B. 53, Die Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. BONOLA, Sulla teo- ria delle parallele e sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti le Matematiche elementari. Dehn chiama questa geometria: geometria semi-euclidea.  Lo stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si può: ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea. negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di Archimede; e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn. ignorare completamente i due postulati d’Euclide e d’Archimede e le questioni relative, e sviluppare una geometria più generale, indipendente dalla loro accettazione o negazione (e valevole quindi nei due casi), come conseguenza del teorema dei due retti oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano quasi certamente il postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo- strazione del teorema dei due retti con un procedimento indipendente dalla teoria delle parallele. Non introducendo il postulato di Archimede noi veniamo a trovarci esattamente nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso del concetto di pa- La proposizione 1a del libro X di Euclide equivale all'assio- ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che, prima ancora, Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed Loria ritiene che l'origine di questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr. LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia). Comunque gli antichi pitagorici dovevano ignorare il postulato di Archimede. rallela, deve essere possibile adesso, dal teorema dei due retti, sempre senza ricorrere al postulato di Euclide ed a quello di Archimede, dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da Proclo ai pitagorici. Se questo ac- cade questa geometria più generale concorderà o coinci- derà con la geometria della Scuola Italica. 10. Prima di proseguire vogliamo però esporre una via più rapida per dedurre dal postulato pitagorico della rotazione il teorema dei due retti.  Dal vertice A dell'angolo retto (fig. 11) di un triango- lo rettangolo qualunque OAS conduciamo la perpendi- colare AH all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo HA'=AH. Sappiamo che H è interno ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli rettangoli OHA', SHA' ri- sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e quindi OA=OA', SA=SA', ^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H =   ^SAH+^OAH=unretto. Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la AS va sopra la perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il po- stulato della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S + ^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA', OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si passa a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo la bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'altezza; ed essendo oramai complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decomposto il triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora indicato. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza, comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via tenuta per ottenere il teorema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria pitagorica, come sviluppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da Proclo ai pitagorici, La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio posteriore anche a Proclo, è attendibile. Dice LORIA (Le scienze esatte) che Eutocio, di mediocrissimo ingegno, è però assai diligente, accurato e coscienzioso. È difficile d'altra parte inventare una notizia così precisa e circostanziata. omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle a tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del rettangolo e la dimostrazione del teorema di Pitagora. E notiamo come dal teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze: Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. L'angolo del triangolo equilatero è eguale ad un terzo di due retti. L'angolo esterno di un triangolo qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. Passando ai quadrilateri, osserviamo subito che Euclide ne distingue, nelle sue definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene subito dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, discendono invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto AC eguale e perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo rettangolo iso- scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB = AC; la BC divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da parti opposte rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il termine: semiretta per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e semirette prolungate all'infinito non puo, ci sembra, essere condiviso dai pitagorici. Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si riferiscono alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il postulato se- condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si può prolungare κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla parte di C rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso convenientemente prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La definizione 23a di Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette infinite. Si tratta dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito dell'antica geometria e che male si adatta alle altre definizioni dell'elenco stesso che precede il testo di Euclide. golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC risultano eguali per il 1o criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è dunque, per definizio- ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian- goli rettangoli isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le due diagonali si tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3. Definizione, esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la seguente definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti. Sia ABD (fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an- golo retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53   ^CDB=^ABD; e ̂ siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di ^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché altrimenti la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli rettangoli ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti. Sia dun- ^ADC, ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli rettangoli ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti all'ipotenusa, la BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del rettangolo, e lascia A e C da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di ^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di lati eguali ad AB ed AD, si prendono a partire dal vertice A di un angolo retto so- pra i due lati i segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB, e su di essa dalla parte di D si prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il ret- tangolo richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti proprietà del triangolo rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici l'effettiva esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la costruzione, e ne dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la proprietà relativa ai poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice comune, biso- gnerebbe passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque; ma, siccome per dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di altro, passiamo senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale. TEOREMA DI PITAGORA. In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i cateti. Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna equivalente, anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide nella sua) della «nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della no- zione di eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza (Duhamel) o di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo rettangolo isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione: pre- PLATONE, Menone. Una traduzione corretta e completa del passo di Platone trovasi nelle Scienze esatte nell'antica Grecia di LORIA. Platone conosceva la validità so un quadrato ABCD e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è indicato in figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi ciascuno di quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che è doppio del quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC, mentre il quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta ed oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o quella suggerita dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è antica; 2o quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui ci ha serbato memoria Anarizio; 3o quella di Baskara posteriore a Tabit. La prima, sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia per la sua del teorema nel caso del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa doppia del cateto minore; risulta dal Timeo. Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne siamo convinti, che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione si possa fare senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE = AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un segmento eguale al cateto AB del triangolo dato. Essi sono separati e situati da parti opposte del lato comune CK, perché le tre semirette AB, CK, DP perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano due a due, e siccome C è compreso tra A e D, la DP e la AB stanno da parti opposte della CK. Essendo poi retti gli angoli di vertice K del rettangolo e del quadrato la loro somma è un angolo piatto, e quindi i punti P, K, B risultano alli- neati sopra una perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB. Sui prolungamenti delle DP e CK dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti PF = KM = BE = AC, e congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta un rettangolo per costruzione ed anche esso è il doppio del triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato che ha per lato un segmento eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i tre punti F, M, E risultano allineati sopra una perpendicolare comune alle tre rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato costruito sul cateto AB, del quadrato costruito sul cateto AC, e di quattro triangoli rettangoli eguali al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58  tutti i lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché ^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due angoli ^DGC, ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome la seconda nozione euclidea (che si trova però già in Aristotele) dice che togliendo da cose eguali cose eguali si ottengono cose eguali. Così il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Ammettendo il postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati d’Euclide e d’Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi fondamentali della geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto nella ordinaria geometria euclidea ed archimedea quanto nella geometria più generale che ammette il postulato pitagorico della rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede. Il teorema di Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria dell'equivalenza; precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non alla fine. La dimostrazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema dei due retti, noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica, ed il suo autore non è noto agli storici moderni della matematica. Noi non abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal postulato di Euclide, di cui i pitagorici non si servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che diventa perciò superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non ci sembra affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa il teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria che ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La dimostrazione del testo d’Euclide prova la validità del teorema di Pitagora sempre nel senso di eguaglianza per differenza se ed anche se si ammette il postulato delle parallele e nulla si dice di quello d’Archimede. Le dimostrazioni moderne ne provano la validità nel senso di eguaglianza addittiva (Duhamel), equivalenza od equicomposizione (Severi), se ed anche se si ammette insieme al postulato d’Euclide anche quello d’Archimede. Dalla dimostrazione che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e con la massima sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni moderne dalle formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2 Quanto al primo basta semplicemente osservare la figura per riconoscere che: TEOREMA: Il quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è eguale alla somma del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua- drato (BEMK) costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati eguali ai segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema diventa: il quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è quadruplo di questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII. 61   am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla figura, ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b ) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro che la squadra dei muratori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così pure il 62  TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il quadrato costruito sopra un lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2, e supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 + c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo, come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im- mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63   TEOREMA: Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH (fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no- tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+ c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64  [β] h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+ 2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema: TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide. Ricordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che ad Euclide appartiene solo la dimostrazione che si trova nel testo degli Elementi (Libro). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la [β] ossia  potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto omologo del secondo. Siano i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC = B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d. b2=(AC)2 –BC·HC=ab'  Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le conseguenze del teorema di Pitagora ha massima importanza la scoperta delle grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un triangolo rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel nostro tema; così pure non ci occuperemo dei metodi attribuiti a Pitagora per la formazione dei triangoli rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo studio dei rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei poligoni in generale. Dal TANNERY, La Géom. gr., triangolo rettangolo isoscele e dal triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si ottiene il rombo ed il romboide. Rombo, secondo la definizione che si trova in Euclide, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (perché in tal caso si chiama “quadrato” [GRICE, IMPLICATURE: A square is a quadrilatero rettangolo]. Sia ABD un triangolo isoscele non rettangolo, e dal vertice B della base BD conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla BD, formante con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è acuto, sarà ̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad AB, mentre C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due triangoli ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro lati del qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gl’angoli  e Ĉ sono eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD biseca gli angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; quindi anche l'altra diagonale biseca gli angoli, è perpendicolare alla prima ed il loro punto d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è un rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordinati), osserviamo prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte rispetto ad AD. Supposto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD, CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C coinciderebbe con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici. Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra loro, e bisecano gli angoli del rombo. La definizione di romboide data dagl’elementi d’Euclide è la seguente. Romboide è il quadrilatero che ha i lati e gli angoli opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco (ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri quadrilateri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo, la definizione di parallelogrammo; mancanza sensibile anche per il fatto che sappiamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione d’Euclide. Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la 23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'elenco dei postulati, non va troppo d'accordo con le definizioni 2a, 3a e 4a per le quali la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in conseguenza la definizione di parallelogrammo. Si ha l'impressione che l'elenco delle definizioni a noi giunte insieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico, e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il postulato delle parallele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea, basata sul V postulato; PROCLO, ed. Teubner. Cfr. ALLMAN, Greek Geometry, e si spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadrato, rettangolo, rombo e romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il triangolo isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo). Anche il romboide, infatti, si ottiene con questo procedimento. Sia, infatti, ABD un triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo- sta ad A rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD, si unisca C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta dunque insieme a D dalla stessa parte rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD sono eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC. Abbiamo dunque costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; quindi ̂DMA=̂CMB e perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide si tagliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli angoli opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A interno al triangolo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il quadrilatero ABCD, allora, è diviso dalla diagonale BD in due triangoli eguali per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide. Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD, perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester- no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo eguali le coppie di angoli opposti si avrà allora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi ̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teorema dei due retti questa somma ha per supplemento l'angolo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB. Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un romboide. Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47. 10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si possono definire quadrato, rettangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a questo punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli altri ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa con ogni rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato si sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale verisimilmente e probabilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec- cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei pitagorici.  pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro. Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος (da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro. Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno scoliaste alle Argonautiche d’Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che vien fatto girare battendolo con delle striscie di latta. Archita pitagorico parla in un suo frammento di questi rombi magici che si fanno girare nei misteri. Apollonio, Argonautiche. In OMERO (Iliade) sono chiamati anche στρόμβοι. Anche Proclo (Teubner) dice che sembra che anche il nome sia venuto al rombo dal movimento. MIELI (si veda) che riporta il testo greco di Archita traduce ῥόμβοι in tamburi (MIELI – Le scuole jonica, pythagorica) e lo CHAIGNET traduce: les toupies magi- Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si trova negli Elementi di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia sembra riconnettersi al postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà dei triangoli che vi si riferiscono. La proprietà riscontrata per il triangolo equilatero e per il quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed equiangolo, inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od una circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i raggi n segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene un poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e quello interno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo interno va crescendo e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ...  ques. Siamo ora in grado di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'angolo giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono il cui angolo è un terzo di giro; e non può verificarsi con altri poligoni regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teorema dei due retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come Tannery e Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita asserzione di Proclo che della proprietà dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice fa un teorema pitagorico.  La divisione della circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presenta difficoltà per i pitagorici. Occorre appena osservare che dalla riunione di sei triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta. Più difficile invece si presenta il problema della divisione della circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale interesse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo problema, perché altrimenti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver fatto, sempre prescindendo dalla teoria delle parallele, della similitudine, delle proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archimede. Il problema dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere, in un caso particolare, anche senza ammettere il postulato delle parallele. Il problema si può enunciare così: Costruire un rettangolo di base data ed eguale ad un rettangolo od un quadrato assegnato; problema che corrisponde alla determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra geometria. Sia, per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA = a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia in un punto P interno la diagonale AC. Conduciamo infine per P la MN perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è eguale (in estensione) al rettangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al rettangolo dato HBCK. Il segmento CN è dunque l'incognito x dell'equazione. Se invece a è minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel commento ad Euclide (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è basato sopra l'autorità d’Eudemo. La testimonianza non è questa volta quella personale di Eudemo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che ci si presenteranno in seguito. Per risolvere, dopo quello dell'applicazione semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A il verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad AB la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa è interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici. Viceversa, se nel triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA; ^OAB=^OBA,, siccome per il teorema dei due retti la 80  somma di questi quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD il quadrato di lato AB = b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF. Per il teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co- struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF risolve dunque il problema, ed è EA la 81  x dell'equazione data. Affinché il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed ammette sempre soluzione. Sia ABCD il quadrato di lato b, e prendiamo dalla parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua- drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA = EK, ed AF = EF' dei cateti. 82   Se da questo rettangolo si toglie il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap- punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA è la x dell'equazione. PROBLEMA. Determinare la parte aurea di un segmento; ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b. Costruiamo il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo, quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per lati DK = DF ed ED. 83   Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC, ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte comune AGDK si ha che il quadrato EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG, ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB BG = AB BS – AB SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = AB BS – AB SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG + AB SG = AB BS 84  dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS SG + AB SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0 Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0, ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea del lato. Un triangolo isoscele VAB che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e quindi quelli alla base di 72°, è diviso dalla bisettrice di uno degli angoli alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre equiangoli tra loro. Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett. (VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50  LORIA (Scienze esatte) attribuisce a Pitagora la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello della base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare che la base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli VAB, ABC (fig. 24), e sembra che in- Per costruire un triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali, il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo dunque in grado di risolvere il PROBLEMA. Dividere una circonferenza in dieci parti eguali. Uniamo il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza di centro O e raggio OA. Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente (come Euclide ha fatto ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della continuità in un caso particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il centro A sopra una circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda significare che tale via fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato parte, invece, dal teorema di Pitagora, ed utilizza soltanto conseguenze di questo teorema, in particolare il corollario ed i problemi dell'applicazione che sappiamo erano stati risolti dai pitagorici. esterno ed uno interno a tale circonferenza le due circonferenze si tagliano. Questa proprietà talmente assiomatica che Euclide non ha sentito il bisogno di postularla, per i pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità primordiale. Gli archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo centro successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano gli altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un numero pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare inscritto; riunendo il primo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si ottiene il pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come partendo dal teorema di Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici erano in grado di dividere la circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di inscrivere in essa il decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato o pentalfa (o pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le cinque diagonali del pentagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico, la scoperta della divisione della circonferenza in 10 e 5 parti eguali e la costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del pentalfa, vanno attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura geometrica. Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre scienze e la cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra loro il rag- gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono regolari inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa, sono tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato l'ammirazione dei pitagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti- ficare la scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di riconoscimento tra gli appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una parte. Congiungendo successivamente i punti di divisione A, B, C,... della circonferenza in 10 parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. Congiungendo A con C, C con E ecc., si ha il pentagono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5; congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decagono stellato ADGLCFIBEH oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10; congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si ottiene il diametro, e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo ecc. dell'arco AB si riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già ottenuti. I poligoni regolari e stellati inscritti nella circonferenza, e che si ottengono mediante la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e solo quat- tro. Il pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A dell'alfabeto greco) come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura. Il nome è adoperato da Kircher nella sua Aritmetica. Siamo però convinti che questa è la denominazione originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la denominazione origina- le del decagono stellato. Abbiamo già veduto che riportando 10 volte successivamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce la circonferenza, come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E come gli elementi della geometria: il punto, la linea (retta o segmento determinato da due punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre punti), il volume (tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed esauriscono lo spazio (tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi quattro numeri interi dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che dall'unità attraverso la sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto, naturalmente, succede nella nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo doppio BD, con il triplo DG e con il quadruplo GA dà per somma la intera circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66. 91   Il quadrilatero ABDG che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso dalla diago- nale BG in due triangoli rettangoli, e quindi si ha:  l2+s2=4r2 10 5 l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si enuncia con il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del decagono regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in una circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si riconosce facilmente che il diametro AOF è perpendicolare al lato EG del pentagono ed al lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quindi ̂EAG di 36°. Ne segue il TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due retti, che si dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I triangoli isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base parte aurea del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la parte aurea del lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la perpendicolare per A al diametro AF e le congiungenti A cogli altri punti di divisione in 10 parti eguali della circonferenza dividono l'angolo piatto attorno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per gli altri vertici. Se ne trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN avendo i due angoli alla base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale al lato l5 del pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del pentagono regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti corrispondenti eguali, di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel lato AE del pentalfa, NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare. Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la metà del lato del decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF. Altre proprietà avremo occasione di riconoscerle in seguito. Dobbiamo ora stabilire un'altra importante relazio- ne che si presenta nella costruzione dell'icosaedro, e che i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo che ogni retta passante per un punto in- terno ad una circonferenza è una secante, si dimostra che la perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tangente in quel punto alla circonferenza. E siccome sappiamo che il luogo geometrico dei vertici dei triangoli rettangoli di data ipotenusa è la circonferenza che ha per diametro l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre le tangenti ad una circonferenza da un punto assegnato. Conduciamo allora da un punto P esterno ad una circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una secante qualunque PCD. La mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare alla base CD, ed il rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM è eguale come sappia- mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD = (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora nella figura sulla AB a partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il lato eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera quello alla base, la base 94   OS è maggiore del lato OA ed il punto S è esterno alla circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il teorema ora dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono regolare, esso è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB = l10 Dal triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura 26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC = l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95  Da questa relazione e dalle altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6] s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l =3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r; l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF = l10 si ha AD=AF=s10; CD=s5. Preso AM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si trova (cfr. LORIA, Scienze esatte) nel libro di Euclide (che è di Ipsicle), e così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. sulla perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte aurea dell'altezza e l'altezza è parte  aurea della proiezione del cateto maggiore. Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei quadrati costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato costruito sopra l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a quei poligoni regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per metà dalle diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del rettangolo di lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha quindi una terza relazione tra quei cinque elementi: l5·s5=r(s10+l10) indicando con a5 l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo alle precedenti anche le relazioni:  2a5=s10=r+l10  2a10=s5 Vedremo in seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del dodecaedro regolare. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si disegna, con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei vertici le lettere componenti la parola ὑγίεια, latino salus, da intendere nel duplice senso che ha la parola salute in Dante e nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso di quella salvezza o sopravvivenza privilegiata indicata alla fine dei Versi d'oro. Questo antico simbolo pitagorico riappare qua e là nella tradizione esoterica occidentale, designato di solito come la figura di Pitagora. Talora al centro si trova scritta la lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem- pio nella flaming Star di un noto Ordine Occidentale avente per scopo il perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera, la teleté dei misteri. Ma non è ora il caso di fare la storia della sua trasmissione sino a divenire il fatidico stellone d'ITALIA. Diremo soltanto, che il pentalfa ed IL FASCIO LITTORIO (tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti simboli spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien dall'Oriente. Per vedere in quale modo Pitagora pervenne alla costruzione dei poliedri regolari ed alla loro inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo spazio quel che ab- biamo fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la geometria pitagorica dello spazio senza introdurre i con- cetti di rette parallele, di rette e piani paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si possa egualmente pervenire ai risultati che Eudemo attraverso Proclo ci tramanda come conseguiti da Pitagora. Ma per non allungare troppo questo nostro studio ci limiteremo ad indicare per sommi capi la via da tenere, o una delle vie da seguire, tralasciando in generale le dimostrazioni che ognuno può trovare da sé. Perciò, ammettendo che un piano divida lo spazio in due semispazii, ammettiamo anche il postulato del semi- spazio: Il segmento congiungente due punti situati da parti opposte rispetto ad un piano è tagliato in un suo punto dal piano. Può darsi che anche questo caso parti- colare del postulato di continuità fosse ammesso tacita- mente come una verità primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: Una retta non giacente in un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da esso in due semi- rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. Se due piani hanno un punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per quel punto; uno qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in due semipiani situati da parti opposte rispetto all'altro. Se per un punto H di una retta m si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b, ogni altra retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab dicesi per- pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al piano ab in H. d) Per un punto A appartenente o no ad una retta passa un piano ed uno solo perpendicolare ad essa. Teorema delle tre normali: Se una retta m è perpen- dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a perpendicolare ad una retta r di α (passante o no per il piede H), la terza retta r è perpen- dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si intersecano dividono lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le definizioni di die- dro convesso, piatto e concavo. Sia β  un piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede. Conduciamo per a un piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in β  la bb' perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è perpendicolare al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano retti. Facendo ruotare il piano ab intorno ad H su se stesso esso rimane perpendicolare alla r e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il semipiano β vasul semipiano α ed α su β'.I due diedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono, sono quindi eguali; il semipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è interno all'uno od al- l'altro dei diedri α̂βe^αβ'; quindi per una retta r del piano β si può condurre uno ed un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β r β ' . Il piano α dicesi perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il piano a'c è perpendicolare alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano β va in α ed α in β', la semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a =̂a ' c ' = un retto, e quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta perpendicolare ad un piano per un punto. Sia H un punto di un piano β, e si conduca per H in β una retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto dato fosse P esterno al piano β, condotta in β una retta b qualunque e per P il piano α perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo una retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra subito la unicità. I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H si di- mostra per assurdo.  k) Se i piani α e β sono tra loro perpendicolari, la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è perpendicolare a β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano, se due piani α e β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la perpendicolare a β essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque. Per due punti A e B (fig. 31) della costola r di un diedro α̂β conduciamonellafacciaαleperpendicolari a, a' alla r, e nella faccia β le perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi infatti su α AC = BD e su β AE = BF i qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli e quindi CD = AB = EF. La r è perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il piano α è perpendicolare ai piani ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla interse- zione a dei due piani α ed ab risulta perpendicolare al piano ab e perciò anche alla CE; analogamente risulta perpendicolare alla DF; ed analogamente la EF risulta perpendicolare alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è perpendicolare al piano ACE, e la EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE, giace nel piano CDE; perciò il quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano cogli angoli retti, ossia è un rettangolo. I triangoli ACE e BDF risultano quindi eguali per il terzo criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104  sono eguali. Le sezioni normali di un diedro qua- lunque sono dunque eguali. Se due piani α e β sono perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è perpendicolare a γ. Due piani perpendicolari ad una retta non si incontrano. Definizione di piano assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo geometrico dei pun- ti equidistanti dagli estremi del segmento. Distanza di un punto da un piano; e luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza assegnata da un punto esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto in una circonferenza, un punto qualunque della per- pendicolare al piano del poligono condotta per il centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano bisettore di un diedro e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore del diedro  α̂ β si conduca il piano δ perpendicolare allo spigolo r. I tre piani α, β, γ sono perpendicolari a δ; condotte da P le perpendicolari PH e PK ad α e β esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r e di δ con H, P, K, i triangoli rettangoli PHM, PKM sono eguali per avere l'ipotenusa PM in comune e gli angoli ^HMP, ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β è equidistante da α ed a β,esso appartiene al Si dimostra nel solito modo, e si estende all'angoloide. TEOREMA. La somma delle facce di un triedro è minore di quattro retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango- loide convesso. Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce eguali, ed eguali i diedri for- mati da due facce consecutive. Definizione di poliedro. Il poliedro si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni regolari eguali e gli angoloidi sono regolari eguali. Possono esistere al massimo cinque poliedri rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con cinpiano γ bisettore del diedro αβ.  Definizione di triedro e di angoloide convesso. TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma delle altre due.  que facce congruenti in un vertice eguali a dei triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra nel solito modo. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro effettiva costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si può riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica indipendentemente dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è poi facilissimo rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due circonferenze circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di quello della seconda. Per il centro H di un triangolo equilatero ABC si condurrà la perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si determina nel piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli angoloidi sono dei triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che ha per lato l'altezza della faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB. 107   Chiamando l4 lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK )2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro della sfera circoscritta sta sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame- trale, il triangolo ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è equidistante dai vertici, AH è l'altezza di questo triangolo rettangolo e quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera di raggio r. 108  Preso OD = r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH l'altezza. Si conduce una circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la perpendicolare al diametro; la sua intersezione con la circonferenza sia il vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano passante per HB e perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la circonferenza di raggio HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il tetrae- dro regolare inscritto. Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare. Sia ABCD un quadrato. Conduciamo per i vertici le perpendicolari al piano del quadrato ABCD da una stessa parte del piano, e prendiamo su esse i seg- menti AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I piani EAB, EAD risultano perpendicolari al piano α del quadrato ABCD; e le perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono rispettivamente nei piani EAB, EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali al dato. Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH perpendicolare all'intersezione CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF, e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare al piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due diagonali del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF e CD risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la diagonale FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto medio; lo stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano in un medesimo punto O 110  che le biseca, quindi O è equidistante da tutti i vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi (EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra il lato del triangolo equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è triplo del quadrato del raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3 e si ha quindi il TEOREMA. L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R è 13 del lato del triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato, occorre sapere divi- dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par- ti eguali. Il problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è sempre risolubile grazie al seguente LEMMA. Se l'ipotenusa di un triangolo rettangolo è divisa in n parti eguali e per i punti di divisione si conducono le perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia ABC un triangolo rettangolo, e sia l'ipotenusa BC divisa in n (5) parti eguali; per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai cateti AC e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei rettangoli e che essendo EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli rettangoli EDP, DBM sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK = KI = HI = HC. Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento dato, se ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti eguali, le congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano perpendicolari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre, indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema di dividere un segmento in un numero assegnato di parti eguali. Frattanto per il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo quintuplo sia maggiore del segmento dato  (per esempio riportando cinque volte consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si descrive sopra di esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in uno degli estremi del diametro e raggio eguale al segmento assegnato si descrive un'altra circonferenza; il punto di intersezione delle due circonferenze è vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il diame- tro della prima circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del diametro le perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali. In modo analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre parti eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella sfera di raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir- conferenza di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un diametro CE della sfera si conduce un piano, ed in esso si costruisce il triangolo ret- tangolo di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo equilatero costruito. Per il punto medio O di CE (centro della sfera) si conduce la perpendicolare MN al cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N si conducono i piani perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce il quadrato che ha EH per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici dei quattro ver- tici rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. Inscrizione dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della sfera il piano perpendicolare al diametro EF, sia ABCD un quadrato inscritto nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del diametro EF con A, B, C, D si ha l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il tetraedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle tre facce ivi congruenti è regolare. L'icosaedro regolare. Divisa una circonferenza di centro V e raggio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in essa il decagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le perpendicolari al piano α della circonferenza, e si prendano su di esse i segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così proseguendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4 perpendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3; analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo angolo C1 C2 C3 è eguale all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro, analogamente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q sta nel piano del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della circonferenza circoscritta al 116  pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale alla circonferenza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha: (C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 = B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila- teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E aventi per lati opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3- C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2 si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico- saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3 sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della piramide pentagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimostra che ogni vertice dell'icosaedro è vertice di una piramide pentagonale regolare eguale. La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si può dunque procedere nel modo seguente: si determina il segmento C1C4 di cui C1C2 è la parte aurea. si determina il centro Q della circonferenza circoscritta al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la circonferenza di centro Q e raggio QC1. si inscrive in questa circonferenza il pentagono regolare C1C2C3C4C5. si conduce per il centro Q la perpendicolare al piano del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si ha nel punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il raggio. si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. si conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. si abbassa dal vertice C1 la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. si abbassa da C2 la perpendicolare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla circonferenza di centro V. si prende il punto medio B1 dell'arco A1A2 e si inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. si unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1 aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. è rettangolo in C2 per- ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q = r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta. Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen- dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha: (DH)2 = DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120  DH è dunque eguale al raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il lato del decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si toglie da OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per Q e per V i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r si descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu- namente i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed unendo il vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque vertici C tra loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C opportuna- mente ai vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando con R il raggio della sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con l5 lo spigolo, con r il raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di lato l5, con l10 la parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa inscritti in questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono di lato l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E si ricava: R '=12 s5a10 121  cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'icosaedro è eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio r, oppure è eguale all'apotema del decagono inscritto in questa circonferenza. Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R' –12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2 –r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1 (s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53 Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 Si può riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i vertici D, B2, E sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti eguali allo spigolo del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza della faccia, e si può dimostrare geometricamente che questo esagono ha la stessa estensione del rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece l'icosaedro con un piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene per sezione un decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo dell'icosaedro ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta che la metà di l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R '= 12 s5 . 7. Costruzione del dodecaedro regolare.  e e quindi e Si ha pure: ossia Si ha inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10; s52=2R · s10 123 3a2=3R2 –l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2 +(5)=R2 10 2  Consideriamo nella fig. 36 la piramide pentagonale di vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro F che è base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 = C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima piramide stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1 ̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4 = N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1 incontra il cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso accade per gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono piano equilatero in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os- sia è un pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124  no piano regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni. Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce ̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4 dell'icosaedro. Tali elementi restano dunque gli stessi se si prende la sezione normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125  diedri son tutti eguali, e possiamo concludere che il dodecaedro costruito è regolare, è inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente opposti, questi otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono tutti eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di vertice A è trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un momento alla figura, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a partire dal punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e Q con I. Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del dodecaedro, e presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli; e perciò la P'Q' è perpendi- 127   colare alle Q'A e Q'C ed al loro piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K. Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al piano AQ'C ed al piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare alla intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C come pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do- decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la diagonale del cubo. Dalla fig. risulta che i centri di due facce opposte del dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O ed è O1O – O2O l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1, avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP. Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2 ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R. Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA = R si può procedere così. Si inscrive il triangolo equilatero nella circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella faccia. Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. Si costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia del dodecaedro. Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. Preso un segmento O1O2 eguale al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono quattro vertici del cubo inscritto. Si conducono per A e per P i piani perpendicolari ad AP. Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che ha per diagonale AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si hanno così gli altri quattro vertici del cubo. Nel piano AFG si completa il pentagono regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e poi HBCIK ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione del problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura i triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130  perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella minore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del dodecaedro, e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze circoscritte ed r il loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare alle due facce e quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due facce; esso coincide con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6 di questa figura ed è perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è perpendi- 131  colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della faccia C2C3B2 secondo la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa quindi per N4 ossia per il vertice B della figura 37; e siccome questo piano O1AO2 passa an- che per il vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia inferiore KILUV secondo la O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1; quindi il pentagono O1AB- B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta- gono piano O1O2UTT1; ed il piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono ABB1UTT1. Analogamente è piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i lati ordinatamente eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di vertice B1 e D1 eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce facilmente che anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono rispettivamente eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi- colari al lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD. Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ è il centro di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano perpendicolare a O1O2, nella quale è inscritto il pentagono piano regolare BDNSG. Analogamente conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra che η è centro di una circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad O1O2) nella quale è inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132  Siccome AE spigolo del dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo che il lato del pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte aurea del lato del pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne segue che il raggio r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è eguale al lato s10 del de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e poiché O1AλΘ è un rettangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r. Il rettangolo O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze di centri O1 e Θ hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema O2B1 della faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio del segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un triangolo rettangolo di cui l'ipotenusa è eguale ad r+a5, il cateto μB1 è eguale a a5 e quindi. Ma perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l s  si ottiene quindi ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi anche BμO2Θ è un quadrato; e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la faccia inferiore KILUV è eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il centro della circonferenza di raggio s10 passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i piani dei vertici BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare inscritto nella faccia del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2 r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che hanno per cateti r ed s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5. Siccome poi r è la parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di O1O2; dunque la distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa dai piani degli al- 134    triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla parte aurea di 2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di s10 e la parte intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono inscritto nella fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di centri Θ ed η hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del dodecaedro, hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio della faccia e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al lato del decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è disegnata nel suo piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita dall'esagono PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle facce della figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del dodecaedro. BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND è il centro della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta, DH è eguale ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV, risulta AB eguale ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK = r; condotta per K la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che AC = DE = r e BC = AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL, KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N sono allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135  parti, AK eguale ad l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad s10; preso allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed OQ il raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5 2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e quindi si ha:  2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10 10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5 ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136  [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a 2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 ) L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10 e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2 s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 = 4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 = 6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i triangoli 137  PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da 9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si possono dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che abbiamo trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il dodecaedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici. Dato R si determina come nell'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Si determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo del dodecaedro.  L'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del dodecaedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta alla faccia del dodecaedro. Le proiezioni dei cateti di questo triangolo sono l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti nella circonferenza circoscritta alla faccia. Si prende un segmento Θη = l10 lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti ΘO1 = ηO2 = 138  r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del dodecaedro. Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2 eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici del dodecaedro. Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5, si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5, la figura fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'. 139  Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2 ... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici dell'icosaedro inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 = L'1L'2 = ... perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice eguale; 2o – Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1 equidistante da essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L', L'1, L'2 dei triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è in comune; quin- di XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza circoscritta alla faccia dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella circoscritta al pentagono del dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata geometricamente. LORIA – Le scienze esatte nell'antica Grecia. IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO. In relazione ai poliedri regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora soffermarci alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai pitagorici, ossia la media aritmetica, la media geometrica e la media armonica. Nicomaco attesta che Pitagora conosceva le tre proporzioni aritmetica, geometrica ed armonica; e Giamblico attesta che nella sua scuola si consideravano le tre me- die aritmetica, geometrica ed armonica. Si ha proporzione aritmetica tra quattro numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la proporzione è continua se b = c; ed in tal caso b è il medio aritmetico o la media aritmetica di a e d e si ha: b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in proporzione aritmetica, la definizione è la stessa ed il segmento b semisomma dei due segmenti a e d è la loro media aritmetica. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner; e JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G. LORIA, Le scienze esatte. Si ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b, c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è eguale al rettangolo degli estremi. Con questa definizione non vi è bisogno della teoria del- le parallele e della similitudine, non si considera il rap- porto di due segmenti e non si sbatte nella questione della incommensurabilità. Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici erano in grado di risolvere il problema dell'ap- plicazione semplice, ossia di costruire il segmento quar- to proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo segmento era maggiore di uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il medio geometrico tra a e d; la media geometrica di due segmenti è dunque il lato del quadrato eguale al rettangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i pitagorici erano sempre in grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di costruire tale media geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione armonica quando i loro inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando 1a – 1b = 1c – d1 ; e conseguentemente b è medio armonico tra a e d quando l'in- verso di b è eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due. Archita in un suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel caso della proporzione continua 142  di tre termini; le definizioni antiche coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della geome- trica, la definizione della media armonica è invece diversa. Riportiamo il frammento di Archita, inserendo per chiarezza gli esempi numerici. La media è aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente, vale a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa- mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmetica perché 12 – 9 = 9 – 6. Il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di 12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è eguale 1+ 12, ed 13 è minore di 12 ). Si ha media geometrica, continua Archita, quando il primo termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo, ed in questo caso il rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più piccoli (esempio: 6 è la media geometrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il medio subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando [Cfr. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin; fr. 2o. Il frammento d’ARCHITA DA TARANTO (si veda) è riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251 dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la philosophie pythagoricienne) ne dà la traduzione. 143   il primo termine passa il secondo di una frazione di se stesso, identica alla frazione del terzo di cui il secondo passa il terzo; in questa proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il più grande ed il rapporto dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la media aritmetica di 12 e di 6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore di 13 )». Prima di Archita di TARANTO (si veda) (o dei pitagorici?) questa proporzione è chiamata ὑπεναντία tradotto con subcontraria anche da LORIA (si veda), perché secondo la definizione che abbiamo riportato, in questo caso succede il contrario che nel primo. Da questa definizione si può trarre con operazioni aritmetiche semplici la definizione moderna. Difatti se a, b, c, formano proporzione armonica, ciò significa secondo Archita di TARANTO che a=b+ 1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c) a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144 e quindi:   2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+ c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che, secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pitagora trasporta da Babilonia in Grecia. In questa importantissima proporzione geometrica gli estremi sono due numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata- mente la loro media aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti, dalla penultima relazione risulta la presumibile definizione geometrica della media armo- nica: la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha per lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la media geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti a e c è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due segmenti a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica, per determinare geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il pro- blema dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- La testimonianza è di Giamblico, cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc. bile sicuramente (anche senza la teoria delle parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica tra le tre medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media armonica tra 12 e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero il nome di armonica alla media sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono ri- spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda del tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tanto nella scala pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia). Ce lo dice, in parte, FILOLAO (si veda) in un suo frammento. Dice Filolao: L'estensione dell'armonia è una QUARTA più una QUINTA [adoperiamo i termini moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta di nove ottavi. Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si I termini di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner. Cfr. CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; estende mediante l'aggiunta di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio tetracordo). Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era semplicemente la media aritmetica delle lunghezze di queste due corde estreme. Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sensazione di un intervallo rispetto al do inferiore eguale Questo tetracordo non è altro che la lira d’Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il canto. Osserva TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (Hoepli), che è notevole che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella declamazione. Infatti, INTERROGANDO (cf. Grice, ?p – interrogative mode, indicative mode, imperative mode), la voce sale di UNA QUARTA; rinforzando, cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta. Occorre anche tener presente che l'ACCENTO dell'indo-europeo è un accento di altezza. La vocale tonica è caratterizzata, non da un rinforzo della voce, come in tedesco ed in inglese, ma d’una ELEVAZIONE. Il TONO greco antico consiste in una ELEVAZIONE DELLA VOCE, la VOCALE TONICA è una VOCALE PIÙ ACUTA delle vocali atone. L'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un INTERVALLO D’UNA QUINTA (MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grecque, Paris). all'intervallo del do superiore a quello del fa, ha una lunghezza tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formano una proporzione geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34, 23, 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media armonica delle lunghezze delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente. Se invece delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde estreme, e la quarta la media armonica. In molti testi di fisica e di matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle lunghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque Vediamo ora quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha 12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi; come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi= 64, fa= 3, sol= 9 81 4 149   tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il cubo armonia geometrica. I numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli, 8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e del decalfa in 2, la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3 27 mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di media armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica si presenta nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo dell'universo. Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filosofia. Robin, p.e., (ROBIN, La pensée grecque, Paris) prende per le quattro corde della lira la bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai numeri interi 6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la terza alla quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner] essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La media aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media geometrica è r. Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M si avrà: (s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M = 45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due raggi, abbiamo trovato che la loro media geometrica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica si ha: e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2; s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della circon- 151 ossia la media armonica tra la somma del raggio della  ferenza circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosaedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro; la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN = l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti, ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha: a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac – c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi  D'altra parte, indicando con M la media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c. Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono segmenti consecutivi di una successione tale che ogni segmento è seguito dalla sua parte aurea, accade che il secondo segmento ed il terzo sono rispettivamente la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e terza corda del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme. Considerando allora la quaterna 2a, s10, r, l10 dei segmenti determinati sopra la congiungente i vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani delle facce e dai piani contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del doppio dell'apotema ed è la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il lato l10 del decagono in- scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani conte- nenti i vertici intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e la faccia più vicina, ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia, è la media armoni- ca tra 2a ed l10. [Analogamente il lato l5 del pentagono regolare in- scritto è la parte aurea del lato s5 del pentalfa, ed è la media aritmetica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4; mentre il lato AN della punta del pentalfa è la media armonica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce opposte, e nella faccia il lato del pentalfa, sono così suddivisi in modo da costituire due quaterne di segmenti, tali che i segmenti medii si ottengono dagli estremi prendendone la media aritmetica e quella armonica, esattamente come le due corde medie del tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come segmenti estremi s10 ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media armonica M si ha: a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s –r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media aritmetica tra s5 ed l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 – R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della punta del pentalfa. In queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea del primo, ed i due segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Si ha infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10: 154  (2a+s )·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17] (2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago- rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli elementi 2a, s10, r ed deve avere costituito ai loro occhi una conferma significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regolare il simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è che da leggere alcune pagine del Timeo di Platone. Riassumiamo servendoci della versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che ogni specie di corpo ha profondità ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di triangoli, in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di triangoli e corrispondentemen- [PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da ACRI, Milano]  te ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una retta che è individuata da due punti. Il punto, la retta, il piano o triangolo ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fatto che ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è il principio della generazione. I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da due specie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi, ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro elementi]. Siccome di triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma), Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipotenusa doppia del cateto minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore. Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr. PROCLO, ed. Teubner. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET. Quanto si trova entro le parentesi è stato aggiunto da noi per chiarimento.] versa, preso un triangolo equilatero i diametri della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi vertici lo de- compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi triangoli equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può essere compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in numero di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene l'ottaedro (composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo, l'icosaedro, ha venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte sessanta di tali triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce triangolari non vi sono. Con il triangolo rettangolo isoscele si genera il cubo; perché quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il quadrato è diviso dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli rettangoli isosceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di ventiquattro triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una forma di composizione che è la quinta, di quella si è giovato Iddio per lo disegno dell'universo. Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Mieli esclude assolutamente che i pitagorici fossero arrivati a riconoscere la impossibilità dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta in nota, non dice se a sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la dimostrazione d’Euclide nel suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici potevano benissimo pervenirvi; ad ogni modo è certo che essi conoscevano i cinque poliedri che effettivamente esistono. A questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per riserva forse perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il medesimo metodo di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa. La superficie del dodecaedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triangoli rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a Timeo. Ora il numero XII (che compare anche negli altri poliedri) ha già per conto suo un carattere sacro ed universale.  XII è il numero delle divisioni zodiacali e XII in ROMA è il numero degli Dei consenti, XII è il NUMERO DELLE VERGHE DEL FASCIO ROMANO, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenutici stanno ad indicare l'importanza del numero XII e del dodecaedro. Il numero CCCLX è poi il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. Il silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche a Robin, il quale dice (ROBIN, La pensée grecque, Paris) che «au sujet du cinquième polyèdre regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux. Robin non prospetta alcuna ragione di tanto mistero. REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista «DOCENS»] La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag- giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale 360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni, aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rappresentano. Abbiamo veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per vertici i centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un vertice del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti ALCINOO, De doctrina Platonis, Parigi; Cfr. an- che l'opera di MARTIN – Études sur le Timée de Platon, Paris, PLUTARCO, Questioni platoniche. Naturalmente si tratta dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. e questi tre fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia, come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te- trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del tetracordo costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r, l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii hanno rispetto agli estremi esattamente la stessa relazione delle corde medie alle estreme del tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i vertici del dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici identifichi l'oracolo di Delfi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed all'armonia. La parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo [ROBIN, La pensée grecque, Paris dell'universo. Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza nell'architettura pre-periclea; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia, l'architettura e le varie arti. La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del dodecaedro nella sfera ed il riconoscimento delle sue proprietà, come sappiamo che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- [CANTOR, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik] Alla considerazione della media armonica si connette, invece, il canone della statuaria di Polycleto; ROBIN, La pensée grecque; LORIA, Le scienze esatte ecc.] so anche all'ascesi pitagorica; e si comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente, come Platone potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno, una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'intimo legame di que- st'ultima con la musica». Per i pitagorici e per Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la geometria euclidea, spezzando tutti i contatti e divenendo fine a se stessa, degenerò in una ma- gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della cosmologia con la musica, percepibile nel tetracordo formato dagl’elementi costitutivi del dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo che l'assenza di ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva costituire uno degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio del fatto è fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo appena giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto un passo abbastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica, non soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio geometrico puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo per scoprire LORIA, Le scienze esatte ecc.] le connessioni tra la geometria e le altre scienze e discipline. Altre cose si potrebbero aggiungere in proposito, ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς πάντας πάντα ῥητά. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del conseguente teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle parallele, della similitudine e della propor- zione, è dunque possibile pervenire a tutte le scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica restri- zione che il problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si può risolvere in tutti i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto importante e sufficiente a con- sentire il pieno sviluppo della geometria pitagorica pia- na e solida come la abbiamo potuta restituire sin qui. Ed abbiamo notato il fatto eloquente che per i problemi del- l'applicazione la testimonianza addotta da Proclo non è quella autorevole di Eudemo, ma soltanto quella di co- loro che stavano attorno ad Eudemo. Si obbietterà che questo non basta a dimostrare con assoluta certezza che effettivamente quella che abbiamo ricostituito sia tale e quale la geometria pitagorica. Lo sappiamo perfettamente, ma sappiamo anche che, data la assoluta mancanza di ogni documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto tener conto come elemento per la restituzione e non come documento di prova, non era possibile fare di più; e sappiamo che in questa circostanza anche le prove indirette, che abbiamo raccolto per via, hanno il loro valore a favore della nostra tesi. Nello sviluppo della geometria pitagorica ci siamo limitati a quanto occorreva per poter raggiungere i risultati menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo premettere per trattare l'importante questione del «postulato» delle parallele. Il problema dell'applicazione semplice, corrispondente alla risoluzione dell'equazione ax = bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può avere solo quando si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in altre importanti questioni. Così, dati tre punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre corde passano per il centro; ma non si può dimostrare in generale che per tre punti non allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo ostacolo che sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come potevano comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti fanno ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e nemmeno il concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo adesso di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà. Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di Archimede, dimostrare con Legendre la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle parallele); e così pure osserviamo come il Severi, ammesso il suo postulato delle parallele, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato d’Archimede, la unicità della non secante. La cosa è dunque possibile servendosi del postulato d’Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo postulato perché Archimede è posteriore persino ad Euclide, e non è verosimile che i pitagorici abbiano ammesso un postulato come quello di Archimede. D'altra parte, è vero che il postulato d’Archimede basta per permettere di raggiungere il risultato; ma è anche necessario ricorrere ad esso? E se non è necessario, potevano i pitagorici, senza di esso ed in modo più sempli- ce, raggiungere il risultato, dimostrare cioè la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato? BONOLA in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze. Vedremo di sì, e vedremo come; ma ci è necessario per far questo premettere ancora altre proposizioni che si deducono da quelle già viste. TEOREMA: Se due rette a e b sono perpendicolari entrambe ad una stessa retta AB, ogni altra perpendicolare ad una di esse incontra anche l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due rette a e b perpendicolari alla AB; e da un punto P della a conduciamo la perpendicolare alla b. Il suo piede Q è necessariamente distinto da B, perché altrimenti da B uscirebbero due perpendicolari alla b. E siccome la AB e la PQ perpendicolari in pun- ti diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi, i punti P e Q devono stare da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q il triangolo ABQ è rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i due angoli acuti del triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA, avendo inoltre eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com- plementari dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio; e quindi l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la perpendicolare per P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ alla a incontra la b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante. Infatti, essendo ABPQ un rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB. Perciò due rette perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti. Viceversa, se un punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha dalla b una distanza PQ = AB, allora diciamo che questo punto P appartiene alla perpendicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo infatti che i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla b distanze eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente appartenere alla AB, altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q e B sono distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è acuto e complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP; perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo compreso eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168  è eguale ad un retto. Il punto P sta dunque sulla a perpendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti abbiano distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta equidistante; cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta equidistante da una retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta equi- distante da una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A abbassare la perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa. Abbiamo visto che tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la distanza costante AB. Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei punti del piano situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed aventi da essa una distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione è quella che il Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle parallele. Per noi è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi del postulato pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che ognuna di esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve che dalla proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti. Osserviamo finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una retta b passante per un punto 169  assegnato A, non dice affatto che ogni altra retta passante per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi sono altre rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti dalla b: ossia per ora abbiamo dimostrato la unicità della retta equidistante; e nulla sappiamo della unicità della non secante. 3. Valgono per le rette equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le rette parallele di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e forma con esse angoli alterni interni eguali esse sono equidistanti.  Siano a e b le due rette incontrate dalla trasversale AB, e siano gli angoli alterni interni eguali. Ne segue che gli angoli coniugati interni sono supplementari. Se questi angoli sono anche eguali, ossia se sono retti, le a e b sono perpendicolari entrambe alla AB, e per il teorema precedente sono equidistanti. Se i due angoli sono diseguali ed è per esempio ^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri- 170  spetto a B dalla parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non può avere più di un angolo retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo ̂BAH del triangolo ret- tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'angolo ottuso ̂BAD in due parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma ^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e b perpendicolari alla AH sono due rette equidistanti. Lo stesso accade se la AB forma con le a e b an- goli corrispondenti eguali, angoli alterni esterni eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se una trasversale seca due rette equidistanti, forma con esse angoli alterni interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc. Supponiamo che la AB (fig. 39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse perpendicolare ad una di esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il teore- ma sussisterebbe. Se non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti diseguali; sia p.e. BAD ottuso. Condotta da A la perpendicolare comune alle due rette a, b essa divi- de BAD, e nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH risulta complementare di ^BAH; e quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2 retti 171  ̂HBA+ ̂BAD=2 retti I due angoli coniugati interni sono dunque supplementari; e quindi gli alterni interni sono eguali ecc. Non è però dimostrato che se due rette sono equidistanti ogni secante della prima deve secare anche la seconda; perciò non si può ancora risolvere p.e. il problema dell'applicazione semplice nel caso generale. Diventa ora possibile la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita d’Eudemo ai pitagorici, dimostrazione alla quale si riferisce il passo della Metafisica d’Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo ABC (fig. 1) la equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli angoli alterni interni di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel modo ben noto. Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo di ritorno. Lo era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la dimostrazione? Lo era anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basa sopra il teorema delle rette equidistanti, derivante dal teorema dei due retti, doveva necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti ammessa per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò inesplicabile la esistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le proprietà delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti o non si usi il postulato d’Euclide. La equidistante è una non secante, che a differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele secondo la definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente perciò la dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un postulato sopra le rette equidistanti come quello di SEVERI (si veda). Se, come crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso, perché, come SACCHERI dimostra, l'ammettere che delle rette equidistanti esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato. Esso è il postulato del Severi, equivalente alla proposizione SACCHERI, ed al nostro postulato pitagorico della rotazione. VAILATI, Di un'opera dimenticata di SACCHERI, in Scritti.] Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due retti, a sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni vedute è certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è verosimile derivi da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo postulato, non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eudemo, ed inoltre la teoria delle equidistanti e, di rimando, la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita ad essi da Eudemo.Se una trasversale incontra due rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistanti. E siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174  equidistante dalla m, essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante si chiama altezza del romboide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di un triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB (fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175   lati consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per assurdo, come conseguenza della unicità della equidistante dalla BC passante per M, e della unicità del punto medio M. Come conseguenza di questi teoremi se ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette equidistanti, sul trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi- sione di un segmento in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare che le tre mediane di un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci limiteremo al seguente teorema di cui abbiamo bisogno. TEOREMA: Se sul prolungamento di un lato di un triangolo si prende un segmento eguale al lato, e per l’estremo del segmento si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il triangolo dato; prendiamo sul prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul prolunga- mento di AN il segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema precedente la MN e la BC sono equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN passante per B incontra il prolungamento della AN nel punto C. Vogliamo ora dimostrare la proprietà, fondamentale che per un punto assegnato A esterno ad una retta data b si può condurre una sola retta che non la seca. In modo simile a questo si può sviluppare la teoria delle rette e dei piani equidistanti e la teoria dei piani equidistanti. Avremmo potuto premettere questi sviluppi, ottenendo poi con il loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che abbiamo trattato, ma con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di essi. Dal punto A conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A conduciamo la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b entrambi perpendicolari alla AB non si possono incontrare. Si tratta di dimostrare che ogni altra retta passante per A e distinta dalla a è una secante della b. Supponiamo se è possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a, almeno un'altra retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide la m in due semirette situate da parti opposte della a; consideriamo la semiretta m che rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della b, ossia della striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b situate ri- spetto alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una delle semirette di origine A e comprese nell'angolo ^B A a delle semirette AB ed a, la quale per ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne possono essere altre di origine A che non incontrano la semiretta 179  b; anzi ve ne sono di sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese nell'angolo m^a, perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto N, siccome la semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e lascerebbe quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento BN contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna all'angolo ^mAa,, è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infatti, a partire da A su questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A comprese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne all'angolo C A a ; basta infatti 180  prendere un punto S qualunque sul prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A, passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi, e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon- denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita ordinatamente dalle altre; e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qualunque della b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre. Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmento BC; le semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata ortogonale ABC, estremi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la a l'ultima delle non secanti la b. Facciamo a questo punto una osservazione: La corrispondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC, permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC. Per dedurre dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un fascio, il Severi nota che occorre prima introdurre il postulato delle parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette. Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in corrispondenza con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in corrispondenza con i punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li passino per A, e la corrispondenza è completa, nessuna semiretta esclusa. Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente dal postulato delle parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di questa no- stra geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità dell'insieme delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD, e stabilito il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono necessariamente secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che precede una secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una non secante è anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste l'ultima delle se- [SEVERI, Elementi di geometria] mirette secanti la b così da un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa non esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo dalla posizione iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato della rotazione pitagorica (o l'equivalente proposizione Saccheri) sarebbe stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del postulato d’Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità. Bisogna ammettere come postulato la esistenza di una semiretta di separazione delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità talmente evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non ha sentito il bisogno di postulare il postulato di continuità nei due casi che abbiamo a suo tempo espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo due secoli prima d’Euclide quando Pitagora per primo faceva della geometria una scienza liberale. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo, la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica. Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b), ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sappiamo la r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h; in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è quindi contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE: Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che non la seca. Sia A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che forma con la semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b (eventualmente anche la prima). Allora la prima non secante, ossia la se- miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r, ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere acuto l'angolo HAB del triangolo 185  rettangolo AHB, il piede H sta sulla semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30° e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com- preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a' perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186   e A; perciò il segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK, ̂DAH eguali; quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε. Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s' incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA, il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una secante della b. La prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ; ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ; quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione SACCHERI (si veda)) o l'equivalente postulato di SEVERI (si veda) opra le rette equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar- chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva apparire indi- scutibile. Dimostrato il postulato d’Euclide si rientra naturalmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro compito è finito. A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria pitagorica, non in quanto collimava con la geometria euclidea, ma in quanto ne differiva. Che ne differisse sostanzialmente lo prova la esistenza di quella arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato, abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale consente da sola la più recente dimostrazione del teorema dei due retti riportata da Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene quali obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico della rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma questo è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa invece vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo postulato della rotazione. Come riprova del fatto che essi non ammettevano il postulato delle parallele, definite come in Euclide, abbiamo addotto la ragione che per i pitagorici il concetto di infinito si identifica con quello di imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come il concetto di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di immobilità si oppone a quello di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria dell'altra. Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di infinito sia quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo tenere presenti i legami che avvincevano le concezioni geometriche dei pitagorici a quelle cosmologiche; e se nessuno ha mai veduto due rette parallele nel senso anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si incontrano mai, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento è un carattere essenziale della vita umana ed universale. Gl’astri, ossia gli dei, si movevano eternamente nelle loro danze celesti. E secondo i pitagorici, il movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per la sua regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di rotazione restavano im- [VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova] mobili e partecipi della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano situata ad una qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche essa, era ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione intorno alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed ammettere che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale fosse eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era ammettere un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel campo raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente onore ad Euclide di avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato possibile. Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una riprova che i pitagorici ne fanno uso senza tanti scrupoli e che quindi potevano benissimo anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente, accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata, puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il doppio scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli elementi etc.] mezzo comodo e rapido per risolvere difficoltà che altri- menti si possono superare solo con molto maggiore pa- zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che non ha mai soddisfatto nessuno e che Alembert chiama lo scoglio e lo scandalo della geometria. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si ammette il postulato pitagorico della rotazione o la proposizione Saccheri, si ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette anche il postulato di Archimede oppure il caso particolare del postulato di con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendicolari in punti distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto, per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione. Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A rispetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P, dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r: quindi esse non si incon- trano.] tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così. Sia il triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ παράλληλος ἡ. Qui appare il termine parallela e l'articolo determinativo ἡ ne implica la riconosciuta unicità. Ma, anche ammettendo che Proclo riporta di peso la dizione usata d’Eudemo, resta a vedere se Eudemo adopera il termine parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi d’Euclide. Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante. Egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce la retta di fianco o di fronte al lato. Anche in questo passo l'articolo ἡ mostra che tale retta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nessun modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della parola parallela non dà in proposito nessuna luce. Il termine è adoperato in astronomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel linguaggio ordinario d’Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle vite parallele. Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e con quale precisazione non risulta. Aristotele lo usa tre volte nella Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano di descrivere le parallele commettono una petizione di principio. Così come stanno le cose il passo di’Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non provano affatto che la dimostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla definizione ed al postulato d’Euclide. E non è da escludere che questa retta fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla equidistante vi potessero essere anche altre rette non secanti. In tal caso il dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele sarebbe corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si intende che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela ne fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela nel senso euclideo e non si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, d’Aristotele e d’Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due retti una dimostrazione identica a quella d’Euclide. Se, come ci sembra, questa dimostrazione pitagorica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche questa dimostrazione era indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'accordo con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione pitagorica. E notiamo ancora che, anche se non si vuole accordare che la geometria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pitagorico della rotazione, la dimostrazione del postulato d’Euclide che abbiamo esposto si può fare egualmente, se si ammette la proposizione SACCHERI od il postulato del SEVERI. E siccome i pitagorici conoscevano certamente il teorema dei due retti indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che essi potevano dal teorema dei due retti e senza postulato d’Archimede arrivare a dimostrare la unicità della non secante. La questione non trascendeva i loro mezzi, né certamente l'intelligenza di quei così detti primitivi. La trasformazione del postulato di Euclide in teorema è un risultato secondario di questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia- mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e, tagliando il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo scegliere tra il V postulato ed il postulato pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è anche un po' personale, e noi lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare che il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema dei due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla teoria delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e consente da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e non ci consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiungere lo stesso risultato. Il postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il postulato d’Euclide in modo non trascendente le possibilità dei pitagorici. Una volta introdotto, come postulato, il V postulato d’Euclide, la proprietà enunciata dal postulato pitagorico della rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia quindi il non trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse accaduto diversamente quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è perduta ad eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se la nostra ricostruzione corrisponde al vero, la introduzione del postulato d’Euclide dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide cambiò l'ordine e le dimostrazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno goduto per oltre venti secoli gl’elementi di Euclide, aggiungendosi a queste condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della gloria della scuola italica. Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fondamenta, nulla si è salvato. Un destino avverso sembra essersi accanito contro l'opera vasta ed ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime pitagorico in CROTONE Cotrone; disperso l'ordine e la scuola, le scoperte e le conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate. Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra natura, impede l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagoriche, assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la filosofia, intesa nel senso etimologico e pitagorico della parola, venne occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere salde basi, si è perduta a tutto beneficio della scuola greca posteriore. Per quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di restituire l'opera geometrica della scuola itala è stato per noi non soltanto un importante argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi, gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti, preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ. Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo romano. Cf. uomo, scuola pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il pitagorismo comparato con altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone – crotona – Taranto – metaponto, aristosseno, prima seguace del pitagorismo, reghini, massoneria, esoterico, numeri sacri. Cf. Luigi Ferri, L’interpretazione dei filosofi italiani sull’origine del pitagorismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrero” – The Swimming-Pool Library. Leonardo Ferrero. Ferrero

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferretti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo – scuola di Brusasco – filosofia torinese – scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brusasco). Filosofo italiano. Brusasco, Torino, Piemonte. Grice: “I like Ferretti, for one, he wrote on intersubjectivity which is a problem for Husserl: cogitamus; nobody speaks of ‘cogitamus --; one has to distinguish between my favoured –‘inter-subjectivity’ and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti has also philosophised on the infinite, which poses a problem to my principle of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino, Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI, Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg et Sellier, Torino). Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica (LA)  «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.»  («Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo risiede la verità.»  (da La vera religione di Sant'Agostino) Il termine soggetto che deriva dal latino subiectus(participio passato di subicere, composto da sub, sotto e iacere gettare, quindi assoggettare) letteralmente significa "quello posto sotto", "ciò che sta sotto".  Nella speculazione filosofica il termine ha assunto una varietà di significati:  un essere, sostrato sostanziale di qualità che lo configurano particolarmente e accidentalmente; elemento soggettivo che determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità; termine che, in età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e all'autocoscienza intesa come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di significato nella storia del concettoModifica In filosofia il concetto di soggetto ha subito un ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente il termine si riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una "oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della cosa sensibile come suo fondamento ontologico.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calogero. La teoria sul pensiero greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza (sub stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama "accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli accidenti rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro apparenza nel tempo e nello spazio.  Sempre in Aristotele, poi, il soggetto assume anche una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde al piano del soggetto nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di partenza, la base a cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato mutevole. E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma.»  Un terzo aspetto particolare del soggetto in Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato materiale delle cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una forma, il soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione indissolubile di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il composto di entrambe».  Il ribaltamento soggetto-oggetto inizia con Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero soggettivo che definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui inerisce, «il termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto.» Nel lessico moderno, allora, "soggetto" fa coppia con "oggetto": da una parte c'è qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto); dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato, voluto, accettato, respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto). Soggetto assume una serie di nuovi significati come "interiorità", "libertà" o anche "umanità", in quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia. Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono ricondurre a quello fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di significati è relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di "autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a "realtà esterna".  Gli antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i presocratici, l'interiorità come già accennato non viene contrapposta alla "realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in stretta unità. Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il primo concetto filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e di quella umana. Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante nella natura e nella mente umana, il Lògos. Parmenide afferma che lo stesso è pensare ed essere, ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere. Per Anassagora il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed oggetto.  I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale il concetto di realtà, verso la quale ostentano uno scetticismo o un relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito proprio del filosofo diventa: conosci te stesso». La ricerca si orienta verso l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e vizio, giusto ed ingiusto, ecc.  Con Platone il concetto diventa Idea, da sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa, apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di morte". Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui poggiano le qualità accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono i vari predicati (soggetto logico). Aristotele afferma che la sostanza pare che sia in primo luogo il soggetto di ogni cosa. Alla sostanza competono numerosi altri aspetti (potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del contesto; ma tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello fondamentale, che è la sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel senso moderno, è solo un caso particolare di sostanza e di soggetto.  Riassumendo la posizione greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà del Cosmo l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un rapporto di tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in ogni caso la sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente sul soggetto (la mente).  Con il Neoplatonismo la coppia soggetto/oggetto si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della realtà (che si manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello oggettivo (Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi sono derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di esistere» non è che un riflesso, una manifestazione particolare dell'autocoscienza dell'Uno, che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha di nuovo la coincidenza tra soggetto e oggetto e l'"assorbimento" dell'intelletto umano in una dimensione intellettiva universale.  Sulla scorta di Aristotele, nel Medioevo il soggetto assume un significato oggettivo: il soggetto del discorso, l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente nel mondo anglosassone (subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze, nemmeno Agostino si oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì l'anima, l'interiorità; ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie all'illuminazionedivina: il soggetto umano dipende in tutto da una Verità che lo trascende.  Col Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di Dio rispetto a quella greca: non più come entità impersonale, o semplice fondamento oggettivo della natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui l'uomo è immagine e somiglianza. Nella disputa sugli universali, Aquino prende posizione a favore del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del soggetto ricondotta alla trascendenza divina. Su questa strada anche il Rinascimento descrive variamente l'interiorità come contatto con l'universale che si riflette nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto (Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione del soggetto umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di questa soggettività universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma abitata da forze e presenze nascoste. Si verificano due processi paralleli: con Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica della Natura; con Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo duplice processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette la nuova consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla Natura. Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici Idee, di varia natura (il significato cartesiano è differente da quello platonico: esse sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a queste Idee corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il mio pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia rappresentazione mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato, inventato, anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la non-esistenza reale dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare un costante dubbio circa la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai dubitare della presenza delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore del primo termine. La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum" riassume un lungo ragionamento che si può esprimere così: Posso dubitare di essere ingannato riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma non posso ingannarmi sul fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto dubitando e ponendomi queste domande è necessario che io esista almeno quando me le pongo; Poiché infatti posso liberamente dubitare di tutto, non posso invece dubitare del mio libero atto del dubitare, di essere un pensiero che dubita; L'attributo necessario alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono in grado di concepirmi distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un prototipo di quella che si può definire "metafisica del soggetto", dove l'io individuale diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica che possa costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante per la successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res extensa. Il pensiero è contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio identifica con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal dualismo res cogitans/res extensa si svilupperà il meccanicismo come visione matematica e deterministica della Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti fermi:  L'autocoscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è, per definizione, antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto nell'autocoscienza si manifesta tutto il resto; Le cose, che il senso comune vuole esistenti di per sé, esistono anzitutto nella coscienza; la loro esistenza indipendente come sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è perciò il sub-iectum delle altre cose, poiché mi viene data preliminarmente rispetto ad esse ed è capace di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la sostanza vera diviene la sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz tuttavia si ha una nuova metafisica del soggetto, più complessa del semplice dualismo cartesiano, basata sulla pluralità delle sostanze, che torna a riunificare la dimensione del pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica platonico-aristotelica; le idee, vere e proprie realtà pensanti che si esprimono nel soggetto metafisico (la monade, corrispondente nell'uomo alla sua mente) hanno di nuovo il ruolo di fondamento della verità. Infatti il giudizio, nella sua forma logica “S è P”, è vero quando il predicato è già contenuto nel soggetto, che è la sua causa o, per dirla con Leibniz, la sua ragion sufficiente. Il soggetto logico S esprime la sostanza reale o monade, che quindi è la causa della verità, sia in senso logico (come soggetto del giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente del predicato). Se è vero che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio di Leibniz), la ragione di tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo stesso. Leibniz descrive un soggetto già simile all'uomo moderno, come individuo indipendente dagli altri («la monade non ha porte né finestre»), dotato di una sua energia vitale (appetitus) e di una libertà e finalità sua propria (l'entelechiaaristotelica), ma inserendolo entro un quadro organico d'insieme, fondato sul concetto scolastico di armonia prestabilita.  L'empirismo inglese, prima con John Locke e poi più decisamente con Hume, reagisce a questa sostanzializzazione del soggetto criticando sia la nozione di sostanza (Locke), che poi quella stessa di soggetto (Hume). Ma in tal modo l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare la concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della realtà esterna.Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni soggettive derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come opposizione tra fenomeno e cosa in sé (vedi oltre).  Concludendo sul pensiero moderno: all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio), generando per reazione la negazione della sostanza (empirismo).  Kant e l'IdealismoModifica Con Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che mette il soggetto al centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli oggetti intorno alle sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo, e le dodici categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato. Il pensare dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant. La chiamo originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre la rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da nessun'altra rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre rappresentazioni». Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'io penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria, ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.  Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé. Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata", attingibile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione. Veniva perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e oggetto tipica della metafisica neoplatonica.  La dialettica soggetto/oggetto Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati secondo Hegel nel momento in cui la ragioneprende coscienza che l'uno non può esistere senza l'altro, che un oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e viceversa. A differenza di Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben conoscevano una tale dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la ragione stessa che opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza, mentre nella metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori, sin dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da sola. Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due termini contrapposti.  Hegel identifica esplicitamente il soggetto con l'Assoluto, ed infine col divino cristiano, ma diversamente dai suoi predecessori li congiunge in forma "mediata", generando quindi nuovamente un dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito», ma quel che ancora mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della vita umana nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli elabora la nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed assoluto che però inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana consiste in un progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito, proprio attraverso le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e dei popoli. Le diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono narrate nella Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata della autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza sensibile), ma poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più universale. Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo "sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri di Dio") viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza universale o Spirito.  Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale, storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte esistenziale dell'uomo moderno.  Il soggetto oggi La filosofia già da un secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si è messa) al centro del mondo. La rivoluzione copernicana esprime un ottimismo della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della Natura. Secondo Aristotele costituito da una materialità informe, originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. Aristotele, Metafisica,  Aristotele, Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura), Platone, Fedone, Aristotele, Metafisica, Salatiello, L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino, Pontificia Università Gregoriana, Roma. Ad esempio Paracelso nel suo Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus parla apertamente di entità spirituali responsabili di ogni legge e avvenimento di natura. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma Homo Laicus: Berkeley. Kant, Critica della Ragion pura, Hegel, Fenomenologia dello spirito, introduzione Vedere introduzione alla Scienza della Logica. Boulnois, Généalogies du sujet. De saint Anselme AOSTA (si veda) à Malebranche, Parigi, Vrin, Alain de Libera, Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi, Vrin, Libera, La quête de l'identité (Archéologie du Sujet), Parigi, Vrin, Alain de Libera, La double révolution. L'acte de penser I (Archéologie du Sujet), Parigi, Vrin. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nella cultura antica La Nuova Italia, Milano, Bompiani. Parisoli, Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali, Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, Thiel, The Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes to Hume, New York, Oxford Individuo Oggetto (filosofia) Portale Filosofia: accedi alle voci che trattano di filosofia  Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del pensiero  Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io)  Il contenuto. While subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only that it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The inter-subjective” sounds Butlerian in English! Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto nell’intersoggetivo – ‘the common ground’  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferretti” – The Swimming-Pool Library. Giovanni Ferretti. Ferretti.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Bologna – filosofia bolognese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia. Grice: “I love Ferri; for one, he wrote on Ficino’s ‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and which I may call the most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!” Insegna a Firenze e Roma. Linceo. Discusse in tre lettere le “Confessioni di un metafisico” di ROVERE Mamiani ed elabora in tre memorie le sue concezioni.  Pubblica la “Rivista italiana di filosofia.” La filosofia platonica poggia su due basi: cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine, le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio; osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia, cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to  Conf. La Dottrina dell'amore secondo Platone, lezione e note,  questa Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni. L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità.  Questa corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci. Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che l'amore non ha altri strumenti da applicare. Grato è a noi, dice Ficino, il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo bello. E perchè queste tre cose, l'animo  Università di Palermo un'analisi accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza nome di stampatore: “Il Commento di Ficino sopra il Convito di Platone e il esso Convito tradotlo in lingua toscana per BARBARASA da Terni con dedica al maguifico messer Grimaldi”. Il Convito platonico vi è effettivamente tradotto in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze, per Neri DORTELATA con dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza è pure di Firenze e dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo “Sopra lo Amore ouver Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Ficino a Vero, cad Manetti, da cui risulta che la versione in lingua toscana del Commento edito a Firenze dal Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino. Le citazioni fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da essa.  « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai stima che l'altre tre, però è conveniente che egli più avidamente queste ricerchi, con più ardore abbracci, con più veemenza si maravigli. E questa grazia di virtù, figura o voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo della ragione, viso e udito, rettamente si chiama il bello (pulchrum, to kalon). Se si vuole conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I ragionamenti di Ficino su questo punto meritano di essere riferiti.  Trovandosi il bello nella forma del corpo bello, è mestieri che il bello sia una essenza comune. Non sarà dunque corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che il bello possa dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in una ‘forma’ non procede dalla ‘materia’, ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale.  Difatto, il corpo puo perdere il suo bello. Quantunque, la ‘materia’ del corpo sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa piccolezza diventando brutto. La condizione del bello non corrisponde alla condizione della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue vicende non dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali attributi. Nè si dica come fanno alcuni, che il bello è una certa posizione di tutti i membri del corpo o veramente commisurazione – simmetria -- e proporzione “pro portione” – portio cognate with Greek parao, to divide in parts --– analogia -- con qualche soavità di colori.  [ocr errors] ("). Objectum placitum res piacere Oggetti e piaceri del gusto, dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo  questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato e non la medesima  “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che dobbiamo  stimare la forma bella essere qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è maggior grazia. E negli  uguali di età alcuna volta accade che quello che supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo. L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose; quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per  a qual cosa accade che alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo, non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e « occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti, debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè, l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo, secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere? Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un amore infinito che spande la bellezza nell' uni  verso.  Ma prima di salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto della sua vera natura nell'uomo.  A malgrado della tendenza mistica che distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento. Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito – cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini viventi in terra.  Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i due influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella dell'intelletto.  Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni epicuree. Difatto, sogliono i mortali,   quelle cose che generalmente o spesso fanno, dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo per la  nostra stoltiza falla in amore. Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in questa coine nelle altro  parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo di esporla il più completamente possibile.  Arriviamo con lui al termine della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima, mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando dall'ordine fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù, nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie, la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura. Tale è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri « amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che  [ocr errors][ocr errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori? Qui è la « grande opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La divina potenza superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati, clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più « espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie, del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son « chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo. Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria; così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da scienza.  Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri  mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi concentrici della mente, dell'anima, della natura e della materia, ce lo dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi, produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti angeliche le idee o verità, in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme.  In questi cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello e Giustizia. La Bontà crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra. Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo, nell'anima e nel corpo.  « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione».  Egli è a questa dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della religione che suol chiamarsi  naturale, del Cristianesimo e del Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio d’ALIGHIERI sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra; poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti; quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva  ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.  Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue inspirazioni.  Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil; aveva insegnato como un sublime do  [ocr errors] vere la fuga dalle cose sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità; per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie.  Così è, Platone, a malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al cielo.  Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore  si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in questi confini.  Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali, artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto, accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina. A conferma del carattere mistico del Commento di FICINO si aggiunga che nell'orazione quarta detta dal Landino il grazioso mito. In Platone l'amore collegandosi colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti, stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell' amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali, ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene dell'individuo e della società. Questo aspetto stupendo dell'affetto umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando con ardore il doppio ordine della  degli Androgini esposto da Aristofane nel Convito platonico è nel commentu di Ficino trasportato dalla integrità e divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa, frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra che ritrovando il lume sopranaturale.  vita attiva e contemplativa lo conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali, salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio; in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto, separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati,  [ocr errors][ocr errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità, innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se stesso al trionfo della libertà e del diritto.  A questo segno aveva mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per correggere  i  suoi costumi, per dare alla forza materiale un fondamento incrollabile nella forza morale.  In questo modo essa avrebbe dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e del coraggio allo straniero che sta per immergerle il ferro nel seno. Egli venne attratto dalla sua bellezza. La trova mal difesa, la vinse e se ne insignor. Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fa schernendo la sua debole resistenza, e Ficino è fra essi. Lagrima il pio sacerdote su tanto male, ricordd agl’uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di punizione; gl'invita a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più informata a carità che a fermezza, si sforza di volgere l'animo di lui a miti e clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostra di che tempra sono gl’animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il saggio-dialogo di Ficino sopra l'Amore consta di orazioni che espongono e commentano con indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel convito di Platone. Ficino stesso narra l'origine e lo scopo del suo lavoro. Platone spira (secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il giorno anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni. anno, celebrano cotesto giorno in un convito. Abbandonato per mille e dugento anni da Porfirio in poi il rito solenne, è restaurato con regale apparato per ordine di MEDICI (si veda) nella villa di Caregri, sotto la direzione di Bandini che ne è costituito Architriclino. I convitati sono IX, pari cioè al numero delle muse. VII figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle che sono contenute nel convito dell’Accademia. Si trassero a sorte le parti da sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del nuovo Simposio. Cosicchè le orazioni. La I, di Fedro, retore, tocca a  CAVALCANTI (si veda), che per virtù e nobiltà di animo  è chiamato l'eroe del convito; la II, detta da Pausania, tocca ad Antonio degl’AGLI (si veda), vescovo di Fiesole, la III d’Erissimaco a SPERANZA, medico a Ficino; la IV, d’Aristofane, a LANDINO; la V, d’Agatone, a MARSUPPINI, la VI, di Socrate, a BENCI (si veda), la VII, di Alcibiade, a MARSUPPINI (si veda). Ma il vescovo e il medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le loro disputazioni a CAVALCANI. FICINO non puo essere più cortese coi suoi discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche Nuti e Bandini che insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui dimenticati. A Bandini, ordinatore del banchetto, non ha bisogno di attribuire altra parte che quella assegnatagli da MEDICI. Nuti suppone fatta la lettura del simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo Bandini è Cavalcanti che persuade Ficino a scrivere il dialogo dell’amore per invogliare i fiorentini del celeste bello. La versione toscana del commento di Ficino al convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'amore, stimo opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel testo. Definizione della Bellezza e dell' Amore.  Il bello è una certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella delle voci non con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia; bo. Amore sempre della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama.  Finalmente che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia, che risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti, il modo significa la quantità, la specie significa lincamenti e colori. Perchè in prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto; e ancora li due mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino l' apertura della bocca, otto capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi” tratti delle linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno: perchè lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova. Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la distanza ė o nulla, o vacuo,  o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità, necessarie al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I termini sono superficie, linee, punti, le quali cose non avendo profondità non si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra essere il bello dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica: dipoi l'anima del mondo come vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto: ed cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano. In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato, a Dio suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si accosta; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle, quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre, de' metalli, delle piante, e degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo; e quella forma e idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone; per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore, sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e prima che di tale splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo principio già si era rivolto  E il suo primo voltamento a Dio è il nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è lo impeto d'amore;  [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse la mente angelica, la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne. Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le brutte alle belle aggiugne. Amore legame universale.  Secondo che mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che costringe germinare fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe i parti, e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della universa macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua giovinezza il convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo quasi sempre felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di cui Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume, che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere in questi lavori. BONGHI apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica, da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza. Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti, della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale. Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio, riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene, Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano, ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di volgere al  bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo. C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa, intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare un bello, che su tutte tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al sommo della scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto, senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e  non accresciuto (nè scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore che s’inizia con la percezione dell’AMANTE del corpo bello dell’AMATO -- in due modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto) nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’AMANTE e l’AMATO sempre povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fa credere a parecchi interpreti e critici che l’ACCADEMIA quivi, come in altri luoghi, ricorre a invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse delle sue dottrina dell’amore. Ma a BONGHI sembra, e secondo noi con ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopra enumerate che BONGHI conduce colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del paganesimo rinascimentale di FICINO. Altre opere:  Il genio del LIZIO. Discorso, Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà, della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e del metodo di SERBATI Rosmini, Il Cimento, Della filosofia del DIRITTO presso il LIZIO, «Il Cimento», Estr.: Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni di ROVERE Mamiani e alle dottrine platoniche, Riv. cont., Sulle dottrine dell’ACCADEMIA e sulla loro conciliazione colle del LIZIO. Lettera a ROVERE Mamiani, Riv. cont., Estr.: Torino, Sulle attinenze della filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un corso di storia della filosofia, Niccolai, Firenze, Ciò che possa la filosofia per l'istituzione civile dei popoli. Discorso per la riapertura del R. Istituto di Studi Superiore di Firenze, Firenze, Rec. Di SAVIGLIANO (si veda), La filosofia di Bossuet; di TURBIGLIO (si veda), Storia della filosofia; di CANTONI (si veda), VICO (si veda), NA, La libertà del pensiero e la filosofia nell’università italiane, NA, L’epicureismo L’ORTO e l’atomismo. Considerazioni storico-critiche a proposito di un saggio recente, FSI, IEstr.: Cellini, Firenze, Le Meditazioni cartesiane rinnovate da ROVERE Mamiani, NA, L'arte della rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il materialismo e la scienza moderna, NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. tradotti da BISSOLATI (si veda), Imola, Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica contro il materialismo, FSI,  Rec. di R. Bobba, La protologia di PINI (si veda), Torino, FSI, VICO (si veda) e la filosofia della storia [Rec. di CANTONI (si veda), Studi critici e comparativi; SICILIANI (si veda), Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; ROVERE (si veda), Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, VINCI e la filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr., Torino, Rec. Di FIORENTINO, POMPONAZZI. Studi storici su la scuola bolognese e padovana con molti documenti inediti, Firenze, ASI, Estr.: Cellini, Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della religione, NA, Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, Il senso comune nella filosofia e sua storia, FSI, Estr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi sintetici a priori nelle dottrine italiane, FSI, Rec. di Kirchmann, La teorica del sapere, FSI, Filosofia della Religione. Sull’attinenze della religione e della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera a ROVERE, Conte Mamiani, FSI, Rec. di FIORENTINO, La filosofia della natura e le dottrine di TELESIO (si veda), Firenze, FSI, Estr.: Paravia, Torino Del principio e concetto di causa nella scuola di Herbart, FSI, VINCI (si veda) filosofo. Vita e scritti secondo nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo saggio di Strauss e i suoi critici, La forma del pensiero filosofico e l'ideale platonico della filosofia, FSI, Janet, La dottrina dell'amore secondo l’Accademia, FSI, Estr.: Paravia, Roma, L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, NA, Importanza della psicologia nella filosofia moderna, FSI, La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, L’avvenire, Herbart, NA, Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Civelli, Roma, Il metodo psicologico e lo studio della coscienza, FSI, Cenni biografici su Ferrari, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia di Pomponazzi, secondo un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, intitolato: Pomponatius in libros de anima. Memoria, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, Sulle vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nell’università di Roma, Annuario Univ. di Roma. Estr.: Civelli, Roma, La questione dell'anima in Pomponazzi, FSI,  Estr.: Opinione, Roma, “L'io e la coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI,  L’ORTO -- L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla dottrina psicologica dell'associazione considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico critico, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma, Rec. d’ALLIEVO (si veda), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a BRUNO (si veda), Acc. Scienze Torino. Memorie,  FSI, “L'assoluto”, FSI, CICERONE (si veda) sui doveri. Conferenza, FSI, Rec. di CONTI (si veda) e ROSSI (si veda), Esame della filosofia epicurea dell’ORTO nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia platonica fondata in Firenze dai MEDICI. «Acc. Lincei. Transunti, FSI, Helmholtz sulla percezione, FSI, Dell’idee e propriamente della loro natura, classificazione e relazione,  FSI, Il Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, ROVERE Mamiani sulla religione, NA, L'Accademia romana d’Aquino e l'istruzione filosofica del clero, NA, Sulla recente restaurazione della filosofia scolastica e tomistica d’AQUINO considerata in ordine ai metodi degli studi ed all’attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, Acc. Lincei. Transunti», Vera, Acc. Lincei. Transunti, Sulla percezione esteriore e sul fenomeno sensibile, Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti intorno a BRUNO (si veda), a cur. di BERTI (si veda), Roma, FSI, La filosofia d’AQUINO (si veda), FSI, PETRARCA (si veda) e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI, Estr.: Salviucci, Roma, FSI,  ZANOTTI (si veda), La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti dell'Etica Nicomachea per cura di F. e Zambaldi, Paravia, Torino, Dottrina aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa, «Acc. Lincei. Transunti, Relazione sul concorso al premio reale per LE SCIENZE FILOSOFICHE, Acc. Lincei. Transunti, Il fenomeno nelle sue relazioni con la sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la causa della rinascenza del platonismo nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la struttura delle revoluzione filosofiche] FSI, VINCI, NA, Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come contributo al dinamismo filosofico, Acc. Lincei. Memorie, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Salviucci, Roma, Il platonismo di FICINO (si veda), FSI, La dottrina dell’amore di FICINO (si veda), Una lezione elementare di psicologia. Fatti psichici e fatti fisici, FSI, La GIUSTIZIA (cf. Grice) nella repubblica utopica dell’Accademia. A proposito di recenti pubblicazioni, Storia della filosofia. Il platonismo di FICINO (si veda). Le idee e la dialettica. La dottrina dell'AMORE, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le malattie della memoria e la sostanzialità dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, Ercole, Acc. Lincei. Rendiconti, Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti, Vera, Acc. Lincei. Rendiconti, “Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma, Di alcuni uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, La psicofisiologia dell’ipnotismo, FSI, Il concetto di persona [cf. person and personality – Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di CHIAPPELLI (si veda), Del suicidio nei dialoghi dell’ACCADEMIA, FSI,  ROVERE (si veda) Mamiani, Lincei,  Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Tip. R. Accademia dei Lincei, Roma, Delle condizioni del sistema filosofico nel nostro tempo, Acc. Lincei. Rendiconti, ROVERE (si veda) Mamiani, RIF, Il fenomeno sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico, RIF, Rec. di CHIAPPELLI (si veda), La cultura storica e il rinnovamento della filosofia, RIF, Lettera a PENNISI (si veda) -Mauro, RIF, Rec. di Levi, BRUNO (si veda) o la Religione del pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF, Acc. Lincei. Rendiconti, Rec. Pozzo di MOMBELLO (si veda), L'evoluzione geologica inorganica animale ed umana, RIF, Le lauree in filosofia, RIF, Dell’idea del vero e sua relazione coll’idea dell'essere, Acc. Lincei. Rendiconti, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La filosofia politica nel LIZIO, RIF, Rec. di PANIZZA (si veda), La fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma, RIF, La definizione del concetto, RIF, SERBATI (si veda) e il decreto del Sant'Uffizio, Il Convito dell’ACCADEMIA tradotto da BONGHI (si veda), Roma, RIF, Della idea dell'essere, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Berti, Acc. Lincei. Rendiconti, Benzoni, Acc. Lincei. Rendiconti, La psicologia fisiologica e l'origine dei fatti psichici, NA, Franchi, NA, La dottrina della cognizione nell’hegelianismo secondo SPAVENTA (si veda), RIF, La dottrina della conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, Rec. di COLINI (si veda), ROVERE (si veda) Mamiani, JESI (si veda) RIF, Rec. Di BERTI (si veda), BRUNO (si veda) da Nola, sua vita e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino, RIF, Rec. CREDARO (si veda), Lo scetticismo degl’accademici, Le fonti - la storia esterna - la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani BRUNO (si veda) Nolani Opera inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di TOCCO (si veda), Acc. Lincei. Rendiconti,  - F. Cicchitti-Suriani, Della dottrina degl’affetti e delle passioni secondo la filosofia del PORTICO: saggio storico di psicologia morale con prefazione di  F., Aternina, Aquila,Intorno al pitagorismo de CROTONE in Italia, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Roma, Il problema della coscienza divina in ‘Esperienza e metafisica’ di SPAVENTA (si veda), RIF, Rec. di LESSONA (si veda), Elementi di Morale Sociale ad uso dei licei e degl’istituti Tecnici, compilati secondo gl’ultimi programmi, RIF, L'accademia platonica di Firenze e le sue vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, Acc. Lincei. Rendiconti, Della conoscenza sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, Alcune considerazioni sulle categorie, Acc. Lincei. Rendiconti,  Il Teeteto, tradotto da BONGHI (si veda), Roma NA, La percezione intellettiva e il concetto, Acc. Lincei. Rendiconti, Rec. di ZUCCANTE (si veda), Saggi filosofici, Renan, Acc. Lincei. Rendiconti, Taine, Acc. Lincei. Rendiconti, La percezione intellettiva e il concetto, Taine, RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia della filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma; Estr.: Balbi, Roma; “Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica degl’italiani, NA, Estr.: Forzani, Roma, Rec. di MALTESE (si veda) Socialismo, RIF, “L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici” RIF; Cenno su FERRARI (si veda) e le sue dottrine, in FERRARI (si veda), La mente di G. ROMAGNOSI (si veda), Milanese, Milano, a cur. di Campa, La Voce, Firenze. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love by Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t care. As for Carmide and Licide, Ferri dedicates little attention. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio – psicologia filosofica dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con relazione alla percezione dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito di Platone nella traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R. Bonghi” RIF,  il dialogo dell’amore di Platone come sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono quattro: Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferri” – The Swimming-Pool Library. Luigi Ferri. Ferri.

 

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