Luigi Speranza -- Grice e Fedro: la ragione
conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. The philosophy teacher of Cicerone at Rome. He follows the doctrines
of The Garden, and succeeds Zenone as the head of the school.
Feliceto
search.
Luigi Speranza -- Grice
e Ferdinando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dela
masculinità, il maschio e la tarantella – scuola di Mesagne – filosofia
brindisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosof
italiano. Mesagne, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Ferdinando; for one he
describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with
‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he
follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”,
studia grammatica, poetica, greco e latino sotto RICCIO (si veda), intimo amico
di Paolo e Aldo MANUNZIO (si veda). Si trasfere successivamente a Napoli dove
studia FILOSOFIA. Si laurea in filosofia. Ha dieci figli. Tra le saggi principali
di F. grande rilievo assumono i “teoremi filosofici”, dedicati alla sua amata
città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo
e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici,
raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua
vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata
analisi della storia di Mesagne. Dal punto di vista culturale, l'opera di
riferimento per eccellenza del F. è fuor di dubbio Centum Historiæ, dedicata a
Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore è medico di fiducia,
intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li conduce a Roma dove F. conosce
Clemente, medico di Paolo V ed è contattato, per la sua fama, da noti
scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Severino, con cui ebbe una
disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la
vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si
connette con la vena ulnare. Profondo conoscitore dei classici e seguace non
solo delle teorie d’Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da MERCURIALE
(si veda), Eustachio, Falloppia e FRACASTORO (si veda), attento alle tradizioni
della sua terra, propone un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto
del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua
applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza è richiesto non
solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i
concittadini per la sua bontà d'animo, cura anche senza compenso somministrando
farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentra sull'importanza
delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e
ritene centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i
suoi pazienti si serve non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la
prassi ordinaria, ma prepara anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti
miscelando quantità variabili d’erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua
vita si occupa anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico,
descritti nei particolari nelle Centum Historiæ, e nutre anche uno spiccato
interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia certissima.
Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra
con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti
che mantenne con i medici napoletani, è uno dei più importanti intermediari fra
la cultura medica napoletana e quella di terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto F.,
si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere
venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo
morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la musico-terapia somministrata
al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e
soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una
funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo
modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene
assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il
malato dopo essere stato morso dove espellere il veleno scatenandosi a ritmo di
musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale dove essere scelto in base al
colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che
testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis
redatto, presumibilmente da Marra da Padova, nel pontificato di Urbano V. Il secondo
a documentare per esperienza diretta questa connessione è F.. Nelle sue Centum
Historiæ analizza, tra gl’altri, il caso di un suo concittadino, tale Simeone,
pizzicato mentre dorme di notte in un campo. Il medico crede fermamente nella
musica come terapia certissima criticando chi sostene che il tarantismo non è necessariamente
scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, è il primo a
proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche
(nenie funebri). Kircher riferisce nel
suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da
destare ragionevoli sospetti su quanto sta alla base di questa terapia. Come il
veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua
eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai
creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei padri ricordati, che son
degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito è tenuto un
esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri padri,
e di tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto
questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta
una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto
colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento
la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi,
allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la
bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle
zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il
tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il
ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella
circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i
suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo
anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò
per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la
cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti
il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici
citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le
diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano
vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle
saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata
dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo
esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla
cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto
terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita
proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum
Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste
Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De
coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu
tarantolae.” Martino La terra del rimorso, Milano, Est, Magnes sive de arte
magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da: Mario Marti e Domenico Urgesi, F., medico e
storico. Atti del convegno di studi, Besa, Nardò, Altre fonti: Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus
tripartitum, Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, Portulano Scoditti,
Distante, Alfonsetti, Poci. Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne,
Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, Scoditti e Distante, La
peste, traduzione del De peste aureus libellus, Scoditti e Distante, F. Le
centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano
Scoditti e Amedeo Elio Distante, F., De Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione
del De Vita Proroganda seu juventute conservanda, Napoli, Scoditti e Distante,,
Atti del Congresso della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice:
“Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not
sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he
thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his
adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” Keywords: mito,
taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferdinando” – The
Swimming-Pool Library. Epifanio Ferdinando. Ferdinando.
Luigi Speranza -- Grice
e Fergnani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gesto
e la passione – la scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Grice: “I love Fergnani;
especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to them extravagant
Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto BANFI (si veda).
Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di
filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova
corrente”. È figura di spicco
nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács,
Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona);
“Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino), “Prassi di GRAMSCI
(si veda)” (Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La
dialettica dell’esistere” Feltrinelli, Milano);
L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre” (Farina,
Milano), “Sartre sadico” (Farina Milano); “Esistire” (Farina, Milano); Kierkegaard
(Farina, Milano); “Il gesto e la passione” Farina, Milano, “Merleau-Ponty”,
Farina, Milano. “L’Esistenzialismo”
Farina, Milano, “Sartre” (Farina, Milano); “Jaspers, Farina, Milano); Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”,
Corriere della Sera. La lezione di F.",
in Materiali di Estetica, Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino,
Papi. Fisiognomica interpretazione del
carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Battiato, vedi
Fisiognomica (album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina
pseudoscientifica che attraverso la fisiognomia o fisiognomonia pretende
di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto
fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine
deriva dalle parole greche physis(natura) e gnosis (conoscenza). Questa
disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle
università. La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi
per distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato
simile ma più generico. Esempi di fisiognomica di criminali, secondo LOMBROSO
(si veda): "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli". Tutto
il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia
estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e
l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del
divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava
pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale. Descrizione Esistono
due principali tipi di fisiognomica: la fisiognomica predittiva assoluta,
che sostiene una correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in
particolare del viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di
credito scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche
correlazione statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del
viso) e i tratti caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona
dovute al comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al
rimescolamento genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel
determinismo genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichità Riferimenti
a relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono
all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime
indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene
dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di quest'arte. I giovani che
volevano entrare nella scuola pitagorica a CROTONE nella Calabria doveno
dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica (ephysiognomonei). Il
filosofo Aristotele del LIZIO si riferiva spesso a questo tipo di teorie anche
con citazioni letterarie. Aristotele stesso è d'accordo con queste teorie come
testimonia un passaggio di Analitici primi. È possibile inferire il carattere
dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati
assieme da influenze naturali. Dico naturali perché se forse, apprendendo la
musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di
quelle influenze che sono per noi naturali. Piuttosto faccio riferimento a
passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è
accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno
corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni
specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle sembianze.
(Jenkinson) Il primo trattato sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad
oggi è il Physiognomica attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto
della sua scuola nel LIZIO. È diviso in due parti e quindi probabilmente in
origine sono due saggi separati. La prima sezione tratta soprattutto del
comportamento umano sorvolando su quello degl’animali. La seconda sezione è
incentrata sul comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e
femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il
comportamento. Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:
Polemo di Laodicea, de Physiognomonia, in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica,
in greco Anonimo LATINO, de Physiognomonia, La fisiognomica moderna. Tipica
illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra: profonda
disperazione; a destra: collera mischiata con paura) La fisiognomica, in quanto
studio delle particolarità del volto umano in grado di rivelare peculiarità
caratteriali, è piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è risaputo che VINCI (si
veda) ne è appassionato, come pure BUONARROTI (si veda). Nello stesso
passo, Condivi accenna all'intenzione di BUONARROTI (si veda) di scrivere un
trattato di anatomia con particolare riguardo ai moti e alle
"apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si fonda sui
rapporti e sulla geometria, e nemmeno è strato empirico come quello che avrebbe
potuto scrivere VINCI (si veda). I termini "moti" (che fa pensare
alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e
"apparenze" fanno invece ritenere che BUONARROTI (si veda) insiste
sugl’effetti psicologici e visuali delle funzioni del corpo (Ackerman,
L'architettura di BUONARROTI (si veda), Torino.Il trattato di GAURICO (si veda)
intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze presenta questo tipo di
conoscenza nei termini seguenti. La fisiognomica è un tipo di osservazione,
grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità
dell'animo. Se gl’occhi sono piuttosto grandi e con uno sguardo un po’umido,
mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose,
ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono che
è Alessandro il Macedone. Se vede un naso pieno, solido e tozzo, come quello
dei leoni e dei molossi, lo considera segno di forza e arroganza. La fronte quadrata, che ha la lunghezza
quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza,
animo splendido (Estratti citati da Koshikawa, Individualità e concetto. Note
sulla ritrattistica, in Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Roma
catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale, Milano,Skira. Gli
studi di fisiognomica influenzarono artisti come Anguissola (Fanciullo morso da
un gambero) e Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) nell'interpretazione
dell'emotività del soggetto ritratto. Il principale esponente della
fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Lavater che fu amico,
per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu
pubblicato per la prima volta in tedesco e divenne subito popolare. Venne poi
tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti
principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli
scritti di PORTA (si veda) e del fisico e filosofo Browne del quale lesse e
apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di
dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del
viso: nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra
anima (...).» (R.M.) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla
fisiognomica nella sua opera Christian Morals: Poiché il sopracciglio
spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama
il cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti
della fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono
azioni simili. Su questo si basa la fisiognomica. A Browne è accreditato l'uso
della parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini
illustrativi l'insegnamento della fisiognomica. Browne possedeva alcuni
scritti di PORTA (si veda0 tra cui Della celeste fisionomia nel quale egli
sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia
l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia. Porta usò delle
xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I
lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Browne ed entrambi
erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in
natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative
o firme delle loro proprietà medicamentose. La popolarità della
fisiognomica, nonostante precursori come Chambre, crebbe. Trovò in particolare
nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano LOMBROSO
(si veda), il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella
criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la
pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e
pertanto non educabile con la sola pena detentiva. La fisiognomica
influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri
europei tra i quali Balzac; nel frattempo la Norwich connection' alla fisiognomica
si sviluppò attraverso gli scritti di Opie e del viaggiatore e linguista
Borrow, inoltre fra molti romanzieri si diffuse l'uso di passaggi molto
descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare
Dickens, Hardy e Brontë. Questa dottrina è stata da più parti tirata in
campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza. La
frenologia era pure considerata fisiognomica. È creata intorno dai fisici t
Gall e Spurzheim e si diffuse in Europa e negli Stati Uniti. In sostanza
la fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni
strutturali che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di
psicanalisi alla antropologia criminale di LOMBROSO (si veda))). Essa infatti è
proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie
impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo
vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti
imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive
umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli
Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari
indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento alle
buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove
scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista David
(La vera storia del cranio di PULCINELLA: le ragioni di LOMBROSO (si veda) e le
verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il
piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto
umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo
dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti
indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia,
tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che
siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che
magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo
meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare
comportamento e sembianza. Per Lust questa scienza non ha nulla di
pseudo-scientifico; egli osserva, per il rigoroso metodo naturopatico che
sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambia anche in volto.
Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventa più "snello": il
doppio mento scompariva, torna a vedersi il collo in quei volti che prima lo avevano
"sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in alcuni
casi erano più folti. Per tutto questo comincia a sviluppare un sistema
di diagnosi all'inverso, ossia: se le modificazioni, una volta che la gente
guariva da un determinato male sono costanti, allora significa anche che,
quando e quanto più quelle caratteristiche facciali sintomatiche sono presenti
in una persona, tanto più la persona è anche affetta da quel determinato male
specifico di cui le alterazioni nel viso sono soltanto un sintomo.
Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano alla voce corrispondente.
fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De
Agostini.Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" Aulo Gellio,
Noctes Atticae Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella, Edizione
Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane Paolella, Porta e l'astrologia: la Coelestis
Physiognomonia, in Montanile, Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del
teatro e l'opera di Porta", Salerno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e
Poligrafici internazionali, Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia
dell'uomo libri sei, in Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Porta,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, L’autore delle illustrazioni
delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche,
in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in
Porta", Pisa-Roma, Serra Paolella, La fisiognomica di Porta e la sua
influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Porta, Piano di
Sorrento, Roma, ed. Scienze e Lettere, Paolella, Die Physiognomonie von Della
Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz Zeitschrift
der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst.
Wege und Motive der Rezeption von Porta in Europa - Akten der Tagung der
Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie
Zeller und Laura Balbiani Voci correlate Lüdke, la più celebre vittima della
Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia,
applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la
Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua.
DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia
Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiognomica» Fisiognomica, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale
Antropologia Portale Sociologia Frenologia teoria pseudoscientifica Lavater
scrittore, filosofo e teologo svizzero Porta filosofo, scienziato,
alchimista e commediografo italiano Wikipedia Il Nudo eroico
concetto dell'arte classica Lingua Segui Il nudo eroico o nudità ideale è un
concetto dell'arte e della cultura classica che si propone di descrivere
l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella scultura greca;
con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente mortale
raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un
Eroe. L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo
eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha
avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica ed in seguito
adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto
ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure
femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni
esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto
iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la
visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.
Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita
con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio
la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in
battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente. Dopo essere
scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte
moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal
corpo umano maschile nudo. Questa metafora ha rappresentato la perfetta
raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare
il più alto status esistenziale. Riapparso con grande vigore soprattutto
durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica
ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i
nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o
quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di
Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi
tra i tanti). Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo
nazionale romano. Statua eroica di un generale romano con la testa
di Augusto, al museo del Louvre. Statura romana con la testa di
Marcello (da un prototipo greco). Napoleone Bonaparte come Marte
pacificatore di Canova, all'Apsley House a Londra. StoriaModifica
Leonida alle Termopili di David Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della
nudità. Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese La nudità maschile
era di norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari
dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura
ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu
praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro
in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece
sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di
corsa durante la V olimpiade il quale a metà percorso si liberò della fascia
che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti. La
studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo
magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e
l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione,
la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua
idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente
iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi
kouroiarcaici. Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o
ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola
ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo. Trajanic woman as Venus
(Capitoline Museums), su indiana.edu, Indiana University. Hallett Sorabella,
"The Nude in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su
Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of
Art Colton, Monuments to Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English
and French Sculptural Works, NewYork University Spivey, Greek Sculpture,
Cambridge, Osborne, "Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek
Art", in Gender et History Stevenson, "The 'Problem' with Nude
Honorific Statuary and Portrait in Late Republican and Augustan Rome", in
Greece and Rome, Stevenson, "Nacktleben", in Dominic Montserrat (a
cura di), Changing Bodies, Changing Meanings: Studies on the Human Body in
Antiquity, Routledge, Bonfante, Etruscan Dress, The Johns Hopkins University, Hallett,
The Roman Nude: Heroic Portrait Statuary Oxford, Casana, The Problem with
Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of
Archaeology, vOsborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in
Gender et History, Tom Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary
and Portraits in Late Republican and Augustan Rome, in Greece et Rome, Nudo
artistico Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su nudo eroico Portale Arte:
accedi alle voci di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di
InternetArchiveBot Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle
varie culture verso la nudità Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il
contenutoGrice: “Napoleon, an Italian, thought he was French,
but he was a Corsican – “No, I don’t know Corsica” – however he thought he was
an emperor and as such, as every student at Milano laughs at, that he should
convince Canova to go nudist! Nelson tries but Vivian Leigh opposed!” Keywords:
il gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ –
E-committal – Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are,
some, or at least one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori
romani nudita eroica! Fisionomia – porta ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Fergnani” – The Swimming-Pool Library. Franco Fergnani. Fergnani.
Luigi Speranza -- Grice e Ferrabino: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base
mitologica del latino – scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo cuneano. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: “I like Ferrabino; if I were not into the
unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian – and a Roman
historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history,
alla Gibbon!” “Si compie il mio
ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di
storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata.
Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio
nascosto.” Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo
Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di
idee agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compe
il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di
intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia
dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrive a
Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi
con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare
troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore è Graf. Verso il terzo anno iniziò
a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni
di SANCTIS (si veda), sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegna a a
Torino, Palermo, Napoli, e Padova. È rettore dell'ateneo fino al anno in cui
ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la moglie, F.
conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi
battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con
la quale si stabil a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La
Cittadella d’Assisi" diventando grande amico di ROSSI (si veda), fondatore
di “Pro Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, F. prende l'abitudine di
trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive
alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la democrazia
cristiana e rimane al Senato. Divenne presidente dell’ENCICLOPEDIA ITALIANA,
incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico. Èstato intanto
incaricato di presiedere al Consiglio Superiore dell’Accademie e promosse il
Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le
informazioni bibliografiche diventandone il presidente. Divenne corrispondente
dell'Accademia del LINCEI e corrispondente nazionale della stessa e presidente
dell'Istituto italiano per la storia antica.
Presidente della Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme
a Cappelletti (si veda), fonda "Il Veltro". Pubblica sull'Italia romana, l'età dei
Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia
di un mito” (Bocca, Torino) – with a
section on the myth among the Latins, and a later section on the
treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Monnier,
Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero
ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather
than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani,
Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “GIULIO (si veda) Cesare” (Unione
Tipografica, Torinese); “La vocazione umana”
(Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria Draghi,
Padova); “Le speranze immortali” (Società per Azioni, Padova); “Trilogia del
Cristo” (Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia); “Le vie della storia
romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia
dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza
del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire”
(Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia
della storia” (Sansoni); “Trasfigurazioni” (Martello, Milano); “Pagine
italiane, Il Veltro, Roma);
“Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e
Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario
Enciclopedico Illustrato, Jannaccone,
Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Treccani, Roma, Nel
Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione
in Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider,
Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella
testimonianza di Giovanni) III: Il
risorto (nella testimonianza di Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario
biografico degli italiani. Roma è il sogno de' miei giovani anni,
l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la
sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma è -
ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma
escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta,
uni- tà morale all'Europa!. Così, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso
nella città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a
ciò, ribadiva l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo
la quale l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione
universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma
religiosa. Dopo la Roma dei Cesari – GIULIO (si veda) Cesare -- e la Roma dei
Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Popolo,
centro della nuova religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione
peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura
dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della
particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica
riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per
le idee di libertà e di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla
cultura piuttosto approssi- mativa come Garibaldi avesserolargo spazio concetti
fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità
moderatrice del pontefice; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto
dipendere proprio dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che
Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare
inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni
del secolo - ha scritto Chabod. Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua
vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medievale, l'Italia
dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio
VII e di Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale
s'eran visti gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del
1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza
nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per
il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i
democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende, in fondo, dalle
peculiarità stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita
su richiami al passato e alla tradizione culturale che ben difficilmente
avrebbero potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrive
Garibaldi nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur
così lontano dal profetismo mazziniano come Cattaneo. Anche Cavour ebbe a
riconoscere quel nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'-
sodel25marzo1861che<< Roma sola deveessere la capitale d'ItaLlia. .Dopo
la spedizione tentata da Garibaldi, Romao o morte divenne la parola d'ordine
de~~e~ E~.!:!c~i), I~trog~) Verni che parevano loro dimentichi àel
comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della Destra,
in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni legate
alla costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma,
confida- vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo-
li (ciò che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché
estranei alla concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della
Sinistra, erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe,
in quanto centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei
democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe
dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870
al 1896, Bari, Laterza, Treves, Videa di Roma e la cultura italiana del secolo
XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D.
Cantimori, Torino, Einaudi, TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area
di influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti
neoguelfi, sullascia del giobertiano Primatomoralee civile degliItaliani.
Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno
mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti
proponeva una confederazione «sotloTiìu- 'Mazzini, Note autobiografiche,
Milano, Rizzoli, messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione
dell'umanità f p r MazzInl, la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato
e Chie- sa) per molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero
pensiero e della scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo
quanto auspicavano soprattutto gli esponenti della Sinistra5. I sogni d'una
missione che la nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciare àl-morido-stndèvano' piùes'
eÌnéntecon1a reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta
caratura internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse
presto, e analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si
irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale
centro universale di scienza.Tuttavia, Roma avevarappresentato un «mito
animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Volpe) 6,era ormai
troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente
evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a
«dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a
Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se
stessi e il proprio paese. i I Ii I I ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara
soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che
emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da
democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una
conferma della pervasività dd tema, dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub-
blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di
molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore,
spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è
sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e
alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paese rlSenzagli
ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato
la storia dell'Italia unita; <<ma, probabilmente - osservava Rosario
Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei
miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga
misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd
diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per
ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali
erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi,
mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto
alimentòilriferimentQa Roma come base di un confronto tra la viltà dd presente,
da un lato, e, dall' altro, l'antica gran-, dezza e l'eroismo romano degli
uomini dd Risorgimento. In sostanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un
giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse
andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea
risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche.
Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e
diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di
Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione
tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadi Roma e la realtà meschirtadiunan
UOVB!lisanzio. Così,nd MITO DI ROMA rivisitato da Carducci, si materializzavaun
demento di fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie -
potremmo dire - di bovarismo nazionale, c.onsistente nella difficoltà
acommisurareimezziaifini,nd rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella
oscillazione perenne tra sentimenti di superiorità e un senso amaro di
inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi Cavour, Bari, Laterza.Note autobiografiche, (da
una lettera). Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca
dell'imperialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di
un particolare diritto italiano all'espansione e della necessità che
il..n.1JQv~'. Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori roma- ni.
Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato mazziniano. E in
effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla emancipazione dei
popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche traccia già
nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871 come, nd
<<motoinevitabilechechiama l'Europa aincivili- re le regioni Mricane»,
Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia. Esullecimedell'Adante-
proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterra-
neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella
regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non
l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero vari,
e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I, Su
tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, Mazzini,
Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, Volpe,Italiamoderna F,irenze,
Sansoni, Galeati. Ricerca Terza Roma
concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione
che ha due accezioni. Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano
d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso
per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la
città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o
Impero Romano d'Oriente. Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla
terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale
d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella
della Roma dei papi. Uso del termine per Mosca. Uso del termine in Italia.
L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il
Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della
«Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere
contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui
fare da modello all'Italia e all'Europa intera. L'ideale mazziniano sarà
ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come
Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova
civiltà. Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato in Campidoglio,
profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe
espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3] Una lunga
citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli
Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:
«La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume
sacro sino alle spiagge del Tirreno» La costruzione del quartiere
dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa
direzione. Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma
Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo. Parallelamente
in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso
pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma.
Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, Antica Roma
Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Terza Roma, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Italia Portale
Russia Portale Storia PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale
dell'Impero romano d'Oriente Milion Successione dell'Impero romano. Pl€°Ifl
ffRMBIKOjI. % H. ^>M- Z%!^-'^^J1'V, j^i;»-' AL bO
FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB
EDIT. KALYPSO F. KALYPSO Saggio d'una Storia del
Mito TORINO BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito . È
necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio mitopeico. Kalypso.
Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La Demetra d'Enna Il
mito siculo, Il mito greco. Il mito siracusano. Il mito contaminato. L'abigeato
di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini. I poeti. Gli storici. I
razionalisti. Cirene mitica 11 sostrato storico. L' " Eea, di
Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in Libia. Euripilo ed
Eufemo. Gl’Eufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le manifestazioni
mitiche,. L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e riflusso delle
saghe, La fine, -
INDAGINE. Andromeda „ Il racconto di Ferecide Perseo. Acrisie,
Preto, Polidette, Ditti. Atena e la Gorgone Medusa. Cefeo, Fineo e
Cassiopea, 341 — I miti etimologici presso Erodotoed EU ani co
(frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda „ di Euripide, Euripide nel
412 Il culto di Demetra inEnnajart. La questione. I caratteri del culto
ennense nell'età storica. Il primitivo probabile nucleo
siculo, Le versioni greche del nitto di Kora,L'abigeato di Caco . .
2>('£l- 397-420 11 problema, Il valore del mito indiano. Vergilio e
Ovidio ; Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e
metodo, La ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di
Cirene. Euripilo ed Eu- femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito
di Cirene. Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito, nitto di Kora.
L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420 Il problema. Il valore del mito
indiano. Vergilio e Ovidio. Properzio. Livio e Dionisio. I particolari
etiologici del culto. Gli eruditi. Cirene mitica. Bibliografia e metodo. La
ninfa Cirene. Apollo Carneo. Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo
ed Eufemo. Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi
novissima, STORIA. F. Kalypso. La Storia del Mito. È
necessaria e legittima. Non esatta, anzi può dirsi fallace la
nozione del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta sullo scoglio
al mostro marino; la ninfa Cirene, domatrice di leoni ; Cora di Demetra,
rapita da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza d’Ercole piegò
annientandolo. Tali persone e vicende, come l'altre il cui insieme
assunse presso noi nome di MITOLOGIA greca e LATINA, inducono,
ciascuna, al pensiero un racconto, non pur definito ne’termini e preciso ne’particolari,
ma costante nel contenuto, si da valere (usando espressioni proprie
a fenomeni differenti) per E cosi rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si
allude a uno fra questi quattro miti. classico o canonico, da
apparire quel mito. Né il prevalente costume, a pari di molti, è
senza motivi: già che si ricollega per un lato ai modi che, nel
concepire ed esporre miti, tennero i compilatori alessandrini, quando
miti non più s’inventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e
a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina secondo uno schema
principale, ne’margini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a
obliterarsi. Si ricollega esso costume per altro lato al vezzo, malo
quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude
in sé una sostanza di verità, in ispecie storica; si che, la verità non
potendo esser che singola, unico similmente sarebbe l’'intreccio della FIABA
onde è compresa. Ora, poiché i criterii de’gramatici in nessun
modo possono essere più i nostri; e né meno è più nostra, per ciò che
non sodisfa la riflessione né il senso storico, una tanto facile fede
nella veridicità del RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a
considerare qual via puo divenire la buona non che la nuova. Sùbito
sgombra la mente di assai equivoci e di troppe astrazioni il porre, con
precisione storica, i materiali grezzi della mitologia. Ilmito di Cirene,
dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le
odi pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno di
Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo ciò, e dopo
tutto che è andato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e che di
conseguenza ignoriamo. In altre parole, l'indagine concreta non conosce se
non un complesso di componimenti letterarii, manufatti artistici, riti
cultuali; e sente entro ciascun componimento, ciascun manufatto, ciascun culto,
in sé e per sé, IL MITO. All'infuori, questo può tuttavia sussistere.
E per vero in due modi risulta da quelli, sia per ordinata compilazione,
sia per alterazion fantastica. Ma è allora diverso e nuovo, UN ALTRO
MITO [cf. Grice on ‘myth’ – “Meaning Revisited”] a pena affine a
qualunque l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii componimenti
manufatti culti e spiega i singoli stadii e i singoli trapassi. Ma in tal
caso è divenuto, non la forma canonica o classica, bensì LA STORIA DEL
MITO. L’artista clie ci ripete una fra le molteplici fiabe pagane,
prosegue, e non termina, una serie di vicende, cui sottostò quella FIABA già
nel passato. Egli, insomma, elabora UNA FIABA NUOVA, la quale può essere per
certe analogie di casi e identità di nomi avvicinata a talune
antiche meglio che ad altre, ma non diviene per questo la fiaba
di quei nomi e di quei casi. Questa in qualclie modo ci dà,
solo, lo storico, comprendendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze
della FAVOLA e organandole geneticamente ed evolutivamente. Chi vuole IL MITO
di Andromeda, ne legga LA STORIA. Se non che, ond'è nato il concetto
di racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: UN FATTO,
e una tendenza. Riandando storie di miti accade di avvertire, chi anche
sia grossolano osservatore, quale e quanta rete d’interessi politici, di
orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di rivalità
religiose, ricopra, musco boschivo, il crescente tronco della LEGGENDA. Indi,
la preferenza decisa vien concessa, in certo luogo e in certo momento, a
quella tra le forme esprimenti LA SAGA, la qual contenga il
particolare simpatico, L’ANEDDOTOfavorevole, o (che basta) si atteggi
nella luce che più appaga. Un fine pratico, per conseguenza, può CANONIZZARE
i miti altre volte, l’ala d' un poeta, la vigoria d'uno storico. O,
infine, il più fortuito caso. Sempre, tuttavia, a canto di questa
preminenza d'una fra le forme mitiche, valse a traviare il pensiero,
l'abito, ch'è talora il vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E
perché, comparati tra loro DIVERSI RACCONTI D’UNA SAGA, parte
coincideno, e pareva il più, parte differano, e sembra il meno. Si ritenne
lecito prescinder dalle differenze per insistere su le coincidenze,
e di queste costituire la saga, e quelle giustaporre in guisa di varianti
secondarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque
autori intorno alle vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione
arbitraria d'un FITTIZIO MITO di Cora. Grossolano errore contrassegnato
di superficialità. Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure
sotto l’uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunché,
men ponderabile forse, ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL
RACCONTO. Il paesaggio medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli.
L'artificio è cosi palese che stupisce potesse ingannare e
diffondersi. E pure condusse più oltre: a fìngere, dopo IL MITO di ciascun
personaggio – e. g. GANIMEDE, ENEA, EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO --, IL
MITO IN SÉ, quasi ENTE SEPARATO, capace di influssi attivi e passivi;
senza che diviene tosto palese, come cotesto ente non sussiste se non col
suo predecessore logico; come quest'ultimo sorga d’una contaminazione di
varie forme letterarie artistiche cultuali; come quindi uniche esse forme
costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo
con franchezza; per asserire, e lo asserimmo dianzi, che conoscerle
significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO
STORICAMENTE SI PUÒ CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e dopo
scoperti i motivi reconditi dell’equivoco consueto, rimane ancor dubbio,
se o no è legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa d’aver innanzi
espressioni multiformi, cui sono mezzo le più disparate materie, DALLA
PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, può sospettare a
ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in
istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per identità
di nomi di figure d’imprese; mentre tempi lontani, fibre tanto varie
d'uomini, caratteri cosi mutati d’ambiente, sembrerebbero permettere, o
comandare, la distinzion più recisa. Sospetto lecito, questo -- ma
specioso. Non importa che certa temperie (dico, ad esempio, l'epoca d’OTTAVIANO,
o il magistero di OVIDIO) accosti molto fra loro due saghe di soggetto
diverso; là dove lontananza d'anni e di spazii separan spesso saghe
dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci ajuta, a informarci dell'epoca
augustea o di Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in quella
o presso questo. Ma è d'altra parte irrecusabile che ciascuna espressione di un
mito, in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle precedenti da
un vincolo più profondo e più intimo che l’argomento: le conosce, ciò è, e
le ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste
espressioni, ciascuna è materia greggia rispetto alle successive, ed è
sintesi originale (anche negativamente originale, si capisce) a
confronto con le anteriori. Ne segue che la storia ha buon diritto di
farle scaturire l'una dall'altra: essa, co’suoi criterii di tempi e di
luoghi, con tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a costruirne
quasi una genealogia; della quale i rami e i gradi son segnati da
reciproci influssi più o meno profondi, da modelli più o meno diversi,
sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. Del resto, il resultato
medesimo o, se piace di più, il medesimo soggetto di questa, che
diciamo, STORIA DEL MITO ne legittima, dopo gl’argomenti or ora
esposti, la esistenza. Giunge essa a costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un
individuo organico e definito: individuo ch'è, come mostrammo, LA
LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di tale istoria? Il suo
procedimento è chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su
Cirene o su Cora, sia per notizie tramandate sia per industria di
congetture ne è, quasi sempre, presto determinato l’ordine cronologico, se
non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. Solo di poi
s'inizia un più arduo lavoro. Il pensiero, insomma, prende a conoscere quelle
espressioni. Di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi. Ciò
sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e quanti ne sieno espressi, e quali, che
scene e che episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il punto
di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon guardati: per
ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che i
par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò, fuse.
Triplice processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e,
checché sembri, per un culto. Giusta poi le risultanze di questa
nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in- torno a Cirene o a
Cora, si raccolgono, quasi per sé, secondo nessi ed influssi, sino a
costruire lo schema delle lor geniture. Allora lo scopo è
conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si
avvia: non più dubitosa, qual si conviene alla ricerca, e faticosa di
controversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane incerto è delimitato;
quel che può essere certo, è posseduto; si che le lacune e il ricolmo si
distinguono nette. Altrui giudizii su la materia son superati con
l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel
quale lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine, diviene poi
quasi base; e sovr' esso si erige, pei suoi muri maestri nei suoi archi
di commessione co' suoi travi intelajati, 1’edificio definitivo. Il
mito ha la propria storia. Il mito è, da questo momento, vera
ricchezza nello spirito nostro. Si obietta che è acquisto mal
certo, però che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel
passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di- verse
con asserzioni contradittorie alle prece- denti e con intelletto nuovo. Il
clie ridonda in parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-
nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla discordia dei pensieri
individuali. Ma né l'una né l'altra verità scema l'importanza
dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-
mandate o è cosi fatta che impedisca la storia o pure solo qua e colà la
fiacca. Se l'impedisce (e son taluni casi), il danno è davvero
grave. Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol- teplici che
non perseguiamo qui), la jattura può variare di entità ma si riduce
tutta, in ultimo, al fenomeno comune della individuale memoria e,
traverso questa, della memoria collettiva; si riduce, quindi, alla
condizione imprescindibile della nostra conoscenza intorno al passato. In
se- condo luogo, il differire degli storici intorno a una saga, se
dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova insieme
che ciascuna è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero per
indursi ad accettarla, e poi difenderla, con agile freschezza e cura non
intermessa ; attesta quindi di ciascuna l'importanza, assidua
perchè dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello spirito
che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con assimilare
1' opera altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra- mutando
in organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando
della propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto
armonia del discorde, e reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come
non dubbio, cosi è anche materiato della più alta virtù di pensiero.
Dura come una fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi
mutazioni intervengano e pentimenti, non se ne scema, ma più tosto se ne
innalza, superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-
nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non immutabile, certo
personale, in tutta la serie co- nosciuta di determinate espressioni
mitiche, lon- tane e disperse. Il mito è, dunque, da quel
punto viva ric- chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare tal
verità, sottile è però discernere i valori di- versi della conoscenza in
quella guisa procurata. Ma è necessario, per farla più conscia.
Lo storico si è, durante i successivi momenti della saga,
uguagliato a' successivi artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi
trasfuse il suo sogno? Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli
occhi di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre- tarsi in
quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ? Pindaro? Claudio Claudiano? Uno
appresso al- l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto- rico
e questi con loro, fin quando similmente a ciascuno la materia si sublimi
in arte. Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con
gl'in- dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio.
Nell'atto d'intuire la saga il poeta o il pittore muovono dalle sue forme
anteriori, che conoscono, verso la nuova espressione, che igno-
rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in- telligenza dello
storico, deve muovere tanto dalla loro espressione quanto dall'altre
precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si che là dove
l'artista si trova di fronte a un che di imprevisto, in cui l'
impreveggibile è determinato dalla potenza della sua energia creativa ;
per contro lo storico si trova sùbito a conoscere, traverso l'opera
compiuta, appunto quella potenza dell'artista e può ponderarla e
giudicarla. L'effetto è che non solo egli si è identificato con una
delle espressioni nelle quali la saga visse, ma anche l'ha valutata.
L'attimo di possesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico non si
considera pago né pur di questo giudizio che già di per sé lo eleva sopra
l'artista intuente : vi avverte un valor m omentaneo e, tenendo l'occhio a ben
più alto segno, vuole e può assurgere a quell'intuizione sintetica della
saga, da cui appajono giustificate le intuizioni singole degli
stadii e delle forme come dallo scopo il mezzo. Tale pregio, che è della
storia del mito, può quindi esser detto pregio intuitivo. Ce
n'è un secondo: scientifico. Non poche discipline difatti van di continuo
preparando al pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera sua:
attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli scrittori co' lor caratteri
e con la misura in cui sono attendibili, ai culti con le fogge che
divennero consuetudinarie, ai popoli con le credenze e i pregiudizii, con le
superbie le ire e le menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse,
quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto meno impongono ceppi
all'intelligenza. Sono, più tosto, formule in cui l'esperienze
vannosi condensando; consigli, che risparmino fatica individuale o
suppliscano a irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune,
cui possono tutti riferirsi, che è stolto trascurare, né si può
senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumulate lungo gli anni
da tanti sforzi concordi, convergono nella storia della leggenda; e
quanto più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole l'ossatura, e
permettendole o promettendole consenso più vasto e interesse più vario.Fra
tutte, precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza dell'antico
e recente, vicino e lontano, favoleggiare : maraviglioso sempre, di rado
inconsueto. Cento numi agresti si rinvengono fra cento popoli, dagli
Urali alle Ande, dall'Islanda all'Equatore. E i riti, le danze, i canti, i
vestimenti, le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo
insieme, vario concento sopra un ritmo unico: che ogni gente reca il suo
contributo. E cielo, monti, acque silvestri marine lacustri, paschi
pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide, biade che la zolla e il
Sole indorano, notti illuni, meriggi piovosi, silenzii delle cime,
fragori delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fenditure del suolo
: l'immenso respiro pànico, che penetra pei sensi ed abbacina l'anime,
ritoma costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre lontane.
E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo. Ond'è che son opere in cui questa
varietà speciosa è ricercata con amore intento, disposta con cura e
scrupolo in chiaro ordine . Ivi Cito ad esempio W.
Makshardt Mythologische Forschungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen
(Bonn); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn
and of the wild (London 1912); W. v. Bau molte leggende sono
narrate, molte cerimonie descritte, quelle che gli uomini dicono e
compiono da quando sorge il lor Sole a quando tramonta, e quelle anche che la
notte conosce. Ma ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito pel
suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una, tracciato l'altro, si
distrugge tosto l'individuazione, perché si vuole, badando al generale ed
al comune, conseguire identità spirituali contro distanze di tempi di
luoghi e differenze di forme. Vi si fa propedeutica; non storia. Cosi in
altre opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti obliqui di
interessate invenzioni che non è lieve scoprire ; o vero su i traviamenti
della intelligenza che tenta le cause del fenomeno ignoto, ma s'abbaglia
di fantasmi. Avvertono, queste, come un nome frainteso generasse talvolta
un popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola
connesso con l'aggettivo che significa " mancino „ determinò il
racconto dell'intrepido Muzio e della destra bruciata. Insegnano
che per dar ragione al nome di una città (Roma?) s'inventò pari
pari un eroe o un nume (Romolo?). Spiegano che un culto greco fra culti
romani parve agli antichi giustificato col narrare qualmente al dio
stesso fosse piaciuto recarsi da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine,
di segnare in classi i fatti; e creano alle classi fin la denominazione
discorrendo di " miti etimologici „ per i primi casi ; di "
miti etiologici „ per l'ul DissiN Adonis und Esmun (Leipzig); E. S.
Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo .
Tutti bisogna che lo storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua
saga, senza equivoco grande né troppe dubbiezze. Di tutti, quindi, è
conscia la storia di una leggenda. La quale leggenda nel tempo stesso cbe
ne riesce definita, si da impedir confusioni con altre pur simiglianti, si
allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule della propedeutica
confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che in tal modo
scemi la singolarità sua propria; e allora perché farne storia? Né manco
che non aggiunga tal volta materia alla propedeutica medesima; già
che questa non è mai conchiusa, e di continuo si accresce, per l'appunto come
la esperienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi la storia di un
mito ha questo pregio scientifico: mentre è impregnata, come più
latamente può, del sapere collettivo intorno alla propria materia; mentre
è dissimile da quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ; è
pronta a contribuirvi con tutta sé medesima, per quanto contiene di insolito, e
per quanto riafferma del consueto. Terzo pregio è un altro, fors' anche
maggiore. Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (Torino), ove
in polemica è chiarito assai bene anche con esempii il contenuto di
quelle due denominazioni. Chi poi voglia avere rapidamente un'idea su la
vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può per gli anni
1898-1905 consultare la intelligente rassegna di 0. Gruppeìu "
Jahresbericht tìber die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft
„ Supplementband. Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jiassato e
del presente. La saga è dell' uomo, nasce di lui, or come nebbia da piani
pigri, or come da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano
durante un giorno, e le compongono varia bellezza, fin che la tenebra giunga.
Ma il motivo delle trasfigurazioni luminose come del sopravvenir
tenebroso, è secreto dello spirito umano. Secreto dell'uomo, che ha
fermati i suoi saldi piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la
meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli astri, purezze nivee e
dentate di vette inviolabili, scompigli di chiome arboree nello squassar
dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera finge sembianze
umane, mefiti di putizze dagli acri fumi ; vede, e conosce, mentre un
empito indicibile gli urta su la fronte le tempie, illudendolo centro a
quel mondo ; o mentre una forza ineffabile lo gitta prono nello stupore
che paventa ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che con occhi incerti
guata, fra il mento e i capelli, la maschera fosca del suo rivale, ad
apprenderlo ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto i
muscoli e gli artigli della belva silvana, per farla sua preda o imitarne
il destro miracolo ; e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improvvise
forme che la natura plasma tra cielo e terra, nelle prepotenti energie
che essa suscita ovunque, ammira il volto del suo nimico o la
violenza della fiera. Appresso, su la prima trama esigua, quasi
ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si consuma la dolorosa fatica dei
posteri ; che l'invenzione originaria non si perde, ma, serbata tal volta
in reliquarii preziosi, salva altre volte per caso, regge su le sue fila
tenui il trascorrer lento e difficile dei travagli clie martellano
Fumanità nei secoli e le rodono il cuore invincibile. Ogni fiaba
s'impregna cosi di sapori dolci e agri, forti ed amari : abbrividisce
delle cose tremende, s'esalta delle cose salienti, supplica, spera,
esorta, rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri dello
spirito. E nello spirito la sua virtii cerca le potenze dell' espressione
; stimola 1' energia onde si crea il diafano contesto verbale o si
plasma nella dura materia il moto o si finge l'ansito nel colore; e con lei
genera creature d'ale e di fiamma, o per lei si corrompe in
miserevoli mostri e deformi. Far quindi la storia del mito
significa spremerne cotesto succo occulto, il quale si mischia col nostro
più profondo pensiero su la vita e saggia le nostre idee sul bello sul
buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua visione, e la forza della
sua espressione, e il suo lungo cammino. Idee che costituiscono
d'altro lato lo scheletro stesso della storia d' un mito. Del quale
il trapasso di forme può venir concepito geneticamente, l'una determinando
l'altra ; o staticamente, i nessi essendo privi di forza generatrice;
o in rapporto all'evolversi complessivo dello spirito ; o in altre maniere, di
cui ciascuna dipende da una teoria filosofica. Persino chi per orror
metafisico mai abbia voluto impacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua
avversione nella storia e ve ne lascerà i segni, non giova dire di quale
specie. Onde la conoscenza del mito di Caco o di Andromeda, pur
contenendosi nei termini di un limitatissimo fenomeno, pur fermando nel
pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui tutto il passato
è pieno nella memoria degli anni, tuttavia impegna con sé un'idea di quel
moto e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta. FILOSOFIA:
senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ; con cui, diviene
moltissimo. in. Caratteri. Che se a quest'ultimo
i3regio filosofico pensiamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia
gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare sùbito qual sia la
lega comune onde tanto compatto è il resultato. Ma lega si rivela l'intelletto
dello storico ; ove i concetti assimilati dalle discipline propedeutiche,
e le idee elaborate dal pensiero meditante, s'illuminano di luce
nuova nella vita dellintuizione, quando vengono esposti all'attrito
della realtà testimoniata. Di più non può dirsi: che ha da restare
intatto il mistero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede come
larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la storia d'una
semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto,
soggettiva. Né forse è detto ciò senza stupore di molti ; perché
prevale oggi il principio della oggettività storica, tanto che il
riconoscimento del contrario nell'opera di chi che sia suona quasi a
rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le parole
della certezza assoluta, allettandoli con un equivoco ch'è quasi una
mistificazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto delle
vicende storielle per cui un mito si svolse sono le stimmate d'una
personalità; né solo, ma il valore di quel racconto è in queste
stimmate ; in quanto la personalità, non pure assomma, si anche fonde e
ritempra, com'è necessario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria
filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che si riconoscono
indispensabili alla costruzione d'una qual siasi storia; e in quanto,
inoltre, dalla misura di esse cognizioni teoria potenza e del loro
commettersi, dalla misura, in breve, della personalità medesima, è
segnato il pregio del contesto narrativo. Dal qual
evidentissimo principio si definisce anche l'atteggiamento di chi legge a
fronte di chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né reverenza ad
autorità indiscussa : invece, ragionevole assenso, ora parziale ora totale, ora
nei particolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli uni e
dell'altra, valutazione del pensiero che è solo responsabile e che,
scoprendosi con arditezza, accetta onestamente d'essere imputato. Compito
arduo, adunque, è il leggere non meno che lo scrivere storie; si che può
ben dirsi, che quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più,
solo per il lato si adempie che costituisce l'interesse onde mosse la lettura ;
e da quel lato soltanto sogliono originarsi le censure, le più
modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la storia della saga di
Cirene deve soddisfare le pretese del filosofo, la dottrina dello
scienziato, il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più lieve
a tutti costoro l'opera di critica rielaboratrice, lo storico mostra sempre
(fra noi, almeno; non costumava cosi Tucidide, né Machiavelli ; con pena della
moderna indagine) mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i
mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite; onde ne è pronto il
riscontro . Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto
della soggettività fin qui rilevata. Quando l'artefice medesimo scinde, pei
lettori critici, l'opera propria ; allora, sopra le testimonianze e le
formule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan concrete ed
esteriori le sue idee e intuizioni, si cristallizzano in materia nuova su
la materia che vedemmo preesistere allo storico. Accade perciò, da
tal momento, che si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia
piena di realtà, cimentandola con tutti gli elementi, divenuti esteriori
e concreti, di cui nella intimità e fluidezza dello spirito creativo essa
si era nutrita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto, vaglia, in
qualità di scienziato di filosofo di individuatore, tutti questi
elementi, scissi prima, organati poi; e valuta il pregio dei singoli
e della mischianza loro. Cosi, quel che fu già emanazione viva d'una
vivente persona; imponderabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e
definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa passibile di metro, di
scandaglio e di analisi; definito, per tanto, " oggettivo „.
Sempre, per opera dello storico la leggenda assume la finitezza
della persona e i caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.
In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.
una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio e un termine, per
conseguenza un culmine ; v'è quindi un nascimento e un corrompimento,
fra cui si tocca la maturità. La storia d'una saga sarebbe dunque
una ^ storia catastrofica,, e sul suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a
risuscitar la creatura morta, ma pretensiosa di balsamarla? . Si
risponde: è catastrofica; già che si chiude col dissolversi di quel che
al suo inizio si compone : non è elegiaca ; però che, pur lamentando, se
crede, la morte avvenuta, ne indaga i motivi e prociu-a comprenderli col
pensiero senza stingerli col sentimento. Ma entrambe queste risposte esigono
d'esser più ampiamente delucidate. Qualche pagina innanzi fu
provato (per quanto io credo) che non solo è necessaria la storia
del mito per conoscer il mito, ma è in tutto legittima, perché opera
sopra un individuo preciso il quale ha una reale e non disconoscibile
esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'individuo risulta da una serie di
stadii, e ciascun d'essi non può star solo, ma è in intima attinenza coi
precedenti e coi successivi. Ora possiamo specificare meglio : che ciascuno
stadio rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco o di molto
momento, vi è immancabile l'attività Contro le storie
catastrofiche ed elegiache si pronuncia Benedetto Croce in Questioni
storiografiche [" Atti dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove, s'
intende, dalla sua identificazione della storia con la filosofia. d'un
artefice che ha segnato di sé medesimo, con grande o con piccola
impronta, la materia leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta
speciali energie e del mito sviluppa potenze che o vi giacevano celate o
n'erano state mal svolte. Per conseguenza, astraendo si possono
considerare, in un qual siasi stadio leggendario, tre elementi : la
manifestazione, senza cui non sarebbe ; la sostanza del mito desunta
dagli stadii anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di
qui, son possibili varie evenienze: o che a un certo momento ogni
manifestazione cessi, per qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la
potenza ancora negli spiriti e nel mito; o che la manifestazione appaja
inadeguata alle precedenti e per ciò monca e non bastevole ; o che, in
fine, l'energie dell'artefice apportino alla sostanza della saga
violenze che la rinneghino. Nel primo caso, la catastrofe è sùbita e
tronca un rigoglio; nel secondo è preceduta da uno scadimento, che
la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la vuole ; i quali due
ultimi è evidente che debban spesso coincidere. Ma la catastrofe, la
morte, è sempre. E la storia, in quanto storia, deve narrarla, come narrò
il nascimento ; ed essere, inevitabilmente, catastrofica. Non è,
dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non
significasse, fra gli uomini che hanno assiduo il fermentar delle forze nello
spirito, l'accensione di un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi
ardito di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si
spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è motivo a sconforto sol tanto per
chi brami, come meglio, la distruzion del tutto. Rimane, per altro,
legittimo, se non lo sconforto, il senso del danno. Lo stampo di Caco
s'infranse, e qual egli era stato concepito, quale gli artefici l'avevano
formato, ninna potenza terrena può ricrearlo indipendentemente: un individuo
insostituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo perdiamo. Molte saghe
venner create con bell'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,
non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni dei poeti, i bronzi degli
statuarii, i gesti sacerdotali; non molte, poche divennero nell'epoca del
pili adulto pensiero classico, quando per contaminazioni la ricchezza del
numero si fu assottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova morte
sminuisce quella dovizia di una unità, scema questa bellezza di grande
efficacia : quel che sottentra è copia e grazia dello spirito
umano, della mitopeja classica non più... Una maggior individualità,
dunque, è minacciata dalle morti di questi minori individui mitici.
Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si squassa. Il genio
mitopeico.Quella individualità maggiore è oramai embrionalmente posseduta dal
nostro pensiero. Quando siasi letta la saga di Andromeda, e
poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora; appresso, non si conoscono
pure quattro vite di saghe, come fossero di eroi o di santi o di
statisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nell'intelletto un nuovo sapere.
La ancor recente esperienza, rotti i termini entro cui si è formata,
tenta di organarsi in altro stampo, infrange l'intuizione del singolo per
disporsi, in che ? come ? Per la risposta, da principio ingannano due
parvenze, contradittorie nella forma, entrambe erronee. La
prima parvenza è brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni
acquisite nello studio di quattro miti si possono perseguire due compiti
differenti. Uno, più modesto, consiste nel raccogliere tutti i fatti
constatati durante lo studio e nel disporli con altro criterio che il cronologico
e genetico : nel guardare, in breve, il medesimo mondo, nei medesimi
margini, ma da altro pimto di veduta. H secondo compito, in vece,
costringe a trascendere i limiti segnati dalle quattro saghe, fino ad
affermare di tutte le saghe qualcosa che per le quattro soltanto
venne sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto
l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa quello. Entrambi i
compiti hanno natura e scopo pratico ; come quelli che servono a
concludere ordinatamente sotto la specie di leggi (nel secondo caso) o di
formule (nel primo) esperienze compiute storicamente sotto la specie
delFindividuo. E sono, perché pratici, utilissimi ; né giova, secondo
piace a taluno, predicarli ridevoli o in altro modo spregiarli. Non
mostrano, tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il nostro
pensiero, elaborato che abbia un certo numero di storie su fiabe. Non può
esistere un soggetto vivo cui attribuire quelle formule e quelle
leggi, si cke gli aderiscano come i caratteri all'uomo ; ond'è che ci appajono
e le une e le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbitrarie le
formule, perché incardinate su criterii che non sono immanenti al loro
soggetto, ignoto e irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla
massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè temerariamente affermano più del
conosciuto, impegnando in sé, insieme con il già intuito, il non mai
visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà viva onde germinano,
incadaveriscono in freddo schema e, come schema, lasciano straripare
oltre di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle quattro saghe
; le seconde, pur danneggiando tal vita nella stessa guisa, non sodisfano
i^oi affatto un intelletto veramente avido di sapere concreto :
entrambe, quindi, definimmo or ora insufficienti. Fallita la
prova di questa parvenza, l'altra vediamo qual sia, e ]Derché non
appaghi. Dove fu avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca
nella nuova opera i miti, soggetti delle singole storie, ci s'illude di
coglierne uno ; se ne crea uno difatti, f)ur che si astragga un poco
come suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spirito, cui
competano tutti i caratteri dei varii intelletti che influirono, di stadio in
stadio, su l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente
appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo e fede, scettico scherno
e dubbio religioso, preoccupazione sociale, sensualità voluttuosa e
i)regiudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni virtù in una
sintesi superiore alle contradizioni apparenti. Cotesto ente o spirito
avrebbe, forse. esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo
i quali si disporrebbero le sue energie e i suoi attributi.
Parrebbe, per tanto, assai bene passibile di storia. Ma l'artificio più
palese l'ha origina to. Difatti, mentre chi narra la storia di un
mito opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé congiunti, e che
senza nesso non sono né pure compiutamente intelligibili ; i caratteri in
vece e le energie di quel pseudo spirito vengono solo per caso delimitati,
avvicinati e graduati : già che unico motivo per cui quel falso ente si
afferma con alcune qualità, e non altre, con alcune vicende, e non altre,
è la scelta, precedentemente fatta con criteri! estranei, di quattro
miti, e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli attributi
muterebbero numero, specie e successione. Segue, che è necessario guardarsi
dall'insistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si voglia ricadere
negli stessi vantaggi pratici e svantaggi teorici in cui trascinano formule
e leggi. Vinto l'errore, la salute appare spontanea. Basta che si
trovi uno spirito, il qual sia vero e non artificiato, intuibile dallo
storico e soggetto vivo delle nostre esperienze anteriori, limitate per qualità
e per quantità. Ora, se è (come dicemmo) arbitrario determinare un
individuo mitopeico valevole per quattro miti, perché è introdotto dal
caso, ossia dalla nostra anterior ricerca, il numero di quattro :
sopprimendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un reale individuo, allo
spirito greco-romano in quanto elabora saghe, o al genio mitopeico
dei Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito effettivamente, di
certamente vivifìcabile, di indùbitabilmente storico. Qui il pensiero si
ritrova a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realtà
proteiforme ; qui formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea,
rimettendo di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incandescente. E
conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende d'un tratto
come tutto che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe
conosciute vale ed è esatto per il genio mitopeico, ne è la storia ; è, sol
tanto, incompiuto e insufficiente : perché lembo di un tutto ;
lembo casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza di questo
tutto, ha importanza, dev'essere affermato, e può assumere, esprimendosi, un
tono generale. La medesima sua incompiutezza poi è solo in parte
insufficienza. E, in quanto oltre alle quattro fiabe cónte altre assai
sarebbero a disposizione del pensiero che volesse conoscerle in
istoria e attribuirle poi al genio mitopeico. Non è, quando si avverta
che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel genio mitopeico
risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal decorso del
tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di talune energie, per
guisa che dovrà in ogni maniera venir intuito traverso molte si ma
non tutte le sue manifestazioni ; non dissimilmente dall'indole degli
uomini che la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli
istituti che remoti echi ci tramandano irregolari. Quattro miti son dunque poco i3er possedere,
nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo leggendario dei Pagani ;
tuttavia il loro insegnamento è certo, se bene incompiuto; insufficiente, non
arbitrario. Cosi le storie di quattro miti conducono alla storia
della mitopeja. La quale pertanto non può consistere nell'insieme
inorganico di quelle quattro singole storie, se si mantenga incompiuta,
né, se voglia integrarsi, nell'insieme inorganico delle storie su le varie
saghe conosciute. Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del nome
e dei libri: che noi vedemmo dianzi la esigenza di quella più larga
istoria emergere a punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non
sodisf acimento) di taluni racconti men larghi. Come, per analogia, le biografie
di cento individui non souD la storia della nazione cui appartengono, e che li
comprende in sé e in sé li distrugge. Flutti nel mare, le molteplici
saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta per volta il
total genio mitopeico in margini che non sono i suoi proprii. E a quel
modo che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se non nella umanità
; il Mito non sviluppa tutte le sue virtù se non se nella mitopeja. E
tutte non si conoscono, che spezzando in un testo più ampio i
termini in cui si conchiusero le conoscenze dei singoli. Evidenza pari ha, o
dovrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a questo. Dianzi,
giustificandosi legittima la storia di un mito, nell'atto di mostrare
come le molteplici manifestazioni leggendarie potessero aggrupparsi in tanti
cespiti quanti sono i nomi e le fondamentali vicende che accomunano
talune fra esse ; disegnavasi pure, come possibile, l'impresa di ridurre quelle
manifestazioni molteplici più tosto sotto le rubriche delle diverse
epoche e dei differenti luoghi, per comporre, con criterio cronologico e
geografico, la storia della mitopeja pagana lungo i secoli e
traverso le regioni del mondo classico. Età per età si vedrebbero gli
spiriti, informati da quella determinata temperie, intervenire su tutto
il patrimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue predilezioni nello
scegliere i soggetti e le sue attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo
una tale opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito temporale e
regionale dei Gentili, come se sia stata ristretta in taluni confini di
paese o di momento, è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?
o pure, anche da essa deriva allo spirito un bisogno più alto? Senza dubbio, un
paragone con l'insieme inorganico delle singole storie di miti
sarebbe a sproposito. In questo secondo caso difatti v'è organicità :
ogni epoca influendo su la susseguente dopo che la precedente su
essa aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani riconnettendosi,
quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in senso negativo o in
positivo. Ma, a parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste
tuttavia. Sopra le differenze più o men notevoli fra regioni e tempi, colpisce
in tutt'e due i casi la costanza con cui talune energie dell'anima
nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle, influiscono su le saghe:
siano la fede e Tamor patrio, il senso naturalistico e l'acume
psicologico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale. Colpisce che,
come più si risalga nei secoli, meno fra esse intervengono nella mitopeja,
fin che alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che, come più
si discenda nei secoli, non solo si accrescono per numero ma quasi si succedono
per dignità, tramandandosi tal volta nel corso la fiaccola,
umanamente. Si comprende che son le potenze del genio pagano in officio
di mitopeja ; s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,
cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti nominativi, un'armonia ch'è ancora
imprecisa ma merita indagine; e si desidera cercare questa armonia
e quelle potenze. Concetti empirici, dunque, tali potenze? arbitrio
di astrazione a scopo pratico? Non cosi. Il tono generico è solo
esteriore ; nell'intimo, chi ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol
indicare qualcosa di assai individuo e concreto : altr' e tante energie
spirituali che, in certi momenti della storia, e in determinati punti
della terra, hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora
iridandola di sfumature, ora riardendola fin nell'essenza : altr'e tanti fatti
passibili di storia, e solo per storia conoscibili. Le carità patrie
di Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dionisio e di Luciano ; le
religioni d'un esiodeo e d'un latino : fatta breccia nei confini onde
storicamente son racchiusi entro un'opera e un temperamento, si
compenetrano, ricalcano l'un l'altro i caratteri comuni,
contraddistinguono le differenze, quelli e queste ordinano in
sintesi: fino a divenire, in diverso contesto storico, la carità
patria, il razionalismo, la religione del genio mitopeico pagano,con valore
(si vide) bensi non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e individuato
a un tempo. Generale, rispetto alle singole saghe: individuato, rispetto al
genio mitopeico.,— Di che può aversi riprova. A quel modo che durante la
storia d'una specifi.ca fiaba, l’interesse più attento soverchia il cerchio
breve del palco ove poche persone son mosse in non molte vicende, e
tocca, al di là, la forza animatrice di quel moto ; del pari, per
l'interesse più attento, anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide,
e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, competono fin da principio, dopo che
a Vergilio a Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità pagana
di cui son pregni, alla vita de' Grrecoromani nella quale immersi son
trascinati subendo e reagendo, come massi che il fiume ha composti e
disgretola poi con la medesima forza. Si che, a rigor di discorso, già i
successivi stadii d'un mito superano il mito, e si proiettano, in
altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone non più affinità di nomi
e di casi, ma di potenze spmtuali. Però a questa disposizione
nuova manca tuttora l'ordine della successione : che è, anche, l'ordine
secondo cui la mitopeja si evolve. Non può valerci più, adesso, il
criterio cronologico : atto bensì a graduare strati di leggende ;
inetto del tutto a decider, con certezza che non sia di pallida
congettura o non nasca da arbitrio di pregiudizio, a decider se la fede
versi la purezza delle sue acque nel mito prima che l' analisi
psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al proposito, ogni saga
darebbe una propria risposta, diversa secondo vicende casuali o necessarie .
Qualcuna persino mostrerebbe contemporanee le manifestazioni in apparenza
più Sul valore di queste es^pressioni LA STORIA DEL MITO
disparate o in sostanza più contradittorie. E, per tanto,
necessario sceglier altro mezzo allo scopo di vedere il genio mitopeico
vivere, com'è d'ogni individuo definito, evolvendo le sue speciali
energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espressioni che ci richiamano senza
dubbio alla sua origine ; altre, che ci riportano quasi con certezza al
suo termine. Basta dunque, jier graduare ciascuna delle caratteristiche
mitopeiche, compararle o alle qualità originarie o agl i ultimi
corrompimenti. Ma perché più certe appajono le prime, a esse la
com[)arazione va riferita. E tanto più si sente, allora, tarda
(nell'essenza) quell'energia che, acquisita allo spirito mitopeico, più
lo distorna dai suoi primi sogni : per essa, in vero, lo spirito procede,
nel tutto suo insieme, a una tappa nuova ; si che il momento della
conquista è ben paragonabile all'oscillazione d'una lancetta sul quadrante :
s'inizia l'ora. Una storia compiuta dovrebbe però seguire il
mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il punto in cui dopo la
precedente essa confluisce nella saga a nutrirla e deformarla, e
precisando il modo del deformare. Una storia, per contro,
incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i suoi raffronti, mantenersi
entro gli argini della sua incompiutezza, col tratteggiare senza
disegnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due vedrebbero, oltre
l'assiduo rinnovellarsi delle forme e il disordine scapigliato in
ciascuna saga introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara
armonia del complessivo progresso geniale, le cui pietre miliari hanno
nome dalle potenze dell'animo e dalle forze del pensiero. Legame, da
ultimo, fra quel disordine e questa armonia, apparirebbe la constatazione
che tutte quasi le saghe, le quali la storia può scegliere a suo
oggetto, fanno testimonianza di sé di fronte a noi, in lavori di arte
letteraria e manuale o in riti di culto, quando oramai o per intiero o in
buona parte lo spirito onde sono elaborate ha acquisito le sue virtù: pel
che quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi, secondo nessi
stabiliti non dal loro reciproco grado, ma dalle vicende della fiaba.
Succede, in somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi di quei
fenomeni che segnano, ciascuno, un diverso stadio del genio mitopeico ;
rinnovarsi che non è senza evoluzione ma con evoluzione diversa
dall'originaria. Condizioni di ambiente fanno si che in una sola età,
l'augustea, la leggenda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo e
zelo religioso presso Vergilio, incrinata di scettico dubbio e di
saccente sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro questa
contemporaneità cronologica, non esitiamo a proclamare più vetusta l'una
forma a petto dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja. Tal
certezza si conforta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde
appare VergiKo attingere a più antica sorgente che Dionisio ; certezza
dovrebbe durar tuttavia anche quando il riscontro non fosse
possibile per qual siasi motivo. Com'è del mito di Andromeda, il quale è
già scaduto in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide
lo solleva al culmine della sua vita penetrandolo di passione
patria e di pensiero religioso. Crii è che la mitopeja ha oramai il
possesso sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in volta
ne fa uso secondo richieggano sorti diverse. Spetta all'occliio dello storico
separare, caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio acquisto:
per decidere se lo stadio di una fiaba sia evolutivo solo rispetto agli
stadii anteriori di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo
nel progresso del genio mitopeico. Va perduto cosi l'impetuoso
rigoglio di forme, per cui le figure si moltiplicano disponendosi
l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i
casi si ripetono e s'intrecciano simiglianti e differenti ; e si dispongono in
racconti svariati, che ciascuno possiede, quasi nome personale, una
peculiare orma, né confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dall'arte,
ha destino qualche volta non perituro. La storia della mitopeja per
contro diviene scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza
creativa, la limitatezza fondamentale della manifestazione : il sottostrato di
potenza definita, di là dalla superficie delle creazioni che si tramutano
lungo serie senza termine e fogge senza numero. E né meno qui, in
quest'altro ufficio, essa si converte in scienza astraente e classificante.
Quando vengono disegnate le vie che la mitopeja trovò per le sue
creature, si adoperano certo concetti empirici e partizioni; quali
fra letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto, per cui il
filosofo userebbe termini ben diversi. Ma i medesimi concetti
intervengono nelle storie dei singoli miti, insieme con altri, e non
impediscono che quelle storie concretino individui ben precisi e reali.
Si che a ogni modo la loro presenza non può decidere senz'altro
contro la natura storica di un' opera. Difatti, ancor questa di cui
parliamo lata storia mitopeica fonde leggi categorie e formule nello
scoprire: in primo luogo, i confini entro cui tutte le manifestazioni
favolose son racchiuse; in secondo luogo, i gradi secondo cui esse sono
disposte; onde riesce a precisare una risposta a questo problema,
ch'è denso di realtà storica : con che mezzi e con quale sodisfacimento
lo spirito pagano mitopeico si manifesta ? Il badile ed il coltello han diritto
alla loro epopea, dopo le pagine ove Tincruento travaglio campestre e
la sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci e
selvaggi. Ma poi che questa diversa istoria del genio
mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue potenze, nell'ordine
dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà
a sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando, senza
sconforto, la fine della mitopeja pagana. Non senza rimpianto però, ch'è
differente cosa. Non vediamo pili Centauri scender galoppando dai
ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera il Sole muove verso
l'ombra a combattere mostri marini e piegare tracotanza di violenti.
Quella cecità e questa negazione sono stati il prezzo con cui
pagammo altri spettacoli ed altre certezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del
cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupidigia di opulenza
spirituale. Sin qui tentammo della mitopeja e della sua storia il
concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella pratica degli studii
e della vita, e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle fiabe
e alle storie loro, ma non agli storici ; un motivo interviene spesso a
ridurre le indagini e le ricostruzioni del mito nei confini di una
sol tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei confini della
letteratura. Certo, il genio letterario dei Grreci e dei Latini ha saputo
rendere immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con l'opera di
non so qual spola d'oro. E anche sia concesso senz'altro esser la
letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle altre arti e
ad ogni diversa forma del significare le saghe . Non cessa però che
di queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra le loro
espressioni è compiere una arbitraria amputazione. Lealmente
riconoscendola, questa colpa è grave. Né medicabile. Si può
palliarla: come suole lo storico dell'arte richiamarsi per accenni
alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in reciproca guisa. In
ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade nel pur ricco
patrimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più stadii d'un mito sieno
costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o
dipinti o in altro modo artisticamente lavorati dall'attrezzo e dalla
mano. Allora la storia monca deve a forza integrarsi di quella sua parte
che un caso rende ben necessaria e come vitale. Con simile pensiero
è fatto ricorso alle notizie cultuali, e le formule de' sacerdoti le litanie
dei fedeli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e lenire organiche
deficienze. Ma la plenitudine non è se non nell'intreccio del tutto ; e i
riferimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto. Mal colmato, il
difetto permane, e si appaja con la incompiutezza cui limitate esperienze
entro esiguo numero di miti costringono il ritratto del genio
pagano facitore di saghe. Permane : la sua radice s'insinua fra stretto]
e rupestri, si che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal
volta. Onde avviene che dinanzi la storia insufficiente cosi della singola
favola come della total mitopeja antica, la nostra insoddisfazione
si cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgombri. Tant'è: nell'isola
ove piaceva a Kalypso di amarlo, con promessa di rendergli " senza
vecchiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo, da la rupe a fronte
del mare, piangeva la patria lontana. L'anno avanti Cristo quattrocento
dodici Euripide fece rappresentare in Atene una sua tragedia intitolata
Andromeda^ alla quale forniva materia un episodio del mito di Perseo. Ma
se l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la sostanza a nutrire la sua
compagine, nell'opera la saga viveva una vita altra da l'anteriore:
però che lunga già e complessa ne fosse stata, innanzi,
l'evoluzione. Antichissimamente, negli anni cui corrispondono, eco
affievolita, i più vetusti canti della epopea e poche mal certe tracce,
una assai uber ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro
II cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive. tosa
terra di Grecia aveva fecondato di sé un semplice racconto .
Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella pianura pelasgia che fu
detta Pelasgiotide poi, di un re, cui era regno in Ai'go
(Pelasgico), molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non
lontano da morte, egli era tuttora senza prole maschile, unica essendogli
nata una figlia a nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua
schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi l'oracolo di Apollo,
dal quale ebbe in risposta, non essergli per nascer maschi se non da
Danae, ma dovergli il nipote togliere e trono e vita. Non fu vano
il grave mònito; ed ogni cura fu posta a che la vergine restasse dal
generare, contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,
riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo che fu chiamato Perseo.
La nascita, che si volle tener celata, fu in vece scoperta e causò
l'irosa vendetta del re impaurito, il quale decretava che la
giovine e il neonato fossero, come Preto per altra parte fu, cacciati, e
derelitti in balìa della violenta natura e delle intemperie. Mossero
Danae e Perseo verso l'oriente e pervennero in Magnesia: ove per loro fortuna
li accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi nella casa sua
e del fratel Polidette. Il bambino crebbe fanciullo, giovane agile e
vigoroso: tra i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo di
muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di braccia si rivelassero.
Allora piacque al caso Cfr. § II e III. che il re di
Larisa indicesse fra' giovani ima gara pubblica e che all'agone
partecipasse l'adolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio ospite
del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile, che la Pizia aveva predetto e
a cui non si poteva sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo
lanciato, opera d'un nume! contro le deboli membra del nonno, che ne fu morto.
L'oracolo per tal modo compiendosi, il nepote riconosciuto si ebbe il trono e
la dignità dell'avo. Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice e
intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria, frutto non insolito d'un
seme a più altri simigliante: ove la stessa sua trasparenza non ne
scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve racconto, lo spunto
originario della morte inflitta dal giovine, che si rivendica l'avvenire,
al vecchio progenitore, che il passato ha curvo e fiacco : dal
Sole, ciò sono, nascente circonfuso di purpureo sangue, per illuminare
l'oggi, al Sole occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo
sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la notte, nell'ombre, il
delitto si è compiuto ; e l'astro giovine regna in luogo dell'antico,
nato da una Danae (donna di quei Danai che nella leggenda
combattono i Liei o ^' Luminosi „) e sorto, oltre la linea dell'orizzonte,
su dalle case sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti
„ sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo, cui è il mal
grato biancore di ossa a pena commesse, diedero nel principio veste di
muscoli e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di bellezza
e di rigoglio traevano con sé e richiamavano a tanti concreti particolari della
realtà : le pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando oracolo
di Delfi; le montagne della Magnesia in ispecie, nell'est, dalle cui
giogaje ride prima la luce su i pascoli, e che dalle grotte
temibili, disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito un
brivido tra di paura e di pietà. Di poi sul racconto naturalistico,
come i3Ìù venne foggiandosi in forme di plastica umana, s'innestò
una di quelle novelle, simili tra loro come tra essi i cristalli di
medesima specie, nelle quali il popolo par condensare, con la
propria esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché vi
fissa gli esempli tipici delle consuete vicende (per lo più, familiari) e
le sembianze caratteristiche delle figure che sospinge la sorte comune.
Traverso la fantasia delle masse, come traverso un vaglio singolare, il
complesso, per esempio, dei pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii
e delle virtù che in genere presso quelli si riscontrano, si affina
in una selezione di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella
sintesi d'un personaggio tradizionale con tradizionali e pregi e difetti
: il pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come
suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è
lo schema della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e che
l'ira del padre discaccia per pena. Grracili virgulti quello e questo ;
cosi fatti però che improvvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immettano sopra
una determinata leggenda : cui recano, per altro, non esiguo contributo
in compiutezza e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impressero alla
fiaba tutta una diversa vivacità romanzesca e forza dramatica. Non fu tuttavia
sovrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il più recente prevalesse
sul più antico fino a ridurlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto;
onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale del bujo Polidette,
permasero a costituire il volto significativo del mito durante tutto
questo primo stadio, tessalico, della sua formazione. Il che
fu chiaro in sèguito . L'Argo Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio
prima e Perseo poi, venne confondendosi, nei canti dei poeti e per
gli scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con altro Argo,
che sorgeva a offuscar in gloria e potenza il più antico, ed era situato
in un conchiuso piano del Peloponneso fra monti e mare, nell'oriente
della penisola. I due Argo furon quindi, in realtà, uno: prima il
tessalico, poi il peloponnesiaco; per guisa che a questo si
riportarono via via le leggende che a quello si erano dianzi riferite.
Fra l'altre, anche la nostra di Perseo: il quale divenne adunque,
se pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di schiatta
cresciuta sopra altro suolo. La popolazione argolica assimilò ben presto la
saga tessala con i suoi particolari e le sue figure: persino l'accenno a
la Magnesia, che quanto mai disconveniva alle sedi mutate, si serbò in solco
profondo ; persino, e specialmente, la morte di Acrisio in Larisa, cui
grande varco di terre e di mare separava dal Peloponneso, si mantenne
non alterata. Al conservarsi contribuirono due motivi. La Magnesia era
nel mito ricordata per mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva
padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre al nome della persona
ogni valore di riferimento al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni
attinenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un sacrario {heroon)
dedicato ad Acrisie : sicuro perno adimque, che nemmeno la nuova
leggenda poteva facilmente trascurare. Ma col proceder degli
anni tutto che nel mito non fosse o compatibile senz'altro con la
mutata sede o ineliminabile per cause intrinseche fini con
l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti figlio di Magnete
avrebbe accolto Danae, e il padre di Perseo vennero corretti e adattati:
né è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ; ma si vede
bene quale è per essere il più importante. A Preto fu, nella seduzion furtiva,
sostituito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui si faceva discendere
anche l'eroe eponimo Argo : già che forse piacque cosi adombrare quel
Preto che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che aveva, per
quanto ci è dato supporre, contenuto naturalistico simile a Zeus. Ai
monti poi della Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sostituita l'isola
di Serifo ch'è di fronte all'orientai costa del Peloponneso nel mare del
golfo argivo. Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora;
notevole a ogni modo è che per essa un lembo di territorio jonico sia
tocco dalla leggenda nata fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo
fra tanto il mito si diffonde: attinge Micene, penetra a Tirinto. Nella
quale anzi cosi si radica, che s'inventò come Perseo, ucciso il
nonno, avesse onta di rientrare in Argo e preferissenceder questa, per
riceverne Tirinto, a suo cugino Megapènte figlio di Preto. Se
non che: con l'irradiarsi la saga, perno Argo, nel Peloponneso; e col
pervenire essa in territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura
una base duplice in cui son contenuti potenzialmente due ulteriori sviluppi. Entrambi
si devolvono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato e valore, e
paralleli in modo che non è riuscibile lo stabilire la priorità dell'uno
su l'altro. Era leggenda fra i Joni che la dea Atena, cui molto culto si
tributava e particolar reverenza, recasse sopra il suo scudo la testa di
un mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una delle Gròrgoni
dimoranti al limite estremo dell'Oceano, oltre la terra, dove il Sole
scompare e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo significava
trofeo d'una vittoria conseguita dall'iddia avverso la protervia nefasta di
quella figlia di abissi marini. La leggenda era antica, traccia
della natura xDrima ond'era informata Atena, divinità della luce solare,
nume del temporale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze luminose
e la potenza delle tenebre. E del Sole per vero un altro attributo si
riferiva, tra i Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa, lavorata
nella pelle canina, onde si dissimulava il suo splendoreogni qualvolta
piacesse a lei di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce
agli occhi umani per molte ore vestendosi di oscuro. C'erano adunque, in
racconti embrionali tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le
quali, se si accoglievano bene nella figura di Atena, non formavano
ancora intorno alla sua persona una veste cosi aderente, che non
fosse possibile separamela in parte con lievi alterazioni. Si direbbe
anzi che la vittoria contro la Gròrgone e la proprietà della cappa
invisibile si riportavano assai meglio al sostrato naturalistico
della Dea che non al suo individuo, alla folgorante luce che non alla sostanza
corporea della effigie umanata. E perché Perseo quando pervenne in
Serifo, e come in Serifo in Atene in Mileto nella Jonia, ancor traeva
alimento al suo essere dall'energia naturale (la veemenza del Sole)
di cui era forma e onde era nato, e poteva pertanto in facil guisa
accostarsi, simile nume, a Pallade; accadde che a lui pure si
attribuissero e l'impresa contro Medusa e il cappuccio canino : cosi che
alla dea non rimase altro ufficio se non quello di ajutare e protegger
l'eroe. Fu quasi una contaminazione delle due leggende in una; ma
di due leggende non indipendenti né ciascuna distinta per sé, si di due
che si originavano da una medesima intuizione delle forze naturali, e
aggeminate si erano dopo che aspetti simigliantissimi dell'unico Astro
avevan tolto in luoghi distinti doppio nome di Atena e di
Perseo. Il racconto che ne nacque, come prese a vivere d'una
essenza propria, ebbe la sorte d'ogni materia vivente in organismo : si
accrebbe. La fantasia che plasma le leggende ha certi suoi modi,
quasi formule, quasi schemi, nei quali va foggiando analoghe le sue opere
: essa imprime del suo segno terreno il racconto di quegli spettacoli
della Natui'a cui aveva già dato volti e gesti umani : prende una seconda
volta possesso della sua materia. Cosi non concede essa all'eroe, e sia
pur grande d'assai più che l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. facile
e pronto il conquisto; vuole sia arduo: preparato con forza ed astuzia. Ecco
imaginati talismani senza cui l'opera non può compiersi e per i quali
trovare si richiederanno altre fatiche : ecco pensata, prima dell'impresa,
un'awentui'a preparatoria, ch'è mezzo non fine, ma non è
dispensabile : e all'avventura apparecchiati i personaggi. Qui, furono le
figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle
Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un occhio solo
vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente. Esse, si narrò, sapevano
la sede di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non era
concesso ad uomo trasvolar fino al limite dell'Oceano presso le Gòrgóni,
e dalla bisaccia (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo
spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò dunque ma non ottenne né
quelli né questa se prima non ebbe con violenza privato le tre vecchiarde
dell' occhio e del dente, esigendo a compenso della restituzione i due
oggetti cui mirava. Gli fu agevole poi, auspice Atena,
conseguire lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce. Ermes glie
l'avrebbe donata, nume in particolare diletto, se pur non quanto Atena,
agli Ateniesi; il quale, avendo allora già assunto rilievo di
dio luminoso, era affine a Perseo e dicevole soccorritore contro i mostri
bui. Cosi erasi d'assai allargata la saga. A concliiuder la
quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa strana del fanciullo
cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo. Cronologicamente essa
non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e
il ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente la causa
dell'avventura e del pericolo aveva a connettersi con gli ospiti di Danae
: Ditti e Polidette. E poiché non certo l'originalità è più ricercata
nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui un comune motivo leggendario,
stracco per quel che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da non
riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti episodici onde
abbisognava. Come contro la Chimera fu spinto Bellerofonte da chi ne
desiderò la morte; come Q-iàsone in Colchide venne inviato perché
perdesse nell'arduo cimento la vita; cosi Perseo avrebbe assunto il
rischio medusèo per stimolo di Polidette, che innamorato di Danae
bramava toglier di mezzo il giovine difensor della donna. Oramai il
racconto era compiuto : armonico, organico, uno: vibrava d'una forza
sintetica dalla quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da
parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetrazione, lata e i)rofonda, nel
suolo jonico a traverso strati naturalistici e nove] listici aveva dato
alla fine il suo bel frutto maturo. Analogo al processo d'evoluzione
mitica per cui il nucleo tessalo-argolico della saga
s'era accresciuto d'un episodio e di due campeggianti figure, Atena
e Medusa, fu l'altro che in diverso terreno preparò novella sixnigliante .
Ma, a un tempo, incomparabilmente più complesso ed inviluppato:
tanto che l'indagine riesce a ricostruirlo non con la fondata probabilità ch'è
concessa all'esame del mito di Medusa, ma con incertezze non jDOclie, e con
grande cautela. Se l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono
i X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è Perseo nella sua
natura di eroe luminoso in lotta con i mostri tenebrosi ; l'altro è
Cassiepèa o, come il suo nome significa
senza dubbio, la " millantatrice „; tipo popolaresco della
donna orgogliosa troppo di sua bellezza che osa competere in gara
ineguale con le Dee, e n'è punita per fiere pene nella sua prole. Due
perni adunque di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,
novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un comune carattere precipuo:
l'attitudine, cioè, a commettersi con più altri elementi, a
raccoglierli intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi da
allacciare in maglia e in rete più trame mitiche distinte. Per essi si
formarono due compagini leggendarie che insieme li contenevano e n'erano
quindi accostate fra loro. L'una.
Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in particolare, un re mitico Càfeo o,
in altra forma, Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere e
attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo dell'Arcadia ; e che veniva
creduto signore di popoli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.
Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli Etiopi, arsi appunto dal
Sol nascente e dal tramontante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi
nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli Etiopi reggeva il suo
popolo in quelle stesse lontane regioni, o in tutt'affatto conformi,
nelle quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso cui come a
simili mete muovono in awentm'a i simili eroi solari. Che anche fra gli
Etiopi nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a pena
bisogno, quindi, di dire. Per scopo fu scelto non an mostro specifico,
quale Medusa, ma una vagamente indicata belva che sorgesse da
l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soccorrevole, nell'officio di Atena
contro la preda gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,
strenua in combattere, ignara di mollezze feminee, il cui maschio nome istesso
rendeva imagine di possanza non muliebre si virile: l'Andromeda. Qual motivo in
fine si ritrovasse alla impresa ignoriamo; ma possiam senza errore
fìngercene uno non dissimile da quel che apprendemmo nell'altro episodio, cosi
concorde con questo per contenuto forma e valore. Si ottiene un
mito modellato sopra i medesimi schemi su cui è foggiata l'impresa fra i
Joni ; nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma tutte le tinte
sarebber identiche se non fosser d'alquanto più sbiadite, e tutti i
particolari invariati se non apparissero scemi al paragone. Un
arricchimento però venne ad esso mito quando Cassiepèa vi fu introdotta.
E consistette non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione. si
più tosto nel trasformarsi profondo del significato complessivo che quell'acquisto
ebbe a preparare. Due avventure di Perseo contro mostri delle tenebre non
potevano non venir avvicinate prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna,
la minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi, si direbbe
spontaneo, della sostanza eroica di Andromeda. La " Maschia v, si
andò raggentilendo fin che si transfuse del tutto nel tipo novellistico
della fanciulla che l'eroe libera di prigionia, ama e sposa. Gli era
stata al fianco nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro il
ketos avanzante dal mare, e un vaso del secolo sesto ce raffigura
nell'atto sgraziato del lancio, constringendole e movendole le
membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio insigne
alla vittoria, bella non forte. Allora, divenne indispensabile giustificar la
cattività della fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il
mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo. n vanto della "
millantatrice „, dalle Dee offese punito nella vita giovine e florida
della figlia, Andromeda fu tramutata in sua figlia, sarebbe appunto stato la causa prima del
pericolo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo tutto l'aspetto
originario dell'episodio è alterato, nel profondo. La seconda forma
possiede la vita che non la prima. E individuata come non la
prima. Da l'una a l'altra segna il passaggio Andromeda
trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo che con lei si evolve. Ma se
questi sono di tal mito i personaggi caratteristici, i fondamentali
sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra, in
un'altra leggenda differente di origine. Protagonista è qui Fineo : divinità
del fosco settentrione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti.
Benefico e malefico egli può esser difatti : secondo che dietro lui muova
il rigente turbine del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che
la freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ricacciando a mezzodì
gli affocati avversarli che il Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo
carattere fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli
sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle Arpie, mostruosi uccelli,
mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza l'intervento
de'fìgli di Bòrea i quali respinsero le moleste e perseguitarono a
ritroso fin là dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di
questo mito delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il formarsi
della nostra saga intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si sarebbe
levato col maleficio deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con
la forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per vincerlo, non per
esserne sopraffatto. Non l'autunno sopravviene, nella nostra leggenda, a
mitigare le ardenze della riarsa estate ; si la primavera a dissipar le brume e
i geli foschi dello inverno. Ora l'eroe solare che trionfa
del re nordico fu, sembra, appunto Perseo, in singoiar duello. E
cotesto embrionale racconto, cercò, e trovò, un motivo in Cassiepea :
ancor una volta pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar la
sorte inferiore di Fineo, suo figlio : figlio per vero alla donna ce lo
testimonia l'epica che si dice da Esiodo. Col che si ottenne
anche di fornire compiutezza romanzesca alla favola, quando il
significato naturalistico ne andasse smarrito. C era dunque la materia,
idonea a produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé il
levame opportuno, un mito pur esso dramatico né meno denso di bellezza poetica.
In vece, prima ancora che riuscisse a comporsi in opera ben
delimitata, fu travolta e assorbita in diverso complesso. Però che i due
intrecci di Andromeda e di Fineo, ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea
apparivano non pure nell'identità de' nomi ma e nella analogia degli
uffici, non potevano rimanere distinti: e tanto meno potevano se, come
non è provato ma è forse da ritenere, un medesimo suolo li generava. Si
com penetrarono difatti fin che divennero una narrazione sola in cui gli
elementi delle due generatrici sussistevano tuttavia presso che integri, là sol
tanto alterati ove fosse parso inevitabile alla logica della
commessura. Rimase il duello fra Perseo e Fineo; rimase la discendenza di
Andromeda da Cassiepea: ma, e fu
il segno della connessione fra le 'due saghe indipendenti, la causa della lotta fra i due eroi, fu
rintracciata non più nel supposto vanto d'una madre, ma nella
stessa precedente vittoria di Perseo contro il ketos e nelle successive
nozze. Fineo, si disse, sarebbe stato il promesso sposo di
Andromeda avanti la venuta del giovine liberatore: cosi ignavo
prima a soccorrerla, come presuntuoso poi nell'accampare diritti di
precedenza. Inascoltato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato con
l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa fiaba di doppia
scatuiigine : senza che nulla dei due miti che vi si fusero (su Cefeo
l'uno e Andromeda, su rineo r altro) andasse perduto, tranne il nesso di
maternità fra Cassiepea e Fineo. Chi confronti ora da un lato
l'avventura medusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed Ermes, e
l'impresa d'altro lato avverso il ketos con il premio della vergine e il
contrasto con Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei due
episodii, senza indagarne il significato recondito ; non vi trova pili tracce
di quella simigliali za che le saghe della "Maschia,, e della
Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li avverte dramaticamente diversi,
materiati entrambi di moti sentimentali ma or verso la madre Danae
or verso la liberata Andromeda; di cimenti perigliosi ma ora contro Medusa
spietata ora contro la famelica belva ora contro l'imbelle
ostinato. La cosi ottenuta diversità formale, permise a chi volle
aggruppare intorno al nome di Perseo tutte le vicende di lui, di comporre
queste due in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la
uccisione del nonno Acrisio. Un'opera siffatta fu compiuta da Ferecide,
il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme organico, e divenne
per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice . Ne possediamo un
sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è necessario
integrarlo col testo del ben più tardo Apollodoro. Non ridaremo qui la
trama disadorna. Essa non è più per noi, nella forma con cui ci pervenne,
il corpo, plasmatosi dopo la lunga gestazione per effetto della sintesi
narrativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla nascita misteriosa
vediamo Perseo compiere, dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue
avventure, la medusèa e l'etiopica, per ritornarsene in Serifo a impietrar
Polidette e in Larisa a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo
poi in Tirinto il suo regno, che Argo gli era divenuta infesta. Ma
effetto dell'esser stata raccolta in sintesi la serie delle gesta eroiche
di Perseo non fu solo di fargli attribuire per arma contro Fineo il
capo della Gorgone o di condurre sul trono di Argo Andromeda regina; ma
fu, più tosto e meglio, di sottraiTe all' episodio del ketos ogni vita
autonoma : valse esso qual momento d'una complessiva azione ed ebbe
valore di conseguenza da un lato, di premessa da l'altro. Parte d'un
tutto, doveva dal tutto ricever sua norma e sua importanza: fin che al
meno non ne fosse mutato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua
romanzesca, gradita a' novellatori, tanto più quanto più di fatti si
'arricchiva la trama, di particolari le vicende, di gesti le figure, non
si trasformasse in essenza diversa. Nel molto che andò perduto eran
certo forme varie di cotesta indispensabile trasformazione. Una ne
ravvisiamo tuttavia appresso gli storici del secolo quinto . Per essi la
favola di Perseo e Andromeda acquista una importanza nuova di reliquia
fededegna serbata a traverso gli anni. La cagione è un avvicinamento
verbale : uno de' consueti di cui si compiacque la fantasia degli anticM nel
conato e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra Perseo e i
Persiani. L' analogia non etimologica ma fonica indusse a ritener quello
capostipite di questi: non direttamente però, si bene per mezzo d'un
figlio suo di cui fu coniato il nome " Perse „ per più di verisimiglianza.
A dar poi un aspetto anche meglio credibile alla congettm^a fu addotto il
nome d'impronta ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani,
" Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ; quello,
posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua discendenza. Naturalmente si
lasciò, a tal fine, sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli
Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga: però che essi si
riconoscessero, in quell'epoca, or mai identici a reali " Etiopi „,
situati al sud dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Cefèni „
desumendoli, come traspare, dall'appellativo medesimo del re. E si pensò che
a Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio di Andromeda e
Perseo ; che Perse, guidando i Cefeni, li conducesse a sottometter gli
Artei ; e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si
denominasse Persiano. La garbata ricostruzione critica non fini in questo :
perché, difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi gli
Artei? La risposta si trovò combinando questa congettm:"a con
un'altra. Oltre ai Caldèi semiti che avevan sede intorno a
Babilonia, eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto, presso i
Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo esiguo di questi si riteneva un
ramo da quelli staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre sul
Ponto la leggenda delle Arpie affermava abitar Fineo fratello di Cefeo e
principe per tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni avevano
abbandonato la regione loro, allor quando da Babilonia i Caldei eran
mossi verso il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la
trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si diparte una schiera di Caldei ad
occupare la terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ; che
si spingono verso gli Allei, li sottomettono e insieme divengono il popolo de'
Persiani. Se non che questa mitopeja di eruditi pur riuscendo
a staccar l'episodio di Andromeda in singoiar guisa dalla leggenda di
Perseo, infondendogli una essenza nuova dissonante dal resto della fiaba,
finiva però in una soppressione dell'avventura. La venuta di Perseo fra i
Cefeni, la lotta col ketos, le nozze con Andromeda, il duello con Fineo, sono
un niente a petto della conseguenza precipua su cui ogni altro
fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le premesse non hanno più vita
artistica; le conseguenze, ne hanno una storica. Una pseudo realtà nasce;
ma la bellezza muore. Per tanto, se le gravi lacune del nostro
patrimonio letterario troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di
Andromeda, che nacque dal combinarsi di esigui intrecci
leggendarii» emergenti a lor volta su da rigide abitudini mentali e
in mezzo a consueti aspetti della fantasia mitopeica, non solo perde
presto la sua autonomia col commettersi ad altre vicende, ma
indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a circoscriversi in forma e colore : a
bastanza, perché il senso critico lo adulterasse e, un poco, lo
vituperasse. n. Euripide. Fu sorte della
tragedia dare a esso episodio di Andromeda il contenuto nuovo : che non
fu né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di altri non ci
rimase sufficiente notizia. Di Euripide possediamo i frammenti bastevoli a
ricostruire il drama, se non ne' suoi particolari di arte e nelle sue
forme di tecnica teatrale, certo nelle sue linee maestre .
Era consuetudine ferrea che la tragedia nei suoi episodii svolgesse
un mito. Ma in quale modo i tragedi pervenissero all' elezione del
tema e alla scelta dell'argomento non è possibile dire, per la oscurità
imperscrutabile de' processi artistici tal volta inconsci, e per la
penui'ia I frammenti, naturalmente, son citati e tradotti su Nauck
Fragmenta tragicorum graecorum^ (Lipsia 1889). delle notizie
tradizionali. Sol tanto si può con qualche chiarezza intendere come il
problema di arte si presentasse al poeta allor quando si accinse a
elaborare la fiaba di Perseo e Andromeda ; come, in somma, lo spirito di lui
prendesse possesso, nell'impeto creatore, della materia leggendaria. Nel
mito del ketos si trovavano fusi, come ai)pare dal testo di Ferecide, due
elementi distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere
singolare della Gorgone e nel volo miracoloso traverso l'aria, segni d'una
forza mossa da l'alto per consenso di Dei ; e l'altro era l'umano,
sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio di
Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nuziale di Cefeo. Entrambi cotesti
elementi trovano la loro unità in un terzo, che è, in somma, del
mito il carattere eroico e la forma romanzesca. Euripide adunque ebbe,
dinanzi al suo pensiero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno
suscitava spontaneamente il suo più vivo interesse. Non solo difatti egli
staccava nella tragedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua
I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta la dramatica greca,
di appassionare non la fantasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e
lo sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio e forza
intrinseci non per smaglianza esteriore di tinte. Le menti in cui il mito
ora si accoglie, come sono ben lontane da quelle che l'hanno creato
dinanzi la natura e complicato in novella, cosi son anche più mature
dell'altre che ne han goduto, con puerile compiacenza, lo
straordinario e l'impossibile. Per certo le più antiche e le
moderne cerca van tutte nella saga una verità ; ma la verità
naturalistica e la verità eroica non appagavano ora quei cittadini di
Atene che vi desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto
spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito romanzesco che un tempo
riusciva opportuna o indispensabile commessione fra i due diversi
elementi della fiaba, sopravviveva adesso, insieme col divino, quale materia in
apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra un piano
medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di Dei?
E ovvio però che il poeta non vide, come qui criticamente si espone, il
suo problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo egli
non ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le sue opere; ma
il genio gli soccorse, or peggio or meglio, di volta in volta, e a
seconda dei casi in guise diverse. Poiché ci sono rimaste
nella loro integrità V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel
medesimo 412 da cui V Andromeda si data, intrawediamo a bastanza la vita dello
spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte tentava il
nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra
tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed Oreste che, contro ogni
vincolo di stirpe, per L'analisi, che segue, del pensiero religioso e
sociale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edizione Murray Oxford
s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed emana da quello. Di più cfr. §
Vili. vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano fino a
darle la morte la donna da cui nacquero, ma le sono tuttavia carnalmente
congiunti, cosi che col sangue di lei scorre nelle lor vene una
indicibile virtù di amore e rispetto : protendono da la scena una dolorante maschera
umana ; fraterna con la grande pallida faccia intenta dagli scanni
del teatro. E quando Menelao reduce da Troja naufraga su le spiagge
d'Egitto recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'imbatte
nell'Elena vera, quella che gli Dei recarono celatamente in Egitto, mentre un
vuoto simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla decennale
guerra; e la gioja irrompente per la ritrovata sposa s'urta nello spirito
del principe con lo sconforto per i travagli sopportati in vano e
la vita gittata in vano da centina] a di prodi : allora con la sua
s'agita la sorte di tutte le creature terrene, cui piacere e sofferenza
giungono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno nell'altra.— E in
queste situazioni palese l'immergersi dell'artista nella sostanza dei
personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio completo di tutto
l'estraneo : stolto cercarvi un sistema filosofico applicato, co' suoi
postulati generali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso, dal
profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra nel terreno la via. Ma
di qui non è possibile indurre riferimenti con l'ambiente storico del
poeta o, peggio, conseguenze intorno allo stato psichico di lui in quegli
anni; ma solo intorno al consueto modo della sua forza d'arte.
L'animo di Euripide si rivela più in là. In quello anzitutto che dalla
tradizione egli accettò. ANDROMEDA Giacché nei miti di Clitemestra
uccisa e di Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non
poteva respingerené poteva non alterare. Tali l'oracolo delfico di
Apollo, che avrebbe imposto a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e
l'ordine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto Elena in Egitto e un
simulacro inviasse a Troja, permettendo sperpero immane di energie e
valore. Cotali interventi divini eran la premessa indispensabile
dell'azione ; divennero per Euripide radice di nuova tragicità : però che,
tanto più gli parve orribile il delitto di Elettra, in quanto era
ineluttabile ; e in quanto voluto dal Dio sommo, tanto più spaventoso il
vacuo scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto adunque
le parti divine della tragedia si connettono per lui strettamente con il
travaglio umano ; ma costituiscono una forza cieca e buja contro
cui bisogna urtare : simile al peso corporeo che non s'evita con gli
slanci dello spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime
con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta accettò l'oracolo di
Apollo ; ma chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose non
savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... taccio:
certo egli è saggio; ma vaticinò cose non saggio „ : o sia non rispose. E anche si domandava, e
fece suo interprete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei e
fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non distornaste la sciagura
dalla casa ? „ ; per farsi Elett. vv. 1245-6.
rispondere con una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] " Necessità „ .
E chiaro : il suo spirito s' è formato un concetto alto della divinità
: giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non può concepire
derivi il delitto ; né la stoltizia, né alcuna forma di male ; ma sol
tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni del
mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta,
in quanto poeta, resta perplesso ; non decide, ma porge intatta la questione al
pubblico, dopo averla agitata col prestigio dell'arte, e posta con
lucidezza di intelligenza. Del iDari, se non forse in guisa più
a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto
il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era
le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel
corpo che nella realtà si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la
contesa delle feminette continua ; e mentre la dea amante vuol
Elena sposa di Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus
la vuol salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la
terra fra tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle
case olimpie,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si
mantiene fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio
ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,
"Febo Febo... taccio: certo egli è saggio; ma vaticinò cose non
saggio „ : o sia non rispose. E anche si
domandava, e fece suo interprete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo
Dei e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non distornaste la
sciagura dalla casa ? „ ; per farsi Elett. rispondere con
una parola ch'è poco o molto, àvdyxr] " Necessità „ . E chiaro : il
suo spirito s' è formato un concetto alto della divinità : giusta,
la pensa, e misericordiosa; da essa non può concepire derivi il delitto ;
né la stoltizia, né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e
quel concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il
passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta
perplesso ; non decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla
agitata col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza.
Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si comporta
nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima
per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di
conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella
realtà si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di
Teoclìmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol
salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra
tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case
olimpie,,, procedono secondo purezza di virtù : Elena si mantiene
fedele al marito lontano e sopp orta paziente l'ignominia che cade
sopra lei incolpevole, confusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di
Teoclimeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello Elett.
vv. 1298-1301. ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,
cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii sarebbero d'assai più
piccini, nell'animo, che i terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche
qui il problema si formula ; ma nulla lo risolve ; nessun raggio
fende il cumulo nero nel cielo. Osserva il Coro : " Chi è dio, chi non dio, chi
semidio? qual fra i mortali, anche spingendo molto lontano la sua
ricerca, dirà di saperlo? quale, dopo aver visto l'opere divine or
qua or là balzare con contradittorie e inaspettate vicende?,,.
Nessuno risponde. Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si
svolge materialmente su la scena, accanto i personaggi sé moventi, ma è nello
spirito del poeta, ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la seconda
tragedia, più che la prima. Non di compassione, di simpatia geniale verso la
sofferenza d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e strazio
interiore. E la tragedia del dubbio. La quale nasce ad Euripide nel seno
medesimo della sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero di
critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai la concezione omerica e
infantile degli Dei, non vi crede ; l'ha sostituita con una più
matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo mito, che
rivivere gli bisogna per crear il drama. Poeta, sente l'urto fra le due
idee; se ne tormenta : ripete a chi l'ode la favola bella degli antichi,
fa trasparire a chi l'intende la sua filo Elena tv. 1136
sgg. sofia ; questa e quella compone, senz'accordo logico,
entro il suo affanno. Ma oltre agl'interventi divini, che la
tradizione postulava nel mito, ed Euripide accetta travagliandosene ;
sono neW Elettra e, di più anche hqW Eìena^ giunte che il poeta solo
volle e in cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ;
intrusioni sgorgate da un animo che, non pure assorbe in sé per
rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda e si abbandona, anche
con quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee. Tale
s'originò nel drama di Clitemestra la figura del contadino, povero e
rozzo, ma pur squisito di sentimenti e schietto di azioni :
VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta in sposa dalla madre,
la qual ne temeva i figli se nati da nobile genitore. Egli, come
apprese la condizione della fanciulla che gli veniva destinata e gli
scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti coniugali, pur
continuando ad ospitare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo, per
eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando aijpare su la scena verso
l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime luci, fanno sfondo i
campi arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la Terra, la
grande generatrice di frutti buoni e di forze sane. Dopo, ogni suo gesto
è virile e sobrio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela
semplice perché diritto : e mentre Elettra ed Oreste si laniano di
x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in valore fino a
superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso. Né basta.
Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama gli sguardi su la sua
creatura : e ad Oreste fa A. Feekabino, Kalypso. 5
esclamare con maraviglia un poco attonita: "Ahimé! Non v'ò
criterio alcuno a distinguere la nobiltà : v'è scompiglio nella natura
degli uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre
generoso; e rampolli onesti di genitori perversi ; la penuria nello
spirito d'un ricco ; la magnanimità in un corpo povero. C'ome orientarsi
? secondo il danaro ? mal fido criterio questo sarebbe : secondo la
povertà ? ma la miseria è una malattia, cattivo maestro è il bisogno : secondo
l'esercizio dell'armi ? ma cM risguardando a la lancia giudicherebbe
qual sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare indecisi codesti problemi.
Costui per esempio grande non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non
insigne per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure si rivela
ottimo „. Ottimo si che la sua onesta figura divien quasi di maniera e
par disegnata per dimostrar una tesi o attingere uno scopo. Quale
tesi o quale scopo si propose Euripide nel concepirla e nello
stagliarla? Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena la
novità introdotta. E anzitutto nella scelta medesima della favola : un
mito secondario che risale a Stesicoro (2) e che, a lato della
principal leggenda di Menelao e Paride a Troja, sembrava destinato a
viversi gramo nell'oblio. Il tragico lo preferi per motivi ch'è vano
indagare; che forse si assommano nel desiderio di met Elett.
vv. 367 sgg. (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R.
Encyclopàdie, VII (1912) pag. 2833. terne in risalto il singoiar
contenuto. La donna bellissima che, secondo la tradizione diffusa,
sarebbe stata causa unica di ire e guerre per un decennio, di sventure ed
errori per altri dieci anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti
gli strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i poeti
misogini ; è di colpo trasformata nella più pura e casta moglie che fiaba
conosca. Ella ha giurato a Menelao di " morire ma non mai violare il
letto „ ; né ha giurato in vano, che
di morire è sul punto, e attiene la parola, ed è beata di cadere, dice
al marito, " vicino a te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse
troppo) il coniugale amore di Menelao ; che le afferma " Privo
di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più li preoccupa di scomparir
degnamente cosi " da acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di
affetti traverso anni e vicende acquista il suo più vero significato
quando venga contrapposta all'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,
di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa difatti e V Elena le attinenze sono
indubbie, non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe più,
spiritualmente : su la fine difatti di quella prima viene annunziato e
svolto in breve il tema della seconda (5). E le attinenze divengono
palesi quando le due cognate si paragonino fra loro e le due sorti. Clitemestra
non è presso Euripide se non la malvagia donna : tale la condanna
Elettra che le rinfaccia il lusso e i Elena v. 836. (2) Ih.
v. 837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg. vezzi
durante l'assenza del re. Si difende ella bensì rimproverando ad
Agamemnone l'uccisione di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna
che, s'è savia, tutto consenta al marito „ ; non è giustoj per una
figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne nell'Eliade (2). No, osserva
sdegnata Elettra, tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che
fosse decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena da le sue
case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio le bionde trecce della tua
chioma „ (4) : e " la donna che, assente il marito, adorna la sua
bellezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato amico di cotesta
non buona, figura Egisto, non prode, non nobile, ma ambizioso della sua
grazia corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle donne. C'è
dunque nelle due tragedie il riscontro fra due coppie : riscontro a base
morale, ma introdotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi d'ogni
cosi fatta preoccupazione. E perché introdotto? perché l'arbitrio?
Alla domanda che per la seconda volta in breve esame ci si presenta
non si deve rispondere se non dopo aver rilevato un altro particolare. Il
Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e ridursi in nulla
sforzi durissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno contro
gl'indovini che, prendendo parte all'impresa, non scorsero la verità, non
svelarono il comune abbaglio, né evitarono vittime inutili. Dice al
suo Signore : " Vedi quanto l' opere Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066
sgg. (3) ib. v. 1061. (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. degli
auguri sono stolte e menzognere!... Calcante non disse né rivelò all'esercito
vedendo gli amici morire per una nuvola ; e né pure Eleno : e la
città fu predata in vano. Dirai forse, che un Dio non volle. E perché
allora ci rivolgiamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio
invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii : furono inventati ad
allettaménto della vita, ma nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii.
Il senno e il buon consiglio sono l'augure migliore „ . Per contro è
nella tragedia personaggio, non pur dramaticamente notevole, ma anche
moralmente insigne, Teonoe sorella di Teoclimeno, la quale dagli Dei
possiede la virtù di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi
invasa da una potenza profetica analoga alla magia d'un Calcante o d'un
Eleno. Ma ella è buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove
occorra, tacere al fratello gli avvenimenti più vicini affinché trionfi
la fede amorosa di Elena e Menelao. Perché aver creato questo contrasto ?
Che non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi per bocca del
Nunzio come per bocca de' Dioscuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i
casi il suo più soggettivo pensiero. In questo suo pensiero
sta di fatti la ragione e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e
della purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme di
vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia, di cui quelle son le
forme momentanee ; è morso Elena vv. 744
da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono gl'indizii
occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i personaggi per
cui parteggia con simpatia : una moglie onesta, un marito fedele, un'indovina
equa ; la figura che crea con compiacenza paterna : un lavoratore
dignitoso e saggio ; gli esseri che avversa acre e violento : un bellimbusto
galante, una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un lato coloro
che rientrano nel suo concetto del bene e del giusto ; dall'altro quelli
che appartengono al suo concetto del male e dell'iniquo. Ed è dicevole :
nessuno può disconvenire sul principio che regola la sua morale ; solo
la espressione può venirne discussa. Ma quando gli si scruta
più dentro nell'animo ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli
vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli reputa degno e capace di governare
la pubblica cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna e
Menelao gli piace constituita la polis a scopo di fermezza e quiete
politica. Ci s'accorge che il suo occhio mira più in là d'una teoria
morale: mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre scrive,
navi e uomini ateniesi sono in pericolo in Sicilia : pericolo grave che
si tramuterà di K a poco in disastro immane. I Dioscuri si affrettano a
conchiuder V Elettra perché debbon " salvare le prore nel mar siciliano „.
Il Peloponneso minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte
non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La democrazia non dà buoni
frutti dopo la morte di Pericle. Il partito de' temperati si alterna
nel potere con quello degli estremi : ed è tale la
EURIPIDE 71 sfortuna di Atene che gli uni non
attingono il governo se non quando le disfatte han dimostrato rinettitudine
degli altri, e non son per per lasciarlo fin che disastri non li
colpiscano a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza; ed ogni
esperienza, fruttifera di tosco . Sopra tutti, male comune
nell'inettitudine comune, si stende la piovra della cupidigia, la sete
del guadagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono massime cui ciascuno
informa l'opere se non le parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza
è potenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il povero è servo,
anche se cittadino'; 'l'uomo è il danaro '. E la sete inesausta travolge
ognuno in una lotta, ove il pregio morale non conta, la forza
intellettiva non importa più che il tesoro cumulato ; forse
meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; difficile a risolversi. Che
per risolverla bisognava superarla ; piegar la realtà possedendola sino
al fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza. E difatti voci di
riforma e tentativi d'un rivolgimento costituzionale serpeggiavano e
fermentavano all'oscuro : si preparava la rivoluzione dei Quattrocento. Il
lievito che era in tutta la materia sociale toccò Euripide ; il suo
spirito ne fu macerato e sconvolto : però che contro l'immediata e
ineluttabile realtà dello Stato, ineriva il suo ideale con i pallidi sogni.
Egli non Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig 1884).
Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui è veduto con gli occhi di
Euripide. segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece con la
classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli adxovgyoi della sua fantasia, con
l'Elene e i Menelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica, che il
suo genio d'artista non poteva né doveva sodisfare, in esigenza morale:
spostando i problemi dalla sfera pratica a quella etica. E divenne malinconico
di speranze deluse e rinascenti. A canto alla tragedia religiosa
sussistette nel suo spirito quest'altra: di patriota, di statista, che è
a bastanza acuto per vedere i problemi, troppo poeta per saperli
risolvere.Tragedia flebile, nella quale confluiscono, opportunamente, tutte
quante le quistioni minori della vita sociale e familiare ; le contese
minute su questa legge o quel decreto : le spine sparse lungo i
sentieri del grande roveto. Tale l'invettiva contro gli auguri, secondaria
piaga dello Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che
repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di filosofo evoluto, alla
sua coscienza di cittadino probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il
vero dono divino si rivela appunto pel modo del suo uso e la bontà
delle sue conseguenze. " Attuale „ corruccio ancor questo: che
favore di auguri aveva secondato l'infausta spedizione siciliana.
Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nell'animo del poeta per tal via:
melanconico spiraglio alla più intensa vita. Mirabile di intuito
psicologico nell'elaborar la materia umana del mito ; pensoso su' dubbii
della Tucidide VII 50; Vili 1.religione e della filosofia ; preoccupato
dalle sorti politiclie e dalle condizioni sociali della sua patria
Atene : Euripide crea i drami fra l'urto di due interiori tragedie. Crea,
dopo V Elettra e con VElena^ V Andromeda. Il suo spirito si
fece largo, sùbito, di fra i particolari minori e grinciampanti aneddoti della
saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel pensiero di chi imaginò
la lotta di Perseo col ketos la tragedia era nel combattimento
delle due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto. Nel
pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la leggenda dell'eroe argivo
e ne divenne mitografo, la bellezza era constituita dal numero e
dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del poeta di Atene, il
pregio consistette nell'amore di Perseo e di Andromeda : il congiungersi
dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in cui novellamente
l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a questo :
dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo
flusso del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor
pili che non sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio
della tragedia appariva la fanciulla sospesa a una rupe, in abiti
di cerimonia festiva, mestissima e piangente. I lamenti di lei Eco ripete
da lungi; non lontano è il mare onde la belva vorace verrà al
selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali
di Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda sciagm-a. E notte.
All'alba il ketos deve sopravvenire. E nell'animo degli astanti la deprecazione del
male imminente lotta con la tormentosa ansia pel greve indugio : l'attesa
gravita su i capi come un mostro informe. " sacra notte, qual
lungo cammino con i cavalli percorri, reggendo il tuo cocchio su gli stellanti
dorsi del divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ : tale
parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore si ribella contro
l'asprezza del fato e la trista disparità del dolore : " loerché più
larga parte di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso alla
morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta il conforto dividendo il
dolore : " perché chi soffre sente alleviato il suo male, se del
pianto fa parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel petto,
senza sollievo, con la durezza della materia minerale, e non prorompe se non
per voci d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il moto
compassionevole delle compagne, si discioglie nella rievocazione lacrimosa di
tutta la vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino onde la
fanciulla fu addotta, incolpevole, alla pena. I presupj)osti
dell'eiDisodio vibrano non di forza narrativa, si di spasimo lirico : che
si assommano nel presente pianto della figlia punita, e di quel pianto
s'impregnano. Ve su la scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara
voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una insistenza : non sposa a
nozze, e delle nozze avrebbe diritto pel fiore della sua
giovinezza, ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata; non fra
i cori delle compagne, si avvinta in funi Fr. 114. (2) Fr.
115. (3) Fr. 119. e tra il compianto virgineo . Ma a rompere
Tuniformità di questo tormento, giunge a traverso l'aria con l'alato piede
Perseo, reduce dal rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne
reca in Argo (2). E radioso della sua recente gloria ; bello della sua
giovinezza. Stupisce prima : "" Dei ! a qual terra di barbari
col veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo? Timagine
d'una vergine, come scolpita da mano sapiente tra i rupestri rilievi! „
(4). Si fa poi sollecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu taci
„ la persuade " ma il silenzio è inadeguato interprete del pensiero „ (5).
Non senza rancuna son le prime parole di quella : " ma tu chi sei ?
„ ; se non che la forza stessa del dolore la tradisce e senz'altro, per
la veemenza del soffrire, non definisce audace colui che persiste nel
voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi sei, c'hai pietà del
mio male ? „ (6). " vergine, ho pietà di te che veggo sospesa „ (7).
Ogni freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era ancora nelle parole
della fanciulla si placa. Quel che di vago era nell'animo dell'eroe si
concreta. Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des
Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei particolari
esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri. Mus. Inv. N. 3237.
Lascio indiscussa la quistione, però, ntorno al coro che il Bethe
riconoscerebbe nella figura a sinistra di Ermes. (2) Fr. 123.
(3) Principio del fr. 124. Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr.
127. (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente dato
dal Nauck. La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si
susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un concento unico di vivace
simpatia vicendevole. E alla fine la generosità dell'eroe, la quale
si forma adesso assai più nell'inconscio secreto del cuore
desideroso che nella vigoria dei muscoli forti e pronti, erompe in
promessa : " vergine! s'io ti salvi, mi sarai grata?,, , Egli si è
traditela sua prodezza non vuole compenso per solito ; la gloria gli è
premio valevole. Ma quel che ora chiede è più che una gloria : è il
possesso magnifico, Andromeda intende ; se non che il suo animo troppo è
ancora tenuto dall'imminenza mortale per abbandonarsi alla fede: teme
d'illudersi : e lo dice " Non m' esser cagione di pianto,
inducendomi speranze! „. La risposta, che nasce da l'immensità del suo
soffrire, può parer dura al generoso offertore; l'istinto femineo
se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per colpa di te "
ma molto può avvenire contro l'aspettazione... „ (2), La speranza di
campar la vita non è nata o almeno non è del tutto salda; è nata la
fiducia in Perseo. Ma questi, in nome del suo passato di vittoria, della
sua strenua energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli
moltiplica le forze, riesce finalmente a trascinarla con sé nel sogno, a
persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda allora
lascia ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde è dato
al giovane, oltre l'avanzante mostro oltre la minacciata morte, su la
rupe triste sul Fr. 129. (2) Fr. 131. mare
vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero ! e tu conducimi, come tu
vuoi, sia ancella, sia moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che
soffro tutto; mi sciogli dai vincoli! Perseo combatterà difatti il ketos
sorgente da " l'Atlantico mare „. E gli s'affollerà intorno "
tutto il popolo dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando
una tazza d'edera colma di latte, chi succo di grappoli „. I principi, "
in casa, a torno la tavola del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la
coppa del salvatore (2). Sùbito profondo si manifesta, in
questa ch'è la fondamental intuizione psicologica della tragedia, il
progresso rispetto al mito ferecideo. In quello Andromeda non è più, nel
suo intrinseco valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo
offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fanciulla è mezzo nelle loro mani ;
come è vittima nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:
meglio, l'anima non le è data. Euripide per contro ne fa il centro della
scena : plasmandola d'una sostanza indipendente, la costituisce di
sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in una persona non
comparabile con altre, la crea fuor dalla materia ove si giaceva informe.
Ella gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura mesta le si
accoglie d'intorno nel compianto di Eco. Ella contrappone il proprio
forsennato desiderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol morta ; e
ogni volto, dal cielo dalla terra dal mare, la guarda. E quando il
giovine eroe giunge, Frr. 132 e 128. (2) Dai frr.
145-148. la divinità di lui si menoma e si abbassa dinanzi la
sventiu'a di lei: ella è chiusa in una corazza dura di dolore, ed egli
supplica. Poi, tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie
Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia Andromeda si piega in lacrime, e
il giovane venuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di sé, ch'è
per affrontare il ketos, tutta la luce. Ma è parvenza fallace. La vergine
lancia al fervido desiderio del prode il grido della sua dedizione,
e si afferma per tanto di nuovo, vivace, nella sua libertà che dalla
passione forma il volere, del volere compone il proprio decreto. La
" Maschia „ che nel primitivo antichissimo mito ajutava d'opera e di
consiglio Perseo contro la belva, era più vigorosa corporalmente;
non era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella tragedia
euripidea, una tanto geniale innovazione doveva sembrare anche anarchica
urtando contro le consuetudini legali e morali della vita ateniese;
e per ciò senza dubbio si dovette velare e temiDcrare agli occhi dei cittadini.
E chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo, o prima o dopo, a
simulare la sanzione paterna, e a ricomporre nello schema giuridico la
mossa ardita della figlia. E fine si manifestava forse, in questo,
l'arte del poeta. Ma s'ignora. L'intervento, tuttavia, di Cefeo non
fu senza effetti. L'amore della vergine che prima della lotta
trionfale era come offuscato di paura e di speranza egoistica se ben
legittima, dopo si velò di malinconia contrastando con gli affetti
filiali. " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ? Lontano
: in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al vecchio padre canuto : e la
dipartita ne diveniva grave, aspra la lontananza : era svèlta
ancora (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vecchiezza di lui.
Accanto al padre, la madre : colpevole, è vero, del rischio; madre tuttavia.
Nel doloroso contrasto levasi l'appello al dio che travaglia, a
Eros, il quale dovrebbe soccorrere i mortali che affligge : " Ma tu,
tiranno di uomini e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle
o ajuta benigno gli amanti che penano pene di cui tu sei l'artefice ! E,
per tal modo facendo, onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo
stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia di che ti onorano „ .
Calda invocazione che tanto piacque al pubblico perché nella veemenza
dell'amante incontro al Dio della sua passione traspare il profondo gaudio,
onde, pur nel soffrire, non invoca la salute del morbo, ma un ajuto
a tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore vince.
Era ancor questa una giunta di Euripide al mito. Ma secondaria: un
che di convenzionale la gravava ; non improntandola il segno del pensiero
innovatore, ma parendo scaturir ovvia dalla situazione medesima. Per ciò
lo spirito dell'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue quel
dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto e dirizzarlo a scopi diversi,
più profondi o più larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi
psicologica queir ansia pregna di preoccupazione Fr. 136, leggendo
dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII. politica, quel travaglio complesso di
meditazione sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due tragedie
soggettive al poeta e tutta l'opera magnificamente arricchire. Quando l'ingegno
di lui crede di aver esaurito per una via la materia psichica del
dramma, una nuova senza indugio gli s'apre : cessa di toccare la più
schietta ma generica umanità del suo pubblico, per eccitarne
peculiari moti e destarne i singolari interessi. Parlava all'uomo : parla
all'ateniese. E, al solito, l'idealismo lo tradisce, conducendolo
senz'altro alla difesa della giovinezza e della passione, da lui
concette e atteggiate sotto la piti seducente specie: a Perseo e
Andromeda fa esprimere il pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a
Cassiepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la quistione giuridica o
sociale o politica di cui è per far cenno, dalla sola impostatura dei
termini si comprende che Euripide, anche una volta, aspira a risolvere
una difficoltà empirica col criterio non dell' utile e del pratico ma del
buono e del bello. La quistione poi non è sola, si consta più
veramente di due. I genitori della vergine s'armano oltre che dei proprii
diritti sentimentali, di sofismi ed argomentazioni. Il
congiungimento degli esseri si trasforma in un contratto economico: nel
quale l'eroe detronizzato, e cresciuto da la pietà ospitale, ha troppo
palesemente la peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia
del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro io voglio sovra
tutto avere nelle mie case : anche se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ;
il libero, bisognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa
della felicità! „ . Che importa forza di gioventù, ardimento di
cuore ? clie importa la gloria immortale, per cui " già morto, già sotto
la terra, sii venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin
ch'uno viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli, con
l'esempio recente, che si può per ricchezze fiorire, e tuttavia giacersi
nella sventura (3). Risponde, al ricco anche la sventura esser più
lieve che al povero: già che quello non soffre se non del presente ; questo
" ogni giorno spaventa il futuro, che non sia dell' attuale il dolore
avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la fiducia idealistica e il
materialismo gretto si assomma in una sentenza : " questa delle
ricchezze è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Euripide ha torto
; la ragion pratica lo deve condannare, se pure lo asseconda il sentimento.
Ha torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non al singolo
caso svolgentesi su la scena, ma alla plutocrazia d'Atene e alla
cupidigia immorale dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi
dal tragico non vien conseguito, un altro lo è, più dramatico : di
far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di stimolare i cuori. La
memoria è recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il
lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di Siracusa gli urli
de' suppliziati giungono ancora in Atene ; ognuno interroga l' imminente
destino; ma le risposte scavano inutili l'aria torbida d'ansie. Su questi
spiriti Euripide lasciando Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII.
(3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137. A. Ferbabiko,
Kalypso. cader la sua massima morale il suo rigido e teorico
principio, se non insegna una via, disgusta del presente cammino.
Nel male generico poi rocchio di lui scorge, e rileva, un difetto
specifico. Nel 451 a. C, quarant'anni
circa prima deìVAndromeda^ Pericle aveva proposto e fatto votare un
psèfisma, secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i nati da
genitori di cui l'uno fosse non cittadino. E tale legge era durata in
vigore di poi fino ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di
Aristofane. In verità se si pensa agli scambii continui fra Aliene e gli
alleati e gli stranieri, ci s'avvede subito in qual forte numero gli
Ateniesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e decaduti a un grado
inferiore, solo per aver contratto unioni con donne straniere. Pericle
stesso fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né solo il
sentimento coniugale e l'affetto paterno urtava quel decreto
incresciosamente; ma tutte le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se
né pure la cittadinanza dello sposo poteva far ateniese, per esempio, una
donna nata in città della Lega marittima, dura e perigliosa barriera
si rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur del loro ajuto
di continuo abbisognava, e su la loro fedele assistenza doveva contare
specie durante le guerre infelici. Onde il largo spirito euripideo, il
qual tutto accoglieva che agitasse la società de' suoi tempi, si giovò
dell'attributo etnico che la saga conferiva ad Andromeda per
riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad Andromeda difatti diceva
il padre, o la madre : " Non voglio che tu n' abbia figli
illegittimi ! che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, soffrono per
legge: da questo è necessario che ti guardi„ . L'accortezza artistica di
un cosi fatto mònito è pari alla profondità del problema toccato. Perseo
accoglie su di sé le simpatie non pur dell'autore si del pubblico, per la
sua generosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio sia la eventual
vittima della dura legge ; che la ragion giuridica stia con il cattivo
genio della tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio
intiero contro il decreto e gli strappa, non per raziocinio ma per
sentimento, il solenne biasimo. Aristofane muove a riso se un suo cotale
perde l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide indigna se
fìnge Perseo offeso non nell' avere ma, dopo un estremo rischio, nel
giusto compenso d' amore. All' architettura passionale la scenica doveva
corrispondere per modo che non s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né
dell'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito potrebbe menare
grande scalpore. Anacronismo e irrazionalità era difatti mostrare
Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto che
so ? di Pericle e Aspasia : l'arte forse non se ne avvide, certo non li
discoperse. Ma restano essi indizio d'un' alterazione del mito ben
più profonda ed esiziale di quella operata dalla genialità iDsicologica :
ch'era tuttavia un modo di Fr. 141. Cfr. § VII.
(2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di G. Fraccaroli
su L'irrazionale nella letteratura (Torino 1903). rivivere il mito,
di serrare e appalesare i tramiti fra la nostra essenza umana e le
favolose vicende. Invece, una volta intrusi fini di riprensione politica e di
biasimo sociale sopra la trama della sa^a, essa ne rimane soffocata e
asservita. Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del ketos,
affronta problemi proprii dello statista, non prosegue se non l'opera del
mitologo che, al medesimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il
vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito la società, questi l'uomo ;
e tutt'e due sviluppano r antropomorfismo contenuto nel primissimo
germe. Si assiste cosi a una penetrazione successiva e graduale del fenomeno
solare nella sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento procede,
tanto meno il mito serbasi, qual era, mito di maraviglia cui si presta la
fede non razionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta in paradigma
d'una teoria logica, in schema di una tesi politica. In vero, dopo che
Perseo è divenuto pretesto a un problema giuridico, egli è per diventare
l'esempio aggraziato d'una fra le possibili soluzioni : segno che già
l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla
vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono però le sue prime
rigogliose radici. Mentre da questo lato la leggenda si
profonda verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pensieri. Il
religioso spirito di Euripide non mancò di agitare, anche per Andromeda e
Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.
Quanto e come, è impossibile dire: solo per barlumi s'intravvede alcunché :
" Non vedi come la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno
ri EUKIPIDE 85 volge l'un qua l'altro là Quegli
era felice ; lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega
la vita, piega la fortuna con lo spirar dei vènti „ , " Non v' è
mortale che nasca felice, senza che in molto l'assecondi il Divino „
(2). E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di Zeus e
seder presso ai falli degli uomini „ (3). Né manca un moto d'ira contro
la divinità che ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è
espresso in forma accorta e velata : non avverso a Posidone e alle
Nereidi, si a Cefeo che ha ubbidito loro. " Spietato è quegli „ dice ad
Andromeda il Coro " che dopo averti generata, o afflittissima fra i
mortali, ti concesse all'Ade in favor della patria ! „ (4). Di questi
frammenti il principale, da cui traggono luce gli altri, è intorno
a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo, rimastoci
della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe balzino
su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia per inscriverle
entro le tavolette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda giustizia ai
mortali? L'intiero cielo non basterebbe, se Zeus volesse annotare i peccati
degli uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esaminarli e
aggiudicare le pene. Aprite gli occhi : Dike [non è là su: ella] è qui
basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha un concetto di giustizia
Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel secondo, Tòv al
V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non
TifioìQlag. (4) Fr. 120. (5j Fr. 506. a cui non vede
rispondere né l'opere né i decreti divini, a cui gli pare meglio s' addica
la condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo fra Zeus eDike:
questa non può seder presso quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e
pene: queste mal rispondono a quelle né sempre presso al " fallo
dei mortali „ abita Griustizia. In verità: un re felice è tramutato in
infelicissimo per l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso
non ha la gioja del premio e deve superare nuovi contrasti; la figlia è
punita per la madre. E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che
cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio? La domanda angosciosa, l'eterna
del dubbio tragico, - ritorna, e accompagna, in tono minore, il concerto
delle passioni eroiche e dei problemi sociali. Ma cotesto non è più
mito. E critica del mito : in quanto esso contiene un ricco elemento
religioso. Critica singolare però : che è insieme atto di negazione e
atto di fede. Euripide accetta la leggenda, la narra senza alterarne il
lineamento essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli un
legittimo procedere della divinità. E la sua risposta ha un sottinteso
profondo. Egli potrebbe difatti negar di credere al racconto per le
azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al contrario, perché le sente, dopo
averle psicologicamente vivificate, umane e, come umane, verisimili, se ne fa
una base al suo dubbio di filosofo. E una maniera di sceverar, nella
fiaba, la incorruttibile verità, il dolore l'amore la morte, dalla verità
caduca, onde sorgono gli aspetti e le forme divine. Se non che essa
verità caduca non è morta, ha vita in assai spiriti ancora: quindi la
ribellione è difficile, faticosa; lo svilupparsi da' suoi impacci è un
travaglio. E il tentativo di ripossedere totalmente il mito fallisce;
una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque, dal genio artistico di
Euripide investito il problema che la leggenda eroica di Perseo e
Andromeda offriva al suo magistero. Della leggenda la sostanza umana fu
la più riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito creatore
si profondò con la sua potenza d'intuito da un lato, con le sue preoccupazioni
di politica da l'altro; quella per cui l'animo si compiacque della
finzione antica, e la godette ricreandola. L'elemento divino fu contemplato
con occhi di esitazione, accettato quasi rassegnatamente. Al di sopra si
conservava intanto la patina eroica, lo splendore delle avventure, la
maestà delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.; reca il
capo di Medusa; trionfa di un mostro orrendo : v'è quanto basta perché
chi s' appaga dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, immensamente
lontano. Non si sa se nella tragedia avesse luogo, come nel racconto di
Ferecide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali: certo questo
fu, se mai, un fatto di più, non un sentimento nuovo: rientrò insomma
nella sfera estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza umana,
elemento divino, vernice romanzesca non trovarono la loro sintesi se non
nell'unità dello spirito euripideo : sintesi che non è concordia
logica, né armonia estetica ; si bene vita in angoscioso travaglio ; nel quale
l'intuito psicologico e l'affanno politico e il dubbio religioso si
fondono ; pel quale il personaggio di Perseo, la sorte di Perseo
assommano in un solo vivo vertice le divergenti passioni dell' intera
tragedia. Per comprender questa nella sua forma poliedrica, per
ravvisarla una, oltre le superfìcie molteplici, bisogna aver ricostruito
l'animo del poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui potè
identificarsi anche il popolo d'Atene: una sola volta: quello stesso anno
412 onde nacque e in cui fu rappresentato il drama. Preoccupato del pari,
aveva sotto gli occhi uguali spettacoli, sentimenti simili ne scaturivano.
Agli spettatori come al poeta il fato travaglioso dell'eroe, audace
generoso e mal soccorso dagli Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike,
si tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più sorda di
spavento : chi avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le infortunate vicende
della grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende argivo,
si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi gl'inconsci risguardanti, da
quando un psèfìsma di Pericle viene opposto al suo amore; si è
quasi fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da quando il suo
impulso ideale vien premuto dalla material cupidigia. L'incerto futuro
che lo elude ha la maschera ambigua dell' avvenire che attende, lontano,
la Città confusa. A lui definisce la sorte Atena, apparendo a predirgli
le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione in cielo
con la sposa e Cefeo e Cassiepea tramutati in constellazioni. I problemi umani
della sua vita sono tronchi da un intervento divino : non resoluti.
Onde più tragico ricade sugli ascoltanti il timore per le imminenti sorti della patria;
s'accresce il senso vivace del mistero che regola le fortune
terrene. Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico
del mito compaginati negli spiriti di Euripide e del primo suo pubblico,
non significa che si fosser fusi nell'opera d'arte: perché la
scissione può, nello spirito, comporsi per il dolore medesimo di cui è
causa; ma rende, senza dubbio, disarmonica la forma estetica che la
esi^rimeQuindi l'unità è momentanea, non stabile. Le diverse materie
della leggenda si serbano disgregate e inorganiche. E, non potendosi nel
tempo, se non per via di critica, riprodurre identico l'ambiente spirituale del
tragedo e dell'età che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano
derivate non accolgono simpatie e non trovan cultori. Ond' è che il drama
nella storia della fiaba rappresentò una pausa senza echi. Dopo
Euripide. Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un
lento ma spiccato impoverirsi della sua vita. Fino ad Euripide, il
processo era stato, in vece, di arricchimento; la tendenza verso una
poliedrica complessità: onde naturalismo e novelHstica s'eran da prima
complicati insieme, avevan avuto giunta dal romanzesco, per attingere
il sommo della pienezza nel dramatico travaglio del pensiero
religioso e politico, il vertice dell'altitudine nella fine intuizione
psicologica. Dopo Euripide, la parabola discende sino ai confini
d'una più consueta mediocrità: si che par nel principio che fuor dalla
corteccia non si sviluppi se non il midollo originario della fiaba, ma
si mostra poi ch'esso medesimo è presso che inaridito. Che la saga non
ritorna in sua vecchiezza alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si
bene lo spirito che negli inizii verso lei convergeva intiero, vie meglio
alimentandola nel suo assiduo allargarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e
si immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della leggenda di
Andromeda è parallelo al formarsi del disinteresse mitico; ed è quindi
preludio d'un nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato a
pena uno stampo, prende a foggiarsene e riempire un altro :
maggiore. Il lamento ch'è solito allo storico del mito si deve
ripetere ancor qui: assai fu perduto che ci avrebbe di molto giovato
nello studio di cosi fatta decadenza mitica. Non son più che
quattro gli autori, in cui ci ritorni il racconto del ketos; ma per
fortuna rappresenta ciascuno una tappa caratteristica.
Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con l'altre ancor questa
favola, si riconnette a Ferecide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa
aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua origine. Né vi aggiunge
gran cosa ; al più, pio ti) Dal numero è escluso Igino Fav., come
quello che contiene varianti di particolari, ma non imprime d'un
propi'io segno la fiaba. coli insignificanti particolari; qua e colà,
quasi in margine, ferma la notizia d' una tradizione alcun poco
diversa dalla ferecidea. Chi legga distratto vi bada a pena. Vi s'
indugia sol chi abbia intenti d'investigazione erudita : nel che si
appalesa dunque la caratteristica di questo strato evolutivo. All'autore
che la narra la leggenda è morta: è cadavere che egli ricompone fra
bende, con qualche cautela, a fin che poco di quelle membra che furono
organismo vada disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui,
nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo compilatore ; presso il
quale è già armonia di contesto e compiutezza di termini. V'è,
inoltre, una ragione più alta, intima alla logica dello sviluppo
storico, onde Euripide dev' essere taciuto : la singolare opera di lui non ha
vinto, e la volgata con tutte le sue piccole e grandi varianti è oltre;
più sopra o più sotto, non importa ; è distinta e prevale. Quindi ben fa
chi compila a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra le
produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche della mitopeja; già
che la distinzione deve valere, se mai per alcuno, per il mitografo
tardo. Se non che tale aspetto non fu del solo Apollodoro. Anche di
un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure non nell'atto materiale del suo
lavoro, certo nella sfera fantastica della sua mente, da Ferecide : o sia
da quelle che in Ferecide erano le fondamentali intuizioni della saga.
Ciò sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ; la ricchezza dei
gesti e dei movimenti nei personaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i
due giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa e svolta a
costituire l'ordito del racconto; e sol tanto entro i loro limiti il
poeta si concede di imitare altre fonti, sia pure Euripide.
Il romanzesco imprenta tutto quanto il compatto manipolo degli esametri
tra la fine del quarto e il principio del quinto libro nelle Metamorfosi.
Sottinteso costante e necessario è il miracolo della potenza oltreumana:
dal volo che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del capo
gorgoneo che termina l'episodio. In apparenza però Ovidio non se ne compiace
con la maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di comprimerlo in
termini di umanità. E fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce
convito vien paragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il confine mostruoso. E
Perseo gli piomba di sopra con l'empito discendente dell'aquila: non
insolito spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simiglianza di cignale
fra cani in torma : scena cui è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar
degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria dell'eroe richiama l'eco
dei fragorosi anfiteatri. In realtà, queste similitudini umane riescono
una più sicura esaltazione dello stupefacente: necessarie perché le
intuizioni si concretino, escano dall'indefinito ferecideo, e conseguano
una plasticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il riscontro consueto
e terreno : utili, di più, per creare, di là del riscontro, il contrasto
fra lo straordinario e il normale. Si compie qui, accanto a un magistero
d' arte più evoluto che vede i particolari e li esprime non li
accenna, uno sforzo per accrescere la distanza di cui separasi la terra
dal cielo, la creatura dal semidio. Gli corrisponde il rombo del verso. A
che fine? Per la metamorfosi che conchiude, in due riprese, il racconto.
In quella il romanzesco si dissolve, come in sua foce : il capo di
Medusa che impietra in coralli le verghe del mare e converte lo
stuolo dei congiurati in affoltata marmorea di statue danno una sanzione
estrema a l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero
; che ciascuna di quelle trasformazioni ha importanza speciale, né può valere
se non congiunta con la prima o la seconda delle scene in cui il
racconto si divide. La prima è intorno alla venuta di Perseo,
al duello con la fiera, alla vittoria . Novamente da l'una
parte e da l'altra egli si avvince con le penne i piedi ; della curva spada sì
arma : e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e di
sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte etiopiche e i campi
cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che l'incolpevole Andromeda
della materna lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,
avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non avesse agitato i
capelli né gh occhi stillato un tepido pianto, opera di marmo l'avrebbe
creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto
dell'apparsa IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H.
Magnus (Berlino 1914). bellezza dimentica quasi d'agitare le penne
per l'aria. Si ferma. "0 tu dice degna non di queste catene, ma di
quelle che serran fra loro i cupidi amanti, il nome a chi '1 chiede
rivela della terra e di te, e perché porti legami „. Si tace ella da
prima né osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi
il volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, e poteva, di
sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più spesso, svela, perché
celar non sembrasse delitti suoi proprii, il nome della terra e di sé, e
quanta fosse stata fiducia della materna bellezza. Ancor non
compiuto il racconto, l'onda risuona : avanzando, la belva a l'immenso
mare sovrasta, e molta sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine.
Doloroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri entrambi, più
giustamente questa. Non recano ajuto con sé, ma, come vuole il momento,
pianti e lamenti, e si serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : "
Di lacrime molti giorni vi potranno restare ; a porger salvezza è breve l'ora.
Questa s'io vi chiedessi, Perseo nato da Giove e da quella che rinchiusa
Giove fé' pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone
anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali volatore ardito, sarei qual
genero a tutti, per certo, anteposto. A tante doti io tento di aggiungere un
benefizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore salvata, sia
mia, fo patto,. Accettano (chi avrebbe per vero esitato ?) e pregano, e
promettono inoltre in dote il lor regno, i genitori. Ecco,
quale nave veloce solca col prominente rostro le acque, da sudanti
braccia di giovini condotta ; tale la fiera, spartendo con l'empito del
petto le onde, tanto dalla rupe distava, quanto del cielo interposto
possa Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando d'un
sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra, alto si leva verso le
nubi. Come alla sommità dell'acque fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria
contro la vista ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo
che nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga concede, da
dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non torca, e figge i bramosi
artigli nella cervice squammea; cosi con volo rapido a piombo calando pel
vuoto, della fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro
l'Inachide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo . Laniata da grave
ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si asconde nell'acque, ora
voltando si avventa a guisa di fiero cignale cui la turba de' cani
latranti d'intorno spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ;
adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei fianchi i
margini, adesso dove la tenuissima coda si termina in pesce, ovunque si
porga indifesa, flagella con la spada falcata. La belva da le fauci vome
i fiotti misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appesantiron
madide : né Perseo osando più oltre affidarsi a' zuppi talari, scorse uno
scoglio che col supremo vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde
agitate. A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i
gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei fianchi
colpiti. D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le superne
case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, ausilio della schiatta e
salvator io proclamano, Cassìope e Per avere una idea precisa della "
spada ricurva, " falcata „ di Perseo e per comprendere il v.
720 {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon d. Gr.
ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la
vergine, della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta
purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda l'arena il capo
gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno, virgulti distese nati nel mare,
e sopra vi pose la testa di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal
succoso midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al contatto di
questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse rigidezza inusata. Ma
sperimentan le ninfe del pelago il mu-abile fatto in più verghe e con
gaudio lo vedon ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser
su l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta, che dal
tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era verga nel mare, sopra il
mare sasso diventi. Seguono le scene di festoso tripudio cui
s'abbandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti. E si termina, col
libro quarto, il primo episodio, per sé stante, del mito. Chi lo
cerchi più a fondo, deve soffermarsi sopra il dialogo fra Perseo e
Andromeda, fra Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sentimento
attorno cui Ferecide aveva trovato raccolta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe,
in sordina. Un che d'ignoto par che l'attenui come d'un velo. Cosa non
senza maraviglia, giustificandosi tutto il successivo evento appunto dal
sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa del padre. Anzi, se
l'origine dei coralli è il vertice avventuroso del racconto, questa scena
a l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o, meglio, umano.
Ora in ciò a punto è la causa del poco rilievo concessole dal poeta. Il
suo senso d'arte l'avverti che questo poteva
divenire "iin elemento disgregatore, una disarmonia nell'opera:
e la passione tramutò in accordo nuziale. I due protagonisti impiccioliscono
visibilmente: ella s'induce a rivelare allo straniero il perché di sua
xDOsitura " a fin clie non sembri celare colpe sue proprie „, e
accusa la madre: egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori,
mentre la belva avanza e il terror tragico martella i cuori, i
proprii titoli, quelli per cui si ritiene onorevole genero al re. I più
generosi appajono, poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore
danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista fu, in questo argomento,
volubile ; né gli soccorse alcuno di quei fini tratti di psicologia di
cui è capace in altri casi. I soli accenni più appropriati toglie a
Euripide: tali lo stupor del veniente Perseo per l'aria, e il pudore
silenzioso della vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza
numerica della forma cela l'esiguità della intuizione. Il romanzo gli ha, non
pur scemato, ma un poco anche guasto la vita. Dopo che tra
grande esultanza si sono raccolti a banchetto nuziale il re e la regina
con la figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E l'uomo di
Ferecide: il fratello di Cefeo già fidanzato con Andromeda ; il quale non ha
avuto il coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma tenta ora
di riaverla quando il ketos è ben morto. Mentre fra mezzo
alla schiera cefena quell' imprese l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali
riempie Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. una
turba fremente ; sorge un clamore, non di canti alle feste nuziali, ma
d'annunzio a feroce contesa. E i conviti mutati in sìibiti tumulti
potresti assomigliare a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la
fervida rabbia dei vènti. Primo Fineo tra quelli, temerario
autore della contesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,
" Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della carpita sposa. Né a me te
le penne, né sottrarrà Giove in falso oro converso „ . A lui clie tentava
scagliare, Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge infuriato
al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ? con questa mercede
compensi la vita di lei ch'è salvata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero,
non Perseo a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero
Ammone, ma quella belva del mare che veniva per farsi satolla delle
viscere mie ! Allora rapita ti fu, quand'era a morire. Se non se,
crudele, ciò stesso tu brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore.
non basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo soccorso
recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli che fu da taluno salvata,
e gli carpisci il premio ? Questo se a te grande paresse, da quegli
scogli dov'era affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il
qual lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si porti
quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi come lui s'antepone non a
te, ma a una morte sicui'a „. Non cede Fineo a' consigli del
fratello, anzi È forse inutile ricordare che, secondo il
mito, Zeus avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal soffitto
in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae. comincia il combattere. E
il racconto si distende lungo per circa due centinaja di versi : che
la battaglia è seguita ne' suoi particolari con abbondanza di nomi di
persone di gesti. Il tumulto è grande . " Le congiurate
schiere d'ogni lato combatton per la causa che impugna inerito e fede.
Per questi il vanamente pio suocero, e con la madre la nuova sposa, son
favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma prevaleva il suon
dell'armi e il gemito dei caduti „. Per poco ancora dura la lotta. "
Però quando alla turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi
che mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.
Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il capo della
Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti commuovano! „ esclamò
Tèscelo; ma, mentre con la mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale,
in tal gesto rimase statua di marmo,. All'ultimo è prostrato, dopo assai
altri come Tescelo irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E
implora : " Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo
impietrante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio
ci spinse a contesa, né brama di regno ; per la sposa movemmo le armi ;
migliore fu la tua causa per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di
cedere. Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a me! tuo
il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né risguardare ardiva quello
cui con la voce pregava, rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo,
concederti posso, ed al vile è dono ben grande, lascia il timore. ;
la parafrasi è dei vv. 150 sgg. ti
concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi vo' darti un monumento
che duri perenne ; e sempre, nella casa del suocero nostro, sarai guardato
si che la mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „. E
lo impietra. Cosi la vasta e agitata folla che nel principio
commoveva la scena si tramuta in un popolo rigido di statue, di cui
ciascuna serba, nella fissità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il cardine
del secondo episodio mitico: efficace trapasso per il quale la compiacenza
ferecidea verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza
dell'azione si sublima in motivo di armoniosa bellezza. Che è quasi
esclusivamente merito di Ovidio; come di quello che, sviluppando a
sé tutta la seconda parte della leggenda, la equilibrò con l'ampUarne, ai
due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.
Inserì nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al
fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non
priva di malignità né di un grossolano sale. Se bene già questa non era
una giunta che compiesse, si più tosto una intrusione che alterava, il
jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa;
e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo nella più
stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene
monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la
fine, senza garbo né acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale
mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore
inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello
sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il verso con
eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito
fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e rigonfia gli
elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto
nel primo episodio: volubile superficialità psicologica accanto a larghezza
romanzesca. Ma analogo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il
poeta non ha colto il cuore del mito, né ha, da quello, vissuto il mito.
Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe
con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina
fredda di volume svolto. Il suo interesse la tentò con approcci
successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi
psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa;
in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai però, in
alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra
che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito
stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realtà
lo spirito è distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il
pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia
nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di
Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il
ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e
le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di
donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ;
l'altre gli si fanno attorno, e ov'è la bellezza dei volti? con moti
curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto
ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico
li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una
lontananza. Ma la terra è presente . Tritone e le Nereidi.
Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia
di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete,
ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ?
forse Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise,
attendendolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi
conoscete, credo o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato
sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che
per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. So di chi parli:
suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di aspetto.
Trit. Egli uccise il ketos. If. E perché, o Tritone ? non
questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. Vi dirò tutto,
come avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re
quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. Come, o
Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la via è difficile.
Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso l'aria : Atena lo
aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimoravano, esse
dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il capo a Medusa e scapparsene
a volo. If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o
pure chi le guardi, non vedrà altro dopo di esse. Trit. Atena
col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi
ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di
Medusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli
aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine,
recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle
si destassero volò via. Come poi giunse a questa spiaggia
d'Etiopia, già basso su la terra volando scorge Andromeda esposta
sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !, sciolta le
chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima, compassionando la sorte
di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da
amore (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise di
soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso come per divorar
Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra, e brandendo la falce, con una
mano lo colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:
la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra, quante avevan
veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della vergine, e porgendole la
mano la sostenne mentre scendeva in punta de' piedi dalla rupe
sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la
condurrà in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un
marito, e non comune. Ir. Io già dell'avvenuto non mi sdegno;
che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava
vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. Ma in tal modo, come
madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. Non
rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarlò un po'
più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la
figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra è
presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini mentali
degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia
finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da principio,
annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più semplice, un
agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : è il primo ingresso dello
stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a una
regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via è difficile „. Ragionan
bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova maraviglia. Or egli
aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la guardava?! „.
L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può continuar
ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso,
improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu
" preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava
salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in
esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera
l'artificio del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la
salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed
è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il
dono delle ali è rilevato come stromento mitopeico perché Perseo potesse
recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefìciato ad
eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva
attribuire Dunque, è deduzione implicita, ci fu una interessata
volontà, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e contro
Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che imaginò taluno.
Passo a passo i colpi son recati, fin che la leggenda non ha più una base
di fede, si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si
appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura:
però che il pensiero da cui sono animate è, non cosi ristretto da
non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime
parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di
cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per
Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura
; né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara
con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi
la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, né può
sussistere adesso. La fiaba è stata svèlta da l'anima, e respinta al di
fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il
cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune
dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue
Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda.
Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa
se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso
Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica è tuttavia
indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito
ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non
illumina né pure con la luce della sfera più alta le tenebre deir ormai
superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide
era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo
spunto, donde il raccónto si diparte : le è anzi asservito il racconto
medesimo, il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo
scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di accoglienza fra i Latini .
Si che qui si misura, con precisa esattezza, il regresso dell'efficacia
leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per
ciò si connettano con il tragico che, forse, non gli aveva trovato luogo nel
drama, non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica
il silenzio: che Fineo non divenne astro né ebbe attinenze col ketos. Per
contro è notevole che non essi, come non Apollodoro né Ovidio,
accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel
momento del culminante interesse pel mito, scompare di
Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen) II
2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le
posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo
sviluppo di questa leggenda, sta adunque una singolare originalità ch'è
in contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi.
E una singolare ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa
diretta. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille
metri sul mare, non lungi a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di
Pergo era nella antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei
(2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le
pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei
fiumi, la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one
figlia Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap.
II, di cui nelle note successive si citano i §§. La descrizione
d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien
(Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi
avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui
talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini;
tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa
da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la
famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine:
però elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio
e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere
l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione
l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di
Verre, l'origine antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;
ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E l'antichità
asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto . Contrasto certo
non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense si guardava,
come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che le arcane
leggende dei primordii rendevano più intimo e sentito. Né la
memoria secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele
s'ingannavano. Da poi che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando
e molte trasformazioni che s'ignoravano allora, riesce a dare un più
saldo fondamento alla credenza di quei Siciliani, un contenuto
meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcilmente serbi la grata bellezza
poetica di cui insieme erano pregnanti religione e mito. CicER. in Verr.
IV 106. IL MITO SICULO. È probabile che gli avvenimenti
seguissero cosi . Enna, nella sua forte positura montana, è
da presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla
tribù dei Siculi ebbero a cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel
sec. IX avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal
fide per l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché
fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun
tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo che, non senza
influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a
cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com'è ovvio,
prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina
che n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavventura, dagli scavi
archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle più
vetuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturità mentale, su
gli dèi, su le fiabe, di questa tribù in quell'epoca. Ci manca,
sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una
caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio
e nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri l'analogia; ma
questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute.
Per ciò la congettura ancor che acuta lascia intrawedere, se cauta,
poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger
il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto familiare, erano stati il
tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso
le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e
costituite col cessar del nomadismo, avevano per sé più e più secoli di
trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e
importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e
magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinità
della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinità delle tenebre e di quella
morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso
il profondo valore e la non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate
viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.
Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva
formazione, conduce a origini tra sé lontane. Il naturismo che venera
l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;
l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del
seme ; il più maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta
la terra una divinità sola o di tutte le biade: ci riassumono, nei loro
gradi più recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia
sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori
accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto. È un'ascesa dalla
pianta al dio, dalla terra al cielo : è un germogliare della credenza su
da quel suolo cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel
venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che è morto dopo aver in vita
esercitata la suprema autorità su le mogli e i figli ; ed è morto
lasciando nella dimora le cose tutte che già furono segnate del suo
possesso e cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e
gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ultimo alito la
compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal
vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta con la
scomparsa un troppo profondo evento, j)erché l'ombra di lui non debba
venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E
quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle
diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella simiglianza
della lor figura, la divinità del Padre è prossima a precisarsi.
Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il
matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono
però sensi d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti tra i
diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra
l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro;
e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed è processo
comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo
precedono; ma è comparativamente vetusto se si pensa alla non piccola
serie di alterazioni cui già è andato soggetto in poemi antichi come
gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli
iddii agresti su dalla natura è diversa da quella dei A.
Febeabino, Kalypso. 8 familiari su dalla morte, non mancano,
tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini
influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente, è ben noto. Ma nel caso
speciale anche più efficace influenza vi doveva essere. Però che la
terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i
figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son
la ricchezza; perché sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e
delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha
gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto,
perché protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana
dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami
gli agricoltori. Antica accanto a
questa, ma anche maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la
nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla
terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,
se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la
rinnovazione perenne di quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza
più seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide,
Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco „: e intende
il talamo maritale . E o può sembrare un antropomorfismo capovolto : una
figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realtà,
deve più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303,
Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale
assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto
umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, è padre della pioggia, e i campi
hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa
appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente, sembra
tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla
importanza, tanto della generazione umana, quanto della produzione
terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare
semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a
bastanza involuto. E ad ogni modo, come principio ad effetto, forma
anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a sé costituiti, come gli
uomini, in famiglie composte da genitori e figli, da parenti ed
affini. Or come per un lato le divinità dei campi e della
famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi
della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la
terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per
lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici gli alberi, e ve le
abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è abbattere una
quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra
sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del
pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che
inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso, di
cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della spiga, ad esempio,
matura e granita, che s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e
ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e
ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco
l'attinenza fra i due, diversi. Quanto però sono facili
rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché
l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il
peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste reggono,
per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende della terra
ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa eran assai probabilmente giunti i Siculi
quando in Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti
i principali stami di questo incipiente tessuto sacro, nel mito appunto
conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi su la
religione degl’arii e sull’antichissima romana, in SANCTIS (si veda), STORIA
DEI ROMANI I (Torino) capp. Ili e
Vili. è ormai ricca la mente, le fiabe che possono esserne
conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza di
taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le
vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o
isterilito dalla siccità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi
fili gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto
il peso della spiga e l'abbondante capellatura delle arèste ; la
seminagione e il riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla
leggenda, si prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si
attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle
tenebre. Ma principalissimo è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il
miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme,
spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito
ennense venne ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui
avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in
una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza
delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribuì. Disse il lamento della Madre
biada cui la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento delle
madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve che circondavano il
lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito
il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella probabilità
storica la congettura può affermare della originaria saga sicula. Però
che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta,
più tardi, da nuove vicende, e non fermata, quel che più importa, in
canti che il pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto
; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni;
ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti
e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano
alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti,
antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o
tutto il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione
era celata tra veli mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre.
E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro consimile
mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e
colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la leggenda
furono, secondo è verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono
tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono
strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo
ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che
quando l'arte, almeno nella più vetusta espressione a noi pervenuta,
elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto uno
sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna.
Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale è da attribuire, sembra, al secolo
VII avanti l'èra , la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare
le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la
periodicità costante con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto
si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno
sguardo più ampio, oltre il singolo momento. La figlia pertanto è
tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto però cbe abbia ad
intervalli determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando
con vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La
ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nell'essersi ormai consumato tra la
rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel
simbolo di questo, il gustato frutto del melograno. Oltre poi a
rivelare cotesta sostanziale maturità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche
divenuta più ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo
è da scorgersi nella presenza di Ecate " bendata di luce,, e
di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali, giusta l'Inno,
rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni
di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la
Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa
chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen
and Sikes The homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. i pili
arcaici personaggi entrati su la scena accanto ai protagonisti : però che essi
fossero i più adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „
su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni
del cielo. Né l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se
bene non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno
di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa
perché risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con
sicurezza una teologia e una teogonia. Ciascun Dio è figlio di un certo, padre
di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo.
Le due principali Dee del racconto, le divinità agresti, hanno assunto definito
aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha
profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : è
delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è tolta X3er
tradimento ; è d'altra parte padrona della vita degli uomini, che può
prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta
in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virtù
germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia, vivente d'una
vita che par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è
vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori
profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì seme che i
primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è bella, è ingenua,
e le vergini Oceanine le fanno corteo. Presso agli agresti, con
uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti
da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra. L'infero Nume
rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la
vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non
gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e
i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. Dal cielo le potenze luminose,
gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto
in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a
Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio;
Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la
recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si
stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei
campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra :
Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli
che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche
non potevano congiungersi in parentela, perché s'elidevano l'una con l'altra,
Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E
poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo,
il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si
ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati,
e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui
tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e
religiosa che ne scaturì tenne delle due onde fu composta, ma risultò
armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e
austerità fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque
ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben più ricca che
la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi e
raccolti in gruppo organico. Vi apportò in oltre la sua arte che addusse
la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non
senza raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno complessiva,
del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una
creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe
potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del
vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la
fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla
allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di
espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro
ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra
la tela dei secoli lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in
un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito
siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle
creature mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo
racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome del
rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi
e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „,
assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del
Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie:
attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando,
l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo
di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia
la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalità
; onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra
cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virtù
sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta
Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo.
Demofonte non sarà libero di morte. Ma per compenso la Madre delle
biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e
Polissèno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto
che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque
indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi
nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso
etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che
quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e soffio
d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito
ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno
della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea
agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e
di episodii, rivestendo un venerando colore di antichità sacra. Ma anche
per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra
attenzione . All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale che
importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora è
rapita da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del grano, come si
semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un
temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano
trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo
sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per
fiera fame periva „ (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona
alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno „
ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in
Eleusi è contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione
dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato il
contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra è la
biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere culmo, è
giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo,
scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus
giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi
agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanità siasi trasfuso nel racconto a
velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto; si che la
leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo
protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che,
per essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda
concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto,
esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade è causa,
oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli
uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo :
nome che ricorre già nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo
re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro
che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte
letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con
l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro
definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la
triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale,
dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma
acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora diviene, meglio
che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico,
cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la
terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza
maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi
sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verità non avrebbe più modo
di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di
Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è acconcia a
uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta
permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi subì, è vero, non
pochie, sviluppando a sé tutta la seconda parte della leggenda, la
equilibrò con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma
non fu pago a tanto. Inserì nella sua materia anche la nobile fede
di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia
ultima di Perseo non priva di malignità né di un grossolano sale.
Se bene già questa non era una giunta che compiesse, si più tosto una
intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche
le vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo
nella più stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pletorico : non
diverso, si bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su
l'inizio e su la fine, senza garbo né acume, tracce d' umane passioni.
Della cui banale mediocrità s' intende quindi il motivo : fu necessario
all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano
uniforme dello sfondo. Sola, or qui or là, la perizia tecnica foggia il
verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un
ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e
rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci
apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialità
psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo è nella sua radice.
Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del mito, né
ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe errato
: il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa
gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse
la tentò con approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora
piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora
l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in
parte. Mai però, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto
meno amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici
sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma
ancora. In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove. Un
secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è molto lungi. Ha nel trattare il
mito una grazia nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo dei
Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan
celebrando ; il ketos è a pena morto. In non si sa qual recesso del
mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé quattro ciance. È un mormorio di
donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno dà le notizie ;
l'altre gli si fanno attorno, e ov'è la bellezza dei volti? con moti
curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto
ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' più recenti fatti, e l'amico
li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una
lontananza. Ma la terra è presente. Tritone e le Nereidi.
Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia
di Cefeo, Andromeda, non solo non fé' danno alla fanciulla come credete,
ma fu ucciso già esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ? forse
Cefeo, esposta come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo
in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi conoscete, credo
o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare
nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione
di loro voi avete salvato. Ifian. So di chi parli: suppongo che ora
sia un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. Egli uccise
il ketos. If. E perché, o Tritone ? non questo compenso per
vero egli ci doveva. Trit. Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu
mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ; dopo poi che fu
pervenuto in Libia... If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva
compagni? che altrimenti la via è difficile. Testo del Jacobitz (Lipsia,
Teubner). Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito
d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimoravano, esse dormivano, ritengo,
ed egli potè tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo.
If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o pure chi le
guardi, non vedrà altro dopo di esse. Trit. Atena col porgli
innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda
e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su lo scudo
risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la
sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce
nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero volò
via. Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già basso
su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe,
infissavi, bellissima, o dèi !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i
seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la
causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che
uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos
avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli
di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli
mostrò la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida
in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i
vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre
scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le
nozze nelle case di Cefeo e la condurrà in Argo : cosi che in luogo della
morte ella trovò un marito, e non comune. Ir. Io già
dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia
se la madre menava vanto e riteneva d'esser più bella ? DoB. Ma
in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua.
If. Non rammentiamo più tali cose, o Doride, se una donna barbara
ciarlò un po' più del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata
per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la
terra è presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, più, nei confini
mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con
perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era più
semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : è il primo ingresso
dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a
una regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via è
difficile „. Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova
maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la
guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da quel momento Tritone può
continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso,
improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perché Perseo fu
" preso da amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava
salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in
esso quella non è causa sufficiente e appropriata ; bensì smaschera
l'artificio del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la
salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed
è la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie di Nereo. Il
dono delle ali è rilevato come stromento mitopeico perché Perseo potesse
recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefìciato ad
eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva
attribuire Dunque, è deduzione implicita, ci fu una interessata
volontà, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e contro
Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che imaginò taluno.
Passo a passo i colpi son recati, fin che la leggenda non ha più una base
di fede, si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si
appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura:
però che il pensiero da cui sono animate è, non cosi ristretto da
non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime
parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di
cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per
Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura
; né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara
con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi
la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, né può
sussistere adesso. La fiaba è stata svèlta da l'anima, e respinta al di
fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il
cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune
dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue
Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da
Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso
(non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello
stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica è tuttavia
indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito
ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non
illumina né pure con la luce della sfera più alta le tenebre deir ormai
superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide
era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo
spunto, donde il raccónto si diparte : le è anzi asservito il racconto
medesimo, il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo
scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di accoglienza fra i Latini .
Si che qui si misura, con precisa esattezza, il regresso dell'efficacia
leggendaria. Né Luciano né Manilio accennano a Fineo. Se per
ciò si connettano con il tragico che, forse, non gli aveva trovato luogo nel
drama, non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica
il silenzio: che Fineo non divenne astro né ebbe attinenze col ketos. Per
contro è notevole che non essi, come non Apollodoro né Ovidio,
accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel
momento del culminante interesse pel mito, scompare di Cfr. M.
ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28
e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori
vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di
questa leggenda, sta adunque una singolare originalità ch'è in
contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi. E
una singolare ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa
diretta. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri
sul mare, non lungi a un lago cui oggi è il nome di Pergusa e di Pergo
era nella antichità, sopra una larga groppa dei monti Erei (2),
onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le
pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei
fiumi, la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one
figlia Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap.
II, di cui nelle note successive si citano i §§. (2) La
descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in
Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro,
vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,
cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini;
tutte fin da Panòrmo da Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa
da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la
famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine:
però elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo del matrimonio
e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane
in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano
vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine
antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'età
vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E l'antichità asseriva
riconosciuta da ogni popolo senza contrasto . Contrasto certo non
sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a
reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che le arcane leggende
dei primordii rendevano più intimo e sentito. Né la memoria
secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da
poi che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte
trasformazioni che s'ignoravano allora, riesce a dare un più saldo
fondamento alla credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio
ampio al loro ricordo; se bene diffìcilmente serbi la grata bellezza poetica di
cui insieme erano pregnanti religione e mito. CICERONE (si veda) in Verr.
IV 106. È probabile che gli avvenimenti seguissero cosi .
Enna, nella sua forte positura montana, è da presumere fosse uno
dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a
cercar rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX avanti
l'èra. Le coste, più agevole sede, eran divenute mal fide per
l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perché fosse
riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo
spostato verso l'interno il processo evolutivo che, non senza influssi
esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età eneolitica. E sulle
vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei
Siculi ; tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche il
pensiero religioso, con la leggenda divina che n'è, fra gli Arii, foggia
consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai
meglio informati su gli oggetti delle più vetuste necropoli e su gli stili
loro, che non su la maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di
questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia
testimonianza atta a fermare una caratteristica dell'intelletto siculo
antichissimo la quale valga a contraddistinguerne, p. es., i miti da
quelli dei popoli affini nel Lazio e nella Grrecia. L'affinità concede
bensì volontieri l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a
linee sommarie e incompiute. Per ciò la congettura ancor che acuta
lascia (Ij Cfr. §§ 1 e III. 112 III. -
intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme
ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto
familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi
recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia,
vie meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano per
sé più e più secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la
loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita
presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le
medesime divinità della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinità
delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer
non averne compreso il profondo valore e la non palese bellezza,
circondava di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i
corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a
ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra sé
lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la
zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo
spirito del sasso e la potenza del seme ; il più maturo pensiero che, in fine,
riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinità sola o di tutte
le biade: ci riassumono, nei loro gradi più recisi, e nelle loro
sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume agreste,
il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina
intorno al suo proprio culto. È un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al
cielo : è un germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama.
Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre,
che è morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorità su le
mogli e i figli ; ed è morto lasciando nella dimora le cose tutte che già
furono segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le
vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed è morto spezzando con
l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i
suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta
con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché l'ombra di lui
non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto.
E quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri
delle diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella
simiglianza della lor figura, la divinità del Padre è prossima a
precisarsi. Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove
anche il matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della
Figlia; le quali presuppongono però sensi d'affetto di gran lunga più
svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri della famiglia. Cosi
l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di luce: si
scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua
parte la vita familiare. Ed è processo comparativamente recente, se si
pensa all'istituto e agli affetti che lo precedono; ma è comparativamente
vetusto se si pensa alla non piccola serie di alterazioni cui già è
andato soggetto in poemi antichi come gli omerici. Ma, se la
formazione originaria degli iddii agresti su dalla natura è diversa da
quella dei familiari su dalla morte, non mancano, tra le due,
attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno
su l'altro, vicendevolmente, è ben noto. Ma nel caso speciale anche più
efficace influenza vi doveva essere. Però che la terra sola faccia (se fecondata
dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, la famiglia, in somma. Il
campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza; perché sono il
nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini
e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che
s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perché protegga i suoi che
lo placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la
rubigine, e provveder che carestia non affami gli agricoltori. Antica
accanto a questa, ma anche maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e
la nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in
seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i
primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la
conservazione e la rinnovazione perenne di quel mistero ch'è la vita.
" Schiatta senza più seme „ è in Omero la schiatta che muore.
Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il
tuo solco „: e intende il talamo maritale . E o può sembrare un
antropomorfismo capovolto : una figurazione dell'uomo a simiglianza della
terra. Se non che, in realtà, deve più tosto dirsi una tra le forme
dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno
naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto
dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, è padre della pioggia, e i
campi hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le
forme questa appare certo antichissima: perché, anche psicologicamente,
sembra tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e
dalla importanza, tanto della generazione umana, quanto della produzione
terrestre : e perché è contraddistinta da una elementare
semplicità, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a
bastanza involuto. E ad ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che
figura gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da
genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato
le divinità dei campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i
lor nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda richiamano
al pensiero quelli che sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra
sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici
gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro è
abbattere una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra
i fiumi; da la terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano
origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del
suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un
mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la
vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s'è indugiata
prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La
Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi
forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto
però sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondità
sotterranea, tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo. La
luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella
vegetazione la loro secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la
crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i
frutti. Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo perché l'aria
l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso
per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,
l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in
strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste reggono,
per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende della terra
ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa eran assai probabilmente giunti i Siculi
quando in Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti
i principali stami di questo incipiente tessuto sacro, nel mito appunto
conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi
su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De
Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili. è ormai
ricca la mente, le fiabe che possono esserne conteste sono molteplici, e solo
il caso o la preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a
far prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito
dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccità o
squassato dai vènti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il
bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga
e l'abbondante capellatura delle arèste ; la seminagione e il riposo
invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a
foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno
o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo
è senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la
pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe
matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne
ad elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui avevan parte le
nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiamò in una delle
forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza delle
sotteiTanee ombre, e il ratto le attribuì. Disse il lamento della Madre biada
cui la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento delle madri
umane. Alla scena disegnò lo sfondo delle selve che circondavano il lago
di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio
inferno. A questo poco si limita quel che nella probabilità storica
la congettura può affermare della originaria saga sicula. Però che troppo
esigue tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più tardi, da
nuove vicende, e non fermata, quel che più importa, in canti che il
pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i
sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col
suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo
Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun
particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo;
quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di più
ch'è vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli
mistici. Oggi è, e resterà, nelle tenebre. n. Il mito
greco. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro
consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato
ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la
leggenda furono, secondo è verisimile, a un di presso quei medesimi che
si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due
saghe sono strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori
dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro.
Se non che quando l'arte, almeno nella più vetusta espressione a
noi pervenuta, elabora il mito presso gli Eliòni, questo ha già
raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente
nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale è da
attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'èra , la leggenda si
preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante l'inverno, ma
ancbe di giustificar la periodicità costante con cui la seminagione
la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma
il fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il singolo momento. La
figlia pertanto è tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto
però cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare nel grembo
della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi nel sole e
quattro nelle tenebre. La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio,
nell'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il
matrimonio : e, più rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto
del melograno. Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale maturità
mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta più ricca la leggenda. Un primo
a bastanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi nella presenza di
Ecate " bendata di luce,, e di Elios " chdaro figlio di
Iperione,. ; i quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle
biade il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa
ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le
notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e
vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes The homeric
hymns (London LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici personaggi
entrati su la scena accanto ai protagonisti : però che essi fossero i più
adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „ su la " Figlia
„ perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del cielo. Né
l'originario lor valore è al tutto obliterato nel carme; se bene
non vi permanga senza alterazione. Di più, altro segno di
compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché
risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una
teologia e una teogonia. Ciascun Dio è figlio di un certo, padre di un
altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo. Le
due principali Dee del racconto, le divinità agresti, hanno assunto definito
aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha
profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : è
delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia è tolta X3er
tradimento ; è d'altra parte padrona della vita degli uomini, che può
prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta
in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virtù
germinativa. La Figlia, in greco " Cora „, spazia, vivente d'una
vita che par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è
vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori
profumi e prati. Il suo valore naturalistico dì seme che i
primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : è dea, è bella, è ingenua,
e le vergini Oceanine le fanno corteo. Presso agli agresti, con
uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti
da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra . L'infero Nume
rapitore è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la
vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non
gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e
i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo
cocchio è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede
Persèfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e
truce fra le xDallide larve. Dal cielo le potenze luminose,
gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto
in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a
Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio;
Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la
recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si
stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei
campi con la pioggia di cui è padre, appar fratello di Demetra :
Zeus, risplendente face della terra, è germano di Ade, come quegli
che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche
non potevano congiungersi in parentela, perché s'elidevano l'una con l'altra,
Cora e Persèfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E
poiché il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo,
il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si
ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati,
e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia
mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e religiosa che
ne scaturì tenne delle due onde fu composta, ma risultò armonica ed ebbe
riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e austerità fra i
morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette dalla
tradizione una trama di leggenda ben più ricca che la povera da noi
ricostruita per Enna ; i^ersonaggi più precisi e raccolti in gruppo
organico. Vi apportò in oltre la sua arte che addusse la saga a
nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non senza
raccoglimento religioso né senza coscienza, al meno complessiva, del
suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una
creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe
potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del
vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la
fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla
allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di
espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro
ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra
la tela dei secoli lontanissimi è, più che in ogni altro senso, in
un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito
siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle
creature mitiche. Intercalato però nel mito è un lungo
racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore,
in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d
sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo
l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo,
Còleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie: attratte
anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando, l'invitano
nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo di recente
nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la Dea
diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo Demofònte. Al quale
anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalità ; onde di
notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non combusto,
si accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana. Se non che
Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne
impaura, urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà libero
di morte. Ma per compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai
principi eleusini! Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti
del suo culto. A spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con
specialissima pompa si rendeva a Demetra è dunque indirizzata tutta
questa ampia parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei
particolari costituisce dunque un complesso etiologico ben distinto dal
complesso mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava
quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e Yv.
91-304. soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e
imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui,
nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla
Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di
personaggi e di episodii, rivestendo un venerando colore di antichità
sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno
attraggono la nostra attenzione . All'uno e all'altre è sostrato un'idea
r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel
momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli uomini conoscono già l'uso del
grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento
anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in
vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco
orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta
per fiera fame periva „ (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona
alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno „
ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in
Eleusi è contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione
dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato il
contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra è la
biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere culmo, è
giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo,
scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus
giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi
agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanità siasi trasfuso nel racconto a
velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto; si che la
leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo
protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che,
per essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica. Questa seconda
concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto,
esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade è causa,
oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli
uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo :
nome che ricorre già nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo
re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro
che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte
letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con
l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro
definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la
triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale,
dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma
acquista un valore riflesso : perché il rapimento di Cora diviene, meglio
che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico,
cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la
terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza
maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi
sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verità non avrebbe più modo
di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di
Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch'è acconcia a
uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta
permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi subì, è vero, non
pochimutamenti, né tutti soltanto di particolari; giacché, dovunque a
Demetra e Cora fosse culto, divenne costume lecito alterare la saga per
adattarla alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare di
coteste piccole invenzioni essa si ergeva con l'alto suo fusto, destinata
a varcare i confini di un Comune per attingere gli estremi del
mondo colto. Unica può starle a paro, per intima vìgoria di concepimento,
e per potenza espansiva, la favola composta nell'ambito di quel
moto filosofico e religioso onde il pensiero greco, e specie
nell'Attica, fu travagliato al tempo dei Pisistratidi, moto che
conosciamo col termine di " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee
e Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo intreccio di casi assunse il
mito di Cora fra gli Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci
importano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci sul vetusto
nucleo leggendario dei Siculi in Enna. Però che tutt'e tre, la proto
e neoattica e l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche con
la siciliana, tenace per antichità, infantile per incompiutezza. E
dall'incontro scaturiva un lungo moto di storia.
in. Il mito siracusano. I Siculi, che si erano ritirati su i monti
dell'interno perché incapaci di resistere ai predoni dell'Oriente venuti
a loro traverso i mari, e che in Enna avevan con più insistenza fissato
il lor mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH secolo le coste
dell'isola popolarsi di Greci, sonare dei nuovi linguaggi e dell'armi
nnove, ornarsi di sedi le quali si trasformavano via via, divenendo
sempre più salde più ampie più belle, in città ricche. E gli EUeni in
quel secolo e nel VII e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il
terreno, o sgombro facendolo con distruggere e sottoporre gl'indigeni,
s'insediarono nella teri'a siciliana con tutto agio, fino a giungere in
breve a fiore civile intellettuale e artistico grandissimo in paragone di
quelli, e a distendere sn tutte le portuose spiagge dell' isola un
incancellabile smalto greco . Dèi miti templi cerimonie della loro mentalità
religiosa si radicano ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento
fuor dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata vigoria e
bellezza. Certo la lor somma di progresso spirituale e Ampio
racconto su la colonizzazione greca dell'Occidente, in HoLM Storia della
Sicilia (trad. ital.) voi. I (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of
Sicihj voi. I (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna
Grecia voi. I (Torino 1894). di culto civico, accopj)iandosi con la
congenita irrequieta genialità e l'inconculcabile aspirazione ad
accrescere il possesso, doveva spingerli presto a violare i segreti delle
regioni più interne e a portarvi il soffio della propria opera contro le
resistenze dei Siculi, non restii ad evolversi si a sottomettersi. E forse,
traverso anche i commerci di scambio, a Enna ebbero a pervenire folate di
vento greco fin dal secolo VI. Eorse . Ma quante e quali nessuno direbbe
; perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né fino ad ora gli
scavi archeologici e' illuminano alcun poco. La palese
influenza dei Grreci su Enna comincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa.
Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo alleato Terone tiranno di
Agrigento, sconfìtti ad Imera circa il 480 a. C. gli eserciti
cartaginesi di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana e ne fu
assorbita. Qual resistenza politica opponesse non importa qui sapere. Senza
dubbio oppose una resistenza riguardo al suo culto e al suo mito,
che non poterono venir eliminati, ma rispettati dovettero essere. La
risultante di queste due forze (la siracusana che assorbiva e la
ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale impropriamente si
direbbe contaminata, perché è più tosto un compromesso di politica
religiosa, una formula felice per conciliare le pretese o, se piace, i
diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu un institutore e un
propagatore zelante del culto delle greche iddie Demetra e Cora
(-Persefone). Di queste il culto aveva, come fu visto poc' anzi, a base
il mito del rapimento. E a quel modo che nelr Inno a Demetra la favola
naturalistica, non spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien
ad arte connessa con un preciso e determinato centro religioso, Eleusi;
cosi un' analoga tendenza doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro
sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi
dei lor proprii luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e
a applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le cerimonie sacre
vigenti nella loro città. Era un moto religioso, tanto spontaneo e
consueto fra Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la
preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce di fronte a un certo
nume. Di qui nascono difatti sovente contese tra regioni ; in particolare
se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto della maggior
fecondità d'un suolo a paragone d'un altro. Né pare che Siracusa
derogasse alla generale tendenza: però che ci sia rimasto indizio, se
bene esiguo, d' una sua leggenda la quale vi s'informa per l'appunto.
^q\V Epitafìo di Bione ch'è del
sec. I a. C. non che in altri testi il ratto di Cora è localizzato su
l'Etna ; onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito, come da una
delle bocche dell'Erebo e del sotterraneo fuoco. Che se accanto a questo
parti ci) V. 133. A. Ferrabino, Kalypao.
colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infernale si apre la via del
ritorno presso lo stagno di Ciane ; si ottengono i due estremi
punti topografici di una saga che adatta il vecchio mito greco
agl'interessi di Siracusa: perché Ciane è una palude nelle vicinanze
della città ; e sulla zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei
Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nell'intenzioni. Ma come tale
tentativo mitico prettamente libero da Enna dimostra qual fosse l'impulso
originario del culto instituito da Gelone ; cosi la penombra in cui permane e
la caducità che lo contraddistingue provano quanto diffìcile fosse serbar
nella leggenda di Demetra l'indipendenza contro i diritti di prima
occupante che competevano alla fiaba dei Siculi. La quale
s'imponeva difatti tanto più quanto maggiormente s' era, traverso gli anni
molti, radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati su i monti,
e quanto era più stretta, nel nucleo essenziale per lo meno, la sua
simiglianza con il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo potevasi
rivestir di fogge e definire con nomi greci ; non asportare dal lago :
ove del resto la feracità del luogo e la credenza, anche greca, che
dai laghi o da vicine grotte sorgessero sovente i numi sotterranei, ne
difendevan la vita. E difatti il ratto rimase. I Siracusani diedero
alla divinità delle biade il nome di Demetra; ne chiamaron la figlia col
duplice termine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello V. sotto pag.
131. di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto l'episodio
con quei pennelli che gli Elleni ben sapevano, e con quei particolari che
eran divenuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai diritti di precedenza.
Nel resto si valsero del campo libero : la palude siracusana di Ciane fu
l'apertura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi aveva da Enna
trascinata Cora-Persefone. A Siracusa, sembra, si poneva pure 1' "
anagoge „ di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi cavalli. E noi non
sappiamo molto di più; ma è facile che altri particolari della leggenda
si connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacerdoti. Suggello poi di
questo compromesso religioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione
caratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto di Cora. Questa
avrebbe avuto compagne durante la raccolta dei fiori (1' " antologia „),
oltre le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee vergini. Ora
Artemide grandemente importava nel culto siracusano ; Atena in quello di
Imera, città a Siracusa amica durante le guerre del V secolo specie
contro Atene. Per ciò in uno dei suoi rami la leggenda, la quale ancor
qui si vede costretta a riconoscere che a Demetra doveva esser
spettata la signoria di Enna, attribuisce al meno quella di Imera ad Atena,
di Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto questi due luoghi
per obliqua via a lato di Enna e, quel che importava, al medesimo
livello. Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esigenze
dell'antichissima saga ennense e le pretese della pili recentemente
sopraggiunta saga siracusana, i due centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare
a sé la figura e gli uffici di Trittolemo. Non poteva esservi dubbio. A
Enna Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per vaghezza e
profumo ; presso Ciane Cora scende sotterra e in Siracusa risale alla
luce; Demetra e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico la
proteggono; Atena ed Artemide, compagne alla violata, signoreggiano due
città siciliane ; il suolo è opulento di biade come non altrove :
certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde il primo seme, e il primo
culmo spuntò da zolla sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,
diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del grano. Bisognava dunque,
da che respinger Trittolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa ed
Enna. E l'adattamento avvenne non senza garbo . Si concedette che un
eleusinio, Trittolemo, avesse avuto il favore di Demetra e comunicato alle
terre il dono preziosissimo; si concedette che ciò accadesse in occasione del
ratto di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto il racconto.
Ma, gli si premise, già dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la
Sicilia produceva grano, prediletta alle due Dee per la sua
fertilità e scelta a loro dimora. Quindi, si conchiuse, Trittolemo fu primo
rispetto agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una
separazione dunque della Sicilia dal restante paese, onde il ratto
divenne il momento propizio per diffondere al mondo il privilegio siculo. Che
era non poco orgoglio. Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti
senz'eccezione gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che
un poeta potesse far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Siracusa
offrivano dicevole sfondo, il racconto mitico aveva i suoi punti topografici
fìssi e armonicamente collegati ; il culto preparava salda e e vasta base
per un'accorta serie di invenzioni etiologiche ; gli stessi orgogli delle
singole città s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la
stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche particolare non privo di
attraenza. Né mancarono forse i cantori che la materia non indegnamente
lusingasse. E pure a noi non rimane se non il testo, povero non chiaro e
senza vigoria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo. Perché tutto
vivace si senta il contrasto fra la potenzialità artistica del mito e la
mancata espressione di esso, eh' è a un tempo mancata intuizione,
piace qui tradurre dalla Biblioteca istorica , lasciando il racconto nel
suo disordinato svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola
appresero dai loro progenitori la fama, tramandatasi traverso il
tempo nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; e che
le predette Dee in questa isola primamente apparvero ; e che questa per prima
produsse il fi-utto del grano a cagione della feracità del suolo... (2).
A riprova Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens
in Phi lologische Untersuchungen, XIII (1892) pag. 103 sgg.
(2) DioDORo V 2, 3. 4 passim. adducono il ratto
di Cora che avvenne in quest'isola e che mostra chiarissimamente come in
questa le Dee soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.
Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne' prati intorno ad
Enna. Questo luogo è vicino alla città, per viole insigne e altri fiori
d'ogni genere, e degno di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si
narra che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottundendosi loro la
naturai virtù. È il prato predetto piano e d'ogni parte ben irriguo; ai
lati però scosceso e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere
nel mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'ombelico della
Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a questi, paludi, e un grande speco
con apertura sotterranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano
che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le viole e gli altri
fiori colà odoranti rimangon fioriti miracolosamente per l'intero anno e
rendono lo spettacolo pittoresco e gradito. Favoleggiano ancora che
insieme con Cora crescessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che
insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune il peplo al padre
Zeus. Per l'intimità e la conversazione reciproca si compiacquero specialmente
di quest'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle parti di
Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a lei la città e il
territorio chiamato fino ad oggi Atenèo : Artemide ebbe in Siracusa dagli
Iddii l'isola che per lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e,
parimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i prati intorno a
Enna. Favoleggiano poi che Plutone, compiuto il ratto, recò Cora sul
cocchio presso Siracusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la
rapita nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane. Dopo il
ratto di Cora favoleggiano che Demetra, non potendo ritrovare la figlia,
accese fiaccole nei crateri dell'Etna, si recò in molte parti della
terra abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uomini i quali
meglio l'accolsero. Più benignamente avendola accolta gli Ateniesi, a essi
primi dopo i Sicelioti donò il frutto del grano ; pel che questo popolo
più d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi
misteri eleusinii. Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea ne
viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri, l'edifìcio esiste. Né
mancano (che noi tralasciammo per brevità) cenni etiologici alle feste
sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il difetto si tradisce
ogni volta che Diodoro ripete, ed è spesso, quel suo " favoleggiano
„. Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che racconta. Modello insigne,
questo, del come possano mascelle di erudito maciullare e rugumare
il fiore della saga. Il mito contaminato. Il mito siracusano
di Demetra e Cora, imperniato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso dei
due centri religiosi, venne accolto nell'ambiente poetico di Alessandria. E fu
questo l'i- DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione. nizio
d'una sua vita nuova. In Alessandria di fatti, oltre alla forma siracusana
della favola, erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma
dell' Inno omerico, insieme con la variante di Trittolemo inventor
dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove cotesti elementi,
parte simili, parte dissimili, mossi da origini diverse, avevan da
commettersi l'un l'altro e penetrarsi. E non pur cotesti elementi
precipui ; bensì anche alcuni altri secondarii, che per varie ragioni
fossero riusciti a trascendere i limiti della mediocrità espressiva e della
ristrettezza geografica, per intrudersi nella letteratura tradizionale.
La mitopeja orfica in ispecie aveva trovato accoglienza favorevole nel
colto ambiente alessandrino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le
differenti e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più antichi
non erano se non una forma, fra l'altre, dell'intuizione naturalistica, e
che il gusto posteriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La storia
per tanto del mito siculo fuor di Sicilia è la storia della sua seconda
immersione nel flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia
del successivo accogliersi intorno ad esso di giunte e di innovazioni via
via più complesse. Si sono smarrite per noi parecchie fra
l'opere dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sarebbe stato
trasparente: dei maggiori alessandrini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta
traccia Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,
Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133). e tal volta quasi copia in
autori romani. Con questo valore, ci appare un ampio tratto del
quinto delle Metamorfosi ovidiane , in cui appunto si rivela la
contaminazione fra diverse correnti leggendarie. Vige
l'indirizzo siracusano, senza dubbio. Anzi vi si manifesta con talun
nuovo particolare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una tradizione
tutt'affatto sicula, che abbandonarsi a una variazion fantastica, quando
nel luogo di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca affannosa
e dolorante di Cora, il primo indizio del ratto dalla fonte Ciane ; e in
luogo di Elios introduce la ninfa del siracusano lago di Aretusa,
nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti. Se non che questi elementi
siciliani, che al pari di Enna pajono saldati con il concetto
duplice di una Sicilia esperta del grano prima del ratto e di una
umanità esperta sol dopo (si ricordi Timeo), qui invece sono trasfusi in
uno schema diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se non
tutta per buona parte, già ha avuto il dono del seme ; e Cerere del suo
dolore si vendica col privare gli uomini di aratri di bovi di spighe
: dunque, come nel mito protoattico. Ma, come nel neoattico,
Trittolemo, dopo il verdetto di Giove, sparge per segno di pace la
semenza. E i due miti si conciliano nel pensiero che uguale bisogno del
nuovo dono ha cosi la zolla mai colta come quella di cui per la vendetta
divina fu pretermessa la coltura. In tale contaminazione
Vv. 341-661. Cfr. § IV. dei due miti protoattico e neoattico la
saga siciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre la propria terra
fra più altre, prima nel godere le biade, i)oi nel riaverle. Resta il
vanto di fertilità singolare e di fedeltà a Demetra. D'altra parte
il poeta asseconda, cosi per l'attitudine sua mentale come per la natura
del suo tema, con particolar compiacenza l'impulso letterario delle
metamorfosi. Sembra persino che ogni vicenda del mito in tanto gì'
importi in quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti di
forme. Ciane, ad esempio, che solo perché palude era sembrata luogo
dicevole alla scomparsa di Ade come un lago alla comparsa, offre spunto a
una d'esse, quale ninfa tramutata in acqua. E anche. L'episodio di
Cora-Persefone che gusta la melagrana è sfruttato per immettervi un
Ascalafo ; il quale scorge la Dea nell'atto, ne riferisce ed è converso in
gufo. Sovra tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria si
risente in Ovidio per il tentativo di analisi psicologica nei personaggi:
in Cora specialmente, per cui egli giunge sino a finezze troppo cerebrali
per esser vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo
smarrimento dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l'
antefatto del mito : il ratto è voluto, non da un decreto di Zeus, bensì
da Afrodite cui è sdegno che tante dee si sottraggano al suo potere e che
libero ne resti il medesimo Ade (latinamente Dite). Amore sostituisce cosi,
quando psicologico diviene il racconto, un particolare che, allor
che esso era naturalistico, valeva con tutt' altra importanza: la
fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, inserito
sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite difatti è l'Ericina, che i
Siculi facevan oggetto di culto singolare. Cosi perché pili appaja
la giustizia di Griove e ne risalti la umanità del mito, l'anno è
pel doppio soggiorno di Proserpina con la madre e col marito diviso a
mezzo non più per terzi. Simile attenzione psicologica governa i
discorsi di Aretusa a Demetra, di Demetra a Giove, materiati di accortezza
feminea e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde poi lo
studio dei gesti in ciascuna figura, per toccare di quelli che a ciascun
momento dell'animo competono, là dove tecniche mitologiche più elementari
non cercano se non il consueto e costante attributo del Nume : cosi che
Aretusa, e basti per tutti l' esempio solo, ritrae prima di parlare
i capelli roridi via dalla fronte sino alle orecchie per lasciar nudi la
bocca e il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto omerico
che s'addice alla Dea; il gesto si conviene alla donna. Siamo allo stremo dell'
allegoria agreste. E su la soglia dell'umanità. Non lungi a le mura
di Enna son le profonde aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi
non spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque
corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde è di schermo
alla vampa solare. Frescura, i rami; purpurei fiori dà l'umida terra.
Primavera è perjDetua. Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or
viole or Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino
1914). gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno e
canestri empie e nella raccolta studia superar le compagne ad un punto è veduta
amata rapita da Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con
mesta voce madre e compagne chiamava; la madre più spesso ; e poi che
lacerata dal sommo s'era la veste, da r allentata tunica caddero i fiori
raccolti. Ed ecco anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni
puerili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il cocchio, e
ciascuno chiamando per nome esorta i cavalli: scuote su colli e criniere le
redini tinte di ferruggine persa . È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa
un golfo d'angusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già e dal suo nome
lo stagno ha nome tra le siciliane ninfe notissima, Ciane. Ella fino a
sommo il ventre sorse tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non
più lungi andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il genero
contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi. Che se m'è lecito alle
grandi le piccole cose accostare, me pure Anàpi amava; ma pregata sposa
mi addusse non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le
braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio frenava: i cavalli
terribile esortando, nel fondo del gorgo il vibrato scettro regale con
forte braccio affondò : la terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i
precipiti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane, la rapita Dea
piangendo ed i violati diritti della sua fonte, tacita soffri ferita
inconsolabile e si consunse tutta di pianto. Neil' acque di cui grande
nume già era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi
Omessi i vv. 405-8. l'ossa, la rigidezza perdevano
l'unghie ; le tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le
cerulee chiome, le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra
in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e le terga ed i
fianchi vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle
tramutate vene alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane
che prender si possa . Per quali terre la Dea, e per quali
acque errasse, lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava
venne meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove indaga
vagando, a Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se non fosse mutata; ma
lei che voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, né con altro
poteva parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di
Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a
fiore dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena
allora apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e
più volte il petto con le sue mani percosse. Dove la figlia
si sia ancora non sa ; ma le terre biasima tutte ed ingrate le chiama né
degne del dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del
danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spezzava gli aratri che fendono
duri le glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi
aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò, ed
i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità del paese è fiaccata:
senza far césto muojon le biade, ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora
di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamorfosi di
Ascalabo. cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi
ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a le piante del
grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'elèe onde
solleva Alfèjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae.
Dice: " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di
biade, cessa da tue immense fatiche e da la violenta ira contro la teiTa a te
fida. Non ha colpa la terra ; la rapina tollerò contro sua voglia. Né per
la pati'ia supplico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide
diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo pili grata m'è
questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per penati, questa per sede : e tu
clementissima la salva ! Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto
grande mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, opportuno,
quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo volto sarà. A me un
sotterraneo varco offre il cammino e, traverso profonde caverne scendendo, qui
il capo sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là
sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri occhi veduta la
tua Proserpina fu. Triste ella per vero, né per anco tranquilla nel
volto; ma Regina, ma nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno
tiranno Sposa potente „. La madre udendo le voci stupisce ed
impietra, ed attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la
grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio ella ascende. Ivi
tenebrosa il volto, scarmigliata i capelli, d'odio riarsa, stié innanzi a
Giove. " Per il mio (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo
sangue ! se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre commuova; né
meno cara preghiamo ti sia perché da nostro parto nata. La figlia che a
lungo cercai ecco rinvenni: se rinvenire tu chiami il perder più cex-to,
se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sopporto : pur ch'egK
la renda : che d'un marito predone degna non è la tua figlia..., se anche
mia figlia non è,. E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a
me con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi vogliam
dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci sarà quel genero a
vergogna, sol che tu voglia o Dea. Se pur altri pregi non sieno, qua!
pregio è fratello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor che per
sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai desiderio, ritomi Proserpina
al cielo, fermo il patto restando che con la bocca là giù cibo alcuno
non abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „. Avea
detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia. Non cosi vogliono i fati
; la vergine aveva rotto il digiuno e, ingenua errando per gli adorni giardini,
dal ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da la gialla
corteccia sette chicchi fra i denti premuti . Ma, tra il fratello e
la mesta sorella, imparziale, il volgente anno per mezzo Giove divide.
Ora la Dea, di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la
madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta ella e di volto ; e la
fronte che dianzi poteva allo stesso Dite mesta parere, lieta fronte
diviene: simile a Sole che da gravide nubi coperto era già e da le vinte
nubi riappare (2). A coppia i serpenti la fertile Dea al
cocchio aggioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per l'aria
fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve Omessi i
vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e delle Sirene. (2j
Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa. SUO carro nella città
Tritonide, a Trittolemo : e parte dei semi donati comandava di sparger
sul suolo mai colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato.
Contaminato ma diversamente, ci appare il racconto appresso Ovidio
medesimo, nei Fasti libro quarto . Occasione gli è offerta dai romani
Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien difatti rocchio alquanto il
poeta (o il suo modello). La mente che ricorda il racconto delle
Metamorfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo carme (2), con la
mano del medesimo poeta, il I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un
ritegno, quasi una schiva attenzione per evitar d'insistervi troppo. In
Enna le Dee sono invitate da Aretusa; non quella è la lor sede: né nella
palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno non è detto. Il mito sorto dal
compromesso tacito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ; ma non
usurpa da signore lo schema greco più antico: vi s'insinua. E quando la
ricerca affannosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o Enna „),
Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed
altri luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Lilibeo, offrono bensì
materia alla fantasia del poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma
sono per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio nella
leggenda, onde costituiscono un elenco di Vv. 393-620.
Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Confronta § IV. (2) Vv.
419-50. nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati mitici.
C'è dunque una cauta fedeltà al mito siracusano : speciosa fedeltà che è
per risolversi sùbito dopo in abbandono. Quel che oggi si
chiama la Cereale Eleusi, questo del vecchio Cèleo fu il campo.
Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate agli spini e le
risecche legna pel focolare che l'arda. La figlia piccina riconduce due
caprette dal monte ; e nella zana un tenero figlio giace malato. "
Madre „ la fanciulla dice e commossa è la Diva pel nome di madre "
che fai in solitarii luoghi senza compagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio,
quantunque il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come
che misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una
vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali
parole risponde : " Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu
rapita la figlia. Oh la tua sorte di quanto è migliore che la mia sorte!.
Disse, e come di lacrima che non piangon gli Dei cadde sul tepido seno una lucida goccia.
Piangon, del pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e
dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a te, che la
piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non disprezzare il tetto
della misera casa „. Cui la Dea " Conducimi „ dice " come mi
potessi costringer, hai ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio
tien dietro. Alla compagna la guida racconta, come sia il
figlio malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria di
varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie lene nella terra
agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne gustasse con bocca obliosa, e
involontaria rompesse A. Ferrabino, Kalypso. 10
la lunga fame: e perché della notte in principio ella finiva i
digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del cibo l'apparir delle
stelle. Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni cosa
: già speranza alcuna non v'era di salvezza pel bimbo. Salutata la madre Metanìra
la madre si chiama alla sua congiunger degnava la bocca puerile. Fugge il
pallore, sùbite forze vengon nel corpo: tanto vigore viene da la celeste
bocca. Tutta la casa è lieta : la madre il padre ciò sono e la figlia
: tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli stemprati
nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele dorato. L'alma Cerere non
mangia, ma a te, o bimbo, a bere con tiepido latte dà i papaveri causa
del sonno. Della notte era il mezzo, era nel placido
sonno silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la mano
tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : scongiuri, che non ripete parola
mortale. E nel focolare il corpo del bimbo entro la calda cinigia
nasconde, che l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno
la madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ?, e
rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per non esser
scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni divengon pel timore
materno. Questi sarà bensì mortale; ma primo e con aratro e con seme da le
coltivate terre coglierà premii „. " Disse : uscendo d'una
nube s'avvolse, su i serpenti sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte
„ . Qui non è più il racconto dell'Inno con il
Vv. 507-562. mito protoattico ; non è né meno il racconto di Timeo
con il mito siracusano : però che a differenza profonda dal primo la umanità è
presentata ignara di biade e cibata di ghiande prima del ratto; e a
differenza caratteristica dal secondo la Sicilia non ha privilegio alcuno
rispetto all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico» di cui
dicemmo, che ha sostituito Trittolemo a Demofonte nella magia del fuoco,
e ha tramutato il semplice istitutore di un rituale sacro nel giovinetto
onde per favore della Dea un inestimabile benefizio si largiva agli
umani. Celeo e Metanira recano identici i loro nomi, ma intorno ad
essi il polito palazzo regale s'è tramutato in povera capanna: sul desco
stanno cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi pertanto la versione
siciliana, dianzi cautamente seguita, è soppiantata, senz'urti, da una
seconda. Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo influsso si
rivela. Come nell' Inno, informatori di Cerere su la persona del rapitore
sono due astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ;
analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non la Luna (Ecate), ma
la stella dell'Orsa maggiore che mai non tramonta nel mare, e per ciò
tutto vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio fra Cerere e
Griove, questi decide di dividere l'anno in due parti perché Proserpina
rimanga sei mesi col marito e sei con la madre . Ora, Elice
sostituisce Ecate perché preferita nella consueta mitopoetica alessandrina; e
l'anno diviso Vv. .575-614. pel mezzo già ritrovammo nel gusto
alessandrino delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce posson
venire considerati anche l'idilliaca scena in casa di Celeo, dal tono
dolce dal colore delicato dall'insieme grazioso ; e il quadro del florilegio in
Enna. L'arte però converte la triplice mischianza in armonia.
Onde la vicenda si snoda men lenta che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel
pastorale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel termine ove più
personaggi agiscono e parlano con una stringata prontezza che culmina
forse nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il digiuno con tre di
quei grani che le melagrane ricopron con molle corteccia „ . Le varie
correnti mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di mosaico
mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il carme, lo ricollega
con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare del culto,
su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del benefìzio divino,
scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella capanna d'un
misero. La gratitudine verso la Dea si traduce bensì in sacrifìzii suini
e in vestimenta candide, ma non è di origine religiosa, si più tosto
muove da una intima commozione umana, di simpatia per la sofferenza
eterna, per la semplicità primeva, per la faticosa Terra. Nei Fasti
quindi minor parte è fatta al mito siracusano; ma per compenso è
conseguito più alto pregio letterario che non nell'altro carme
Vv. 606-7. ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle
frequenti trasformazioni deforma la sua materia, or riducendola a
magrezza or distraendola a rimoti oggetti. Oltre che elementi
siculi proto e neoattici, anche particolari orfici compose insieme
con abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto di Proserpina
volle dedicare, senza per altro condurlo a termine. Grli spunti siciliani
sono i ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane oppressa dal rapitore e
tramutata in fonte , le fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli
spunti protoattici dovevano esser copiosi nella parte del poemetto
che non fu scritta e trattava del soggiorno della Madre in Eleusi, forse
nella casa di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine si
assommano nella figura di Trittolemo a cui par probabile che venisse
attribuito il dono delle biade (2). Su questa trama vennero
innestati parecchi motivi che si dovevano all'orficismo. Leggevasi
presso gli Orfici che Demetra aveva affidato la propria figlia alle Ninfe
ai Coribanti e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascorreva il tempo
intenta a tessere un tessuto ove fossero affigurate le stelle del cielo.
E ancora : che il ratto accadde si per volontà del Fato {òaifiovog
aiarj) sotto cui traspare il favore di Zeus pluvio, ma con l' inganno
delle sorelle {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi
cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non III 246
sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.s'accorse o non volle accorgersi che il
concorso delle due Dee al ratto non era se non un assecondar le leggi
fatali e irremovibili ; ma ritenne che più nobile officio loro, nel punto
in cui Cora, vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a violenza,
fosse la lotta contro il fosco Aidoneo : nelVElena di Euripide difatti elleno gli appajono ostili. Se non che scemato
cosi al ratto il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi fu
introdotto quello, che pareva più dicevole, d'Afrodite, nume propizio
agli amori (2). L'antico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel suo
contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase tuttavia, e Claudiano ne
fece suo possesso. Molte altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti
a Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su quella parte la
quale nel poemetto sul Ratto non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai
difatti sono stati raccolti tutti i materiali che da triplice fonte il
poeta adunò per l'opera sua e che gli bastarono, con giunte e
innovazioni, a narrare del ratto e i precedenti e le primissime conseguenze.
Importa ora vedere come lo spirito del poeta investisse quella sostanza
leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il suo racconto si
spezza spontaneamente in due parti: delle quali la prima ha termine
col ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo di moglie e
ignaro delle dolcezze che la paternità concede. Tanto l'assilla il suo
veemente Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. §
IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso Zeus di
sovvertirgli l'ordine dell'universo e liberare i Titani incatenati, ove non sia
fatto pago. E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in dubbio
intorno alla scelta della sposa, già che nessuna volentieri accetterebbe
marito il tenebroso Re dei morti. Contemporanea a cotesta scena però si
svolge l'altra in cui Demetra, per sottrarre l'unica sua figlia Cora allo
stuolo degli insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeggiano, la reca
in Sicilia ove l'affida alle cure della nutrice Elettra delle Ninfe e di
Ciane (ritornano, come si vede, sott' altra specie, le orfiche Ninfe e i
Coribanti e i Cureti) e la ritiene certa da ogni attentato sotto l'alta
protezione celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi in
Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla fine queste due linee
narrative da quando il Signore degli Dei decide di maritare Cora appunto,
profittando della lontananza materna, a Plutone, e j)repara le nozze.
Connivente Afrodite, egli fa si che la vergine esca con le compagne e Artemide
ed Atena e la stessa dea dell'amore a raccoglier fiori su i prati
smaglianti di Enna e che su quelli, balzando improvviso dal suolo
spalancato in voragine, la rapisca il sotterraneo Nume. Grande scompiglio
ne sorge. Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide tentano
opporsi con l'armi che sono lor proprie. Ma Zeus da l'alto tuona il suo
assentimento. E presto Cora, trascinata dai cavalli
dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove
l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii torvi e le paurose
iddie de' regni flegetontèi. La seconda parte possiede quell'unità di
struttura che manca a questa prima. Il centro naturale dell'azione è offerto da
Demetra; intorno a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre
non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un presentimento vago ma
assiduo la turba con sogni atri che mal si dileguano nel risveglio.
Alla fine, decide di abbandonar le terre di Cibele e recarsi a visitar la
figlia fra i Siciliani. Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da
Imigi le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar Cora ; ma ben
presto scorge deserta e sconvolta la casa. Entra, e vede incompiuta
l'opera tessile della vergine, e lacrimante in profondo dolore la
nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di disperazione; e apprende il
ratto. Lo schianto le è però quasi sùbito superato dallo sdegno
contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che permisero il delitto, lo
lasciarono impune, non curando se per tal modo si sovvertissero leggi di
giustizia e principii di morale. Giura che non cesserà di percorrere,
intenta alla ricerca, l'universo intero fin che non le sia ritrovata la
figlia. E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a sé, per
la notte, fiaccole di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro
a Zeus. Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco
più apprenderemmo nel sèguito. Il poeta si era assunto ben grave soma,
chi guardi alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria, ove
sempre la materia poetica è molta, ma sorda ad artefice che non sia di assai
fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a
rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi mancò: non esito a
dire che vi mancò per intiero. Noi lo giudichiamo qui a fronte
della sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giudizio, che la sua
saga è la nostra: abbiam appreso a conoscerla da l'origine lungo la vita
complessa. Non c'illude quindi, e sarebbe facile errore, quella,
che prima colpisce, bellezza formale di particolari, eleganza di scene,
armonia di verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come perfezion
delle parti in un tutto su cui si volge il nostro interesse e l'esame più
vero. Né la perfezione stessa è anche da concedersi intera : guasta per
certa esuberanza, che assempra il vecchio pescatore teocriteo dalle vene
gonfie sul collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta se bene
già troppo a sé indulgente. Ma in ogni modo, sopra le singole pennellate
riuscite e oltre le mancate, com'è composto il grande affresco
? Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti psichici di
cui tutto il racconto è pregno: non diversamente operando, in ciò, da
Ovidio. Le sue dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi numi.
E suo grande compiacimento si fu narrare ora il cordoglio della madre,
ora lo spavento della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plutone, là le
dolcezze filiali di Cora. Se non che in Ovidio tal via era tenuta con due
pregi: la accorta profondità dell'investigazione intima; e, Giudizio
opposto tenne W. Pater, nel suo garbato essay su Demeter and Persephone
in " Greek Studies, (London LA DEMETRA d'eNNA inoltre,
una grazia di tocco per cui, oltre la donna o l'uomo, figuravan sempre
senza stridenza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto per contro cosi
quello come questo pregio mancano del tutto. Nulla, che non sia vieto e
grossolano richiamo di motivi abusati, è infuso nell'ordito passionale; le
finezze di certi gesti, le sfumature di talune emozioni gli sono ignote
; i suoi personaggi, non pur non condensano la loro personalità per
l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel vigore e scancellano
quella determinatezza ch'era lor impressa dalla tradizionale teologia.
Una madre, una figlia, un marito recente, un giudice un po' pauroso e a
bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non importano nomi, non colori, non
linee. Basta, che per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni
della retorica. Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce
la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo di versi circoscrive la
Sicilia con un senso di sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee
l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splendor di fiori ; ed ha nell'atto
una compostezza e un contenuto orgoglio matronali. La Frigia
lontana riceve da Cibele, quasi un recondito balsamo religioso. Persino
il bosco onde Demetra svelle i due pini a illuminare la notte è un
lucus Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur varia, è
tuttavia sempre ampio alto e severo : non è in proporzione con la statura
degli attori ; o meglio, non con la loro statura d'uomini, si con
un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il primo contrasto, che par
creato a posta dal poeta, IL MITO CONTAMINATO fra la diminuita materia
divina della fiaba e l'accresciuta materia terrena: quasi fosse
stato trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe dovuto essere
dei Numi. Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota che
nessuno dei consueti attributi è stato tolto da Claudiano né a Demetra né
a Cora né a Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad alcun'altra
figura celeste del poemetto. Il re dei morti Ila tutta la sua
terrificante corte ; la vergine Figlia ha intero il suo sèguito di
bellissime ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice, quella lo
scudo gorgonèo, questa l'arco e le frecce; la Madre corre per l'aria su
cocchio trainato da draghi e doma leoni. Il meccanismo oltreumano resta
inalterato, e il poeta v'insiste. Ond'è che la vita umana e affettiva vi
è poi spirata dentro senza che Fautore mostri di accorgersi del dissidio
che ne risulta. Il quale è, a volte, men grave. Ma a volte attinge a
dirittura il grottesco e tramuta il poema in commedia. Quando, gli esempii potrebber
essere moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno più
notevole, quando Plutone ha rapito Cora e ne ha uditi i primi gemiti e
poi gli urli e i lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si
commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto vezzoso è
convinto, e sente i palpiti del primo amore. Le lacrime (le) deterge con
ferruginea tunica, e con pacata voce consola il mesto dolore (di lei) „ .
E, questa, una innovazione di II 273-276. Claudiano :
già che le parole che seguono e che vantano di Plutone i pregi qual
marito e re son le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e
Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rinnovazione a punto svela a maraviglia
a qual grado di risibile pervenga il poeta nel colorire
pateticamente quello spauracchio " feroce „ di Aidoneo che egli
stesso ha poc'anzi dipinto mostro a tutte tremendo. Dai
medesimi errori iniziali consegue l'essere artisticamente (non dico
logicamente, che sarebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo divino
del breve poema. Tutti gli Dei balzano all'improvviso su dalla terra al
cielo. Demetra ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il tono
dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia ce l'avevano affigurata di
Zeus suddita umile e meschina al pari d'una qualsiasi siracusana.
Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus; ma Zeus a sua volta
prende a impaurirsi e tremare non a pena Plutone lo minaccia di far
liberi i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né timore cotesti numi
ambigui. E l'invettiva che contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per
nulla sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché è vuota
cosi di dolore materno come di ribellion religiosa. Se per poco fosse
spinta in là la tendenza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'apparirci,
nella loro scema sostanza um^ana, e tracotante pompa esteriore, marionette
fìngenti per gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità
olimpica, in un consesso di stolidi e in una famiglia disamorata. L'errore
d'intuizione artistica in fine culmina in quel solenne decreto di
Zeus con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mostrare come, col
decretar da Demetra il dono del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre
un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora; ma non prova nel fatto se
non quanto Claudiano ha deformato il sommo Iddio.
Conchiudendo, il poeta è giunto proprio al contrario di quel che
era compito dell'arte: ha dissimilato in luogo di ordinare in armonia ;
ha contrapposto, in vece di avvicinare senza contrasto. Ora, gli elementi
del dissidio erano già tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan
perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure non gli avevamo
avvertiti: non so che secreta forza li faceva coerire in unità e
bellezza. Se adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è
che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'organismo del mito è moribondo, e si
dissolve. Cosi né pur la contaminazione di motivi, desunti
dalle più diverse fonti, riesce a infondere ricchezza di contenuto alla
leggenda agreste. Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio.
Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo racconto siculo, che
una prima volta aveva sentito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso
greco, e trovò una seconda volta, traverso gli AlessandiTni,
arricchimento di bellezza poetica da iDrincipio, gravame in sèguito di
mal congesti elementi. Indra e Vritra si combattono. Nel
profondo cielo dove il Sole si vela di ardore, Indra teneva le sue smaglianti
mucche al pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,
nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe figura di serx^e dalle tre teste,
né tentarono in vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e trassele
nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne secrete. I ben colorati
animali furono avvolti dalle tenebre, celati sotto un' incupita
parvenza uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dall'antro, ove
segregato si stava il bottino, gli Per tutto questo
capitolo v. Vlndagine, in libro II cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle
note successive. giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò e
il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con la sua possente forza la
grotta, di frecce e di clava colpisce più e più volte il mostro
nemico, l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel cielo, onde
lasciano esse scorrere il latte fin sopra la terra. Cosi nel
Rigveda indiano si adombra per noi
la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi per l'azzurro mutandosi
in torvi cumuli, che dopo tuoni e lampi scatenano benefica la
pioggia. L' odio, che un' anima paganamente infusa nella
natura nutre acre contro il velame dal quale è tal volta celato il Sole
agli sguardi, ha sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco la
presenza di una forza attiva, e nemica cosi della luce benefica come
della fiamma benefica, però che si compiaccia, in vece, di tenebrori
e di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla caverna di Vritra :
fulmini percuotono 1' opere umane e le annientano. Il bujo della
notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio non si
spinge, e che, quando spiragli appajono traverso il suolo, atterriscono i
cuori ; l'atra tinta del fumo, che gì' incendii sprigionano, pregno
di odori corrotti, su dai possessi degli uomini ; l'ambiguo rossastro
delle lame di fuoco, che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far
di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cumuli ; l'abbagliante
incandescenza del baleno, che acceca le pupille: questi colori
queste Cfr. fino a pag. 163 § E. PRESSO
gl'indiani E I GRECI 161 forme quest' energie si accostano nel
pensiero primitivo, si compongono variamente e diversi si foggiano
in figurazioni molte, ripetendo però con ritmo unico il malefìcio
costante e il duro danno, in antitesi violenta contro il dono, in
cui è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiammata che cuoce
l'alimento è una scintilla tolta dal Sole per gli uomini : e, come il
Sole, ha virtù di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiammata in vece
che rade una selva è nemica del Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che
teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bambina non sa che la
tenebra è un modo della luce, e che il fuoco è un solo principio,
distrugga o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli effetti,
delle antinomie fallaci nelle cause. Cosi fatto l'atteggiamento
fondamentale del pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ; e
comuni, se bene traverso le differenze a volte non piccole, sono le forme
di cui si veste e le associazioni psichiche di cui si vale :
l'antropomorfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il sotterraneo
mondo, fra il bujo e la fiamma malefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il
cielo. E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale che sia per
esserne il valore più immediato, permane il riposto senso di allegoria
naturalistica. Anzi, in grazia a punto di essa affinità di concetti, poco
importa se la fiaba si connetta più tosto con la freccia del fulmine che
squarcia il perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente
infocato che appare impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo
caliginoso, o altrimenti con altro. Griacché la fantasia primigenia, la
quale ha narrato sotto la specie dell'uomo una spettacolosa vicenda della
natura, deve esser stata indotta dalle medesime sue associazioni
analogiclie a ripetere, nelle aridità della concezione, un solo racconto
per fenomeni simili. Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il
mito ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso pochi come
là simboleggi il temporale. Presso gli Eranii tramutato si è, pur
serbando parecchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e Apaosha
si combattono ; e a dirittura rinnovato in altra forma, la quale, per il nesso
che nel pensiero già intercede fra tenebra e male, luce e bene,
trasporta il mito a significare il contrasto tra Ormuzd il buono e il
cattivo Ahriman. Che se, dopo averle spiegate, non
grande conto è da farsi di queste trasposizioni della fiaba da uno
ad altro fenomeno ; molto maggiore se ne deve attribuire in vece
all'alterarsi o al persistere di taluni particolari significanti.
In essi è il segno di qilanto si accosti o allontani dalla saga originaria il
nuovo racconto : simili a quei tratti caratteristici che permangono a
contraddistinguere il volto di una famiglia nei secoli. E quando del mito si è
poi perduto tutto il senso riposto, restano testimoni veritieri ed
irrefutabili dell'origine prima e dimostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione
innovatrice sul modello più antico. Quando in vece un significato
s'intrude sopra e contro l'originario e lo modifica o lo soffoca, si
perdono insieme i primitivi particolari episodici, come un muro
coinvolge nella sua caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano
quanti non disconvengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié l'energia
conservatrice insita in quei particolari è costituita, in somma, da una non più
cosciente memoria dell'importanza essenziale clie tutti, in vario modo, avevano,
quando ancora la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa
pertanto, allorclié al ricordo incosciente sottentra nel racconto la coscienza
d'un contenuto e d'un fine diverso. Un fine e un contenuto
del tutto nuovi ha assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed
ecco difatti tramutarsi anche la foggia esteriore e l'intreccio dei casi. Come
il furto di buoi perpetrato a danno d'una divinità solare venisse
narrato insieme con la successiva vendetta nelle saghe antichissime degli
Elleni, ignoriamo : e ci sembra inutile pel nostro assunto la congettura.
Certo che in secolo a bastanza antico la metamorfosi del racconto si
rivela profondissima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte in una
sua ampia parte. Ed è pervaso tutto dalla minore anima greca: quella che
baratta e commercia; che ruba con astuzia, e nega con impudenza ;
che è scaltra in ben parlare, e avvolge di parole artificiate, di periodi
fluenti, di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do li)
Tralascio tutte le quistioni su gli " strati,, la cronologia, ecc.
dell'/nno, come estranee al tema. Confronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen
(Leipzig 1886) 181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric
hymns (London 1904) 128 sgg. mande coperte, l'infelice derubato ;
che giura invocando i men pericolosi dèi, nella speranza di averli
meglio indulgenti ; che non ignora alcuna furberia, e si vanta di tutte ; e
nessuno più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma ne resta
poco o molto gabbato. L'uomo il quale discorre a lungo e lascia i suoi
detti vagare per l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto,
certo che giungono in parte al brocco, e tiene fra tanto i suoi occhi,
sotto le palpebre basse, fissi qua e là su oggetti che non guarda;
il Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive intiero, per una fresca
vivacità di dipintura, nel ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore
anima greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno s'è congiunta
con la brama di gloria, cui il buono è anche bello, e forza indirizzata
al suo fine è anche il bene. Ma fra questa maggiore e la minore anima
greca i tramiti non sono affatto tronchi. Onde una celata coscienza della
superiorità di quello spirito che può, se voglia, rinchiudere in un
labii"into di dubbii e di certezze, entrambi illusorii,
l'intelligenza del suo interlocutore, serpeggia per il racconto. E un
sorriso di compiacimento interno lo illumina : il sorriso mal
palese degli aruspici, secondo Catone; il sorriso, dagli occhi assai più
che dalla bocca, con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan accogliere,
pacati d'indulgenza ironica, la dichiarazione frequente dei Peloponnesiaci :
" Grli Ateniesi discorrono troppo bene perché si possa lor credere
„. C è un biasimo tacito del furto ; ma c'è una lode sobria del ladro
abile. E la commedia nasce. Comico, il racconto eh' era stato tragico
allorquando Vritra cadeva sotto la invitta clava di Indra. Perno
del mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I protagonisti
sono mutati. Caduti taluni particolari, altri s'improvvisano dal largo
patrimonio novellistico. Lo sfondo è diverso, perchè alla furberia del mortale
compete scena la terra, come alla violenza del mostruoso iddio sede
il cielo. Resta la pascente mandra divina, di splendido aspetto ; e il secreto
del furto ; e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti. Apollo è
il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella sera del giorno in cui nacque,
piccolo bimbo di inverosimile forza e di mente già dotta nelle
oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle ed esigua statura, e il
Dio vigoroso e alto, si svolge la principal scena. Due altre la
precedono. La prima narra il furto. Non è opera di violenza, ma di
scaltrezza. I buoi, cinquanta, pascevano
nella Pieria mentre " con il suo carro e i cavalli „ il Sole spariva
sotto la terra. Ermes, per celare ogni traccia dell' abigeato sul
suolo sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrecciando per sé
accorti e leggeri sandali con vincastri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela
la refurtiva in una grotta " da la volta elevata „. Poi,
ritorna presso la madre, sul monte Cillène. E ha luogo la seconda
scena . E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in
sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con Vv. 142 sgg.
Edizione T. W. Allen (Oxford l'abigeato di caco lui o tra gli Dei
beati o tra i mortali uomini; e non latravano i cani. Ermete, il benefico
figlio di Zeus, obliquo per il serrarne della casa scomparve,
simile a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto
nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi movendo : né così fa rumore
sul suolo. Subitamente entrò nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le
spaUe avvolgendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla balia i
lini scompone coi piedi . Ma non sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea, che
gli disse parole. " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in
ora di notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te
pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno legato, uscir da
queste soglie fra le mani di Apollo, o finir per recarti a predar nelle
valli al pari di ladro. Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti
generava il Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.
Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre, perché
queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo bimbo, che malizie ben
poche conosca nel cuore, e timido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io
un'arte apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei
immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci rimarremo come tu
vuoi. Meglio è per sempre frequentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di
messi che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad onore,
il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come Apollo. E se il mio padre
non me lo dona, io stesso per certo tenterò che posso dei rapinatori
divenire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre Omesso il v.
153. Omesso il v. 167 ch'è corrotto. Latòna, altr'e tanto (io mi
credo) avrebbe in ricambio e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio
della grande sua casa, molto da quella rubando stupendi tripodi ed
oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti di molte. Tu certo vedrai se
ti piaccia „. n senso d'umanità e la sostanza greca che sono
divenuti il nucleo nuovo del mito appaiono qui in tutta la loro vivace
contrapiDOsizione alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la
difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra bambine, è un breve
mal represso anelito di simpatia per il ladro perspicace ed ardimentoso,
simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane della carne si ax)provi
quel che la ragione condanna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel
Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole serpentina nel dimenio
orrendo delle tre teste. Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile,
e l'ombra della sua caverna, dalla quale il mugghio bovino suscita un'
eco di sgomento negli animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in
favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola di caldo nella zana,
orgoglioso senza pudore di quanto ha compiuto, pronto a difender sé
e la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel futuro. E non
v' è dubbio che a Maja piacciano le vesti che l'arti del figlio le
recheranno rapite! Le due spanne onde il corpicino si misura sono molto
piccola cosa di fronte alle cinquanta terga di tori: e nella grazia furbesca
del contrasto, che la onnipotenza divina giustifica e legittima,
sta il motivo della simpatia e nostra e del poeta. l'abigeato di
caco Come lui scorse di Zeus
e di Màjade il figlio, adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo,
dentro la fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere
molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava sé stesso Ermes,
il Lungisaettante vedendo : in breve raccolse il capo le mani ed i piedi,
come se per bagno dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando
però. Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì, la
montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo piccino, avvolto dentro
ingannevoli astuzie. Della grande casa i recessi mirando, con la
splendida chiave tre ripostigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita
ambrosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte della Ninfa
purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei beati dentro sogliono avere
le sacre dimore. Della grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti
parlava ad Ermes illustre. " bimbo che nella zana ti giaci,
mostrami i bovi : presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo
fra noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella tenebra triste
irreparabile ; né te la madre né il padre alla luce potrà ritrarre ; ma'
sotto terra errerai primeggiando fra i bimbi „. Ed Ermete a lui
scaltre parole rendeva : " Latoide, qual mai aspro discorso parlasti
? e perché ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so,
né d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne premio,
né somiglio ad un ladro di buoi, uomo possente. Non questo è da me, e prima
altre cose mi piacciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia
madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.
Vv. 235 sgg. Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa, che
per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe che un bimbo nato da
poco varcasse la soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli !
Ieri mi nacqui ; i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se
vuoi, su la testa del padre un grande giuramento farò : né io affermo
né io stesso fai causa, né vidi alcun altro ladro dei vostri buoi checché
i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne odo Cosi
dunque parlò, e di frequente con le palpebre ammiccava, inarcando le
ciglia, e qua e là guardando . Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo rispose
: " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo per
vero che spesso per invader le ben abitate case durante la notte, più
c'uno stenderai sul suolo, senza rumore ripulendo la casa : tale tu
parli. E molti nelle valli dei monti molesterai agresti pastori, allor
che, bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in pecore
lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se non vuoi dormire, scendi dalla
zana, o compagno della nera notte. Questo per certo anche poi tra
gl'immortali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo dei ladri
„. Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline
Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un
presagio emetteva, ardito servo del ventre, e messaggero impronto. Dopo
esso, starnuti tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo
l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur affrettando il cammino,
Ermes gabbava ed a lui diceva Omesso il v. l'abigeato di oaco
parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus: con
questi presagi troverò pure, alla fine, i capi gagliardi dei buoi : tu, per
altro, m'insegnerai la strada „ . La contesa continua un po', fin
che si decidono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio Zeus per aver
giustizia. Li Ermete giura di nuovo solennemente il falso ; ma poco vale.
Pur troppo Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato ben sa.
Sorride, il gran Dio, e comanda ai due Dei di cercare insieme " con
animo concorde „ i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.
Ubbidiscono. E la commedia finisce come le commedie sogliono terminare: con una
buona pace. Di essa rimangono cardini notevoli l'accortezza del
trascinare le mucche all'indietro per disperderne l'orme e travolger
gl'indizii ; e l'insistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi ad
Apollo ed a Zeus : particolari che, pur appartenendo forse ad antiche trame
novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato probabilmente
a bastanza tardi. Presso i Latini. Le fila s'intrecciano poi
presso gl'Italici, e presso i Latini in ispecie . Né della
trasposizione, per cui il mito vien riportato da un fenomeno all'altro
analogo ; né Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI.
dell'intrusione, per la quale un nuovo significato scaccia, d'entro lo schema
leggendario, l'antico, e rinnova per conseguenza i particolari del
racconto : si deve tener parola a proposito della saga romana di Caco.
Altre vicende essa ha subite allor quando ci appare formata in età di
storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da prima ben radicata nella
memoria delle generazioni, approfondita nel sangue della stirpe ; che vi
si cristallizzò in una foggia, la quale non aveva più il contenuto
cosciente della antica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche i
più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere ne diveniva veneranda e
intangibile. E però allora che r elaborazione artistica sopravvenne con
voce più sicura e lievito più possente, non potè distruggere per ricreare
; dovette costringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma irrigidita
dai secoli : sopravveniva difatto troppo tardi. Il rispetto, per vero, di
tutti i particolari, che furono proprii della saga primordiale aria
e che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddistingue, senza
eccezione, la serie intiera delle vicende che il racconto attraversa di
poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle
interpretazioni dei dotti. La presentazione dei protagonisti. Però
che forse la differenza più notevole fra il racconto indiano e il
probabile, d'una probabilità ottimamente fondata, i^rimitivo racconto
latino, consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da ammirare.
Sono molteplici gli aspetti onde un qual siasi spettacolo naturale si
presenta all'occhio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero scorge tra
i varii il nesso unico e ha vigoria per riportare ciascun parvente alla
sola sostanza. Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da prima,
assai più che in una personale figura di Dio, in un nome cui risponde una
sbiadita ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune ceppo ario i
rami diversi, l'evoluzione linguistica da un lato trasforma quei nomi per
fenomeni fonetici appresso le differenti razze; dall'altro, il caso
lascia smarrire taluni di essi, e taluno fa prevalere, addensando di
questo il contenuto e concretando il valore . Cosi l'intuizione
fondamentale della fiamma aveva certo moltissimi termini che le
corrispondevano : ma uno ne trionfava là, ed un altro qui. Onde accade che
un solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge bensì quasi
identiche presso gl'Indiani e i Latini, ma non mai con identici nomi.
La presentazione, adunque, dei protagonisti. Quando i Latini (e
forse si potrebbe dii-e senz'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò
le loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo ne siamo
all'oscuro, ed è quindi prudenza non affermare alcun che) ripeterono
l'antichissimo mito indoeuropeo senza ancora averne dimenticato il valore
naturalistico, s'indussero ad usare i nomi di Caco e di un non sappiamo
se Garano o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova in ben
diverse condizioni. Non solo il primo è Cfr. G. De Sanctis Storia dei
Bomani I (Torino 1907) 88. ben certo, là dove il secondo non è né
pur formalmente sicuro e varia nei due testi ove appare sol tanto ; ma quello è
analizzabile con un etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i
Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori. Glie in Caco ritorni la
radice che anche in xaio) (" brucio, ardo „) e nel prenestino
Caeculus, è probabilissimo e consuona bene alla sua natura ed ai
suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio a tentativi cosi fatti ; ed è
preferibile comprenderlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il nome.
Inoltre a lui toccò di esser più tardi soppiantato da un altro Iddio, ond'è
impossibile definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e
quali al personaggio sieno stati aggiunti dal secondo attore. Unica
certezza, cbe se fu prescelto a significare la forza della natm-a la
quale nel Rigveda esprime Indra, da Indra non differì forse troppo. E difatti
Caco non differisce né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra.
Indubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del vomitar fuoco da le
fauci e nerissimo fumo ; congetturabile, l'orribile cervice tripartita.
Un antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe. AlFintorno, egli
rapisce e distrugge: né forza gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il
terrore lo circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua effìgie
ripugnante ed immonda però si deve riferire ad un secondo stadio del suo
evolversi mitico, perché son tracce palesi d'una sua più vasta
comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'inizio, valere come non pur malefico si
anche fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti antitetici erano
potenzialmente, più che in lui, 174 IV. - l'abigeato di
caco nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli ed
amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in certi specclii dipinti che ne
pervennero unica reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il
culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con assidua cura vigilato un sacro
focolare, non dissimilmente da Vesta. Eorse il termine non significava da
principio se non il fuoco nell'atto dell'ardere e in quanto arde ; e solo
poi le due contrapposte concezioni della fiamma confluirono in esso, e
valsero a derivarne ben due figure divine. Il terzo stadio in fine della
sua evoluzione Caco toccava quando nei posteriori tentativi di
genealogie divine divenne figlio di Vulcano, che aveva a sua volta
assunto il primo posto fra i Numi della fiamma. Dei due
protagonisti, il furto e il duello si svolgeva quasi certamente in modo
simile al racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito bovino
rivelatore dell'inganno; le frecce e la clava, forse ; con certezza, la
distruzione violenta della caverna e l'abbattimento del mostro tra
il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito latino si esauriva, per
quanto ci è concesso sapere, dentro questi termini : senza né originalità
sua propria di particolari e di figure né smaglianza singolare di colorito formale. Un
primo arricchimento gli derivò dall'avere, in proceder di tempi,
localizzato con più esattezza la fiaba, topograficamente vaga nelle
origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo che s'apre su la riva
sinistra del Tevere tra il Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il
Campidoglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro Boario e il
Velabro, trovò la sua fìssa sede la saga. E fu più vicina alla terra, e
più lontana come dal cielo cosi dal suo proprio senso naturalistico. Fra
i colli romani essa divenne il racconto di avventure terrene, il ricordo
di tempi lontanissimi, di cui testimoni unici restavano i monti ed il
fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda che la pretende a storia
accampando una verità fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu effettiva.
Un particolare locale s'insinua : la caverna di Caco è pensata nel monte
Aventino. E, assai più di quanto possiamo scorgere nelle testimonianze, i
luoghi ove poi saranno le scalae Caci e Vatrium Caci danno contributo di
piccoli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale si forma pertanto
colà in uno stadio, che è il suo primo fra i Latini, e di cui il colle
Aventino e i due numi Caco e Garano-Recarano costituiscono i iDerni.
Acquistare una sede significa però per un mito, non pure raggiungere
una consistenza e saldezza maggiori, bensi allargarsi via via per
attinenze nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son radicati.
E un contagio cui il suolo serve di conduttore: e che qui fu invero non
presto, ma fu per compenso profondo. Quando il dio greco Eracle
penetrasse nel patrimonio leggendario latino e sotto la veste di Ercole
venisse definitivamente adottato è e sarà del tutto incerto . Senza
dubbio poi alquanto tempo dovette trascorrere innanzi ch'egli potesse fondersi
con gli Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di caco
dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia modo contigui :
prima, dovette divenire familiare, ottenere culto e insediarsi sugli
altari, esser conosciuto anche nei suoi minori attributi, assimilarsi infine
air ambiente. Non presto dunque dall' " Ara massima „ ove nel Foro
Boario gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino, sopravvenne ad
assorbire in sé ed annientare la figura di Grarano-Recarano. La quale
difatti non cade in cosi profondo oblio clie non se ne serbino
tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come l'ebbe assorbita.
Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto che era di fronte al
dio solare notissimo, impresso di grecità? A entrambi, sembra, competevano
e le frecce e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le lotte
erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non erano se non se i riscontri
analoghi del duello fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno
apparteneva a una religione poco evoluta qual la latina, l'altre recavano
con sé grande maturità religiosa. Una poi di cotesto imprese di Eracle,
la fatica con cui uccise il ^' ruggente Gerione e gli tolse la stux)enda
mandra, offriva il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole e
Caco, che circostanze di luogo e simiglianza di forma e contenuto tanto
favorivano. Fra Eritia nell'occidente spagnolo, ove quella fatica
avrebbe avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare l'eroe, l'
Italia era ponte, e nell' Italia Roma. Della positura geografica approfittarono
molti facitori di saghe per le loro combinazioni ; Per es. Stesicoeo
nella sua Gerioneide: cfr. U. Man per nessuna forse cosi
felicemente come per la latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita
in Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la presenza di
Ercole su l'Aventino, il possesso della mandra che Caco rapisce.
In progressione, quanto più Ercole prevaleva su Recarano-Grarano,
tanto più s'allargò la leggenda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto
romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece tutto un paragrafo nuovo
del racconto, contraddistinto per profondi caratteri dal resto. Non più
il mito della natura; ma l'impasto non sempre coerente di etiologie, con
le quali si tenta di spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale,
un costume, un gesto, projettando il tutto, senza prospettiva di
tempo, sopra uno schermo unico. Del paragrafo che cosi accresce la
leggenda, uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica
origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più tarde. Addette
al culto di Ercole nell'Ara Massima erano in età storica, prima che il
servizio vi fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C), le
famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che a questi ultimi sembra
che non spettasse come a quei primi di partecipare al banchetto in
cui dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle vittime. Era
inoltre uso di offrire al Nume la decima, per consueto, d'un proprio
guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna
Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale Sup. di Pisa
l'abigeato di caco d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta
era lecita cosi a generali come a privati cittadini. Il primo fra
questi fatti e forse anche il secondo costituiscono la trama originaria
della leggenda etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito,
subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare, l'Ara Massima, e vi
avrebbe sacrificato la decima del bottino strappato al mostro: sacrifizio
cui sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei Pinarii, con
zelo e per tempo quelli, con ritardo questi onde non poteron partecipare
al banchetto delle viscere. Ercole decretò allora che tale nei secoli
restasse il costume fra le due famiglie. Se non che dal culto
erculeo dell'Ara le donne erano escluse. Anche qui occorrendo un
motivo, non si pensò che in Roma Ercole è anche dio della
generazione maschile ; ma si disse che le donne avevano offeso il Nume,
in qualche maniera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia dev'essere
a bastanza tarda, e discorda nei testi ov'è riferita. Per gli uni
Carmenta (e la Porta Carmentalis che ne ha il nome è prossima al
Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assistere l'eroe presso l'ara ; o vi
sarebbe pervenuta in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una
redazione forse più antica in vece, donne rinchiuse presso il Velabro pel
culto della Bona Dea avrebbero, per mezzo della loro sacerdotessa,
rifiutato al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua, per non
lasciar violare il sacrario da un uomo : onde la vendetta di lui. E anche
recente è, sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara,
esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi al Foro Boario, dedicata
Jovi inventori. Certo è secondario, e per ciò non da tutti accolto,
il particolare che essa fosse eretta da Ercole per ringraziare, col
sacrifizio di un giovenco, il suo padre Giove. Ora, se tutti
cotesti accrescimenti leggendarii, i quali si commettono con la figura di
Ercole ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresentano, pur tenendo
conto di talune interpolazioni più tarde, nel complesso un secondo stadio
del racconto; un terzo venne di poi a sovrapporsi. Entrò nel mito la figura di
Evandro. Le cause furono, come per Ercole, due. L'una è identica
per entrambi : la contiguità delle sedi ; poiché di Evandro era un altare
presso la Porta Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro Boario.
L'altra è analoga, non uguale. Come per Ercole era valsa la simiglianza
di lui con Garano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma del suo
nome. La mente non matura che cerca di motivarsi le tradizioni, quasi
sem^^re ritiene d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'etimo d'un
termine. Caco ad esempio venne, e forse
da eruditi greci, accostato per omofonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il
quale parve del resto convenir bene al mostruoso ladrone. D'altra parte
Euander che volto in greco divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo
„. Indi fu facile il riscontro tra il " malvagio,, dell'Aventino e
il •' buon uomo „ della Porta Trigemina. Evandro era, in una leggenda
che qui non l'abigeato di caco accade di analizzare, un signore di Arcadi dalla Grecia
venuti a insediarsi sul Palatino, accanto agli Aborigeni retti da Fauno.
La sua persona pareva dunque acconcia a esser legata per più
attinenze con quella di Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto
in età pili antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde
intorno a ciò. L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste.
Esistono racconti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è ostile ad
Ercole, alla forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto. Ma
evidentemente la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con
Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e
a favore del greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo
stadio venne a confluire, confondendovisi, e innestandosi con
Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Carmenta, di cui era un anticbissimo
sacrario presso la Porta Carmentalis e che già vedevamo usufruita per una
etiologia del racconto, fu in altra guisa sfruttata per accrescere di
solennità la venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tradizioni più
propriamente indigene. Ella avrebbe, cioè, predetto in un suo vaticinio
l'avvento dell'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi rendeva
veneranda la gesta; e la favoletta serviva assai bene a vantare per
antichissimo fra tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,
che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di L'analisi v. in De
Sanctis St. d. R. Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso Greci, con
quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che si trovò la maniera di unire
all'altra di Evandro» questo facendo figlio o amico della profetessa,
e col ricordo del vaticinio giustificando l'accoglienza di lui al
Tirinzio. Basti di coteste invenzioni, cosi povere e recenti che
anche presso i poeti mal si collegano col restante racconto. E
impossibile dire chi per primo abbia in un testo scritto accolto il
nucleo leggendario più antico, dai successivi stadi! delFetà volgenti
deformato in parte, in parte svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male
composto un organismo di quel che era opera, non del tutto compaginata,
d' una lenta e libera evoluzione traverso slanci fantastici ed erudizieni
grame. Sol tanto si può congetturare che Ennio commettesse nel suo poema
la materia come del primo (Caco), cosi anche del secondo stadio
(Ercole), al meno nella sua più vetusta parte. E di poi un annalista del
II sec. a. C. desse adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue propaggini.
La quale ipotesi potrebbe sussistere parallelamente ad un' altra che
giustifica assai bene taluni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrittori
dell'età augustea. E probabile difatti, la fiaba greca di, Ermes ed
Apollo, che l' Inno omerico divulgava in degna veste d'arte e con
autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso su quel mito il quale
tra i Latini riproduce, con fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto
allegorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di l'abigeato di
caco Maja fu nella mente di talun culto scrittore, come Ennio, non
privo di analogie con l'abigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a
ripetere qualche particolare attinente più tosto all'astuzia che alla
forza. Tale lo scaltro accorgimento del condurre per la coda all'indietro
i buoi fino all'antro per disperderne le tracce ; tale anche lo
spergiuro del ladro che nega il furto : questi difatti ritrovammo nella
G-recia tratti essenziali della saga rielaborata. Certamente
però, quanto al di là di coteste innovazioni e giunte s'è conservato
intatto il primo profilo del mito, cosi che i particolari
posteriori si sono aggregati ma non sostituiti ai precedenti ; tanto se
ne son venute alterando la luce e la prospettiva e se n'è obliterata
la coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la vendetta narrino
del temporale che il Sole vince o del fuoco malefico e tenebroso cui la
luce è nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano : la terra il
cielo il fiume ^ sono intorno alla leggenda, non dentro ; la colorano, non la
costituiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza. Narrata con un
certo abbandono della fantasia, con una cura precisa di non omettere le
più vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché gradita, da
ripetersi con arte per non guastarla, da apprezzarsi come l'eco di due
cose venerande : il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno
con il loro tocco più lieve e più esperto. Tramandata in vece con un ritegno
sobrio che la contenga dentro i margini dell'umano e dell'eroico, riman
sospesa ambigua tra la realtà e il sogno, che la fiaba muore e non è
storia ancora; riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non elimina
ogni dubbio e non genera certezza di conoscenza. E gli storici dotati di senso
d'arte la riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti. Una fiaba,
dunque, presso e il poeta e lo storico. Ma una, cui quello è pago di
ammirare, questo è desideroso di credere. Noi non possediamo però né i
versi degli artisti più antichi né le prose dei più antichi annalisti che
in Roma accolsero il mito : solo li conosciamo riprodotti e compiuti
nell'opere mature dell'età di Augusto. ni. I Poeti.
Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso il fulgore della
fiaba, già la tecnica aveva polito r esametro e, temprandolo per la
forza» l'aveva reso agile per la grazia delle movenze. La parola
regnava : scelta, limata, contesta, vigeva nel tono quanto nel significato;
aveva un senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Esprimeva, e
aggiungeva. E il mito visse nella parola, che gli divenne fine più che mezzo.
Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli effetti che
produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i distici che
l'infrenavano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli aggettivi che
esigeva e i sostantivi ove si distillava. Ond' è che raro il poeta innovò,
sempre quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nell'abigeato di
caco l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle massa
linguistica allo schema rigido e inviolabile : mentre la licenza facilitava
l'opera, il merito splendeva nel difficile. Il gesto della mano che
elegge e soppesa la parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di
Properzio e di Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si
attennero là dove altro procedere esigesse il general tema dell'opera
loro, il quarto libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo
dei Fasti. Properzio occupa rispetto agli altri due un posto singolare.
La sua dipendenza da Vergilio, difficile cronologicamente a dimostrarsi,
è anche artisticamente improbabile, cosi che gli sembra più tosto
parallelo. In tal caso, sia che egli attingesse a un modello diverso, sia che
con Ennio non contaminasse altre fonti, sia che infine si ritenesse lecita
una libertà maggiore, il suo racconto non comprende Evandro, il terzo
stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco ed Ercole : per noi è
quindi, qual che ne sia la causa, un esempio della forma che avrebbe
potuto assumere la fiaba senza il mito etimologico sul " cattivo „
ladro. Pel resto, il racconto è in tutto personale. I vero
tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in qualità di Dio venerato nel foro
boario con rito greco e senso romano. La sua sola figura campeggia
in due quadri, che uniscono egli e il momento del tempo e la postura della
scena. Nel primo combatte Caco in una lotta brevemente descritta, la
quale sembra importare al poeta più nel suo insieme cbe nei
particolari. Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mistico culto
della Bona Dea, l'acqua che gli negano e ne trae vendetta. Sono dunque le
due sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a sé sul suolo
dell'Urbe, superate entrambe con un moto di violenza, concretate entrambe
in prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino, e il riposto
limitare sacro d'un bosco presso il Velabro, si fanno riscontro; le tre
teste di Caco, e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'antichissimo
mito della natura si dispone allo stesso piano e nella medesima luce del
recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di quello, ha
creato la bellezza di questo ; svolgendone una fantasiosa scena cui rende grata
e fresca il murmure d'un fonte. Quando l'Anfitriomade da le
tue stalle, o Eritia, aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli
alti pecorosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli stesso posò,
là dove il Velàbro con la sua propria corrente stagnava, dove su le urbane
acque apriva le vele il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi
non furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno Caco si era,
ladrone da l'antro pauroso, che suoni emetteva per tre bocche divisi.
Egh, perchè non fos-Properzio Elegie IV 9; edizione Phillimore^ (Oxford
l'abigeato di caco sere indizi! certi di palese rapina, per la coda
all'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva al Dio: i
giovenchi muggirono il ladro, del ladro le tane spietate l'ira abbatté.
Dalla Menalia clava le tre tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si
parla : " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema
della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte mia preda, o
buoi, ed i campi Boarii con lungo muggito sacrate : il pascolo vostro sarà
nobile Foro di Eoma „. Avea detto, e per la sete ond'è secco
il palato il volto è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida
la terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In ombrosa cerchia
gli alberi un bosco avevan formato, clausura di feminea dea, con venerandi
fonti e sacelli, a maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte
soglie purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso fuoco
splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde un pioppo e cantanti
uccelli densa ombra copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la
polvere su l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta dinanzi
all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del bosco giocate,
aprite, vi prego, allo stanco eroe ospitale il santuario ! Erro una fonte
cercando, e qui intorno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto
nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo con le
spalle sostenne ? Quegli son io : Alcide la sostenuta terra mi chiama. Chi
dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense
fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar le
tenebre di Stige? E s'anche celebraste Omesso il v. [42J.
sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi avrebbe negate la
stessa matrigna. Ma se qualcuno il mio volto e del leone il vello e le
chiome riarse dal libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia,
compii offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida conocchia ; ed
anche a me cinse una fascia morbida l'irsuto petto e fui con le dure mani
garbata fanciulla,. Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma
sacerdotessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche : * Non
riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco; ritirati or su,
abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per temibile legge interdetta ai
maschi, si venera un'ara che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran
danno scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone deposta, le forti
membra lavava! Altre fonti gli Dei ti donino : quest'acqua scorre per le
fanciulle solo, appartata dentro limitare secreto „. Cosi la
vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi battenti : né l'uscio
chiuso all'adirata sete resiste. Ma poi che col ruscello bevuto aveva
placato l'ardore, un triste giuro con le a pena rasciutte labbra
pronuncia. " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati accoglie
: questa terra a me stanco s'apre con pena. La massima ara „ egli dice
" che dai ritrovati greggi è consacrata, l'ara da queste mani
Massima fatta, questa nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta
non resti la sete d'Ercole escluso „. Padre santo salve! di
cui si compiace oramai l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere
benigno al libro mio. Cosi il breve carme assempra il
magistero delle pause musicali, cui si affida più espressione tal
volta che al contesto delle note : giacché l'abigeato di caco
quando il mito vive di forza verbale, la pausa lo costituisce non
meno della parola. Dal complesso della leggenda volgata e nota, che rinchiude
abbozzato nella mente di tutti il lavoro dell'arte, il poeta crea con
pochi tocchi i rilievi e le luci, le ombre e gli sfondi lascia alla
memoria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ricordo di tutti. Noi non
sappiamo oggi a pieno ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in
parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà mostrato da Vergilio ed
Ovidio. Intendiamo per tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il
carattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua squisitezza formale, è
dottrina; e il compiacimento del poeta è di una garbata esumazione dinanzi
a lettori cui la raffinatezza ha svigorito la forza delle sensazioni. Non
il senso religiosa non l'idea nazionale anima quei distici, se bene
dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un senso fine dello stile
e un gusto aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata
allusione mitologica. Nei limiti dell'arte, che non può esser
mai volgare, assai meno aristocratica, ma in compenso atta a una più
vasta cerchia di lettori, è la narrazione di Vergilio: perché
l'informano quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio
e la santità della fede. Dentro la cornice del poema, che esalta la
nazione nei suoi principi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla
leggenda, come a quella onde scaturisce l'orgoglio del nome romano e si
giustifica la gloriosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla I POETI
figura del pio eroe Enea, che opera per volere di Griove e abbassa la
fronte sotto l'afflato degl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinstituzione
del culto erculeo, e celebra età anteriori alla venuta dei Trojani nel
Lazio, non può non essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e
ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si
equilibra su i due suoi estremi: comincia con le lotte cruente di
Enea contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili vittorie romane
e alla battaglia d'Azio, significate da Vulcano su lo scudo dell'eroe.
Dalle prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza intervallo
in un constante sentimento ; e, nella compagine salda degli esametri,
appajono le divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano. La
leggenda si affonda nella realtà; la religione le penetra entrambe ; e il
canto muove dalle radici profonde dei profondi sentimenti del popolo che
diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti alle imprese, al culto i
divoti. Per ciò, e il mito di Caco vien esposto durante un
sacrifizio ad Ercole, e spazia abbondante di particolari. Qui è detto quel che
Properzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma si sostituisce. E la
primordiale figura della saga, Caco, non è svolta meno della seconda,
Ercole, né della terza, Evandro: però che rappresentino, in ordine, la
divinità mostruosa e la divinità bella e un antichissimo assetto politico
presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono edizione Sabbadini'
(Torino). l'abigeato di caco cosi collegate che Evandro, il
quale dà il segno dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui
le due forze divine si combattono. Il combatti- mento assume, difatti, la
parte più notevole perché il canto intiero suona d'armi e perché
nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti dei due awersarii.
Quindi, per l'esigenze del tema generale, il mito adombra quei
particolari di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia, e
lumeggia bene ogni forma di violenza; riconducendoci per obliqua via alla sua
probabile foggia originaria: breve in ispecie l'accenno allo
spergiuro del ladro, che più si accosta al furbo diniego di
Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar dell'importanza
su questo duello ne accresce le conseguenze e, insieme col pretenzioso
sfondo storico, le spinge al di là dell'origine di un culto. Poiché
il poeta vuol credere alla leggenda, e la pareggia alla storia, in Caco
con la belva muore la vita selvaggia, e dalla sua fine principia
non sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pinarii, ma la quiete
per gli abitanti del Palatino. E il suo cadavere trascinato per i piedi
empie d'un'avida curiosità le menti e non basta ad appagare i
cuori, atterriti dal lor terrore morto; e i fuochi spenti su le fauci
somigliano un simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con
guerrieri. E sull’Aventino, ove ENEA contempla ancora le tracce del
passato, i contemporanei d'OTTAVIANO (si veda) scorgono marmoree
dimore. Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso tra le
rupi sospeso: e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la dimora
nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui fu la spelonca,
remota in suo immenso recesso, che il semiumano Caco
di feroce aspetto abitava non tócca dai raggi del sole ; e sempre di
strage recente era calda la terra ed affissi su la soglia violenta
pendevano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vulcano era padre, del
quale atri fuochi dalla bocca recendo trascinava la sua vasta mole. A noi
bramanti il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio.
Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone ucciso e deUe
spoglie superbo, e i tori ingenti qui vittorioso guidava, e la valle ed
il fiume occupavano i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco a
ciò che nullo delitto ed inganno inosato o intentato restasse dal pascolo
quattro di mirabile corpo tori distorna e altr'e tante di magnifiche
forme giovenche. Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda
li trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii, e li
occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo
speco. Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto moveva
l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella partenza mugghiano i
buoi e tutta di lamenti riempion la selva e con clamore abbandonano i
colli. Alle voci una delle giovenche rispose per l'enorme antro
mugghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera. Allor per la
rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile riarse: con la mano afferra l'armi
e la quercia gravata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo
monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco pauroso e turbato.
Fugge senz'altro più veloce dell'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore
presta le l'abigeato di caco ali. A pena vi s'era rinchiuso,
ed un immane macigno, che per ferro e per l'arte patema stava sospeso,
avea fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito le porte
rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso
indagava, ratto qua e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte,
d'ira fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte le
pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella valle
riposa. Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una roccia, a
la caverna sorgente sul dorso, altissima allo sguardo, sede opportuna a
nidi d'inauspicati uccelli. Questa che, prona, dal giogo a sinistra
incombeva sul fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava;
da le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sùbito la
scaglia con impeto onde risuona l'etra grandissimo, sussultano le rive, e si
ritira spaventato il fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane
appar scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo, non
diversa che se nel profondo spalancandosi per forza secreta la terra
aprisse le inferne sedi e dischiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e
dall'alto l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore
tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella
cava rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide
opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e con rami l'incalza e con
enormi macigni. Quegli allora (non sopravanza difatti al pericolo scampo
nessuno) da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo fumo vomita, ed
avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi togliendo il vedere, e
nell'antro una fumosa notte aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta
Alcide 'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco, là
dove più fitto il fumo volge sua spira e nel grande speco fluttua atra la
nebbia. Qui nelle tenebre afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii
rece, compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si
ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera
casa: i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al cielo, e
il deforme cadavere è trascinato pei piedi. Non possono placarsi i cuori
mirando gli occhi tremendi, il volto, ed il petto della mezza fiera,
villoso di séte, e su le fauci i fuochi spenti. Da allora gli
si celebra onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo Potizio
institutore ne fu con la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio
erculeo. Quest'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre verrà
detta da noi, e massima sempre sarà. AVIRGILIO (si veda)
sembrerebbe di poter fare seguire senz'altro OVIDIO (si veda); che lo
imita su questo punto assai strettamente e ne finge anche il senso
religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né l'altro in quei Fasti
ove si rassegnano le feste sacre e nazionali di Roma. In realtà sotto
una superficiale simiglianza si cela ben profonda differenza. La
vita artistica del mito, pregnante in Properzio, rigogliosa in Vergilio,
vi agonizza. Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è esaurita,
che non osa violare il modello i^er rinnovarne le linee e si sforza
imj)otente di mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto piccolo
d'un nuovo vocabolo coniato, allor che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato
di caco claviger è detto con falsa audacia Ercole; si sminuisce nel
gioco artificioso d'una frase, quando è eletta a costituire un verso
cosi: Dira viro facies, vires prò corpore, corpus Grande;
sorride bolsa nel bisticcio etimologico Cacus non leve malum
Non è più la finezza properziana e la ricca concisione: è il lezio ricercato a
far un poco attonito chi legga. Ciò spiega poi anche la freddezza riposta
di tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll
gennaio, e il legame che alla cerimonia sacra lo congiunge è
rappresentato dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta difatti,
e perché madre di Evandro, e perché profetessa del culto erculeo,
giustifica tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma il legame
è sottile. Carmenta, numen pì-aesens della poesia, ne è lontana dal
verso; e la sua lontananza nell'essenza e nella forma (e
nell'essenza persiste forse anche quando cessa nella forma) sottrae parte
della forza reKgiosa al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se
raccontato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel 12 agosto.
E parte similmente della sua forza patria la fiaba smarrisce
(inconscio il poeta) per il colore eh' è dato alla figura di Evandro.
Questi non è più, come in Vergilio, il re che, ormai latinizzato,
ajuta Enea, e appare nell'atto di celebrar un sacro rito romano : è lo
straniero, l'Arcade, giunto da poco, nuovo alla terra, foruscito dalla sua
patria, il quale lia bisogno ad apprezzar il Lazio dell'incitamento e
dello sprone materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza al
tema, si addensa su la figura di Carmenta; ma il figlio di lei se ne
menoma. E menomato, stronca il vigore nazionale del mito. Non solo
: che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse, straniero egli
pure. Unico indigeno, Caco: ossia proprio il personaggio odioso del
racconto ; Caco terrore ed infamia della selva aventina. Cosi una
inezia apparente ha tramutato la situazione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita
all'artista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei riguardi di
questo mito, reale ed efficace. In vece egli imitò Vergilio nella
superfìcie; e all'artifizio di tale imitazione sospese il suo
racconto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorità
scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'eleva ad arte. Ecco i
bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe che del lungo orbe ha
misurato il percorso. Mentre lui ospita la casa d'Evandro, incustoditi
vagano pei campi feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno
il Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori. Del tacito
furto non vede, cercando, vestigia; le bestie airindietro aveva tratte
Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia della selva aventina, danno
non lieve a l'abigeato di caco stranieri e a vicini. Spietato
è del forte l'aspetto, le forze rispondono al corpo, il corpo ha grande.
Del mostro, Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi
ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le belve. Teste all'ingresso
e braccia pendono infisse: la terra squallida d'umane ossa biancheggia.
Con la mal serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :
diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Accolgo il richiamo „ dice
e, seguendo la voce, vincitor per la selva all'empio antro perviene.
L'adito quegli con un masso strappato dal monte aveva munito, che
cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie. Delle spalle questi
si serve anche il cielo v'aveva posato e il peso immane smuove crollando.
L'abbatte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pesante mole percossa
cede la terra. Da prima, venuti alle mani, Caco combatte, e feroce con
travi e con sassi sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha
vantaggio, ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vomita da la
sonora bocca. Le quali sempre che esala, crederesti che respiri Tifeo e
che dal fuoco dell'Etna ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la
vibrata trinocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro volte
percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita il fumo, e batte morendo
col vasto petto la terra. Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il
vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva
quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome
dal bue. Né tace la madre di Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la
terra abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. Il gesto più
significante clie insieme compiano Livio e Dionisio (i due storici
dell'età di Augusto, i quali riferirono la leggenda di Caco) è la
dichiarazione con cui rifiutano di accettare responsabilità per quanto
raccontano. Cosi si suol tramandare dice Livio; e richiama
tacitamente le parole del suo prologo: né di affermare né di negare
ho in animo. E Dionisio: " vi sono intorno al nume d'Eracle racconti
più favolosi, e altri più credibili. Il più favoloso è questo. E
vero che, nel gesto comune, Livio crede più di Dionisio ; tuttavia
entrambi hanno accettato l'opinione che il mito abbia un contenuto
storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette prender
radice col primo insediarsi laleggenda sull'Aventino) ed entrambi si
pongono, e risolvono male, il problema della sua attendibilità.
Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa del problema,
giunsero ad accrescerla. Se avessero riferito il racconto com'è in Vergilio,
né pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo segnala,
avrebbe esitato a respingerlo tra le favole. In vece essi lo trovano attenuato
presso i più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella veste di
fiaba si, ma umana, che vedemmo convenirgli alla fine delia sua evoluzione.
Caco vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E (Ij Su
Livio e Dionisio l'abigeato di caco un uomo malvagio (xaxóg), un
violento, un ladro : uomo. La possibilità terrena informa la fiaba e
non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ; onde le due forze divine
avverse si spogliano del soprannaturale e il valore del racconto
pesa assai più sul furto che su la vendetta. In questa difatti troppo
palese appare la natura mostruosa di Caco, troppo il padre mitico di lui
si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi in Livio
come in Dionisio, notizia della vittoria d'Ercole. All'offesa serve la
clava, arma d'eroe. Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini
; ma il malvagio lo invoca in vano. Resta, tuttavia, la
fiaba. Il colore la tradisce, i buoi stupendi di Gerione la palesano.
Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incunaboli di Roma, il
fiume Tevere cosparso le ripe di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente
nella queta ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge
l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ; poi una breve folla
d'uomini vigorosi si accoglie intorno a un'ara, consuma il sacrificio
fumante, il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Carmenta. E
l'aura favolosa si forma, oltre il preciso linguaggio prosastico, nel pensiero
di chi legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia si tinge
d'una gravità un po' paludata, d'una serietà riflessiva, le quali non la
soffocano affatto, si al contrario l'abbellano di un candore
ingenuo. Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel senso
secreto -- edizione Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in quei
luoghi conducesse dopo l'uccisione di Gerione magnifici buoi e che presso il
fiume Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a sé la
mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per
ristorar con la quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare.
Ivi, come per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un
pastore di quei dintorni, a nome Caco e di violenta forza, allettato
dalla bellezza dei buoi e volendo stornar quella preda, perché, se avesse
spinto all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte
medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca, trasse per le
code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni per bellezza.
Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno, esaminò con gli
occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal numero, si
diresse alla vicina spelonca, se per caso colà conducesser le impronte. Quando
queste vide tutte rivolte al di fuori né altrove dirette, confuso e mal
certo prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo. Ma poi,
avendo alcune delle giovenche sospinte muggito, come accade, per desiderio
delle restanti, il risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse
Ercole. Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener con la
forza, ma colpito dalla clava in vano invocando l'ajuto dei pastori
cadde. Evandro allora reggeva quei luoghi. Quest'Evandro, turbato
dall'accorrer dei pastori trepidanti pel forestiero reo di manifesta ucsione,
dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa, scorgendo l'aspetto e i
modi dell'eroe alquanto maggiori e più augusti degli umani, gli chiede chi
mai Omesso in parte il l'abigeato di caco si sia. Quando il
nome e la paternità e la patria ne apprese: nato da Giove, Ercole, disse
salve! Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti predisse a me la
madre, veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe
stata dedicata, la quale un giorno il popolo più opulento della terra
chiamerà massima e venererà secondo il tuo rito. Dando la destra
Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adempiere i fati, instituita e
dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima volta con una stupenda
giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al
ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le
famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato. Ora accadde che
i Potizii fosser pronti per tempo e ad essi venissero imbandite le
interiora, i Pinarii giungessero per i restanti cibi ma già consumate le interiora.
Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei Pinarii visse, che non
mangiassero le interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i
capi di quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a
pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta la schiatta dei
Potizii peri. Tale, nell'insieme, è Dionisio: se se ne toglie
che Caco è per lui non un pastor ma un predone dei luoglii; che Carmenta
è mutata in Temide; che il ladro, interrogato, nega la sua rapina ;
che Ercole, prima che a sé, alza un altare a Giove Inventore; e pochi
altri particolari minori su la cui natura e sul cui valore non è qui da
dir nulla, poi che fiu'on sopra vagliati. Se non che in Dionisio è, di
più, una stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due capitoli
sopra un racconto cui non crede affatto; scrive ciascun particolare, ma
reputa di vedervi adombrato un simbolo che rivelerà poi, con sicumera da
erudito certo di sé e del proprio sapere (povera certezza in vero!).
Eppure non è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e stanca. Il
suo pensiero critico è estraneo: si afferma all'inizio, si ritrae poi,
non ricompare se non alla fine : Intorno ad Ercole questo è il
racconto favoloso che si tramanda. Alla fiaba manca l'amore. I
Razionalisti. Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può
che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le stretto j e fatali del
razionalismo. I don Ferrante dell'erudizione romana trovarono il fatto
loro» come i poeti in Ennio, gli storici negli antichi annalisti, negli
annalisti dell'età dei Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo. Su
la forma precisa del racconto che si trovava presso l'uno e l'altro
siam tanto jdoco certi quanto non possiamo dubitare su la forma generale.
Entrambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica razionalista,
concordano nel ridurre il mito a un gramo cencio per tramutarlo in
realtà; ma si l'abigeato di caco direbbe che il primo abbia
l'occhio più tosto alla redazione poetica della favola siccome apparve
poi in Vergilio ed era apparsa prima in Ennio, il secondo invece si parta
più tosto dalla redazione storica che con riserve riprodurranno
Livio e Dionisio. Cassio Emina difatti narrava un preteso "
racconto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di servo. Suo padrone
sarebbe stato Evandro, il buono Evandro signore del cattivo servo.
Cotesta concezione fondamentale ci ritorna in due testimonianze, ma un
po' diversamente: presso il commentator di Vergilio Servio e il suo
interpolatore ; e presso uno scritto L'origine del popolo romano^ opera
probabile d'un erudito del IV secolo che compilava con grami
intenti storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il
primo sembra contaminarlo con altre informazioni, ma certo non l'ignora.
Per Servio adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al
re degli Arcadi, che per l'abitudine malvagia di devastare i campi col
fuoco fu detto vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome gli venne
dal greco xanóg col ritiro dell'accento^ come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole
lo abbatté ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il racconto di Vergilio
resta, ma, ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è
travisato nella sua essenza. A tale effetto furono bastevoli tre
interventi del razionalismo: l'uno a spiegar e ridurre la natura mostruosa
del ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a giustificarne
i rapporti con Evandro. Più in là si spinge in vece L'origine nell'
attinger forse più compiutamente, certo in modo più esclusivo, a Cassio
Emina. Non solo Ercole è un uomo forte (il suo vero nome è Recarano), e
Caco uno schiavo ribelle; ma il furto è punito per autorità di Evandro
senza duello né lotta. I motivi razionali di questa notevole soppressione
son due : lo scrittore non aveva spiegato allegoricamente il fuoco di
Caco e doveva quindi sorvolare su la circostanza in cui più il fuoco ha
parte ; la qual necessità poi gli servi anche per metter in rilievo la
buona figura di Evandro e la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si
allontana dalla fiaba poetica molto più che non appaja Servio, se bene
come questo la tenga presente. Come però questa di Cassio Emina
doveva essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito
fantastico nei termini della realtà possibile, ma, rispetto al racconto
degli annalisti più antichi, non era se non se un lieve i tocco;
cosi su questo racconto altri critici inrtervennero assai più profondamente.
Ridurre il mostro a servo: ecco una trovata buona. Ma m.utare
l'uomo singolo in condottiero di eserciti: ecco uno spunto ottimo per
inquadrare meglio nella storia dei popoli anche la breve favola.
Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e da un contemporaneo di lui,
per qual si voglia via, la derivò a sé Dionisio per il suo più credibile
racconto; edizione Jacoby (Lipsia). l'abigeato di caco Quale
capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e comandante d'un numeroso
esercito, Eracle percorse tutta la terra compresa dall'Oceano;
abbattendo, ove c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o
le repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di uomini
dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di stranieri; instituendo in
vece legittimi regni e savie repubbliche e costumanze socievoli e
umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli
marittimi con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e
diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando fiumi che
inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili; e l'altre
opere compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune
pel vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né conducendo
una mandra di buoi (né di fatti la regione è sulla via di chi si rechi ad
Argo dall'Iberia, né per aver traversato la contrada avi'ebbe meritato
tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere e
dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e a colà
permanere più a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta phe
avvenne pel sopraggiunger dell'inverno e dal non accettare tutti i popoli
che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi è narrata la
sottomissione armata dei LIGURI, non che d'altri ; per
continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si dice
che anche il favoleggiato Caco dei Romani, un re affatto barbaro e
signore di sudditi selvaggi avesse con Eracle contesa, perché occupando
luoghi forti era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe
appreso Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con apparecchio da
ladrone attaccò in sùbita mossa l'esercito dormiente, e quanto del bottino
rinvenne incustodito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio
dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu ucciso egli stesso
nelle fortificazioni. Abbattuti i presidi! di lui, i territorii all'intorno
presero per sé i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro. Quest'ultima
asserzione rivela quanta libertà il razionalista si arrogasse; fino a far
giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro signore degli Arcadi
che la volgata afferma insediato sul Palatino al momento del duello.
Libertà intesa al servizio del vero " secondo i filosofi e gli
storici come s'esprime Servio, ossia di quella critica, che conduce a
creare, accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e grottesca
: la fiaba dell'Ercole errante in awentm'e cavalleresche, a liberare gli
oppressi, render civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto
sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il " vero „, né cosi
miserandi apparirebber i suoi risultati; se non gl'inquinasse una mal
celata boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva che è
solamente sterile miseria. Su queste rovine pochi poveri racconti
si stremano ancora. Evandro richiama con sé la figura di Fauno di cui era
divenuto un equivalente sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno
attira il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca
suggerisce la storiella che la dea abbia otte- l'abigeato di caco
nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco, suo fratello.
Poi, è il silenzio. Singolare sorte della saga, in verità.
Ricca di densa materia; vissuta traverso il succedersi delle
geniture in una propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente
tra il Palatino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II secolo a. C. non pur la
sua forma poetica e la sua foggia istorica, si anclie soffri su quella
e su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per modo, che
sopra il quadruplice schema l'età più possente del pensiero romano,
l'augustea, non seppe se non disporre adorne trame di ben vagliate
parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe preclusa nel sèguito
ogni ulteriore vita : però che dovesse morire intero con l'estinguersi la
potenza alla sua bellezza verbale. Cirene mitica <i). Il
sostrato storico. Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più eletti
stami poeti, tra quanti furono nell'antichità, grandissimi, il mito greco di
Cirene e di Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella storia
reale una sua trama di fatti concreti e in parte sicuri, da cui deriva
direttamente o indirettamente tutte le proprie successive forme e in cui
è da ricercare il motivo appunto di questa evolventesi trasformazione. Se
il Peloponneso, con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tènaro; se
Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set- Per tutto queeto capitolo vedi
Vlndagine in libro II cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i
rispettivi paragrafi. CIRENE MITICA tentrione di Creta; se la Libia,
ferace di gregge e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo
geografico: certo fra questi perni essenziali si svolgono gli
avvenimenti, di cui gli uni trovano nella fiaba un riflesso e una deformazione
immediata, gli altri solo in modo mediato danno impulso a talune vicende,
determinano qualche figura, causano pochi episodi! Grià in tempo
antichissimo, intorno al secolo decimo a. C, sciami di coloni s'eran
condotti fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a quest 'isola
un' incancellabile fìsonomia dorica. Più tardi sol tanto, presso che nel
secolo VI, sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi, a
suggellare della sua particolar impronta il carattere e la storia di
quella breve terra. Ma fin dallo scorcio dell'età precedente una
mano di cittadini Terei abbandonava con ardire la spiaggia patria
per avventurarsi nel mare, oltre Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa
nei particolari procedesse, quali che fossero le fatiche sostenute e gli
ostacoli superati, i coloni non posero in vano il piede su la terra
straniera : la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,
prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi si ebbe i suoi Re. Largo
era dunque il volo concesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,
perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola Cfr. Beloch Griechische
Geschichte; BosoLT Griechische Geschichte : Malten Kyrene C Philologische
Untersuchungen. a l'isola, dall'isola al continente. E la
lunga vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito; ma quale è la
realtà in cristallo iridato. Però che la memoria fosse alterata da
quell'ampio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il quale è pregio
d'ogni stirpe greca, in diversa misui^a; e giungendo alla s^Diaggia
insueta recassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale possesso di Dei di
Ninfe di Dee : Numi abitatori del cielo della terra del mare. E
allargato, di li a non molto, già nel principio del secolo VI, fu
ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni. Regnando difatti Batto II
della stirpe che prima aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole
flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, pervadendo e mischiando l' antica
massa. Giungevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi distinti per la
lor propria dissimiglianza. Griungevano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi,
precipui per la loro importante sede. Rinnovarono la stirpe
corrompendone l'uniformità; apx)ortarono un soffio diverso e molteplice
ad alimentare di parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi
dai venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe locali di efficacia
non piccola ; grandissima. Non soltanto perché apportatori di nuovi
elementi al racconto; ma anche perché, numerosi, costituirono a sé un
centro secondario di creazione e diffusione mitica, in antitesi al
principale, cui la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e la
priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era, Ebodoto da questi due
distinti gruppi del popolo greco in Libia formato, quasi per intiero, il
sostrato mitico delle leggende cirenaiche. Tuttavia, né
questo, che pur ora è stato detto, sostrato mitico, né quella, che fu
tratteggiata, realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire, soli,
le mature forme della favola di Cirene e Apollo; ove sfuggisse il centro
vero, il proprio crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e
vitale, possente d'un suo secreto alito di pura bellezza, organata in una
palese e pur varia armonia, la massa confusa e diffusa che si sprecava
candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine. Quel centro, quel crogiuolo
fu l'antichissimo santuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea
vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica si tramutò in mito
greco: era d'una stirpe, divenne d'un popolo ; era d'una regione, se ne
impossessò l'arte, universale. E l'arte fu in fine la plasmatrice
maggiore di quel mondo fantastico, cui diede l'espressione con voci
perenni. L'epica esiodea, l'ode pitica di Pindaro, l'inno di Callimaco,
il racconto di Erodoto, il carme didascalico di Vergilio intonarono per
quell'armonia le note. n. L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo. D
drappello d'uomini terei che s'insediava primo sulla proda del mare
libico recava con sé, principalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con
speciale e insigne culto, uno il cui doppio nome serbava ricordo di
antica vicenda: Apollo Carneo. Carneo era stato il Dio dell'età più
antiche, venerato di profondo e rispetto e amore fra i pol}oli dori. Sol più
tardi il nume di Febo Apolline era sorvenuto, in uno slancio di
prepotente predominio, a fondere con sé, come quella che gii era
per qualche carattere e attribuzione simigliante ed afiine, la vetusta divinità
dorica. E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran nati il nome
nuovo di termine duplice, e la figura nuova in cui le linee primordiali
sopravvivevano accanto alle ultimamente tracciate ; senza vero dissidio,
a causa della sostanziale contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi
accostandosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo non fu, nella terra
libica, pretermesso il culto. Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni
trovarono nella patria nuova un'abbondante fontana da cui l'acqua
scorreva copiosa a fecondare il suolo riarso, a quel Nume appunto questa
sorgente ricchezza delle glebe fu piamente dedicata. A torno il " fonte di
Apollo „, nel luogo ove conosciamo la città di Cirene, posò una
schiera di cittadini terei. Fra tanto, rapido era l'accostarsi de'
coloni alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan variegando
in un disegno ellenico: e come alla stirpe, cosi a' costumi, cosi alla
lingua. Appresero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal Carneo
aveva pure, nella parlata indigena, un suo appellativo: era detta '^ Gira
„. Onde, presso a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase. E
poiché alla fantasia per abitudine secolare si popolavan di Driadi gli alberi
e di Ninfe le sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine
fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira suonò l'espressione; e
grecamente " Cirene „ (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il
simbolo, e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo indigeno e il
sopraggiunto venivan facendo ; e tanto più doveva apparir cara ai Dori
quanto più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si succedevano.
Era destinata a compaginarsi per impulso crescente con essi ; cosi che
nessuno stupisce di vederla scelta a riprodurre, direi eternare, in sé l'opera
che quelli spesero per adattare il paese e renderlo quetamente
abitabile. Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice (nÓTvia
d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare abbattere un leone: sola, E
nell'atto fu in breve ferma per sempre, irrigidendolo come in uno
schema, fissandolo in un gesto tipico. Rimase. La Signora
delle belve e la Ninfa di Gira era, e per l'uno e per l'altro de' suoi
attributi, insensibilmente e inevitabilmente condotta presso Apollo
Carneo : protettore della fonte ov'ella abitava, e antico Dio del popolo
che simboleggiava ormai ella. Divennero amanti divini ; amanti li narrò
il sogno nuovo. E cosi il nodo l' " EEA „ primo del tessuto mitico
s'era allacciato. In Libia si compievano le nozze ; e Libia,
l'eponima del paese, la divinità che dava al nome della regione una
grazia feminea, fu difatti la pronuba benigna e ospitale, cortese di favori
agli sposi. Il pensiero era in un felice momento creativo
: in uno di quei momenti in cui il volo non si tronca; e non si
perde, e né meno si smarrisce, la spinta prima. In quest'atmosfera
innovatrice, ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo Stato
nascente un diverso patrimonio anche di leggende, fu sùbito còlta l'analogia
fra Cirene, che reprimendo le belve e prodigando l'acque
procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza; Apollo Carneo, la cui
natura solare era, in guisa eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un
giovinetto iddio, il quale in Libia era giunto non sappiamo ben d'onde.
Egli era il caratteristico protettore dei campi ove crescon le messi,
dei pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli aratori e dei
pastori. Tale si venerava in assai regioni greche, e fu presto diffuso
sopra un'amplissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino in
Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro. Nell'isole del mar Egeo
aveva culto ; culto in Arcadia. che dunque dall'isole si spingesse in
Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti all'appello di Batto II ;
egli fu là. E, sia per la natura sua propria assimilantesi, sia per la
legge, onde la fantasia greca è governata, di non lasciar nume
alcuno isolato ; come altrove s'era commesso con Dioniso dalle feraci viti o
con Ninfe indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa
si congiunse, e presto, con la coppia amante; avvicinandosi forse prima a
Febo, a quella guisa che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma
"Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad entrambi tuttavia divenendo figlio
dopo aver accostato l'uno, necessariamente. Portava egli con sé tutt'una
serie di attributi e di nessi, dei quali alcuni gli eran più intimi;
altri più proprii eran di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto
era con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, custode di gregge; con Nò
mio, pastore; x^ersino con Zeus padre. Né il dio delle terre
coltivate poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea. la madre
TeiTa; e alle Ore, le fanciulle variopinte il cui corso regola la vicenda dei
raccolti, e allieta o attrista i contadini a volta a volta :
attinenze indubbie, e antiche certo, ma costituitesi s'ignora in qual luogo
prima. Spiccatamente però egli era tessalico : in Tessaglia è forse
da vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni modo gli venne la
sua più speciale sembianza: dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è
probabile che ivi fosse da tempo unito con il " giustissimo tra i Centauri,,,
Chirone: quegli medesimo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella salutare
arte medica Pèleo, e di questo il figlio Achille, e Asclepio il sanatore
eccellente di ferite. Accanto dunque alla coppia d'Apollo e Cirene, la
quale recava mischiati i suoi caratteri delfici dorici e libici, il dio
fanciullo era a preferenza tessalico. niade Di questa situazione profittò
accortamente chi ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso
letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda in naturai guisa si
riportava a cagione della figura di Febo; sotto il supremo patronato
del quale la favola ricevette un più ampio svolgimento. Ma per ben
comprendere di esso l'origine e i modi, è necessario badare a quella ch'è
dei rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se ben forse
più riposta, caratteristica. Tendono tutti bensì, e in primissima linea,
a rilevar l'importanza del nume Apolline venerato nel locale santuario;
ma e tendono a intrecciare, sotto di lui, le fila di più e diversi miti,
ancor che sieno (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lontane
regioni. Un esempio: per più punti simili, Asclepio di Tessaglia e Apollo
di Delfi, dèi sanatori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel racconto,
e spontaneamente Apollo aveva da soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se
ne trae lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e di Tricca il
dio di Pito. Ardimento anche maggiore permetteva la favola africana: il Carneo
di Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'orditura d'un'ampia tela
fra due paesi lontani e ben separati; la quale filo maestro contenesse
Febo Latoide, identificato già col primo e padre già del secondo; e
come su punti estremi si fissasse su la città di Cirene e su le vette del
Pelio. E tra Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra la sede
dell'amata e la sede del figlio. Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea
„ di Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta di Esiodo.
Due versi ce ne giunsero, unici: " O quale in Ftia, donata di
bellezza dalle Cariti, presso l'acque del Pèneo abitava la bella Cirene
„. Il resto del carme si ricostruisce per congettura. Figlia del tessalo
Ipsèo, re dei Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene
crebbe vigorosa e animosa, strenua in combattere. Durante la lotta con un leone
la sorprese Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone la
profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò sul cocchio aureo in
Libia, ove Libia la ninfa li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il
j)adre recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono e fecero di
lui un immortale simile a Zeus, ad Apollo simile, un Agreo cacciante, un
Opaone custode di gregge, un Nomio pastore. Tale lo schema breve
della fiaba. Ove si riconosce, senz'altro, il corteggio dei numi che nel
racconto penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo Aristeo; e
sùbito si avverte il colorito libico riflessovi da Cirene; e né meno
s'indugia a intender perché, volendo insieme serbar intatto il carattere
tessalico del giovinetto e non cancellare l'episodio della sua nascita in
Africa, venisse alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso
i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar popolosi di leoni
queti piani della Tessaglia; ma qual poeta ha mai temuto d'essere
illogico '? E fuor di questo, la trama era pregevole per molta
armonia ; e sovra tutto per un'intima leggera grazia di tocco che temperava con
l'amore del dio la salvatichezza della fanciulla; per una accorta
sapienza prospettica nel disegnare le scene su lo sfondo di due
feracissime terre, onde senza contrasto si rilevava, ben stagliato,
in gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo senso sacro
in fine diffuso nel carme, traverso le parole di Chirone dal molto senno
e assai venerando, sino a dargli temperatamente un tono
religioso. Che stupenda, del resto, fosse la concezione,
dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti poeti. Fascinati
questi, oltre che dall'aura di sogno emanante fuor della fiaba, anche
dalle lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla dei canti
greci, la Tessaglia, come la nuova fiorentissima colonia dorica, la Cirenaica.
Per l'una il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per
l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato. Ma era inevitabile che
questi due poli, ben armonizzati (all'inf uori della irrazionalità su i
leoni) dall'Eea, attraessero poi in modo palese ciascuno a sé la materia;
e la Ninfa tendesse a divenire di qui quasi totalmente tessala, a
ridivenire di là quasi esclusivamente libica. Due filoni se ne
originarono, non privi né l'uno né l'altro, all'origine, di tracce
lasciate dall'Eea, unica fonte primitiva; ma ben divergenti in
processo di tempo: l'uno che con Aristeo trasporta sul Penco la stabile sede di
Cirene: l'altro che con Apollo rinforza e rincalza i tratti africani di
lei. Su la via per la quale Cirene jDerverrà a stabilirsi in
Tessaglia la prima tappa è compiuta dall'ode pitica nona di Pindaro, nel
474 a C, in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella corsa
in armi La patria del vincitore cui il canto è indirizzato dovrebbe
far supporre che amplissimamente sul racconto pindarico si esercitasse
l'influenza libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve ridursi
a un unico particolare. Ove l'Eea introduceva Libia accogliente gli amanti,
Pindaro che conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda da
valersene nel suo carme , non esita a disegnar in vece, nel principio del carme
medesimo, la figura di Afrodite dal piede d'argento: riuscendo a un
doppione. Perché ? Ad Afrodite era dedicato un giardino in Cirene e a lei
si rendeva culto con qualche importanza ; onde fu che la notizia
regionale s' insinuò non pur a modificar la trama del racconto esiodeo ma a
duplicarne un tratto. Accanto a questa ben lieve alterazione può esser posta
un'altra, meno visibile, e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes
strettamente congiunto nel mito; v'era tra essi quasi un vincolo che ove
Funo stava l'altro adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per
il quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non Apollo, ma Ermes ebbe
a recare il recente nato Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a
ogni modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni però assai
più notabile è la non compiuta audacia con cui il poeta svolge la profezia di
Ghirone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza religiosa e la sua
dottrina, ove a ciascun Iddio eran assegnati attributi fissi e certi da
non violarsi da non obliarsi, ed erano al tutto sconosciute, riprovevoli, le
confusioni le incertezze dei primi canti divini. Già che, i^er
esempio, Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profetante Nume,
troppo illogica e, diciamo, troppo antropomorfica risultava la scena in
cui al Vate da un Centauro vengono vaticinate le nozze. Sùbito lo
vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5 protesta, non totalmente. Dimostra
l'inconsistenza dell'episodio, poi lo accetta con un sorriso ed un
sospiro. Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno riproduce
l'Eea. Splendidamente per vero. Voglio, con le altocinte Cariti
Telesicrate proclamando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e
prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli: Questa un giorno
dai ventosi sonori antri del Pelio il chiomato Latoide rapi ; condusse
Egli su l'aureo cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra
in gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar Edizione
di Schrodeer (Lipsia). la terza amabile fiorente radice del mondo.
Accolse Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine
redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce letto gi'ato diffuse
pudore, in comuni nuziali vincoli l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo
ampio possente: Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da
l'Ocèano seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti
an- fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la Nàjade
Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle braccia crebbe,
Cirene. La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i gaudii
delle danze fra casalinghe amiche ; ma, con bronzei dardi e con spada
lottando, l'ispide belve uccidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi
procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che, dolce compagno di
letto, su le ciglia si stende verso l'aurora. Sorprese lei un
giorno, sola, in lotta senz'armi con vigoroso leone, il lungisaettante
Apollo d'ampia faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida
Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride, lascia ! l'animo
d'una donna e la grande possanza stupisci, quale lotta con impavida fronte
sostiene, giovinetta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le
treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da quale schiatta
rampollata degli ombrosi monti abita le caverne ? Forza illimitata
manifesta in vero.. È lecito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal
letto tondere il fiore dolcissimo ? ., A lui il forte Centauro, con
sopracciglio benigno chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose :
Se Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk. crete alla savia
persuasione sono le chiavi dei sacri amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei
come fra gli uomini questo del pari è pudore : palesemente il dolce
letto la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene
menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste finte parole. Tu, onde
sia interroghi la schiatta della fanciulla, o Signore? tu, che di tutte
le cose conosci il fine e tutte le vie: e quante di primavera
germina foglie la terra; e quante nel mare e nei fiumi da l'empito
dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel che sarà e donde sarà,
ben vedi! Ma, se anche coi profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei
sposo venisti su questa balza ; e oltre il mare devi portarla,
nell'insigne giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai raccogliendo
l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di piani. Allora la diva Libia
dagli ampi pascoli accoglierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro
; parte della terra a lei tosto donando, possesso comune, non
spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di belve. Ivi ella un
fanciullo genererà, da l'illustre Ermes di poi ritolto alla cara madre, e
recato alla Terra e alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le
ginocchia al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stilleranno: lui
rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o Apollo, delizia agli uomini
diletti, un Opaone custode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore:
altri lui nominando Aristeo „. Nella pausa che succede a quest'inno, se
ne sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La più bella e
la maggior sua scena si svolge fuor di Libia, in Tessaglia; i progenitori
tessalici della fanciulla son rammentati; narrate le sue imprese
virginali su le vette ventose del Pelio; né il suo figlio pure s'indugia
su la sponda africana. E tuttavia non per questi motivi, di per sé
valevoli, l'ode pindarica scema IL SIGNIFICATO PRIMORDIALE di Cirene; si
perché, continuando l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai
che l'eroina indigena venerata e creata da un popolo in uno Stato,
la comune divinità ellenica sposa di Apollo e madre di Aristeo, Apollo
delfico e Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto alla
sua statua, l'Eliade; come credenti al suo culto, gli EUeni. A
testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'origine vera della Ninfa resta la
sua lotta col leone: particolare di precipuo sapore africano. E
questo pure andò, in progresso di vicende, eliminato. Apollonio Rodio ne'
suoi Argonauti nel trattar da erudito la leggenda avverti l'incoerenza di
quell'episodio che a due veri poeti era sfuggita ; e lo soppresse
senz'altro. Per lui. Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a
custodire gregge e di li la rapisce, senza lo speciale motivo della forza
ammiranda di lei, in Libia. In Libia le ninfe sotterranee
(x&óviai vv/i,g)ai) li accolgono: le quali son, come tutrici,
numi del paese e occupano presso il nuovo poeta sapiente, cui la sminuita
fantasia e l'accresciuta dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella
personificazione d'una terra, il luogo dell'eponima ninfa Libia. Apollo
poi recherà il nato Aristeo alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse
il concetto è attratto dalla fama del Latoide qual Musagète. Che
più resta della Signora delle belve e Dea della fontana? L'esiguo
accenno alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno duraturo della
sposa colà. La maggior luce è gittata su Aristeo, su la sua nascita e le
sue vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un momento.
Contro questa general tendenza di Apollonio non starebbe che la
soppressione della profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,
l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispettoso, l'elimina. Ma appunto
perché a lui tutta la leggenda si presenta in un'aura tessala,
sente poi il bisogno di non perdere totalmente questa figura, cosi
dicevole al suo pensiero; e la rammenta quindi, in altro luogo, come partecipe
all'educazione del Fanciullo pastore, insieme con le Muse. Non più grande
né più intenso poteva essere, sembra, l'influsso della patria
acquisita contro la patria e prima e vera. E fu più grande e fu più
intenso. Bastò che un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto,
imperniandolo, ancor più che i suoi predecessori, su Aristeo.
L'inevitabile avvenne. Dinanzi la memore mente dell'artista (o della sua
fonte) è il noto e diffuso episodio omerico di Achille invocante
nella passion dell'ira e dello sconforto la madre Tetide su la riva del
mare. Quando dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse il
prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nell'atto dell'eroe epico ; e lo
conduce verso la madre Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e
nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola libertà il j)oeta la dice
figlia non di quello ma di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel
profondo gorgo paterno e di addurre su la sponda della corrente acqua il
Giovinetto afflitto da eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui
fa breve cenno; ma al fantasioso innovatore del mito tutta la scena
si transfigura. Nuovo sfondo è il talamo recondito di Penco ove le
Ninfe vivono. Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe
penèa, perdute, si narra, per morbo e per fame le api. Triste, fé'
sosta presso il sacro capo del fiume ; molto lagnandosi, e così invocando
la madre: " Madre Cirene, madre, che il profondo abiti di questo
gùrgite, perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici) Apollo mi
è padre, inviso ai fati mi generasti? o il tuo amore per noi dove hai
gittato? perché onori celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori
terreni, che a me alacre con pena procacciava solerte custodia di biada e
bestiame, ho perduti, te avendo per madre. Or su or su : svelli di tua
stessa mano le beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle !
distruggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bipenne vibra neUe viti !
se tanto fastidio ti px-ese della mia fama. La madre il lamento senti nel
talamo del fiume profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe
filavano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e Ligèa e
Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i bianchi colh; e Cidippe e
Lieorìade bionda: vergine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del Georgiche
edizione Hietzkl (Oxford). Omesso il v. parto; e Clio e la sorella Bèroe.
oceanine entrambe, entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate ; ed in fine, le saette deposte, la
veloce Aretusa. Fra le quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica
e l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti annoverava dal Caos
amori di Dei. Or mentre nel racconto rapite devolvon dai fusi i molli
pennecchi, novamente il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne.
Su i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre
sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo capo levò.
E da lungi: di tanto gemito non atterrita in vano, Cirene sorella :
egli stesso, la tua massima cura, Aristeo!, tristemente lacrima presso
l'onda del tuo padre Penco : e te chiama crudele, . Allor percossa
la mente di nuovo terrore la madre:
Conducilo, or su, conducilo a noi; è lecito a lui toccare le
soglie divine,. E insieme, al profondo fiume comanda di lasciar per V
ingi'esso del giovine adito largo. Lui l'onda ricinge, ricurva di
montagna in guisa, e nel vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia.
Già la sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli umidi
regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti boschi ; stupefatto da
l'ingente moto dell'acque tutti osservava i fiumi sotto la grande terra
fiuenti. Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del talamo giunto, e
conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti del figlio ; alle mani danno le
sorelle a vece limpida l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ;
gravan di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli
Omesso il v. Omessi i vv.] altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi, dice,
la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E insieme, prega ella
l'Oceano padre delle cose e le Ninfe sorelle, che proteggon cento le
selve, e i fiumi cento. Tre volte del liquido nettare cosparse il fuoco
ardente ; tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto
avvampò. Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo a
convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa Cirene. In realtà,
d'identico non rimase che il nome. L'Eea aveva posti accanto, creando
una scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone, Apollo
ammirato, e il Centauro in atto profetico ; ed era stata, in cosi fare,
scaltra ed ingenua. Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido
di aquila: con Chirone si corruccia e si trastulla ; par clie debba annientarlo
con un colpo d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece un
motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un episodio marginale, quasi comico, e
un poco inopportuno : ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra a fronte;
e sopr'essi non l'amore, non tanto la cupidigia, quanto la Necessità,
onde debbono unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio
montano, e ha da portare la selvaggia nella terra dei Libi. Anzi, la
Legge, che è la protagonista men palese e più reale del duetto, determina essa
sola l'episodio centaureo che segue, e gli dà, essa sola, quel contenuto
da cui è scemato e quasi annullato il comico inevitabile. Sicché la Pitia
addensa la materia vasta dell'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di quelli
che la sorte prepara e rende decisivi nei secoli. Due Muse austere, di
Storia e di Religione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa
•ttemplice. VIRGILIO (si veda), e tanto tempo era trascorso! fu più
indipendente nel trasfonder sé entro il mito. Si rammentò dell'ombre
fresche sotto cupole silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con
cui aveva assai volte spinto il viso nei misteri liquidi dei fiumi e del
mare, fin sotto là dove il Sole non giunge. E negli occhi gli fu
l'imagine che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta sopra uno
sfondo d'inconsistenza e di fuggevolezza, l'uomo nel divino. E l'uomo fu il VIRGILIO
(si veda) georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di grazia e immerse
in un pudico garbo di colori e di movenze; costumi domestici di fusi e
di conocchie, uso agreste di vivande parche e di sacrifizii larghi
; tranquillità villereccia di racconti, e brio, salace forse, non lubrico, di
aneddoti e facezie. Sovra ogni cosa, poi, assemprato dallo stillar
non triste delle grotte sotterranee, dall'umidore non nocivo di margini
erbosi, sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo, e le
bambinesche imprecazioni, e lo spavento, non estremo, della madre, e il
racconsolo ultimo, flebile ancor esso. Questo tono, appunto,
flebile, questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel recesso
romantico, nega, da solo, l'antico mito della Cacciatrice, vigorosa
senz'arme in contro alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo,
più che ogni variante di particolari o differenza di luoghi o
contrasto di episodii. C'è aria di Mantova; non, come in Cirenaica, calura di
ghibli conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro, impetuoso vento
del Pelio. Il mito è diverso. Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno
e conciso. Ma è necessario non dimenticare che di tanto
trapasso, se il terreno è lo spirito vergiliano, la radice è l'aver posto
nell'acque, non più della sorgente Gira, ma del paterno fiume tessalo,
colei clie i Dori avevan veduta sterminare le belve, e procacciar pace
agli aratori nel franger glebe. Ed è, questa, si rammenti anche,
l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea, trovò in Aristeo la sua
origine prima e il fti'inio motivo ; questo è l'ultimo effetto dello
spostarsi la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro, la
Tessaglia. Narra in vece Acesandro, storico cireneo vissuto come,
regnando in Libia un Euripilo, da Apollo fosse in Libia trasportata
Cirene; e come, poiché un leone infestava il paese, Euripilo offrisse
in premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene l'abbatté, e
ottenne il trono. E press'a poco identico è il racconto d'un altro
storico, Filarco. Entrambi adunque lumeggiano a preferenza
l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, culminante, della lotta con il
leone avviene dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a
difesa del paese e per iniziativa di un re indigeno, Euripilo. Né cotesta
è accorta correzione di eruditi razionalisti. Il contesto medesimo ci appare
difatti negli esametri martellati d'un poeta cireneo: di Callimaco;
segno che la fiaba possiede, come una non dubbia energia vitale, cosi
radici assai vaste e assai profonde nel territorio cirenaico. Di
Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno ad Apollo^ rapidamente un
quadro che ha per sottinteso un racconto analogo a quel di Aces
andrò. In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti seguaci di Bellona
tra le bionde figlie di Libia danzarono, il sacro tempo ad essi venuto
delle Cameadi. Non ancor potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori;
ma la fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il Signore,
egli stesso, e alla sua sposa additava : sul colle dei Mirti dove la
figlia di Ipseo uccise il leone, infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella
più gradita danza non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò
quanto a Cirene, memore dell'antico ratto. L'antico ratto è quel medesimo
narrato dall'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco, come quello
di Acesandro, è da l'Eea molto lontano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la
Tessaglia; e il leone rugge da vero su le sabbie del deserto. Per che
modo e traverso che vicenda si giungesse a cotesta forma della saga, che
due Il testo di Callimaco è del WilamowiTz^ (Berlino). Domina la
fontana di Gira. CIRENE MITICA storici e un poeta indigeno
ripetono analogamente, è indicato, nel medesimo carme callimacheo, dal processo
del pensiero artistico. Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio,
raccolto in un recesso ove son palme e allori, gli alberi di Febo Apolline; e
nelFaria sta, grave e dolce, il senso sacro del Dio imminente. Oli
quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro, quale tutto il recesso !
Lungi lungi l'impuro ! Già già a la porta col bello piede Febo percuote.
Non vedi? Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito; il cigno
nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi paletti dell'uscio; da
soli, chiavistelli : però clie il Dio non è juii lontano. Giovini, al
canto ed aUa danza or vi apparecchiate! Apollo non a tutti appare; ai
generosi, pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, piecolo è quegli.
Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non mai saremo esigui.
Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che trascina Callimaco,
alquanto si svolge cosi da prima il fervoroso esordio ; il quale non
è tuttavia vano, ma serve a preparare, animandola della sua vita
illuminandola del suo lucore, la lauda che vi si farà poi del Dio e
l'enumerazione delle bellezze di lui e degli attributi. Egli è Nomio, nei
pascoli. Egli è l'Ecistère, fondator di città. Quadrienne pose le
fondamenta in Ortigia. E Febo anche la mia città ferace
[Cirene] a Batto indicò : corvo,
fu guida al popolo che si recava iu Libia, propizio al colono : e fé'
giuramento di mura donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è
Apollo- La città di Callimaco è dunque fondata, egli dice, dal
Latoide e sotto la protezione di lui restano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e
Cirene una attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino ad ora
conosciuta. Apollo non è lo sposo di una Vergine cacciatrice, ma il
fondatore della città che di quella lia il nome: si che accanto al
nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti, si dispone quest'altro
nesso, diverso. Ed è la prima novità che ci sorprende. Una lunga
parentesi segue poi in cui si rintracciano le sedi del culto di Apollo
Carneo: Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti Clario; ovunque
a te sono assai nomi. Io però Carneo te chiamo : mi è patrio costume
cosi. Sparta, Carneo, fu la tua prima sede: seconda Tera: terza poi
Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo conduce alla colonia Tera; da
Tera te il sanato Aristotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse
un tempio, un'annua cerimonia in città istituendo, in cui molti fan
l'estrema caduta su l'anca per te tori, o Signore. 'l'j 1^ Carneo molto
pregato! i tuoi altari fiori in primavera recano, quanti variopinti le
Ore adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,
l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la cenere rode carbone di
jeri. Cfr. Erodoto e il sèguito del nostro testo. Traluce qui nella
vicenda del culto al Carneo la realtà storica dei coloni dori mossi da
Sparta a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia: vanno, e li
segue il Dio. Appare qui, di più, quel " sesto nepote di Edipo „ e
quell'Aristotele che avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi.
Ed è la novità seconda. Sùbito appresso vengono dal poeta indotte,
figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul colle dei Mirti in atto di
contemplar, vedemmo dianzi, i coloni Dori danzanti tra le fanciulle
libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui Cirene è asserita colonia
di Apollo, e allo squarcio dove dal Peloponneso a Tera e in Libia
vien perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei Dori.
Comprendiamo allora da tale succedersi dell'imagini, che l'Euripilodi cui
la Ninfa avrebbe quotato il regno deve essere in rapporto mitico
appunto con quei due spunti favolosi poco prima, più che svolti,
accennati: con la fondazione di Cirene per opera di Apollo; e con le
migrazioni dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in Libia.
Comprendiamo che al racconto più prettamente libico su la Signora delle belve è
prefazione una saga su l'origine di essa colonia cirenaica, saga in cui è
da ricercare la causa di quello. Ed è da ricercare, anche, il motivo
per che la coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel suo
colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non è la pindarica e
oltrepassa l'Eea. Da prima di fatti genera maraviglia che in un carme
religioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai meno che in un
epinicio quel rispetto austero e insieme divotamente inchinevole il quale
costituisce Tanima della scena pindarica. Eppure tutto l'Inno parrebbe
mosso da quel medesimo vento che, dal Nume, agita la palma delia e
la fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira, bensi; ma è
patriottico: è del cittadino verso chiunque, e sia dio, protegge le mura
della sua Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso (luel
solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto. Quindi il breve
componimento si spezza in due parti diverse tenute insieme, male, da un elenco
dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima di quelle parti è mossa
da una contenuta esaltazione patriottica che si veste, abito non suo, del
i^aramento religioso, si schematizza nella scena rituale: ivi Callimaco
non sa trovar che scarsa armonia di struttura, e abusa di formule
innovate sol con sapienza verbale. La parte seconda, in vece, lascia prorompere
la stessa esaltazione patriottica, ma questa volta verso espressioni sue
proprie ed adeguate: ivi è la glorifìcazion della patria nel suo bel passato.
L'artificio si discioglie in arte. Ma il bel passato della patria
Cirenaica è la leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,
sospettatala, rivivere tutta. Euripilo ed Eufemo. Regna in
Cirene una famiglia, la quale, per ricorrere in essa il nome Batto e per
esser ritenuto un Batto primo re del luogo, era
detta I dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava
memoria, e accanto al più vulgato si ricordava un altro nome: Aristotele.
Anzi era sorta in qualche maniera a questo proposito una leggenda
etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco verbo ^atTaQi^o)
(balbettare) si raccontava d'una sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto
il nomignolo . Ma ben più su di lui si spingeva la genealogia fittizia
dei Battiadi ; a simiglianza difatti d'altre molte case regnanti,
sostenevano essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che ritenevan
figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qualunque valore tal j)retesa avesse e
comunque si fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo scopo di
collegare i Re con un Dio: scopo, si sa, non infrequente in fra i
Sovrani. E poiché tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro
che palese, fu facile lasciar in breve cadere nell'ombra il particolare
della patria di Eufemo o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza
(2). Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a fin di compiacere
un desiderio che diremo non illegittimo per regnanti. Bisognava, per
rendere più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi in
Libia, che qualche avvenimento degli antichissimi tempi, di tempi narrati nelle
epoi^ee dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si anche la
rendesse a dirittura inevitabile. E se già Eufemo fosse stato su la
spiaggia africana, ben poteva quello essere il punto in cui il Fato
Studniczka Kyrene (Leipzig) 96. ineluttabile toglieva inizio, e si
stringeva il nodo primordiale delle vicende future. Cosi piacque
loro di imaginar la fiaba. Sono questi i due dati (l'Eufemo
capostipite, l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta la
tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi seppe assai
opportunamente disporre svolgere e compiere quella fucina medesima che
aveva foggiato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi e risultati
analoghi. Come allora si vide la grezza materia indigena imprimersi di
uno stampo ellenico e assimilare in sua roventezza talun'altra fiaba
estranea; cosi si scorge ora il territorio leggendario dei Greci
spigolato a favore e di Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E
d'Eufemo questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a due
domande: con chi e quando fu in Libia Eufemo, il figlio di Posidone?
quali vicende traversarono e quali vie tennero i discendenti di lui,
fino a Batto, per raggiunger la Libia e compiere il fato? Alla prima
dimanda fu sodisfatto con un antico spunto mitico, assai propizio. Si
racconta che gli Argonauti compagni di Griàsone ìran giunti, in certo
punto del loro viaggio, al [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove
sarebbero stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago 'era
quello ove venne detersa Atena nascente da Zeus ed era riconosciuto poi
(prima indipendente da luoghi concreti) nella palude ch'è presso la
piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo limite occidentale,
verso l'occaso del sole. Quivi sarebbe apparso loro il dio del luogo
Tritone e, placato col dono d'un tripode, avrebbe
ammaei strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle strette.
Episodio dunque atto quant'altro mai a favorir qual si voglia racconto di
anticM soggiorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo spartano Dorieo
tentò di colonizzare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a prò di
lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e aver ajutato i naviganti, il Dio
profetò che il tripode rinvenuto da un discendente degli Argonauti
avrebbe determinato presso il lago la fondazione di cento città greche.
Malauguratamente Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tripoli, al
Cinipe, fiume tra le due Sirti: e il tripode non fu rinvenuto perché le
cento città non crebbero. Ora in modo analogo procedette TEea in
grazia dei Battiadi. Per essa gli Argonauti sarebber pure giunti alla palude
Tritònide ; ma a un'altra del medesimo nome: a un lago chiamato
cosi presso l'odierna Bengasi (si pensino i '' laghi salati „), in temtorio
dunque della Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tritone, ma un
diverso nume: Euripilo (2). Il quale è, come la sua denominazione
significa, il Dio della " larga porta,, infernale ; molto diffuso
in vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual divinità
ctonia, presso grotte e antri ove la volta rocciosa s' inarchi su la buja
ombra. Cosi appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca orrida
del Gioh onde le acque profluiscono fuor dalle tenebre alla luce : e chi
vi si avventuri non può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che
Erodoto. ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e v'è al corpo
concreto delFuomo esiguo spazio, molto alle fantasime deirimaginazione
spaurita. I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sentirono ivi
presente il dio Euripilo. Lui dunque addussero al prossimo lago Tritonio
e lui narrarono farsi incontro ai compagni di Griasone in luogo di
Tritone. Con una variazione poi del motivo originario, egli fu fatto
donare una zolla non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eufemo. L'avo
dei Battiadi fu imaginato per tanto Argonauta allo scopo di poterlo far
x)aTtecipare al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei suoi
favolosi discendenti. Non vano dono in vero, né inutile a chi Tebbe tra
mani I però che fosse fatidico e necessitasse molte vicende
av\'enire. D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel lago, ritorneranno
nelle terre di Euripilo. Per quali cammini? Era la dimanda
seconda. Alla risposta forniva argomento anzi tutto la realtà della
storia: il Peloponneso, l'isola di Tera, la Libia (le tre tappe storiche
de' coloni Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre punti obbligati
e le tre tappe della via compiuta dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre
una quarta ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era divenuto Argonauta, e
già l'epopea omerica conosceva, come sede temporanea di Griasone e dei
compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la costa trojana e
all'apertura dell'Ellesponto (Dardanelli). Accettate e fissate queste come
pietre miliari su la strada, ancora bisognava addurre i motivi per i
quali i nati da Eufemo dall'una all'altra di quelle sedi si
trasportassero: e i motivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno
alla prima causa e centrale, il dono della zolla d'Euripilo. Eufemo
dunque dalla Libia, rice\aita la piota africana, si recò con i navigatori
iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il mito assai vetusto, da
l'isolane donne una schiatta nuova. Questa aveva ora da recarsi nel
Peloponneso e da toccar quella Sparta che inviò pure una colonia a Tera; ma
perché? A giustificare si disse che nel Peloponneso era la patria
di Eufemo; e poiché Posidone gli era, nella leggenda, padre e poiché al
capo Tènaro Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con
valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto, ivi fu asserita la
propria sede di quello. Ciò non era senza incoerenze : al contrario,
Eufemo {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere alcuno di
nume sotterraneo, e gli fu tribuito; era precipuamente beota, e diventò
tenario; non godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi venne
imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è noto, affatto l'eccezione non pur
nell'arte si anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di
fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il viaggio da Lemno al Tenaro
come un ritorno nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per
il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto le relazioni fra gli
Eufèmidi e Sparta, come con quella ch'era al Tenaro non lungi. Inverati
or dunque questi primi due scopi, era d'uopo con pari arte
legittimar l'approdo in Tera. E qui lo spunto fu favorito da un aneddoto
epico. Odisseo na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni
vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai compagni; dai quali sciolto
l'otre contro il divieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca.
Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba d'Euripilo, ben custodita
dai servi, era poi stata, in un istante di men vigile attenzione,
travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde e le correnti, pervenne
all'isola di Tera. Per ciò, non essendo essa da Eufemo stata recata
sul Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola, da l'isola
non dal Tenaro partirono i coloni. Ma se cosi fatta partenza era voluta dai
fati, il segno ne fu offerto e il momento scelto per opera di
Apollo nel suo santuario delfico. Colà essendosi Batto recato a cagion
della sua mal sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso
di colonizzar quel tratto della spiaggia africana : ove sarebbe guarito
dell'ingrato difetto. Lode dunque, ben meritata, al Dio. Ultima
invenzione questa che rivela il luogo ove la leggenda degli Eufemidi si
elabora e fa d'improvviso su tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che
si riconnette assai bene con la figura del Latoide in qualità di
Ecistere o colonizzatore, siccome già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo
poi genealogico fissava nella quarta generazione dopo l'Argonauta
l'abbandono del Peloponneso; nella diciassettesima la spedizione verso la
Libia. Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea Odissea v.
46. Malte. aveva alla fine assolto anche il secondo tra i suoi due
compiti fondamentali. Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio
dall'apparenza assai più logica che fantastica; ciascuna delle sue
trovate secondarie era indirizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a
un bisogno del ragionamento; al ragionamento ai suoi scopi alle sue
esigenze eran subordinati i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi
e alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di eccellenza poetica.
Queste, che pajono a noi ambizioncelle dinastiche e pretese mediocri ;
questi, che ci sembrano fini pratici non artistici: eran nella
realtà stimoli possenti della fantasia ; la quale, obliando ben jjresto
l'origine delle sue imagini e il termine, spaziava poi nel suo
proprio regno da inconcussa signora. E la bella favola, creata,
ignorava il compenso del suo mercenario creatore. L'accortezza medesima
con cui vi si profìtta di analogie nominali per accostare, ad
esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro; la prontezza con cui vi si
sfruttano i vecchi motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber
essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece funzioni spontanee della mente
ricca di antiche e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi.
Nell'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità si distruggono, cosi
si avvicinano i diversi, si mischiano i contigui. Ond'è che il dovere
dello storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea nel disegno
leggendario, incresce al contemplatore della bellezza. La quale riappare, con
tutta la sua unità sintetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto tra
le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao vincente col cocchio. Oggi
bisogna, o Musa, che tu stia presso un valoroso amico, Re dell'equestre Cirene,
a fine di spirare col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta
ai Latoidi e a Pitone. In Delfi un giorno, presso le dorate aquile
di Zeus, presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colonizzatore
della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola lasciata, costrutto una
città di bei cocchi sul risplendente colle e di Medea compiuto, con la settima
e decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa figlia
d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la regina dei Colehi '.
Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode Giasone: "
Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Affermo che da quest'isola battuta dai flutti, nelle sedi di Zeus
Ammone [Libia] la figlia di Epafo trapianterà una stirpe cara ai mortali. Con i
delfini di brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi
remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno è per mutare Tei-a
in madre di grandi città; il segno che su le foci del Tritonio lago, da
un Dio a uomo simile, donante in dono ospitale una zolla,
ricevette Eufemo dalla prora disceso benigno su lui Cronio Zeus fé'
rimbombar un tuono quando gli s'imbattè, mentre l'ancora di bronzee marre,
briglia della veloce Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già
la portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei (Tera). consigli, su i deserti dorsi della
Terra. Allora solitario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di
venerando uomo : con amici detti fece principio, come ai sopravvenienti
ospiti i generosi le mense offron da prima. Ma la scusa del dolce ritorno
ci vietava l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco
immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora, con la destra
divelta dal suolo una piota, l' improvvisato dono ospitale volle donare. Non si
rifiutò l'eroe, ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,
ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor della nave,
galleggia sul mare coi flutti, di sera, l'umido pelago seguendo: che
certo spesso furon esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei
custodire; ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola
l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade, prima del tempo. Che se
in vece gittato l'avesse in patria, a canto della sotterranea bocca
dell'Ade, sul sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre
Posidone che un di Europa nata da Tizio generò presso le sponde del
Cefiso, nella quarta generazione allora il sangue di lui avrebbe toccato
l'ampio continente con i Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da
l'Argivo golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discendenti troverà
nei letti di straniere donne, i quali, col favor degli Dei, giunti a
quest'isola genereranno un Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia: a
lui nella molto dorata casa Febo, a lui in epoca futura disceso al tempio
Pitico, vaticinando ricorderà di condur . popolo su navi presso l'opimo
santuario niliaco del figlio di Crono. Tali di Medea le schierate parole.
S'impaurirono, immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli
accorti detti ascoltando. beato figlio di Polimnesto, te giusta il
discorso di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica con spontaneo
accento: la quale te, tre volte salutato, dichiarò fatidico re di Cirene,
te per la imperfetta voce interrogante qual rimedio vi fosse appresso gli
Dei! Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col santuario delfico
da cui aveva tolto l'inizio : nel mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei
nepoti. Le quali sono in altro brano anche più esplicitamente
significate, ancor su la trama dell'Eea: dico nei versi. E su le
distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e tra le mariticide donne di
Lemno furono essi Ivi un giorno o
notti fatali il seme accolsero della raggiante vostra fortuna (o
Battiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata, per l'avvenir sempre
fiori. E mescolatisi di poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'antica
isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi il Latoide concesse di far
prosperare con gli Dei le i^ianure di Libia e di abitare, con savio
consiglio regnando, la divina città di Cirene dall'aureo trono Ma questo
secondo sviluppo del mito, se è più minuto, è anche assai inferiore
rispetto al primo, n quale mostra quanto profondamente l'animo
severo e ascetico di Pindaro consentisse e concordasse con il contenuto riposto
della leggenda cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia e
che sul finire richiama, della Pizia; Faltra, (Batto-Aristotele). (Gli
Argonauti). b svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto
ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi : significano con
insistenza l'unico essenziale e fondamentale concetto del mito, il Fato onde
il regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea con il veggente
occhio lo prevede. La Pizia con la bocca immortale lo attua. Gli uomini
si scemano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi eletti. Se non
che il Fato è non soltanto il nucleo del mito, ma l'intima fede di
Pindaro, che è apx^unto stimolata dalle esteriori circostanze in cui fu
composta l'ode. Aveva egli avuto incarico di indurre il re, Arcesilao di
Cirene, col vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f oruscito
Damofilo; ne era nuovo a tali offici non graziosi e vi si vedeva sovente
'costretto. Di qui un'amara tristezza: non pure pel rimorso
secreto, e qua e là palese, di piegar la sua Musa a compito venale ; si
anche ]3ev un coperto pessimismo umano, onde crollava con uguale sfiducia
il capo dinanzi al forte che aveva vinto la gara come dinanzi
all'opulento che l'aveva pagato. Per lui ricchezza e prodezza vengono
all'uomo dal destino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e per sé lasci
levare in minor tono il vanto, si massimo per i Numi che l'hanno in
protezion benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza fra la
propria fede e il nucleo del mito fu còlta dal poeta con un balzo
magnifico di rapidità intuitiva: Arcesilao vince a Pito; da Pito
muove Batto; ecco il trapasso esterno : un destino solo fa
vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto; ecco il midollo intimo a
questo organismo lirico. Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi
obliato che Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla fine,
quand'è ormai arido e gli si spingon a fior dell'animo i men nobili
desiderii e una certa compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio,
tutto è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea d'un eroe, né
l'inno sacro ad un Dio: è l'elegia d'uno spirito d'uomo. La
strada su cui Pindaro s'è lanciato non è la " carrozzabile „
(à/ia^izóg) : è nuova, aperta con un colpo di fantasia geniale. Oggi
sarebbe una scena coreografica ; a quei tempi uno spettacolo dei misteri
eleusinii ; sempre, il basso-rilievo d'uno scultore che faccia i corpi
come le anime, concreti di evanescenza. Nella notte dei tempi
Medea, maga di semplici e vate del futuro, dice agli eroi irrigiditi
d'ansia la sua profezia. Sono circa cento kola percorsi da un
brivido unico, che culmina alla fine nell'invocazione a Batto, vibrante di
fede. Se non che, su la strada nuova ed insueta non dura l'imaginazione:
già l'episodio di Euripilo apparso agli Argonauti s'era innestato con
diversissima efficienza nel gran quadro di Medea vaticinante, come quello
che vi recava tempere più pesanti e meno diafane. Con esso episodio si
riconnette poi, non appena cessato l'anelito dell'incombente fato,
l'ami^io racconto su i motivi e sulle vicende onde mosse e per che riusci
la impresa degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto una nuova
serenità omerica, una placidezza di lunghi favellari, un indugio molle su
i modi delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in somma,
appreso dai rapsodi. Giasone fermo su la piazza di Fere con le due lance
e il doppio costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti di cinque
notti e cinque giorni, l'accorgimento obliquo del Re contro il giovine,
l'elenco degli eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada,
la carrozzabile Pindaro vi entra franco e libero; lo illude la facilità
con cui la fantasia gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni
dell'attitudine sua di statuario creatore della vita neirimmobilità. Ma a
poco a poco la concision vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto
dramma; e una imperfetta dramaticità travaglia lo spirito del poeta per
affermarsi, senza riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli
si distrae troppo, una parola lo devia spesso, gli manca la
sicurezza del ritaglio e il coraggio di sacrificare i trucioli. E continua
cosi, a lungo, faticandosi, irritandosi: l'opera gli riesce un insieme di
momenti, scelti senza acume di tragedo, e cuciti con lungaggini di epico.
Lascia un luogo e un gruppo per correre nell'altro luogo e presso
l'altro grupx30 a cercarvi quel che là non aveva trovato; non si sodisfa;
riprende; e cade senza lena alla fine. Allora grida con sdegno: è troppo
lungo per me seguir la carrozzabile! E sul suo spirito esausto
hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del carme. Termina in pesce. Falliva
adunque l'epopea il dramma l'inno sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa
gittare un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre
sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma tal volta li costringe col
suo verso in perfetti camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte
nella quarta Pitica? La risposta è nella natura stessa del suo errore.
Tutta quella ricerca affannosa d'una base ove consistere cli'è il
racconto degli Argonauti è piena di maraviglie oltre umane e di
giustizie divine. Giasone viene a rivendicare appunto il sacrosanto
diritto di sedere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e nel paese dei
Colclii, come già lungo il viaggio, le sue gesta sono insolite non di
coraggio ma di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende, né i
colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che il poeta poteva credersi
avvolto sempre da quell'atmosfera di fatalità grandiosa la quale sommerge in sé
il tereo detto di Medea. Ma s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il
romanzesco della novella, il mirabile della fiaba, dopo essersi
abbandonato, supino il volto, nell'estasi santa. La magia lo deludeva con
una maschera di religione; il cuore non pago pungendolo a irrequetudine.
Cosi la sua arte non propriamente gli mancò, ma più veramente venne
provandosi in vano a molti cimenti sotto cui è una continua
insoddisfazione intima: la insoddisfazione dello spirito che ha aderito
intiero a un impeto di profonda religione e, non accorgendosi a tempo del
transito verso minori sfere, s'agita come per men perfetti gusti.
Ora quella adesione era stata possibile nel cuore di un mito: il
mito dei Battiadi, in cui pulsa, origine e scopo della sua stessa vita, il
senso solenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché poche volte una saga
ebbe più consono poeta; pochissime, un tal inno è rimasto documento
lirico della mischianza dell'uno con l'altra e dell'elegiaca nostalgia
che ne consegue. Una cosi compiuta intuizion del mito non ha più
Erodoto . Il sicuro suo equilibrio lo porta anzi a svolgere della saga
proprio quella parte che Pindaro meno degnava di cure : dove, difatti, il
poeta volge tutto il suo compiacimento verso Tetà primeve, verso Eufemo e
gli Argonauti, Euripilo ed Apollo, eroi e numi ; lo storico è pien di
zelo per i discendenti di coloro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide
preferito Batto, non eroi né numi ma uomini. Il primo era assorto
nella premessa della leggenda; il secondo corre alle conseguenze. Delle
conseguenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno, non più nella Pitia
quarta, ma nella quinta; gli accadde però per sbalzi e tratti non
connessi, senza organismo, e senza profondità di attenzione. Vide Batto
porre in fuga i leoni africani perché recò loro una lingua d'oltre
mare; vide i Terei guidati da Aristotele fondar templi e instituir
cerimonie: tutto in pochi kola de' quali la lode di Apollo è lo
scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto: a lui la fiaba, che non è
proprio fiaba, comincia anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che precede
è avvolto in un silenzio il quale può essere incredulità, è forse sol
tanto indifferenza. Cosi lo storico comincia a narrare. Egli narra
con Cfr. Malten. una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e
forse un poco sorridenti; molto si compiace nei particolari minuti; molto
più pensa di poter la tradizione degli Eufemidi connettere con
altre indipendenti. Ecco, a suo dire, da Lemno partono non
solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli Argonauti, di cui quelli
sono porzione. Onde gli accade di giustificar doppiamente il loro
soggiorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lontano dal Tenaro, perché ivi (si
sottintende; egli non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché i
Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go : ritornan dunque " nelle
sedi dei padri „. A tutti X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti
son difatti concetti affini (su la cui origine non è qui dicevole
indagare) ben presto uniti e tal volta identificati. Per spiegar poi la
loro partenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza tarda, dei
Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola: i quali avrebbero sloggiato i
Minii. Ma è combinazione grama e non primitiva. In fine, i Minii, giunti
nel Peloponneso per quella causa, per quale si recarono in Tera?
Esisteva, come un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito, ma
j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta nell’isola; e in esso si
parlava di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi
avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe dato il suo nome. Di tal
mito trae vantaggio lo storico per far muovere parte de' Minii insieme
con quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe fatto loro la
profferta. Uniti navigarono dunque su tre triacòntori verso l'isola. Ivi,
bisogna supporre, i Minii si serbaron distinti dagli altri cittadini, al
meno come schiatta; laddove il trono fu ottenuto, è ovvio, dai
discendenti di quel Tera. [In proceder di tempo] Grinno
figlio di Esania e discendente di cotesto Tera, essendo re
dell'isola di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'ecatombe.
Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto figlio di Polimnesto, per
stirpe appartenente agli Eufemidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei
clie lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose di
fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo: Ma io, o Signore,
sono già vecchio e pesante nel moto: tu dunque comanda di far queste cose
a qualcuno di questi giovini. A un tempo disse queste cose e accennò a
Batto. Allora tali avvenimenti. Più tardi, andatisene, trascurarono
l'oracolo non sapendo in qual luogo della terra fosse la Libia né
osando inviare una colonia in un'impresa ignota. Per sette anni
dopo ciò non pioveva in Tera, durante i quali le piante tutte dell'isola
tranne una s'inaridirono. Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia
rinfacciò la colonia in Libia. E poiché non avevano altro rimedio al male,
mandarono in Creta messaggeri per ricercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci
fosse pervenuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero anche
alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in un pescatore di porpora
a nome Corobio, che dichiara d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e,
di Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero Cfr.
Erodoto. a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non numerosa.
Avendoli Corobio guidati a quest'isola di Platea, vi lasciarono Corobio
con cibi per alquanti mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i
Terei intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del convenuto, a
Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito una nave Samia, di cui era
nocchiero Coleo, diretta in Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I
Samii appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi per un
anno. I Cirenei e i Terei strinsero a partir da quel fatto grande
amicizia coi Samii. I Terei che avevan lasciato Corobio nell'isola,
giunti a Tera annunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla Libia.
Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato in gara col fratello
e uomini da tutti i distretti che erano sette : a loro preposero
condottiero e re Batto. Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea .
Questo racconto riesce notevole anche perché vi è taciuta con arte
la balbuzie di Batto senza che al consulto dell'oracolo si sostituisca
altro preciso motivo; e perché vi appare la volontà di attribuire,
oltre che ai Terei anche ai Cretesi e ai Samii qualche parte nella
colonizzazione della Libia. Volontà, la quale risponde, evidentemente, a
una tendenza politica tarda: a giustificar le relazioni e di commercio e
d'altro fra lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora a
xDunto questo facile rilievo addita il luogo Cfr. Eeodoto. Il brano che
riguarda l'ulteriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al nostro
mito. Edizione Hude (Oxford)] onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli
fu verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano, come si dice,
due focolari mitici : l'uno dei primi coloni, l'altro dei secondi venuti
sotto il re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo e avevan
quindi desiderio di giustificar con il mito non pure il regno dei
Battiadi ma anche la loro politica, raccolse la narrazione tradotta
pur ora. Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re e i loro
predecessori attinse un'altra fiaba. La quale non è se non questa
medesima ove Aristotele del LIZIO sia divenuto e balbuziente e bastardo,
e i coloni Terei appajano pochi di numero e cacciati dall'isola per opera
dei lor proprii concittadini. E poiché Creta, per la sua stessa positm-a
geografica fra Tera e la Libia, non poteva facilmente esser soppressa nel
racconto, ne fu tratto con accortezza profitto per far aiDparire
anche di impura discendenza il primo colono Batto. Cosi: Vi è
a Creta una città Gasso nella quale era re Etearco; che, avendo una
figlia orfana, a nome Frònime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in
casa, volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,
procacciandole danni e macchinando ogni male contro di essa. Alla fine
calunniatala d'insana lascivia persuase il marito che le cose stavano
cosi. Questi indotto dalla moglie concepì un piano infame contro la
figlia. Vi era infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone. II
sostrato storico. Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece
giurare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse. Quando quegli
ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua propria e gl'ingiunse di
condurla via e d'immergerla nel mare. Temisone in vece, sdegnato per
l'inganno del giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi:
prese la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare, adempiendo
il giuramento di Etearco, la legò con funi e l'immerse nel mare; ma la
ritrasse poi e si recò a Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo,
fece Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque ad essa un
figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu posto il nome di Batto... [A
Batto la Pizia interrogata d'un rimedio per la balbuzie, impose di
colonizzar la Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un
secondo comando inviarono i Terei Batto con due navi pentecòntori].
Navigando verso la Libia costoro non riuscirono ad altro fare che
ritornarsene a Tera. Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono
che si avvicinassero alla spiaggia; ordinarono invece di navigare
indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e occuparono l'isola che
giace sopra la Libia, la quale, come fu detto, si chiama Platea.
Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso scopo di sminuire i
Battiadi, anche l'altra non serbava più in Erodoto la intima e possente
vigoria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina di comune e piatta
concretezza umana, su questa leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la
Erodoto. Sono omesse le considerazioni personali di Erodoto sul nome
Batto. loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti, ristretta
l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha rimesso della sua dignità religiosa,
un poco a pena, e a stento riesce a dargli valore di venerando il sèguito
delle sventure che puniscono la trasgressione del suo ordine. Qui il mito
vuol esser storia con esagerata pretesa: ne ingoffisce ed
ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della sua evoluzione che
permette la esegesi degli eruditi o la prepara o quasi
l'attende. Gruardando ora a distanza questa tradizione dei Battiadi,
se ne distinguono ben chiare e rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide,
di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto ripetono l'opera importante
nell'impingere i coloni; Eufemo, capostipite della casata e compagno di Giasone
; Euripilo infine, nume indigete d'una grotta libica, simbolo, in sembianza
d'uomo e con valore divino, della pili antica vita africana anteriore ai
Greci, strumento per ciò eletto dai Fati a preparare dei Greci l'avvento.
Ma Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di Aristeo, aveva
condotto Cirene dalla Tessaglia in Libia. Euripilo è il nome stesso che
ritorna in Callimaco come d'un re da cui la Signora delle belve ha
il trono. Si profila dunque ora compiuta tutta l'ossatura di questa
compagine mitica. Due Eee stanno a fronte : di Cirene e
Aristeo, luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il contenuto e diversa
leggenda elaborano: della Ninfa, la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma
comuni sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la origine
delfica. Simili dunque e differenti. In forza della lor dissimiglianza
restano in più d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo
tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi tessalico; l'Eea di
Eufemo raggiunge, dall'altro, la maggior sua umana pianezza; senza che
si formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza della loro
simiglianza giungono per diversa via, in uno stadio della lor vicenda, a
compenetrarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nell'altra, da Eufemo si
trasporta a Cirene; e la Ninfa della fontana j)assa a proteggere
(insieme con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle libiche,
la lottatrice solitaria si circonda d'un popolo. Unici restano distinti,
di qua e di là, Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due Eee. Nel
centro, punto del contatto, il carme di Callimaco. All'un fianco, di
Pindaro la Pitia e VIRGILIO (si veda); all'altro, Erodoto e la Pitia
quarta. Lo schema di cotesta evoluzione mitologica è dunque
complesso come un quadro genealogico. E per vero le singole forme della
saga son congiunte da intime attinenze di derivazion vicendevole;
alle quali tutte predomina il nesso fra la Cirenaica e Delfi, nesso che
di tanto vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi
capostipite, la origine prima. Il mito è miracolo. L'occliio
vede il chicco di grano scender fra le zolle, il Sole sparire nel mare,
la luce vincer le tenebre: vede piccole cose ed esigui spettacoli che
appena lo affaticano lo abbagliano lo trattengono, e che UN NULLA BASTA A
SIGNIFICARE. Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza nuova, una
maraviglia ingenua, un acume creato di verginità animatrice, fuor dal
mondo reale il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano la lor
concretezza in trasparenza, sfumano i [In questo capitolo gli esempii
addotti son desunti dai precedenti capp. Ma ci dispenseremo dalle
continue citazioni.] loro contorni in nuove linee: si tramutano in una
specie nuova. Il Sole che tramonta nel mare era il mondo esteriore, vivo
della sua vita secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il
mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il miracolo si è già
compiuto: restio ad analisi nella sua complessa essenza ed inesauribile
ricchezza: figlio del mistero, perché nato da una energia la quale tanto
meglio si cela, quanto più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il
filosofo, riflesso dell'età tarde , indaga l'opera mirabile, ne scevera
taluni elementi : il più, il fondo vero, il miracolo dello spirito
transfigurante, si perde fra le sue dita incerte. Quindi, il mito solare
è di origine oscura come le vicende, che narra, dell'Astro. E il mito del
seme è misterioso nel suo principio come la fecondazione della
gleba. Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un afflato
lirico. E il canto dell'anima umana nell'atto di coglier la vita al di fuori,
di possedere con suggello suo proprio quel che i sensi avvertono.
Contiene quasi un ebro balzar ferigno dall' interno all' esterno ; e pur
racchiude insieme un' illuminata elaborazione intima, un assorbimento
dell'esterno nell'interno. Esulta nello scoprir la natura, e le dà un nome e la
umanizza. Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal
Einleitung in die Psychologie und SPRACHWISSENSCHAFT; e quella
dell'appercezione (impressione, associazione, appercezione) presso Wundt
Volkerpsychologie (Leipzig) per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore
ha segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto istinto
geometrico della stirpe e imponendo alla Terra indomita il segno
dell'Uomo, ha preceduto con atto analogo colui che armerà di clava,
per assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro il bujo.
Onde l'individuo in cui più intenso il miracolo mitopeico si avvera,
esalta in sé tutta la razza, le dà la sua anima come una divina
coppa cui tutti e attingano e contribuiscano; è l'eletto a godere il
brivido e a lanciare il prorompente grido della vittoria,
conseguita sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin nelle
radici profonde; è il mortale che, calcando la terra, volge in breve giro
il suo braccio, in più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo
sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'universo dei suoi sensi “ti capisco.”
La malinconia dello scienziato moderno che sa di non poter dare
alla forza ignota, o mal palese in talune forme, che un nome, e non crede
d'aver capito l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano il
fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha scoperto tra la luce e l'uomo
un nesso, tra il cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trionfando
di felice ignoranza, che ha, allora solo, veduto la luce il cielo ed il mare.
Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di sé il mare ed il
cielo, di foggiar volti all'arcobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di
scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto come civile, non va però
si oltre in questo suo bello errore, da non serbar, della forza
immane rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui avvengono e
sono ref rattarii all'intervento nostro, traccia alcuna; né, per
serbarla, trova modo più efficace che trasportare il tutto in una sfera
più che la consueta possente e a cui esso medesimo soggiace. Cosi
il mito naturalistico si svolge su la scena del divino. E il fenomeno
mitologico s'intreccia e si compone con il fenomeno religioso, seguendo
con questo una simigliante evoluzione dal naturismo all'animismo al personismo,
per la quale si complica si allarga si condensa, e giunge ad acquisire
diversa bellezza perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel
principio ogni mito della natura è un racconto intorno ad un nume; e sia
pur rozzo il racconto e rozzo il nume. La creazione della saga,
adunque, somiglia per tre aspetti a tre diversi ordini di
elaborazion spirituale : perché infonde la vita a individui che la
fantasia par animare di un soffio e la realtà foggiar a sua sembianza, è
analoga all'opera dell'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi
li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben destro, è affine ai
procedimenti scientifici che insegnano le cause dei fatti ; perché, da
ultimo, induce l'animo a reverenza d'un potere più largo più alto,
or solo più forte or anche più buono, rasenta l'intuito di Dio e il senso
religioso. Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra quei tre
ordini disparati. Anche quello con cui sembra meglio coincidere è per
vero disforme: l'opera dell'arte non è accompagnata dalla coscienza di
certezza e di apprendimento che è (vedemmo) insita nella fiaba; non è
quindi seguita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto, per cui
venga riprodotta e amata traverso le succedentisi geniture. La fede
mistica per contro, quando sente la divinità vivere e spirare, e la
vede risplendere, non si menoma in individuazioni personificate e denominate,
si più tosto in formule ove all'Essere è congiunto
l'attributo. Dalla scienza che mira alle leggi generali su dai fatti
specifici, che raggruppa in classi, riordina in ischemi, è necessario dir
lontanissima la saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua
materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole farsi occiduo, ogni
stagione un diverso seme scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre
le ripetizioni delle apparenze e le identità fondamentali; ed è già
matura quando narra Cora ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla
madre e al marito. Anzi, lungo ciascuno di quei tre ordini lo
spirito si evolve in guisa indipendente; fin che da l'una delle tre mete
sopravviene a deformare o incrinare o addirittura distruggere il
processo mitologico. Quanto l'artista, e specie il letterario, violi con
la sua indomabile licenza la primordial purezza della favola è in
queste pagine segnato con studio. Né qui si tace come anche la
religione scavi alacre nella polpa stessa del mito, fin nel ricettacolo
della sua virtù riposta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle scaturigini
prime. Ma, violento senza pietà, lo scienziato non erige ove non abbia
prima distrutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in pari tempo la
saga. Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che cos'è dunque
il mito? Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfacimento
pseudo-scientifico non è essenziale quanto il resto, ma un poco estraneo.
Forse, dopo aver pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la
specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo torvo e mostruoso, il
pensiero, poveramente critico, si appaga della rappresentazione come di
causa; ed è quella medesima che stimola un senso rudimentale di questa: o
forse, è il contrario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e per
spiegarsi le forze naturali le plasma umanamente e umanamente le fa vivere.
Certo, negli inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di sé
stesso : ma incerto rimane se la ricerca della causa preceda o segua la
trasfigurazione, la determini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si avverano
entrambi i casi, cbé la fragile mente or si chiede, dinanzi al sorgere
della Luna dal mare, perché?; ora con spontaneo moto traveste in
fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque, sia certo l'un modo, o
sia sicuro l'altro, il mito serba il nucleo più vero, là dove è il suo
secreto, intatto dalla pseudo-scienza. Accade un temporale; e un altro; e
un terzo; molti: diversi sx)iriti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si
dimandano il motivo dello scompiglio dei bagliori dei tuoni; ognuno, per
contro, crea una favola differente; a tutti (supponiamo) la favola
creata è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità dell'impulso
iniziale o, se cosi vuol credersi, dell'effetto ultimo iDermane
contradittoria alla varietà delle creature mitologiche. Queste, superando
sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate da una congenita forza eh' è
propria, splendenti d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro.
Più tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii temporali e
si adduce la falsa causa comune; ma allora la saga non deve nascere, si
trasforma in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo clie la
integra, raggiunge una taiDpa del suo evolversi: dall'esterno dunque si
muove questo ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora rapita
sotterra e riapparsa in terra si compie poi del giudizio di Zeus e del ritorno
periodico ; ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine
scientifica non si maturi cosi da non poter più arrotondare la fiaba, ma
da doverla oppugnare e distruggere. Né anche Tintuizione religiosa
però dev'essere senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,
difatti, estremamente varia e vasta; trascendendo la natura e le sue forze, si
nutre anche d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è più
specialmente umano. I primitivi avvertono Dio nella famiglia, e onorano
di culto la dea Madre e il dio Padre; lo sospettano o persin lo
affermano nell'individuo che più sa e più intende, onde inchinano il
Vate. E pure ammesso che primieramente la divinità appaja traverso
la luce del Sole e il risucchio del mare, non si dimentichi che, in quei
casi, l'uomo primevo si pone in contatto con la sovrapotente forza
della Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che, ciò è, egli si
trova in un primo stadio della sua evoluzione religiosa, oltre il quale
deve progredire ed entro il quale non intuisce, a dir vero, se non se la
sola Natura; che, quindi, il mito coincide con il senso di Dio, ma con un
aspetto un momento, transitorii e insufficienti, di quel senso. E
allora è più esatto affermare, la saga contener l'intuito della possanza
naturale rivelata nel fenomeno. Da ultimo, molta luce viene anche
dall'analisi di quelle che dicemmo trasformazioni e individuazioni artistiche:
il vecchio re che cade dal suo trono e cui succede il figlio; la
donna che le rapiscono la figlia per nozze; il duello fra Perseo e
Fineo. Qui sono i tipi dell'esperienza consueta; qui accennano le figure
che jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani di nuovo; i
casi, di cui ha acquistato l'abito il suo pensiero. Le forme della
consuetudine sociale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla fantasia
come una veste indistruttibile. E somigliano ai mezzi espressivi della tecnica
che ogni artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi le
vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha l'esercizio della creta
plasmanda; è sicuro del proprio pollice ; la mano gli vale una certezza
: si che traverso questo possesso egli vede la statua e foggia la
statua. Il poeta sa giacente nel suo scrigno celato la materia ambrata
del Verbo e la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e mezzo
all'imaginare. Il facitor del mito aveva limiti non varcabili alla sua
ricchezza: le parole eran acconce a dire le vicende sociali e a descriver
le forme umane ; la vita arborea non possedeva moto se non per braccia, e
il suo principio non era da esprimersi se non con l'imagine dell'uomo ;
sola la umanità si possedeva dall'interno, immersi in lei; la Natura si
affrontava dall'esterno: a questa quella unica poteva per tanto
fornire linee e procacciar significazioni. Il l'intuiziqne mitica Sole è
lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi; come narrarlo? E un re. Il
seme cresce nella spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è
diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso dall'occliio che lo vede:
come narrarlo? E la creatura tolta alla madre. In progresso di
tempo l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso apparente
del Sole e il trapasso del chicco; non li ha trovati allora. Allora serve
per la Natura l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione
naturalistica. E l'analogia (non identità, si badi) è i3rofonda; come
quella che si regge anche su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra
le diverse intuizioni artistiche e le rispettive tecniche, quanto fra il
fenomeno naturale e le forme umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di
reciprocità, si che queste par violino bensi quello, ma par insieme che
il primo esiga senza scampo il sussidio di tal violazione. Parvenze
entrambe vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Accade quindi che
si possa decidere dell'epoca in cui una saga fu da principio narrata, per
ciò solo, che gli elementi umani e i dati dell'esperienza sociale sono,
nel groppo originario, scarsi o abondevoli. E accadde per converso che
taluni fenomeni non determinassero la loro leggenda, se non quando
li potè assalire e trascolorare una copia maggiore di consuetudini
nostre. Si pensi. Perseo contro la belva ed Ercole contro Caco sono
analoghe manifestazioni dell'urto fra luce tenebra ; ma quella non
presuppone che l'uomo, la selce acuminata, la fiera; quest'altra in
vece 3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e costume
dell'abigeato. Si pensi, anche: le vicende agresti del seme e della spiga non
divengono vicende, o siano trama narrativa, che a patto di convertirsi in
rito nuziale; anteriormente non esistono, clié non sono intuibili. Come
(continua l'analogia) non esiste per me, ignaro di plastica, la posa
statuaria, che gli occhi vedono senza il consenso dello spirito seguace.
Analogia, non identità. Che il divario è tosto sensibile, non a pena si
rifletta alla rispondenza che è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto
alla ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale. Le tecniche non
esistono che per l'arti, ne costituiscono la preparazione voluta, né servono ad
altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove che nell'arti. Il
loro progredire è verso un affinamento che permetta di sottoporre sempre
più e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso artistico. E il
loro affinamento esalta sempre più e sempre meglio le arti; non le nega
non le distrugge già mai. La storia della mitologia per contro attesta,
nelle sue pagine severe, che, come sia salita a più grosso valore la
somma delle esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)
traverso cui il fenomeno della Natura passa trasfigurandosi, incontanente
questo legame s'infrange, si che a due poli estremi la vita sociale e gii
spettacoli naturali si esprimono con indipendenza. L'accresciutasi esperienza
ha tocche le discrepanze superando le affinità; e la perizia esercitatasi
martella, per le discrepanze, fogge diverse da le dicevoli per le
affinità. Si dichiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è una visione
manchevole del mondo esteriore all'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze
co^ i jH mondo interiore all'uomo. Nel mito
è, per converso, una vision manclievole di questo ultimo mondo, ignara
del suo contrapposto con quel primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi
un rapporto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla doppia
manchevolezza. Ma perché le due insufiicienti visioni sono le uniche per ora
acquisite, e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul
fondamento delle crasse analogie, il rapporto dev'essere ed è, anche,
necessario e indispensabile; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.
Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un detei'minato
avvenimento naturale intuito come forza so"VT.'apotente e veduto a
traverso l'umano in una mischianza che li deforma entrambi:
come forza sovrapotente e divina; indi il rispetto della tradizione
letteraria, l'onore del culto, e il pregio di motivazione
scientifica; in una mischianza che li deforma entrambi; indi la fine
della mitopeja con l'eccesso della deformazione e l'imxDOssibilità della
mischianza. Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde la morte,
sarà detto appresso. Scaturita, la mitopeja si moltiplica multiformemente
e si altera evolvendosi. Ma immutati Questo nostro risultato storico
intorno al mito contraddice CROCE (si veda) (VICO (si veda)) per cui il mito è
un universale fantastico restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni
e di creazioni, i modi e i mezzi della manifestazione mitica. La quale
quindi è necessario precisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul
viver e sul morire mitopeico. Poi che il fenomeno della Natura dovette,
per affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati d'esser
contemplato come l'umano, in tutti i rispetti; ciò è: quale linea, volume,
colore, moto psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella materia,
dipinto su le tavole, narrato con parole. Poi che d'altra parte il
fenomeno della Natura rimase luminoso della magnificenza divina, richiese
di penetrare nei culti e nei riti in cui ai Numi offrono i terreni
l'olocausto dei loro puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi
categorie espressive; e su i caratteri di ciascuna in generale non è qui
da far cenno, che ne trattano apposite discipline. Qui basta notare come
sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due agl'incunaboli della saga; la
quale quindi le trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua
vitalità impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la crosta
terrestre e scorrendo in lava, ebbe apparecchiati i canali al suo corso
ardente. Che anzi non si sarebbe né meno levato in un respiro
immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte al suo sfogo. Or è certo
che dopo la nascita fu dalla mitopeja tentato di continuo
l'allargamento di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di
svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi verbale, scultorio,
pittorico, religioso. Ma falli, se mai avvenne, ogni prova d'acquistare
alla saga quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora
del ritò LE MANIFESTAZIONI MITICHE primo suo crearsi, e attuali
divennero solo più tardi. IL TERMINE FILOSOFICO, la parola
scientifica (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come si
respingono sostanze non consentanee. E in un dialogo di Platone la fiaba
fu racconto anche se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione: l'astrazione
riuscendo espressa, sia pure inadeguatamente, dalla fiaba; mai questa da
quella, in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i frontoni
d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il ventre d'un' anfora, il tergo di
uno specchio: qui la saga si foggia a rivelare or l'una or l'altra delle sue
congenite potenze, senza dissonare. L'arte. E quello, in cui la
antichissima intuizione della Natura esala uno dei suoi profumi pili
reconditi, e non tra i meno intensi : il culto. Il mito può
esser nel culto. AUor quando su l'Ara massima si sacrificano tori
ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del dio contro il ladrone Caco.
Persino nelle feste di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo
della saga, se non certo, è possibile ; è in parte sottinteso nelle menti
dei fedeli. In Enna non si venera Demetra senza ripetere il ratto
di Cora e, molto più, senza affigurarlo concretamente. Nelle feste
cirenaiche di Apollo Carneo le danze trovan riscontro con i leggendarii
balli dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia. Le forme però di
questa interferenza fra culto e saga sono varie. Nella più tipica, e ad
un tempo più semplice, il gesto del rito ripete la vicenda mitica.
Il cocchio trainato da cavalli bianchi, tra il popolo e i sacerdoti
adunati a Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta alla
Madre; e pretende di fingerla nel luogo istesso ove l'anagoge avvenne. Il
medesimo è del ratto. E ad Eleusi si mostrava la pietra del pianto
che aveva parte non piccola nel culto e su cui Demetra si sarebbe seduta
nel cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo. Ma nessuno di
cotesti esempii è tanto significativo, quanto il dramma greco nel suo
contenuto mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione è cosi
moderna e lo spirito maturo cosi largamente innova, è andato perduto il
carattere peculiare della tragedia o s'è cancellato il segno delle
attinenze antiche fra il lavoro letterario e il culto sacro. Per le
quali, in fondo, il dramma appariva quasi la ripetizione gestita del
mito, il mito riprodotto attorno ad un altare, da persone che ne
affiguravano gli eroi, in vicende che ne rendeno la trama. Appariva, in
somma, una specie di culto in cui il rispetto religioso era ben
presente, ben si sentiva l'ambrosia dei numi; e tuttavia l'azione e il
gesto awiavansi a prendere il sopravvento. Appariva un culto
modellato sul mito. Questa però, se è la più tipica interferenza
tra i due fenomeni umani, perché in essa la saga offre al rituale i
modi i tempi e i luoghi, non è la sola né forse la più consueta. Un'altra
è frequentissima: per cui avviene appunto il contrario. Nel culto, molti
fra gli atti obbligatorii Pindaro Olimpica e lo scolio. e
tradizionali si riportano, idìiì che ad un determinato racconto leggendario
intorno al dio che si venera, agli attributi di quel dio alle sue
mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si invocano in circostanze
favorevoli, si supplicano benigne; o vero si irrogano lontane, si
distornano con offerte e con formule ritenute idonee. Vi hanno
inoltre, pure estranei al mito, atti religiosi sorti in momenti diversi, per
caso, per coincidenze fortuite, per iniziative, anche intenzionate, di
sacerdoti e di governatori. Si danno infine templi e altari elevati,
fuori di un certo mito, per un nume cui il mito fu collegato lDÌd
tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario che esistette innanzi
all'avvento del Tirinzio nella saga di Caco. Ora, tal complesso
cultuale, che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza
contiguo al racconto leggendario, non ne dura a lungo estraneo, ma
finisce col penetrarvi e costituirvi un capitolo interpolato. E questa
la massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a Deìnefra, e che
rinvenimmo a proposito dell'abigeato del ladrone latino. Sempre, in
questi esempii, il contesto narrativo si amplia a vantaggio e ad
interesse della realtà religiosa : fenomeno che attinse il suo vertice in quei
casi, ma non ne appajono in questo scritto, che tutta quanta la
leggenda nasce dal rito. Ebbene. Nella prima delle due interferenze
notate, troviamo la leggenda esprimersi per mezzo del culto. Nella
seconda, il modo opposto. Fra le due non difettano attinenze; né è
difficile decidere intorno alla priorità. I miti etiologici che scaturiscono
dall'esercizio religioso sono senza dubbio, al pari degli etimologici,
alquanto più tardi degli spontanei miti naturalistici e per solito,
a differenza di questi, tristanzuoli. Anche, la prima interferenza
intacca e interessa intiera la leggenda: onde il culto di Demetra
investe tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico tutta la saga
di Andromeda; laddove la seconda interferenza presuppone la leggenda,
l'adotta, non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi, la
diversità non è tanto profonda quanto parrebbe. In entrambi i casi, difatti,
dura un'antitesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito sussiste sempre
qualcosa, che non affluisce al culto, ma lo prepara, lo motiva; permane
un che di non riducibile: fra una scena e l'altra del rituale, fra
un episodio e l'altro del dramma, qualcosa è sottinteso, alcuni
avvenimenti son accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,
ma si riferiscono a un diverso contesto: nell'intervallo fra il sacrifizio a
Giove Inventore e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve
narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i Pinarii, e quanto è
poscia scritto: nel mezzo tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio
di Zeus insieme con l'altre vicende : prima che Perseo appaja ad
Andromeda avvinta su la rupe e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto
delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ; il che si deve dire,
come in postilla, ma non appartiene più al dramma sacro, bensi risale
al mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni tratti,
essenziali se si vuole, esprime taluni punti; ma si integra poi con
interstizii d'ombra o con premesse a pena accennate o con parentesi
suppletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi sulla impotenza
espressiva del mito rispetto al culto ; la quale è però fatta più tosto
di abbondanza, ijerché quello per solito trascende questo; consta
tuttavia anche di debolezza. L'avventura mitica di Cirene, invero,
traduce assai poco del culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie
eleusinie 0, in genere, greche in onore di Demetra non sono a
sufficienza chiarite dal solo ratto di Persefone, si debbono venir comentate
col sussidio e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea
spettano in testi estranei a quella saga. Qui, come altrove, il culto
traspare nella leggenda, ma per uno spiraglio solamente. Il
fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico non sono dunque idonei a
esprimersi l'un l'altro. Ciò può sembrare da prima strano, da poi
che si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano invece cessa
di essere, quando si ponga mente (che si disse pure poc'anzi) alla
distinta natura di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con
lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'affinarsi della sensibilità
mistica, cosi che molto si modifica, e si perfeziona di disinteresse,
coll'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro nasce da
un'intuizione della natura che deve permanere durabile, e vive nel suo
profondo di vita indipendente dalla religiosa. Due rami, dunque,
bensì dello stesso tronco; ma rami diversi. I quali s'incontrano come si
vide ; e non accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la
costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per due motivi. 1^ Ci
è ben noto, per l'anteriore discorso, il carattere scientifico che assume la
saga o già prima del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo
qual spiegazione del fenomeno essa tradisce tosto un aspetto di utilità
pratica ch'è quanto mai confacente alle menti primitive (né solo a
quelle). Se il fulmine è la clava immane che un Dio a volto d'uomo
brandisce e agita con braccio più che d'uomo possente, se ne
stornerà la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al Nume dal
cuore d'uomo : venerandolo di offerte, in culto. E della spiga granita,
della messe coj)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori l'attende
una Dea, madre alla Spiga: e comune suona il tripudio, come comune il
lutto per il rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto e
gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca, si appanna; o no, ch'è
meglio, si sgombra delle nebbie rosate e si converte nell'egoismo quotidiano,
ch'è il pane, il benessere, la vita. Ma l'altro motivo per cui culto e
mito interferiscono sta nella concretezza plastica, che è di talune
cerimonie del culto, e che le assempra all'opera dello statuario, ossia
le avvicina all'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra
trasmigrante per le terre con due fiaccole accese su l'Etna, ha virtù di
riprodurre nel suono la figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle
cerimonie di Eleusi. E quando il ketos apparisse vorace e si apprestasse
alla vettovaglia umana, riescirebbe a rendere nell'atto la forza
conchiusa del racconto. Il paludamento ed il gesto corrispondono
all'elezione e alla disposizione verbale. Ma non vi rispondono a pieno; e
costituiscono anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un volto
contratto nell'angoscia sottintende ma non significa il dolore medesimo
che il poeta piange nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito
crea nella carne vivente la divina maschera di Laocoonte (BELVEDERE).
Per tanto, non pure mito e culto non si sovrappongono del tutto; ma,
anche là dove pajono coincidere, il culto risulta una imperfetta
espressione del mito. Accanto alla quale perdura sempre, e per integrarla
nella quantità e per elevarla nella qualità, la forma primaria e più
acconcia: l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano, quasi a
compimento ed abbellimento, le varie forme del culto, come i minerali
alle fogge cristalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme con
la poesia, emergono, fiori di alto stelo, su da quella gramigna ch'è il
racconto dei sacerdoti e il disadorno ricordo delle
generazioni. Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa
efficienza di espressione. Il vasajo, che affigura la saga di Andromeda su la
materia tornita e preparata alle vernici, si ripete, traverso la serie
dei suoi modelli, ad un'antica forma del racconto caduta già in oblio
nella letteratura ; ed è, solo, sufficiente per indurci a costruire
quella forma, di cui altre tracce non sono rimaste. Ma sarebbe anche in
questo specialissimo caso ardimento soverchio asserire indipendente l'opera dei
colori di lui. Giacché, in tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve
a simboleggiare un intero strato mitico, in quanto la letteratura
possiede gli strati posteriori. Ci fa risalire a una narrazione ; non ce
la narra, per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e Persefone
seggano sul trono tenendo fra le dita tre spighe, richiama le nostre
cognizioni sul ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le
fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le esigenze ineluttabili
della scultura e pittura. Non possono essere indipendenti dal racconto
parlato quelle arti che non debbono né fermare l'istante né
descrivere il moto. Il momento è la loro misura, ai due estremi della quale
sono invarcabili colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per
rendere una vicenda, per fìngere il moto nella statica. E né meno
costituendo in serie i lor prodotti riescono a rendersi autonome
dalla forma letteraria; che una Via Crucis raffigurata da un genio non è
se non mirabile chiosa agli Evangeli. Non pure, adunque, il mito è
fenomeno, nella sua espressione, a preferenza artistico; ma anche è
precipuamente letterario. La letteratura sola ha il vantaggio di
esprimerlo intiero, di insegnarcelo se l'ignoriamo, di non abbisognare né
di compimenti né di premesse. Cotesto privilegio però non s'intende
tutto, che prescindendo da alquante restrizioni. Bisogna, in primo luogo,
ricordare che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i
guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che, contro la conchiusione
recente, nasce dal ricordo Annali dell'Istituto tav. Su i rapporti fra
arte e letteratura mitopoetica scrisse belle pagine C. Robert BUd und
Lied (Philologische Untersuchungen, Berlin. dell'esame condotto intorno a quattro
notevoli miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee
omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser pervenute nella loro opulenza, il
sussidio dell'arte plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non
cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia basterebbe. Bisogna
inoltre allargare i termini onde è concbiuso il concetto di letteratura:
non fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla ninfea
emergente sul pelo dell'acque chete; ma comprendendo nel vocabolo anche
le manifestazioni più povere e grame, il racconto d'un antistite,
l'osservazione inetta d'un erudito, la favola ciarlata fra i fedeli.
Perché, se si considera nella sua ampiezza tutta questa saliente marea,
che si diparte da bassissimi fondi ed espugna ben erte rupi, pervasa da
un assiduo moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su le forme
come una legge fatale; se si scorge il fremito creativo trascorrere in
corsi e ricorsi da Pindaro all'atleta, da l'atleta a VIRGILIO (si veda),
da l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa e la mente di
Timeo, raggiungere la Biblioteca di Diodoro e la corte imperiale di Roma,
pervadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista dell'età travagliose: si
appalesa a pieno il dominio, indipendente e incomparabile, che sul
Mito possiede la Parola. Ed è dominio attivo. Il verbo non
s'imprime su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre
originale, com'è sempre imprevedibile prima del suo compiersi, e non del
tutto sceverabile dopo. E un castone che costringe il diamante ora
a smussare una punta ora ad arrotondare uno spi- f?olo. Ogni
racconto letterario di un mito, scritto e parlato, ne è una forma nuova
che non si può ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra. In
questo, l'arte figurata e il culto, a parte la loro incompiutezza che si
vide, somigliano alla letteratura; ma, anche in questo, le restano
addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e l'altro, non appena
possedutala, una certa forma e una certa versione d'una saga
incidendola per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la parola
ha una sua duttile mobilità, una sua invitta energia innovatrice, che si
tradiscono nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsaj)evolmente,
travisa il modello, e Ovidio si dilunga intorno a Caco dall'Eneide, della
quale vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una cosi fatta
attività di dominio, come distingue tra loro le forme dell'arte, cosi
gradua le specie letterarie medesime, ed è il criterio del loro
pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al poppante innova bensì, che
non s'evita; ma per vero minimamente, a confronto dello storico e
del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo, al paragone, e la luce ne
devia cosi poco che si trascura. La personalità della parola è
quella di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema; o si
invigorisce: e il mito ne riceve più o meno ] individuate le sue forme.
Onde è lecita per comodo di ricerca, se non esattissima in tutto, la
distinzione in due grandi categorie, separate per; una diversa potenza
creativa, dei contesti verbali in cui la fiaba si esprime: nell'una
stanno gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi:
fecondatori. Senza traccia, come senza nome e senza gloria,
rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori menni. Non dispregevoli né
pur essi, clie sono la gleba rude, disprezzata ma indispensabile,
senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ripete. Sono del resto costoro,
nella lor supinità passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di
fantasia le fogge tradizionali, come utili a vagliar le innovazioni, che,
diffidando, non accettano se non quando una forza geniale le imponga, e
costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col ripeterle, la esistenza.
Somigliano agli spettatori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi le
sorti delle loro creature, e che si serbavan fedeli alle opere premiate.
Per essi avviene la selezione e si conserva la vita. Cosi che
quando non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il popolo nostro per
i miti pagani, la favola è ben morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco
divino la resurrezione. Le radici sono inaridite. Ma non possono
d'altra parte raccogliersi in un solo tutto i fecondatori del mito: che
la energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal volta l'artista dà
il suo suono alla favola d'un creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo
che ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad arazzo. Verità di
non poca importanza, come quella che serve a spiegare, perché il mito
duri e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si tace, o
compia anteriormente all'arte uno sviluppo assai grande. Cosi, pur tenendo
conto dei carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la
trasformazione profonda subita dalla fiaba aria j)i"esso i Grreci prima di
vestirsi nell’lnno a Ermes di begli esametri omerici: o pmi'e il comporsi
della saga siracusana di Demetra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né
senza traccia è rimasta, come senza nome d'individui, l'opera di cotesti
facitori non artisti o, per dir meglio, scarsamente artisti: dei
mitologi. Ai nomi delle persone, clie mancano e non varrebbero, possiamo
sostituire quelli dei centri onde il moto di elaborazione mosse e si
propagò: quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del Foro
Boario per il furto di Caco, Argo per le imprese di Perseo: feraci campi
di rigogliosa messe, tra cui raro langue il ciano e il papavero, e su cui
ci vien fatto di gittare obliquo lo sguardo traverso i voli di Pindaro i
colori di VIRGILIO (si veda) il racconto di Ferecide. In generale, per
conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un progresso rispetto alla
mitologia . E tale asserzione è sempre vera, se intesa a dovere: perocché il
progresso può essere istantaneo e compiersi nell'attimo medesimo della
innovazione, ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se l'autor
dell'^ea di Eufemo metta in versi il lavoro mitologico di un predecessore
o crei esso medesimo la saga che contamina le pretese dei Battiadi
con la spedizione degli Argonauti al lago Tritonio: non sappiamo né
sapremo, e la Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva elaborazione
mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'elaborazioni mitopeiche della
letteratura distinguo la mitologica dalla mitopoetica che sola ha pregio
estetico. verità elude con volti ambigui i nostri occki incerti. Ma
se, come si ritiene meglio probabile, la contaminazione balza insieme con
il ritmo dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata sorte, il
gusto estetico coincidette con la vigoria generatrice. E il caso è, in
Grecia specialmente, non raro; ed è ben motivato dalle premesse
nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo raccolga in un racconto
su Perseo il mito tessalo e il peloponnesiaco, e li fonda con gli
elementi jonici, che si dissero sopra, stringe membra prima
incoerenti in tale organismo d'intuizione unitaria, che è del tutto
normale, se egli stesso riveli una a pena minore vigoria
nell'esprimer quello col verso; se appaja egli stesso anche
mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio, che gli altri. Il nesso è
cosi ovvio, che sembrerebbe quasi insolita la contingenza, in cui al più
dell'intuizione non rispondesse il meglio dell'espressione. Insolita
certo; ma assai meno che non sembri, a causa dell'indole propria di
; talune stirpi e della natura speciale di certe in[novazioni mitiche. Nel
fatto, TRA I ROMANI è [facilissimo che una fiaba si innovi appresso
un [arido annalista e che quindi scada dal carme )opolare allo
schema di un rozzo diario: tale [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda
di Caco [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con[•asto
etimologico, Evandro la prima volta, pur [senza avere alcun intento, si
badi, di rasionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile 3he il
capitolo delle etiologie inerenti al culto [di Ercole si aggiungesse a
quella stessa leggenda in una forma regrediente, che non
attingeva alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un necessario margine
a simili casi, per solito si varca d'un salto dalla medesima mente il
varco che intercede, non ampio e non breve, fra la innovazione
mitica e la procreazione d'un'opera d'arte. Superato tal varco, o
per felicità d'ingegno o per maturità conseguita nel tempo, e attinto
il vertice più bello, si apre una serie nuova d'innovazioni mitopoetiche,
che son ben diverse dalle mitologiche. Ma un facile criterio le
distingue senza possibile equivoco. Le une hanno un fine che è
estraneo alle altre ; le une si dipartono da esigenze che sono estranee
alle altre. Lo scrittore, che altera la leggenda nel comporre, obbedisce a uno
scopo d'arte, cosciente o non consapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o
il suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel ritocco, mutar
questo colore, adombrare una figura, correggere la prospettiva ; il
pubblico speciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli dinanzi al
pensiero dui'ante il lavoro, di concedersi certi accenni e taluni richiami, di
sviluppare più ampiamente una parte. Per contro il mitologo, che è tale prima
d'essere artista, tende a una mèta mitica : pensa al patrimonio
leggendario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigorosi rami, e a quello procura
di recar contributo, adunando, intorno a un nome di eroe o di nume,
tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una mèta politica o altrimenti
pratica : per conciliare le pretese di due luoghi intorno a una Dea,
si chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per esaltare una
dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per comprimere mia città avversaria, quale
Tera; per lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico. In
ogni caso, muove da esigenze che non sono quelle del suo tema letterario,
né consistono nel tono d'un poema su Enea o d'un canto su le
Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indirizzo mitologico. I due
ordini d'innovazioni però, pur essendo tanto ben distinti nel fine e
nell'origine, esercitano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'imagine che
rende la loro reciproca condizione, è quella della pila voltaica ove il
succedersi alternato dei dischi di rame e di zinco permette lo scoccare
sintetico della scintilla. Ogni mito difatti non potrebbe entrare in quel
componimento letterario ove deve alterarsi, se per effetto della
sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse conseguito già un certo
stadio; e per converso, poi. il colore diversamente sfumato
dall'arte la variata prospettiva sono a punto cause che
permetteranno ad altro mitologo l'aggiungere o il contaminare. Dopo che, nei
carmi del popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo il suo
senso allegorico antichissimo, per assumerne, a gradi, uno storico ben diverso:
allora solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano, e il gruppo
delle etiologie incunearsi nel racconto. E allora solo la fiaba di Perseo e
Andromeda è matura per una interpretazione psicologica e sociale nella
tragedia, quando il mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la
Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica l'altro; un passo
prepara il susseguente: non importa se i fini del primo non sieno per
l'appunto quelli del secondo. Anzi, perché, come si vide, l'innovazione
mitologica avviene talvolta in una con la innovazione mitopoetica, lo
storico resta esitante, in quei casi, prima di decidere da quale
fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi la precedenza, non nel
tempo, ma nella responsabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga.
Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in congettura mal certa, se un poeta o un
mitologo abbia, per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per
scoilo di chiarezza genealogica e armonia anagrafica, identificato
primo Persefone con Cora. I confini sbiadiscono indecisi, la sintesi
creatrice non ritrova chiare le sue vere cause. Questi casi ammoniscono lo
storico a cancellare ogni categoria empirica allor quando si accinge ad
esporre l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico
pagano. Da due radici trae vigore la mitopéja al suo arricchimento
progressivo e al suo lungo variarsi: dall'elaborare gli elementi
spirituali onde consta negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé
stessa. Curiosità scientifica, senso del divino, intuito dell'uomo
e della natura, immanendo nella saga costituiscono costantemente altr'e
tanti tentacoli, che attirano verso di essa i prodotti del più
maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito di contemplazione
umana e sociale. Ma inoltre l'evoluzione della mitopeja letteraria nuove
energie se le aggiungono; nuove, le quali son sorte non da uno sviluppo
delle primissime antiche, ma da un superamento deciso di
queste. Siffatta opera duplice e immane di rinnovamento si comijie entro
certi ampi limiti temporali. Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto
del medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura, sono sufficienti
impulsi alla creazione d'un mito: nuovo, se pur non profondamente diverso
dal complesso dei suoi analoghi. E il fermentante rigoglio della
giovinezza. E la festa dei frutici che il suolo ferace esprime da sé, per
l'esuberanza della sua forza, in unico impeto con le roveri e i pioppi.
Si che le figure si moltipKcano disponendosi l'una a canto dell'altra,
affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si addensano e
s'intrecciano, uno appresso all'altro, simiglianti e differenti, e si
dispongono in racconti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome
personale, un peculiare suggello. La mitologia indiana serba traccia di
questo pletorico groviglio li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali,
intrecciate Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è
linore: perché già in essa sono sopravvissute [unicamente le forme, in
genere, geniali, cui la [singolarità medesima apprestasse vigoria e
resistenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò stesso meno
individuate, vennero assorbite da pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche
fra gli lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che man
tutti il medesimo sostrato naturalistico, di [Eracle nell'Ade, di Eracle
contro Gerione, di Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gorgone, di
Perseo contro il ketos, attesta l'antichissima fecondità originaria in favole
dissociate per minime differenze, per esigui e mal certi confini, e
prova anche come la mente creatrice da sé e dalla propria stirpe sapesse
a ciascuna derivar notevole forza di vita e non scarsa energia
personale. Di questo periodo di creazione mitica e di
moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio additano gli ultimi,
e non miserevoli, bagliori tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età
difatti, che l'occhio della storia può riguardar sicuro traverso poche
nebbie^ la letteratura mitica si accresce della fiaba duplice di Cirene e
della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi vigorose e determinate
che non possono in verun modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia
né Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi tutto, perché
non escono, se bene adorne poi, dall'arte, di stupenda efficacia poetica
: Pindaro Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne dorate su la loro
cetra, non escono da un bisogno lirico incomprimibile: ma sono posteriori
a un fine pratico, in grazia del quale soltanto sussistono, ma a malgrado
del quale splendono di magnificenza. Per ciò non creano, ma compongono
elementi noti, sfruttando intrecci anteriori. La saga degli Argonauti era ;
conteneva il lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero, e
dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e dei coloni giunti da Tera
sul luogo del dono. Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge
presso la palude Ciane, non sono se non le sosti l'evoluzione della
mitopeja letteraria tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle
forme d'un antichissimo racconto greco. Singolari apparizioni mitiche queste,
adunque : nelle quali si unisce un cotale spirito di riflessione,
un quasi gretto senso di praticità, con una indubitabile freschezza creativa,
un abbandono languido di sogno. Questo permise il loro travestimento poetico, e
cosi grande permise che i razionalisti antichi non s'accorsero punto
dello scopo politico e materiale onde le belle fiabe che gì'
irritavano erano mosse; né se ne accorsero, prima che sorgesse il metodo
critico moderno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono in vece ad
avvertirsene in più disadorni e meno ricchi racconti. Tuttavia, in quel
senso di riflessione pratica è il non dubbio indizio che il periodo in cui si
moltiplicano i miti è per finire. Esso si estenua, per vero, in bolse
invenzioncelle, in genealogie stremate, in giuochi etimologici
trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi in favolette che pochi
eruditi ripetono; rivendica il passaggio di Perseo per Micene ove egli
avrebbe perduto il puntale della spada (ó /ivxt]g); attribuisce a
Trittolemo discendenza argiva; spiega il nome dei Pinarii pel dover
essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù), ho fame). Poi
muore. Entro i limiti di tempo cosi largamente segnati, profondo e
vasto è il rivolgimento. Pausania. Servio Comm. a VIRGILIO (si veda)
Eneide In apparenza, tutti coloro che trattarono letterariamente le fiabe della
nostra ricerca, le considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal
volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di caso in caso, la
celebrazione di una vittoria ginnastica, l'ammaestramento georgico, la
metamorfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza d'una festa, il
vanto della preistoria romana : mezzo, sempre, il mito. Persino nel
dramma di Euripide lo scopo vero è altro da quel che la leggenda,
in se, richiederebbe: è scopo comx)atibile con essa, ma ad essa imposto
mutandole il suo contenuto. L'interesse per la saga non è quello
primigenio della intuizion naturalistica onde nacque: è, nei varii
letterati, vario. Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si conferma
con tutti i testi del nostro studio, per non dover essere tenuta in somma
considerazione. Ma ecco che la realtà la contrasta duramente. In tutti i carmi
letti, in tutte le prose, il mito entra non di straforo, si per le
spalancate porte: signore, certo del dominio che nell'interno lo attende. Delle
Pitie è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia; la sostanza
dell'elegia properziana. Nel libro d'un poema vasto come l'Eneide è
rispettato anche in certi j)articolari minuti: ospite sacro che
Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto. Non importa che Callimaco sia
molto breve nel cenno alla saga di Cirene: i pochi tòcchi bastano
perché gli elementi essenziali delle due leggende contaminate appajano
totalmente. Fin in Livio. Fin in Dionisio. Si contraddicono, dunque,
le cause e i modi onde la letteratura accoglie il l'evoluzione della
mitopeja letteraria mito: controversia intima a Kalypso. Controversia, da cui
derivano e gli acquisti letterarii della saga e le sue letterarie
deformazioni; clié, violata da interessi nuovi, cui già era
estranea, per quanto con tutta la preponderanza della sua congenita
foga imponga le sue forme, è costretta ad accettare, dalla sede che
l'ospita, le luci. Su la soglia, le si fanno incontro, e prime
la intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella il popolo par
condensare, con la propria esperienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché
vi fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende (per lo più,
familiari) e i modelli caratteristici delle fìgure che muove la sorte
comune. Per essa, traverso la fantasia delle masse, come attraverso un
vaglio singolare, il complesso (ad esempio) dei pastori o de' pescatori,
e l'insieme delle vii'tù e dei vizii che in genere presso quelli si
riscontrano, affìnansi in una selezione di cui è vano cercar le leggi,
per comporsi nella sintesi di un personaggio tradizionale con
tradizionali pregi e difetti: il pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e
onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il
figlio non suo. La novella è dunque, per propria natura, pregna della
medesima umanità che, nel mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ;
le creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano a volte
come nate da unico ceppo. E si accordano quindi, sovente e bene, in un
medesimo testo: tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua affluisce
cosi nella saga che del pari riflette, da le rive imminenti, i cotidiani
spettacoli; non, però, riverbera simileraente la vampa solare, né vi
si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde durante la divina
estate: si che il volume fluviale acquista potenza di voce che s'ode da
lungi, vigore di empito che infrange le sponde ; ma divino di stelle e di
selve men vi trova echi e consensi. E pertanto nella mischianza fra
mito e novella il principio dell'abbassarsi quello verso pianure
terrene e dell'adattarsi a stature umane : in cui si attenua, senza per
altro smarrirsi del tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti
che più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago velame d'
irrealtà favolosa soffonde pur la novella, di spiriti non consueti anzi
straordinarii ; accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura
mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe. E a questo si deve a
punto se di eroi sono i miti. Quando i lor personaggi non sono
stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara dell'alta e intiera
divinità, allora il nume protagonista della saga, e il vecchio vecchio vecchio
che i novellatori esagerando desumono dalla vita loro visibile, si
allivellano sopra il piano istesso ; fin che anche il piccolo rito
locale, se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce, non
trovando altrove favori, con l'estinguersi o diventare eroico. Vicino a
Larisa di Tessaglia, era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma,
per ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pescatore e le vecchiarde
Graje, il tempio chiamavasi, né si ricordava nome diverso, tempio di eroe
[fjQc^ov). La novella trae cosi a sua società il mito; ed entrambi corteggiano
il popolo illudendolo nella speciosa finzione di
maraviglie l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria elle sono sol
tanto le trite consuetudini di lui, ma mosse dal soffio d'un più,
dall'anelito d'un meglio: gocciole di piova che rifrangono il
Sole. Nella cortegiania è terza l'invenzione etiologica, intenta a cercare
la causa del fatto umano. Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga,
in cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la causa del fatto
naturale. Caco spiega il fuoco distruttore; la presenza dei Potizii
pronta e il ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito erculeo
nel Foro Boario. Che se i tentativi scientifici appajono per tal guisa
paralleli nei due fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti
gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per causa del fatto il fatto
medesimo, correggendo solo uno, o pochi, tra i particolari che lo
accompagnano. La fiamma muta contorni divenendo Caco e serba immutata la
sua potenza deleteria. E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta,
identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La giunta sta
nell'episodio umano e abituale : il costume ladresco di Caco; l'indugio
pigro dei Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leggenda integra
per un lato quel suo volto che par compaginarsi di nostri nervi muscoli
sangue; secónda per l'altro quella sua tendenza che si origina
dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. Questo tributo però non è solo copia.
Rappresenta anche una riserva di potenze e di sviluppi, che si
determineranno in varia misura a seconda dei contatti posteriori, dei
luoghi, dei tempi. Un poeta, un romanzatore, uno storico, e i
diversi individui entro queste diverse categorie, ne trarranno spunto
alla lor compiacenza differente. E questi svolgerà l'etiologia in scena
compiuta che si disponga a fronte del più vero e antico nucleo
mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per ripeter la fiaba,
comprimendo pel resto l'etiologia in ombra a mala pena schiarita. Properzio,
il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto di elaborare diversamente
cosi il mito di Caco. L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura
insieme con il deformarsi della saga sotto l'influsso dei molteplici interessi
cui la fa sottostare il cuore infaticabile e travaglioso ch'è
nostro Cosi il patriottismo adultera il mito; e per vero
duplicemente. Prima, in forma subdola lo ritocca o accresce. Poi, gli dà
un contenuto storico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro
mostruoso di tempi antichi; Euripilo un re di età lontane : il lor valore
d'iddio del fuoco o della porta infernale è perduto, perché una storia
fallace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato naturalistico al
medesimo livello di uno a sostrato storico; o fa prevalere questo su
quello, ove si trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme con
il complesso dei particolari cristallizzati, il rapporto tra i
protagonisti, però che il favore patrio si trasporti tutto per l'appunto
su l'eroe che qual Dio aveva, nel primo significato, combattuto le
tenebre; e l'odio nazionale si accumuli su la figura che era stata, nel
primo significato, ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la
leggenda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto questo aspetto, poche
luci di poesia sono tanto favorevoli al serbarsi integro della saga. La
psicologica o la sensuale posson compiacersi del l'evoluzione della
MITOPEJA LETTERARIA mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e
della intelligenza clie li accomunano. La patriottica no: deve preferire, deve
parteggiare: rida al mito un sentimento, lo riscalda con un calore
affettivo che, dopo la sua origine, gli eran divenuti ignoti. Né anche il senso
religioso è cosi efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e
Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è il nucleo effettivo: la
simpatia dei coloni per il Dio e la Cacciatrice ne' quali si
rispecchiano, e la protezione perenne assicurata dalla coppia
divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello scalpello pindarico è
giunto a scolpire la statua che il patriottismo di Callimaco crea
indelebilmente: la statua del giovine Iddio che accenna, sul Colle dei
mirti, alla bella sposa le danze, onde si compiace, dei Doriensi fra le
fanciulle libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con la vita
della sua stessa radice. E quando un brivido di fervorosa simpatia scosse
gli spettatori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di Perseo una
sorte agitarsi non dissimile dalla sorte che in allora il Fato volgeva su
la città marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio, Dio,
qual era da prima, splendido al pari del Sole. Se m.ai per lui si creò di
nuovo un anelito di innamorata estasi simigliante a quello che fu
verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo mito s'era originato in
una mente ingenua e profonda; se mai si creò, fu l'anno 412 sopra
una scena greca, auspice l'amor della Polis. Diverso anche allora, eppur
analogo d'empito e di vivezza. Il senso religioso è, già si vide più
volte, intrinseco al mito, che anzi se ne informa. Esiste fra i due
concordia come di gemelli. La quale si svela però non molto jjrofonda. Le
si oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma uno solo, fra
i caratteri della saga; ch'è ben piti ricca di contenuto e complessa di
aspetti: ond'è elle il carme inspirato alla fede tende inevitabilmente a
sviluppare un membro della leggenda a scapito degli altri, tende a farne
vibrare una corda sola. E la contemplazione del mito da un punto
vicinissimo, ma cosi accosto da non permettere più che una visione unilaterale.
Tal incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il mito, dopo che è
creato, resta e si cristallizza; non è privo di vita, tutt'altro, sotto
quella sua crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di
immutabilità. Somiglia la formula d'un culto, che i sacerdoti dicano,
negli anni, un dopo l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso
in vece sono di lor natura non statici, ma energici d'un moto
assiduo e incalzante; sono la vita stessa in una delle sue sublimazioni
migliori. Presto, raggiungono, se non presso tutti, presso talune
menti alte al meno, presso l'inspirato poeta della fede quasi sempre, uno
stadio superiore, e forse di gran lunga, a quello onde il mito si
generò. E allora v'è contrasto. V'è bisogno di eliminar una figura, di
scemar la crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere umano
al cordoglio d'una dea : si deve informar il vecchio mito al nuovo
pensiero. Per ciò appresso Pindaro Chirone esita e sorride e si atteggia a
loico furbo, prima di dir la sua profezia ad Apollo. Altre volte in vece il
particolare l'evoluzione della mitopeja letteraria leggendario rimane, non
alterato; ma il pensiero critico lo discute e ne dubita: che è in
apparenza guasto minore, maggiore in realtà. Per quel modo, difatti, lo
spirito cessa di riviver la leggenda immergendovisi: la projetta lungi e
fuori di sé, se la contrappone: per qualche istante, e sotto certe forme,
le diviene estraneo. Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che
ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos. Tuttavia né prevale il
dubbio filosofico né la fede alla saga: il tradizionalismo mitico e il
modernismo religioso scendono a un compromesso: e possono, fin che sono
entrambi avvolti da una atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti
nuovi avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della Chiesa si
rideranno dei miti: e vi rinverranno l'indizio d'una religione povera e
bambina. Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle origini,
nel mito l'elemento sensuale e il psicologico. Poi che i fenomeni della natui-a
si vestivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il mare acquistavano
volti membra ed atti nostri, essi divenivan senz'altro passibili di
figurazione sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel campo
della psiche. Analizzare e graduare i sentimenti di un Perseo non è se non
completar l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro. Perseguir
con compiacenza, nelle particolari movenze di grazia femminea, Cora
mentre raccoglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le brune e
bionde bellezze delle Ninfe adunate intorno a Cirene nelle case cristalline di
Penco, non è che un rinvigorir di sangue, spremuto dalla profonda
voluttà umana, le creature cui KALYPSO da un sesso il mito. Se non
che, anche per questa via la fiaba si trasforma: essa diviene un
modo di dire, una frase efficace per significar un pensiero o una intuizione,
una forma vuota, per sé, di contenuto che si riempie, adeguatamente, a
volta a volta. Perseo, è l'esempio già scelto, può vestire di sé e delle
proprie avventure esteriori un ideal personaggio di Euripide, e potrebbe
vestirne più altri, abito di molti individui. Cora, è l'esempio già
usato, si muove con la leggiadria un po' stereotipa della giovinetta
innocente e pudica, che solo fiori ama e fresche cascatelle e aromi
salienti dalla eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è
penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fittizia, perché non è la prima,
antica e vera. Per ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le compagne
di Cirene da un repertorio di nomi; e non più che nomi, ciascuno dei
quali si riduce a un colore, non svela una persona. Demetra che
piange, e di cui si regola il pianto con magistero di psicologia poetica,
è una madre. Ma ell'era anche una Dea. E da siffatte menomazioni
nasce il bisogno di sminuire, se non proprio sopprimere, Fineo
nell'episodio di Andromeda, di creare fra Andromeda e Perseo una scena
novissima, di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce persino la spiacevole
inopportunità dell'intervento di un Nume, in sul finire del dramma, per
sciogliere, con atto oltreumano, una situazione divenuta umana. Accanto a
questa, che la psicologia e il sensualismo gittano sul mito, è singolare la
luce che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in l'evoluzione
della MITOPEJA LETTERARIA alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la
natura personificano e di cui con la loro vicenda rendono il fenomeno,
dovrebber trovarsi più agevolmente. In pochi in vece si altera e deforma
forse tanto la saga. La Dea delle biade non domina su la vegetazione
lussureggiante, non vi regna, qual'è, regina: vi s'incornicia,
iDersonaggio del quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra, ma
in mezzo alle messi che significa e possiede: parte d"un tutto che
pur dovrebb'essere rajDpresentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e
che si duole nella valle di Tempe, maravigliosa di rigoglio
verzicante, tiene su i pastorelli un privilegio di nobiltà, che gli vien
solo dagli anni antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è per
altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il passo similemente. La cintura
dei monti lo comprime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attraversare i regni
del nonno, le sedi di cristallo, gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi
recessi ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre ninfa, non
è difatti adunato lo splendore sacro della natura acquatile e pastorale
che af figurano, ma una cosi fatta magnificenza è concretata al di fuori di
essi; li allieta in perpetuo con perpetui doni ; li circonda non li
costituisce. La bellezza e il primato sono altrove che nelle persone
di entrambi: nella Natura, effettiva protagonista, cui convergono lo
slancio del poeta innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si
direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed è vero: ma colà la
Natura riprende il posto che i suoi impersonati rappresentanti le avevano
occupato.E una restaurazione. Dalla sorgente, in vece, è lontanissima
l'erudita sapienza di Properzio. La leggenda diviene, nelle mani di lui,
uno strumento polito da usarsi con un'arte accorta e a pochi nota: unico
esempio, nel nostro studio, di quanto essa possa, senza scemo di
pregio letterario, stremarsi della sua vita prima. Nata sopra un pascuo
giogo di monte si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La qual
cosa non toglie che ivi appunto il rispetto al mito sia cànone più severo
: per crescere al magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa
agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son tramutati i tempi. Più
in là, si ritrova, fra più ampio volume di carte, in una più chiusa
austerità di ambienti, la Storia. Qui l'atteggiamento è senza dubbio
uniforme. Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce troppo da LIVIO
(si veda), Livio da Diodoro. La lor critica e il loro metodo sono
diversamente insufficienti. Ma un intuito comune li induce a
sopprimere, nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di certi
silenzii, pel fine di non arrecare una stonatura sensibilissima nell'insieme
dell'edifizio che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono alle
loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i Minii ; i Gracchi, Caco. Quando
le leggende non hanno ancora una storia per sé, si adattano in quel
letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual le raccorcia, esuberanti
come son sempre. Sopravvivono esse: attestando la loro incoercibile
vitalità. Uomini culti, che posseggono la lingua, conoscono il passato,
partecipan col'evoluzione della mitopeja letteraria scienti al presente del
loro paese, pur avvedendosi del carattere favoloso di taluni racconti,
pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono impossibile dar a quelli
l'ostracismo totale con l'espungerli da gli scritti che compongono.
Livio giunge persino a dichiarare in anticipo che non vuol esser
chiamato responsabile di quanto narra per gli antichissimi tempi; ma
narra tuttavia. Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),
il vero che si cela sotto il velame; ma riproduce tuttavia il velame. Del
fenomeno una spiegazione sola è possibile: il pubblico esige la parola
degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio patrio, ne va della
consuetudine. L'orgoglio : che non ammette si ignorino le origini prime
della propria stirpe, le vicende antiche della propria città, i
nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti; che si sente sodisfatto,
assai piti che dal contenuto stesso della fiaba, dalla sua forma di
bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi meglio della realtà; che
ritiene di non poter conoscere la vita dei padri se non traverso la
tradizione eredata da essi. E la consuetudine: ch'è la forza grande delle
masse; e resiste, sotto la specie del misoneismo, alla ricerca
innovatrice del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'ortodossia, ai
risultati dell'indagine, illuminata da un nuovo pensiero religioso o FILOSOFICO.
Tucidide doveva saper di spiacere quando negava un nesso fra Tereo, del
mito di Filomela, e Tere degli Odrisi signore di Tracia; ma era da lui
l'afTucidide frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di fatti la
vigoria d'una tale niente può bilanciare la resistenza che, per
tradizione patriottica, è insita nella leggenda. Che se parallelo a
tal risultato appare l'effetto dell'amor nazionale sul mito, i due
fenomeni però sono distinti. Il poeta, che canta la saga patria, o
nella saga introduce opportuni accenni alle patrie vicende, serra un
legame, tratto dal cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e
il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato: sospira il presente
nell'antico, e sotto le luci dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe
maestosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del re savio regnante
Evandro: imagina la spada del guerriero cadere, simile alla clava
d'Ercole, contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo storico in vece
accade appunto l'opposto: per lui, il mito emana su su dalla storia, come
una causa su dagli effetti, una premessa su dalle conseguenze: j)er lui
il mito è una preistoria, una motivazione. Il nesso genetico di causa ed
effetto, ch'è insito nella storia ancor quando si manifesta sol
grossolanamente in un nesso di precedenza e susseguenza cronologica,
orienta nel suo indirizzo anche la concezione della saga, e
l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta vede tra il contemporaneo e
l'antichissimo, è per lo storico in vece un dipendere causalmente
del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la lotta fra Ercole e Caco
serve solca spiegare un rito di carattere greco, e la leggenda dei
Minii e di Tera e di Batto è una necessaria e sufficiente premessa alla
storia cirenaica. Per questo valgono : perché giustificano. E il loro
valore di motivi è cosi grande, che si accettano come ipotesi
sostenibili, anche quando è infirmata la fede su la veridicità del lor
contenuto. Si fatta deformazione del mito, per cui il carattere
etiologico di taluni suoi particolari e, qualche volta, d'intieri suoi
paragrafi intacca il nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,
segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle origini. La saga aveva
avuto negli inizii importanza per sé : stava oltre gli scopi pratici,
riflessi in parte nel culto, e i bisogni scientifici; superavali
entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi un mezzo d'arte si alterò,
serbando tutta volta officio consono alla sua natura; tanto che,
pur connettendosi con etiologie cultuali, mantenne su di esse il
suo primato di bellezza e di forza, presso poeti quali Vergilio ed
Ovidio. Quando alla fine si trasforma nella pura e semplice causa
di fatti, allora si astrae dai suoi termini, cessa dalla sua
indipendenza, acquista un che di cerebrale fra le idee, perde molto
d'imaginoso tra le fantasie. In seno al possente spirito mitopeico
letterario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto della nostra
recente esperienza, talune tappe ed erigemmo le precipue pietre miliari,
s'opera un continuo nascere maturarsi ed estinguersi di saghe :
paragonabile all'immane vicenda di morte e di vita cui sottostanno
gl'individui umani nel grembo dell’umanità, che s'è originata e deve
a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso è libero ; non perché
non lo determinino sempre forze pullulanti e incroci anti si, del cui
intreccio è schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo
disegno; ma perché nessun nodo della contessitm'a è prevedibile, prima del suo
stringersi, o analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi è del
pari degno d'istoria; v'accade regresso in rapporto al livello mediano
della mitopeja, e anche progresso: entrambi in diverso modo notevoli.
Esiste tuttavia una fondamentale sorte, ch'è comune a quella ricchezza
divèrsa. Il mito, ciò è, ha due vite; o forse vita duplice. Una è la
sua più propria: e consiste nella capacità di evolversi, di assumer
forme nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in individui
diversi: spirito di molte sostanze. L'altra è la vita di ciascuna sua
forma di ciascun individuo: della Pitia, dell’Eneide, della lirica properziana,
del racconto di LIVIO (si veda). Uno stadio dell'evoluzione non
elimina i precedenti, né li comprende solo in potenza, ma li lascia
sussistere in tutta la loro realtà concreta ; si allinea con essi.
Ciascuna di queste due vite pare uniformarsi a leggi diverse.
La vita seconda, delle singole individuazioni mitiche, è retta da
una forza d'arte. Dalla quale s'informa la "lotta per l'esistenza,,
dei varii componimenti e il sopravviver loro. Onde il carme d'un poeta
non affiora alla superficie che per la strage di numerosi fratelli suoi
minori, cui fu più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche
tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che all'altro il primato,
con decreto che non si discute e che finisce col condur, tal volta, a prevalere
una redazione e col tramutarla in volgata. Fa cosi Pindaro per Cirene, VIRGILIO
(si veda) per Caco, Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in
fuori d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni effettiva
consistenza di strati e importanza di varianti, le narrazioni di pregio
artistico inferiore si aggruppano intorno a quella cui più riser le Muse,
come forme incompiute d'uno stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna
ancóra: di bellezza. E da tutte in selva risplende il mito. Tra
questa folla non è morte, fin che sieno occhi a risguardare ; da questa
sgorga anzi perenne la vita, perché ogni forma è capace d'impulsi, e nella
diversità degli spiriti sono imponderabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il
seme dei sopravviventi miti; e la virtù della razza, che diede la
passione onde nacquero ; e la virtù del suolo del cielo dell'aria
dell'acqua del fuoco, che diede la materia onde si fusero. Di li
ritornano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta all'anime come iddìi
giovinetti e belli: fantasmi radiosi ai nexDoti nella veglia
nottui-na. La prima vita in vece non è né cosi varia né
altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa secondo una linea chiara.
Durante lo svolgersi della quale però, ed è sua prima
peculiarità, permangono al mito, quasi irrimediabili stimmate, i segni che
furono del suo nascimento: resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di
Cirene, che sorse imperniandosi su la Libia e la Tessagha, ha da queste due
regioni diverse e lontane la sua sorte ; e par che fino la più
profonda violenza recata al suo schema confermi quel carattere
regionale. Similmente, per essersi formato sopra un compromesso e in una
contaminazione, il racconto siracusano di Cora rapita si mischia, negli
anni, in una sempre più larga massa di favole. E allo sviluppo di Caco
deriva modo storico e religioso, quando prima s'insedia, col suo
nome, la sua memoria nei pressi del Palatino. Anzi, il vero inizio di un
mito, qual forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto
dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo per sempre
caratteristico. Onde la trama di Andromeda non è da vero compiuta, non pure
nei particolari esteriori, ma e nell'essenza più propria, se non allorché
gli spunti novellistici si immettono nel contesto naturalistico, a
preparare per l'avvenire la triplice serie di innovazioni, psicologiche
romanzesche e religiose. Quasi entro gli argini cosi definiti si
muove la corrente del tempo. E di mano in mano che la storia della
paganità procede, che il pensiero pagano si trasforma, anche la saga è
amata sotto aspetti differenti. Demetra e Cora son narrate con intenti di
gran lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspirano Claudiano e
l'età sua. Ogni generazione distende sul mito una propria vernice: che è
un particolar modo di vederlo. A noi poco è j) ervenuto di questo
stratificarsi perché non ogni strato ha lasciato la sua traccia
letteraria (e artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando, in
sintesi rapida, il processo spirituale del mondo antico : a ogni tappa
corrisponderebbe, se la ricostruzione fosse riuscibile nei particolari,
una foggia mitica, e sia pure a pena diversamente sfumata
dell'anteriore, o a pena diversamente disposta della posteriore. Tra
l'una e l'altra di esse, nesso causativo, porremmo la sintesi creativa
per cui l'intelletto comune, innovandosi, si è superato. Il caso opera
poi su talune vicende della saga. Che ad Euripide sia caduto in mente di
trattar l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto il suo
proposito si potesse tradurre in atto ; che non esistesse un grande poeta
quando il mito di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di caso,
perché a volta a volta risulta dall'interf erire di due linee causali la
cui interferenza non consegue da nessuna delle due premesse. Dal caso
pertanto deriva, che non tutti gli strati della evoluzione mitica hanno
" lasciata traccia letteraria (e artistica) „; e che qualche strato ci
ha tramandate tracce più profonde e più varie. Del mito di Cirene
un secolo, il quinto, ci mostra due trame sostanzialmente diverse, la
pindarica e la erodotea; il quarto non ce ne concede alcuna. Del mito di
Caco l'età di Augusto ci tramanda ben cinque quadri con varianti colori e
linee; l'età di Giovenale nessuno. VIRGILIO (si veda) irradia del suo
patriottismo il racconto, Properzio della sua raffinatezza, OVIDIO (si
veda) della sua sonora compiacenza verbale, LIVIO (si veda) della sua
ingenua critica, Dionisio del suo impotente razionalismo; ma queste
luci tutte scaturiscono dall'opere complessive nelle quali esso viene
inserito e dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava che altre
ne potesse assumere e che ancor taluna di queste potesse non aver
assunta.F., Kalypso. Attinenze fra l'evoluzione spirituale complessiva
stratificantesi sul mito, e le forme casuali della leggenda, esistono
visibilmente. Il modo con cui i posteri di Ferecide di VIRGILIO (si veda)
di OVIDIO (si veda) di Callimaco amarono e ripeterono le saghe di
Perseo di Caco di Cora di Cirene deriva, come dalla trasformazione
compiutasi nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle peculiarità
dell'arte con cui quei letterati, dopo che il caso gl'indusse a eleggere
la fiaba all'opera loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra
quella che dicemmo trasformazione del pensiero collettivo, e questa che
potrem definire energia plasmatrice di artisti, esistono riferimenti
quali d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela letteratura
d'una generazione compie su la generazione successiva, non sono se non
alcuni degli effetti che tutta la mentalità della prima compie su
lo spirito della seconda. Vale a dire : il fenomeno mitico-letterario
avvenuto per l'interferenza casuale di due linee causali riprende,
fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa. Indi si spiegan anche,
facilmente, le morti dei singoli miti: quelle pause del loro
evolversi per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano spinti
alla trasformazione né si riprende che tardi, quando oramai è chiusa a
sua volta la mitopeja pagana. Non è dubbio difatti che una saga
qua! siasi continua, più fioco più intenso, il suo respiro fin che il
genio mitopeico è una operosa realtà. Ma per l'appunto quel che diciam
caso fa si che le manifestazioni letterarie di ciascun mito si arrestino
a un certo punto, oltre il quale bruiva forse ancora il susurro,
non più sonò il canto. Prova tipica, che non ve n'ha forse più
palmare, è la storia del mito di Caco: languido già in quel torno di
tempo che segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se bene
seguano ad OTTAVIANO (si veda) epoche di
culto intellettuale di esumazione erudita di compiacenza artistica in cui
l'abigeato violento e fumoso avi'ebbe potuto, possibilità vana,
trovar non manchevoli espressioni. Persino i germi dissolutori
insiti nel testo di VIRGILIO (si veda) e, più, d’OVIDIO (si veda) e, peggio, di
Dionisio, tolleravano sviluppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe
mancato, di cui in vece manca fin l'eco. Opposto ammaestramento porge la fiaba
di Cora e la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre sotto il
cielo d'Omero si levavano vie più frequenti i crociati segni di Cristo, tenta
di possedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma il crollo
dell'edificio male eretto non travolge pure la perizia artistica di un
uomo, pare in vece che si ripercuota funereo fra peristilii e celle
dei templi cui men frequente stuolo di fedeli e men pio animo di
sacerdoti rende l'omaggio: già che, allora, la mitopeja pagana sentiva da
l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro. Non il caso terminando, quindi, in
questo secondo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,
l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge, del pensiero collettivo
e delle passioni. In un rosajo si sfanno di molte corolle senza che
scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa pei rami: culmina
l'estate. Ma come giunga il settembre, con cieli più chiari e men caldi,
gli ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cortecce aride su
stecchi rigidi, e odore di dissolvimento è nell'aria: il cespo si addorme
nell'imminenti brume. Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che
non è scomparsa, ma fine di produzione. Cessando d'immortalare afferma la sua
mortalità. L'agonia comincia con un periodo di riordinamento, in cui i
miti non si moltiplicano ma si assommano, e che è già iniziato
quando l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del resto, le
stesse qualità psichiche proprie dei Greci: di ordine di armonia di
chiarezza. Qualità che furono per fortuna, nel principio, assistite da una
levità di tocco e da un rispetto per quanto è bello, i quali impedirono
che le si tramutassero tosto in ruvida villania distruggitrice di fiabe.
L'esempio più notevole ci fu offerto, in queste pagine, da chi raccolse
in unico contesto tutto che si riferiva a Perseo: la novella della sua
nascita, cui è congiunto il fatale assassinio del nonno, la lotta contro la
tenebrosa G-orgone, il duello con la belva del mar etiopico. E
un'attività solerte e diligente, cui poco sfugge, e che ogni occasione
cerca per compiere, compaginando rinsaldando, la sua galleria di
dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo della verginità
comune, Artemide e Atena. Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E
sovra tutto venera e tutela sempre i miti che riordina. Li ama. Per
ciò non distrugge, e non guasta né meno. Al contrario, tal volta crea:
inventando, per unire due leggende, un passaggio accorto ; dissimilando
due fiabe troppo visibilmente sorelle, a fin di poterle narrare Funa appresso
l'altra senza ripetizione uggiosa; imaginando una circostanza, per colmare un
vuoto; innestando un particolare nuovo su altri più antichi. Caca
somiglia troppo a Caco nella forma verbale perché a cotesti ordinatori di
miti non cada nel pensiero di trovarle un posto nel racconto del furto:
ed ecco ch'ella diviene sorella del ladrone, e spia dell'abigeato.
Andromeda è il troppo trasparente riscontro di Atena a canto di
Perseo nella lotta contro i mostri del bujo, perché non abbia a essere (e
con questa altre cause v'influiscono per diversa via) trasformata, e
mutata in amante. Affinché però un cosi fatto procedere si mantenga utile,
è necessario, da un lato, che le varianti da comporre in ordine intorno a un
mito non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili di forma; è
necessario, dall'altro, che l'amoroso rispetto per le fiabe si mantenga
incorrotto. Col cessar di queste due circostanze l'attività assommatrice
prende a divenire impotente, perché il suo compito s'è di troppo
accresciuto, e deleteria, perché i suoi modi si sono inviliti. Per
questo motivo essa si riduce a una compilazione che, come presso
Apollodoro, deve limitarsi a citar le varianti inconciliabili con la
volgata, a ricordar Demofonte per preferirgli Trittolemo, senza riuscire
né ad eliminar quel d'essi che sia soverchio né a superare il dissidio
contaminando e creando. Non anche creando : però che la forza
creativa scompaja in una colla simpatia concorde per le leggende. Quasi
sensibilmente il mito diviene oggetto di erudizione, opera di dotto
lo scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà tenace il
serbarne i modi e i nomi di persone e luoghi. Ora, quando il
mitologo ha esausta la forza inventrice, e s'è ridotto a catalogar la
ricchezza delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla forma
di esse, ai j)articolari, cioè, il cui variare costituisce fogge nuove della
saga, e persino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua credenza si
sposta: non può più, come nel prin-cipio, poggiare suiresteriore, perché egli
non ha una redazione di ciascun mito cui sola presti fede, ma di
ciascuno ne scorge parecchie : deve in vece fondarsi sull'interiore
nucleo, su la sostanza, su quel che, in breve, è comune, oltre ogni
variante. Le vesti si mutano sotto i suoi occhi: gl'importa il corpo. Ma
questo effetto somiglia quello che segue alla deformazione storica
del mito. Quando difatti l'artista non è più intento a perseguir, nei
carmi, di eleganze ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad
eleggere un suono per ciascun colore; quando della fiaba interessa il
fatto ch'ella contiene, per la storia, e il fatto poi vale come
causa: allora le vesti adorne e diverse cadono; importa il corpo. Ed ecco
il razionalismo dare, in entrambi i casi, una veste nuova a quel
corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più seria e dignitosa. Il
mostruoso aspetto di Caco, la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al
pascolo, il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto il cavo
etra, il sussultar delle rive all'urto immane : tutto ciò non conta. Conta il
duello tra due, e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la compiaciuta
furberia del loico intesse un'altra sua trama, imagina gli eserciti, ne
fìssa gl'itinerarii con le norme d'età posteriori, concepisce le tempeste
invernali proibenti il tragitto alla flotta erculea: crea una fiaba nuova
su l'antico scheletro, die resta ed è creduto. Originatosi, cosi,
dalle stanchezze della mitopeja, come un sentiero costrutto su scorie, il
mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita non fosse troppo tarda.
La saga di un Ercole errante per monti e piagge, in imprese di
cavalleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi, non minore forza di
vita che la leggenda dell'eroe solare. Quel che le manca è l'aura
d'intorno: per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non è ancor
morta, quando essa saga si forma; e, rimanendole al fianco, le è assidua
pietra di paragone. Per superarla e sostituirla, la saga deve
difendersi discutendo, far valere palesi le sue origini logiche non
artistiche. Onde il suo vero e mortale scapito: però che la logica
chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa; l'arte, fra gli antichi
in ispecie, d'essere imitata. Quindi è che il razionalismo non genera
figli morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col soffocarle di
greve afa, le sue creature fin dalla cuna. A questa capacità
distruttiva, che il razionalismo rivela a suo proprio danno, non
corrisponde una eguale potenza deleteria per le belle favole: che
diviene esso della fiaba la foggia estrema. Né pure allora si serba
indipendente; vive anzi come un parassita accanto ai testi dei poeti
e degli storici. In tarde età riflessive il lettor di Vergilio o
quel di Pindaro accetta la loro fantasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio
del suo sostrato. Dice: due eserciti si son combattuti nel Lazio,
condotti da Ercole che vinse e da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace
esprimere altrimenti il fatto, approfittando della sua libertà „. pure
dice: Caco era servo di Evandro e devastava i campi col fuoco; questo
significa il vate con frase adorna „. E, se ha sensi di gentilezza,
s'india nell'espressione libera e nella frase adorna. Il razionalismo gli
ha fatto da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito. Ciascuna
leggenda avrà molte di queste giustificazioni; qualcuna ne cercherà in vano;
tutte ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in cui la saga
vive, soccorre, pur nella sua esigua e stentata energia, le forme più
antiche, più belle e da più possente alito nate. Malefica è appena
quando in una mente rozza, distruggendo intorno a sé, predomina
sola. Notevole è sempre perché, ultima, contiene i motivi del morir
la mitopeja pagana. La favoletta pretensiosa del razionalista è tutta contenuta
nell'ambito di una esperienza soda della pratica umana: prova, l'esercito
eracleo presso Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non
possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento umano; non delle
esteriori fogge sociali, ridotte per quello a poche linee sommarie e a
rapporti semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri intimi
all'anima: giacché nelle prime porta il razionalismo una imaginativa più
nutrita e più competente, consona ai tempi progrediti e agli
instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una certa gi'ossezza logica
che se è lungi al sottile acume del psicologo, è sopra, d'assai,
all'ingenua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa sua prestanza su
la leggenda, il razionalista non s'avvede d' una inferiorità che la
compensa: smarrendosi in lui pur ogni traccia del fenomeno naturale come
potenza che trascende, come magnificenza ricca di colori di suoni e
di moti, come mistero pregno d' interrogazioni. Ciascuno di cotesti
aspetti ha, quando il razionalismo regna nella mitopeja, trovato ad esprimersi
nel culto, nell'arte, nella scienza ; può quindi, e deve, venir separato
dalla saga, in cui né anche l'uno dei tre vien più avvertito, se
non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evidentemente, dunque, è venuta
meno la condizion prima ch'era stata già bastevole e necessaria al
nascer dell'attività mitopeica; la condizione per cui lo spettacolo della
Natura, nel punto che lo spirito umano lo assaliva per esprimerlo in
sé, non disponeva per cotale manifestazione se non d'una imprecisa
conoscenza degli avvenimenti umani onde era, nel suo grosso, assomigliato; la
condizione senza cui la spontaneità mitologica si allontana nelle tenebre
d'un pretèrito memorando. Se non che la fine della spontaneità mitologica,
che cosi si spiega, non è la fine dell'interesse spirituale verso il mito,
interesse dal quale trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Vedemmo
fioriture minori di saghe in forza di questo interesse; tanto forte
ancora nelle masse da indurre regnanti e poeti a foggiare e contaminare
fiabe per accrescimento di lor potenza e di favore. Più tardi, se non
induce a creazioni novelle con l'imitare le prische e il ricomporle, spreme
però nelle guise più varie, secondo i gusti più diversi (seguimmo nei
particolari tal opera), molteplici aromi dal mito, a inebriarne spiriti
lontani; e ogni aroma si esala in seguito a una alterazione, e una
alterazione ognuno prepara; e dalla vicenda vasta si conferma la forza vitale
del genio mitologico e del mitopoetico. Ma lo storico, che sa
l'uomo e le sue potenze nei limiti oltre che nei modi, da questo
adoperarsi dello spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega,
deducendo, dopo la fine della creazione spontanea, il termine della ripetizione
devota. Difatti, ogni volta che un nuovo compiacimento attrae l'antico
verso la saga, quando il patriottismo lo lega ad essa, e la sensualità lo
diverte di essa, e la fede se ne turba, e il senso psicologico la scava;
ogni volta, una virtù di quella appare splendendo, e si esaurisce
vanendo: perché, al pari d'ogni passione, patriottismo fede
sensualità, energie indipendenti e non faticabili, non si arrestano mai su la
lor via : ma da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia nuova,
e dopo aver succhiato il sangue migliore degl'idoli loro li lasciano
cader dietro sé, cenci vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento.
Grli approcci si rinnovano su una su vénti saghe; le energie si
succedono, ad una due, a due dieci; il culmine si attinge in cui il
groppo profondo dell'anima è uncinato dal mito: ma poi la patria l'amore
l'altare cercano ostie diverse, e canti di altro suono si intonano in loro
servaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili si distrae lentamente
dalla mitopeja, le diviene a poco a poco estraneo e si immerge in
altre creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui l'uomo,
colmato a pena uno stampo, prende a foggiarsene e a riempirne un altro : maggiore.
E il disinteresse mitopeico: la seconda morte che la storia deve
registrare nelle sue pagine. Non è, né pur essa, senza compenso; però
che una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando, e come, e
perché, non è qui luogo opportuno a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo
dice; e chi fa opera d'indagine letteraria nei secoli più recenti e nel
nostro raccoglie le tracce e cumula le testimonianze della terza vita.
Qui si elegge la figura, tocca da melancolia, di Maurice de Guérin,
che rivide con questi nostri occhi mortali il Centauro, avendolo i fragori
marini e l'albe di perla e le sere di ciano educato allo spettacolo
insueto. Egli potè dalla imagine favolosa esprimere nuove bellezze poi che,
concordando col mito nella sensibilità viva della natura, vi seppe
scernere làtèbre occulte, ove languiva la mestizia nata dalla coscienza
della propria debolezza in confronto con le cime sfiorate a volo
dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto mirabile di Kalypso, ritrovata la
spola d'oro. Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro, che sé
con vigore asseriva pagano, vide Ninfe e Driadi egli pure; eran però
fuggiasche, e l'anelito del suo cuore si compose prima in sdegno violento
contro la presunta causa della fuga, Cristo, che in ammirazione amorosa verso
le bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo, Versilia ninfa
boschereccia deve dire, sbucando da l'albero, Non temere o uomo; e il
rimpianto strappa biasimo fiero avverso chi più non vede gli antichi numi
italici: vivon eglino pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi
entro le nari. Ma non è giusto il suo rimproccio; il cuore non si sfa nel petto
come frutto putre. A lui medesimo, che pure vi portava, nuova, la
sua sensualità ferina e torbida e tormentosa, il mito, creatura fraterna
alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implacabile, senza che il vanto e le
promesse d'un'arte magnifica e fin troppo cosciente della sua
maraviglia valgano a fermarlo un istante, né meno presso le ruine del tempio
antico, e l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne
tronche. Si allontana melodiosamente Perché? Eumene di Cardia, nell'età
dei Diadochi, sogna, innanzi a la battaglia contro Cratere,
l'assistenza di Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di una
corona spicea. Il di seguente i soldati si ricingono tutti del segno
augurale; e la promessa divina incita i cuori, come il calcagno i
cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia (si narra) la croce
apparsagli e l'esortazione fatidica in hoc signo vinces; e lo sprone è uguale. Eloquenza
del fatto minore! Nei petti si muta la fede; le masse scerpano dagli
spiriti creduli le credenze adusate e (è la forma di scetticismo
lor propria il mutare credenza) altre ne accolgono al posto; scompare l'aura
benigna in cui si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce
il terreno fecondante ove ne penetravano le radici. E accade che il
valore religioso della fiaba, il valore che sembrava, ed era presso
molti, scomparso e ottenebrato, si riafferma non per ravvivarla ma iDer offrire
appiglio alla sua distruzione. G-li eroi non avevano cessato di
essere, nel profondo delle coscienze, al meno, iddii scaduti; e con gli
iddii vengon ripudiati, di mano in mano che la Divinità si
schiarisce e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con
Demetra. Il resto opera la scienza. Non la nostra, che rispettiamo oggi
come vera. Ma tutte, le rispettate durante i secoli come vere e
come sole, sostituiscono nelle menti la loro verità e il loro equivoco alle
interpretazioni fantastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo e mito
pagano, che un appagamento della curiosità pel fenomeno poteva ancor
stringere. L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcobaleno di Noè
condannano Caco ed Iride, come Sansone soppianta Perseo. Si che l'elemento
scientifico, insito nella saga (se non intrinseco a lei) fin dal suo
nascer, contribuisce con il religioso al suo perire, quando l'una e
l'altra sete umana, di sapere e di credere, abbian trovato altr'acqua al
loro bisogno. Morta la capacità creativa della mitopeja, stornatosi
l'interesse spirituale ad altre mete, indottesi le masse per diversi cammini;
non restan più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simiglianti per
sostanza o per forme ai pagani, e l'ammirazione nostra nata da l'erudito
ricordo. Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo di chiese, e
ignorano il nume degli antichi dèi. E noi siam piccola schiera ; bramosa
in vano di quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'originò la saga;
volonterosa in vano del passionato amore, fra cui si svolse; pallida,
dinanzi l'ombre crepuscolari ove si rifugian labili le figure favolose
evocate un istante, pallida di accorata nostalgia. Restano
anche le storie dei miti e la storia della mitopeja classica: nudrite, dunque,
tutte di nostalgia. Ho procurato che la bibliografia speciale dei
successivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo Libro II
fosse né ingombra dell'inutile né monca del pregevole o
dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve in vece di tenere per la
bibliografia generale su gl'indirizzi varii che intorno al mito si combattono
per opera degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneutica, su le
dottrine che filosofi sociologi psicologi etnologi ecc. ecc. sostengono od
oppugnano. A raccoglier difatti quest'altra bibliografia un grosso volume
mal basterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte
arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio. La omisi dunque presso che
intera, salvo pochi accenni sporadici; né l'includerla sarebbe stato
dicevole, per esser questo Saggio opera, non metodologica né sociologica,
ma storica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte alle
varie correnti e agli opposti principii degli studii mitologici deve
risultare, non da discussioni teoriche e generali, bensì dal giudizio particolare
recato nella indagine e nella storia dei singoli miti. Un ottimo esempio
di ciò che potrebbe farsi è il recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli
Introduzione bibliografica alla scienza delie religioni (Roma):
lavoro che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce
utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo. A. F., Kalypso.
Andromeda. Il racconto di Ferecide. Il problema che si presenta primo
intorno al mito di Perseo e Andromeda consiste nella ricostruzione del racconto
presso Ferecide, del quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno
scoliaste la narrazione della nascita dell'eroe e del suo
soggiorno in Serifo e dell'impresa contro Medusa; ci è pervenuta
anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vicende cui Polidette ed
Acrisio andarono incontro dopo il ritomo di Perseo vittorioso; ma difetta
del tutto l'avventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. = Fee. fr. 26
Mùller ì^/fG'.). Ma la parte mancante del mito in Ferecide può venir
ricostrutta con sicurezza bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro
(Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto il resto della
fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel che racconta Apollodoro son
congiunti da strettissima simiglianza, divien lecito ritenere che il
testo della Biblioteca possa supplire senza errore né equivoco la
lacuna ferecidea. ANDROMEDA Ora, bisogna anzi tutto tener
presente che il mito di Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio
di Ferecide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste, ci resta
invece integralmente nella Biblioteca. È quindi a priori chiaro che in
quest'ultima debba essere qualche particolare pili che in quell'altro. Ma
ciò può anche provarsi ne' singoli casi.In due punti ApoUodoro dà a lato
del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire la paternità di
Perseo a Giove, riferisce senza esplicita preferenza che altri l'attribuivano a
Prete fll 34); dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera
di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gorgone è uccisa da
Atena. Ciò mostra ch'egli aveva presenti racconti un poco diversi ; ma
mostra a un tempo che sapeva serbarli distinti: onde è legittima
l'opinione che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una
fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene in modo aperto. Di
ben lieve natura difatti son le varianti che, senza l'avvertenza dello
stesso Apollod., separano il suo racconto da quello degli scolii citati.
Nella Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa del
capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòaf^eìag T^g Oivofidov ydfiovg;
nello scoliosi parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro che
l'omissione è qui dovuta solo al riassumere, tanto più che in entrambe le
fonti Perseo fa spontaneamente la promessa mentre gli altri promettono
cavalli. Poi in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce che
non gli dà nello scolio: evidentemente chi riassunse omise questo
particolare ; e difatti la falce è menzionata nello scolio medesimo
quando l'eroe è per recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi
quando la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, Steno,
Euriale e Medusa, là dove lo scolio dà sol quello di quest'ultima; quando
Apollod. narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna a
guardar Medusa nello scudo per non esserne impietrato, mentre lo scoliaste
riferisce solo che gli dèi Ermete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv
KecpaÀìjv àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov; quando in Apollod. dal capo
reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso, di cui tace il riassunto da
Ferecide ; quando la fonte più estesa fa rifugiare Danae e Ditti in
Serifo su l'altare, mentre la pili concisa omette a dirittura ogni
accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara in cui Perseo
uccide il nonno Acrisio è indetta da Teutamida re di Larisa in onore del padre
defunto, e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov
iv Tfl Aagioar]. Unica più profonda discrepanza è questa : ApoUodoro dice che
Perseo gareggiò nel pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov
o^jio) ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco
diverse: contro la tradizione che ricordava un pentatlo polemizza lo
scoliaste e la sua recisa negazione fa a sufficienza intravvedere una tesi
opposta e taciuta: la quale dev'essere a punto o la ferecidea accolta da
Apollodoro altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui
uno scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo che
riassume e di cui cita l'autore. Stabilita pertanto la strettissima
attinenza fra Ferecide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse
identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli particolari)
alla versione apollodorea anche l'episodio di Andromeda, del quale gli
scolii di Apollonio Rodio tacciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro
per colmare la lacuna nel racconto ferecideo. Col possesso in
tal modo conseguito di una redazione comparativamente antica del mito di
Perseo e, in particolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie
per cui la critica deve procedere nel suo esame : però che la natura
stessa del racconto orienta l'analisi intorno a Perseo, prima ; ad
Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ; ad Atena e alla Gorgone Medusa, in
séguito ; a Cefeo Fineo Cassiepea, da ultimo. IL Perseo. Le
imprese di questo eroe sono numerose e varie nell'apparenza, ma un occhio
esperto non esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;
decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la madre Danae;
impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma parecchi fra i
consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia considerato
l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole
competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del Nord
dell'estremo occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai
cosf risaputo che può esser per criteri soggettivi negato, ma non deve
più esser ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI
Mythos und Religion e SANCTIS (si veda), Storia dei Romani Religione
primitiva dei Romani e GL’INDO-EUROPEI IN ITALIA. GL’ARII IN ITALIA. Un
eroe solare ritiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech.
Mythologie. Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli, le
argomentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.: giacché egli
dimentica la differenza profonda A parte (e, secondo noi, insostenibile)
sta la teoria di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig.: Perseus
'le destructeur' n'est sans doute qu'un vocable qu'on donnait à son arme,
la harpé, adorée comme Vakinekés l'était chez les Scythes e sensibile che
intercede fra i motivi naturalistici e gli spunti novellistici, cui tutto
il mito di Perseo vuol ridotto. A questo proposito sarà anzi bene
osservare che, per reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni
eroe videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in ogni
episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nell'eccesso opposto di negare
ogni sostrato o nucleo naturalistico e di ridurre ogni episodio a novella.
Sintomo significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di R.
Sciava in " Atene e Roma. Assai equilibrato era in vece il saggio
del Comparetti Edipo e la mitologia comparata Pisa. Ma è notevole
che quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato e
l'origine della Sfinge; e quel primo, trattando di BELLEROFONTE (si veda
– H. P. Grice, “Vacuous Names”), non spiega la CHIMERA (Grice, Vacuous Names).
Entrambi quindi appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del fenomeno
mitologico non a tutti. È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte
nel mito cosi al naturalismo come alla novellistica. Il problema poi
intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro le singole saghe va, in
parte, resoluto caso per caso; in parte è d'indole generale e vien
trattato in questo saggio. Qui diremo solo, in breve, che l'intuizione
naturalistica suppone una grossolana conoscenza della natura e dell'uomo,
mentre la novella è già densa di più larga e più ricca esperienza umana.
Comunque, procureremo, dopo queste premesse, di sceverare quei due elementi,
naturalistico e novellistico, nei varii nuclei in cui abbiam veduto per
sé stesso spezzarsi il racconto di Perseo. È tesi vecchia: cfr. per es.
il sennato art. diJ. RéviLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie,
Prete, Polidette e Ditti. Nel racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e
ricostrutto dalla critica, attira fortemente l'attenzione il
particolare della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso
alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa la menzione del re
pelasgico Teutamida e di un ijQipov in onore di Acrisie medesimo (Scoi.
Apoll. R.). Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessalica
sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert). Ma ben più sembra che se ne possa
dedurre ricordando quanto, dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P.
Cauer Grandfragen der Homerkritik, intorno allo scambio fra Argo
peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaayiKÓv deìVHiad. B 681). Se
difatti si danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta
identificare con l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella
furono a questa attribuiti, è molto probabile che l'Argo di cui è
re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponnesiaca fa pertinacemente morire
in Larisa sia, in origine al meno, non quella pretesa dai mitografi
antichi e critici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con probabilità
scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un nuovo caso d'un equivoco di
cui altri casi furono già constatati e che si ripresenta con i caratteri
consueti. Da questa constatazione fondamentale traggono
rilievo alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui
valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali
son pure, a un tempo, riprova della verità di essa ipotesi. Cosi fatti
sono: 1. la discendenza di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà
notizia Apoll. I 88, in un luogo che non è, come il v., sotto
l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la nascita di
Perseo non per opera di Zeus si di Preto fratello di Acrisie : sulla quale
informano Apoll. II 34, che riferisce questa come una tradizione parallela
alla ferecidea, e lo Scoi. A II. S, che fa risalir la notizia a
Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiaramente iutravvedere una
forma della fiaba in cui i due salvatori di Perseo e Danae sono
personaggi tessalici della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re
pelasgico, quella ha da essere la forma primitiva della fiaba. Onde e
assicurato al nucleo originario del mito l'intervento di quelle due
figure. 11 secondo particolare poi è d'importanza anche maggiore. Per
esso noi dobbiamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus
padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non possiamo non
propendere a riconoscere carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei
miti e nella vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi
che fin Argo l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo fr.
RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr., MùLLER FHG). La tradizione
pertanto che dice di Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto,
tessalica, e quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponnesiaci
son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto si riconnette bene la
cacciata di lui per opera di Acrisie irato, allo strato tessalico
appartiene, forse, anche quest'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso
da Paus. Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. versi; i quali riproducono
una tradizione già alterata da elementi estranei introdotti dalle
genealogie peloponnesiache, per cui poteva interessare che Preto
riuscisse pari ad Acrisie addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi
che Preto appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli
il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che potrebbe
essere, come riteniamo, posteriore al suo trasporto nell'Argolide insieme con
Perseo e Acrisie. Anzi la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega
forse anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus,
e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era poco noto in sul principio e
ove potè localizzarsi solo obliterando il proprio valore. Che però,
velatamente, appare anche nella connessione con i Liei C Luminosi) in cui
egli è posto dtiìVIliade Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che
appartengono potrebbero appartenere a uno strato tessalico della
leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare di quello strato
l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non dessero modo di trarne un
racconto organico e coerente, che potesse reggere al paragone di altri
svolgimenti mitici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che,
tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le inserzioni argoliche, si
giunge a ricostruire la trama compiuta d'un mito: serbate le due figure di
Acrisio e di Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è
anteriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; serbato l'oracolo delfico
(Feeec. in Scol.ApoU. R.) che diviene anche più dicevole per la vicinanza
e le attinenze fra Delfi e la Tessaglia; serbati Ditti e Polidette figli di
Magnete, onde si acquista anche sufficiente notizia del luogo ove
trovarono asilo Perseo e Danae; serbata in fine l'uccisione di Acrisio a'
giuochi larisei: ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e
si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geografica uniforme quanto
per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo
strato tessalico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire il nome e
la figura di Danae: giacché se il secondo caso fosse il vero bisognerebbe
supporre che essa sostituisse un nome e una figura più antichi. Ora se è
certo che nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae
si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e caratteristico
ceppo mitico; non è però man certa la presenza di Danaidi in Tessaglia,
se si cfr. Scoi. Apoll. R. e Antonino Liberale. Va pertanto
conchiuso che Danae può appartenere assai bene allo strato tessalico del
nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini della ricerca presente il
vagliare il problema mitico di Danao, in questo problema tuttavia la
nostra ipotesi intorno alla primitiva sede della saga di Perseo
s'inquadra ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due
stratificazioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro mito
ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è difficile stabilire l'epoca approssimativa
in cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è,
come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete
tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di Zeus, se ne
deve dedurre che come l'età tarda del passo lascia buon margine alla
leggenda tessalica di Prete, cosi la sua comparativa antichità, giacché
anche le meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abbastanza
vetuste, fa risalire non poco nei tempi l'intervento del Peloponneso. Non
rimane adunque che studiare partitamente l'uno e l'altro
strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato peloponnesiaco come
posteriore al tessalico, il problema critico consiste non tanto nel
cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il
Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire passo
passo, fin che è possibile, il processo di penetrazione di quel mito in quel
territorio. (Le testimonianze si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee
Lex.; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha dubbio che al
complesso di piccole saghe esistenti in Micene in Tirinto in Lerna in
Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata
innanzi la diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si
attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta germinazione di
miti secondari sul ceppo del principale dev'essere stata a bastanza tarda
se nella trama vera e propria della leggenda le peculiarità locali non
han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo a
Serifo: per cui è a priori possibile cosi che il culto abbia preceduto la
leggenda onde ivi son localizzati Ditti e Polidette, come che sia
avvenuto l'opposto. Nel primo caso sarebbe però da spiegare perché il
culto di Perseo abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra
dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza
risposta la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai
mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Argolide, come sede
del salvator di Perseo. Né l'esame della genealogia di Ditti e Polidette
conduce ad alcun che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di
quella la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argolide, non a
Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde Perseo avea da venire per
uccidere Acrisie era senza dubbio indicato, in modo vago s'intende, a
oriente. Più tardi la localizzazione dev'esser divenuta più
esplicita, e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto
dicevole, di cui per altro ignoriamo il nome. E non e improbabile che
questo fosse tale da determinar per analogia a dirittura omonimia la scelta di
Serifo fra l'isole che sono ad oriente e non lontano da Argo
peloponnesiaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta avesse un
motivo unicamente geografico l'est; ma è ipotesi non sufficiente a
spiegar tutti i fatti se si guarda all'isole che sono nella stessa
giacitura di Serifo; ed ipotesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la
quale supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane
ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333 dunque senza soluzione
recisa. A ogni modo Serifo deve essere entrata assai presto nel mito
peloponnesiaco perchè vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E
poiché lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto,
bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati già quando il
culto di Perseo prese a difiondersi per tutto il Peloponneso. Un
momento successivo è occupato dalla saga di Tirinto (Apoll.). Questa saga non
si sarebbe dovuta creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto
assunto importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, costringendo i
mitologi a darne una giustificazione. D'altra parte se era plausibile
che, come si disse da quelli, dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo
si vergognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare la
scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se a Tirinto s'era
radicato e svolto quel Preto che importato forse dall'Argo tessalica non aveva
trovato favore nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di
Preto e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano entrambi che i
personaggi della saga tessala attecchirono assai meglio in Tirinto che in
Argo. Seguono poi tutte l'altre saghe minori e meno importanti (quella di
Micene p. e.: Pads.), che sfuggono al racconto d’Apollodoro, testimoniando per
tal modo la loro recenziorità. La sanzione definitiva però dell'insediarsi
nel Peloponneso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data
dai genealogisti. Combinando Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap. R.) risulta
il seguente schema che può valere come volgata su
questo punto: Linceo Ipermestra Lacedemone Abante Euridice
ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente PERSEO Andromeda Posidone Amimone Nauplio Damaatore Pericastore Peristene
Androtoe Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette Anfitrione
Alcmene Euristeo Ippotoe ERACLE Tafio Poiché è troppo chiaro che di questa
genealogia i punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la
riprova che Acrisio e Preto sono originarie divinità argive (predoriche) cui si
vuol imparentare l'eroe dorico più recente Eracle, non senza che nel
contrasto fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità
dei ceppi. Ma se a Kuhnert si può concedere che tardo sia
l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può consentire in
vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi occupano
nello schema genealogico è ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la
lor origine peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar
sìibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto era
possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere: una, quella
di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza
della terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi per la
congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe in Focide (Stef. Biz. g.
v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s.
v. 'Affaviig, Scoi. B II. B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di
lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog
tò IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v
7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov, &ef.tévov zovvofia
''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito evidente,
un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma è del pari evidente che un
motivo deve aver indotto a sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli
l'introduzione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può esser
altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi nella Pelasgiotide
tessalica tracce o di lui o del suo culto. La quale ipotesi concorda bene
con la presenza di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella
Focide: territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò è
probabile, ne deriva che Abante potè essere importato in Argolide in una con
Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica e si spiega in fine la presenza di
lui, terzo, fra Danao e Danae. Per Ditti e Polidette non si trattava in vece
che di porli nella medesima generazione di Perseo e Andromeda, di
imparentarli con essi per meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò
valsero nomi come quello di Nauplio, eponimo di Nauplia, di
Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U., di Peristene, sposo
d'una danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema genealogico studiato fin
qui mostra Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente
peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente peloponnesiaco.', cosi i matrimonii
fra i figli di Perseo e le Sglie di Pelope (le testimonianze presso
Kuhnert) rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto
eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che la leggenda fa
superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II 44 Schone; Cirillo c. lui.; Agost. de
Civ.; Scoi. Totr. IL. Questa dev'essere la leggenda
più antica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert) dovè nascere allor
che Dioniso fu più a fondo penetrato in Argolide]. Che se però lo
strato argohco può esser suddiviso in parti cronologicamente
succedentisi, il tessalico offre occasione a diverso studio. Il
personaggio di Danae serve a gittar, di fatti, molta luce su elementi che
a tutta prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto
novellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza
naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve valere quale
divinità del mare (Beloch Gr. G.) della nuvola nera o di alcun che di
simile: e, se bene forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di
questi casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe solare, fu
detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo innegabile strato, nel mito tessalico
Danae ci appare già ricca di un nuovo contenuto. Il motivo invero della
figlia o, più latamente, della vergine che contro un esplicito divieto
divien madre e paga il fio di questa sua colpa insieme con la sua piccola
creatura è svolto in larga diffusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune
con lo spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca intuizione del
succedersi dei soli, intorno al delitto di Perseo contro il nonno. Ugual
carattere novellistico si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se
non il generico appellativo " pescatore, (cosi che è quasi
vana postilla quella di Ferec. fr.
òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui natura è per tanto assimilabile a
quella del consueto pastore agricoltore che rinviene la derelitta ed il
figliolo abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe
bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la cretese Diktynna,
su cui bene giudica Maass presso Wide Lahonische Kulte e il Gruppe Gr. Myth.). Ma il contesto della
fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre che il caso sia per Ditti
analogo a quello di Danae: che cioè l'indubitabile carattere novellistico
offuschi un antico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per
quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò e rimase nel
mito di Perseo. Altro è di Polidette: questa stessa forma verbale si rintraccia
difatti in un attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios
Jbb. Phil. ha creduto di identitìcar con Ade appunto anche l'ospite di
Danae e Perseo. L'ipotesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due
restrizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che Ditti fosse
epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da epiteto si
trasformasse in fratello; ma tenendo conto del folk-lore e delle sue
forme consuete, è da pensare invece che originario fosse Polidette, il
cui significato trasparente fa intra vvedere un fondo naturalistico al
suo episodio come a tutto il primo nucleo della saga, e posteriore Ditti.
Inoltre altra è la interpretazione da darsi, io credo, ai rapporti fra
Polidette-Ade e Perseo con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar
tutta l'importanza del mito su questa, la riteneva simbolo dell'anima che il re
sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes) libera. Se al contrario è vero che
Danae è divinità del mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la
spiegazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un concetto unico. Nel
fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva nato da Danae come il sole
dall'ombra; ma poi, sopravvenuta per Danae la forma novellistica, fu concepito
un doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad uccidere
Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra) si anche dall'ombra,
dalla regione sotterranea, onde ogni mattina il sole emerge. La cattività
di Danae presso Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla
affinità F., Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In
tal caso, ammettendo la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione
ferecidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba spiegare
come un atto unico di elaborazione mitologica per cui dalla Magnesia (per
la sua positura astronomica rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il
nome del padre, e dalla paternità dedotto il rapporto
fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui
vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui tentammo scernere gli
elementi naturalistici e novellistici, costituiscono per un lato una
fiaba di schema consueto e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato
appiglio a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine, continuando, ce
ne darà conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Gl’elementi che
caratterizzano la prima avventura di Perseo in quell'intervallo di azione ch'è
compreso fra la sua cacciata da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un
tempo elementi jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci riporta
senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di cui in Atene è culto
notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel suo Lex.); il mostro che combatte e
vince è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade (Iliade);
il luogo onde si muove è Serifo, colonia di Joni. A questi dati fanno
buon riscontro le notizie che per altra via si posseggono intorno al
culto di Perseo in Serifo (Paus., per le monete cfr. Head H. N), in Atene
(Kchnert), in Mileto (Strab. cfr. Erod., Edrip. Elena, Kuhnert): in
Mileto, specialmente, tali da risalire al VII sec. a. C. Da tutto ciò,
poiché anche il mito di Perseo e Medusa non contiene altri elementi
all'infuori di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre
che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e che per
conseguenza la sua formazione è posteriore ai principii dello strato
peloponnesiaco, del quale appare un effetto. Quanto è
probabile questo risultato tanto par certo il contenuto naturalistico
dell'impresa. Le Gorgoni abitano (presso [Esiodo] Teog.) néQrjv kÀvtov
'Qxeavoìo èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono
pertanto evidenti mostri delle tenebre e della notte che dicevolmente si
contrappongono all'eroe solare in aperto contrasto. Là presso si devono
ritrovare gli Etiopi che abitano dove sorge e dove tramonta il Sole
{Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso, stanno gli
Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr. Tzetze Chil.).
Non è dunque dubbio, anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si
riconnette pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie
e con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che quando in
territorio jonico il mito di Perseo venne importato e diffuso, il suo valore
era ancor a sufficienza noto e chiaro. E da origine rintracciabile
con probabilità derivano anche i singoli elementi constitutivi della
saga. Che Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è spunto
vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in (Ij Su le
Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes (Leipzig 1879). Un recente
lavoro (Berlin 1912) su lo stesso tema non merita d'esser citato.
(2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. Cfr. Knaack
Hermes. Su gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss.,
A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.; Gruppe in Bubsian-Kroll '
Jahresb. particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech. Gesch}
I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa trasparire un'antica
antitesi fra Pallade e le tenebrose Gorgoni. Antitesi invero che si serbò
sempre, accanto al mito di Perseo, se Eurip. Jone la ricorda e
Apoll. II 46 è costretto a farne menzione. E, ultima riprova di un
fatto già a bastanza palese, anche quando alla Dea si sottrae il merito
della vittoria contro Medusa, a lei sempre si attribuisce l'ausilio in
favor di Perseo (Ferec. fr. 26 e Apoll. ). Se non che il capo di
Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A Pensando alla natura prima di
lui (Beloch Griech. Gesch.) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Medusa
analoga a quella che è fra Atena e la stessa Medusa. Ma bisogna rammentare che
su lo scudo il capo della Gorgone diventò ben presto un costante e
diffuso ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradizione.
Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è coperto, e reso
invisibile, Perseo: si trova di fatti menzionata per lei in //. E 845
("^'^os KvvérJ. Di natura diversa, e novellistica, sembrano in vece
e i calzari alati e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non
sono mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della
vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché un aspetto
mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene [Esiodo] Teog. 270 sgg.;
Esch. Promet.; Apoll.; TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle
delle altre. Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la paternità
di Forco traviasse i critici; che vollero in gran numero ritener le Graje
personaggi naturalistici (Rapp in RoscHER Lex.). Ma bisognava prima
provare (e la prova manca) che la parentela e la paternità sono
originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella fiaba le tre Graje
e le tre Gorgoni (di diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle Graje
la novella approfittò per farne i personaggi di una pre-avventura, la
quale trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni talismani,
che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. Ufficio analogo (e analoga origine per
conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la falce di lui.
Mentre però le Graje dovevano contrapporsi a Perseo, come quelle che la
notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si
scontrò con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure
(Beloch Griech. Gesch. Mentre inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si
trovano solo per motivi novellistici; Ermes si trovava in vece anche nella real
sfera della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.
Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito di Perseo pare
concepito in territorio jonico; è, nel suo fondamento, senza dubbio
naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si
mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i
talari); e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche
quei personaggi vi intervengono con offici proprii della novella. V.
Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde è costituita la impresa di
Perseo contro il x^roy sono di natura e origine assai più incerta che
quelli raccolti intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere
dalla prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai In
quanto al valore originario di Ermes lascio qui intatto il problema e
solo rimando a E. Metek G. d. A. IRicordo anche Roscher Heìines der
Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der Mondgott
(Leipzig 1908) che determinò una polemica appunto col Roscher. dati
tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la diffusione di Cefeo
nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la constatata presenza di Fineo in
quei luoghi (v. sotto), inducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il
territorio forse di formazione e probabilmente di diffusione di
quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame delle figure
singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, bisogna a pena
osservarlo, parallela per significato all'impresa avverso Medusa. Sarebbe
quindi già a priori da attender notizia intomo a un Nume che in
quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un
cosi fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimologica, da ravvisar
in Andromeda, nel cui nome è non dubbia la radicale di àvfjQ; se a
conferma validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d.
Inst.; KuNHERT) in cui Andromeda appare non legata, vittima
prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico liberatore, ma ritta presso
l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger la belva col lanciar sassi, che
sono raccolti in mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir "
ajutatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né la
comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve stupire: è ovvio che
la stilizzata tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni
posteriori, quando il mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma
che esso aveva pia anticamente assunta. Questa ipotesi però intorno
al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto evidente da indur meraviglia
che il cratere possa esser stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o,
c. 2020), pone anche il problema su le cause del passaggio da
quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è chiaro che
l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non potevano, nella veste più
arcaica, venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse
notare, sùbito, la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di
dissimilarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile innesto
su quella saga naturalistica di uno spunto novellistico : la fanciulla cattiva
e liberata, premio al prode che la salva (si ricordino le epopee
cavalleresche). Se non che alla medesima forma vetusta e primordiale
dell'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto dianzi come le
sedi loro nella concezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E
tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto, mentre le Gorgoni
richiamavano, sole, a sufficienza i luoghi di lor sede, il nrjTog per sé
non sarebbe stato indizio locale bastevole. È cosi preparato il
terreno a giudicar di Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente
Cafeo) sono tali da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha
più a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll., di Paus., di
Apoll. R. Argoti., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea in
Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto, in cui abbondanti
volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee Lex.: fissano in modo esplicito
per l'età storica la sede prevalente del suo essere mitico presso gli
Arcadi. In particolare poi Paus. asserisce che da Cafeo avrebbe preso
nome la città arcadica di Cafìe. Il problema, che non in questo caso solo
si presenta alla critica, fra le attinenze reciproche de' due nomi
non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto di Cefeo, che
solo risolverebbe la quistione col far deri- Cfr. Immerwahr Die Kulte u.
Myihen Arkadiens; che mi sembra però superficiale. vare alla città il
nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle attinenze non sono da negare. E
queste notizie sono non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. ove
Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v OTQazov : perché
nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei punti tòcchi dall' irradiarsi di
lui fuor dell'Arcadia nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu,
fuor dell'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,
cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto ottenendone in premio la
perenne salvezza del suo dominio in Tegea: saga, pare, a bastanza antica,
se già Alcmane fr. Bgk. {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvdaoù)v)
ne aveva sentore: cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef. Biz. s. v. Kacpvai.
Ma se eifetto d'una più tosto tarda irradiazione sono coteste attinenze
fra Cefeo e l'Acaja, fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va
ritenuto, sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad. B
498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11 TiÌMPEL Kephcus
presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude, senza peraltro addur motivi, che
queste parole derivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una
combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne
deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va
cercata la sede prima di Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni
del Tumpel su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è difficile
chiarire la genesi, posto che equivoco di nome non siavi, della notizia
serbata in quello scolio. Le genealogie che esamineremo più tardi (v. sotto) uniscono
Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per Queste genealogie sono
studiate ampiamente, se non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of
Hell. Stud. „ XXXIII (1913) 53 sgg. eccellenza: con Fenice e Cadmo,
tardi quindi, Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia. Tra queste
notizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta alla Beozia,
e quelle che ci richiamano all'Arcadia il criterio per scegliere in modo
decisivo non manca. 11 Cefeo arcade è secondo Ellanico (fr. = scoi.
Apoll. R. I 162 combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip.
Fenice; contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio di Posidone; e secondo
Apoll. fratello di Licurgo (per
contro di Licurgo è figlio presso Apoll.). Questi dati genealogici, come
ci vengono riferiti solo per il Cefeo dell'Arcadia, cosi concordano del
tutto e con il suo carattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la
probabile etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia
riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi gramatici lo si
riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f), sempre vi traspare la natura
d'una divinità ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene pensata o
abitante nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge il
sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di
Cefeo in Arcadia dev'essere la più antica, come quella con cui va tuttavia
connesso il ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome
rivelano del pari. Mentre però il nesso fra Cefeo e gli Etiopi risulta in
tal modo se non primordiale certo antichissimo, non si può dire altrettanto del
nesso con Andromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice,
di Perseo, solo quando, ed è, come si vide, assai per tempo, l'avventura
dell'eroe contro il xijvos fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a
traverso questa localizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo. Perseo,
Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo sufficienti a
costituire, per sé soli, la trama di un episodio mitico; onde la presenza
di Fineo e Gassiepea, per non sembrare un' intrusione superflua deve venir
giustificata con l'indagare partitamente il valore di quelle due
figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si
tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „ (cfr. TùMPEL in
Roschek Lex.) che compete in bellezza con le dee e ne è punita in sé o
nella prole. I luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla
non hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi è
indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta
(miticamente e genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene
sostituita a Memphis come moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e,
altrove (Esiodo fr. Rz.), fatta discendere da Thronie, l'eponima
d'un luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B. Si sa
difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici e genealogici Fenice e
Cadmo ; e che con la Beozia (e quindi con le regioni vicine) han nessi
cultuali e geografici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son
conseguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel quando su la
fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser beota. Ma se la
Millantatrice è originariamente estranea a ogni luogo, essa anche
con Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per contiguità di luoghi
ma a compimento della trama novellistica che quelli comprendeva. Non è quindi
dubbio che la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel momento in
cui la figura di questa viene appunto novellisticamente atteggiata nel tipo
della vergine che un prode libera da prossima morte (v. sopra). Allora di
fatti diventava necessario giustificare in qualche modo la cattività
della fanciulla; alla quale il vanto della Millantatrice, potè divenire
argomento sufficiente (contro Tumpel). E solo a traverso Andromeda si strinse
il legame di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipotesi sta
nel non potersi rintracciare nella sua figura e in quella parte del mito
ohe più le attiene alcun indizio d'un'antica e diversa vita
mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a
sufficenza in luce il sostrato naturalistico del mito, che è più
propriamente suo, delle Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei
caldi venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole e di
danno, contro i venti del Nord, che insorgono a respinger quelli e a
difendere il nume cieco del bujo settentrione. In questo sostrato però
non si vede elemento alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di
Fineo nel mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra la
sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva anche dicevole
la presenza sua fra gli Etiopi. Ma se le sedi mitiche di Fineo si
potevano cercare senza contraddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o
a l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintracciata sul
Ponto quando divenne pei coloni Greci quello l'estremo punto
settentrionale conosciuto (cfr. le testimonianze raccolte dalJESSEN sul Roscher
Lex.). Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' popoli :
onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici (Bkloch Griech.
Gesch.) e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile anche l'ipotesi,
contraddicente quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra Fineo
e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico ma
traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli Etiopi in senso
geografico.Senza dubbio però le tracce che si riscontrano intorno a un
Fineo Arcade (presso Apoll. ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone
e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Arcadiae) debbono ritenersi
posteriori al nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da questo. Né
giova a sostegno del contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie
; perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo de'
mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi erano unificati in un
solo aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni concetti
critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe
parte simili parte dissimili, senza che la località dell'una possa illuminarci
su quella, probabile, delle altre. Restano ancóra da indagare le
attinenze tra Fineo e Cassiepea, prima che il problema critico si
presenti in tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario
ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile presso
Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli citi del RoscHER Lex.) ha
considerati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach) 31 e 23. E
ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee, secondo
questi due schemi: I (fr.): Tronie
Ermes Arabo I Cassiepea (fr.): Agenore
Cassiepea ~ Fenice I Fineo Il testo SU cui si fonda è Strab:
che per vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed
Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì Che han per
fondamento, insieme con l'altro art. del Lex., il voluminoso saggio dello
stesso TùMPEL in " Jahbb. Phil., Supplbnd. II concetto
essenziale di questo saggio (che nella più antica forma del mito la sede
dell'episodio di Andromeda è Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confutato dal
KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai,
7if&avù)raT0t Sé elaiv ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai.
Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI
Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene dicevole il sostituire
con Zenone "AQa^dg te : perché, dice, non v'è corruttela di testo; v'è
bensì mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore. Omero
difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év KaiaXóyqj conosce
Arabo: Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr.]. Bisogna dunque
dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di Esiodo il nome di Arabia
esistesse, e non esistesse ancora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). Di
questo passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :
Esiodo faceva fCassiepea] figlia di
Arabo, figlio a sua volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si
lascia fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,
degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il nome esiodeo
d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqufioio sia la regina degli Etiopi moglie di
Cefeo ; onde integra il fr. cosi: Tronie Ermes Arabo
I Cassiepea Cefeo Andromeda. Se non che nel luogo
di Strabene gli Etiopi non costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R.
e Anton. Lib. 40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi.
\Ì7tò yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀoyovat,
oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl TÒ aacpéateQOv
TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol 'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv
olèTcl&dzegov fiéQog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i, tò TiQÒg
AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, continua, per tal motivo appunto
questi Erembi son ricordati da Omero: in causa, ciò è, della lor
vicinanza con gli Etiopi, citati nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv
'E^efifi&v) eluòg fiefivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg
à(pl%d-aL Xéyeiv TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg
zovg Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E parimenti
{ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrjfilag (xdQLv) y,al zov
èvòó^ov. Come si vede, gli Etiopi servono a dare un'idea della positura
geografica degli Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli
Omero ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia
identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato positivo adunque che
dal luogo cit. di Strab. si ricava è la discendenza di Cassiepea da
Arabo. La qual notizia spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a
sua volta integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav
elg TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv
'Av~ ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ayvoiav
Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov fiàÀÀov a^'^fiazi
" xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó '
AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano adunque alcuni che fondandosi su Esiodo portavano
gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef.
Biz. s. v. 'Unti, Eust. Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia del
mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa e debba studiarsi e
spiegarsi del tutto a parte. Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice
chespieghi questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice (fr.
31 Rz.) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda è regina degli Etiopi.
Non è quindi in nessun modo lecito dedurre che in Esiodo la figlia di
Arabo avesse ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che
condurrebbe, COSI fatta interpretazione, se non a confonder il
testo altrimenti chiaro. Concludendo, da Strabene, ben letto; può
risultar soltanto: che Cassiopea era figlia di Arabo in Esiodo ; 2) che
era moglie di Fenice. E quindi permesso unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e
costruire il seguente schema esiodeo: I-f II (fr. 23 +
31): Tronie - Ermes I Agenore Arabo j
I I Cassiepea - Fenice I Fineo.
Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito elementi secondari
quali Arabo ed Agenore, ed elementi principali raccolti nei due nessi
Cassiepea-Fineo e Fenice-Fineo. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da
spiegarsi al modo medesimo del nesso Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come,
ciò è, un avvicinamento di numi eroi creduti eponimi o rappresentanti di
popoli stranieri. Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi se non
pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo e Cassiepea (poiché
l'ipotesi d'un legame casuale non servirebbe che ove tutte le altre non
fosser riuscibili). E difatti un'affinità si vede sùbito tra le due
figure invise agli dèi e dagli dèi punite : l'una come
millantatrice; l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi
permette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione addotti a
spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo avrebbe preferito una lunga
vita alla vista, offendendo Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe
additato la via a Frisso; Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le
Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il). Ora è ovvio che il
terzo motivo è ricalcato sul secondo, e molto tardo ; che il secondo è
posteriore alla localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ;
che il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di questo
motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando il sostrato
naturalistico delle Arpie e di Fineo andò inavvertito ; giacché prima era
sufBciente a tutto legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non
è pertanto improbabile che in quell'età comparativamente non antica
in cui si ebbero a cercar gli spunii novellistici a fin di motivare l'antitesi
tra Fineo e la luce, come piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono
del vedere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma diversa) l'aneddoto
del vanto di Cassiepea punito nel figlio, Dell'invenzione unica traccia
ci rimarrebbe la genealogia esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea
e Fineo si connettessero primamente per i motivi or ora supposti,
sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del quale Fineo era
considerato eponimo di popoli stranieri. Riassumendo ora in breve i
risultati delle singole indagini, veniamo a importanti ipotesi: Cassiepea
offre al mito di Perseo -Cefeo Andromeda (Etiopi), uno spunto, ed entra in
quella trama; Fineo si unisce a Cassiepea per lo spunto
no- L'ipotesi è del mio maestro SANCTIS (si veda); la responsabilità
dell'argomentazione è mia. vellistico che trova in questa la causa della
pena di quello; o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea
(Fenice), come rappresentante di genti straniere; Fineo si
unisce a Perseo come nume del bujo ad eroe solare; o, in linea
secondaria, a Cefeo come rappresentante di genti straniere. Di
questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a) nel racconto
ferecideo del mito di Perseo; V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in
Ferecide e specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa è
una matassa confusa di cui bisogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a
sé, e d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato
etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la loro natura
evidentemente tarda è tale, che ove accanto a una di esse se ne possa ravvisare
un'altra a sostrato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la
preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo è costituito da
questo racconto, coerente e conchiuso: Cassiepea si vanta e la divinità
offesa la punisce nel figlio Fineo (h); questi è condannato a venir
superato in duello da Perseo. Un terzo gruppo infine è costituito
da quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso; Cassiepea
si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5 Perseo libera la fanciulla
(a). Di questi gruppi il terzo è testimoniato in Ferecide (= Apollodoro)
; il pili ipotetico è il secondo : esso suppone in vero e una variante su
la causa della pena di Fineo, e una variante su questa pena medesima : vale a
dire tutto un mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza
di coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza di
produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega molto bene, e
insieme, tanto la discendenza esiodea di Fineo da Cassiepea quanto il
duello tra Perseo e Fineo; F., Kalypso. discendenza e duello che si
potrebber bensì giustificare pensando per l'una a un errore di
genealogia, per l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due
ipotesi però che non ci saprebbero render ragione né della singolarità
per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che uno spunto mitico
può ottimamente congiungere, né della preferenza data a Fineo su ogni
altro per farne il protagonista dello spunto novellistico. Poiché
invece l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi elementi tra sé
inconciliabili e discrepanti; e la preferenza casuale si può concedere
solo quando la preferenza logica sia impossibile; dobbiam conchiudere che
l'ipotesi nostra, pur non pretendendo di rispondere con esattezza alla
verità né di essere perentoria, spiega almeno nel modo che pare pili semplice
tutte le testimonianze che sono a noi conosciute. E, ultimo vantaggio,
non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il terzo, in
entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si fondessero, trasformandosi
accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un racconto unico, in cui
Cassiepea si vanta, la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo la
libera col tradimento di Fineo che è ucciso da Perseo. Dopo le quali
conclusioni, non resta che da determinar conpid esattezza il valore di
alcuni trai personaggi secondari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea
Fineo e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea omerica:
Il; Od.; e sono trasparentissimi simboli di quelle regioni i personaggi
delle genealogie. Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll
in RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467 A 59 M 93 S'425
545-90 ove appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con una non
dubbia consistenza eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde
cosi ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza attinenze
chiare con miti, con alcuni dei quali a mala pena si collega per nessi
insignificanti e punto caratteristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.)
singolare di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe riconnettersi
con l'epopea in qualche modo, i testi su un Agenore argivo (Pads.;
Apoll.; Igino Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un Agenore avo di
Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di Fegeo re di
Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di Pleurone,
genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr. Igino fav.),
se rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non son tuttavia
sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a
prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere l'Agenore etolico,
il problema consiste nel decidere se il peloponnesiaco siasi introdotto
nella genealogia di Cefeo e Fenice per motivi di contiguità geografica
con il primo d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica
del nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore al
nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto dell'esser la genealogia di
Cefeo e Fineo contesta o sopra fondamento naturalistico-novellistico o
sopra base etnicogeografica, sembra da preferirsi la congettura che in
quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di rappresentante dei
popoli che abitavano la Troade, grossolanamente limitrofi di quei del
Ponto, cui Fineo simboleggia : congettura che è confortata dal nesso
di Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice (cfr.
DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.). L'indagine laboriosa che ora finisce
conferma, secondo a noi pare, quel che affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il
personaggio fondamentale di questo episodio mitico, Cefeo, è
peloponnesiaco; l'altro personaggio che come Cefeo ha valore
naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si diiFon,de: dunque il Peloponneso
è l'area dove s'informa il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori
da quell'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare.
Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima, in
seguito vittima del n^rog: personaggi novellistici della fiaba. Per quale
intreccio di casi e d'influssi poi la trama cosi si serrasse e cosi si
connettessero quelle quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ;
ma il risultato rimane, è d'uopo convenirne, opinabile. Tale,
credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché ci parve tesi
rispondente, meglio dell'altre fin qui difese, a quei criteri! su la
mitopeja che riteniamo validi; sia perché ci parve tesi, se non di per sé
probabile, molto possibile al meno, e dalla probabilità certo non
lontana. I miti etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome
di Perseo sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non
può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i particolari di quel
collegamento. A tale scopo si confronti anzi tutto Erodoto: 'EKaÀéovTO óè ndÀai ÒJiò [*hv
'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v nal Tù)v
7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g Te Kai A log ànineio
na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv,
ylverai aUt^ nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov
y^avaÀsCnei ' èvóy^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni
zovvov oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: 'Aliala,
Sogg.: i Persiani I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO
Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^AvÓQOf*édag [=
Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concordano nel rieonnettere il nome
Persiani a un Perse {Usq-' aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar
di quel popolo un nome anteriore " Artei,. Questa è forma che
ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo, Artaferne, ecc.
(cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924. 929) : quindi non v'ha alcuna
difficoltà critica a spiegar la presenza di questo nome nel mito. Ma
Erodoto ci dà di pili un nome di " Cefeni: con cui gli Artei (=
Persiani) sarebbero stati noti presso i Greci: in cui però non è né pur
difficile riconoscer l'invenzione erudita év ax^fiavi fiv&ov. Popolo
di Cefeo sono da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Persiani furono
avvicinati dalla leggenda, si era già troppo localizzata geograficamente
1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto perché fosse possibile un'equazione
fra Etiopi e Persiani. Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo,
usare un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „. Questi,
secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli Etiopi: e tale concetto
ritroviam difatti presso Stef. Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e
'/otti; (cfr. inoltre FHG. m 25, 4 e GGM); in realtà però furon
concepiti come diversi, cosi che la saga la quale localizzava in Etiopia o in
Fenicia l'episodio di Andromeda non parla di Cefeni, mentre l'altra che
l'episodio localizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi
(a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario contenuto de' due termini,
entrambi si usano indifferentemente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr
Lex., ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accettabile). Va
pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Persiani dai mitografi, dopo che Perseo
s'era fra essi per mito etimologico insediato; e che quel nome non
ha quindi alcuna analogia con l'altro, di ben diverso valore, Artei.
Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz. XaÀóaìoi)
XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oinért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi
ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti
^ X^QV Ki^cpìjvit] TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg
Kijq>rjv£g, àÀÀà XaÀSaloi. Il soggetto di àvéoTrjaav qual è?
Dev'essere XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul
Ponto (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia con i
Semiti di Babilonia non poteva non indurre gli eruditi antichi a connetter,
senza alcun altro fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi.
E, come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da questi si
fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non che tutti i popoli (Tini
Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla Colchide occupavano le rive di
quel mare erano da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr.
Jessen in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati. Se dunque i
Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia) e se quindi alla regione
ch'essi migrando occuparono conveniva dare un anteriore nome ; questo si
poteva scegliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di Cefeo:
tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni vennero assunti a nomi
pristini della regione e del popolo su cui si sarebbero insediati poi,
fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti dell'Andromeda di Euripide. Su i
framm. che di questa tragedia euripidea ci son pervenuti e che si trovan
raccolti presso Nauck Su questo punto sono insufficienti cosi il
cemento dello Stein come quello del Macan a Erodoto. FTG}. furon
tentate piti di una volta ricostruzioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip.
fragm., Wklckek Die Griechische Tragedie, Hartcng Eurip.
restitutus, Wagner fragni. Eurip., Fr. Fedde De Perseo et Andromeda
(diss.), P. Johne Die Andromeda des Euripidea in Elfter Jahresbericht des
K. K. StaatsObergymnasiums zu Landskron in Bòhmen, Wernicke Andromeda in
Fault- Wissowa R-E.^ I 2156
sgg., E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex., Wecklein in Sitz.-Ber. d.
K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil. Kl., Mùller
Die Andromeda des Euripides in '' Philologus (N. F.). Di tutte le
trattazioni citate scopo è ricostruire la tragedia frammentaria per modo che ne
riescan fissati i singoli episodi nel loro succedersi, la struttura
complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei varii
personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine, né pur una fra esse
riesce a liberarsi da una duplice inevitabile contraddizione. Anzi tutto
mentre è pacifico oramai che Euripide si deve essere pili o men
liberamente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual è riprodotto
in Ferecide e che deve aver più o men profondamente rielaborato non pur la
trama tutta si anche le diverse figure, per contro si tende da tutti a
far coincidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con il
racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei particolari quella libertà
che in generale si concede al poeta Pel rapporto coi vasi dipinti,
cfr. Hcddilston Greek Trag. in the
tight of vases painting (London); con le antichità sceniche, Engelmann Arch.
Stud. zu den Trag. (Berlin tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia
impossibile dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il
qual non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti appunto si
distribuiscono poi tra gli attori in armonia a quel contenuto che in
questi avevan fatto pensare essi medesimi. Uscire da questi
circoli viziosi, che sono i fondamentali e in cui altri minori si assommano,
non si può, io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo:
il raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi e degli
spunti di sentimento e di pensiero onde la tragedia doveva vibrare e onde
sembra vibrasse dai pochi suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare
e scernere. I framm. debbono venir lasciati in disparte per
l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b innegabile che in
essi è asserita la instabilità delle umane vicende e l'incostanza della
fortuna, non è men vero che tale asserzione può colorire assai bene, cosi
l'angoscia di Andromeda offerta preda al x^zog, come l'ansia di
Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda insidia sùbito
dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151 si conviene tanto a un
discorso di ammonimento rivolto a Cefeo o a Fineo per distoglierli
dall'ó^a^rm; quanto a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve
scontar la figlia. I framm. in vece lasciano trasparire una
situazione di fatto piena di forza tragica, ma non tale da permetterci di
dedurne conseguenze sul resto del dramma: debbono pertanto essi pure
venire, al nostro scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i
frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto 8on vuoti di
contrasto passionale. n primo gruppo che attira la nostra
attenzione è quello. Perseo giunge volando traverso l'aria a una terra di
barbari; scorge sùbito, su la riva del mare, TteQÙQQVTOv à(pQ(p
&aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo) riva, Andromeda. I versi che
seguono non possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un
colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro che tra la situazione
124-125 e il colloquio 126-32 dev'essere troppo stretta attinenza perché sia
possibile pensare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e Cefeo.
Il quale è pertanto da escludere prima del colloquio tra il giovine e la
fanciulla. Del colloquio, ora, attirano lo sguardo due frammenti
specialmente. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli potrà
avere dopo la sua vittoria contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e
avere da lei. Nel secondo Andromeda si offre, ed è questo da ritener il
compenso, ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'...
Da entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio,
l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo,
in garbato modo, l'amore di Andromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa
concedere; dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di ritenersi
libera nel disporre della propria persona. Onde, confrontando questi
incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV
["AvÓQOftéSav] d'eaaduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv
vnéa'x^szo Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p
ó(óasiv yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discrepanza tra
le due forme del mito: la Euripidea, in cui il patto si stringe tra i due
giovini; la Ferecidea, per la quale le nozze si promettono da Cefeo e su
Cefeo grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza
bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non dopo il colloquio tra
i due giovini, avesse luogo l'abboccamento tra Perseo e Cefeo; o pure,
avvenendo, avesse esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed
Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti che la
tradizione posteriore è concorde nel serbar quell'abboccamento e nel serbarlo
com'è presso Ferecide ; poiché tal fatto deve, di fronte alla logica
argomentazione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la
genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata che a negar
fede a conseguenze logiche di premesse certe. Un secondo grappo che
dev'essere studiato nel suo insieme è costituito dai framm. Essi si dividono
sùbito in due serie, contrapponendosi l'una all'altra. La prima è un vanto del
valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale, di tutto che s'origina per
un ardimentoso slancio dell'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in
particolare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav eXa^ov oèn
avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di giovinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137
e 138 contrappongono alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ...
éa&ÀòJv èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente
alla felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiarazione di
preferenza del denaro a ogni altro bene : il povero non solo soffre ma teme di
continuo il futuro, che non gli rechi dolore pili grave del presente
(135"); il ricco anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ
tC/Mog tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv
ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il verso ultimo
del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex' eìtvxeIv. Fra queste due serie
può trovar posto anche il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma
in cui lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emendazione del
Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ;
e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di
fatti esso asI FBAMME^TI DELL’ANDROMEDA, DI EURIPIDE 3omma bene in sé il
contrasto delle due serie opposte che furono esaminate : tra l'idealismo
che non trascura la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere
; e il materialismo gretto che nella vita vuole il godimento e aborre dal
morire e non scorge più oltre. Ora, se
si può questionare, ove si voglia, su l'attribuzione di tutti cotesti framm. ai
singoli personaggi, non può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto
passionale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve dunque, a
mio avviso, costruire una parte della trama del dramma ; tralasciando del
tutto il litigio su quei punti troppo mal sicuri e fors'anche
inutili. Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 : èyò) Ss
TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv' Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg
èvòeelg vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv. Del
quale due interpretazioni sono filologicamente possibili: 1. non voglio che tu
Andromeda prenda (= sposi) de' figli illegittimi „ ; 2. non voglio che tu
Andromeda prenda (= generi) de' figli illegittimi,. Wecklein sembra
preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dommaticamente e non senza ironia la
respinge, e si attiene alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor
di luogo avvicinare al fr. il verso 11 del V delle Metam. di
Ovidio: Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum Juppiter
eripiet. Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità divina
di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un biasimo [vód'og),
biasimo che nel fr. è, comunque inteso e a chi che sia riferito, indubbio
ed esplicito: v' è più I. - ANDROMEDA tosto un'offesa al Dio che
generò Perseo e che Fineo sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a
bastanza lusinghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se il
ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due possibili interpretazioni
non restano che due vie: il porre il fr. nell'insieme del dramma e del
mito ; l'inquadrarlo nelle condizioni sociali di Atene. Ora il fr.
insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del quale i vó&oi hanno a
soffrire : non una consuetudine simile, bensì una legge. Non solo. Tal
legge sancisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg
yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio di Zeus
che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per regnarvi, senza
fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo la cacciata di Preto ? Certo
che no. È applicabile in vece ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si
ricorda che una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^) pone i
figli di una straniera (Andromeda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se
si rammenta che tal legge periclea ne amplia una soloniana, ch'era il
riconoscimento giuridico d'una consuetudine di cui già in I 202 è traccia
e che valse anche e sovra tutto pei re; si deve rispondere che si: che
cioè i nati a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese
potuto trovarsi e come uomini e come principi in condizioni inferiori a petto
di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,. Né si dubiti che la legge di Pericle
non avesse più tutto il suo vigore. Tutt'altro : nel 414 Aristofane
faceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama il decreto di
Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye ^évrjg yvvaiKÓs:
HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig; IIEI. ah fiévroi vrj Ala, &v ye
iévrjg ywamóg I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE
HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa, vód-cp ^
^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà, odvog ó Iloasióctìv
TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv, àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov
')(^Qì]j.vàxùìv q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog. èQòJ Se
Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ. Non è quindi da dubitarsi
che Euripide poteva senza esser frainteso dagli uditori alludere alla
legge ateniese sui figli di straniera. D'altra parte non mancano ragioni per
ritenere che a quella legge egli doveva alludere più tosto che all'altra
su i vó&oi nel senso più largo. Questa di fatti era troppo normale e
ovvia e antica perché potesse più meritar l'accenno del poeta turbato da'
problemi sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli
interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og; là no.
Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai framm.
risaltano con certezza sono: l'amore di Andromeda e Perseo nella sua prepotente
e individualistica libertà; l'urto fra l'idealismo e la grettezza
materialistica ; il rincalzo che la quistione giuridica e sociale dà a
quell'urto in favore della grettezza pratica e contro lo slancio
spirituale. I problemi minori: se Fineo sia parte, e qual parte, del
dramma; come differiscano fra loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi,
ma con congetture esti-emamente mal certe. Una quarta, e ultima^ linea
del quadro ci dà [Eratostene] nei suoi Catasterismi: il contrasto fra l'affetto
figliale e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast.
'AvdQOfiéSa). Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi
delineati, non potrà cader dubbio sul momento cui compete il fr.,
che solo, io credo, merita di venir assegnato all'uno più tosto che all'altro
punto della tragedia: ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv
"K^cog, fA.ri dldaarKe za
xaÀà (paCvead'ai HaÀd, ^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei
f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et. Kal vavza f*èv ÒQcJv
ri/iiog d'vr^TOÌg ?atj, [lì] Sqwv
ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv àq)aiQs&tjafi ydQttag alg
rifiùai ae. In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del
combattimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein 97, Moller 61
e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui Eros è causa in senso del
tutto materiale. In vece, a chi tenga conto della concezione che Euripide
ha dell'amore (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare
molto più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli
ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo l'uccisione del
nfjiog. Se non che i critici citati sogliono addurre per loro argomento
Luciano de conscr. kist. 1 e FiLosTRATo im. I . Il primo : tììv tov
Uegaétùg ^ijatv èv fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig
ò^qìòv àTidvTWv aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv "
2v d' (L d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog, Kal rà àÀXa
(AeydÀrj Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con
tanta frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era sotto
l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al posto che nella tragedia
la ^'^aig occupava; ma, se mai dice qualcosa, è a favore della nostra
tesi : perché le parole di Luciano, lasciano intravvedere una
interpretazione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passionale della
preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato Il testo ha d'eolg; la corr.
è proposta dal Dobbeb. Sogg. " gli Abderiti,. l. c, la sua
testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ sdx'iv àvE^dÀeio rtp
"Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov. Ma deve essere rettamente intesa.
Sul cratere di Andromeda del Beri. Mus. (Bethe in " Jahrb. d. Arch.
Inst.), ch'è della fine del V sec. e di poco posteriore nW Andromeda, è
rappresentata Afrodite nell'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro
che il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura il
sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la commozione più forte per gli
spettatori. Di poi, il rappresentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e
Andromeda divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E
Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scioglier la fanciulla
dai legami ond'è avvinta, appunto da Eros. A questa medesima corrente
tradizionale è dovuta anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso
valore: ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tragedia.
Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava Amore o, che fa lo
stesso, Afrodite benignamente guardata da Perseo : Filostrato ne ripete il
motivo e ne dà la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che
prega la Dea prima del duello. Mentre dunque il testo di Filostrato
non ha nessun valore, molto significativo è il silenzio di Ovidio. Questi
segue {Metani.) assai da vicino Euripide; si trova in oltre sotto
l'influsso dell'alessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche
molto si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'invocazione ad
Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa apparteneva al conflitto
nato dall'opporsi i genitori al patto dei giovani, perché questo
conflitto Ovidio ha soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la
^'^aisNon si spiega, se si fa precedere il fr. al duello, perché in
OVIDIO (si veda) il duello è rimasto ed è ampiamente svolto. Conchiudendo
per tanto, è da tener fermo a quella Bvolt i
attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la più ovvia,
a chi conosca la trama sentimentale della tragedia. La quale
ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che dagli stessi frammenti
vengono imposti. Euripide. Abbiamo tentato di ricostruire le tendenze più
spiccate dello spirito euripideo valendoci deìVEIettra e àeWElena.
Naturalmente talune delle affermazioni intorno a quel problema valgono, o
dovrebbero valere, per la complessiva persona di Euripide. Ma non
credo opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di
impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio soltanto a:
Decharme Euripide et V esprit de son théàtre (Paris); Verrall Euripides
the rationalist (Cambridge 1895); Nestle Euripides der Dìchter der
griechischen Aiifklàrung (Stuttgart) ; Masqueray Euripide et ses idées (Paris
1905). Questi libri però, notevoli per
ampiezza di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno il
torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati, di voler
ricostruire un presupposto sistema filosofico di Euripide ; indi la
tendenza a catalogarlo, dividendone lo spirito sotto varie rubriche. Cosi
va perduta la vita di esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini
osservazioni sono in Croiset " Journal des Savants; acuti rilievi,
come sempre, nel Wilamovp'itz Einleitung usw. ed Hera1cles. Per le allusioni
storiche di Euripide v. E. Bruhn Jahrbb. f. class. Phil. Supplb. e L.
Radermacheb " Rh. Mus., LUI Per ragione di tempo, non ho potuto vedere
i! recentissimo voi. di Murray Eur. and his age. BUBIPIDB NEL Il
recente saggio di Steiger Euripides, seine Dichtung und seine Personlichkeit (=
" das Erbe der Alten, Heft. V, Leipzig) rappresenta senza dubbio un
buon tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è, a mio
credere, viziato per un lato da poca profondità, per l'altro dal
parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen; parallelo che è di poco
rilievo dove può farsi con certezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire
analogamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol attribuire a Euripide
caratteristiche testimoniate solo per Ibsen (che in ciò è arbitrio).
Pregevolissime sono le poche pagine di Schwartz Charakterkopfe a. d.
antiken Literatuì'^ ; le sue intuizioni colpiscono, secondo a noi sembra, quasi
sempre nel segno ; avrebbero solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe
anche approfondimento, maggiore. F., Kalypso. Sul notevolissimo culto
siciliano di Demetra e Persefone in Enua si combattono due teorie. L'una è
sostenuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)
che ritiene preesistente all'influsso greco il culto della sola Demetra;
e dal Fkebmax History of Sicily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene
anche Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da E.
CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia (Catania): questi
difatti, pur non negando la verisimiglianza di un culto siculo alla
Dea alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio veramente probante,
di esser invece costretto a riconoscere il carattere del tutto ellenico
di esso culto nell'età storica e nelle nostre testimonianze. L'argomento
fondamentale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la non
possibile derivazione del culto ennense da Siracusa da Megara Iblea; là
dove il Ciaceri addita nel fiorire della potenza Agrigentina 'sotto
Falaride e Terone la via per esso a penetrare e radicarsi nell'interno
dell'isola. Per lui di fatti da Gela ed Agrigento GIRGENTI il mito e il
culto delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna e in Siracusa. Se non
che pare che in tal modo il problema sia posto con poca precisione. Chi
difatti nega il culto esser entrato in Enna per opera di Greci, pretende
assai più che non sia necessario alla tesi di un sottostrato cultuale
siculo. Chi per contro traccia possibili vie di penetrazione in epoca
comparativamente tarda, dimostra assai meno che non sia necessario per
rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'esame merita di esser ripreso. E
poiché le nostre testimonianze vertono sopra il culto ennense quand'esso
ha già assunto foggia greca, non resta da prima che esaminarne gli
elementi e i caratteri interni, per scoprire s'essi rivelino o neghino la
preesistenza d'un culto, del pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la
prima ipotesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti approssimativi, quel
vetustissimo sostrato mitico e cultuale. I caratteri del culto ennense
nell'età storica. Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i
caratteri con cui il culto e il mito ennense si presentano a noi,
traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si trova raccolto da
Bloch in Roscher Lex. e a lui facciamo rinvio. Scartiamo il giudizio di
Zeus che divide l'anno pel mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico
a Demetra. Questo particolare, che Bloch (col.) dice
siciliano-alessandrino, non può riferirsi alle condizioni agricole di Sicilia,
in cui anzi il seme (Cora) men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria
alessandrina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio. Ma quando la
tradizione fa rapire Persefone presso Enna e solo presso Siracusa, vicino
alla fonte Ciane, la fa scender sotterra (Timeo in Diodobo =
Geffcken Timaios' Geogr. des Westens Philolog. Unters.; cfr. Ovidio
Metamorf.). è necessario intender tutto il valore di questo particolare
essenziale. Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del
culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della città di
Ipponio è utile a dimostrare come si comportasse il mito secondo le esigenze
politiche di essa diffusione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. 8on
ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa vantava
antichissimo culto di Demetra. Per conciliare l'uno con l'altro culto, il
mito narrò che ad Ipponio Proserpina si era recata dalla Sicilia per coglier
fiori (Steab.): conservò tuttavia quel che importa il primato a Siracusa.
Per Enna avviene il contrario: è (cioè) evidente che il mito siracusano,
perché deve rispettare una tradizione autorevole che il ratto pone in
Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma deve accontentarsi
di farla presso Siracusa discendere all'inferno. Al risultato
medesimo conduce anche il testo di Timeo (DioD. = Geffcken) su Atena ed
Artemide che avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e conseguita
rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola Ortigia mentre Demetra
conseguiva quella di Enna. La presenza di Artemide e Atena nell'antologia
è motivo orfico. La testimonianza di Diodoro fa dunque
legittimamente supporre che in Siracusa si adattasse alle condizioni politiche
e cultuali indigene un particolare non indigeno. Per questo adattamento sembra
epoca assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più effettivamente
ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera contro gli Ateniesi (Beloch
Gr. Gesch.). Checché ne sia, resta certo che, rielaborando
l'episodio dell'antologia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena
predominante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di Artemide
(sui quali v. Ciaceri); ma si acconcia a sanzionare la supremazia del culto di
Demetra in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui,
secondo p. e. Ciaceri, il culto siracusano doveva superar per fasto quello
ennense ; prima cioè che per effetto della politica di Roma " il culto di
Enna assumesse grande importanza (Ciacebi). Il valore di
questi forzati riconoscimenti del culto ennense da parte di Siracusa appare a
pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. Quivi difatti è narrato come
Demetra apprendesse del ratto : prima la rende accorta la Persephones
zona abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane; poi Aretusa,
fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto Cora nell'Ade. In somma.
Ciane e Aretusa tengono presso Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra
hanno Ecate ed Elios. Bloch ritiene "priva di significato „
questa forma del mito ; Malten "Hermes la spiega come un arbitrio
del poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane e di
Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si ricorda che, ai due
personaggi dell' Inno omerico, i quali non sono evidentemente che il Sole,
l'occhio che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella notte
(cfr. Roschee in Roscheb Lex.), la maggior parte delle saghe, eccettuati in
parte i Fasti ovidiani, sostituiscono nell'ufficio d'informatori presso
Demetra figure più concrete e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi.
Cosi Keleos in scoi. Aristid. Panai. (Frommel), scoi. Aristof. Cavai.,
Mit. Vat.; Trittolemo in Paus., Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr.
Mignk Patr. gr., Tzetze ad Es. Opp. 33; cittadini di Ermione, secondo
Apoll., scoi. Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov.; Kabarnos, della
famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch.) presso Stef. Brz. s.v.
IldQog, nell'isola di Paro; Chrysanthis
figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus.; cittadini di Fé ne o (Arcadia),
Coy. Narr. app. Fozio Bibl. cod. Di fronte a cosi numerose analogie
è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'informatrice sia
un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più tosto appartenga alla saga
siracusana : a quella medesima che presso la non lontana Ciane fa
avvenire la discesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo (su
cui V. anche Ciackei). Né fa ostacolo il fatto che solo le Metamorfosi
narrano quel particolare : ciò significa solamente ch'esso è di pretta
natura locale e che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio
dell'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradizioni mitiche e
nelle elaborazioni letterarie. Se dunque si ammette che Ovidio ci
riproduce, a proposito di Ciane e Aretusa informatrici, la saga
siracusana, appar chiara l'insistenza con la quale, accettato per forza
il ratto in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in
senso siracusano. Anzi per capire ancor meglio il valore di questa
considerazione va rilevato che un tentativo mitico in antitesi ad Enna dovette
esserci: giacché pili fonti narrano il rapimento di Persefone non presso
il lago Pergo di Enna ma presso l'Etna: cfr. l’Epitafio di Pione Nella
stessa Sicilia vigeva un'altra forma del racconto, per cui Vayys^og era Ecate,
se è valida l'ipotesi del CiACEEi e G. Knaack "Hermes, il quale
sennatamente dimostra che non può né ivi né in altri testi simili (Igino
fav., scoi. Pind. Nem., Giovanni Lido de mens., Oppiano Hai., VALERIO (si
veda), Flacco Argon., Ausonio Epist.) trattarsi di uno scambio tra
AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario che menziona Etna e sopprime
Enna è certo posteriore a quello che ad Enna dà la precipua importanza
perché su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta
omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato. E n'è confermata
l'ipotesi che Siracusa dovesse in Ennariconoscere una incontestabile priorità
initica. Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere a
un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna, nell'età storica, ci
riporta con ciascuno dei suoi elementi essenziali a Siracusa, la quale sembra
essere il centro dell'elaborazione di esso; elaborazione che in
Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi radicato, qual che ne sia la
forma, da non poter essere né taciuto né artificiato
favorevolmente. A cotesta conclusione è propizia la testimonianza
più antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una litra
d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H. N.). Di fatti : se in
Siracusa fu elaborata la saga del ratto di Cora per cui ebbe valore
ufficiale l'antico mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria
di Imera. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.) innalza in Siracusa
i templi di Demetra e di Cora, iniziando il formarsi di quella
piattaforma leggendaria donde il culto delle Dee potè diffondersi in
ampia area. Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-siraCusano
a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ; e in verità la litra, che
è la testimonianza più antica, è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116
riferita, per criterii numismatici e dal Hill Coins. Al sec. V
pertanto può farsi dicevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e
mitica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; e che ha per
indispensabile antecedente una credenza a divinità agresti in Enna, ignota nella
forma, ma salda nella sostanza. Le nostre testimonianze tutte
rendono quindi inutile l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco
della greca Demetra penetra in Enna per opera di Agrigento (GIRGENTI) e
Gela durante la tirannide di Falaride e Terone. Se ogni ipotesi vale in
quanto tenta spiegare dei fatti, questa del Ciaceri non par che spieghi
nessun fatto. Né anticipando rispetto a noi, come fa, di un
cinquant'anni l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare
l'autententicità del culto ennense dì cui e menzione presso CICERONE (si
veda) in Veri. Noi difatti di quella vantata antichità rendiam piena
ragione avendo dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e
mito siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'intervento di
Siracusa nel V sec, se ne dove serbar rispettosa memoria. Il Ciaceri, in vece,
non giustifica essa antichità né meno facendola risalire alla fine del VI
sec. con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe dimenticato
che Enna aveva accolto le due Dee dopo Agrigento? E si badi che di esse
in Agrigento parla Pindaro Pit. (Schhodek) e che quindi nella
tradizione letteraria non poteva essersene perduta la traccia. E si badi,
anche, che lo lo stesso CICERONE (si veda) {in Verr.: cfr. Lattanz.
div. inst.) sa di un signum vetusto di Cerere esistente in Catania. Quindi il
vanto di antichità conforta la nostra tesi e rivela impotente quella del
Ciaceri. Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto
che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti, come si
afferma, da Gela si fosse partito, a non molta distanza di tempo, e il
culto siracusano e l'ennense, è chiaro che molto probabilmente quello non
avrebbe esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,
assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geografiche e politiche. E
tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede, dal problema su
la colonizzazione di Enna; di cui si apprende che è colonia di Siracusa da un
luogo di Stefano Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un
equivoco di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza
con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da un frammento di
Filisto (fr. = FHG.) che è impugnato a ragione dal Pais {St. della
Sicilia e Magna Grecia). Sembra in somma che nulla si sappia di
positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul tempo : certo è
arrischiato CIACERI (si veda) nel dire Enna colonia di Siracusa ; ed è
nel vero Freeman {H. of S.) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per
ciò preferimmo studiare il problema della Demetra ennense movendo da altre basi
e usando dati diversi. Con i quali, concludendo, possiamo supporre un
forte influsso siracusano in Enna, che mantiene però inalterato il
proprio privilegio mitologico. E non possiamo né provare altri influssi
greci anteriori su Enna né concedere che il supporli giovi a risolvere la
questione. Il primitivo probabile nucleo siculo. Dall'indagine del
precedente § è risultato, ci sembra, in modo esplicito che quando nel V
sec. il mito siracusano si formò dovette tener conto di un precedente e
forse molto più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma ci
è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente quel nucleo
potrebbe esser greco, perché in tal caso la sua scarsa priorità (di men
che cinquant'anni) mal spiegherebbe il forzato rispetto di Siracusa.
Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini
archeologiche e storiche (cfr. SANCTIS, STORIA DEI ROMANI) ci danno un quadro
delle condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a quei
nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la tesi della italicità
dei siculi : giacché presso una stirpe italica, e perciò molto affine ai
greci, è facilissimo esistesse una saga simigliante alla greca di Kora e
che questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa
foggiò nel sec. V. Resta solo da determinarne, s'è possibile, la
forma verisimile. Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga
siracusana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a suo favore
in tutta la seconda parte del mito, ma rispetta scrupolosamente la
localizzazione del ratto in Enna; conviene ritenere che questo sia il
probabile nucleo essenziale del culto preesistente. D'altra parte (è il
secondo criterio) l'affinità tra Siculi (ITALI I) e Greci deve permettere
all'indagatore di cercar fra questi il piti antico embrione della
leggenda e di attribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli.
Analogia che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel di
Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (cfr. inoltre G. De Sanctis). Il più
antico testo che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico
a Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna
naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i particolari attinenti ad
Eleusi ed al suo culto. E prescindere, inoltre, da tutte le altre divinità
messe in relazione con le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni
di messaggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le Oceanidi quali
compagne di Kora; Rea, perché una tra le pili notevoli figure divine
delle campagne feconde, al par di Gea. Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (=
IIo- ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); Ar]/iii^Ti]Q;
IIeQaeq>óv£ia; KÓQu. Siibito, questa necessaria
eliminazione di taluni elementi deìVInno induce una conseguenza: se nell’età
probabile della composizione di esso, il mito era già cosi maturo da
poter e accogliere elementi nuovi e localizzarsi in un determinato centro
di culto ; se inoltre non è probabile che a favor di questo centro
appunto sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto
senso è troppo intimamente connesso con i primordiali riti delia madre
terra; si può senz'altro affermare che doveva, prima di quell'epoca, aver
vissuta oramai una, certo non molto breve, vita mitologica. E poco
quindi importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni contrastanti
del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone; Welcker Griech. Gotterl.;
Preller Griech. Mith}; Bloch; Malten Archiv. ftìr Religionswiss.):
soltanto significa che mancò l'occasione o non fu colta per introdurvelo.
Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha alcun carattere (come fu
notato) che l'avvicini, anche di poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto
la foggia "Persefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di
questo: ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al re
delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col suo aspetto di Dea
campestre {E 500 JV 322 = <P) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla
terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A cfr. Stengel " Archiv.
fùr Religionswiss.; Maass Orpheus e Wilamowitz Reden und Vortrage). Dal
quale s'è voluto dedurre che l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si
ebbe ragione ad asserire che la conseguenza troppo supera la
premessa (Prkller Dem. u. Pers.). Tuttavia non si può né si deve
negare che quell'epiteto si addice assai bene alla saga di Demetra e
Kora. Riassumendo dunque è lecito affermare che nell'epopea (a prescinder
d'ogni possibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto riferimento) del
ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli; 2° Demetra dea delle biade ;
3° Persefone regina dell'inferno. Manca sol Kora. Ma Kora non è né
può essere se non la " Figlia, e il suo valore e significato è tutto
contenuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi anche nel
silenzio delle fonti antichissime non è luogo a dubbio sul suo carattere
agreste. Carattere agreste che è confermato da quello che il mito narra
di lei nella sua forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di partenza
e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da escludere l'ipotesi del
Beloch Griech. (?escA. che vede in Kora una divinità lunare; la cui
vicenda dovrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha badato
(seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg. Georg. I 5, Varr. de l.
l. V 68, Plut. de facie in orbe lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si
uniscono tardi e che pertanto il carattere della seconda non può essere
quel della prima. Mi pare in vece che ben distingua la natura di Kora in
confronto con Demetra il La stessa opinione difese il Costanzi " Riv.
di St. ant. Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn
and of the wild; se bene egli sia stato un po' schematico nella
separazione delle due figure e lo temperino opportunamente le osservazioni di
Harrison Prolegotnena to the study of greek Religione. In breve
Kora è il seme nuovo o la biada nascente in confronto con la biada matura
da cui si stacca e a cui ritorna. Un riferimento diverso che ci
riconduce pure alle fonti del mito è quel di Esiodo Op. e Gior., ove
Zebs Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore al
tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs} 298 lo ScHERER (in
Roscher Lex.) sostiene a ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade,
lo Zevg naxa%&óviog àoìVlliade. Ed è certo evidente che
nell'avvicinamento di Zeus ctonio con Demetra, si tratta d'uno dei soliti
casi di "divinità agricole messe in relazione coi defunti e con la loro
sede solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis St. d.
R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso Saturno (ibi). Ed è
quindi del pari evidente che quel nesso ' Ade-Demetra ' non dipende da
quello ' Ade-Kora ' ma gli è parallelo e simigliante. Non bisogna però
confondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse tracce di una
At]fti]Ti]Q aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5 raccoglie: queste son
posteriori, a quel che pare, alla tradizione del ratto e da essa determinate :
dopo cioè che Persefone regina dei morti è divenuta figlia della
dea delle biade, allora questa assume un carattere nuovo consono
all'officio di quella. Al racconto pure del ratto si deve e agli
attinenti misteri Eleusini se in in processo di tempo si verrà sempre
pili accentuando il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a
trasformarlo in Plutone (v. i testi in Scherer). L'esame adunque delle
testimonianze che si avvicinano di pili ai primordii del mito conduce a
costituire due gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto
l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nell'arte più arcaica
(Esiodo) un nesso soltanto, quello tra Ade e Demetra. La relazione tra
Kora e Persefone non appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò
sta contro l'ipotesi di Farnell The cults of the greek States (Oxford)
che suppone un'antica divinità Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e
fusa poi con Demetra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui che
Demetra-Kora costituisse una divinità unica, madre di Persefone, con cui,
staccandosi da Demetra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più semplice
è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si fondesse con la moglie
di Ade, Persefone (cfr. anche Carter in Roscher Lex.). A ogni modo,
si tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è quindi
metodico supporre per la saga sicula : giacché questa non deve mai aver
superato i primissimi stadii, tenuto conto dell'indole dei Siculi e
dell'assenza d'una elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può
aver fatto della " rapita „ la regina dei morti. A completar le
caratteristiche di essa saga sicula, alcune altre indagini. Demetra
QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son
certamente figurazioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il
concetto della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel
della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich Milite)- Erde^) ;
poi perché la enorme diftùsione del culto tesmoforio ed eleusinio, che
non si può spiegar tutta da un unico centro (Bloch), trova la sua ragione
nell'estrema antichità del rito. La quale del resto era nota già ai Greci
stessi : cfr. Erodoto. Sotto pertanto l'aspetto cosi di terra che di
donna Demetra fe la Madre, per eccellenza : checché sia da
ritenersi su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth.
Forsch. e Frazer The golden
bough). Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più
significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe si
presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, analoghe alle " Madri,
dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll. Fil. class.. e a Libero e
Libera dei Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme
quella deificazione dei membri delle famiglie che par consueta fra l’arii
(SANCTIS (si veda), STORIA DI ROMA). Cosi si spiega anche meglio il valor
personale di Kora, che come dea delle biade è assai languida accanto alla
madre, ma come dea filiale riacquista una maggiore consistenza. E
vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali non pur si
verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera, unificate sol tardi (cfr.
Wissowa Rei. Rom.); ma anche oltre a Libera si venera la Madre Matuta. In
tal caso si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il
particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto alla compera,
una delle forme di matrimonio presso gli Arii, e quindi l'avventura di
Kora significherebbe a un tempo il mistero della vegetazione nel grembo
della terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la forma
espressiva a quello. Risultato, questo, che assicurando alla leggenda sicula il
rapimento, concorda con quel che nel principio di questo § notavamo a
proposito del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga siracusana. E
le due considerazioni si confermano a vicenda. Cfr. anche G. Gassies '
Rev. d. Étud. anc. Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima
osservazione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la melagrana e il patto
tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a giustificar la periodicità con cui
in ogni inverno il seme si cela nella terra per lasciar solo nella
primavera riapparire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse
né meno probabile che anche nella leggenda sicula esistesse una parte a questa
simile. Giacché la sua formazione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai
pili rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo
dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'assenza d'una
elaborazione letteraria) ; non è permesso per tanto di pensare, metodicamente,
che fosse superato quello stadio religioso in cui ogni sole nascente è
ritenuto diverso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità né
periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom.). Il superamento è
possibile; ma la possibilità non fa storia. Concludendo. Per
ricostruire la probabile forma dei primitivo nucleo leggendario dei
Siculi in Enna ci siamo valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre
: la constatazione degli elementi che quel nucleo portò con insistenza nella
saga siracusana del V sec, e la ricerca del primitivo nucleo nella
leggenda analoga di un popolo affine, il greco. I risultati sono scarsi,
ma non insufficienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una Dea
agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia rapita da un Dio
sotterraneo dai campi nelle sedi dei morti. E nel loro racconto si
fondeva il fenomeno del seme che sparisce fra le zolle con il rito
consueto del matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,
ma è anche molto a confronto con quanto si è osato asserire su l'argomento fin
qui, ci è forza restare paghi, IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA Le
versioni greche del ratto di Kora. Ofifrirebbe materia a larghissimo studio
l'indagare tutte le forme che il ratto di Kora assunse ovunque si
sparsero abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi. Qui a
noi importa soltanto di fissare quelle versioni del mito che sulla saga
siracusana influirono, cosi contribuendo al suo formarsi, come confluendo ad
allargarla per contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non
uscire dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla
constatazione senza cercare la spiegazione. L'Inno omerico a Demetra è,
come si disse, il testo più antico in cui il mito di Kora rapita appaja;
e come tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima
forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi la chiameremo
protoattica per brevità. In essa sono state distinte due parti, l'una
mitologica, l'altra etiologica; entrambe furono oggetto di esami attenti:
ci basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes The
homeric hymns e a Jevons An introduction to the history of religion. Solo
un punto richiama qui il nostro esame ed è di facilissimo rilievo :
secondo Vlnno gli uomini conoscevano già le biade prima del ratto di Cora,
tanto che Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del
seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in cui la Dea compie
su Demofonte, figlio di Celeo e Metanira re in Eleusi, la magia del foco e
insegna i suoi riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.
La concezione che predomina nel V secolo è in vece, com'è noto, ben
diversa. Trittolemo, non più principe fra altri, diviene il giovinetto
cui primo la Dea insegna l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L.
Bloch in RoscHER Lex.; Malten "Archiv ftìr Religionswiss.;
Pringsheim Archdol. Bei- i trdge zur Geschichte cles eleus. Kults).
Ora è anzi tutto da vedere come questa concezione nuova, che
contraddice esplicitamente la protoattica in quanto suppone che solo dopo il
ratto gli uomini conoscano le biade, e si può quindi chiamare neoattica,
si comporti con Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci
dà Apollodoro che conserva Demofonte per la magia del fuoco, Trittolemo
per il dono del seme, e tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e
Metanira, sovrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito
l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti Ovidio : Demofonte non esiste più
; Trittolemo subisce la magia del fuoco ed è predetto primo aratore ;
Celeo e Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in meschina
capanna. Di qui due problemi. È anteriore la versione di Apollodoro o
quella di Ovidio ? Notiamo che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da
cui Demofonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone
con varii materiali un testo unico, della leggenda; sospetteremo che la sua sia
una combinazione di mitologia erudita fra Vlnno e la saga neoattica di
Trittolemo, col proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra.
In OVIDIO (si veda) in vece la combinazione appare di mitologia poetica;
c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo sopravviene, noto nei tempi nuovi,
al posto di Demofonte, noto negli antichi: l'ignoranza del grano e la
povertà sopravviene, conforme al nuovo concetto, in luogo della conoscenza ed
opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel santuario eleusinio una innovazione
erudita è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare la
precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma ovidiana. Ci pare
allora che il nome e il concetto di Trittolemo abbiano acquistato
predominio attirando nell'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e
Metanira, che digradarono a poveri vecchi. Questa innovazione fantastica è
d'influsso orfico ? Afferma che si Malten e "Hermes: perché
orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli interpreta óvaavÀog " der eine
arme Hiirte hat Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se
dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo seminatore, Dysauìes e Baubo,
legati con lui presso gli Orfici quali genitori, avrebbero scalzato Celeo
e Metanira al pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli
Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra gli altri
deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con nome e personaggi di loro
creazione; né come esso solo acquistasse tanto predominio, mentre
Dysauìes, Baubo, e parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor
della setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo
all'influenza orfica : che il particolare dei majali, non è orfico
esclusivamente, come pare a Malten e già a Forster {R. u. R.), ma si
riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati a un verso. Dunque in un
carme ove dagli Orfici nemmeno si accetta quella presenza di Atena e
Artemide che fin la saga siracusana aveva fatta sua, la scena
centrale deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;
altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi par chiaro che
lo stesso moto onde Trittolemo = primo seminatore fu portato a soppiantare
Demofonte e impoverire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e
determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci sembra evidente che la
scena eleusinia dei Fasti sia di Contro l'opinione comune che è in Gruppe
Gr. Mi/th. origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai rivela
neWEcale callimachea. Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo =
seminatore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare un'opinione
imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Argonauti si legge che Cora è^duacpov
avvófiatfiot ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal
Forster, Atena Artemide e Afrodite. Il confronto con EuKiPiDE Elena (cfr.
il testo del Wilamowitz in Comm. gramm. e " Sitzb. Beri. Akad.)
dimostra però che si deve trattare soltanto di Artemide e Atena. Di queste due
parla difatti il Malten " Archi V; ma le presenta nell'aspetto
euripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in quello orfico
di ingannatrici. Correggendo da un lato il Forster dall'altro Malten, mi
sembra che l'ipotesi migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti
e VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova in Igino
fav. (non che in Claudiano), sia
l'ammettere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico sostituito
nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e Artemide, e queste, in
qualità di vergini compagne e di dee armate, sieno passate alla difesa
della rapita. L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie,
protoattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo luogo il
testo di Timeo (cfr. Diodoro e Geffcken). Notammol'uso che ivi è fatto
del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a guisa di premessa,
che tutto il racconto del mito vi è estremamente sommario. Ma il puoto
essenziale vi appare in Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per
la Sicilia or., li. modo non
dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia conobbe tòv tov alrov
KaQnóv prima d'ogni altra regione; in Sicilia le due Dee facevano spesso
soggiorno; avvenuto poi il ratto, Demetra fece dono del grano a tutti
coloro che durante la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra
costoro primi, agli Ateniesi; gli Ateniesi quindi ebbero e diffusero la
conoscenza del grano primi dopo i Siciliani, i quali se l'erano avuto
dalle Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg olKeiÓTi]Ta.
Dunque non può rimanere incertezza che Timeo e la saga siracusana da lui
ripetutaci accettavano per intero la versione neoattica secondo cui
l'ateniese (eleusinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del seminare e
l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo dell'uso di ghiande ; l'accettavano
però con la orgogliosa premessa che la Sicilia, per la special benevolenza
e la famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi e
l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una Sicilia che ha il
privilegio del grano, mentre tutti gli altri lo ignorano, prima del ratto
; e della restante umanità, che il privilegio si conquista poi col
trattar bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i
Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo con una figura
indigena, come quei di Sidone con un Orthopolis figlio del re Plemnaios
(cfr. Paus.); né di farlo entrare in genealogie locali, come gli
Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.); né di identificarlo
con un antico loro iddio, come suppone, ma senza convinzione, 0.
Rossbach Castrogiovanni (Leipzig) Essi poterono venerare Trittolemo
(CICERONE (i veda) in Verr.) come colui che per benevolenza della lor
Demetra diffuse al mondo il già loro secreto del seme. LE
VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA La conoìcenza del racconto di Timeo deve
ajutarci a comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti e in
Metamorfosi. Si è discusso se si tratti di un'unica fiaba desunta da
un'unica fonte e variamente ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte
sia distinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione alquanti critici
citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten 'Hermes, Tennero la
seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d, Pers. poi
Ehwald-Korn Metani. Noi crediamo che il Malten, il quale pure ebbe
autorevole assenso dal Wilamowitz (Sitzungsber. d. Beri. Akad.), sia in
errore. Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti :
Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il lago Pergo durante
l'antologia; Cerere ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi
su l'Etna; veduta presso la fonte Ciane la zona di Proserpina, se
ne sdegna: terras tamen increpat omnes Ingratasqiie vocat nec
friigum munere dignas, Trinacriam ante alias e distrugge gli aratri e
impedisce la vegetazione del grano; Demetra, dopo le indicazioni di
Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo, ristorata del suo
dolore corre medium caeli terraeque per aera e va in Atene, consegna a
Trittolemo i semi e partim iussit spargere rudi humo partimqiie post
tempora longa recultae. Ora, noi vedemmo sopra che la sostituzione
di Ciane e Aretusa ad Ecate ed Elios deir7«no omerico sono pretti
elementi della saga siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto
in IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA Euna. Ma la concezione espressa nei
versi citati non si copre con la siciliana: è più larga. Terrae omnes
conoscono il frugum muniis, e fra esse è si la Sicilia, ma non sola, se
bene più fertile. E Trittolemo insegna a seminare su la terra post
tempora longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno
subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa concezione che
accoglie e umilia in sé la saga di Timeo? Ognun vede che essa contiene : del
mito protoattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la
vendetta divina ; del neoattico, Trittolemo = seminatore. Ne rappresenta quindi
un tentativo di conciliazione in cui s'innesta la leggenda siracusana con
qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta, della zona e
la supplica di Aretusa che il Malten calcola a un anno, è chiaro che non è
preciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post tempora
longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten, che trascura la libertà
fantastica dei poeti. Né col Malten diremo adesso che la metamorfosi di
Lineo trascinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ; dacché
vedemmo come questo personaggio stia bene in quel posto in cui i Fasti lo
pongono, data la contaminazione proto-neoattica. In fine contatti con la
poesia orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena e
Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non è orfico; e perché
ha ragione il Malten di riconnettere con la volgata poetica degli
Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da Cosi mi fece
notare il mio maestro G. De Sanctis. Resto incerto se questa
conciliazione si trovasse già in Carcino junior (cfr. Timeo presso
Geffcken = DiOD.). amore per
volere di Afrodite. E di modello alessandrino essendo tutte le metamorfosi, la
nostra conclusione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino ove
nella trama proto-neoattica con innesto siciliano sono interpolate favolose
trasformazioni di Ciane Ascalafo Ascalabo Aretusa e l'altre.
Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto avviene in Enna ;
ma ivi non è la sede delle due Dee. Di fatti Aretusa ve le aveva invitate
e Cerere vi era giunta da poco (modo venerai Hennam) allorché
Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice della Sicilia Grata
doìnus Cereri; multas ea possidet tirbes ecc., la frase, come vuole il
verbo al presente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten). E
quando Prosei'pina è introdotta vagante per sua prata (v., si deve
intendere " i prati di cui è dea che tutta la vegetazione è in lei
compresa nel tardo concetto poetico (contro il Malten). Dopo il ratto,
Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga per tutte le terre e pel cielo in
affannosa ricerca; della quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi
presso Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice pi'imus
arabit et seret et eulta praernia tollet humo, togliendo cosi la famigliola e
gli uomini tutti dalle condizioni di vita primordiale in che
nutrendosi di bacche duravano (cfr. il proemio Ceres, homine ad
meliora alimenta vocato, mutavit glandes utiNel verso Dixerat, at Cereri certum
est educere natam il Malten) vuol vedere un riferimento all'orfica
discesa di Demetra sotterra. Non mi par che basti. Non ho potuto
prender conoscenza di G. Bubbe De metamorphosibus Graecorum capita
selecta " Diss. Phil. Hai.. Uore cibo). Seconda tappa della
ricerca è costituita dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto
alla Dea, Helice ed il Sole. Da ultimo accade il colloquio con
Giove e il verdetto finale. Ermes è il messaggero fra Giove e
Proserpina. Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace
che ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe proventi
(non rediit) cessatis in arvis, ossia nei campi incoltivati {cesso = non
exerceo). L'interpretazione comune (nei campi trascurati) non può
reggersi confrontando i vv. già citati. Ora, dallo schema cosi
tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre le conclusioni
: il concetto fondamentale di una umanità che prima del ratto si nutre di
bacche ed è povera, e dopo il ratto apprende da Trittolemo la cultura del
grano e si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui
si connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca) è
desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è una variante
alessandrina della coppia Ecate-Elios delVlnno omerico (cfr. Malten); l'ordine
cronologico degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in
Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto ad esso. Di
più: quest'ultima inversione obbedisce all'intento artistico di non
rappresentar Cerere nell'indugio di Eleusi quando, già conoscendo il nome
del rapitore, può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione
di Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità in rapporto
con la più volgata nozion mitologica; e di gusto alessandrino è la
divisione dell'anno per metà può reggersi ammettendo un' incongruenza
irrazionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana nel poeta.; e
col gusto medesimo concorda l'accettazione del concetto neoattico. Adunque
possiamo dire che il racconto dei Fasti è un'alessandrina
combinazione sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi
tratti siciliani e con spunti di recente mitologia. Siamo pertanto molto
lontani dalla trama riprodotta nelle Metamorfosi e definita sopra: là si
ricerca di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo con la saga
neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico particolare non respinto, e
predomina una idea aWTnno contradittoria. Sicché ha torto il Malten di
supporre ai due componimenti unica fonte. Diversi essi
appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi di compiacimento fra
letterario e favoloso con le sue metamorfosi numerose; l'altro ha scopo
etiologico. Tale constatazione può giovare alla ricerca dei due
modelli alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permetteremo di
esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di spettanza degli storici
della letteratura, e del tutto secondario per gli storici del mito. A noi
basta l'aver determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora
che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito siracusano, variamente
intrecciandosi in complessi disegni. Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la
Sicilia or., L'abigeato di Caco. Il problema. Intorno al mito che narra il
furto di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che
singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima fra esse, della
quale basti citare rappresentanti il Peter in Roscher Lexicon e il
Binder Die Plebs fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il SANCTIS,
STORIA DI ROMA, il nucleo primordiale del mito è italico, intrecciato su
i due nomi di Caco e di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi
con le sembianze di Eracle-Ercole; il contenuto di esso è naturalistico e
consiste nella lotta fra il dio solare e il dio sotterraneo del fuoco;
vive nelle tradizioni mitico-poetiche del popolo che lo perpetua, fino a che
gli artisti lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli storici lo
umanizzano e variamente razionalizzano. Per l'altra teoria in vece, che
sostengono fra noi il Pais Storia critica di Roma e all'estero il v.
WiLAMowiTZ Euripidea Herakles, il Wissowa in PAtTLy-WissowA Real-Encykl.
snon che, ora, Rei. u. Kult. d. Romer) e J. G. Winter The myth lu -
l'abigeato di caco of Hercules at Rome in " University of
Michigan Studies, Humanistic Series „ Roman History and Mythology edit.
by H. A. Sanders (New York), il mito è opera dell'influsso letterario
greco, pur concedendosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o
italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vulcano, (Pais)
" forse, un'antica divinità del fuoco (Winter); sia col limitarsi ad
ammettere che il nome di lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia.
Il problema era in questi termini quando fu ripreso recentemente da
Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel). Questi facendo suoi i risultati
del Wilamowitz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Gewinnung
neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es sollen nur die
alterprobten Mittel philologischer Methode Interpretation, Analyse,
Vergleichung mit moglichster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht
angewendet werden. Difatti, dopo una indagine la quale "
vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich erschienen sein solite giunge
a sostener questa tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai
principii della letteratura latina. I più antichi annalisti lo
concretarono nella forma che ci appare in Livio; due generazioni appresso, gli
annalisti dell'età graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già
razionalizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo di reale
istoria; solo la Romantik „ dell'età augustea Nello stesso anno 0. Gruppe
svolse in breve nella Beri. Phil. Woch. una sua ingegnosissima ma, a
nostro avviso, non convincente teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su
i testi di Festo, Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto interpretiamo con
tutt'altro valore. IL VALOKE DEL MITO INDIANO riprese la forma originaria
: " Livius, indem er die Sage einfach als Sage erzàhlte und sich im
Hinblick auf seinen allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen
enthielt, Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende
Kleid der Poesie hullte. Il nome Caco era diffuso in antiche tradizioni
italiche; egli era da prima concepito come semplice uomo, pastore o
ladrone, e da VIRGILIO (si veda) solo è mutato in un mostro tra divino e
bestiale. 'Eracle-Ercole' è già nella primitiva forma della narrazione e
il nome di Garano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione evemeristica
della versione volgata del racconto. A chi pertanto voglia
novamente studiare il mito di Caco corre obbligo di tener conto in
particolar modo di questa che, per esser l'ultima ricerca e per
presentarsi con speciali pretese di saldezza logica e precisione
metodica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto la teoria del
Peter e del De Sanctis. Quanto tal sembianza sia falsa è per apparire. II
valore del mito indiano.Nella mitologia indiana del Rigveda il Rosen (a
Rigveda) ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza
esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta di Indra con
Vritra. I particolari più minuti coincidono dall'una all'altra fiaba:
cosi la clava di Ercole e di Indra, il muggir dei buoi di entrambi, la
caverna rocciosa, ecc. (cfr. Peter). E ne furono tratte da più
studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Hercule et Cactts, Elude de
Myihologie comparée (Paris), da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl.
Spr.-F. MuNZER in vece ha creduto di poter trascurare al tutto questa
significativa coincidenza tra il racconto indiano e il latino,
appellandosi ai nvichl'abigeato di caco ternen „ giudizii del
Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare,
(simile in questo al WiNTER) l'errore fondamentale di tutta la sua
ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta coincidenza può e
deve avere non solo come argomento, ma come prova " cruciale „ fra
due possibilità logiche. Di fatti, accertato che, in forma quanto più è
possibile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano, ne
consegue da prima che il valore allegorico di questo, il quale non è
dubbio (Bréal), dev'essere a un di presso identico al significato di
quello romano : la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica
del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. Inoltre, se la forma latina
è, fra le molte che il mito assunse presso i popoli indo-germani, la piii
simigliante al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch.
Alterth.), par metodico conchiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo
italico dalle radici arie, e non è in vece l'imitazione delle fiabe
vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci. Giacche è ozioso e
assurdo supporre che imitando un modello già lontanatosi dal tipo indiano
si giungesse a riprodur questo appunto più fedelmente. In
particolare, prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e
Ahriman; Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir,
ecc.), su cui si veggano Bréal, Spiegel, i miti greci di Apollo in lotta
col Pitone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche il racconto
dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo, pur ripetendo tutti e tutti
travestendo un unico concetto naturalistico e le sue sfumature e
analogie, sono ben lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la
forma del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Gerione
Apollod., per Ermes l'omerico Inno a Ermes, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e
romenco Inno ad Apollo. Da ultimo la constatata simiglianza
iatima tra l'episodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a decidere
quale fra le discrepanti redazioni del racconto latino più si accosti al
nucleo italico primordiale, quali elementi sieno gli originarli rispetto
ai posteriori o evolutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto
maggiormente esser antico un particolare e vetusta una figura quanto meglio
collimi con le forme e le linee del racconto indiano. Questo non
avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si precluse la via a giudicar con
metodica Nùchternheit i testi cosi dei
poeti come degli storici e degli eruditi latini. VIRGILIO (si veda)
ed OVIDIO (si veda); Properzio Il risultato della ricerca che Munzer
conduce nel suo I cap. (se si omettono, com'è bene, le singole
osservazioni le quali non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze
poetiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto del furto
e la vendetta di Ercole corre nel material numero dei versi la proporzione di
1:3 presso Vergilio, 1:2 presso Ovidio, 2:1presso Properzio. Die
Folgerung scheint unabweisbar, che appunto nella vendetta di Ercole
Vergilio dev' essersi allontanato dalla tradizione precedente per concedere
alla propria fantasia volo pili libero e più ampia indipendenza.
Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di contar i
versi d'un carme per determinarne gli strati mitici, i dati sembran da
disporre in ben altro modo, ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in
Ovidio (il quale Cfr. Eneide; Fasti; Elegie. F., Kalypso l'abigeato di caco da quello
dipende, come risulta evidente dalla semplice lettura e fin troppo è
dimostrato dall'analisi del Munzer) è dato più grande sviluppo alla lotta
fra Ercole e Caco olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da
tener in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi si
esercitasse piti liberamente e più profondamente innovasse. che invece quello
fosse anche nella sua fonte leggendaria l'episodio meglio notevole e
significativo del racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza
il poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili ipotesi
è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti. E non si vede per contro
qual motivo induca il Munzer a preferir senz'altro la prima e a
proclamarla unabvreisbar. Ecco in vece che il mito del Rigveda interviene qual
pietra di paragone. In esso la vendetta di Indra contro Vritra è
ampiamente narrata con presso che tutti i particolari noti da VIRGILIO
(si veda) ed OVIDIO (si veda) e costituisce, non meno che in questi poeti,
un'essenzial parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi
è da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il racconto della lotta
fra il dio solare e quel del fuoco tenebroso costituisse non pur una rilevante
porzione della leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il
nucleo della vetustissima saga italica. Nella descrizione
della grotta di Caco Vergilio è pedissequamente imitato da Ovidio : cfr.
En., Fasti. Ma perchè V. usa per la spelonca la frase " solis
inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce vix ipsis invenienda feris a
esprimere un concetto affine, il Munzer insiste a lungo su la differenza.
Non ci fermeremo, rispettando i poeti. Con eguale sottigliezza d'analisi
il M. studia le due parole semihomo, e semifer che V. usa a
designar Caco accanto a l'altra di monstrum Perché il sembiante degli dei
è identico a quello degli ucraini, per questo semihomo equivale ad halb
Gott. Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore
metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose deduzioni
logiche : fino a trovare che l'epiteto di vir, da 0. tribuito a Caco non
si conviene alla concezione vergiliana del semihomo sebbene 0.
imiti pel resto l'Eneide e ripeta la parola monstrum e la paternità del
ladrone. Per vero il vir, ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di
Vergilio, SI a quello del Mùnzer. Ugual giudizio deve farsi di una serie
d'altre inezie, e in particolare delle osservazioni su l'uso delle saette
e della clava, presso V. ed 0. . Nel mito indiano Indra usa il
fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le saette come la
clava sono i simboli primordiali dei raggi solari, e si addicono quindi
entrambi all'essenza del racconto. Se quindi la clava o le saette o l'una e
l'altre fossero già nella forma originaria o vi mancassero è impossibile
dire. Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco
e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una deduzione che gli è
fondamentale. A quel modo che nell'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il
proprio padre, cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio,
Vergili© lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo è
accanto a una serie di altri monstra, vergiliani riportati ad analogia,
l'unico argomento per asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie
Schopfung der dichterischen Phantasie. Per qual motivo Vulcano
fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco e fumo ; non è detto ; ma
tutto si fa dipendere dalla " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung
des Cacus als eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens. l'abigeato
di caco Una confutazione ormai non è più necessaria. Più ragionevole
è la tesi del Winteb: che VIRGILIO (si veda) risusciti i caratteri
dell'antica divinità del fuoco Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog.;
Inno ad Apollo). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica e
semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la tradizione
letteraria ha fissati per Tifeo (non che, si può aggiungere, per altri
consimili mostri), a fine di colorire artisticamente un personaggio del
suo tema, non già di ricrearlo. Resta che si dica di
Properzio. Intorno al quale prudentissimo diviene Münzer; e non a torto,
in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel dell'Eneide che
il PtOTHSTEm dichiara come riferimenti culti a VIRGILIO potrebbero in
vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per certo assai
noto, a cui è dovuta la conservazione poetica della saga: riferimenti p.
e. ad ENNIO (si veda). E parimenti antichissima potrebb'essere la
concezione di Caco a tre teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche
pensato, in vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Gerione
: e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che il particolare
venisse soppresso da Vergilio appunto per dissimilar Caco da Gerione,
entrambi avversarii di Ercole. Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito
originario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita Cacus =
Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr. sotto § V), sia pur
dovuta alla fonte di Properzio o a una sua brachilogica omissione, non è
possibile dire. A ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui
sembra avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio di
quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione di
Evandro. LIVIO E DIONISIO Livio e Dionisio. Cfr. LIVIO (si veda); Dion. Il
Caco di LIVIO (si veda) è pastor ferox viribus, e prima di venir
abbattuto da Ercole " fidem pastorum nequiquam, invoca. E in somma
un uomo: ben diverso dal monstrum di VIRGILIO (si veda). Di qui due possibilità
si presentano al critico: o la concezione liviana è prodotto d'un erudito
razionalista che ha abbassato la statura del personaggio; o la concezione
vergiliana è l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Münzer
che s'è chiusa la via a sceglier con metodo, si attiene a questa seconda
ipotesi senza visibili ragioni. E nello stesso errore cade, per
motivi analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario
decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce ad affermare,
con la maggior sicurezza possibile in cosi fatte ricerche, che Livio
riflette una forma razionalizzata e umanata della saga. La quale serba
tuttavia anche cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana
assai dall'origine naturalistica. E poiché a ragione il Miinzer
afferma LIVIO (si veda) indipendente da VIRGILIO (si veda) e attinente a una
fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere che l'età augustea riceva
dalle anteriori intorno a Caxìo ed Ercole almen due versioni, l'una più
dell'altra colorita. A punto perché anche il racconto della fonte
di Livio è coperto di una patina da fiaba, Dionisio scrive : UoTi
óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv fiv&iKÓtteQa,
za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il racconto della fonte vergiliana
poteva sembrare degno di poeti, ma non di uno storico erudito, quello
della fonte liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser
riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene uno in cui
dietro a Ercole e a Caco stessero degli eserciti interi. Col che si confuta il
Mùnzer quando, l'abigeato di caco prendendo rigorosamente
alla lettera il [iv&iKdjxsQa, afferma che Dionisio intese narrare "die
Fassung, der Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war
„; e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo alla
seconda versione, più vera „ della prima e men favolosa.
Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta fra Ercole e
Caco, quella su cui si dilunga VIRGILIO (si ved) e il mito del Rigveda.
Il motivo è chiaro: quivi appunto era il perno del mito e il fondo della
sua allegoria; quivi il razionalista più deve sopprimere (contro
M.). Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dionisio lo dichiara
Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios. Tal differenza acquista valore se la si
contrappone alla concordia con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si
veda) e Properzio, raffigurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che
in questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli storici in
vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non identiche, dell'unico
mito: non identiche, perché è dif. fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le
fiabe : dell'unico mito, perchè nel " ferox viribus, come nel
yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro
MùNZER). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde di non
aver visto i buoi. Ciò, fu notato, corrisponde a Vergilio (abiuratæ rapinæ).
In Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se non
che cosi della presenza come dell'omissione è difficile far giudizio. Cotesta
astuzia di Caco è da avvicinare all'altra di condurre " aversos „ i
buoi : ed entrambe ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano
le astute imprese del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al
tono burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba di
Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce contro il tenebroso
fuoco, male armonizzi con scaltrezze COSI fatte. Si propenderebbe quindi
a ritenere tutt'e due i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto
l'influsso letterario greco che analogie originarie. La quale
ipotesi spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio e
Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i buoi nell'antro di
Caco: che è primitivo simbolo del tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro
Mììnzer). E anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può
essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vicini a quelli che
solevano adz^ avvayQavÀslv : la quale difatti manca nel Rigveda, e non è
intrinsecamente connessa con la forma prima del mito. Né si erra forse di
molto attribuendo a Ennio stesso queste imitazioni di fonti greche che si
ritrovano poi, cosi nei poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito
come nei suoi travestimenti razionali. Risulta adunque che la
fonte di Livio e, in parte, di Dionisio conteneva un racconto umanato
rispetto a quello poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di
Properzio; ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma
primitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune agli storici e
ai poeti è anche un'altra parte del mito: la etiologica, che attende ora
il nostro esame. I particolari etiologici del culto. Quella parte
del racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio, LIVIO (si
veda), Dionisio, che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di
Caco fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta di
particolari etiologicamente desunti dal culto di Ercole. Ma se non è più
possibile questionare su ciò, bisogna ancor discutere su i singoli particolari.
A tal proposito il MùNZEE (p. 88) asserisce: dassin der Tat Cacus l'abigeato di
caco und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei
ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des Hercules als einen
Trdger der Handlung gemeinsam haben, rein àusserlich zusammengeschweisst
worden sind. E anche: Der Einfluss der Verbindung mit Euander àusserte
sich am frubesten und am bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des
Cacusabenteuers naher bestimmt wurde. A questa concezione si
contrappongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154): "hanno
contribuito a suggerirne del mito i particolari l'Ara Massima d’Ercole
vincitore nel foro boario e le vicine scale di Caco sul pendio del
Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco
etimologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico del Palatino,
Evandro , e il cattivo ladrone (xaxó^) dell'Aventino (su questo punto ha
giudicato rettamente A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros).
La tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile. Due son le
figure principali del mito: Caco ed Ercole; e l'una d'esse certo latina o
italica, l'altra certo, in quella forma, greca. Se v'è dunque in Roma un
luogo cui si attiene il nome di Caco (scalæ Caci) e uno ove si rende
culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che questi due servissero
a localizzar il mito e il primo innanzi al secondo. Si potrebbe, è vero,
pensare anche che l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione
di Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma
l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone, prima della
comparativamente tarda intrusione di Ercole, Euander, che nella sua forma
greca sonava -E'^av^^ìo^, e che era la mitica personificazione della
eéavÒQÌa, fu interpretato buon uomo per un lunghissimo lasso di tempo non
localizzata la saga. Là dove l' essersi anche topograficamente
Garano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne la fusione :
se difatti l'uno era con Caco fissato presso il Palatino, l'altro si
stabili all'Ara massima, la contiguità dei luoghi giovò senza dubbio a
fondere le due simiglianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom.
propr.) a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato: hic perperam idem esse
putatus est atque Cacus deus ; fuit re vera auctor gentis Caciæ. E il
Mùnzer accetta, pur ammettendo che il nome alle scale possa derivar
anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben Cacus ein Name,
der schon for die Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war. Ora il testo di
Diod. (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog xal
HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig Hai ócàQealg
xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv àvÒQcàv èTCOfiv^fiata
ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet Korà xìiv 'PiLfiTjv.TÒJv yàQ
vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà
zoìg 'Pcoftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p
HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv
òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg zóve yevofAévrig
oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara l'origine del suo contenuto. I
dati certi che possiede sono: l'esistenza di scalae Caciæ, l'antichità dei
Pinarii; le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii
ed Ercole. Da questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il
nome Ilivd^tog) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e
Cacio, le cui scale son prossime a quell'Ara Massima (JoedanHuLSEN
Topogr.) ove al culto erculeo i Pinarii partecipavano. Tale costruzione
da erudito costringe ad l'abigeato di caco ammettere
l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra Ercole e Caco, e dei
Potizii (ignoranza, si badi, che anche il Miinzer deve presupporre, nella
sua ipotesi). E poiché i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa R. E.,
VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel culto, non è
arrischiato pensare che il racconto in cui di quelli si tace al tutto e
si tace del mito ove quelli eran inevitabilmente da menzionarsi, sia
dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA CRITICA DI ROMA: contro
WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se la
nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto Kdxiog: e additano
per tanto la prima naturai sede della lotta. E perchè accanto alla
menzione di esse va posto il dato tradizionale su la caverna
dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si veda) Fasti), se ne deve
concludere: che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana
ch'è fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso
verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nell'altro verso
l'Aventino (caverna). La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima
la quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,
tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole. (Cfr. Peter).
Che se il mito di Caco è, come si vide, italico e vetustissimo, là dove
Ercole è un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle
greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di
questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale le diverse
derivazioni appajono in genere concordi nella sostanza : cfr. gli
aneddoti sul sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima,
ecc. In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle
donne dal culto di Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio;
dallo scritto OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte
dififerenti, in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che
significa come un unico fatto venisse travestito in almeno due forme
diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi inventori che è ricordata in Dion.,
Solino, Origo geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il
qual silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'altare e YAra
maxima non era nel mito etiologico essenziale, e forse anche che v'era entrato
tardi. Onde non è improbabile che il motivo ne vada cercato nella
topografia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori è naqà
tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole (Cfr. Gilbert Gesch.
u. Topogr. d. St. Rom. II 158). Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene
tarda invenzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe erige
l'ara a Giove. Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi
che il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente
per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma l'asserzione del
De Sanctis (nonché del Bormaim) intorno ad Evandro. Di fatti la presenza di
lui, che è essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e,
Lrvio 1. e, Dion. l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino, Serv. En. (= Myth. Vat.) e nello scritto Origo
geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si sa bene perché, è
però narrata in fogge diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono
a lui la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio in
Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale, fra gli spettatori
del primo sacrifizio: e secondo Servio egli è da prima ostile ad Ercole.
D'altra parte la istituzione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio
ora di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e Ovid.)
ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico l'abigeato di caco
(Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché la Porta
Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a nord del Foro Boario ov'è
l'Ara Massima. E Nicostrato e Temide son sue variazioni di sapore greco.
E parimenti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio della
leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però con una base
topografica non pseudo-etimologica. Entrambi poi vennero fusi col far Carmenta
madre di Evandro.Se non che tutto cotesto processo semierudito e
semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età Augustea, in quelle
medesime ove non è più incerta la localizzazione della saga nel Foro
boario ed è solidamente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne
deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo di gran lunga più
tardo. Rappresenta dunque il terzo strato leggendario, fuso con quel di
Carmenta; e a cui un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la
venuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su Fauno ed Evandro,
e Origo geni. rom.). Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto
secondaria la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno in
luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (DerCYLUS Italica fr. 6 appr.
Mullee); o di Fauno il figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl.
cod.; cfr. anche Schweglee Rom. Gesch.). In breve, il complesso
etiologico inseritosi nel mito è, a prescinder da tarde superfetazioni,
sceverabile in tre strati: Caco, con le scalae e la caverna
(Palatino-Aventino) ; Ercole, con l'Ara Massima; Evandro, con taluni
episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie, come sul
mito vero e proprio, si esercita il razionalismo degli eruditi. Gli
eruditi. Il riscontro degli errori in cui GLI ERUDITI cade la
dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal suo cap. VI die antike
Forschung. Egli si trova di fatti costretto, dinanzi a due testimonianze
che la nostra tesi spiega traendone a sua volta conforto, a
dichiararsi incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de
Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam Romani consentiunt: solus
Verrius Flaccus dicit Garanum fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum
adflixit, omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules dictos,)
e nello scritto Or. gen. rom. Recaranus quidam, Graecæ originis, ingentis
corporis et magnarum virium pastor, qui erat fortuna et virtute ceteris
antecellens, Hercules appellatus) ritoma sotto due forme diverse un nome
differente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus e
Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è incerto (con Mukzee
contro Peter o. c., Pais., Winter, Bohm in Pault-Wissowa R. E.). Ma
non è incerta, a noi pare, la interpretazione di esse. Sappiamo che il mito di
Caco è antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più
tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica, lo deve aver
preceduto. Troviamo ora un nome sotto due forme, che sembra prettamente
italico ; troviamo che gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome
(e non potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole per
mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Hercules dictos,. Riteniamo
per conseguenza legittimo attribuire tale nome appunto al personaggio italico
il cui Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae in Berichte der K.
Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu Leipzig, Phil.-hist. Kl. l'abigeato di
caco preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in
vece Mùnzer deve asserire, giusta la sua tesi, che un cotal Garano
(Recarano) è invenzione di eruditi (i quali dunque avrebber voluto,
essendo Caco un pastore, dargli avversario un semplice pastore non un
eroe famoso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è
originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio, sin dall'origine non
doveva essere un dicevole avversario di Ercole; e non riesce poi a
interpretare il nome Garano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia
ricavato. Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura del
vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto, l'ipotesi dello
Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n. e WiNTER accettano),
Garano e Recarano esser " due forme errate di Karanos l'eroe argivo
eraclide, fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti
può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non ha per sé se non
un'approssimativa simiglianza formale dei nomi, e ha bisogno a sua volta
d'esser spiegata, giacché sembra assai strana cotesta scelta degli
eruditi latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus
sia un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi di lui
: giacché in quel caso diventa di nuovo probabile che l'epiteto obliteratosi
non sia se non il nome stesso della divinità soppiantata da esso Ercole.
In breve l'ostacolo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia
preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo mito
latino. Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su Caca.
Servio En. (= Myth. Vai.) parla d'una sorella di Caco, Caca, la quale lo
avrebbe denunziato: ed ivi pure è data notizia di un " sacellum
Cacao,, e si aggiunge " in quo ei per virgines sacrificabatur (cod.
Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines Vestae sacrificabatur {codd.
rei.); pervigili igne sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „.
L'ultima lettura è la preferita; la prima sceglie il M. Ch'egli abbia
torto dimostra la seconda: la quale nella sua concisa oscurità e nella
confusione che contiene, è pili tosto il risultato d'un'amputazione
dell'ultima che un ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M.
deve ridursi ad ammettere l'esistenza del sacellum a una dea Caca.
Col che ha già ammesso troppo contro la sua tesi : perché una dea di quel
nome è il riscontro pili magnifico che si potesse sperare a un supposto
dio Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrifica sicut Vestae,
e l'altro emette fiamme dalla bocca, la deduzione non può esser che una.
Verissimo tuttavia che lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è
da imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco felice in
contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il travestimento di queir
" una boum, che appresso VIRGILIO (si veda) rivela il furto né meno il M.
osa sostenere. E se il sacellum Cacæ sia per il M. oscuro al pari
dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri non sono per la nostra tesi, par
che non vi sia più molto a discuter su gli argomenti dell'una e
dell'altra parte. Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvicinate,
l'una più compiuta che l'altra. Servio En. si esprime: Cacus secundum fabulam
Vulcani filius fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia
populabatur. veritas tamen secundum philologos et historicos hoc habet, hunc
fuisse Euandri nequissimum servum ac furem; ignem autem dictus est
vomere, Cfr. su Caca, Giannelli II sacerdozio delle vestali romane
(Firenze l'abigeato di caco quod agros igne populabatur; novimus autem
malum a Graecis kuhóv dici: quem ita ilio tempore Arcades appellabant.
postea translato accentu Cacus dictua est ut 'EÀévi] Helena (Cfr. Myth.
Vat.). Poi a En. si danno le notizie sull'Ara Massima i Potizii e i
Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che qui non c'interessa più. Il
razionalismo si è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a
spiegar il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il
nome. Molto più si permette il racconto che si trova in Origo
gen. rom.: " Recaranus quidam, Graecae originis, ingentis corporis
et magnarum virium pastor, qui erat forma et virtute ceteris antecellens,
Hercules appellatus; Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et
praeter caetera furacissimus: tali i due avversarii. Caco ruba a Recarano
i buoi e questi dopo vana ricerca è per partirsi quando Enander,
excellentissimae iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit,
servum noxae dedit bovesque restitui fecit,. Allora Recarano dedica
" inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara Massima e vi sacrifica
la decima parte dei proprii buoi. Carmenta, invitata, si rifiuta di
parteciparvi e le donne son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in
quel luogo. Cotesto racconto è di gran lunga più finito e
particolareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione razionale qui si
estende fin là, dove il primo non si dilungava da Vergilio. L'antico nome
Recarano (Garano) l'autore concilia col più noto d’Ercole, Ercole mutando in
soprannome. Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento
d'Evandro come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché
d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo di EijavÒQos:
omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era ricchissimo di particolari
mitici (fuoco fumo clava ecc.), GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la
scoperta del furto, senza dircene il modo, nel testo pervenuto almeno,
che non si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale potesse
ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la profezia; ma si vale di essa per
un mito etiologico. Allo stesso modo, non potendo l'Ara massima venir
instituita da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta confusa
con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a spiegarla.
Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza profonda in taluni
punti: cfr. la figura di Caco; dissimiglianza in altri. Di questa si comprende
il valore comparando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che
Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla prudenza con cui
l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i concordi racconti su Caco nota
la tesi di Verrio Fiacco su l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che
Servio ha presente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne vale
solo saltuariamente rispettando molto pili il racconto di Vergilio che
commenta. Qual fosse poi la fonte di cui, in vario modo, approfittano e
Servio e l'autore àeWOrigo, è detto quivi haec Cassius libro primo
Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Mùnzer a tal proposito suppone che
a Cassio venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, in luogo
di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter fr. 4) un frammento su
Evandro e Fauno. Egli trattò verisimilmente tutta la saga di Evandro e quella
di Caco. Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione erudita
si serbassero (anche e specie mediatamente) di lui estratti a bastanza
ampii intorno a quel mito. Del resto, se anche un solo suo passo poteva
addirsi al racconto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena
assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e F. Kalypso.
l'abigeato di caco Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e
armonica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi definita,
non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.). Di natura opposta alle
due testimonianze erudite che furon or ora discusse sono i racconti di
Dion. e di Cn. Gellio appr. Solino = Peter fr. Difatti là dove in
quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a due soli personaggi; in
queste in vece si allarga ad eserciti. Ma se Dion. non ofi"re grandi
difficoltà, quando si conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli
Arcadi di Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d.
Bom.); per contro Gellio è oscurissimo, Cacus, ut Gellius tradidit, cum a
Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio
Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et unde venerat
redux, praesidiis amplioribus occupato circa Vulturnum et Campaniam regno
oppressus est. Megalen Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo
docti. Il carattere che sùbito appare più evidente in tal racconto è il
travestimento erudito razionalista; cosi che, se esso anche avesse a
contenere forme ignorate del mito, le conterrebbe certo sotto un velame.
Inoltre vi son tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti,
i Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche righe,
ed è difficile che una schietta e unica leggenda originaria accosti per
tal modo tanti popoli. Ora fin che Gellio fa combattere Ercole contro un
Caco insediato sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino,
possiamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a imagine della reale
storia e si valesse a ciò p. e. della prima Sannitica inventandone un precedente;
che non si scosterebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio
la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E non
è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da un mito cumano o
campano (il passo di Festo s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e
nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e i Sabini, si
ricava dalla " disciplina augurandi, trattarsi d'una secondaria e
piccola leggenda etiologica o etimologica che qui viene inserita per ignoti
motivi. Quando in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii
(Tarchone) che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per
qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui un'elaborazione
di quella leggenda istessa la quale è ritratta, sotto forma mutata, in alcuni
specchi etruschi [KòETE Etruskische Spiegel V tav., Rilievi delle
tirne etnische; Petersen Jahr. D. Instituts; De Sanctis Elio;
MuNZER 0. e. e Rhein. Mus.] e il cui nucleo dovrebbe consistere
nell'assalto proditorio contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che
difficilissimo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere se
anche per i Marsi si debba attribuire la loro presenza al desiderio di foggiar
il mito su lo schema della storia, come ci parve probabile per i Campani;
o alla contaminazione d'una terza leggenda con la latina e
l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rappresentano
bensì un unico atteggiamento di fronte alla leggenda di Caco, come vuole
il Mùnzer, ma ciascuno ne esprime una forma diversa. Il primo si serba
vicino alla poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire
la fiaba che sarà poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo, il racconto che
narra Livio. Per ciò Dionisio dopo aver esposto il mito assai similmente
a LIVIO (si veda), dà il suo àAri- éazeQos Myog come un'interpretazione
del fiv&ty.óg = liviano: dà, in somma, il racconto razionale
dell'anna- m. - l'abigeato di caco lista pili tardo come
ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista più antico. Allo stesso modo
che Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al testo
vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cóme vedemmo in
principio) si combattono intorno a Caco, è da preferire quella che crede
ad un antico mito latino» in quanto tien maggior conto di tutte le
testimonianze ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e
coerentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mùnzer e
compiendo il breve disegno del De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che
in tre strati (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)
si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è elaborata con
diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un annalista; l'una e l'altra
forma vengono, nell'età succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn,
Gellio. L'età augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato,
Dionisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste
manifestazioni. Cirene mitica. Bibliografìa e metodo. Il complesso dei
miti raccolti attorno alla figura di Cirene è studiato già da Theige Res
Cyrenensium etc. (Bafniae) che raccolge i materiali e, in comparazion dei
tempi, seppe vagliarli. Trova poi trattazione minuta ed accurata per
opera di Studniczka Kyrene, eine altgriechische Gottin (Leipzig), che la
stessa materia rielaborò in RoscHER Lexicon; e di Malten Kyrene,
sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen in Philologische
Untersuchungen, del Kiessling e Wilamowitz ove è tenuto conto anche delle
ipotesi brevemente enunciate da Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol
nella forma diverso si vegga questo capitolo negl’Atti della R.
Accademia delle Scienze di Torino. Qui appare con un'ampiezza più
dicevole, che lo spazio ora consente. Dopo i quali non si vuol
citare che lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche
in Ausonia. Indipendentemente il Costanzi ed io abbiamo nel medesimo
tempo assunto una stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale
si contrappone in modo reciso a quella dei nostri predecessori. A
prescindere di fatti dalle particolari discrepanze che ci dividono, noi siamo
concordi nel non " voler cercare un significato recondito nei miti
(Costanzi) p, oom'io mi espressi (Atti), nel non volervi cercare la
chiave delle più antiche vicende greche in Tara e in Libia. Là dove in
vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter spiegare la leggenda di Cirene
senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalobeota in Tera; e Malten
pure stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia
fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelopico direttamente venuto
dal Tenaro recando e figure divine e fogge linguistiche; mi assumo in
vece di provare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra cui
sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti a spiegar del
mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio in stadio, l'evolversi.
Determinato cosi il mio antitetico punto di veduta, passo ai
particolari. La ninfa Cirene. Dopo che il Malten ebbe dimostrato contro lo
Studniczka la natura libica di Cirene e la vera origine del nome e del
suo essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su questo
punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a me mosse, avverso tale
tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua
let- Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen Lokalbezeichnung
einer Quelle (Kyra) genannt und erst nachtràglich mit Aristaios in
Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar,
wie dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist, friih mit der
Pyrene von Kreston verwechselt worden, war aber gewiss ursprùnglich von
ihr verschieden, und es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die
Mutter des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es kommt
hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten Ismaros, auch von Orpheus,
Eurydike und Aristaios die Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im
Schiffskatalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn des Troizenos.
Nicht weniger als vier Namen der kyrenaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos
und Diomedes, kehren auf ganz engem Raum an der thrakischen Kùste wieder. Dass
die Verbindung dort eine ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier
mit einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden
Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten; Studniczka). " Aber nicht
genug damit. Auch in Kroton ist ein Kyrene (als Mutter des Lakinios)
bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte ist aus
demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit Wahrscheinlichkeit zu
schliessen. Diomedes ist fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht
bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue argomentazioni non
potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con cui ebbe ad
esprimermele. Del che ogni lettore intelligente gli terrà, credo, il dovuto
conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto
studioso sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la
propria Jambl. vii. Pijth. (N. d. Gr.). CIRENE MITICA aber doch
fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem glaube ich entnehmen zu durfen:
dass Kyrana und seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen,
UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder der
Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im griechischen
Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein mùsete von Griechen
tìbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und Diomedes
in einer ausserordentlich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden.
Aus Grùnden, die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich
ùberzeugt, dass die Verknùpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes
Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes
Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von wo jener
nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst
auch in Kyrene sassen, will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube;
aber dass diese Bruchstiicke troizenischer Sagen den àltesten Bestand der
Ueberlieferung von Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. Ora, per
dimostrare in modo esauriente che da Trezene il complesso mitico di Cirene
Aristeo Diomede ed Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in
Libia; bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio a
Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il ritorno
non dubbio, scevro da possibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle forme e
nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo
alterarsi non sia ben motivato. Il carattere spaziato è introdotto solo
nella trascrizione. Sul primo punto il Gruppe si scusa di non
insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si sarebbero
potute raccogliere tracce di due al meno fra le quattro figure la cui
presenza è riscontrata in Cirenaica; Aristeo e Cirene. Tuttavia
farò sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si basa la
supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone: il nome di un nume
notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova assolutamente nulla
intorno al culto locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente
da mantenere la forma Cirene per la madre di Lacinio, non sia da correggersi in
Pirene (Maltes; cfr. Serv. a VIRGILIO (si veda) Eneid. Localizzata di
fatti Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole, reduce
in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia dei Romani), non è
improbabile che a Crotone si riprendesse il mito di Eracle contrastante
con i figli di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo
l'eponimo del Lacinium promontorium li presso. Ma se mal sicure son le
tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE, altr' e tanto incerte son
quelle che Gruppe ne riscontra in Tracia. Si sa che nel testo di
Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij
in IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi permutato
Cirene in Pirene. E poiché pare molto improbabile che in paesi limitrofi
sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie
di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera e
Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede; credo
d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la supposizione che, corrottosi
Cirene in Pirene, ne derivasse il nesso con Ares con Cicno e con Licaone.
Ma né questa ipotesi è semplice, perché presuppone un originario
nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede
un ampliamento Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone né è in alcun
modo giustificata, perché, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte accennando a
Cirene in Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente
ricorrendo persino a contorte vicende. Più semplice e giustificata la
supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia
di Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari
Aristeo in Maronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per opera
de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi è congiunto con
Dioniso; perché non si debba ritenere ch'egli non fu importato insieme con
Diomede e la supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto
indipendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde difi'erenze
fra il tracio Eufemo re dei Cleoni, e il beota Eufemo figlio di Posidone,
o il tenario figlio del Fai^oxog. Or come né in Crotone né in Tracia
Cirene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fondatamente asserire che
in Libia Diomede non ha radici profonde: su quelle coste di fatti
naufraga bensì, a simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e
a simiglianza degli Argonauti; ma sol tanto perché quelle coste sono,
nella tradizione poetica dei vóaioi, il luogo tipico delle fortune di
mare: in Argo quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata
leggenda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare. In breve,
Aristeo e Cirene son dubbii in CROTONE, dubbii in Tracia; in Tracia
l'Eufemo non è con certezza identico all'avo dei Battiadi; in Libia Diomede non
esiste. Per di più, oltre ad essere incerta la presenza di tutt'e
quattro i numi in CROTONE in Tracia in Libia, non si capisce, se, come
vuole Grappe, tra quelli lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e
diffuso poi altrove, perché a CROTONE il perno del mito sia il
APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea
fondamentale della leggenda sia la discendenza di Diomede da Cirene, mentre in
Libia il nucleo è costituito dalla commessione Cirene-Aristeo. E né pure
si capisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a Crotone,
Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e per converso qui si scemi
quasi al tutto la persona di Diomede, la quale là campeggia. Tutta la
fisonomia della leggenda si distrugge e si trasforma: senza causa
evidente. Non posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe; e
resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a
studiare la seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade
dubbio che Apollo e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli
artt. di Wide e Hofeb in Roscheb Lex. Ma per il mito di Cirene è di
somma importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta
già in Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse
soltanto in Cirenaica (cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il
culto di 'AnóÀXoìv Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche
fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv... ol
fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig ...èneTÉÀovv : e cfr.
gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due ipotesi sono possibili :
o che in tutti quei luoghi ove il culto appare di sufficiente antichità
la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo;
o pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro
originario nelle altre sedi del culto. E questa ipotesi com'è più
verisimile e più semplice cosi ritengo preferibile all'altra. CIRENE
MITICA Né offre difficoltà nello special caso di Tera e
Cirene, giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen
Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico di Apollo-Carneo non
è imprudente o arbitrario il supporlo già sussistente nella seconda metà
del sec. anteriore. Né a tale ipotesi è contrario Malten; il quale scrive:
Gewiss ist die Verbindung ' ApollonKameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes
willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und
hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se non che egli non trae
da ciò l'unica deduzione che è logicamente possibile. Poiché difatti tutta
l’lliade (prescindendo dai più meno antichi strati) dimostra il carattere
preminentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del santuario
delfico e della sua preponderanza famosa è ben riconosciuta dal Beloch
Griech. Gesch.; se si ammette che già in Tera Apollo prepondera su Carneo, si
da mutar questo in suo epiteto; si ammette a un tempo che i coloni dori
pervenuti in Cirenaica avevano ormai alla loro principale divinità riconosciuto
un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto del tutto superflua la
opinione che un tal carattere a quella non venisse attribuito se non
neWEea di Ch'ene. La quale appar quindi non la causa del fondersi insieme
i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un effetto di esso, cui tengon
dietro in proceder di tempo e per medesimo impulso Pindaro con le sue
Pit. IV e IX, Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo. Dove
appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato, crediamo, dalla terza
figura su cui è costituita la saga: Aristeo. Aristeo. Non è qui
opportuno studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale
raccolto dal Malten e negl’Atti dell'Accad. di Torino. Il
culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi. Aristof. Cavalieri
894, Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (ràv 'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig
ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra
due possibilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo il
suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia) e a causa di esso; o
pure perviene in Libia prima di quella connessione e la determina. Tra le
due possibili ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una
vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole dell'Egeo,
quali Ceo Chic l'Eubea, e
l'Arcadia: onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche
strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse culto, vero in
Libia pervenisse con quei coloni che nel principio del sec. VI, regnando
Batto II, da l'isole e dal Peloponneso si recarono ad accrescere il
primitivo manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si può
obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto teraico di Aristeo
sia provato: che troppo poco conosciamo in proposito e molto in ogni caso,
restando nei più bassi strati, non emerse alla superficie storica.
Contro la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che cui risale
la Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per l’Eea di
Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si commettesse con Apollo
(protettore della fonte) e con Cirene (vincitrice del leone); a quel modo che
nessuno Cfr. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos Diss. Giessen
stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con Zeus in Arcadia:
cfr. Malten. L'analogia è sufficiente motivo. Stimo in fine inutile
discutere se Aristeo sia da vero originario di Tessaglia. Basti che nel
mito nostro egli è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva
avere un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito venne
a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo ove potesse connettersi
con Gea e le Ore. Ma questi punti riescono di minore rilievo a confronto
con quelli che riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il
delfico Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire
nelle sue linee principali il componimento da cui quelle tre figure
vennero collegate in racconto: l'Eea. La ricostruzione dell'Eea di
Cirene. Convengo col Malten che le fonti cui dobbiamo attingere più
direttamente per la ricostruzione dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro
Pit., Esiodo t'r. 128 Rzach^, Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO
(si veda) Georg. = Esiodo fr. Rz., Apoll. Rodio cui vengono aggiunti se
bene per la loro sommarietà non sieno di grande valore, Timeo appr.
Diod., Nonno Pan. Dionis. (Malten). Quanto poi al modo di usar
cotesti sussidii, mi sono attenuto a due criterii fondamentali. Il primo
è il piti Malten lascia in dubbio ob der Gott schon in der kyrenàischen
Lokalsage zum Sohne der Kjrene wurde; ma, per amor della sua tesi,
asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte Kyrene das Gefallen
des Gottes. hr Sohn ward Aristaios, elementare : ritenni originario
tutto che ritornasse costantemente nelle diverse forme assunte dal mito e
riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più complesso. Fu
dimostrato poc'anzi che non può venir attribuita all'Eea la mischianza
de' caratteri proprii di Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è,
chi ben guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,
Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tessaglia av'era ben
radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non Apollo, dev'essere
stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a
trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto del
giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno sfondo
tessalico, è legittimo ritenere, ed è pure ovvio, che essa contenga più
propriamente tutti quei particolari i quali più propriamente sono con
Aristeo connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è
il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è probabile, vi aveva la sua
ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone. D'altra parte la
figura di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante
perché traverso essa e per sua causa non dovessero penetrare nella favola
personaggi ed episodii a lei aderenti: i quali per ciò è dicevole
attribuire meglio che al canne esiodeo alle sue più tarde
propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi
risultati; Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti; Ipseo è nato da Creusa
(una Najade) e dal fiume Peneo: cfr. Malten. Lo storico cirenaico
Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia
del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si vegga inoltre,
Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea di Studi critici offerti
a C. Pascal, (Catania). CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da Filira,
madre di Chirone. Se non che questa variante è sospetta, come quella
che tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chirone nelle
nozze tra Apollo e Cirene: intervento che spiace a Pindaro pure e
Apollonio tace: là dove il centauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso
con Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge la ninfa
nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone è
ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da Apoll. R.: questi l'introduce
nell'officio di pastorella. Il Malten resta per ciò incerto su l'esistenza di
essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si. L'esame del racconto di
Apollonio, che si fa più sopra, mostra come esso si allontani assai
dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al quale
adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della lotta che
troppo male consentivano al paese tessalo. Chirone profèta le nozze
del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col quale ove si ammetta che
Pindaro tenti invano di ribellarsi all'Eea su questo punto, ne consegue che
Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro
allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non la prosecuzione di
quel tentativo. Ciò è confermato dal doppione che ne risulta : Aristeo di
fatti sarebbe in Apollonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii
essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; inserto quello. Apollo
trasporta la fanciulla in Libia sul suo carro (Malten). Cirene è accolta
da Libia. Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai
vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten. Mi parrebbe quindi
sofisticheria l'insistere su la lieve dissimiglianza. A ogni modo, se una
forma fosse da preferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai. vófifat
sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in cui dal nome di Libia il
concetto di persona, sostituito pili fermamente da quel di regione, si è
al tutto ritirato; mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come
mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite. La quale all'Eea non
apparteneva certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog
'AtpQoóczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit.) e a cui si può
riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr. Malten); giacché non
trascurabile culto a essa dea si doveva rendere, se quando fu fondata
Evesperide venne presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio
(Steabone). Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R.
Pindaro Pit. attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione,
a scopo esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.
l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton. LiBEB. XXIII. E se
un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione Ermes per ordine di Apollo
reca Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo è allevato dalle Ore e da
Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio si serbi in Pixd. Pit. IX
60 che in Apollon.: però che tre sieno, principalmente, le varianti
poetiche dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di
Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica che introduce le Ore; la terza di
Apollonio che ricorda le Muse; varianti delle quali la prima troppo
strettamente Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del
carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'alterazione dovuta alla figura
di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana è pertanto preferibile.
(Ciò contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che le Ninfe di
Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un trascorso impreciso dell'autore che una
vera e propria vaA. Fersabi>-o, Kalypso. CIBENE MITICA riante.
Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone ed è avvicinato a Zeus {Zevg
'Agiaiatos) e ad Apollo (cfr. Malten). Nel complesso adunque Pindaro
pare, a mal grado delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili
vicino all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello. Un
confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Aristeo) ci offre l'Eea di
Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v. ): cfr. Malten che
qui si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide) è nume
salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini tessaliche del culto
di Asklepios in Rassegna di Antichità classica contro Kjellberg
Asklepios, mythologisch-archdologische Studien in Sàrtr. u. Sprakv.
Sàllsk. forhandl. Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli somiglia
nell'aspetto di divinità salutare e sanatrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} e
Wilamowitz Isylìoi. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio;
poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che, secondo crediamo,
prima si congiunge Cirene con Aristeo e poi la si trasporta in
Tessaglia. Riassumendo dunque in breve i risultati di queste
ricerche, abbiamo: che Cirene è nome libio-greco della ninfa che protegge
e abita la fonte dedicata ad Apollo Carneo; che Aristeo tessalo,
pervenuto, durante il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a
Cirene; che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia;
che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene ottenendo
un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide, tale quindi da potersi
ricondurre al medesimo centro d’elaborazione mitopoetica. Euripilo ed
Eufemo. Le due principali figure del racconto di Pindaro Pit. han dato
occasione alle più diverse ipotesi: cfr. Studniczka e Malten. Il farne
oggetto di minuto esame gioverà a preparare risultati atti a spiegare e
ricostruire quel mito cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito
della ninfa Cirene. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di
Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in Misia, figlio di Telefo e
condottiero dei Cetei; in Acaja, Pads. Ora è probabile che l'Euripilo di
Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. WilamowiTz Isyllos
52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti gli altri sono
indipendenti. L'Acaico viene bensì da Pausania identificato con il
Tessalico; ma è notevole che altri già allora combattevano questa teoria:
iy^aipav de i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà
siqrijtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p
PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég "lÀiov TiaQÙ
Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Evidentemente gli eruditi greci cercavan di
precisare l'origine dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed
era ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Euripilo di
Tessaglia. Il re dei Cetei è da Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che
Keteig possa ricondursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne
senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe esser stato
connesso con quelli dopo il loro trasporto in Misia; il che par
dimostrare la nessuna traccia da lui lasciata in Arcadia al contrario di
Telefo e Ceteo. Sarebbe quindi da
ritenere probabile l'esistenza indipendente di un Euripilo in Misia. Alla
schiera adunque Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens. di
questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia) viene ad aggiungersi
l'Euripilo della Cirenaica. Contro i tentativi di ridurre l'uno all'altro
i quattro omonimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manifestazione,
varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima unica tendenza mitica; la
quale ci è dall'etimologia facilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell'
" ampia porta „ infernale. Era ovvio che questo comune
concetto, questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato
presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli appare presso la
Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che impulso alla sua localizzazione
libica desse la grotta del Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania
(Torino)] che era ritenuta appunto apertura di Dite (cfr. Strab; Tolemeo
Geog., 4, 8; PLINIO (si veda). In Cirenaica Euripilo è congiunto con
altri numi da uno schema genealogico che si ritrova presso
Acesandbo [scoi. Pind. Pit.) cfr. Malten: Atlante
I PosiDONE ->- Celeno £lios I I Tritone Euripilo Sterope
Pasifae LicAONE Lbdcippo Se non che questo schema ci appare
sùbito una combinazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak.
Kul.), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. e Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo
(Eeod. eSTUDNiczKA) souo accertati in Libia da altre fonti: elementi
arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce (cfr. Maass Hermes e
Studniczka). A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di
Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi., Apoll. Bibl.) è padre
Posidone e madre Celano, Atlantide. E il nostro erudito ha serbato la
genealogia, inserendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una generazione :
Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e
l'altra vicina. Sorella di Celeno è Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e
questa offre all'erudito lo spunto per introdurre Pasifae e con lei
Elios. Sia però questo o altro il procedimento seguito dall'autore dello
schema, a ogni modo esso dimostra niilla più che già non sapessimo :
l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che
le attinenze commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi :
a quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se non la
costanza con cui un unico tipo di nume ctonio fissa la sua sede in luoghi
diversi col favor delle condizioni geografiche. 2. Eufemo è nel
mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con
Tera con la Libia. La connessione con Lemno è una conseguenza della sua
qualità di Argonauta: sta e cade con questa. A Tera non v'è traccia di
lui, e anche il mito vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o
Sesamo {scoi Pit., scoi. Apoll. R.). Resta adunque ch'egli sarebbe
nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi
di Cirene per vantati discendenti. Ora in Beozia v'è traccia della
sua supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non v'è, ch'io
vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non originario di quella
regione, egli sia tuttavia caratteristicamente beota. Col che si connette la
sua presenza in Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia
: a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti beotici e
tessalici. Ma perché i Battiadi ne avrebbero fatto il loro capostipite?
Lo Studniczka pensa che i co[CIRENE MITICA] Ioni recassero quel nome con sé
daTera: il Malten che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne
facessero il proprio avo. Costanzi mi par ben più vicino a una probabile
ipotesi: I Battiadi stanno ad Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene
e gli Euripontidi a Prode; come, soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille,
i Pisistratidi a Nestore. E queste analogie ultime, a punto, possono lumeggiare
il fenomeno cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di
Nestore; Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille
nell'epopea: e similmente ArcesLlao, appellativo di quattro re di Cirene,
è un eroe beota nelVIliade (cfr. Pads.). E se è errato sostenere col
Mììller Orchomenos che di Beozia fu tratto il nome, non è però
arrischiato l'asserire la possibilità che il nome beotico abbia attratto
l'avo beotico. A ogni modo, quand'anche restasse oscuro il preciso motivo di
tale genealogia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio, le due
ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzionate al fatto che vogliono
spiegare. Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Colà non è traccia
di Eufemo che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,
importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide Lak. Kulte). Non
solo, ma i caratteri di Eufemo (si ricordi eicprjfielv, e il suo
significato religioso) son più vicini a quelli di Apollo (Stodniczka) e,
in genere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che a
quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo ritennero Eufemo p. es.
Studniczka e Maass (Gòtt. Gel. Anz.; Orpheus) solo sul fondaBen
altrimenti Gruppe Gr. Myth. I rapporti di un nume o eroe con Posidone non
implicano senz'altro un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti
ha mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :
fondamento per cui s'indussero anche a forzare il significato di
eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto, eufemistico in
luogo del nome pauroso della divinità ctonia. Tutto ciò cade, se la
localizzazione al Tenaro risulta artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che
l'affinità fra Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste
osservazioni, si legge la Pitia, vien fatto d'interpretarla nel seguente
modo. Ai discendenti di Eufemo quattro punti si dovevano necessariamente
far toccare, tre forniti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il
Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene: a Lemno abbiam già veduto
Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spiegare il soggiorno nel
Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'inventò lo smarrimento della
zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo èfiglio,
in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto di Posidone Geaoco,
Eufemo fu localizzato al Tenaro. Interpretando in tal modo tutto si
spiega: ed è questa ipotesi molto più semplice che non quella del Malten.
Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo, e ovvio che i tardi
genealogisti si preoccupassero di introdurlo nelle genealogie laconiche;
difatti lo troviamo nipote dell'Eurota (Tzetze Chil.); o figlio di
una Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una Laonome sorella di
Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar peso a tali genealogie, e
in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle
indipendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre è
arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo attinenze cultuali
anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri. Akad. Wiss.). CIRENE MITICA
e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif. Ora, al
Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare, già nell'Eea di lui (fr.
143 Rzach ^): se lo si deve dedurre dall'epiteto di Fairioyos che vi si
trova e che è quello con cui al Tenaro si venerava Posidone:
fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri ^ zéxev JEvq)f]fiov
yairjóxffi Evvoacyaiq) fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov
'Aq)QodÌTi]g. Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino
fav.; Acesandro e Teoceesto in scoi. Apoll. B.. Se dunque è vero che la
localizzazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Battiadi), cotesta
Eea non può esser che sotto l'influsso cirenaico. La qual cosa spiega o può
spiegare per analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più
propriamente) di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E
poiché l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singolare (in
quella di Aristeo come padre del fanciullo, in quella di Eufemo come
ecistère), avremmo in esse un modello del come in Delfi si servissero
gl'interessi d'altre regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per
trasportar Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,
per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece
Malten Crediamo adunque di aver mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta
ad alcuna regione ma solo a un comune concetto mitico dei Greci, e che
Eufemo beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,
certo è estraneo al Tenaro. Al Malten pertanto che afferma Euripilo ed
Eufemo costituire eine Reihe, die ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im
sudlichen Thessalien hat, e con l'uno d'essi collegarsi intimamente [EUBIPILO
ED EUFEMO] Atlante e Posidone, urpeloponnesisch, possiamo rispondere di
aver troncato a quella " Reihe per Euripilo r Endpunkt, che sta in
Tessaglia, per Eufemo l'estremità che si fissa in Libia e il centro che
si posa sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo, reciso i
nervi a quella teoria. Del pari cadono le analogie con cui la
rincalza. In LicoFEONE naufragano su la costa libica Euri pilo (ma
figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo magnete. Onde
Malten sostiene che il naufragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda
cirenaica (LicoFB., Apollod. a Wagner): e rintraccia poi quegli eroi a
Creta e in Tessaglia. Noi però abbiamo già osservato a proposito di
Diomede che nei vóaroi la spiaggia libica appare il luogo tipico dei
naufragi e che quindi tali leggende son da ritenere indipendenti affatto da
Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per contenuto
all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un Euripilo senza avvertire
l'esistenza in quei luoghi di un omonimo, rilevante figura locale, ci
conferma nella nostra opinione, e prova contro il Malten che Guneo e
Proteo non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,
per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste Kette
von Beziehungen zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien
andererseits, die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non
che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero
attinenze in quanto quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece
dono di una zolla libica. A noi quindi, che analizzammo
partitamente le due figure, non resta che studiare la trama
narrativa in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argonauti
in Libia. CIRENE MITICA Gli Argonauti in Libia. Poiché su
questo punto io profondamente mi allontano dal Malten terrò più minuto
discorso. A quattro redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro
Pit.; Erodoto; Licofronk; Apoll. Rodio; e tutte bisogna
esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con Medea
dall' Oceano sopra l’Argo, debbono per dodici giorni trasportare la loro
nave su la terra deserta fino al lago Tritonio, ove nel punto della
partenza appar loro Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di
Giasone, una zolla: fatidico dono. In questo racconto non v'è nulla
che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla quindi che non paja
inventato per il loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago
Tritonio, il quale è l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti
questo il lago, di cui Strab., presso Berenice (Bengasi) che esiste
tuttora (i laghi salati). E non si vede bene, svibito, perché per
l'appunto quel lago venisse scelto per il dono. Né Euripilo poteva esser
causa della preferenza; però che paja invece piti probabile il contrario:
Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra parte
difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat- tiadi, sarebbe stato
fatto Argonauta, ove con tal mezzo a punto non lo si fosse potuto far
giungere in Libia: il che lascia supporre che in Libia una leggenda
più antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possibilità adunque,
nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude Tritonide
debba risalire a un nucleo mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri
suffragi. Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una
interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si potrebbero
moltiplicare. Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esiste una
MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi
Giasone il quale tentava circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito
naufragio, per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente
trasportato senza possibile uscita fuor dalle strette del lago. Ma
Trìtone apparso trasse di rischio la nave, dimostrò la via, e ricevette
in dono un tripode. Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un
giomo presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città: Taira
àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat, TÒv zQLJioòa. Qui
sono due particolari ben distinti : il dono del tripode per ottener lo
scampo, e la profezia. Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte
non ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli
altri CosTANzi 0) un riflesso del tentativo com- piuto nel Cinipe fra le
due Sirti dallo spartano Dorieo. Ma il dono del tripode non è che
fittisiiamente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo: suo
vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone la via. Il resto è
superfetazione più tarda. Da ultimo è notevole che ritorna ancor qui il
lago Tritonio, localizzato però non pili presso Berenice ma nella piccola
Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno è
recente, e non risale più in là della spedizione infelice di Dorieo:
appartengono a questo la profezia di Tritone e il valore fatidico dato al
tripode. L'altro è assai più antico, e preesiste a Dorieo: gli
appartengono i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono
di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, grossolanamente,
al nucleo che ci parve originario in Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da
vicino questi elementi simili. Identico è il nome della palude; ma
diversi sono i luoghi: tuttavia più vetusta appare la
identificazione C'IBENE MITICA con il lago dell'estremo occidente
nella minor Sirte (cfr. RoscHER nel Lex. e Costanzio.). Identico
l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e non è dubbio che
Tritone, aderente com'è al lago stesso, risalga a pivi vetusta forma che
Euripilo, figura recente dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un
dono, ma la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo degl’argonauti
si convenga il dono che serve a favorire il viaggio, più tosto che quello
il quale prepara, a tutto vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia.
Lo strato adunque più antico d’Erodoto appare alla nostra analisi come la
forma su cui vennero foggiate: da un lato la leggenda cirenaica a prò dei
Battiadi, con alcune alterazioni dicevoli; dall'altro la leggenda
spartana in favor di Dorico, con altri mutamenti opportuni. Se
questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e Apollonio. Licofrone
dice dei naufragi di Guneo Proteo ed Euripilo presso Tauchira (città
della Cirenaica non lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon
già gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda giace
fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Kivv(pEiog ^óog (il Cinipe,
cfr. Malten, che fluisce, in vece, fra le due Sirti, molto lontano di
li). Agli Argonauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere, per
compenso del quale egli insegna loro la via, e profèta che i Greci
colonizzeranno quella regione, allorché riavranno il cratere. Onde gli Asbisti
{= i Libii) impauriti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il
cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena son quelli
medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il
Cinipe, sono della Cirenaica. Né il Cinipe turba gran che l'armonia:
questa irrazionalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il
mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI IN
LIBIA] Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che in una
fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner
= scoi, a Licofr.) (contro Malten). In breve, Licofrone contamina;
mischia insieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto
sirtico-spartano del mito. Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso
gli Argonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare
per dodici giorni le navi verso oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso
cui a loro impediti nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo
una zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati: il
tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo (= Giasone, in
lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte) è cosi
conscio della contaminazione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi)
congiunge con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a
oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella, di cui Pindaro,
fra l'Oceano e la palude Tritonia. Né coteste contaminazioni erano puro
effetto dell'arbitrio di poeti. DioD. narrando (qual che ne sia la fonte)
c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano d'aver rinvenuto essi il
tripode donato a Tritone, dimostra come la leggenda sirtico-erodotea, la
quale nella piccola Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata,
avesse trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro
lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre
premesse furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e Apollonio,
insieme col loro sostrato reale, par buona conferma delle premesse
medesime. Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che, nella
complessiva spedizione, occupa l'episodio degl’argonauti . Pindaro e Licofrone
lo collocano dopo la CIRENE MITICA conquista del vello : Medea è
presente. Apollonio ed Erodoto, prima. Anzi tutto va osservato che non
bisogna dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben possibile
e facile, da poi che non tratta egli esplicitamente, ma solo parenteticamente,
degl’argonauti. Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo
primitivo del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi
che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro
dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati
delle ricerche sul mito dei Battiadi. A favore di questi ultimi l'Eea di
Eufemo rielaborò un antico motivo favoloso su gli Argonauti in Libia:
conducendo quivi e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite
dei Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando i suoi
discendenti a Tera; e approfittando del nume di Euripilo, che fra i Greci
di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso
rifacimento di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifacimento riflette
sol tanto le condizioni storiche a noi note, non già altre, anteriori e
ignote. Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene crediamo si
possano mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili.
Callimaco e il mito di Cirene. Malten vede nel nesso Cirene-Euripilo la
forma più antica della leggenda, quella che l'Eea adultera. Ora è bensì
verissimo che Callimaco, come AceSANDRO {scoi. Apoll. R.) e Filakco,
storici, cirenaico l'uno, egizio forse l'altro, sente una più viva
eco e più genuina della primitiva forma mitica allorquando fa combattere
in Libia, non in Tessaglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e
intui- [CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE] tivo, che il nesso con Euripilo è
tardo. Se difatti l'Eea avesse trovato questo nome congiunto, comunque,
con quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e
Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia è invero signore di Ormenio un
Euripilo figlio di Evemone. Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e
a Pindaro, è pur posteriore alla leggenda dinastica degl’Eufemidi, già
riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione.
Par quindi legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che
la sua figura ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degl’argonauti
su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia una posteriore
forma indigena della leggenda che è oggetto del nostro studio; a quel modo che
VIRGILIO (si veda) rispecchia una posteriore forma straniera. A parte
bisogna considerare Filarco l. e. per la frase di lui fievà jiÀeióvùìv:
Cirene di fatti sarebbe pervenuta in Libia non sola ma con molti.
Analogo, se bene un po' diverso, è Giustino: mandati dal padre di Cirene,
Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fermati in Libia con la
fanciulla, loci amoenitate capti. Ora, come Callimaco fa trasparire un
mito ove la favola di Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si
compenetrano in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo
stesso indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo,
bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che vengono
imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi di questo processo
mitopeico sono: Euripilo è in Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi,
vi giunge ; dunque molto prima di Batto; Cirene è in Libia rapita da
Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto; Cirene ed Euripilo ebbero
rapporti in Libia in quegli antichi tempi) con Cirene, che ha il trono da
Euri- [OIBENE MITICA] pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma
chiaro) processo, adunque, le cui forme non si debbon confondere con le
primitive quali ci appajono nelle due Eee. Esegesi novissima. Storia e
indagine su Civette mitica soo in questo volume già per intero composte quando
apparvero di Pasquali le Quaestiones Callimacheae (Gottingae) ove
il mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo altrove una
confutazione (" Atti della R. Accademia delle Scienze di
Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola
Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical
education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not
the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of
prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere
in the Lazio”. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e
unica Roma, one and only. Mussolini’s
dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” –
The Swimming-Pool Library. Aldo Ferrabino. Ferrabino.
Luigi Speranza -- Grice e Ferrando: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di CORIOLANO, ovvero, la
filosofia – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano.
Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian –
cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di
Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more
beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore
della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il
misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come
filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e
Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze
che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni.
È inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora
con SALVEMINI (si veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce.
Espatria a New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia
e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue
più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento
more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal
tutore *come* pensare, non *cosa* pensare". RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY,
CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe. appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany
News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale
dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius
Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens
Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i
Volsci. Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin.
BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come
semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per
il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo
in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio
fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di
Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri
storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città
stessa. Q. Marcius, dux
Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit
iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum
miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem
petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe
venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic
secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato
Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti
contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da
Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati
per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre
Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E
questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria
patria.» (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della presa di
Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per
quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era
ritirata sul Monte Sacro. La situazione era poi resa oltremodo complicata
dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini, compito che
fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Fœdus
Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si
decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console
Postumio Cominio. Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando
l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata.
Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula,
Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con
l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota: L'impresa di
Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini,
concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso
a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che
Postumio Cominio combatté contro i Volsci LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra
patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la
conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la
necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino
e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del
prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio. In effetti la
contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e
patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione
dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione.
In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più
oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente
alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato
violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco
che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea. «...A
questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve
consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato
condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo
immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»
(Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu
citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di
Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in
giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo
fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo
Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al
ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i
commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna
fu quella dell'esilio a vita. La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio
scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio,
eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita
nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte
battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente
motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il
desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e Tullo
discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare
la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano
trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un
armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto,
annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o
falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto.
Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine i Volsci
decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio
Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a
dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire
che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana,
evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la
discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere
ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e
senza aver subito alcun attacco dai Romani. Successivamente, mentre Attio
proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito
contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il
montare della discordia tra i due ordini. Alla fine a Roma si decise di
arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per
proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni
dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la
rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese
Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza
che i Romani portassero aiuto a queste città. Quindi Coriolano si accampò
a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu
raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò
Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal
proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero
Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti
con i Coriolani. Leggermente diversa la versione di Livio: Quindi
conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente
sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina
tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio,
Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse
Cluilie, a cinque miglia dalla città» (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita
libri) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava
il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del
Quadraro), mentre i consoli, Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese
della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della
moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a
desistere dal proprio proposito di distruggere Roma. «....Coriolano saltò
giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla.
Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di
abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se
nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.» (LIVIO
(si veda), Ab Urbe condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è
concordanza sulla morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso
dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto
le mura di Roma. Secondo Fabio, muore di vecchiaia in esilio. Plutarco e
Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura,
capitanata da Attio Tullio, mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad
Anzio, dove è stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza
aver combattuto, da Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto
condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di
Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il
sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono
onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è
vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10
mesi. CICERONE (si veda), nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne
accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati
dalla patria.Critica storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano
rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte
dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre
che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono
giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un
condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La
circostanza che Coriolano non appaia tra i fasti consulares aumenta il dubbio
che si sia trattato di un personaggio storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco,
Vite parallele, Vita di Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite
parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco,
Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6.
Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Livio, Ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe
condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE
(si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele,
Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata
pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.),
composta per la tragedia teatrale omonima di Collin. Gens Marcia Volumnia
Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo
Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano
Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Guerra Portale Politica Sesto Furio
Medullino Fuso politico romano Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio
Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio) CORIOLANO
Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander
(Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante
suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la
“Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione
dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune
didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la
migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è
essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono
introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo;
giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano
“entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si
trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni
“Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto,
intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere
della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu”
(i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del
dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in
atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata,
spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a
cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione
dell’Alexander. CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite
parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa
Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini
politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in
guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive
nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica;
Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena
liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per
contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il
nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo; Coriolano,
all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la
massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da
Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo
è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la
cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e
plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini
sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di
Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati
capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma
pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e
onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro
derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia.
Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere
con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del
politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica
fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di
Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza
Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio
Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade,
che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e, prima
assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo.
All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza
di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo
circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo,
sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona
romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del
Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto
guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”.
Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.
CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella
guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO
GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un
araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale
dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due
sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano
VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e
volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio
ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a
Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio.
PERSONAGGI Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con
mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare
avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti,
piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno
sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo
sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo
nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. -
Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per
loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci
procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che
fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per
umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza che ci affligge
tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per
esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci
con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli, ché se parlo così,
sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!
SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio
Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il
popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha
reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene
pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria.
SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di
buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può
piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere
a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce
n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa
qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non
puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di
lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare
ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra
parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al
Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è
che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa,
un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo. PRIMO CITT. - Una
persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che
intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO
CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che
vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti
abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia.
MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!,
volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile.
MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col
più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in
questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle
in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada,
spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello
di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han
voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le
braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla
disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come
nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come
padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati
fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di
grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;
abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni
giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera
gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è
l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete
mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio
raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita, ma poiché ben
s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT.
- Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il
nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le
membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo:
restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo
come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il
lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare,
a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una
con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il
corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta
dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro
un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui,
così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo
egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate
invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i
nostri senatori perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La
risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio,
vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la
gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con
tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra
fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola
mia, costui si parla addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa?
PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la
fogna del corpo... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se
questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre?
MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come
vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi
bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le
parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari
consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi
sostentamento; ma è giusto e logico che sia così dal momento ch’io sono il
magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io
lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della
corte, al cuore, al suo trono, il cervello, e, attraverso i tortuosi
labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli,
e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose
d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...”
- attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT.
- Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò
che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a
posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non
resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era,
questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori
di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in
generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi
quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti
riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al
Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del
piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO -
Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta
saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior
sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio
personale! Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i
batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa
quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te,
nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia,
che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione
siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te,
Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse,
sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né
pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli, l’altra vi fa sfrontati e
tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si
accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno
fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un
granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito
per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi
merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo
o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò
che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se
nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una
quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni
minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi
era prima il vostro eroe. E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per
le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a
mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che
van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città
n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo
accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in
Campidoglio: chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi
declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze
immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate
calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i
nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me
d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi
miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno.
Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti; perché se pur son
largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente
vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria. MARCIO - Si son
dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a
sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han
diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per
i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il
loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una
lor petizione... una richiesta assurda, da spezzare il più generoso
cuore, e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare,
gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni
della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque
tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque
è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più. Ma, sangue degli
dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare
tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian
pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione.
MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a
casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio
dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i
Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di
tanto nostro ammuffito superfluo. Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano
COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO
PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i
Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi
darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da
quello che sono, vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete
già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con
l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di
fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la
caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa
guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi
vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai?
Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici?
Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma,
piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano...
PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad
attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti
a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza.
COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla
folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I
Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor
granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive.
Seguiteci, vi prego. (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti,
meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo
Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni...
BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi? SICINIO - No, notai solo le
sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad
insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna. BRUTO - Se
questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere
altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli
fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a
mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto
docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente
aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per
serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo;
così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur
egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto
gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se
l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce
della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio
d’ogni merito. BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a
Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma
muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come
intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO -
Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni
SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a
conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo
pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad
effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche,
meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio...
Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual
destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande,
“e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il
vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un
romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione,
dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in
allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da
Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una
follia creder che i vostri piani di battaglia avessero a tenersi sotto
chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29);
invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa
brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte
città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT.
- Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi
di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze
per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro
di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa.
Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e
soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo
incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI
- Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. -
Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una
parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e
VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno
mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio
sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore, che averlo a
letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere.
Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la
sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una
madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe
fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della
gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse,
sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero
felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse
incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno
col capo cinto di foglie di quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non
sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio,
quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA -
E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei
serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei
ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici
figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio
buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della
patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle
fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria,
per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei
ritirarmi. VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire
qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in
terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui
come bambini alla vista dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così,
e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e
asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar
pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il
campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?...
Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro
sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore
bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava
sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui
pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA -
Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui,
che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo
piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno
a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti.
VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro: che
ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti
ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire
tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il
figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad
osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo
punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò,
poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e
giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse
urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana.
E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA –
È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA -
Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la
parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA
- Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no,
perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia
tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu
t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica
che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto e le
sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA
- Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca
affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta
quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di
tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo
dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su,
devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò.
VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di
tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne.
VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA -
Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore.
Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con
una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono
accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e
concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque
avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa,
mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto. VOLUMNIA
- Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che
rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora,
arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia)
Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non
insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio.
(Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA
L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con
un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa
loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati.
LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO -
D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro
generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma
scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro.
LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per
cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città. MARCIO -
(Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e
mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio
della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla
svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor
fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua
squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due
SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città?
PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno
che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano
a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in
trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano
sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da
sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è
là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro
dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore
sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente
dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura
una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli
scudi, all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a
spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia!
All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò
per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di
battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce
combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco
di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi
ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi
possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime
d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a
un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di
sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le
facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi,
scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi
combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo
alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati
alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani
hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino
alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni
inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a
gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO -
(Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da
folle, io non lo seguo. SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la
porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola,
sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso,
generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che
fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la
porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega!
Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti,
se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura
luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso!
Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e
tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido
della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il
mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante,
inseguito da soldati volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma
quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui!
(Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V -
Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle
spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa
roba me la porto a Roma. SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO
SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo
preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra
CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i
soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo
sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40)
per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini,
cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le
portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo
a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti,
senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo,
Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di
Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti
servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di
farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile
Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO -
Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di
sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a
Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna
innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te
le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non
meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna decide di
portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’,
recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della
città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono)
SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in
ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti!
Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza
vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci
scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei
nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria,
come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti,
incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di
ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli,
han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio.
Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro
trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio
così. Da quanto tempo sei venuto via? MESSAGGERO - Da più di un’ora.
COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco
si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a
percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle
mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a
fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei
recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è
laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio!
L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo
tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di
quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO -
(Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta
tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti
abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia
ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le
fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i
guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad
emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi
accettando il prezzo del riscatto, con chi indulgente, con chi rigoroso;
tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da
lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel
miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva
ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare.
T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli
han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati
più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per
spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare,
padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora,
Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati
di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il
loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è
dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più
affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti
supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che
insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi
trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad
attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di
spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia
condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite; ma non saprò
giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti
nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti.
(Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui
piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se
c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa
che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più
che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla
come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir
Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio
sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate
una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale
di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al
grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi
debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa,
quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in
bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi.
COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete
sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e
di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli TITO
LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per
recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri
soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate.
Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle
centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per
poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla.
LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e
chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci
fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme
d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con
nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore
spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più
della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un
solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in
eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre
abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo
ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto
quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è
mio. Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu
vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa
progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci
accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi
soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto
m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di
tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi,
segnale di ritirata Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra
MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel
che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo
riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad
ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro
increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti
d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi
tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a
malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”.
Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso,
avendo già mangiato a sazietà. Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno
dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio)
Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi
visto!... MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha
il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi,
mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi
animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato
con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me.
COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto
vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento
peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata
sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della
realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che
tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro
esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare.
COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine,
curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam
catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo
ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere
liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale,
grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco per
pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che
hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga
fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance.
Cominio e Larzio restano a capo scoperto) Questi strumenti che voi
profanate non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son
ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le
corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa
così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di
guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che
sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che
molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi
portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che
tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa
di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama
che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace,
però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad
uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi
sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti
qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa
sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto
il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha
compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido,
si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii sempre degno!
TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio
Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso poi che l’avrò
pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio.
(A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai
dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO -
Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a
Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a
Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e
nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a
prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed
eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già
concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta
fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto
adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è
apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti
chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto!
Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A
Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli
dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata... Non avreste
del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni. Il sangue
sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) Il
campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue,
con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone
condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non
sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a
discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto
cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son
sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa.
Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a
faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo
d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro
spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà
buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più
ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a
soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a
fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o
infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia
d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio
per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li
sostiene. Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia,
pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità,
laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città, informati
in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli
a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono
aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i
mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso
muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono)
ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO,
incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO
- Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol
bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è
loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO -
All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio
gli affamati plebei. BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un
orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due
uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO -
Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza?
BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia
provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun
altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano
in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete?
I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto
d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene,
allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta
un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la
briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto
vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio?
BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete
far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel
poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da
soli. E venite a parlare d’alterigia! Ah, poteste rivolger gli occhi in
dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza!
Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste
un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi,
prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun
altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so,
sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon
bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice
che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco
facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non
la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la
malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir
certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito
al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han
detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato
d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri
e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son
facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del
microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi
bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi
facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di
conoscerti abbastanza! MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi
stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di
misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera
mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi,
per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se,
mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser
colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle
marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia
aspettare, e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel
mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione
che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver
chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E
tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che
come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio!
MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se
son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che
sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre
barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da
imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un
basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che
Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri
antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra
coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario.
Ma buona sera alle eccellenze vostre; ché a star ancora a discuter con
voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le
cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e
VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh,
le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse
terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi?
VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci
andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì,
Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO
- (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi
il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA -
Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il
Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua.
MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi
metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te.
L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di
salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina,
la ricetta più eccelsa di Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un
beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le
altre volte. VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed
io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo
grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA -
Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col
capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere?
VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è
scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto,
io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta
custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A
Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon
meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito!
VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite
questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?...
(S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio le
salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser
superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al
braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici da scodellare al
popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo
nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e
fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata
questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca
la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con
clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta
innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta
di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui
colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e
TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi
ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto,
lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome:
Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo.
Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto,
illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO -
Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel
mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su!
Marcio mio nobile, mio degno Caio... ora che t’hanno dato un soprannome
in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!,
ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto!
Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere,
ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a
Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E
ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria)
Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A
Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO -
Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son
triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il
cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta
Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli
selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro
dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo
sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio.
CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A
Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di
ritirarmi in casa nostra(92), debbo rendere omaggio ai senatori dai quali
insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta
fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca
solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO -
Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere
loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al
Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO -
Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si
procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar di lui, lascia il
proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la
sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa e per
vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre;
su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma,
tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato
di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un
posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un
velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino,
espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98):
un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia
insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina.
SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console. BRUTO - Allora sì che il
nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato!
SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà
col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il
popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà,
alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà
lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia
nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a
console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare
la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne
i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui
piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa
richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non
desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in
conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora,
come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se
no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al
popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per
lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio
i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor
capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al
mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché
possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel
carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato
al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da
urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a
trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un
gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie;
e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al
Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in
Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per
vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro
guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti;
i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol
tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose
mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore
pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono) SCENA II -Roma, il
Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori
PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a
concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad
ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come
nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son
ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in
simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è
così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque,
riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano
in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere
ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero
non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi
in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio
più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione
perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC.
- Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è
stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e
premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza
aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene
a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta,
che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si
renderebbero certo colpevoli di una forma di nera ingratitudine. Così
come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi
da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con
sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo
luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i
SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti
sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta
in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di
richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda
di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha
combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e
saggi maggiori, a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa
dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta
esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale
siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a
tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la
parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir
prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra
repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a
voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo,
chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la
vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà
qui deliberato. SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una
materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di tutto cuore favorevoli
ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E
tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il
popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato.
MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a
stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO -
Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento
di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro
popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto.
Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e
fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO
SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te
ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi
scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad
ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio
sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole
spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate
sarebbero riuscite a trattenermi. Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le
parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per
quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei
restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse
l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i
miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi
adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro
canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora
visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo
orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO -
Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le
gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita
assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa
stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma,
e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che
voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106),
battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo
vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare
ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol
colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che
avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il miglior
soldato in campo meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie
di quercia. Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando
ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha
rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori
e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne
come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio
ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come
alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si
piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il
segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto
essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della
città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun
aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la
forza d’un fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di
nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi:
allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che
v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove
imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non
dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il
terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per
dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE
- Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli.
COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando
a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di
meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue
gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita
così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO
SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo.
Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di
nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO -
Rimane solo che tu parli al popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate
dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla
addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor
suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo.
SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un
solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare,
ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come
hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una
parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe
bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio) Hai sentito? CORIOLANO -
... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in
mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le
fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne
un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe,
raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al
nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed
onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono
entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni
vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo
capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno
che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli
di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono)
Entra un gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se
ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E
invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce
l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le
ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra
lingua a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a
noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la
nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo
mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne
facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol
poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il
grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia
dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non
perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e
chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto
penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir
tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord
e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare,
sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO
CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO
CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come
l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in
libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO
CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre
quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo,
ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie. SECONDO CITT. -
A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure!
TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche
se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però
se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai
stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha
indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si
comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per
volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a
ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il
voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare
quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai
torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han
fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego,
cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad
un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della
patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando
al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi!
Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si
ricordino di te. CORIOLANO - Di me... Loro!... Che s’impiccassero
piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di
virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria.
Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO
- Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio)
(Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo
Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO -
Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. -
I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO
CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler
mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO
CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo
d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual
è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda
gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo
ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in
privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici? TERZO
CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due
magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta
loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo!
SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh,
lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO
CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai
s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto ch’io sia nominato
console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. -
Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO -
Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma
per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai
tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti
ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque,
cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per
conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili
con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio
cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita
inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo,
le smancerie di certi capipopolo, che elargirò con generosità a quanti
gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO
- Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto.
QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO
- Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete.
Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE
CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente.
(Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire,
crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché
meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un
lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno?
Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che
vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più
spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una
montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah,
no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto
ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel
che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà,
farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri
voti. (Ai due) I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto.
Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due
dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto fatti d’arme.
Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I
vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non
gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console,
perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo.
SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console!
(Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO
- Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora
ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti
subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta
secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la
ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO -
Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non
esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.
MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi?
BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo.
(Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi
ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile
veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI)
SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui? PRIMO CITTADINO -
Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla
la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero,
modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO
CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO
– È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno.
SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva
mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria...
SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno
qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che
poteva mostrarle in privato; e col berretto in mano, ecco, così,
agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica
usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando
glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei
vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho
più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate
incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto
come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto
ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello
Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi
di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a
governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei
plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E
ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano
una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura
dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il
malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come,
del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato
il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo
alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo
caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a
qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto
trar partito dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete
fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto,
mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che
quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere
di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol
la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo
via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il
consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i
vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma,
e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è
confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo
revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota. PRIMO
CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO -
Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno
scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor
voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti.
SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio,
revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio
che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli
indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il
voto. Dite loro che è stato il vostro affetto, memore dei servigi da lui
resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante,
offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale
che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che
nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione
presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro
comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in
conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato
ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere
quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la
colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di
lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe,
abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual
nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”, da cui discese
pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande
Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di
acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel
Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per
voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e
onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati
noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver
bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del
passato, avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e
gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non
sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi
avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi
tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non
c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che
tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per
questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla
rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa
sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca
tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro
iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno.
(Escono) ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO,
MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio
sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì,
Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo.
CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso
appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile
che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento.
CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto
salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano
ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha
parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto?
LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada;
che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre
che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così,
senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E
vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì. CORIOLANO - Come vorrei che
mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo
odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO
Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare
bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità
contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar
oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre.
Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che
succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO -
Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora
quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare.
Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole.
SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge,
eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno,
e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la
loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad
aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo! CORIOLANO - (Ai
Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la
volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente
incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar
di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in
giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis,
fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque
fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico
dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la
sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO -
Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili
faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu.
CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini,
datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega!
SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se
ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita,
con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter
esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come
tribuno. MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è
subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano
non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano
cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello
che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE
- No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per
la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia
voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si
specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di
assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione,
dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi
stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a
noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei
pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo.
CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza
aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino
a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo
d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli
del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e
non un uomo affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il
popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO -
Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei
sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve
rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!...
Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve”
perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni
ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete
permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con
questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa
scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la
vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un
tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate
dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non
comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur
sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già
ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il
tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo
è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro
un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto
questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa! E mi
sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella
contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può
infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro,
dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far
distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche
volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO -
(Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il
popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la
disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare
il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le
mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il
grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun
servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il
cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le
porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da
meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno
parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto
prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come
plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione
le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E
adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre la
cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali
saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno
accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo
motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto
per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato,
e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile. MENENIO - Via,
basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a
quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui
giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione,
disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e
saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il
“sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a
trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili;
talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a
proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni
saggezza - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché
dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite
una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato,
destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa
lingua dal corpo dello Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è
anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano
giudicare, priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la
sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa
di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha
parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO -
Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con
queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si
sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li
hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma
soltanto la forza era la legge. I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica
che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor
potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui?
Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli
Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in
comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto
come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano!
T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei
accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me,
vecchio caprone! SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui.
COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù
le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci!
Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO
- Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla
folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO -
Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi!
(Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi!
Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un
momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla
rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A
Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia...
Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla,
parla, parla! SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che
avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu
invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in
questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il
popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per
loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali
resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la
via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle
fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane
d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra
autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo
eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è
meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che
aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla
sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO -
Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico. EDILI - (Alla folla)
Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete
apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò
che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO -
Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un
veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti,
impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO -
(Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi
che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel
che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un
momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto!
Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte!
(Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A
Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena.
UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro!
Siamo, amici e nemici, in pari numero. MENENIO - S’ha da arrivare a
questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti
prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO
- Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi
curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei
che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a
Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al
portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la
tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo. CORIOLANO - (Senza
ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei
farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui
la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando
pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare. È meglio che tu
vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come
un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini
entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra.
MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito
potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo
strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta. COMINIO -
Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo
ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la
sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo. Mai
s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in
bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il
cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori
da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei
saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine,
però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e
SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe
di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO -
Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili!
S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che
la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO
CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi
siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio)
Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla) Silenzio, olà! MENENIO - Non
gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in
modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai
favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del
Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che
console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI
- No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e
vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad
ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene
parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci
subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già
rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti.
Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte.
MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre
Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata
nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature!
SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è
solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male
ha fatto egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto
a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di
quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora,
ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una
vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che
porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol
dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le
volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben
onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo
per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili)
Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può
diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!...
Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto
tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni,
ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le
fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in
sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma
che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto
per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?...
Andiamo, via! MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno
cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai
chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca,
tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo
conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale,
ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili
Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e
di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio,
sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO -
Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti
aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito.
MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra
compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego,
rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra
CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso,
mi minaccino morte sulla ruota, o trascinato da cavalli bradi, o accatastino
l’una sopra l’altra sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più
manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò
sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO -
Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei
che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose
fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar
nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in
ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o
guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più
tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non
faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il
potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai
fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso
senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi
fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi
perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO -
Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi
vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’
troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare. PRIMO SENATORE – È
l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro
consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al
tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO -
Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad
umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo
rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la
mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che
devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO -
Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro?
Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio
mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi
troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento.
T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da
amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal
seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi!
MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri
onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere
i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di
valore, accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le
cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo?
VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo
la tua ispirazione, o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate
a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto
con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che
ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di
gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai
colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna
esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore
essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in
tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i
nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei
bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor
simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO -
Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole
acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma
rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti
scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo
gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre -
in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti
son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo
come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per
l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro
che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai
quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di
usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che,
d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto
sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così,
esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli,
se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per
cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che
con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di
fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO
- Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene
accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto
furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se
saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che
sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia
zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e
comandargli di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol
di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome
Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al
Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo.
COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego,
hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e
questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene,
devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una
puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti
nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della
verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino
accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto
m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una
lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo
sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato
l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me
stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima
una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più
vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E
lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per
questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della
morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato da
me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego.
Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per
conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai
tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando.
Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà
fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio.
(Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con
calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai
più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è
la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per
quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E
come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA
III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua
mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo
comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non
è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene? EDILE – È qui che
sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi
che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli
abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me,
completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in
assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia,
per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a
pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”,
se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura
l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li
informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare,
ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto
sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran
numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto.
BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio)
Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se
contraddetto: una volta scaldato, non ha più freni alla moderazione,
spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il
destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO,
con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano)
Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per
i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano
sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi
della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore,
affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre
strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la
folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i
Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va
bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre
accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se
intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi
rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le
colpe che saranno a tuo carico provate. CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo
sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare
giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite
che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO -
Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate
poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere
il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi
vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato
e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per
qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi
leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il
vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me
rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento
di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse
vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO -
Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa...
CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io,
traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi la morte
ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella
tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce
dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO -
(Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO
- Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto,
udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha
resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che
devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che
la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma...
CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco.
CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa
fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper
altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad
andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di
fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a
comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà
a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,
bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni
ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo,
cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in
questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la
deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo
bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser
precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel
nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da
Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei...
Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno
fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero,
più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia
cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò
s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare.
BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico
di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO -
Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria
d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante
l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da
me! E qui restate coi vostri orgasmi! Che ogni minima voce metta a tutti
in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume, vi
piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando
a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla
impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi
facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una
nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia
città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce
con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è
partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti,
gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla
porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col
quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una
guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla
porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i
nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono) ATTO QUARTO SCENA I
-Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA,
VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla
moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala
bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque
l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi
prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa
sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si
mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i
colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le
ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il
cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO -
No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e
muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno.
Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi -
ricordi? - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle
sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti
contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela,
malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più
salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi. (A
Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a
viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che
piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne.
Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’
certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa
temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede,
questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo
col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai,
figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi
che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul
cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così
potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e
tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria,
non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere
il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di
chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano
ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura
per il mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo
fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil
tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego,
andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non
saprete mai nulla di me se non di quel che sono sempre stato. MENENIO -
Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente
lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe,
ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia.
Andiamo. (Escono) SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due
TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che
procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte,
abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene
mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile)
Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è
sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua
madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio.
BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti.
Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più
schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini possano
ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte
mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso...
(A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi
dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate
uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire,
pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la
volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato
più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì,
colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che
ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio
si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù.
SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta
la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo,
con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO -
Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non
avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto... BRUTO - Ah,
sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio
voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i
meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo!
BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella
prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il
Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di
costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta
tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a
sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due
Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi
altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi
due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato
dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente,
ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il
mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò
di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio
io, di rabbia, alla maniera di Giunone. Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia)
MENENIO - Vituperio, vituperio! (Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio
Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi
NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi
sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di
te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i
Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio
lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la
voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo
volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino.
NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in
rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”.
Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi
apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle
lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una
scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del
prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni
potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico,
e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito! NICANOR -
Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua
informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre
udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha
litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in
gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in
disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una
fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia
missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena
avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi
nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore
d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo
dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora.
NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio
io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene
incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi
rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi.
NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di
Aufidio Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato
CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha
reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue
magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi
ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un
CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia,
sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio?
CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città.
CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO -
Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve!
Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da
trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro,
inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno
screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così
ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a
forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una
sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e
unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore
a una città che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà
solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese.
(Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra
un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino,
vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra
un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?...
Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal
banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra
il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te
non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito
da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO
SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia
entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto.
SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci! CORIOLANO - Ora cominci a
infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti
faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO
SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto
sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il
padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori.
CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al
focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un
nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E
dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è
per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad
ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si
avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al
padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito.
(Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa? CORIOLANO - Sotto
il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO
SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei
corbacchi. TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di
somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No,
questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi
dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e
sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci
troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia
via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque
quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei
cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor
signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO -
(A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?...
Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non
m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti
dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona
musica agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a
quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in
faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la
struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO -
Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO -
No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha
procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è
testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma. Il gravoso
servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho
versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa,
nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di
tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò
che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili
vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il
resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È
stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già
con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi
paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per
puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son
davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti
subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni
angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di
disgrazia: usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far
per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese
con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e
stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto
a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di
tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre
inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei
vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti.
AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni
parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se
Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse:
“Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio!
Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta
lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della
luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia
spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con
ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho
sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me,
nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando
vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te,
come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed
ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal
braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra, tu m’hai
piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo
tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci
l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per
un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la
tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai
settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma,
strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma
entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi
che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma.
CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi,
nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle
mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza;
ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia
meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con
violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni
dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i
tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico
ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto.
(Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale
sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato,
ti giuro, di cacciarlo a bastonate... Però dentro di me lo sentivo che il
suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare
un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una
trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui
qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì,
sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello
lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io
lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho
visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è
qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone?
PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO -
No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in
coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro
generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.
Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che
notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra
tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come
una condanna a morte. I DUE - Perché, perché? TERZO SERVO - Perché quel
Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con
noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate”
proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO
- Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro.
L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì,
per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola.
SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e
mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No,
lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte:
l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano
in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse
la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar
strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è
dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col
consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le
orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti
a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo
capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà;
perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non
hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui
è in discapito... PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO -
... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran
fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli
grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito.
Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse
l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi
s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un
po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere
il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me,
dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è
migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è
piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile,
assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra.
SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande
scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO -
Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono
in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio
a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si
alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro,
sbrighiamoci! (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una
piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più
parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate... Il popolo sta
quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a
Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo
preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per
le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe,
serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto
giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto
gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute
a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne
che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui,
e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì,
tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO
- Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la
moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI
- (In coro) Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a
voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre
inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per
voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona
salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo
noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene.
(Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi,
rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e
seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo
condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e
quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza
collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo
saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al
consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente,
può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni,
c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo
dappertutto la notizia che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son
penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo
ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che,
avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha
mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma
combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile)
Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da
romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può
essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che
fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la
vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da
far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no,
non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione,
stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È
tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti.
L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no!
Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile!
SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche
diverse - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a
Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando
una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più
vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar
negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO -
Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son
due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra
un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al
comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori,
travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé.
Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto!
MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio
dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche
il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre
mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare,
incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie
e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO
- Insomma, che notizie sai? Ti prego! (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho
paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti?
Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida
come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più
capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di
noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono
farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche.
MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri
grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra
mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare
sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele
mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è
proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete
divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i
pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi
lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i
suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se
quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I
Tribuni? Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui
merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se
costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe
l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo
nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me
l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti
scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro
artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai
fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra.
MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da
nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando
l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno
urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel
mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica
di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due
sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il
branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli
avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole
vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna,
e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi
tutti: farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in
aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci
mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo
meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per
parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva...
SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece
così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se
pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO -
Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro,
voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio?
COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO
- (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una
parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno
finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO
POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che
facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per
questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani) BRUTO - Brutte
notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio,
se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO -
Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano
AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)?
LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno
sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso
a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra,
generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci
posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare
i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi
mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in
ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile
correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso
interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi
da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata
solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che
dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui.
Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli
occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà e dimostri d’avere
buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un
drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una
cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il
mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che
pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località
s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è
tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo
non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo
quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani
quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della
natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di
mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio -
che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza
di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente
in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente
inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero
al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la
pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi
difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al
massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti
temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che
annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa,
soggiacciono alla stima del momento; e il potere, in se stesso
pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò
che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro;
così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra
forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più
povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono) SCENA Roma, una
piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci
vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante
e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con
ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un
miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è
dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come
se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel
passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia
amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano”
non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza
nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome
nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni)
Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni
che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato.
Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come
regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella
richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva
castigato. ATTO QUINTO MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO -
Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha
risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di
pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche
chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco
e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”,
ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo,
ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini
ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande
il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci
abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di
prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la
disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel
tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come
non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non
voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa?
SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame
d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza
ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?
Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare?
SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non
ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata.
MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene
quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto
Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non
fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle
vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo,
siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece,
abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si
canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri
digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto
ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la
strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire.
MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci
sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO -
Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto:
se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col
solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184) è il carceriere
della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena,
in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha
congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel
che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così;
non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua
sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò
muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA
- Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE
1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO -
Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in
veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA
- E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare
indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai
vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei
buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e
degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio
vi sia giunto all’orecchio: è Menenio. 1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’
indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico,
ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato,
vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han
potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e
lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza
consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il
segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le
sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo
d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico,
se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai
speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere
casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio
nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale.
2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa
comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire
che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già
pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei
romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu
dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a
pensare che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro
difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora
di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù
delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per
l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere
di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco
dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene
a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il
generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi
a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi
tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei.
MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene
importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti
faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via,
sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento! Entra CORIOLANO
con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso,
amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore! Così saprai se m’ha
riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di
trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi
tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di
più lungo supplizio. Sta’ a guardare e poi svieni, per quello che
t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a
conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio.
Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per
estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando
io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse
fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte
della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi
compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima
feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è
impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’
via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li
conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto
mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia
stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la
pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre
suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi.
Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una
lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non
starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti:
eppure tu lo vedi, Aufidio. AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante.
(Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è
Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la
conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver
bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire,
secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo!
Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete
al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di
morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro
generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli
anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA -
Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il
nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli
soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO,
AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito
proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai
sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata
avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini e sei rimasto
pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato
colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare.
CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a
pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui
ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome
dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una
seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan
rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui
che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio,
d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli
amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi
tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò.
Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra
sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma
prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue...
Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del
sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me
gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma
oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi
s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e
il mio ragazzo ha un’aria così supplice ha un’espressione così
supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di
no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma,
e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza
dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso
ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO -
Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che
ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da
cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!...
(Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte,
perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi
nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo
lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la
gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e
vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando
senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di
Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una
devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati,
figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a
te su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se
stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il
rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa
questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte
da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie
dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro
il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo
facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio
guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria)
CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il
ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di
Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la
tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà
maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso
del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove
ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al
disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al
mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono!
VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo
figlietto! (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su)
VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre,
siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se
qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che
giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le
concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla
plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con
più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta,
basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che
da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo
chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla
tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci,
sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che
cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza
profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che
genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che
donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se
il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di
conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di
dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e
padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra
terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli
altri. Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a
noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il
cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per
la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la
patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto,
andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che
possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un
nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le
rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua
moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione
d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non
potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto
che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai!
- muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il
ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha
partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO
MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma
poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non
vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo
ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio,
non lasciarci così! Se il nostro chiedere mirasse solo a salvare i Romani
e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come
avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un
lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani:
“L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu
sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come
incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti
Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato,
sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così
d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però
l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed
il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai
sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar
gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare
la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo...
Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla
memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché
delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo.
Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a
dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre,
e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre
non hai avuto mai in vita tua un tratto di filiale gentilezza; per lei
che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre
accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e
carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con
disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare
questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre...
(Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù!
(S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni!
Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà
per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a
Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che
non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi,
sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel
respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una
Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A
Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in
silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche
parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre
mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi
a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per
Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma
esponendolo a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia!
(Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà.
Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio,
avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono
commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i
miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi
concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti
prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO
- (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed
onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO -
(Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma
miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due
parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi
meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti
confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma, una piazza
Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul
Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora? MENENIO - Ebbene allora se tu col
tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne
di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è
speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia.
SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo?
MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata
un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo
l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto
affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si
ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta
sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina
par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza
al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana
a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo scanno pare
la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia
finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo
in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io
lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua
madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà
questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in
questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto
quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il
collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se
vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo
trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare
a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi.
Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le
matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma
non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO -
Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è
fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena
irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la
gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono
all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche,
pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare
il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro
alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili
da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a
lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene: stamattina
non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano
di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti
benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei
ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo
tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi
alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia
della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano,
attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il
PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra
patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi
ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino,
e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio;
richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro:
“Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute!
(Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una piazza Entra
TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori
ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi
vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di
tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si
trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che
con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito)
Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO -
Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie
elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio
nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi
partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo.
AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo.
3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra
voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane.
AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti.
Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto
così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada
dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua
indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente.
3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione, quando concorse per
il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito
per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio
coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a
soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie
file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io
stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per
fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso
questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo
seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato
con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1°
CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine,
quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla
gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui
tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa
egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non
valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto.
Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di
popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune
corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor
clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni
sopruso ai quali lui ha massacrato i figli si spellano i lor vili
gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli
e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano.
Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre
le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano
i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato
a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho
scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco
dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di
quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là
dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle
mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un
trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può
presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete
ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e
vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno
a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son
partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità.
Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri
eserciti attraverso passaggi sanguinosi fino davanti alle porte di Roma.
Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa
sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci
quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del
trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del
Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo
traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete
dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO -
Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io
ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?...
Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia
da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma,
ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla
moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta
tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle
lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la
nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze
dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio,
sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio,
piagnucoloso ragazzotto! CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro!
CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore!
“Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta
in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi,
sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che
porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella
tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per
ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed
ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e
ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane
bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci
dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i
vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso
ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo
maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi
vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra
vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì,
facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me
il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze!
Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome abbraccia tutto l’orbe della
terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo
legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO -
Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e
tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente
canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e
uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I
COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi!
Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE
- Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione
sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo
corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete
conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato)
qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia
stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi
davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra
giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il
cadavere. Si prepari per lui un funerale con la solennità che si conviene
ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2°
SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora
ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora,
tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una
mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu,
batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città
molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da
noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono
portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva,
come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere,
ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte,
“Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi,
Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux
principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta
interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così
come siamo”, cioè magri. “Ere we become
rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello”
(“as lean as a rake”). “I need not be
barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo
gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad
smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha
il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”.
(9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra.
“Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua
sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso
la propria stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei
mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity,
insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”:
“... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit”
ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore
avversativo. “The one side must have the bale”: la
frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di
scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole,
quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia
persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore
principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa.
L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta
sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una
vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il
disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”:
“to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario,
con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma
nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di
Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro
politico della Roma antica. “... as high
as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di
“throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a desistere dalla
sommossa. “What says the other troop?”:
Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il
Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso in Shakespeare,
ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. Così dice
Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica,
non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo
il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e
Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è
rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo
quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini
e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla
plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso,
intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero
del dramma, il volsco Aufidio. “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce.
La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre.
Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. “We never yet
made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo
in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. Cioè al momento della loro
messa in atto. Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così
spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la
fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in
onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde
di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di
Coriolano”). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il
Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui
Latini. Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il
figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e,
più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col
ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio.
“You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete
stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”.“It more becomes a man
than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del
nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo
della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più
bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. Cioè conquistare la città di
Corioli assediata. “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li
assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a
respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”)
ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia
della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente /
Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A
carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la
perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. In verità, Catone è
vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco,
e non si cura degli anacronismi. Questa didascalia, che figura in molte fonti,
lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha
saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in
Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. “their
honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo
di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora
di battaglia per costoro...”). “A craked drachma”: le monete crepate
hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È
un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia
aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato.
“The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di
un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La
traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il
pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce
di Marcio da quello di qualsiasi altra”.
Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti
stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in
ritardo”. “O me alone, make you a sword
of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi
lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se
Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me
una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi
addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa
esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi
alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre
lezioni, anche la più poetica. “...
dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si
capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe
rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare
“quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out
care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui
piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”.
“Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama
Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad
intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera.
Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota
preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo
banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu
non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già
fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte
pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che
parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per
l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di
partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo
una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia.
E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa
intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”:
in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per
corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha
“Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la
loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be
made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di
“ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase,
sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato
da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino
“vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia
ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di
duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a
“parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è
tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che
giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”:
letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa
guerra”. D’ora in poi, il personaggio
sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo
episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli
chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco
psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però
l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor
man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è
stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune
umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori,
“Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui
ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è
avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della
cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati)
impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo
in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni
religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che
chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa
di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai
completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di
Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e
insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a
combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei
notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli
assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio:
“Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città
occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non
saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di
“povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non
avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di
Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata
ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little
tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “...
perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”.
Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare
sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot
wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per
“caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso
in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. Licurgo, il grande uomo politico greco,
divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”:
letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il
testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come
se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è
storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico
di persone investite di pubblica carica.
“...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la
bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla
bandiera bianca della resa. “... against
all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano
giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il
testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più
imbrogliata dalla vostra udienza”. “... such ridiculous subjects as you”:
“ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non
quello di “che fa ridere”. Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini,
sellame per cavalcature e anche palle da tennis. Deucalione è il corrispondente
pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che
quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli
uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I
due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono
il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i
sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da
Pirra. Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe
dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II
secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but
empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione,
in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”. “... and not without his true purchesing”:
letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano
ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore
per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue
ferite. “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si
è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli
dèi (“Gods”). Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma
(provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo,
aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. Questa battuta
di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti
testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei
vincitori. “My gracious silence, hail!”:
questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica
tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe.
Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella
silenziosa”... ma non è lo stesso! “And
live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del
genere è tutt’altro che un saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista
prima. “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è
“maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso
significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente,
fino a far morire; perciò “cancro”. “By faith of men...”: espressione da
intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By
my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere
“Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto
senso, specie in bocca a Menenio. “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade
his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo
il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The
good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama
“patricians” i membri del Senato. Altro smaccato anacronismo: nella Roma
di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo
Cristo!). “... her richest lockram”: il
“lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio
della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una
stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti
incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”,
sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano
attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana
(filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in
luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come
verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella
circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”.
Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di
vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia
del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il
viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine
che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo
nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà”
(“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e
dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite
riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale;
ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la
coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con
l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave
elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano
i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile.
“We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per
una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare
Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su
un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had
rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo
tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta,
quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi
massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di
guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus /
Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di
Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”.
Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito
dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della
nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso
necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora
imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca,
e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute
labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le
parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne
essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di
Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente
un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte
fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli
non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”,
“adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che
include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia
“Measure for Measure”. “... and is
content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza
ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come
riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il
tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha
una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la
prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a
completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile,
della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e
indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione
e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la
carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il
suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè
con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine
non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per
tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata
inventata nel Medioevo! “If it may stand with the tune of your
voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti”
ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. “... you have been a rod to her friends”:
“rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro
bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You
have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone
(“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma
significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo
essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi
intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per
andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe
inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal
precedente “will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che
Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone
l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a
mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un
alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza
strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere
alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. “...
battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di
“called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e
altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato
sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia
di Corioli. “... have you chose this
man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato
all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre.
Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato
della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto
l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione
della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai
“comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo
inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della
“gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco
nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto
alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens”
che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma.
Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio
costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato
pretore. “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the
minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli
che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è
la minuzzaglia ittica. Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le
paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della
folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. “... being
but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno
attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun
luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come
“portavoce” del mostro. Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del
grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di
peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese
del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la
sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce
sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori
della repubblica. “... by yea and no of
general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”,
che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International
Dictionary”). “Therefore beseech you /
You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi
supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”;
frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello
Stato...” non è nel testo. “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce
che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro
disonore” suonerebbe ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto basta a
confermarlo nemico del popolo. “... when what’s not meet, but what must be, was
law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò
che si doveva fare per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con funzioni
amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre
che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di
Coriolano si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa
degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i
tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne
aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo
di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i
patrizi. “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore
all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a falling
fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come
intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal
“volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare. “His nature is too noble for the world”: “world” ha
qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human
affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”.
Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”.
L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di
esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa
battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio,
con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione
del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire
forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in
conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio
al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe
di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about mine
ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel
senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su
qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva
legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava
girando. “Wollen vassals”: le robe di
lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è
“umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with
groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino
medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8
di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era
il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene
“A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari
scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di
Shakespeare). “I would had you put your power well on / before you had worn it
out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da
indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso
(“worn out”). “Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”:
“instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato
dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento
(“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si
è trovato termine più proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la
seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di
Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente
MACHIAVELLI (si veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe
che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere
“gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che
richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e
serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino.
Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno
la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo
indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too
absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice. Il “cappello in mano” in segno di ossequio è
immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non
avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must I go show them my unbarbed
sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo
andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio
significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed”
significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato
figurato si attaglia perfettamente al discorso. “I will not do’t lest I
surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non
voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. Il senso di questa
richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di
Coriolano”): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni
sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in
questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore,
veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non
avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie”
erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma
secondo il censo. “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza
di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo. Le piume dei loro cimieri, s’intende. Di
quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per
questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di
Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. “... with precepts that would make
invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre
nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il
“dovevano”. “Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is
umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo
(di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha
“Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our
power”). “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa
battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase
significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non
si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa,
perché la donna avrebbe capito l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira
femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo
marito, Zeus (cfr. VIRGILIO (si veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob
iram”). “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”,
“unknown”, “unfamiliar”. “I have deserved no better entertainement / in being
Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi
pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e
incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under
the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un
altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”,
“firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso,
si attribuisce la regalità. Che cosa sia questa città, nella mente di
Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È
comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo iBradley - in
tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo. “Then thou dwells with daws too”. Doppio
senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato
familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. “Che m’hanno dato a
Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui quasi in funzione di
coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno
spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo
rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un
accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in
Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in
Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza
che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. “Whilst he’s in directitude”: sta
verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”,
strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi
personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale
“for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I
desire”, “this is my choice”, eccetera. “His
remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente,
a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che
egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di
lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di
“means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a
senso. “And affecting one sole throne
without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza
collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your
apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il
distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né
cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather
apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per
ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago
Ladone. “... and you’ll look pale before
you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare
che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e
Menenio testé usciti. “Do they fly to
th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che
contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una
certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi
soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino
di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta
la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che
verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo
colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo,
tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta.
“... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente
attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di
ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La
frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi
sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è
chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma
per venire da lui. Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio
prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio,
si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la
colpevolezza dei tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse:
“Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero
il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta
ridotta a carbone. “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio
d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica
fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle
tinte del dramma. “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da
lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il
minimo moto di pietà”. “Thoug it were as virtuous to lie as to live
chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa
“mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale).
“Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha
visto arrivare Coriolano.“Col tuo superiore” non è nel testo. È la scena
culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del
figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di
guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e
scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione.
È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente
perdente. Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio
e Cleopatra”: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire
fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. Cioè “io ti vedo in una luce diversa da
quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La
battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei
frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del
teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei
suoi drammi. “To your corrected son?”:
frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma,
col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la
seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a
Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è
Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and
children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che
in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove
Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. Testo: “... will be dogged with curses”: “...
sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella
traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare
per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di
Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della
patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse
rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna
muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente,
non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone.
È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti -
come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un
altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di
Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli
eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è
tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra
tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you
entered”, e da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath
widowed...”. Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine
sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso
maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le
“ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. thou has made my
heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto
diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene. Keywords: CORIOLIANO,
ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrando” – The
Swimming-Pool Library. Guido Ferrando. Ferrando
Luigi Speranza --
Grice e Ferranti: implicatura conversazionale, ragione, deutero-Esperanto – e
lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma. Collo pseudonimo
d’“ingegnere Filopanton,” presenta il “simplo,” ispirato al progetto di PEANO
(si veda), nel saggio “SIMPLO INTERNATIONALE LINGO: CONTRIBUTO AL STUDIOS DIL
INTER-NATIONE LINGO PEM SIMPLIGITE FONETICE-GRAFICE SISTEMO”. Lo scopo è quello
di creare un SISTEMA in grado di rendere l'apprendimento della lingua
internazionale facile e veloce, tramite l'abolizione delle desinenze, dei
suffissi e dei prefissi e un rapporto intuitivo tra idea e parola. Per F., idee
tra loro collegate devono essere espresse da parole tra loro simili; per
esempio, aventi la stessa radice. Keywords: system, sistemo, lingua, lingo.
Refs.: Grice e Ferranti” Mario Ferranti. Ferranti.
Luigi Speranza --
Grice e Ferrari: implicatura conversazionale e ragione nella lingua universale
– la scuola di Modena – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Modena).
Filosofo modenese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Modena,
Emilia-Romagna. Insegna etica. Sotto lo pseudonimo di Callicrate Aletiano, F. pubblica
“Mono-glottica: considerazioni storico-critiche e FILOSOFICHE intorno alla
ricerca d’una lingua universale,” Vincenzi, Modena, -- un contributo rilevante
per la discussione intorno alla lingua universale, con le proprie
considerazioni in materia, dedicando il saggio a un certo Aristodemo Euganeo. “Callicrate”
ricalca il nome di un architetto della Grecia antica; Aletiano riconduce alla
parola greca per 'rivelazione', 'verità'. Allora F. si configura come
l'architetto – cf. Grice, engineer -- di un sistema linguistico che rispecchi
la verità delle cose, che si rifà direttamente alle idee. Aristodemo invece è
una figura della mitologia greca che sacrifica la propria figlia in nome della
vittoria sulla città di Sparta; Euganeo deve essere ricondotto alle origini del
dedicatario. Il modus di F. è del tutto simile a quello di SOAVE (si veda). Dopo una disamina del tipo d’alfabeto
utilizzato dagl’italiani, F. dichiara che le tradizionali disformità della lingua
e della scrittura accumularono ostacoli d'ogni sorta alle scambievoli
comunicazioni delle genti, ed alla diffusione della generale socievolezza e
coltura, arrivando perfino ad essere causa di incomprensioni sì grandi da
condurre i popoli alla guerra, giacché: diversitas linguarum hominem alienat ab
homine (AGOSTINO, De Civitate Dei, Venezia, Albizziano). Conscio degli studi
dei suoi predecessori, tra cui nomina anche gl’italiani CESAROTTI (si veda),
CERUTI (si veda), e SOAVE (si veda), F. espone e passa in rassegna i progetti,
esprimendo elogi e rimproveri per
ciascun sistema. F. propone un indice dei sezioni che formano il nuovo saggio
di studi e di proposte riguardanti l'istituzione di una lingua universale --di
cui “Monoglottica” è un mero riassunto. In
nota, riporta: Premessi alcuni principi generali, seguiti da alquante
norme direttive, lo schema espone l'alfabeto universale, che, da poche
modificazioni in fuori, s'identifica con quello della favella aria italiana. Il
comune alfabeto vocale ipotizzato da F. comprende le V vocali a, e, i, o, u
poiché esse formano il sostrato primitivo ed essenziale de’varii sistemi FONETICI
– FONEMICI – cf. Grice, disctinctive features -- di tutti i popoli da lui
considerati. Per quanto riguarda le consonanti esse sono «b, c, d, f, g, h, j,
k, 1, m, n, q, r, s, tv, w, X, y, z» e a ciascuna di esse è associato un suono
e uno soltanto. Graficamente esso deve essere latino -- quel che l'autore
intende è che la lingua non può essere simile a una lingua romanza come
l’italiano --, poiché il meno appuntabile rispetto agl’altri, e corredato delle
note tipografiche. La lingua proposta è - moderatamente - flettente e
combinante, a stregua però di una calcolata ECONOMIA (cf. Grice, efficiency,
cooperative efficiency), nello svolgimento del VERBO. Valendosi rispetto al
NOME (e predicato – ‘shaggy’) --, a forma delle lingue analitiche, dell’ARTICOLO
DETERMINATIVO. Salvo il differenziare con minima flessione la desinenza plurale
dalla singolare – “irrelevant in logic” (Grice): “(Ex): “Some, at least one”.
Per questo è evitata quanto più la FLESSIONE, la derivazion, l’agglutinamento e
l'uso dell’accento non giustificato d’una reale esigenza. La lingua oxoniense in
discorso non è ideografica, siccome quella concepita da Delgarno e da Wilkins,
né semi-algebrica, come la caratteristica leibniziana, né tampoco tachigrafica
o stenografica a mo’della pasigrafia di Taylor. È puramente alfabetica, e
costituita con una base e un processo grammaticale, epperò con opportuno
corredo dell’ARTICOLO (“the,” “a”) e il pronome (“I am hearing a sound”), della
congiunzione (“and” – but cf. ‘or’ and ‘if’), la preposizione (cf. Grice on ‘to’ and ‘between’) ell’avverbo
(cf. ‘not’). Essa discerne due generi
nominali, l'uno maschile o concreto, l'altro femminile o astratto, lo che giova
non meno alla perspicuità che all'armonica varietà del favellare. Adotta sei
verbi di uso frequentissimo, come primi ed AUSILIARI (cf. Grice, “Actions and
Events” on ‘do’), semplificandone le forme e gli svolgimenti, e rilevandone le
funzioni rispetto agli altri verbi. Con somma parsimonia si vale
dell'applicazione di lettere vocali e delle consonanti a denotare maniere e
rapporti di senso nominale e verbale; tenendosi lungi anzichenò, dal sistema gallico
d’OCHANDO. Segue un procedimento metodico per l’evoluzione delle parole
primitive e radicali, allo scopo di ritrarre le molte parvenze e trapassi
nell'esplicazione delle idee fondamentali. Poscia sono stabilite le norme
relative alla SINTASSI, ed il regime sì diretto, che indiretto. Infine si
traccia il disegno costitutivo della lessicografia. L'autore cura soprammodo,
in tutte le parti dello schema, la semplicità, il collegamento e la regolarità,
che debbono esser le doti primarie e congenite della lingua universale, perchè
puo ella riescire perspicua, gradita, e
mirabile per esattezza ed energia. La lingua di F. deve anch'essa essere
esente di sinonimi, neologismi, solecismi, irregolarità, e deve piuttosto fare
ampio uso dell'analogia, che quindi deve essere assurta a regola; tanto che F. sostiene «l'analogia è un
giorno, quando che sia questo per ispuntare, l'oracolo e la salvaguardia della lingua
universale, deve essere attuato un procedimento di logo=genesi, per il quale il
suono ESPRIMENTE (SEGNANTE) un'idea o proposizione semplice deve in qualche
modo essere presente anche in qualunque suono che compone la parole da esso
derivate. La SINTASSI deve seguire quanto più l'ordine logico dei pensieri. Keywords:
lingua universale, Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari”,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Gaetano
Ferrari. Ferrari.
Luigi Speranza -- Grice e Ferrari:
la ragione conversazionale e FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – la scuola di Milano
– filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
italiano. Grice: “Ferrari is important in at least two fronts: as a
philosopher, he promotes what has been called a ‘critical illuminism’ – and who
but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on ‘the
philosophy of revolution’? The second front is my proof of the latitudinal
unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his ‘La
strana sorte di Vico,’ of Vico!” “My pupil at Oxford – my first one, actually –
Flew, once called Humpty Dumpty an anarchist – semantic anarchism, he called
it. – But he was wrong. Humpty Dumpty cannot mean that by uttering
‘Impenetrability’, Alice will know that he means that a change of topic is
required!” Essential Italian
philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni
democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano
per sei legislature e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il
padre era medico -- dopo la morte dei suoi genitori poté godere di una rendita
grazie alla quale visse senza particolari problemi economici. Fece i suoi
studî nel ginnasio S. Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si
laurea a Pavia. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel
cerchio di Romagnosi. Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre
per la cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo
porta a Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con “Sull’errore, ossia, De
religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la
filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica
a proposito dei giudizî. Un giudizio infatti non consente di giungere alla
verità oggettiva. Grice: “The
problem with Ferrari’s analysis is etymological. For the Romans, indeed the
Indo-Europeans – cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. It’s a metaphor, a figure of speech. Un giudizio è
indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un “errore”. F.
define un ‘errore’ come ‘un vero’ – un vero relativo, non assoluto.
Similarmente, il vero e un errore relativo – giudizio vero relativo al soggetto
– errore intersoggetivo. -una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid
‘objective’ and ‘subjective’, but we do want to use ‘subjective’ and
inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un ‘vero
relativo’ a S1-S2. Introdotto nei
circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio
(due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin,
Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo
Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per
le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia
del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana,
fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso
dall'insegnamento, e, benché avesse ottenuto la cittazidanza francese e il
titolo di "professore di filosofia” che lo abilita ad insegnare non fu più reintegrato nell'insegnamento, poiché
la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collège de
France, benché accettata dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero
dell'Educazione. L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto
con Proudhon che, avendo appreso il "caso F." dalla stampa,
s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu
tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante
il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu
accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in
Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin)
di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne
il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato
come repubblicano, si rifugia à Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in
secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a
Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei
legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele
ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere riassunto
nella formula: "irreligione e legge agraria", cioè lotta contro Roma
e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei latifondi, con la
distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri,
sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali dell’uguaglianza. Per quel
che concerne la forma dello stato italiano, F. domandava una costituzione federale,
con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la
più ampia de-centralizzazione amministrativa possibile. Dopo essersi
recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di
Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale
dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto
di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma
la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta
ufficiale. Nominato professore di filosofia a Milano, benché non ci fosse
a quel tempo nessuna indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di
nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione
sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo,
e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a più riprese contro uno
stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle
regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante riconoscesse
nell'articolo che l'unità italiana non esiste che nelle regioni della
filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo,
non si posse reclutare un esercito, non si può organizzare nessun governo.
Esprime l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse prima o poi realizzare.
L’Italia tutta deve domandare alla libertà. La liberta non ha leggi, né costumi
politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né una né confederata;
essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la
confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo permette.
Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. “Io non muto
d'avviso.” “Sono stato avversario dell'unità italiana.” “Credo l’unita tragica
nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi
disinganni, benché necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e
gli olocausti alle religioni.” Si è pure pronunciato contro la cessione di
Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la
Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo
il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti
d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da
Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla
proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria
del nuovo regno. E fatto senatore. Assolutamente
solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non
ebbe seguito. è una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non
che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare è stata così caratterizzata
e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali,
combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel
piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la
demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare
d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a
pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma
intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza
del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle
condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il
prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio
provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza
sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di
commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione
del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della
capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo
francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro
le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla
violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta
sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla
sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi.
Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta
sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I
fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del
plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro
la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto
del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in
Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente
di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di
Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore
di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di
studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore
della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze
e lettere di Milano.Membro ordinario della Società reale di Napoli. Membro
effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro
straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro
ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio
corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province
modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei
Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino
per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti
i socialisti italiani, Ferrari è fortemente influenzato dall'Illuminismo e da
Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del
principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce
come unico fondamento della proprietà il lavoro. Propone quindi un socialismo
che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito
individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la
nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora
presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione
borghese. Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una “federazione”
di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità delle singole
regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata,
aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici
risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse
una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario
l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei
diversi stati italiani. L'opinione pubblica dove essere preparata alla
rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di
cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e
socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella
istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito
da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali. Insieme a Pepe
elaborò il “neo-guelfismo” -- per sottolineare il carattere re-azionario di
restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica d’Italia. Critico
verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la
superiorità dello stato d’Italia rispetto alla Roma, corrispondente alla
superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Consta dai registri della
Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi
Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue
dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: “Romagnosi” (O. Campa, Milano); “Sulle
opinioni religiose di Campanella” (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio
è l'ERRORE più primitivo, più NATURALE del genere umano.” “La religione è la
pratica della servitù.” “Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione
sopra-naturale.” “Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo.” “Il
romano cè morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già respinto dallo Stato gli
apostoli e la Chiesa”. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di
Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati,
Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati,
Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le più belle pagine di
Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. F., Milano, Garzanti, Altre
opere: “Romagnosi”; “Vico”; “La Federazione repubblicana”; “Filosofia della
rivoluzione”; “L'Italia dopo il colpo di Stato”; “Opuscoli politici e
letterari”; “La mente di Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso
sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, “Giannone”; Lettere
chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi
politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni
Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I
partiti politici italiani, Le più belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti
politici, Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma, “Scritti di filosofia” e di politica, M.
Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario
Peruta, "Contributo all'epistolario di F.", in: Franco Della Peruta,
I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta
(ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del
socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C.
Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna
storica del Risorgimento”; “Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza
inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza
inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo
Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a F.",
Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un
carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la
filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Ghiringhelli e
F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di Gavirate-Luino",
in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano,
Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari: l'edizione di Capolago delle
opere di F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo
stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli, "F. e Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno
Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano, Francesco
Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari, Roma, Bruno
Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di filosofia
del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti, "Ferrari e
la Nuova antologia: il destino della Francia repubblicana", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Arturo
Colombo, "Il F. del Corso", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Compagna, "Ferrari
collaboratore della "Revue des deux mondes", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Corona,
"Il filosofo "rivoluzionario" visto da Asproni", in: Ghibaudi,
e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano,
Carmelo D'Amato, Ideologia e politica in Giuseppe Ferrari", Studi storici,
Amato, "La formazione di Giuseppe Ferrari e la cultura italiana della
prima metà dell'Ottocento", Studi storici, Peruta, "Il socialismo
risorgimentale di F., Pisacane e Montanelli", Movimento operaio, Franco
Della Peruta, Un capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e
Ferrari", Studi storici, Franco della Peruta, "F.", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Aldo Ferrari, F., Saggio critico, Genova, Ferri, "Cenno
su F. e le sue dottrine", in: Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi,
Milano. Gian Biagio Furiozzi, "Olivetti e F.", in: Ghibaudi, e
Ghiringhelli, F. e il nuovo stato italiano, Milano, Gastaldi, "Nella
galassia dell'Estrema", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di],
Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Robertino Ghiringhelli, Robertino
Ghiringhelli, "Romagnosi e F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carlo G. Lacaita,
"Il problema della storia in F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Eugenio
Guccione, "Il laicismo politico di Ferrari", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli,
F. e il nuovo stato italiano, Milano, Grosso, "Il Medioevo in F.",
in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Lovett,
"Europa e Cina nell'opera di F.", Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio
Martirano, “Ferrari, interprete di Vico”. Maurizio Martirano, Filosofia, storia,
rivoluzione. Saggio su F., Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo
Mazzoleni, Ferrari. Il pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma,
Angelo Mazzoleni, F.. I suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti,
"La posizione di Ferrari nel primo Parlamento italiano", Critica
politica, Giulio Panizza, L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza,
"La teoria della fatalità nell'Histoire de la Raison d'Etat", in:
Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Giacomo Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari",
Rivista internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari
e Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento
Italiano", in: Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato
italiano, Milano, Nello Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il
Ponte, Silvia Rota Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi, "Ferrari
e la Teoria fatalista dei periodi politici", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti socialisti
dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, M. Schiattone, Alle
origini del federalismo italiano, Ferrari, Nicola Tranfaglia, "Ferrari e
la storia d'Italia", Belfagor, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Luigi Zanzi,
"un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Stefano Carraro,
"Alcuni aspetti del pensiero politico", BAUM, Venezia. Gian Domenico
Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli
Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo. TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.F., su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di
Giuseppe F., su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del
Movimento RadicalSocialista. Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la
filosofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno della scienza,
il regno dell'eguaglianza. Questo era l'intento dei primi filosofi, questo è
l'intento della rivouzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma
traditi dalla metafisica, sentivansi solitari, impotenti, inviluppati da
ostacoli infiniti; e invocando i demoni, le favole, un artifizio
estrinseco, un felice inganno, cadevano sotto il felicissimo inganno
della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto la protezione di
Cristo. Ma la rivoluzione liberò questo prigioniero delia teologia, ne
divulgò la parola, la trasmise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanità
sulla terra colla forza della scienza e con quella del diritto. Da
mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione
trasportando il problema della scienza nelle antinomie dell'essere, e il
problema dell'eguaglianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che
abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla verità, il regno
della libertà falla astrazione dai dogmi, il regno dell'eguaglianza falla
astrazione dal riparlo, il regno dell'industria fatta astrazione dal
capitale: e s'incoraggiano le nazionalità senza badare all'umanità; si
pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato meno il
papato, quasi fosse proposito deliberalo di predicare la rivoluzione meno
la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I
miseri cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole,
se leggi equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per
stabilire una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma
la tregua non regge; ad ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della
guerra, e se ad alcuni può parere lontano, e se altri possono consigliare
di dare tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede che
quando la scienza scopre un errore per quanto sia teorica, lo lascia
smascherato per sempre, e chi lo difende più non regna, e se sì ostina
cade sconfitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede negli
avvenimenti imprevisti non è cieca e viene autorizzala dalla forza del vero che
oggi tradito si vendica domani col corso naturale degli affari,
delle guerre, delle paci, della ricchezza, e perchè ogni verità è un
valore, chi la scorge se ne impossessa e la sconta, e tiranno o tribuno
giova a lutti sotto le forme più inaspettate. Si ricordino che non vi fu
mai progresso che non toccasse alla proprietà o alla religione che non
venisse dalla scienza e dall'eguaglianza e che non si dovesse irnaginare
con ardimento scandaloso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da
ultimo che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt ferve in
ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, già dairso al 93 quattro
soli anni bastavano per passare dalla teoria alla pratica e per
sostituire una generazione di tribuni, di generali, di insorgenti, di
dittatori, di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filosofi
mandati alla bastiglia e qualche volta perfino protetti tanto sembravano
lontani dalla realtà. Quanto a noi figli del passato, discepoli degli
stessi maestri da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma
la metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili tormenti
dal campo della rivelazione naturale, visto che rinchiusi nel fatto,
legali alla terra ogni giorno, ci sottrae alla rivelazione sopranaturale
comunque si gradui il progresso e possa prendere delle forme mostruose e
talora nemiche, dal momento che sentimmo compiersi nella nostra mente la
filosofia della rivoluzione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta
fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni
il F. tacque : non pia studi pubblicati sulle riviste francesi per far
conoscere al mondo T Italia del passato e del preseme, non più opuscoli
politici per tracciare piani d'azione pamphlets violenti contro i suoi
avversari: gli amici lo avrebbero potuto creder morto. EpIHjre la sua
operosità si svolgeva occulta sotterranea silenziosa, tanto più assidua quanto
meno era visibile: abbandonato il campo del giornalismo dove le tracce
del lavoro sono ben presto cancellate dall'incalzare di sempre nuovi
problemi e dalle richieste di gusti sempre mutati, lasciato il tumulto della
vita politica, U Ferrari si era dedicato totalmente alla pura scienza. Il
presente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato; l'Italia pareva
ricaduta nella schiavitù e nell'abiezione, ed egli la volle studiare libera e
regina, quando marciando a capo di tutte le nazioni trasmetteva l'urto
delle sue continue rivoluzioni al mondo. Il Medio Evo italiano,
il campo chiuso della sua attività storica, era sempre stato il suo
lavoro e il suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi più
piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad ogni interpretazione
razionale e organica, come se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che
governava le continue rivoluzioni di cento stati differenti gli uni da^i altri
come posti agli antipodi fosse il caso, il capriccio della fornina,
l'arbitrio dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano uno
svolgimento storico organico, una forma politica costante che le
contradistingueva in ogni epoca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di
Napoleone III la Francia era sempre stata la nazione della monarchia unitaria;
la Germania era ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilterra dalla
Camera dei Lordi come ai tempi di Ottone I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma
l'Italia Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politica; uè al
principio della monarchia né a quello ddla repubblica, né all'Impero né
al Papato : ftemmeno ad un sistema federale che raccogliesse in organismo
la varietà tumultuosa ed eslege dei ^uoi stati. Rivoluzioni d'Italia. Da
molti anni queste considerazioni si svolgevano lentamente nel mio
spirito, per rendermi enigmatiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di
Firenze di Roma di Genova di Venezia, di tante città unite dal suolo e
separate da irreduttibili diiTerenze. Qualunque fosse lo splendore estemo
dei fatti, eran pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza causa,
rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione. Le cronache degli
Scriptores rerum Italicarum mi apparivano quasi statue rovesciate, quadri
capovolti, medaglie sparse di un museo che una vandalica ignoranza avesse
devastato. Tutte le serie, tutte le simmetrie essendo dissestate da una mano
sconosciuta; potevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua ironia
avesse il diritto di sognare liberamente in mezzo a questi cenci pomposi. Ma se
la fecondità lussureggiante degli avvenimenti si rivoltava contro ogni unità
imperiale o pontificia; se essa facevasi gioco delle repubbliche, delle
signorìe, del candore dei cronisti e degli artifizi della retorica; se
essa compiacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le analogie:
io vedevo tanta grandezza dell'insieme e una tal forza nel minimo
frammento, da non potermi arrendere all'idea che la patria di Gregorio
VII e della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa destata dal
sentimento del bello, .per non essere se non un cumulo di accidenti
eslegi. n Ferrari volle scoprire il spreto di una
cosi misteriosa apparenza, la legge vitale di un organismo così complesso,
lo scopo di una coA abbagliante fantasmagoria. Si tuffò nella storia medievale
fino agli occhi : senza fermarsi alle compilazioni volle risalire alle fonti
originali, meditò su tutte le pagine degli Scrìptores rerum Italicarum,
rìsfogliò le cronache, rivisse tra la polvere erudita coi vescovi e coi
consoli coi settari e coi signori del buon tempo antico: e cosi mentre
la turba degli gnomi, non comprendendo la sua solitaria libertà superiore
alle borie del nazionalismo miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere
la sua lingua e la sua patria, egli preparava in silenzio airitalia uno
tra i più bei monumenti di gloria che potessero inalzarle i suoi figli.
Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la prima volta a Parigi in
francese nel 1858, ripubblicate in italiano tradotte dell'autore: in
questa seconda edizione, nonostante gli studi posteriori in seguito ai
quali credette di avere scoperto la filosofia della storia e la legge
periodica del movimento storico, guidato da un istinto fortunato, non la
ritoccò quasi affatto, non osò guastarla per farla servire alla sua
teoria; quindi noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedizione italiana, da
cui son tolte le citazioni e a cui si riferiscono i rimandi.
Per quel che già conosciamo della costinizione intellettuale del
Ferrari, possiamo fin d'ora giudicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perchè
egli riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione filosofica
e al criterio di un sistema formato. Tutti ì grandi storici sono artisti:
artisti neil'interpretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresentarli e
atteggiarli davanti al lettore in modo che sembrino attuali e spirino
vita. Sono anche filosofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui
traggono i criteri della interpretazione e del giudizio; ma di solito il loro
sistema non è che implicito e irrìflesso come quello di qualsiasi individuo che
non si dedichi di proposito alla filosofia; qualche più rara volta c'è, ma
preso a prestito, non rielaborato né rivissuto individualmente, rimane
estrinseco e astratto. Orbene la grandezza unica del F., la sua
caratteristica qualità, consiste nell'avere a fondamento della sua
interpretazione un vero formato originale sistema filosofico. Non solo.
Questo suo sistema, che anche oggi è in gran parte vivo perchè rientra nel
corso delle grandi concezioni, è il più adatto a dare una base filosofica
all'interpretazione storica; perchè considera la reahà come movimento, ed è
tutto pervaso dalla persuasione della razionalità che governa la realtà e
la storia. Cosicché per quanto il Ferrari come politico sia un uomo di partito
militante e quanti altri mai fermo nelle sue idee, amante delle posizioni
nette, insofferente degli equivoci; come storico noi possiamo
essere sicuri che guarderà la storia dall'alto, saprà giudicare libero
totalmente dalle preoccupazioni politiche del momento, saprà rispettare la
veneranda grandezza del passato senza querimonie per gli eroi mancanti e
per le cause sconfitte, non farà ddla narrazione dd passato un pamphlet
<x)niro i suoi avversari ddl'oggi. In una parola sarà imparzude.
Questo è il suo significato ragioaevole di una simile rìciiiesta dd senso comune,
il quale esige non che lo storico non abbia un punto di vista a cui è
impossibile sottrarsi; ma che abbia un punto di vista elevato, donde sì
giustifichi, non si faccia il processo alla storia. Riepiloghiamo
brevemente il sistema del Ferrari, integrando la sua concezione più
propriamente filosofica, cioè di valore assoluto, con le determinazioni
empiriche onde egli cerca di dare una formula generale al movimento
storico. Il mondo è alterazione svolgimento rivoluzione; la storia è la
narrazione di questo movimento intemo ed estemo, prodotto dall'antitesi
delle contradizioni critiche insolubili ideali, e dalla lotta delle
contradizioni positive reali che si condliano in una specie di equilibrio
dinamico. In ogni momento nel mare enorme ddl'umanità l'individuo che ne fa
parte come tm'onda o meglio ancora come una goccia ha suoi interessi
particolari su cui nasce una sua rivdazione morale <1); messo di
fronte a nitti gli altri innumerevoli suoi simili, mossi pure da forze
utilitaristiche e morali varie e a volte contrastanti, lotta per eondUare
le contradizioni in tm dstema politico, che Non è se non la
proclamazione del determinismo econo^ micCj che egli applica poi nel
coreo della ina storia. si attua sopramtto d^tro i confini dello
stato. Ma ogni sistema» per legge ineluttabile di natura^ nutre
dentro di sé un sistema opposto destinato a succedergli . La stocianoa è
altro se non la narrazione del succedersi di questi sistemi nati
da^i interessi e dalle rivelazioni morali variabili dell&'masse»
divise tra loro> da una specie di lotta di cla|^e^<:te.r}esce^a.
propagare sempre più la democrazia e a conquistare una più larga
eguaglianza. Come si attua questo progresso dentro Io star
to? Lo stato è duali^ato in due paniti contra*) stanti che polarizzano
gli interessi delle moltitur dini, il pardto rivoluzionario e il partito
conservatore. La rivoluzione assale la forma tradizionale dello stato a nome di
un nuovo principio, di una più larga democrazia^ con la forma
politica opposta; monarchk)a negU. stati repubblicani^ federale negli
stati unitari, cattolica contro i protestanti,, erviceyersa. Vince perchè il
progresso è necessità fatale della storia; ma appena il prin^ cipio
da essa propugnato è stato accettato essa viene vinta dal partito
conservatore, che trasporta il nuovo principio sulla base politica tradizionale
onde lo stato si difende dallo stranilo. Perchè lo jstaio non è
solo sulla terra; ai suoi confini un altro organismo nemico vive con
intere^, cQnidoe, con tendee^o opposte. L'umanità è quindi una specie di
scaochiejra di nazioni che si prendono vicendevolmente a rovescio,
un (i) Cfr< la notfi teorìa di Marx. enorme
meccanismo di ruote dentate ingranate runa nell'altra che girano in senso
contrario, un sistema di forze disposte cosi che il partito oppositore
intemo di uno stato i sempre d'accordo col partito dominante dello stato
vicino e rivale. Ogni stato è quindi straziato da una guerra interna e nello
stesso tempo combattuto da una guerra estema : la lotta sociale domina e regge
la lotta politica. Poiché appena dentro uno stato trionfa un nuovo
sistema sociale, vien creata una nuova forma che allarga sempre più la
democrazia e Teguaglianza; il movimento si diffonde a tutte le altre
nazioni come il cerchio sollevato da una pietra gettata nel lago: e il
nuovo sistema sociale vien trasmesso dal lavoro delle minoranze
oppositrici a tutti gli stati. Guai se uno stato attarda troppo nella strada
della rivoluzione sociale! Esso vien conquistato da altri stati di
civiltà superiore. Guai se non adotta la forma opposta dd contrasto
I Viene assorbito dal vicino più potente. Gli stati le nazioni le razze
possono quindi decadere e magari spegnersi, ma l'umanità non decade e su una
linea di progresso continuo passa per una scala ascendente di sistemi
sempre superiori. Nemmeno nei periodi più oscuri di barbarie e più nefandi di
cormzione si ha decadenza: Anche un popolo vive esso è in progresso,
progresso che può essere arrestato solo dal fatto fisico della sua totale
disparizione per un cataclisma naturale o per un eccidio universale. Riceverà
l'impulso politico che una volta egli dava alle altre nazioni^ accettando le
nuove progressive forme politiche dall'esterno invece di crearle
per sua spontanea originale vitalità; perderà magari Tindipendenza,
ma la compenserà con un miglioramento sociale per cui accetta il vincitore;
vedrà succedere al fiorire delle arti alla ricchezza industriale e
commerciale sterilità intellettuale e miseria, ma avrà sempre un progresso
sociale che lo compenserà di questa sua decadenza. Poiché fra popoli
in lotta, come fra più individui, è naturale che il più forte vinca. Ed è anche
razionale. La forza dei grandi aggruppamenti storici non è la forza fisica, non
è il peso bruto del rinoceronte che schiaccia il fiore o il pugno del facchino
che tappa la bocca al tribuno; ma è ordine, disciplina, saldezza
economica, coscienza nazionale, è in una parola forza spirituale. Non è la pura
forza fisica brutale che vince nel gran campo di battaglia della storia,
ma è la superiorità intellettuale e morale: la vittoria corona sempre il
più degno, fatalmente destinata come la sconfitta; chi ha perduto se lo merita;
chi è conquistato : o s'è lasciato liberamente conquistare per godere di una
civiltà superiore che colle sue forze non poteva raggiungere, o si
è dimostrato nel paragone delle forze inferiore al suo vincitore
che in compenso della libertà perduta gli dà i vantaggi di un miglior sistema
sociale. Certo gli uomini e gli stati agiscono spesso sotto l'impulso di
bisogni materiali e di egoismi personali, ma la storia li adopera a tm fine che
li trascende; quella che VICO (vedasi) chiama provvidenrza ed Hegel ASTUZIA
DELLA RAGIONE trae dalle azioni egoistiche il bene dell'umanità, usa dei
malvar gi per un'opera buona, della cupidigia delle conquiste si serve
per spandere la civiltà sulle regioni selvagge o barbare, di Nerone per
iniziare la gran democratizzazione dell'Impero romano, di Fernando
Cortez per conquistare l'America a una civiltà superiore. Il male nella storia
non esi-^ ste come non esiste in natura : esso non è che in quanto
ha in sé il bene, un granello di bene che solo gli permette di esistere;
non è che un concetto dialettico senza realtà (!)• ^ storia è dunque razionale.
Non stiamo a spargere lacrime sugli eroi sconfitti e sui popoli caduti; la
storia li ha sacrificati con diritto a cause superiori : tatto
quello che è avvenuto è avvenuto razionalmente. La storia dà dunque la
vittoria al merito, progredendo con la legge del minnno sforzo. Date tali
forze in contrasto, la soluzione del sistema in un fatto sarà
rigorosamente quale doveva per il valore delle forze; a quella maniera
che in un sistema di forze flsiohe il loro rapporto è determinato dalla
loro potenza. La storia è dunque ne» cessarla : la serie degli
avvenimenti che dai tempi antichissimi arriva Ano a noi non poteva essere
diversa da quella che fu per arrivare a questo punto. Questa è una
necessità a posteriori: non una necessità metafisica o teologica
che Cfr. B/ Crock: Storiti, cronaca e false storte. Napoli, Giannini. Questioni storiografiche^ Napoli,
Giannini. obblighi uomini e cose a seguire le linee di un piano traéciaro
in antecedenza» ma una neces^ sita interna che nasce dal gioco delle
forze umane. Gli avvemmenti potevano variare, se le forze fossero state
diverse; e cambiato uno degli anelli, la catena sarebbe certamente
cambiata arrivando fino a noi : non si sarebbe giunti allora a
questa mèta, ma ad un’altra imprevedibile, non meno necessaria
secondo il valore di quelle forze. Cosi dalla storia vien cancellata la
parola ca^o, che una volta si usava a indicare la ragione ignota co^ me
dai geografi ìò spazio bianco a indicare una regione sconosciuta; cosi
vien cancellata là parola Ubero arbitrio inteso come un misterioso potere
deirindividuo, che con la piccola fòrza della sua volontà potrebbe
alterare il corso degli avvenimenti determinato dalle forze di volontà dell’umanità
intera. Per quanto un individuo voglia andar contro corrente, egli è sempre
Aglio del suo tempo; per lottare contro esso deve accettarne la
base comune di credenze ^e perflho le parole della discussione e le armi della
battaglia; per quan^to sia isolato non può mai impedire che la società lo
insegua e lo tocchi per combatterlo o per acclamarlo. Non lasciamoci
impressionare da certe parole e frasi, che potrebbero far credere a una
costruzione astratta a priori della storia : era nel carattere del
Ferrari di calcare la mano troppo violentemente sopra certe affermazioni, di'
mettere troppo in rilievo i caratteri comuni delle cose, di dare la
forma assiomatica d'una verità assoluta a certe generalizzazioni di cui egli
stesso riconosceva la relatività. Cosi quella storia ideale, che
secondo certe sue parole dovrebbe essere qualche cosa che rimane
sopra ai fatti ad essi indifferente e superiore, assoluta sopra essi
contingenti, come se nel blocco unico della storia si potesse tagliar
fuori il necessario dall'accidentale; ha qui perduto quasi totalmente il
significato primitivo e non è altro se non una generalizzazione e
semplificazione dei fatd storici fatta a posteriori, per poter
raccogliere i tratti caratti^istìci e per espediente didascalico onde non
dover tornare ogni momento a ripetersi. Del resto il F. stesso afferma
che questa sua storia ideale ricade d'appiombo a coincidere colla
positiva; ma una prova ben più decisiva ce Toffre la sua storia stessa,
la quale è tutt'altro che una storia astratta a priori. Così F. si
compiace spesso, sforzando al solito l'espressione, di chiamare
geometrici, meccanici certi movimenti, di dare come perfettamente
equivalenti certe rivoluzioni avvenute in forza di uno stesso principio viceversa
poi nella narrazione fa vedere anche come, pur nate dallo stesso
principio, si svolgono con forme individuali. Spesso pure e volentieri
tira fuori la fatalità : ma questa non è affatto l'opposto di libertà
individuale che leghi con un misterioso potere proveniente dalla natura o da
Dio; non è altro se non la forza storica dell'ambiente, forza umana e
immanente dell'umanità, della massa, che soverchia naturalmente il conato
d'un individuo. Premessi questi chiarimenti, diremo che il
suo sistema storico possiamo accettarlo. Mio Dio, non è di valore
assoluto, non si attua quindi in tutti i casi colla stessa necessità e
precisione con cui si attua un sistema fllosoflco : nonostante le
sue esagerazioni verbali il Ferrari stesso ne era persuaso, lo dimostra
la sua opera. Ma perchè vorremmo noi interdirci la generalizzazione, che è
un processo necessario del pensiero? Che non si prendano le
generalizzazioni, queste entità astratte, per realtà metafisiche; che non si
costringa nel loro letto di Procuste l'individuo d'accordo. Ma perchè
rifiutarle come strumento di ricerca e mezzo di spiegazione e di esposizione?
E' generalizzazione evidentemente la divisione in periodi storici
(sistemi o principi): la storia è un corso continuo di avvenimenti simile
a un fiume; ma come il corso del fiume si può dividere in superiore
e inferiore, così si può dividere, cosi si è sempre divisa la storia. E'
generalizzazione il raccogliere gli innumerevoli partiti di uno stato in
regnante e opponente, ma essa semplifica e spiega la realtà. La legge di
opposizione, che organizza gli stati vicini in senso inverso gli uni degli
altri,è pure una generalizzazione e guai se uno volesse applicarla
rigorosamente I Pure la forma politica de^i stati è una
generalizzazione, perchè questa forma un tempo non era cosi e
insensibilmente va sempre mutandosi. Lo stesso movimento dei prìncipi
considerati come qualchecosa d'assoluto, di perfettamente identico per tutti
gli stati che li traducono nelle loro forme politiche diverse, è una sempHBcazione
generalizzata; perchè qui contenuto o principio e forma sono
ruu'uno, non si possono scindere né l'uno dall'altro, ni dagli uomini che li
rappresentano, come fossero delle entità metafisiche. Di
fronte a tanta ricchezza di pensiero non facciamo dunque i sofistici pesatori
di parole, non afferriamoci alla lettera cruda che uccide lo spirito,
sdegniamo un procedimento che distrugge colla pedanterìa terribile dei
cavillatori qualsiasi grand'uomo; e abbandoniamoci con simpatia al nostro
autore cercando di intenderlo. Vediamo ora come questi prìncipi vengono
applicati airinterpretazione della storìa d'Italia. L'enorme devastazione
unitarìa di Roma aver va sottomesso tutti i popoli del mondo antico
al dispotismo imperìale, per eguagliarli in una democrazia vittoriosa di
mtte le aristocrazie nazionali, per trasmettere loro la civiltà del pensiero
. greco e della legge romana. Ma dopoché e$8i ebbero conquistati i
benefìci della civiltà e della democrazia; quando i Galli e gli Afrìcani, gli
Iberì e gli Illiri furono tutti romani dinanzi all'ugua-, gliatrice legge
imperiale^ allora l'interesse e il sentimento di patria li rivoltarono
contro il fiscalismo micidiale dell'Impero che, flagellato dalle onde del
grati mare barbarìco minacciante ai confini, era costretto per le necessita
della difesa a caricjBre di tasse i suoi cittadini o a maneggiare
Je invasioni cacciandole l'una con l'altra e un pròcesto di dissolvimento
federale decompose la ciclopica unità romana. Una invasione barbarica
stabile venne accettata dai popoli per sfuggire al flagello delle
invasioni perpetuamente rinnovantisi che moltiplicavano le devastazioni; e la
caduta dell'Impero romano d'Occidente è salutata come una liberazione
economica e politica, che conservava intatto nitto il progresso sociale
di Roma. Odoacre venne dunque accettato dall'Italia come liberatore;
Teodorico, spedito contro di lui per un bieco disegno di reazione
dall'Imperatore d'Oriente, una volta signore della terra doveva
assumere la posizione e continuare la missione della sua vittima.
(Fondazione del regno). Senonchè lo spirito uhiàno nei suoi desideri non
si ferma mai sotto la spinta di sempre nuovi bisogni; e una volta
stabilito saldamente quel regno che li aveva liberati dal fiscalismo
imperiale, gli Italiani vollero conquistare una maggior libertà, e si
raccolsero attorno alla Chiesa cattolica repubblicana e federale per
assalire il regno ariano e unitario dei barbari. Comincia la Lotta
contro il regno barbaro estemo. Fulminati dalla potenza invisibile della Chiesd^
erede di Roma cadono gli eroici Goti; Narsete, che vuole sfruttare la vittoria
romano-bizantina per rialzare una specie di regno bastardo, Cfr. C.
Balbo: Della storia if Italia. Bari, Laterza: Bisogna dire che parerle una
benedizione qnell' invasione stanziata dopo tante momentanee più cmdeli e
più sovvertitrici. non può rimaner saldo sul terreno malfido. {Riv.
d'it.) : Ecco i Longobardi che giungono In apparenza marciano casualmente;
formano una moltitudine densa sozza vorace, che scende lentamente dai
passi delle Alpi, si spande squallida compatta ardente come la lava,
sepellisce sotto di sé le città che invade, le petriflca colFalito suo;
nella sua brutalità non infrange nemmeno gli ostacoli ma li circonda
oltrepassandoli ed invade metà della penisola fermandosi subitamente senza
ragione alcuna. La scena è muta e desolata : si direbbe che tutto cede a
leggi esclusivamente fìsiche, e che i Longobardi obbediscono al peso
della loro propria materia. Senonchè questa massa in apparenza bruta
di Longobardi evita a disegno tutti gli errori dei Goti : non errano come
soldati, ma si stabiliscono come un popolo di conquistatori nell'Italia
del Nord e nel centro, rinunziando alle inutili vittorie del Mezzogiorno;
fondano una rete strategica di fortezze che sorvegliano e imprigionano
le grandi città romane sempre rivoluzionarie; trattano i vinti da
conquistatori, sottomettendoli alla legge della spada e derubandoli del
frutto del loro lavoro. Inutile: Tltalia romana e cattolica rimane libera,
sotto l'egida ufRciale della protezione di Bisanzio; e S. Gregorio Magno papa
(590604) divenuto capo della federazione romana e rappresentante anche
dei vinti del Regno, volta contro la barbarie longobarda tutti i miracoli
della religione e la potenza spirituale del pontefice, a cui una nuova
teologia dà il potere di condannare o assolvere i morti prima del Giudizio
universale. Le due forze antagoniste rimangono dunque di
fronte a influire Tuna sull'altra vicendevolmente : ma se i Longobardi
eccitano col loro esempio r Italia romana a conquistarsi Tindipendenza
politica da Bisanzio, sperando cosi di ingoiarsela dopo; non possono sottrarsi
all'influsso della Chiesa, che con una rete sotterranea di silenziose
cospirazioni mina il sottosuolo dell'Italia regia per mezzo dei suoi
cattolici. Prima decompone il regno opponendo al re ariano di Pavia, la
capitale longobarda, il re cattolico di Milano, la capitale romana; e infine
trionfa coll'avvento del cattolico Liutprando. I Goti avevano commesso l'errore
di accettare il principio imperiale, i Longobardi commisero quello di accettare
il principio cattolico : e paralizzati dalla inimicizia intema dei
cattolici, caddero sotto il fuoco incrociato della rivoluzione romana e
della eroica devozione franca. Per quanto più tunani dei mostruosi re
franchi, meno fiscali dei corrotti Bizantini, già seminazionalizzati da
un processo di fusione coi vinti del regno; non furono mai accettati
dall'Italia romana, che organizzata antiteticamente li combattè con la
rivoluzione col Papa coi Franchi. L'Italia romana non voleva il flagello
d'un regno Cfr. Volpe. Pisa e i Longobardi in Studi storici, Pisa,
Non il re franco fu il vero vincitore, ma l’Italia e Roma, che avevan
rotto la natia compagine delle genti d'Alboino, già predisposte a ciò
dall' antica costituzione del popolo e dai modi della
eonquista. l>arbaro che avrebbe imbrìgliato la rivoluzione sodale,
legato i gran centri romani nella rete delle città militari in arretrato,
sepellito sotto un'alluvione barbarica le reliquie della civiltà romana
conservate dal cattolicismo. E per impedire che potesse mai formarsi
un regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, destinata a spandere il
fuoco della libertà su tutta l'Europa, l'Italia trasportò l'Impero in
Occidente. Come rappresentanti del nuovo patto sociale che doveva essere la
base del diritto pubblico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e
l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad essere la custode del
loro duplice potere europeo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Papa
Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia meridionale con le isole
da conquistarsi ancora 3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in
Ocddente). L'Italia perde quindi l'indipendenza nazionale, ma acquistava
la libertà: e per tutti i domini del Papa e dell'Imperatore il progresso
sociale migliorava le condizioni dei Romani, non più sottomessi alla
legge della spada barbarica, ma alla giurisdizione dei loro vescovi;
rialzava la sorte delle città dell'industria e del commercio a
danno (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde della coltura
romana ad attivarne nuove scintille .Solo le terre ancora escluse dal patto
papaie-imperiale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Sicilia, scontavano
amaramente la loro indipendenza politica con una inferiorità sociale,
prodotta dalla confusione bizantina dd potere temporale e del potere
spirituale, la quale impediva la gran libertà del pensiero.
Intanto Tunità dell'Impero d'Occidente andava decomponendosi sotto
gli inetti successori di Carlo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa
delle nazioni insegnando loro a conquistarsi una libertà federale. Ma poiché da
questa risorge lo spettro micidiale d'un regno barbaro interno, la rivoluzione
papale e imperiale sempre regnante approfittando delle rivalità tra i
feudatari rende impossibile il regno d'Italia, lo condanna a non essere
che una lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a due
rivali e rialzando sempre il vinto contro il vincitore (Lotta contro il
regno barbaro interno) finché invocato dalle rivoluzioni italiane giunge Ottone
I a rinnovare il patto papaieimperiale. Egli distrugge per sempre il regno,
disorganizza le marche dei discendenti dei barbari, esalta il clero romano,
protegge i comuni italiani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte le
nazioni europee e modifica al suo esempio anche la Chiesa. {Riv. d'Italia): L'Europa
trovasi disposta come gli intervalli di «no scacchiere, gli uni bianchi
gli altri neri, gli um unitari gli altri federali; presso gli uni la religione
prevale sulla legge, presso gli altri la legge primeggia sulla religione;
i primi progrediscono con l'eguaglianza, i secondi con la libertà. La
necessità della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al rovescio
gli uni degli altri; la stessa necessità della guerra li obbliga pure ad
accettare coll'una o coiraltra delle due forme la rivoluzione italiana
che si propaga. Cigni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica sé
stesso che non prende la sua base d'operazione in opposizione ai suoi
vicini, si trova debole impotente in contradizione con se stesso e
soggiogato. Se si cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda
diretta» uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se invece si segue
nell'urto delle azioni e delle reazioni che si estendono opposte le une
alle altre.... si vede dappertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta
con esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlovingio o pagano
sparisce per cedere il posto ad un nuovo stato libero colle diete o
popolare col re. Liberata cosi per sempre dalla tirannia unitaria di un
re l'Italia può abbandonarsi alla carrìera magica delle sue rivoluzioni, che
sembrano frantumare in moti individuali variati disordinati la sua
ideale unità di nazione, e a prima vista ci appaiono refrattarie a
qualsiasi principio organico di interpretazione (Riv. d'Italia):
Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto all'azione dei principi; e
la storia d'Italia si svolgeva una e logica, dominando i più svariati
avvenimenti con una specie di continuità drammatica un tempo vasta come il
mondo. Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto unico del regno
proclamato contro gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi
a Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Unni e Roma ai Vandali. I
Goti continuavano l'opera di Odoacre, fissando l'invasione unica del re
in tutta l'Italia. Bdisarìo e Narsele lottavano pure quali capitani
dell'unità Imporàde contro il ragno tondKo so Ravenna; e tutte le città,
scacciando i Goti, si rianimavano con un risorgimento quasi repubblicano.
Più tardi i due principi opposti dell'unità imperiale e dell'invasione
regia si spartivano materialmente la penisola; e la terra, metà romana,
metà longobarda, rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del
Mezzodì contro la dominazione ariana di Pavia; ancora una nel doppio
slancio che estolleva le repubbliche cattoliche e il regno longobardo;
sempre una nell'infallibile trionfo della religione delle repubbliche,
che consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Impero d'Occidente.
L'unità sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la vera
Italia dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei
Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici
del Papato e dell'Impero; l'unità si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni
posteriori contro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re
italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici
rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra ordinata nelle sue lotte, uniforme nel
suo ultimo trionfo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della
Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t due principi della
rivoluzione cattolica e del regno nazionale, s'intendeva facilmente il
senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra scoppiava doveva
essere la guerra dei due principi: ci bastava il seguire le due correnti, il
nostro lavoro era eccezionale senza esser diffìcile, l'unità delle idee
suppliva all'unità materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di
sottomettere ad una unità eccezionale il moto eccezionale del Papato e
dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si
scostavano da se stesse per lasciare il posto alla geografìa
pontifìcia imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio
della vera Italia ne confermavano l'unità rivoluzionaria, la sola che importava
di seguire. M« dai primi anni del XI secolo cambia la scena; il moto
generale scioglie ^uestltalia che già sconcertava la critica: o^i città ha il
suo eroe, le sue rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni
non sembrano punto associati; nesstma federazione, nessuna lega, nessun'
unione generale e apparente: Milano è straniera ad Ancona qtianto Arles
Treverì o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti si
incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono innumerevoli. Alcune città
fondano delle colonie, altre si estendono colle conquiste, giungono i
Normanni, la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'inoltriamo,
tanto più le forze della guerra e della libertà sembrano scatenarsi a caso. Lo
spirito si turba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi storici
non abbracciano più l'insieme della penisola: Giordanes, Paolo Diacono,
Vamefrìdo e Liutprando non hanno successori; più non si scoprono se
non dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Più tardi ogni
città ci presenta la sua biblioteca dì scrittori, i suoi poeti della barbarie
municipale, il suo Cimerò che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di
cento storie distinte diverse contradittorie, senza legame palese: noi lo
domandiamo, dove sarà la storia d'Italia? Le nostre proprie idee ci
danno il filo che ci guida attraverso il labirinto italiano. I comuni
s'impadroniscono del suolo per interpretare la vittoria da essi riportata
col Papato e coli 'Impero; essi proseguono la loro guerra contro il regno,
combattendo ogni rimembranza, ogni istituzione che richiama la
legge, la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei re;
questo è lo scopo loro; essi marciano contro il Papa e l'Imperatore per
distruggere nell'uno e nell'altro ogni principio che conserva le tracce dei
Goti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Europa. La storia dei
comuni non è dunque altro che la storia di una rivoluzione continua,
lenta, fatale, e sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a combattere
il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della barbarie, per creare un
Papato, un Impero ideale, donde spariscano in modo cosmopolita tutte le
traceie della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand 'errore ingombra la
storia d'Italia, ne sconvolge i prìncipi il moto le epoche il
progresso, e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed è
l'errore che la considera come il racconto di una guerra continua contro
il Papa e l'Imperatore per conquistare l'indipendenza politica del
governo o, come si dice in oggi, per respingere l'invasione dello
straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe mai stata, la prima
delle nazioni, e la sua storia riuscirebbe a questa assurdità inammissibile:
che dopo cinque secoli dì guerra non avrebbe né raggiunto, né voluto lo scopo
stesso della guerra. No! nacque l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti,
contro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e burgundi; nacque
creando e interpretando il gran patto della Chiesa coli 'Impero; dominò
le stesse conquiste carlovinge cogli incanti della religione e colla
magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi di Teodorico la
Chiesa e l'Impero sono stati i simboli della sua libertà, della sua redenzione,
di ogni sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e
nel possibile; e con la costituzione dei due poteri essa ha organizzato
una rivoluzione permanente, universale, indefinita nelle sue aspirazioni verso
l'avvenire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico è
l'Imperatore, il più debole il piii legale il piti federale dei re; il secondo
suo capo è il Papa, cioè il più inerme tra i principi, il meno
conquistatore dei sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suolo
italiano, ed al contrario il regno che era conquistatore venne schiantato con
una guerra così violenta che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero
scossi. Pertanto non vi ha, né vi sarà mai guerra alcuna d'indipendenza; Il
Pontefice e l'Imperatore non avranno se non pochissimi soldati, sempre
costretti a fondarsi sulla forza stessa della terra. Che, ss sono
assaliti, si è perchè sono oltrepassati dagli Italiani che vogliono
riformare il patto» che chiedono sempre un miglior Papa che non esiste, un
Imperatore che dev'essere rifatto: nò punto reclamano una vuota indipendenza;
ma sostengono una guerra costituzionale intima organica per trasformare le idee
le istituzioni la religione, una guerra dove il principio di respingere
gli stranieri è sempre posposto al principio di distruggere ogni istituzione
regia o feudale. E se il Papa e Tlmperatore resistono, non combattono
se non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle reazioni
inteme che la libertà provoca e sormonta, imponendosi loro cosi d'epoca
in epoca fino agli ultimi giorni del risorgimento italiano. La storia dei
comuni, considerata in tutta la sua durata, non è dunque la storia di una
guerra contro lo straniero, fatto unico materiale mille volte impotente;
ma è la storia di un fatto ideale organico sempre crescente: e poiché là
dove le idee regnano il caso non può regnare, l'oscurità del labirinto italiano
deve sparire - e qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzione
è la stessa in tutte le città : da per tutto essa ha lo stesso punto di
partenza la caduta del regno, lo stesso punto d'arrivo il risorgimento
italiano; da per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla
medesima logica; lenta o rapida, squallida o splendida, vittoriosa o vinta, le
sue fasi sono determinate anticipatamente dall'inflessìbile destino che
sforza i principi a generare le loro conseguenze. Che i mille accidenti
della guerra turbino adunque l'Italia, essi saranno tutti travolti da una sola
corrente; e vi sarà sempre una storia ideale e uniforme, comune a
tutte le città da Ottone I alla flne del risorgimento. La storia
ideale della città italiana si ripete a un patto di Carlo Magno, che essa
interpreta e che trasforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore
noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tardo, se ne dichiarano
apertamente conservatori; la loro opera è sempre una restaurazione
imperiale e pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella storia? Noi
non ne conosciamo: gli antichi poteri che diconsi ristabiliti si trovano
sempre trasformati, e non trionfano se non accettando Topera del tempo,
e non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di
rappresentare i principi che la fatale ignoranza del governo tradizionale
lasciava ai loro nemici. Stessamente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro
restaurazioni così dette eterne, seguendo passo passo la storia delle
città italiane di cui amnistiano le ribellioni e accolgono le innovazioni. Egli
è giusto che resistano; se non resistessero la rivoluzione non avrebbe
nessuna ragione per manifestarsi e nel medesimo tempo la storia ideale si
fermerebbe. Ma egli è altresì giusto che, una volta sconfitti, si
ristabiliscano, accettando il progresso che si è fatto strada e che passa allo
stato di fatto compiuto o di fato ineluttabile; ed è così che tutte le epoche
della storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Magno colla Chiesa.
Una volta nel patto, esse si ripetono in tutti gli stati dell'Europa. Non sono
forse il Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Occidente?
bisogna dunque che propaghino da per tutto le idee da essi rappresentate:
d'altronde tutti gli stati non si svolgono forse simultaneamente gli
uni contro gli altri? devono quindi accettare ogni progresso, non
foss'altro per combatterlo. Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono
tutte le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa la varietà a prima
vista irreducibile di forme, e le costringe ad essere incasellate entro
il quadro di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il
periodo storico che il Ferrari ha studiato con più amore e trattato con
più larghezza i la storia an- t^rìorc al 962 e posteriore al 1530 è
rispetdvamente conaiderata come imrochizione e come epilogo alla epopea di quel
che egli chiama risorgimento italiano. Allontanato per sempre il
perìcolo d'una tirainide regia colla rinnovazione del patto papaloimperìale e
col trasporto dell'Impero in Germania, r Italia che fln qui era stata l'alleata
dd Papa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma non per distruggerli,
bensì per riformarli, trascinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartiere
contro ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dtì Vescovi apre
la serie. Nella città sfuggita ormai all'incubo dd re^ gno ecco si
trovano di fronte due poteri : il conte goto longobardo o franco di
discendenza, che vorrebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia ddle mura
cittadine la tinmnide regia, che governa cdla legge ddla spada il popolo
di discendenza romana; e il vescovo romano di razza e di tradizione che
protegge i deboli contro la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo
loro le porte del suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone
impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B. popolo si serra attorno
al suo vescovo, vuol essere giudicato dalla sua giustizia superiore a quella
del conte come la ragione alla spada, si appassiona per tutte le sup»*stizioni
dd cattolicismo voltandde come armi ideali contro le alabarde degli
sgherri comitali^ finché un giorno scoppia improwisame&ie una sollevazione
annata. Il conte si trova espulso, e nella città si comincia a sbozzare
colla formazione dd primo popolo raccolto dalla corte del conte e da
quella del vescovo Torganismo comunale italiano, che non è una derivazione
germanica o romana ma nasoe adesso oomh battendo contro le memorie del
regno. La rivoluzione vescovile irraggiata dal focolare di ribeÌlto>
ne delle città penetra nei feudi, ove sostituisce famiglie pie di tradizione
romana e avversa al regtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discendenti
dagli invasori; conquista il Mezzogiorno paralizzato dalla confusione bizantina
dei due poteri, al seguito delie schiere avventurose dei Normasni; e in RomB
trionfa coHa libera elezione popolare e clericale di Gregorio VI nemico
dei conti e dei patrizi. Ma i centi espulsi daUe città da un
esercito d! straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'autorità
legale del loro supremo tutore, l'Imperatore, che vede oltraggiata la sua
legge; e Corrado II di GebeHno comincia la reazione contro i vescovi.
Invano : sconfitto da Eriberto di Milano, che oppone alla cavalleria
feudale le picche dei popolani raccolti attorno al carroccio novdlamente
creato, vede la sua reazione abortire nelle città e nei feudi deiritaUa
imperiale e in Roma, e deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano ddritalia
meridionale è il Papa, che l'ha avuta fai seguito al ^an patto
carolingio: a lui quindi spetta di guidare la necessaria reazione contro i
Normanni rappresentanti meridionali del principio vescovile, i quali dopo
averto vinto sforzano S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione.
E cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e legalizzata la
rivoluzione italiana, come poteri europei la diffondono in tutta l'Europa; e
perfino ndla Chiesa, la quale si appassiona per la verginità mistica in
odio dei preti ammogliati, che profanano la sua repubblica immacolata con una
specie di feudalità clericale. Appena ottenuta la legalizzazione della
cacciata del conte, la rivoluzione entra in una seconda fase, continuando
contro i vescovi nominati dall'Imperatore che li incarica di sostenere la parte
dei conti, per strappare la libera elezione dei vescovi stessi e una volta
vittoriosa vuole la libera elezione del più grande dei vescovi, del Papa,
che l'Imperatore si arrogava il diritto di imporre. Il monaco Ildebrando
riunisce tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma ai papi
tedeschi, prima con l'elezione di Nicola II, poi con quella di Alessandro
II contro l'antipapa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul trono pontificio
assale per la prima volta la supremazia imperiale, e trasporta nella Chiesa la
rivoluzione vescovile compita predicando la crociata. Senonchè l'utopia di
Gregorio VII conteneva il germe d'una reazione pontificia contro la
libera elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto trasportare dalle mani
dell'Imperatore a quelle del Papa: cosicché al suo avvento gli uomini della
rivoluzione passano nel campo nemico; dichiarano che il Papa non è il padrone
della Chiesa ma, sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili,
è il servitore dei servitori, e può essere deposto se manca alla
sua missione. Ecco cosi la guerra delle investiture che è la reazione
papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi : i due capi
sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi interpretando con mente retograda
l'antica tradizione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi, come
avevano atterrato il vecchio Impero sotto 1 colpi di Gregorio VII,
atterrano il nuovo Papato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le
città dirigono il Papa e l'Imperatore: sono imperiali quando il Papa trionfa e
pontificie quando l'Imperatore prepondera, e finiscono col seguire l'alleanza
imperiale sulle terre della donazione e quella papale sulle terre
dell'Imperatore. Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla
Germania; le città lombarde decidono Arrigo IV a resistere e gli danno la
vittoria nonostante la sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quando la
sua vittoria diventa minacciosa disertano il suo campo e rialzano il
Papa; e continuano in questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad
ottenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa e l'Imperatore
diffondono al solito dopo concessa a tutta l'Europa. Anche la prima
crociata cade sotto la legge della rivoluzione vescovile: costituita coi
quattro elementi della città italiana, la moltitudine il popolo i consoli e i
vescovi, altro non è se non Te spetrìazioae volontaria della feudalità
che lascia libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi.
Abbiamo dato un sunto diffuso di questo periodo per offrire un esempio
più chiaro del metodo interpretativo del Ferrari : ora potremo procedere
più rapidamente. Qi stati dell'Europa non avevano ancora compita la prima
metà della rivoluzione dei vescovi che nelle città italiane dov'era nam
essa era assalila da una nuova rivoluzione, nei principi oscura e indecisa,
dopo cosi splendida e scandalosa c^ tuid i vescovi della cristiania ne
erano scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^ 2ipassava
anch'essa per due tesi: prima sostituiva il governo vescovUe ed
governo consolare; poi scatenava le une contro le i|kre città consolari,
divise in due campi per conquistarsi con la guerra una più larga libertà
dentro il patto papaie-imperiale. Nella città vescovile il vescovo essere
religiosa e u-asmondano si trovava a capo della moltitudine, agitata da
tend^ize industriali e commerciali completamenie mondane ch'egli non
poteva soddisfare né raffrenare. Dall'opposizione nasce
rifisurrezione : la città si muove prima conservando le apparenze
dell'obbedienza, poi rinnova le sue istituzioni e crea un nuovo popolo
più allargato e democratico chiamato a legiferare nd parlamenti che, col
tradizionale intervertimento di aUeanze nemico del Papa negli stati della
Chiesa e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, assale il diritto
del regno a nome nel risorto diritto romano. La. immancabile
reazione pontificia e imperiale procedeva questa volta unita : Innocenzo
II e il suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cattolica tedesca
allora vittoriosa nellimpero, secondo la formula generale di tutte le reazioni
opponevano il passato sempre vivo in essi al presente da cui erano assaliti; e
combattevano i consoli fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed altra volta
si ardentemente invocati dai popoli, ma non riuscivano che ad ottenere la
fatale sconfitta. Ed ecco che appena vittoriosi della duplice
reazione i consoli spingono le città le une contro le altre in quella
guerra municipale, che fa la maraviglia e lo sdegno degli storici maldicenti
con le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fratemo. E' questo
uno dei misteri più profondi della storia ditalia: la guerra municipale non
si spiega né colla volontà del Papa e dell imperatore, nò colla lotta fra
i due capi della cristianità, nò colla duidità geografica di Roma e di
Pavia, nò colle vertenze fra i diversi distretti, né colla HbeDione
dei castelli. (Riv. d'Italia): Guardiamo alla terra dove sorgono le
città libere : la sua gìeografla é anticipatamente determinata da una
rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vescovi ha disorganizzato il regno,
ne ha paralizzata la capitale, lìia isolata, ha degradato le città militari
che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro funzioni strategiche, ha
soppiantato Pavia e i centri secondari che erano padroni delle vie dei fiumi
del commercio di tutto. Le città romane sono state rialzate, opposte alle
città militari; restituite all'importanza naturale che loro davano il
conmiercio, la ricchezza, la facilità delle comunicazioni, le circoscrizioni
diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero della civiltà. Ne nasce che la
terra è dualizzata in ogni parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate
tutte le città le une contro le altre: ogni centro militare si
trova in presenza di un centro romano a lui ostile; Tuno declina, l'altro
s'inalza; l'uno immiserisce, l'altro prospera; l'uno langue, l'altro risorge.
Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle città non è ancora
apparente, la legge imperiale e pontificia regna ancora, la guerra si
dissimula; e se i conti sono congedati, la metà della gerarchia sussiste ancora
col vescovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e non vedonsi
che lotte momentanee. Eriberto di Milano non combatte le città dei dintorni se
non per ordine dell'Imperatore. Ma nel momento dei consoli la
disorganizzazione vescovile del regno si fa laica, la dualizzazione delle città
diventa economica: più non trattasi di reclamare precedenze,
giurisdizioni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchezza, i fiumi, le
strade, i transiti trasformati in istrumenti di prosperità o di miseria; il
mercante, il fabbricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessuna
gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raffreni le rivalità; non i giudici
per decidere sulle vertenze, le città devono giudicarsi da sé. Esse sono
in contatto immediato; il contatto diventa lotta, la rivoluzione dei
consoli diventa guerra si potrebbe forse evitarla? Guardiamo sempre la terra. La rivoluzione dei
consoli si sviluppa sul fondo stesso della prima rivoluzione dei vescovi,
per raddoppiare la disorganizzazione del regno e la degradazione delle città
militari. Questa degradazione è fatta dal commercio, dall'industria; diventa la
miseria dei centri regi, la prosperità dei centri commerciali : i
primi son condannati a difendersi sotto pena di morire, i secondi combattono
anche prima di dichiarare guerra perchè basta loro il vivere il
progredire per spegnere le città dell'antico regno; esse assorbono
t frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse rifanno tutte le
strade tutte le comunicazioni al rovescio del sistema militare, esse
sostituiscono alla strategia regia quella del commercio che procede lenta
sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci. Come
resistere loro se non colle armi? Ecco l'ostilità dichiarata: ogni città
militare lotta colle armi, coll'astuzia, con tutti i mezzi della
politica; tutti soa buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la
patria. Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della libertà e della
civiltà contro le città più libere, più civili; si spingeranno alla
ribellione i comuni intermediari promettendo loro l'indipendenza; si
tenterà di smembrare le città romane, di attorniarle con borghi insorti,
di disorganizzare questo centro di disorganizzazione e ne nascerà l'aff
razionamento dell'aff razionamento, la guerra della guerra. Fin qui
abbiamo considerata solo la natura del suolo: e l'abbiamo trovato friabile,
inconsistente, disposto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in
tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sotto la pressione del Papato e
dell'Impero. Prendiamo ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che
la guerra deve raddoppiare d'intensità. Qual'è la circoscrizione della
terra ove sorgono i consoli? La città vescovile si ferma ai corpi santi;
pivi oltre tutto è occupato dai feudatari dell'Impero, la campagna è cosa loro,
l'irradiazione popolare della prima rivoluzione ha dovuto soffermarsi nei
limiti determinati dall'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono
forse rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuovo popolo, del
doppio più potente coll'avvenimento ddrinéttstrìa e del commercio, due
volte più ricco grazie alla sua attività che moltiplicandosi
trabocca oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinnovano i
bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del conume, le fortezze, i cimiteri;
la città s*adoma, s'ingrandisce e più non può capire nel proprio territorio, e
segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i suoi sbocchi: dei pedaggi
altre volte insignificanti intralciano il corso delle merci, dei villaggi
un tempo inosservati le tagliano le comunicazioni; la città smania di
estendersi, di svincolarsi dalle sue pastoie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e
Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fondano
delle colonie consolari; ma per le città delFintemo non hannovi terre vacue, la
campagna appartiene alla feudalità, tutte le giurisdizioni son armate, i
confini sono spietati e le città si gettano sull'unico spazio che sia vuoto,
sullo spazio della rivoluzione consolare. Ogni città che si governa
coi consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del
consolato, e si presenta come la preda naturale del nemico che l'osserva; essa
è res nuUius: 9 combattimento è permesso naturale inevitabile; ed
ogni città, ogni borgo aspira a diventare una capitale; la guerra deve durare
fino alla liquidazione generale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere
rifatta per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore animati da
sentimenti patemi e da benefiche intenzioni; supponeteli sempre pronti a
intervenire per predicare la pace l'unione la concordia; supponeteli abbastanza
forti per ottenere innumerevoli conciliazioni,per riparare mille torti, per
render giustizia agli oppressi; supponeteli protettori, conservatori
come devono essere secondo il dato primo del Papato e dell'Impero:
le città riporteranno vittorie che non saranno vittorie; le-sconfitte non
saranno sconfitte; nessuna guerra riuscirà ad alcuna soluzione; tosto ottenuto
un vantaggio bisognerà rialzare le torri spianate, ricostruire le mura
smantellate, riedificare le città incendiate, restituire il territorio
conquistato; e alla partenza del Papa deirimperatore e dei loro delegati, le
cause della guerra sussistendo ricondurranno le città al combattimento; si
rimarrà per secoli a battagliare in una casamatta, ai piedi di un
bastione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vittorie inutili, per
subire mille sconfitte sempre riparate. La guerra municipale che
rimane dentro i confini della regione viene quindi ridotta al dualismo
delle città militari e delle città romane costrutte le une a controsenso
delle altre : di Milano e di Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e
di Verona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di Ravenna la capitale
di Odoacre, di Firenze e di Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle
città latine : anche il regno di Napoli si toglie all'analogia degli altri
regni per seguire la legge delle città italiane, funzionando come una gran
città cambattente con Palermo contro i rimasugli federali dei piccoli
stati greco-longobardi. Questa guerra che oggi si considera come un
disordine odioso era nel secolo XII un progresso, una rivoluzione, il
primo passo delle città per determinare i loro confini a nome della propria
libertà insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdizioni.
Intanto Fed. Barbarossa,capo della rivoluzione vescovile in Germania, si
propone di combattere in Italia la seconda fase della rivoluzione consolare,
sopprimendo la libertà della guerra municipale che insulta alla sovranità
dell'Impero: e A. PrrraRI Giuseppa F. la sua reazione subisce
vicende diverse secondo che si muove sulla terra delPantìco regno o
su quella del Papa o del regno normanno. Nell'Alta Italia diventa capitano
municipale delle città romane, manovrante da bandito con l'uniforme
d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra la conferma. Dopo i
successi effìmeri dovuti alle città che lo secondavano nelle prime
discese, vinto dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e dalla fondazione
d'Alessandria, accorda il diritto alla guerra sanzionando nel trattato di
Costanza le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia di Legnano non è
dunque una lotta repubblicana e nazionale dei liberi comuni contro
l'Imperatore tedesco (1); ma una lotta fra le città romane guidate da
Milano è le città militari guidate da Pavia, per ottenere dentro la gran
giurisdizione dell'Impero la libertà della guerra. La nuova
rivoluzione, appena legalizzata dalla duplice repubblica europea del Papa
e ddl' Imperatore, si diffonde dappertutto dando ad ogni nazione dei
governi con missioni consolari : perfino nella Chiesa, che assalita da ogni
parte prende al rovescio i suoi nemici colle creazioni consolari dei cardinali,
dei concili, dei nuovi ordini francescani; e sostituisce la conquista
vicina dell' Inquisizione alla conquista oltremarina della Crociata, e la
scolastica di S. Tomaso e S. Bonaventura all'indisciplina dei Francesi e dei
cappuccini. Cfr. J« BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,
Macmillan, Non si dichiaraTano prìncipi repubblicani, né si faceva appello alla
nazionalità italiana. La terza grande rivoluzione italica prende nome dai
Cittadini e Concittadini e pa9sa per le fasi della guerra ai castelli e della
guerra cittadina che provoca la creazione del podesta. La città
consolare, la quale non è altro se non un'oasi in mezzo alla foresta
feudale del regno che copre ancora tutta la campagna inceppando il
libero espandersi del commercio, una volta ottenuta la libertà della guerra
riflette che le città rivali sono troppo radicate alla terra, mentre i nobili
della campagna si presentano come vittime facili; e volta contro di loro
l'impeto irresistibile della sua espansione economica e politica. Le
città romane specialmente combattono con furore contro la moltitudine dei
feudatari che le accerchiano impedendo loro il respiro; e questa ultima
rivoluzione che estende la libertà alle campagne si presenta come la
conclusione della gran guerra contro il regno, distrutto nelle sue
sopravvivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Italia, che funziona come un
gran municipio, la guerra ai castelli si confonde con la continuata guerra
municipale di Palermo contro gli antichi centri, ultimi nidi di feudatari di
sangue longobardo sognatori di sorpassate franchige aristocratiche.
La soluzione della prima fase, vittoriosa della reazione, apre una
nuova lotta. I castellani, naturalizzati e deportati per forza nel cuore
della città che loro impone l'odiosa legge dell'uguaglianza, si vendicano
costruendo delle fortezze inteme, armando i loro servi, conquistandosi coil'oro
la moltitudine che voltano contro il popolo e ricominciano un
combattimento che come quello fra città e città non può finire; perchè il
denaro è alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la finanza colla
finanza : i proprietari della terra (concittadini) sono almeno forti come i
possessori deifabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Imperatore si
presenta ai cittadini e ai concittadini per riassumere ed eternizzare il
loro combattimento: con la solita interversione d'alleanze i cittadini
dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli di Roma e delle Due Sicilie
invocano l'Imperatore; al contrario i concittadini dell'Alta Italia seguono
l'Imperatore, mentre quelli della Bassa Italia invocano il Papa contro
Palermo. I torbidi continui, le prese d'armi improvvise,
l'anarchia imperante, conducono alla creazione di un nuovo governo : i
consoli nella loro qualità di capi dei cittadini come parti in causa non
hanno quell'autorità imparziale che possa giudicare i due partiti,
e lasciano il posto ad un nuovo magistrato nel tempo stesso giudice e
capitano, ad una specie di dittatore annuale che si chiama podestà. Preso
all'estero e quindi superiore ai partiti egli stesso giudica e applica la
sua legge con potere discrezionarìo ma spirato il suo mandato è
sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole è condannato a multe a prigonia e
talvolta alla morte. La reazione immancabile questa volta si
semplifica. Il Papa è il protettore delle città romane del Nord, T
Imperatore è lui stesso il gran podestà delle Due Sicilie : la reazione
imperlale non opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero,
mentre la reazione pontificia non percuote che i popoli della Chiesa.
Federico II assale qua! console della Germania i podestà della Lombardia,
diventa capo dei concittadini delle città romane e dei cittadini delle
città militari; ma dentro al laberinto incrociato delle inimicizie
dualizzate si trova impegnato in un combattimento a cui l'equivalenza
delle forze non permette nessuna soluzione ed è costretto a riconoscere col
fatta della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv.
d'ItaUa): Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo,
Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio di console della
Germania e di podestà delle Due Sicilie, e vien considerato come un essere
onnipoten-^ te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e la
poesia, che segue le grandi figure della storia per trasportarvi di
pianta i suoi sogni i suoi disegni le sue utopie le sue speranze o i suoi
rimpianti, stende silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi abbia
seco perduto non si sa qual misterioso destino d'Italia. Ma ha perduto le
tradizioni solo dei Gebelini, condannati alla demenza delle reazioni
impossibili : il fatto della sua sconfitta non ammette né pentimenti né
correzioni; egli resta qual'è nel suo tempo nel suo giorno nell'ora sua, simile
all'uno dei mille geroglifici che la stenografia della storia traccia con
la rapidità del lampo per un'eterna immobilità. Utile al Mezzodì, l'ultimo
degli Hohenstauffen non poteva né essere il podestà dell'alta Italia, né
equilibrar runa coll'altra le due regioni del Mezzodì e del Nord,
né reggere tutta la penisola con un potere di screzionarìo e profressivo;
le nozioni stesse di compensi, di equità giudiziaria, di discrezione politica
o di despotismo beneflco erano anticipatamente eliminate dal progresso
dalla vita e dalle rivoluzioni delritalia, che si svolgevano diverse variate
affrazionate da cento stati contradittori, la cui suprema felicità era di
rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a Firenze non era
compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non
toglievasi con alcuna indennità concessa a Pavia. Un podestà unico
regnante a Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario improvvisato ed
esteso a tutta la penisola; una sola dominazione imposta d'un
tratto all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai marchesi, ai
cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede sarebbe stata come una
montagna sovrapposta a tutte le montagne, una devastazione inaudita di tutte
le libertà, una esagerazione iperbolica del regno dei Longobardi,
un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto fermata e inaridita la civilizzazione
dell'Occidente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la sua sconfitta
decretata dai secoli avrebbe potuto riportare una simile vittoria? Dove avrebbe
preso le sue fòrze? I suoi stessi pensieri partivano dal basso come la
libertà generale... Al certo l'elevazione non mancava a Federico; e
fissando lo sguardo su lui, a traverso i delitti della corona, lo
spettacolo dell'Impero e la commedia estema delle pompe, si scopre
quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sempre m tutte le epoche della
storia; nel momento delle grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello
spasimo Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di
Arrigo F/Z-MìUbo, HoepU* N*to in un secoio di disordini e di contradiùoDi
le quali spesso in Ini si pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare
regioni cba come hi G^mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero
richiesto una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura
opposto, più volte egli disfece con una roano ciò che aveva costruito con 1'
altra. del dolore dimenticavano un istante di essere tribuni re
imperatori, per chiedere alla natura e agli astri se può darsi un esito
ragionevole alle pazzie deirumanità. Egli si rivolge ai sapienti
dell'Islamismo, per cercare delle verità che la sua religione gli vieta
di conquistare; li turba colle sue orgogliose interrogazioni su Dio,
sull'anima, sulla provvidenza, sulla vita futura. Qualche volta,
stomacato dalla furberia dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un
califato d'occidente, col quale la ragione gli renderebbe la metà del potere
ceduto da Carlo Magno alla Chiesa. La tradizione profana lo segue
appassionatamente e, guerreggiando con le calunnie cattoliche, gli attribuisce
confusamente il pensiero di voler regnare quale podestà delle tre religioni che
si contendono la terra; essa gli fa dire che Mosè Gesù Cristo e Maometto
sono i tre grandi impostori dell'umanità, che ingannano i mortali, che
seminano sulla terra il furore delle crociate, che bisogna domarli e dominarli;
e che ci dev'essere qualche cosa ad essi superiore, non fosse altro un
etemo sonno, per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli
ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo disprezzo per i
commedianti di Roma, nel suo amore per i Romani e per i castellani minacciati
dal fuoco della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli ad una
rivoluzione religiosa; nel mentre che numerosi insensati si attendevano a
vedere trasformato l'universo da un incanto che rovescerebbe la tirannia
imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del
pensiero, che si fa strada in mezzo alle più astratte possibilità, non
serve che a rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalità.
Sciagurati i Cesari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di
parere ancora più religiosi degli altri; devono imporre il silenzio
l'obbedienza la cecità, e farsi ipocriti impostori e persecutori di ogni
filosofia; perchè la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti
i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli di
miracoli questo è il suo pasto; e non
sacrifica i suoi capi più assurdi se non agli uomini che le promettono
con maggior energia di continuarne gli errori. Podestà occulto di tre
religioni, Federico IIgemeva sotto il peso occulto di una filosofia che
lo condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cattolico, ad
abbruciare gli eretici e a disprezzare l’umanità. Viceversa nel regno
delle Due Sicilie la reazione è guidata dal Papa, che come console dei
concittadini del Mezzodì assale con le armi della rivolta federale e della
superstizione cattolica il suo vassallo Federico 11 supremo podestà, ma
è vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta Italia. E la
sua sconfitta si ripetè a Roma, che organizzata a forma repubblicana lo
obbliga a cedere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podestà bolognese.
La libertà della democrazia della sedizione e delle battaglie si svolge in
tutta l'Italia proclamando il grande interregno, e si diffonde per
tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i dottori combattono come
cittadini e concittadini prendendo al rovescio gli stati, finché il Papa
diventa il giustiziere universale di tutte le dissidenze presenti passate e
future come un podestà mitriato. Ma nemmeno il podestà poteva durare
sulla Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa
posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208. scena
un tempo maggiore di quello concessogli dal fato della rivoluzione^ la
quale entrava nella nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si
divide in periodo delle sette e dei tiranni, al momento in cui la guerra
civile straripava al disopra del governo pacificatore e i
combattenti disprezzavano gli ordini del podestà. Chi sono questi furibondi che
si scannano a vicenda proprio adesso che il grande interregno li
libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi di adorare il loro Papa,
ai Meridionali di venerare il loro Imperatore? Essi non derivano dal Papa
e dall'Imperatore non sono altro che le due sette dei cittadini e dei
concittadini che rinascono con duplicato furore, per darsi delle sempre nuove
battaglie al seguito della quale una metà degli abitanti deve prendere la via
dell'esilio. I cittadini delle città romane sono guelfi, all'opposto dei
cittadini delle città militari di Roma e del Regno delle Due Sicilie : i
concittadini delle città romane sono ghibellini, mentre quelli delle
città militari di Roma e del regno sono guelfi. Con una guerra tutta
sociale» figli di una stessa città, essi combattono per conquistarla non
per distruggerla; riconoscendo per la prima volta l'unità i Cfr.
Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi storici. Pisa: I-e varie cagioni
delle lotte interne ed esteme dei conìuni sono al di fuori di Papi e di
Imperatori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di proprio
quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preetistono a queste e sono
le vere arbitre della storia d' Italia del Medio Evo, a cui le due
podestà servono pur illudendosi di comandare. deale della nazione
si stringono in alleanza coi settari del loro stesso colore, onde tutta
la penisola è corsa come dalla rete di una circolazione di vene e di
arterie moventisi a controsenso. Pari è la forza degli interessi, pari la forza
delle idee; la lotta adunque nel complesso della nazione è eterna e senza
soluzione come una antinomia metafisica; ma prende possesso delle
contradtzioni della guerra municipale, secondo la legge che dopo una
minore o maggiore alternativa di espulsioni fa inclinare sempre la vittoria a
favore dei cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle città romane,
dei Ghibellini nelle città militari. Essa allarga ancora la libertà
nazionale dentro il patto di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo
più numeroso dilatando la democrazia, e mira a creare secondo il tipo
ideale formatosi con la generalizzazione delle sue due tendenze una nuova
Chiesa democratica e un nuovo Impero legale. Minacciato dalle due sette
che fanno traballare il suo ux)no, il Papa non può regnare a Roma
se non facendo un passo indietro per fermare la rivoluzione, chiamando
Carlo d'Angiò alla conquista della Sicilia affinchè domini come un podestà
imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver
visto l'Italia e la reazione papale è sconfitta. Questo orribile sconvolgimento
è rivoluzionario, cioè benefico e liberatore : dirocca innumerevoli
castelli sfuggiti alla guerra consolare, estende la libertà alle arti ai
mestieri alla plebe, compensa il decadimento delle città militari col
fiorire delle città romane arricchite dall'industria e dal commercio, rivela
attraverso il collegamento antitetico delle sette Tunità nazionale, e dà
due linguaggi due poesie due nuove religioni all'Italia. Il francese,
lingua guelfa adottata dall'aristocrazia popolare delle città romane,
bilancia l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Federico II e di
Manfredi, artificiosamente scelto dai dialetti di tutte le città; finché
viene a trionfare la nuova lingua guelfa della democrazia di
Firenze. Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso
nella seconda fase dei tiranni. Il tiranno è il capo di una delle due sette che
gli concedono un potere dispotico sacrificando la loro libertà quasi
feudale nell'interesse della vittoria: esso compensa la violazione di
tutli i diritti acquisiti coi favori prodigati alla moltitudine e colla
condotta vittoriosa della guerra estema, e per la prima volta rappresenta
la terra sotto una forma individuale. Ma, capo di un partito destinato
dall'equilibrio delle forze ad alternare te sconfitte con le vittorie, si avvia
anch'egli ad una catastrofe certissima. Le città che non entrano nell'era dei
tiranni si contorcono nelle angosce della guerra civile non ancora disciplinata
imbrigliata e mitigata, e in ritardo di una generazione nel corso della
civiltà sono sorpassate dalle rivali come Firenze che rifiuta un tiranno guelfo
in Gian della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni stranieri
come Brescia o^ Piacenza fondate sul tiranno di Napoli.
Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione opponendo la guerra pura e
semplice all'ordine nasceme delle tirannie, per suscitare attraverso alla
penisola un ondulazione guelfa che distrugga le tirannie ghibelline; e
ricorre a Carlo di Valois. Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in
tutte le città i Guelfi si trovano senza capi senza riputazione senza
potere e disonorati dall'invettiva immortale della Dmna Commedia. Invocato
da Ghibellini d'Italia arriva infine Arrigo VII, che in ritardo come la sua
patria di due rìvduzioni non vuole essere nò guelfo né ghibeliino; e
guida quindi una reazione opponendo ai furori delle tirannie la
pacificazione sorpassata del podestà. Ma appena messo il piede sul suolo
fatale ditalia, come i suoi predessori vien preso nell'ingranaggio
politico delle inimicizie, costretto a diventar ghibellino, e muore
sconfitto e si dice avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buonconvento,
dopo ruminazione di Roma e l'affronto di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei
tiranni penetra infine nel patto di Carlo Magno colle teorie antitetiche di S.
Tomaso e di Colonna, di Tolomeo da Lucca e d’ALIGHIERI (vedasi), che propongono
come stato modello gli uni la tirannia guelfa gli altri la tirannia
ghibellina. La Divina Commedia è la grande epopea della tirannia
ghibellina trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio sostiene la
parte del tiranno supremo; Dante è il poeta del terrore, dell'odio, della
rabbia, dell'esterminio sanzionato dalla necessità su^ prema di salvare
il genere umano; che da per tutto immola sacrifica consacra i Guelfi del suo
tempò ad una eterna infamia, pur accettando tutta la democrazia guelfa
del passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta
l'Europa; si riproduce nella Chiesa grazie a Bonifacio Vili e ai suoi
successori d'Avignone; penetra nei conventi colle esplosioni guelfe e
ghibelline dei domenicani tomisti e dei francescani scottisti, nelle
scuole coi realisti e nominalisti, e perfino nell'altro mondo dove si
vogliono scacciar gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni
dell'inferno. A un certo momento il tiranno s'accorge che per
regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe e ghibelline, stabilendo il
regno dell'imparzialità col disarmo colla corruzzione o con la
distruzione dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse
dell'agricoltura dell'industria e del commercio che vogliono ora la pace.
Il reggimento repubblicano già compromesso dai tiranni viene quindi abolito dai
Signori che regnano da despoti colla forza della intelligenza, sfuggendo
di traverso al Papato e all'Impero senza prenderli mai di fronte;
finiscono le guerre ai castelli e le guerre municipali fin qui insolute,
dando predominio alle città progressive romane; si estendono colla forza
della necessità, migliorando la sorte delle città conquistate trattate
coll'imparzialità usata verso le due sette; e sempliflcando la geografia delle
due Italie, utilizzano ormai direttamente il Papa nel Sud quasi guelfo e
Tlmperatore nel Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori). Traviati
derisi traditi dalla giurisprudenza che dimostrava in qual modo si poteva
vivere nello stesso tempo nei due campi o passare sapientemente da un
campo all'altro; i Guelfi e i Ghibellini non avevano altro mezzo che d'invocare
^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno dell'Impero,
per disfare con una reazione generale le nuove costruzioni delle signorie
imparziali. Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre
reazioni, una papale una imperiale e una combinata, penetra nel patto di
Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano per la prima volta la
sovranità popolare di ogni nazione astrazion fatta dalla Chiesa e
dall'Impero. Nella seconda fase della Prosperità dei Signori a
regno dei furfanti benefìci si propaga in tutte le città : le terre più timide,
i centri più disgraziati, i villaggi più infelici vogliono crearsi dei
capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni città prende definitivamente il
posto che le era stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione
del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulanza di Verona, l'inferiorità
della Toscana e del Mezzodì. La signoria di Milano era
frattanto giunta a tanta potenza cfie provocò per contraccolpo la
reazione di una federazione repubblicana pontificia e imperiale, in cui le
città minacciate dalla voracità dd Biscione si alleavano coi poteri retrogradi
per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava a sé i suoi capi
retrogradi e la reazione finiva colla catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo
IV alTimperdonabile bassezza di farsi mercante di dijplomi; e col gran scisma
della Chiesa divisa fra Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savoia,
che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la ragione individuale dalle
catene della religione. La terza fase del periodo dei signori è
dominata dal dualismo fra Milano e Firenze. Un nuovo progresso inalza
Milano, dove per cancellare ogni rimembranza di atrocità tiranniche
Galeazzo tradisce Barnabò suo zio. L'ambizione illumina i cronisti
milanesi e suggerisce al Mussi Tidea di sopprimere la dominazione
temporale della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica signoria dei
Visconti. Ma quest'idea trasforma la signoria milanese benefica e
rivoluzionaria lungo il suo raggio legittimo in un flagello per il
resto della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la liberta le
leggi le tradizioni e le federazioni dei popoli italiani. Da
quest'istante tutti i fenomeni della nazione si spiegano col contrasto
fra Milano e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuole dei
cronisti. Ma la vera Italia si trova superiore al contrasto, rappresentata dal
Petrarca da Bartolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo a
profitto dei moderni e impersonano l'empietà del nuovo scisma: l'uno
conciliando ogni contradizione col suo classicismo accademico feroce solo
contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran patto
papaie-imperiale per mezzo della romanità, il terzo sepelleiido le
imposture del Medio Evo sotto le risate della sua novella federale. E*
questo il momento in cui la bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei
vescovi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia Dimenticata fino dalla caduta
del regno, appena frammista qua e là alle battaglie lombarde e friulane
come una terra secondaria e affatto straniera, quasi sconosciuta al Papa e
all'Imperatore non meno che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta
d'un trattò ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di simboli,
simile ad una nave d'alta velatura che sarebbe entrata nel porto durante la
notte, di ritomo da un lungo viaggio nelle regioni favolose
d'Oriente. La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove
tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore riprendono il loro
atteggiamento naturale; e la Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica
fra i sostenitori dell'individuo e quelli del genere, per diventare ciceroniana
ed eclettica ad imitazione del Petrarca. Le conquiste sociali e
politiche della signorìa vengono adesso minacciate dalla Crisi militare.
I signori avevano composto i loro eserciti di mercenari per disarmare i Guelfi
e i Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizionalmente
antimilitari; ma poiché, affascinati dal demone della conquista vogliono
mantenere eserciti superiori alla loro potenzialità economica, finiscono per
fallire e per cadere in balia della plebe irritata e dei soldati insorti. La
crisi si compie in tre tempi : prima la plebe insorgendo contro il flagello
della miseria distrugge la signoria, risuscitando le forme politiche
sorpassate della repubblica o della tirannia; poi vedendo che quella
libertà la ripiomba nelle demenze del passato accetta una nuova signoria,
che limiti le sue ambizioni conquistatrici al raggio legittimo consentitole dai
suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova consacrazione
plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo di una signoria
volante di soldati su d'un territorio che non può sostenerli tutti e due,
bisogna che uno scompaia : ora è il condotdere che diventa signore
come Francesco Sforza, ora è la signorìa che toglie di mezzo il
condottiero come Venezia fa del Carmagnola. La garanzia dell'oro,
l'unica che resiste ancora in mezzo alla derisione universale di tutti i
principi, conserva tutto il lavorio dei secoli precedenti : la federazione
italiana si semplifica colla vittorai dei gran centri romani sulle città
militari e le dualità invincibili; detronizzando diciassette dinastie e
distruggendo diciassette indipendenze inutili, uccise dai poveri e dai plebei
secondo la gran legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'orgoglio
della nazionalità alle necessità della democrazia, perchè la fame è superiore
all'ambizione delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti
A. Ferrari Giuseppe Ferrari. nel fatto dal Papa e dall* Imperatore
le signorìe secolarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484, in cui
Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, dichiarando di assoldare un condottiere a
spese comuni, stabiliscono il principio di tutte le federazioni : di formare
uno stato solo contro al nemico benché ogni stato resti distinto e sovrano
nel proprio territorio. Le reazioni di questo periodo sono appena
accennate e non servono che a confermare la rivoluzione flnanziaria. La
quale si riflette nelle lettere, dove si ha prima la ricerca di tutti i valori,
poi il rinascere delle opere originali con Lorenzo col Poliziano e col
Pulci, che malizioso come un signore liquida il Papa e l'Imperatore senza
contestare i principi del Papato e dell'Impero. E penetra inflne
nella Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federale del Concilio di
Costanza, si rigenera all'imi tazione di tutti gli stati mostrandovi le
scintille d'un incendio universale di democrazia, che presto avrebbe
divorato tutti i re e i dottori protettori della libertà e delle riforme;
inventa la visione beatificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il purgatorio;
e fa adorare un Dio che vende le indulgenze per rendersi visibile nei
capolavori dell'arte. L'Italia aveva fin qui squassato la face
ideale della rivoluzione; marciando alla testa della civUtà essa creava
man mano le nuove forme politiche. che diffondeva per mezzo del
Papa e dell imperatore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che durante
il periodo della Decadenza dei Signori la civiltà trasporta i nuovi centri
incendiari in un'altra nazione; e la Francia chiamata da Ludovico il Moro
straripa improvvisamente con una espansione militare nellitalia, la quale
sorpresa da questo imprevedibile progresso è costretta a difendersi restaurando
il Papato e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi
esiliato, e resuscitando le forze indigene delle sette guelfe e
ghibelline che il tradimento dei signori aveva addormentato. Il meccanismo
politico cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che trasmetteva
all'Europa l'impulso delle sue sempre nuove forme politiche per mezzo dei
poteri europei del Papa e dell'Imperatore; adesso è l'Euror pa che, mossa
da un'altra nazione, per mezzo del Papa e dell'Imperatore trasmette il
progresso allitalia. Succede un altro passo indietro quando l'Italia è
costretta a mettere il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna per difendersi
dall'insurrezione germanica e federale di Lutero contro le sue rivoluzioni,
contro la sua civiltà passata attaccata nel Papa; che rappresentava tutto il
suo lavorio religioso, la sua supremazia mondiale e che era pure uno dei due
membri della federazione europea da essa creata (Riv. d'ItaUa)
r Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia: Finiva V età del primato (qualunque
fosse) d* Italia; iocominciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi
Francia, poi Inghilterra. L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord
fra le due patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la sua
espansione; le regioni che avevano respinto il giogo della
centralizzazione dell'antica Roma si levano con nuovi Arminii, per respingere
con le forze invisibili del pensiero l'unità pontifìcia che era
sottentrata all'unità conquistatrice dei Romani; i popoli la cui antica
barbarie aveva imposto le sue federazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove
federazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di Roma e al Cesare
guelfo dell'Austria. II Nord dell'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed
0gni individuo, diventato libero nel fòro intemo della propria coscienza,
formulava cento gravami contro la monarchia del . Pontefice e contro le
rivoluzioni d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque contro la
prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia aveva divinizzato i preti
i vescovi e il loro capo; contro il prestigio magico che essi avevano messo
negli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e delle reliquie a
confusione dei barbari; contro la santificazione dell'antica capitale con una
gerarchia misteriosa che aveva umiliate tutte le città regie; e contro la
superstizione incendiaria che aveva dato all'ordalia, all'altare e all'acqua
benedetta il potere di sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli
ai re. Non si risparmiò poi alcuna delle creazioni di Carlo Magno : né la
separazione dei due poteri; né la donazione che faceva della Chiesa una
potenza politica; né la penitenza che metteva i suoi giudici al di sopra
di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra di tutte le sentenze; né
la liturgia che propagava il culto col fascino dei canti, delle pitture,
delle sculture sconosciute alla Chiesa primitiva; né il purgatorio che
raddoppiava la distanza fra il cielo e l'inferno, per far luogo agli incanti
delle preghiere clericali; né in una parola il pontefice che arrivava all'anno
mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi della giustizia divina e
proconsole di tutti i proconsoli istituiti sotto il nome di primati. La
devastazione luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori
: e proscrìveva dell'era dei vescovi il celibato dei preti e tutte
le riforme che fornivano armi spirituali temporali all’unità pontifìcia;
dell’era dei consoli gli ordini mendicanti, le feste imponenti, Tesaltazione
dei cardinali, Timpostura regnante e rimplacabile inquisizione; delfera delle
due sette i tomisti e gli scottasti, le ecceità, i flatus vocis, le
dotte puerilità che profanavano Dìo trasformandolo in tiranno or guelfo e ora
ghibeilino; del tempo dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso,
materiale, e abbandonato al despotismo della frase ai periodi ciceroniani
e al pennello di artisti sostituiti alrinsegnamento degli apostoli; del tempo
della crisi fìnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti
i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le assoluzioni le
indulgenze le dispense tutto, per far denaro con una religione già
materiale, e per moltiplicare cosi i capolavori che sostituivano ai
miracoli di Crìsto quelli delle nove Muse. Non si voleva più
ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano contro la sua
religione, le intelligenze contro i suoi dogmi, il pudore contro la sua
morale. L'ira generale denunciava il sacerdote giudice confessore
inquisitore funzionario e papista come un nemico del genere umano. Si
chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni uomo diventato il proprio
pontefice, la religione incatenata al senso letterale della Bibbia, tutto
l'andamento divino ridotto alla stessa legalità di questo documento
primitivo - l'opera arbitraria delle rivoluzioni italiane sarebbe
definitivamente abolita come una epidemia satanica, e tutta la signoria
di Roma maledetta come un sacrilegio commesso contro la libertà del Vangelo.
L'Italia non era mai stata più violentemente oltraggiata : i Longobardi
avevano rispettato la civiltà romana, i Goti di Teodorico l'avevano protetta Lutero
la fulminava; e se prima di lui si era declamato contro la nuova
Babilonia, le si attribuivano adesso come delitti non solo i suoi
vizi e le sue virtù ma altresì la sua grandezza e magnificenza.
Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1.Imperatore che rappresentano le
loro rivoluzioni legalizzate, e questi si mettono sotto la protezione della
Spagna per resistere al federalismo protestante dei luterani; mentre i signori
rinunziano alla lega del 1484 che aveva congedato silenziosamente il Papa
e l'Imperatore, e la nazione rinnova per un'ultima volta il patto di
Carlo Magno colla Chiesa. La restaurazione di Cario V non era una
reazione: delle rivoluzioni italiane rispettava nitto il lavorio geografico e
sociale, ben differente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo
ren*ogradare; essa venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la
grandezza dei suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tempo si
burlano della Chiesa e dell'Impero. L'arte e la scienza trasportano nel campo
ideale la rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette
l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tempo deride ed ammira il Medio
Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della
politica e della religione ^uabnente ridicoli e venerabili, tutto il fantastico
pagano e orientale non meno rispettabile delle favole della Chiesa e
la sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole italiana è imitata da
tutta la letteratura. Il Machiavelli può dirsi l'Ariosto in azione : volendo
insegnare le norme della politica rimane vuoto e asirattOy mentre fonda la
teorìa che determina le leggi secondo cui si svolgono tutte le
rivoluzioni possibili. Cosi nella vita è malpratico improvido senza
importanza, ma la sua fama si estende lentamente colle rivoluzioni ulteriori
contro il patto di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'umanità si
svincola dalle credenze soprannaturali e si basa sul
razionale. La nuova era politica della Rivoluzione protestante
propagata dalla Germania consiste in un movimento che estende la
fraternità umana oln*e assai la benedizione del Papa e la memoria
di Roma e, conservando la distinzione dei due poteri che aveva inaugurato
il regno del pensiero puro, la affida ad ogni individuo divenuto papa di
se stesso una volta in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in
forma opposta negli stati germanici e negli stati latini: nei primi
individuale legale federale distrugge il potere di Roma confermando quello dei
prìncipi; nei secondi riforma le antiche dottrine della teocrazia romana,
opponendo alla rìvoluzione protestante la fraternità e la democrazia, le
concentrazioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In Italia
produce il trìonfo degli stati ghibellini (Milano Genova Firenze Napoli) sui
loro opponenti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei
Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guelfi devon regnare (Venezia
Savoia Roma). La rivolizione rinnova la letteratura col Tasso, il poeta della
tenerezza che celebra la grande impresa cattolica della prima crociata;
fonda la musica; e ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle
teorie della fraternità in opposizione alla libertà protestante. La
riforma appena vittoriosa è assalita da una reazione : cattolica e
unitaria nei paesi protestanti, protestante e federale nei paesi
cattolici, essa non fa che confermarla; sacrificando in Germania
Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i
Guelfi francesi i Guisa i Vacchero, e negli stati guelfi i Ghibellini
spagnoli d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Venezia. La
letteratura nazionale sta per soccombere airinsurrezione dei dialetti; mentre
che la ragion di stato liquida senza parere la religione e spegne il
senso morale cogli scritti di mille mediocrità misteriose; e la filosofia dà
Bruno e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo che afferma
Punita della materia e la pluralità dei mondi; Taltro il rappresentante
più grande deiTutopia politica dei popoli latini esagerante alTinfihito la
fraternità l'unità e il despotismo, contro l'utopia opposta che si svolge
secondo Lutero colla forza della libertà delle federazioni delle
leggi. Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al 1789 e che si potrebbe
definire del Despotisma illuminato è guidato dalla Francia; la quale
insegna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza religiosa che
secolarizza lo stato, la semplificazione del governo colla distruzione
dell'indipendenza quasi feudale d'una nobiltà costretta a modernizzarsi,
l'impostura e la libertà della ragion di stato nell'interesse delle
moltitudini. Esso si attua in senso inverso negli stati monarchici e negli
stati federali colla centralizzazione o colla legalità. In Italia la
democratizzazione dell'aristocrazia viene diffusa negli stati ghibellini
dall'Impero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della Francia. I
politici della ragion di stato sospendono le loro cicalate, i poeti dei
dialetti cessano dalle loro divagazioni, e le pompe dell'opera traducono il
secolo di Luigi XIV nella lingua universale della musica diffusa dall'Italia a
tutta l'Europa (Riv. d'Italia) : La nazione mantiene ormai la 3ua
supremazia coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affrettano mai
: gli eroi si precipitano al combattimento colla misura dell'andante, il
nemico fugge senza potersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomeliì,
le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i cui accenti riempiono le
più vaste sale, si danno le pugnalate in battuta, le vittime cadono colle
vibrazioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta perchè rartista
coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle
verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbiamo
l'immancabile reazione guidata dal cardinale Alberoni, che cupido di
riconquistare alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni stato i
vecchi partiti per distruggere il nuovo progresso. Ma il suo bieco disegno è
distrutto in Francia dagli uomini della reggenza e dai filosofi
delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Europa le idee del despotismo
illuminato, mentre la Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia
l'Austria prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Napoli diventa
indipendente, il Piemonte si ricostituisce e si estende; mentre le repubbliche
rimangono indietro attardate dalla loro retrograda aristocrazia. La nazione
rivela la sua grandezza nella filosofia con Vico, il quale colle idee del
despotismo illuminato mette a livello tutte le società e tutte le
religioni; nella poesia con Metastasio il più tenero nemico degli dei, e
con Alfieri il tragico poeta della guerra che vuole tutte le idee alla
altezza dei nuovi tempi {Riv. d'ItaliaDeliziosamente illusa da queste cantilene
rimate [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i teatri
d'Europa, la folla italiana fu un giorno sorpresa e si direbbe intimorita da un
nuovo spettacolo che portava la sfida alle pompe asiatiche
dell'orchestra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza rime,
Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena squallida triste e nuda;
e là quattro personaggi dalle figure astratte, impegnati in una azione
unica stincata rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquattr'ore
coli'orologio alla mano con un cadavere in terra e colla nuova moralità
del vizio vittorioso e della virtù sacrificata questi miserabili mezzi
a controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un drappello
dì Spartani che fennassero Tannata di Serse. Il melodramma ne ricevette uno
smacco irreparabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati, i
loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun poeta succedette a
Metastasio; i maestri rimasero soli con taluni poeti pagati, con libretti
insignificanti, con parole vuote di senso che si chiamano ancora in
oggi le parole e la poesia lasciò per sempre le rime effeminate, le pugnalate
fantastiche, le virtiì ridicolmente languide e i cantanti castrati delle
cappelle principesche. Perchè Alfieri faceva finalmente vibrare la corda della
guerra, sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti
cesarei. Più nuovo di Dante, più moderno di Shakespeare, egli inventava
dei personaggi poetici per formarne dei veri; nuovo Orfeo voleva destare
la libertà nazionale, che nella sua immobilità secolare non sapevasi ornai come
intendere. I cicisbei impallidirono, lo spasimante il patito il cavalier
servente ed anche il signor marito si sentirono ridicoli, le civette si
morsero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dalle code impdverate
si guardarono intomo, e i capitani capirono che si poteva morire alla guerra.
Il fuoco sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al cospetto del
governo, la tragedia penetrava nei gabinetti, qualche volta esiliata dalle
scene investiva il lettore a casa sua e i suoi spettri inattesi gli
intimavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi, di pensare. L'ultimo
perìodo storìco, non ancor chiuso quando il Ferrari scriveva, è quello
della Rivoluzione francese. Il suo principio consiste nella divulgazione dei
misteri del despotisir.o illuminato per modo che il razionalismo libero
pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristimzione del codice che uguaglia
politicamente tutti i cittadini, nell'avvento della proprietà borghese figlia
dell'industria e del commercio. La rivoluzione francese ricorre alla forma
repubblicana antipatica alla nazione come a strumento di distruzione,
finché Napoleone trasporta nella forma tradizionale dell'assolutismo il
contenuto nuovo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le armi a nitta l'Europa
dove l'esordio è quindi assolutistico e la conclusione libera. Cosi la Germania
dal despotismo della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la
rivoluzione torna alla sua federazione quasi repubblicana, alle speculazioni
astratte, aUa libertà della sua arte; 1 Austria ritorna alla patema democrazia
e alla burocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra aveva già avuto nel suo
territorio la esplosione che creava gH Stati Uniti anticipando le idee
della rivoluzione francese; ma la Russia copia il progresso francese
direttamente coli' assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia
per distruggere Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo progresso; e
ad una prima tenue succede una seconda più radicale trasformazione
all'unitaria, Anche conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio
lento alla sua tradizionale federazione. Al solito la rivoluzione francese è
assalita da una reazione, che impone alla Francia la libertà
costituzionale della dinastia borbonica, e viceversa air Europa il despotismo;
ma essa si avviticchia alle forme stesse della reazione per combatterla e
sconfiggerla, in Francia colla repubblica che conduce al governo assoluto
di Napoleone III, presso i suoi avversari col ristabilimento delle libertà
costituzionali. In Italia abbiamo pure assolutismo al rovescio della
Francia; ma assolutismo che è costretto a diffondere il contenuto
della rivoluzione, a far riforme amministrative, ad appellarsi alla moltitudine
che tenta di voltare contro i liberali. Però la nazione volle scuotere
questo odioso giogo dell'assolutismo e alla rivoluzione di febbraio corrispose
l'esplosione unitaria del Piemonte accettata per riformare il Papa e l'Imperatore;
finché la religione e la politica federalista si volsero contro Carlo Alberto,
che trasformava la guerra di libertà in guerra di conquista interna non
legittimata nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villafranca a Novara
si distrusse un regno immaginario a profitto della federazione italiana. Ma il
progresso è richiesto tanto all'Austria costretta alle riforme e
bilanciata dalla Francia, quanto al Papato compromesso politicamente dalla
doppia occupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi cedono ai
principi deir89 per il rumore confuso delle nuove idee che attaccano la
proprietà. E dalla lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e i
tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli altri, essendo
detronizzati, trovansi nella necessità di proporre una più vasta
democrazia per risalire al potere. Il sunto a bella posta diffuso
che noi abbiamo steso tessendolo spesso di frasi e perìodi dell'autore
basterà a dare un'idea adeguata della importanza unica di quest'opera, in cui
il Ferrarì dispiega netta la sua incomparabile grandezza di storico. Per
averne la misura paragonate la sua storia d'Italia, non dirò con uno di
quei manuali in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno
dietro all'altro come una corona di nocciole, ma anche coi libri di
coloro che vanno per la maggiore fra i moderni : con la voluminosa storia
politica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la storia del Villari, che
passa per il migliore dei nostri storici viventi, in corso di pubblicazione
adesso presso Hoepli). Anche per una persona di quelle cosidette colte che
frequentano le società di lettura e fondano le università popolari la
storia, secondo l'idea che ne ha portato dal liceo, è come una
fantasmagoria irragionevole, che sarebbe comica se non stillasse il sangue di
innumerevoli vittime. II capriccio la pazzia il caso sembrano movere questi
innumerevoli fantocci di un dramma senza processo e senza scioglimento;
dove si vedono degli individui che si scannano senza ragione, delle nazioni che
si combattono senza sapere il perchè, delle invasioni barbariche piovute
dal cielo, e sopratutto una incessante lotta intema dei popoli Lf'
/mvfsi'oni barba rù'hf, Milano, Hoepli; L' Ita^ Ita da Carlo Magno ad
Arrigo VJJy id., contro i governi che pare non proporsi mai uno
scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo molti manuali di storia sembrano
scritti da gente che la pensa cosi! Ma anche molti degli storici
più elevati, più scientifici diciamo, mancano del metodo interpretativo
in una maniera impressionante. La loro storia, costretta a rimanere
attaccata ai personaggi ufficiali per avere almeno una unità apparente, è
un seguito di biografie e di raccontini legati gli uni agli altri dalla
meccanica successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo
che i letterati seguaci del cosi detto metodo storico che è per
eccellenza il metodo antistorico credevano che la critica avesse esaurito
il suo compito, una volta dimostrato che la tal canzone del Petrarca era
stata scritta nella tale occasione per quel tal personaggio; cosi molti
storici credono ancora che il lavoro della storia si limiti a mettere in sodo
se un tal fatto più o meno particolare è accaduto in quel dato modo, se
quella data istituzione politica era costituita così e non altrimenti. Ma come
di fronte a quei pseudo-letterati la critica afferma la necessità di
completare e integrare il loro lavoro da puri manuali della letteratura con la
ricostruzione con l'interpretazione col giudizio; cosi contro questa
specie di positivismo storico non sarà mai abbastanza forte affermato che la
storia non deve limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li
deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in una lìnea di
sviluppo per cui si veda sotto alle apparenti fermate o alle parziali
decadenze lo sviluppo continuo e progressivo della civiltil umana. Sta
bene la ricerca del documento nuovo: noi non proclamiamo affatto inutile
questo lavoro che è anzi la base necessaria su cui si deve svolgere il
lavoro veramente storico, ma affermiamo che il documento di per sé è
inutile se non è usato, che è muto se non vien fatto parlare, che deve
essere bruciato per rischiarare la storia; la quale non è soltanto, la
Dio grazia, scovamento e pubblicazione della nota della lavandaia di
Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di Simifonti, ma è
narrazione dello sviluppo civile dell'umanità. Non basta raccontare un
fatto come è avvenuto; bisogna penetrare al di sotto della sua superficie
squallida o brillante per ritrovarne l'intima ragione; bisogna i fatti
singoli sgranati collegarli colKunità d'un principio che è il loro motore e la
loro spiegazione; bisogna il succedersi dei diversi principi, dei diversi
sistemi sociali dimostrarlo dominato da una legge di continuo sviluppo,
di progresso continuo. Or bene l'opera del Ferrari è un modello
incomparabile di storia interpretativa, di storia cioè vera.
Di più, il Ferrari è uno storico completo. Cfr. T. B. Macaulay: History
in Miscellaneous WriiififTi Longmans, Green and Co.. London: Nella
invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti, nella storia sono
dati i fatti per trovare ì principi; e lo scrittore che non sa spiegare i
fenomeni ueualmente bene come li narra compie solo una metà del suo ufficio. I
fatti sono semplicecernente la scoria della storia. È dall' astratta verità che
li penetra e sta latente fra essi come 1oro nel minerale che la massa deriva
tutto il suo valore. Storia vera è la narrazione e interpretazione
di tutta l'attività umana, quindi non semplicemente della politica
ma anche della artistica e della filosofica; perchè l'uomo è uno in nitte le
sue manifestazioni. Lo storico completo deve dunque dimostrare come tutta
l'attività umana di uno stesso periodo abbia unità di caratteri, come arte e
filosofia e politica siano tutte dominate da uno stesso principio
storico; questo, come abbiam visto, il Ferrari fa; giudicando inoltre
senza pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto di vista estetico,
il pensiero dal puro punto di vista filosofico. Ma la sua
dote migliore è quella di essere totalmente libero dai pregiudizi della morale
miope dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridurre la storia a
qualche cosa come un dramma a fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per
personaggi dotati di tutte le sette virtù cardinali e teologali. Nulla di più
noioso che gli scritti di certi signori, perpetuamente scandalizzati di
fronte alla vitalità umana potente nei vizi come nelle virtù, perpetuamente
predicanti contro le orge di Nerone o le crudeltà della Rivoluzione
francese, ridotti alla disperazione di dover ricercare a forza
dentro i fatti ribelli il trionfo della loro moralità di scomunicare il 90%
della storia. (La Chine) : Non c'è niente di meno storico che Io
scopo morale perseguito sì ostinatamente da certi storici, i quali
trasformano la storia in una specie di catechismo. Essa al contrario ammette
tutti gli scioglimenti : A. F, Giuseppa F.ora tragica, ora comica,
a volta indulgente e crudele, non si incarica di punire di ricompensare
alcun eroe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri dei martiri
degli stolti delle vittime. Perchè si vorrebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti
a un innocente, là che s'irritasse contro un malvagio, e che si
sostituisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il loro merito; che
fosse in una parola edificante per le madri di famiglia e per i bambini
poppanti! Che l'arte debba essere giudicata da! puro punto di vista
artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si è finalmente cominciato a
capire : pare che non si sia invece capito ancora che, per intendere
e giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto di vista
superiore a quello della propria moralità individuale e
contingente. La storia è un tessuto di azioni pratiche, che
io posso quindi giudicare sia dal punto di vista economico che dal punto di
vista morale; posso cioè determinare se l'azione di quel dato individuo
fu prodotta puramente da fini individuali, da Ani universali. Devo
ad ogni modo ricordarmi bene che la moralità è formale, che è morale
quello che l'uomo crede e sente morale; devo quindi rinunziare alla mia
rivelazione morale come direbbe F. per
rimettermi nei panni dell'individuo che pretendo sottomettere al mio tribunale;
e non portare le idee del secolo XX nel secolo V avanti Cristo, e non
giudicare il Valentino coi criteri con cui si giudica un onesto impiegato
municipale padre di numerosa prole. Ma lo storico non deve
limitarsi a mettere in sodo seVisconti tradì lo zio Barnabò per pura
libidine di regno o per beneflcare i suoi popoli, liberandoli dall'ultimo
vestigio della tirannia a nome di una più completa imparzialità;
anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fazione sia determinata dal solo
interesse individuale, lo storico vero deve saperci discernere il bene,
quel bene che l'individuo non cerca e non cura ma che il destino gli
impone di compiere, e che solo permette alla sua azione di essere e le dà
un senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che la storia è il
trionfo della moralità, che non è quella degli storici pudibondi; della
moralità che non esiste senza il vizio perchè appunto è lotta
contro il vizio; della moralità che si vale per i suoi fini di tutti gli
istinti, di tutte le passioni, di tutte le colpe dell'uomo, condannato
dal destino ad essere sempre e dovunque angelo e bruto. E
veniamo ora a giudicare il valore della interpretazione concreta. Pensate
che ai tempi del Ferrari la piti importante storia d'Italia era il Sommario di
C. Balbo (1), il quale in fondo non è molto superiore ad un manuale
scolastico, come del resto riconosceva l'autore stesso: Finché non avremo
un grande e vero corpo dì storia nazionale, da cui si faccia poi con più
facilità Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n, ed esattezza
uno di quei ristretti destinati ad andar per le mani di tutti, o come si
dice un manuale; k> non so se mi ingannino le mie speranze di
scrittore, ma tal mi pare possa esser questo e dove lo sguardo dello
storico è velato dal pregiudizio deirindipendenza. Con le Révolutions
d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non ha altro serio punto di
contatto che l'identità del titolo, del resto ormai classico (3). Se
qualche vaga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia spiega
l'Europa la sua lotta è per la libertà non per l'indipendenza Venezia è
estranea alla vera Italia) si tratta di osservazioni ormai comuni fra gli
storici, o già anticipate dal Ferrari stesso nei suoi saggi sull'Italia
anteriori al 1848 (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui
il Ferrari stesso mette in luce nella prefazione all'opera sua la
deficenza interpretativa, per cui alcuni volevano spiegare l'Italia col
principio dell'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello della Chiesa
(Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ridurla sotto la forma politica dei
principati (Guicciardini) e altri sotto quella delle repubbliche
(Sigjmondi). Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo
vistq con tanta giustezza e profondità, giudicato da tanta altezza,
narrato con tanta ala di poesia e forza di rappresentazione la storia
d'Italia? (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, Bari,
Laterza, Paris, Dagnerre Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina
Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88. Chi potrebbe
oppugnare la scoperta da lui fatta del ststema politico italiano impiantato
sulla gran repubblica papato-imperiale che ha fatto dell' Italia una
nazione senza confini, perchè possa diventare U centro d'Europa che
irraggia le sue continuamente nuove creazioni politiche a tutti gli
stati? Solo questa idea può dominare e spiegare coU'unità d'una legge la
esuberante varietà delle forme politiche che prende lo spirito italiano,
scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e dei Ghibellini. E solo quando
si parta dal concetto che gli Italiani lottano non per l'indipendenza che
sottragga la nazione al patto papaie-imperiale, ma per la libertà e per il
progresso sociale, non per distruggere ma per riformare la repubblica
dualizzata che è la loro franchigia; diventano intelligibili le innumerevoli
battaglie che ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non
contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la sua libertà dal pericolo
d'un regno, che danno alla nazione la gloria di essere il centro politico
di tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi Ghibellini per
conquistare il lustro vano di una gretta indipendenza chiusa nei suoi
confini; ma per riformare il Papa e l'Imperatore e costringerli ad
ammettere grado a grado nel loro patto il progresso sociale delle nuove
forme politiche create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^
polo italiano è il gran protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori,
imponendo loro le parti che devono recitare sulla scena mobile ddla
storia; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta tutte le invasioni,
maneggia Francesi e Tedeschi come strumenti per conquistare una sempre
più larga democrazia. Tutta la gran guerra delle rivoluzioni italiane si
riduce, come per Vico la guerra intema della repubblica romana, a un contrasto
sociale del popolo con l'aristocrazia; che diventa anche contrasto di
razza perchè il popolo è italico e romano, l'aristocrazia è formata dai
Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli invasori e dai loro discendenti.
Ltt gran guerra contro il regno barbaro estemo dei Goti e Longobardi e
contro il regno barbaro intemo dei Berengarì e degli Arduini, la rivoluzione
dei vescovi contro i conti sono nello stesso tempo lotte di classe
e di razza; da una parte il popolo romano, dall'altra i conquistatori
barbari. E poiché i barbari hanno piantato piò profonde radici nelle città
militari da essi colonizzate; la lotta fra le città romane e le militari
si classifica pure sotto questa doppia antitesi; come la lotta ddle città contro
i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini, dei GQdfi contro i
GUbdliiii. Se non che man mano che si procede nella fusione barbarica,
la lotta attenua il suo carattere di razza per accentuare quello di
classe; già ncUt guorra cqmm 1 castelli i feudatari combtttoti daDe città
altari barbare di tendenza si romanizzano facendo amicizia colle città
romane; cosicché nell'era seguente noi vediamo la lotta incrociata in modo
che nelle città romane i Cittadini sono romani e i Concittadini barbari,
mentre nelle città militari è viceversa; e nel periodo ancora successivo il
popolo è guelfo nelle città romane e ghibellino nelle militari. E siccome
la vittoria è data all'elemento romano e all'elemento popolare insieme uniti :
noi vediamo trionfare le grandi città dell'industria e del commercio; e
il progresso della democrazia va di pari passo col risorgere dei grandi
focolari della civiltà romana; finché colla costituzione della lega
federale il processo indigeno è compiuto e i nuovi progressi della democrazia
vengono dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dall'Impero per mezzo dei
Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai saputo disegnare con tanta
chiarezza i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi nei
suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il sistema papaie-imperiale e la lotta
non nazionale ma democratica per riformarlo non per distruggerlo,
rimangono sempre le due idee che ci danno la chiave della storia nostra.
Ma non meno giusta è l'interpretazione che F. ci dà dei particolari
periodi storici. Alcuni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi e
concittadini, dei tiranni sono da lui addirittura scoperti; ma anche quegli
altri che erano già conoscenza acquisita di qual luce non vengono
da lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il
difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a
un principio straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu
sempre combattuto dall'espansione originaria nostra; per es. l'enorme periodo
del feudalismo che va da Carlo Magno ai Comuni è da lui decompoSto nei
due perìodi della lotta contro il regno barbaro intemo e dei vescovi. Chi
meglio di lui ha saputo spiegare la gran catastrofe dell’impero romano,
che percuote di spavento come un miracolo dimostrando che fu rovesciato dai
popoli irritati dalla sua fiscalità, i quali vollero piuttosto una invasione
stabile che il continuamente rìnnovantesi disastro delle invasioni
maneggiate dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lotta delle
investiture, condotta non dal Papa e dall'Imperatore, ma dai popoli
italiani che si giovavano dell'uno contro l'altro per modificarli a
vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd patto di Carlo Magno la gran
rivoluzione della libera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha
saputo ritrovare il filo del progresso logico in mezzo allo sconvolgimento
vertiginoso della crisi militare; chi ha meglio di lui definito il periodo
della decadenza dei signori come restaurazione papaie-imperiale non conquista,
perchè liberamente invocata e accettata dai popoli che non si difendodono
nemmeno con una battaglia? Nella storia moderna F. è un po' meno preciso
e la interpretazione in qualche punto è ancora soggetta a completamento e
a correzione come egli stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla
Francia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'irradiazione politica deir
Europa, e anticipa il periodo della Rivoluzione francese alla pace
d'Aquisgrana. L'opera del di F. è in conclusione la messa in valore degli
Scrìptores rerum Italicarum del Muratori, è la riabilitazione del Medio
Evo; che anche oggi è comunemente considerato dalla gente cosi detta di
cultura, la quale giudica coU'occhio velato dal pregiudizio classicistico del
Rinascimento, come un periodo di decadenza di barbarie di traviamento mistico.
I romantici specialmente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel
loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendicare il Medio Evo, però più dal
punto di vista del sentimento che della ragione, finendo col considerarlo
come un territorio di sogno dove la fantasia urtata dalle volgarità del
presente potesse ricoverarsi, in mezzo allo splendore magico di una
società fantastica in cui un cavaliere poteva col suo valore conquistarsi
un regno. Poi vennero i cattolici che lo celebrarono come la loro età
deiToro; il perìodo di trionfo delle loro idee; l'età in cui tutta la
terra, popolata di gente che passava come pellegrina cogli occhi fissi al
cielo, era sottoposta all'alta sovranità del Papa, che poteva
imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa è per es. la
concezione di Gioberti che, combinando col sentimento cattolico
l'orgoglio nazionale, celebrò il Papato come la ragjone della grandezza
medievale d'Italia, dominante il mondo colla religione come una volta coll'armi.
Del primato civile e moraU degli Italiani BniaelUs. Adesso per converso,
dove lui vedeva la luce e appunto per la stessa ragione la folla delle
persone colte vede le tenebre; e il Medio Evo è ancora per loro come un enorme
deserto di schiavitù di barbarie di abiezione mistica, in cui
fioriscono non si sa come le oasi dei liberi comuni a un certo punto
distrutte dal simoun delle signmie. Nessuno ha saputo riabilitare con così
alta giustizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata l'assurda
leggenda della decadenza, dimostrando come anche nei secoli più bui il
progresso sociale continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non
sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato liberamente le invasioni perchè gli
portavano un progresso sociale, o lottato contro i conquistatori così
terrìbilmente da distruggerli; come egli solo protagonista oscuro e
possente abbia creato e atterrato Papi e Imperatori, invocandoli per
distruggere il regno o combattendoli per riformarli. Non si tenti dunque
di far passare per un popolo di puri mistici questo che, anche nelle
epoche più teocratiche volto alla terra, si giovava della religione come
di un'arma spirituale più terribile delle spade gotiche e delle aste
longobarde, per raffrenare e dominare colla magia di tma superstizione terribile
gli enormi bestioni vellosi e truculenti dei barbari tremanti dinanzi
all'invisibile Dio dei Romani; che poi al tempo dei consoli, rigettando
l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si voltava con una energia meravigliosa
alle opere dell'industria e del commercio e diventava il banchiere dei re
dell'Europa,ritenendo la religione come una tradizione da cui gli artisti
potessero evocare un popolo di capolavori che passò nove secoli in mezzo
alle passioni forse più forti della vita, quelle della politica, colla
spada alla manp. La decadenza poUtica comincia proprio nel perìodo del
Rinascimento, quando la civiltà trasporta altrove i suoi centri
incendiari e V impulso viene dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile
non c'è : come non c'è alia caduta dell'Impero romano, come non c'è
all'avvento delle signorie sopra il comune: il gran processo sociale
della democrazia aliargantesi continua, anche se non originario proviene
dall'Europa più avanti ormai nella scala storica; questo progresso sociale
della democrazia si traduce in un continuo aumento di potenza dei centri
romani, delle città industriali e commerciali. Non c'è salto come non c'è
decadenza, non si può quindi accettare l'interpretazione del Rinascimento
come di un movimento che prenda a rovescio il Medio Evo, di cui è invece la
continuità ideale; anche qui F. è confermato dai resultati ultimi
dell'investigazione particolare dei nostri storici: Si vede
dunque come le radici dell 'Umanesimo siano profondamente penetrate e
ramiflcate nel terreno dell'Italia comunale; come esso sia intimamente moderno
e nuovo, sia uno, come statua liberata dal blocco di marmo. Volpe :
Bizantinismo e Rinascenza in Critica, Bari, Laterza. Ma F.
non è solo un interpretatore ih nico, è anche un artista di primissimo
ordine, che il buon Cantoni non si peritava di paragonare per la
sua potenza drammatica di rappresentazione a Shakespeare. D’uno sguardo
psicologico acuto e profondo, d'una mirabile facoltà di ridar vita movimento e
colore agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ciò le
qualità più difficili che fanno i grandi drammatici, e avrebbe potuto
forse divenire il più grande dei nostri se un*altra tendenza più forte non lo
avesse spinto alla filosofia : la tendenza cioè precocissima in lui
ad ascendere ai principi assoluti, ai principi supremi ed etemi che regolano la
vita degli individui e delle nazioni (!) Le abbondanti e frequenti
citazioni bastano a dare una idea della forza artistica con cui sa caratterizzare
uomini e cose, descrivere città, rappresentare movimenti politici. Un periodo
ampio; una vivezza calda e mossa di rappresentazione; un sottile
humour tenue come il sorriso d’un uomo superiore che compatisce alle debolezze
umane, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga d'entusiasmo che
gii fa mettere in luce la grandezza epica della storia in ogni
minimo fatto; la forza dell'immagini che, atteggiando come esseri viventi
città e stati, vi si piantano nel cervello senza abbandonarvi più;
formano le Cantons: (/. F., doti di questo scrittore che avrebbe
potuto anche nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immortale. Con una
fecondità versatilità profondità veramente shakespeariana egli ha saputo creare
una folla di personaggi e rappresentare una serie innumerevole di
rivolgimenti senza mai ripetersi, perchè sa colpire nella sua
caratteristica la realtà che mai si ripete. Per avere un'idea della sua
forza drammatica leggete per esempio la narrazione della lotta di Milano contro
il vescovo papista Grossolano {Riv. d'Italia) e delle imprese di
Ezelìno da Romano; per dare ancora un esempio della sua vivezza
rappresentativa eccovi la descrizione di Genova che pare
d'oggi: Genova è un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e la
montagna, e tale che ì suoi abitanti non possono fare un passo senza
salire sulle rupi o senza ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi
che riuniscono tutti gli estremi della miseria e della munificenza. Nei
loro viottoli stretti neri fangosi inaccessibili alle carrozze si rizzano
immensi palazzi, che disegnano le linee della loro abbagliante
architettura sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni
lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che vi si incontrano
alla ventura colia moltitudine cenciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la
città ondeggia dall'aristocrazia alla democrazia come una goletta di smisurata
alberatura; e i suoi cronisti non possono dissimulare l'ondulazione dei
consoli, specie di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino a
insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo al De Saiictis in
cui D'Anunzio poteva notare tante manchevolezze artistiche e stilistiche da
presagire a torto la sua dimenticanza, F.
anche dovesse la sua interpretazione essere dimostrata falsa da una
critica superiore rimarrebbe ancora immortale in questo capolavoro, che
continuerebbe ad essere letto come uno dei più bei romanzi storici d’Italia. Eppure
con tanto valore artistico e storico questa sua opera non ebbe fortuna, nò
nella prima edizione francese fatta per T Europa, né nella seconda edizione
italiana. Quello che è il suo pregio caratteristico fu appunto la causa del suo
insuccesso, la concezione filosofica cosi profonda che era a base del suo
lavoro di interpretazione rese quest'opera inintelligibile in un periodo
di barbarie, in cui il positivismo dominante ottundeva tutte le menti :
la sua altezza cosi serena di giudizio Io fece trascurare da quegli
uomini ancor tutti accesi delle passioni politiche dal cui cozzo usciva r
Italia. Tipica a questo proposito è la recensione larghissima di Rosa;
essa univa a qualcuna delle solite immancabili osservazioni di dettaglio la
critica di uno che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della
nazionalità e del liberalismo astratto, pare spaventato che si possa refutare
l'apologia dei Longobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; sebbene abbia
una certa confusa sensazione che in ciò consiste la grandezza di F. Per
questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle idee vecchie, per la
vastità del concetto specialmente noi facciamo plauso alla storia del
Ferrari. Che se non possiamo accettare tutte le di lui argomentazioni, se
anche tutte le di lui teorie non reggeranno alla prova della scienza storica
progrediente; egli avrà prestato prezioso servigio agli studi italiani,
avrà educato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche, dalle
tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e scolastici. Per lui i giovani
apprenderanno a contemplare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quella
della civiltà, dove non giungono le ire delle passioni, dove il male parziale
appare coordinato a più vasto bene. Gli accade in piccolo e in breve come
a quel Vico ch'egli venerava col nome di maestro: troppo alto per il suo
tempo non venne compreso. Anche coloro fra i moderni che citano questa
sua opera, come per es. Romano o Gianani, paiono non comprenderne affatto
la terribile profondità il metodo l'interpretazione e somigliano un po' a
fanciulli che giochino colla clava di Ercole. Solo uno straniero, che amò e
studiò ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella Renaissance in Italy non
meno importante del piiji noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta
percezione dell'importanza di questo libro. Infatti come nella prefazione
del I voi. (L'era dei tiranni) ricor- Archivio storico italiano,
Firenze.Le Invasioni barbariche. Milano, Vallardi. I Comuni, Milano,
Vallardi. dava espressamente, nel cap. II {La storia italiana) ne ripete
con parole diverse e con qualche ampliamento o dilucidazione tutte le
grandi idee» però da un punto di vista un pò* meno alto e non del
tutto superiore ai pregiudizi del senso comune, e nel seguito del volume non ne
tiene molto conto. Nessuno tra gli storici moderni, tra cui
ce ne sono diversi molto meritevoli per ricerche particolari, è riuscito
a sollevarsi all'altezza del Ferrari che rimane ancora unico solitario gigante,
per darci un'interpretazione completa della storia d'Italia.
O meglio ci fu uno che tentò sebbene con forze inferiori : Alfredo
Oriani. Solo in mezzo a una folla di positivisti che abbassavano arte e storia
alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani ben comprese e l'aveva
appreso in gran parte da F. come la storia sia interpretazione, spiegazione,
visione dall'alto, resurrezione secondo la parola di Michelet. Non c'è
bisogno di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la
condotta poco delicata di quello verso quest'ultimo, rammentato con citazioni
che nascondono più che rivelare la derivazione, non deve indurci a
negare il valore storico all'autore della Lotta pò-Sysmonds: // Rinascinunto in
Italia; Cera dei tiranni (vcrs. it,). Torino, Roux e Viarciigo:
Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del quale ho
fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia italiana scrìtto
per la seconda edizione di questo volume, Oriani: Fino a Dogali, -
Bologna, Gherardi litica. Esso fu il solo degno continuatore di Ferrari;
continuatore in quanto non propriamente storico del Medio Evo i libri I e
II della Lotta politica come è stato dimostrato non sono altro se non un
riassunto spesso colle stesse parole dal suo gran predecessore ma storico
del Risorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto sia runico che possa
tentare la prova del paragone, Oriani soccombe; come storico per
l'ineguaglianza deirinterpretazione ora indovinata ora superficiale, come
artista per la non rada enfatica esagerazione romagnola inferiore alla
potente precisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione
sentimentale un po' meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il
senso del sublime storico e l'entusiasmo di fronte alla grandezza va
accompagnato a una calma serena, a una specie di fine bonario umorismo
che sa trovare l'uomo magari contro il suo volere benefico anche sotto i cenci
del mascalzone. Oriani ha della storia solo il senso tragico; brontola un
po' troppo; troppo spesso va in collera col passato; non sa
mantenersi cabno davanti agli errori dei suoi personaggi, errori spesso
imposti dalla storia che qualche volta egli vorrebbe correggere. Questi
difetti sono più sensibili nei due primi libri per mancanza di quella
conoscenza diretta che è necessaria alla storia. Dopo si va avanti
meglio, ma anche qui c'è da notare un po' di semplicismo e astrattismo,
più nelle forme che nel con ci) l. Ambrosini : La lotta politica di
A, Oriani nella Voce, Prrrari
Oimeppe F., cetto. Per es. egli dà come ragione dello scacco delta
rivoluzione del 48 la sua forma federale, mentre poi nell'esposizione fa
vedere come fu l'equivoco del popolo e il tradimento dei prìncipi.
Ragionando a questa maniera vedrebbe più giusto il Ferrari che pensa
precisamente l'opposto. Certo qualche po' delle lodi che danno
all'Òrìani storico i crìdci moderni, il Croce e il Borgfte- se, spetta di
diritto a F., di cui sono tre fra le immagini che quello cita per dare un
esempio della forza rappresentativa del suo autore (Venezia I Condottieri
Pellico). Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa l'affermare
che l'opera del Ferrari sia definitiva, perchè nulla c'è al mondo di
definitivo, né la vita né la filosofia né l'interpretazione storica. Ma
come una filosofia è viva finché non è sorpassata e inverata, così una
storia. Orbene prima di buttare il
saggio di F, fra le anticaglie bisogna averlo sorpassato, e finora nessuno non
solo non Tha superato ma non si è nemmeno sollevato al suo livello. Noi
consigliamo quindi a studiarlo: primo per imparare il metodo di Inter*
pretare la storia; secondo per meditare la sua interpretazione concreta, anche
oggi tanto vera che 1 moderni studi particolari la confermano
invece di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta l'Europa
il Ferrari merita un posto a parte superiore ai più famosi : a Macaulay –
citato da Grice -- a Mommsen a Taine, per la stessa ragione che rende il
De La Critica^ genn. i<)og. La vita e il libro. Torino, Bocca. Sanctis
superiore a tutti i critici della letteratura^ per il senso filosofico
che gli diresse la potenza interpretativa a risultati così grandi. Per
racchiudere in una frase il resultato di queste mie osservazioni, Ferrari è il
De Sanctis della storia politica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non
esitiamo a considerarlo come il più gran rappresentante della storiografia
romantica (1), sorpassato nelle sue fisime di filosofo della storia, ma
ancor degno come storico concreto di essere il gran maestro
della nostra generazione. Grice: “I use revolution occasionally – minor ones! --. Grice:
“Mussolini kept saying that Ferrari was talking of ‘rivoluzione fascista’ –
Garibaldi hardly used ‘rivoluzione’! Grice: “Nothing pleased Mussolini more
than the collocation ‘rivoluzione fascista’ – almost as much as Washington did
‘American revolution’, and Cromwell, ‘The Glorious Revolution’!” -- Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco
Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on ‘storia
d’Italia’ – i rivoluzionarii italiani – Vico, Romagnosi. L’uso del termine
‘rivoluzione’ nella storia italiana – la rivoluzione dell’unificazione, la
rivoluzione fascista – il risorgimento dell’unita hardly qualifies as a
revolution. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Ferrari: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’anarchici di Mussolini – scuola
della Spezia – scuola d’Arcola – filosofia speziana – filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Arcola).
Filosofo arcolese. Filosofo speziano. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Arcola,
La Spezia, Liguria. Grice: “I like
Ferrari; he was a philosopher AND a poet – a combo we don’t find too often at
Oxford!” -Ferrari (alias Novatore) Renzo Novatore. Oggi cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per
quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia
vita.» Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta la
scuola soltanto per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed essere
costretto dal padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di
conoscenza, unito ad una notevole forza di volontà, lo spinse però ad un
personalissimo studio da autodidatta che lo portò a leggere Stirner, Nietzsche,
Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire. Non rinunciò comunque ad
elaborare una visione autonoma, che costruì giorno dopo giorno, come ricorda il
suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attività meditativa. Si
sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera
età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una
personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono nell'ambito della
produzione artistica e letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla
famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: «O ciniche
prostitute, o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il mondo
sta immerso e fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi occhi
profondi. Voi siete il sole più bello che oggi il sole bacia. Voi siete di
un'altra razza. E l'anima vostra è un canto, un sogno la vostra vita.
Scardinate il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò
per voi. Il resto è fango!” (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La
prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un
incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte: le
indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili
del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche
Ferrari. Contrario alla guerra, venne richiamato sotto le armi ma si rese
irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in contumacia
alla pena di morte. Sarà poi arrestato e scarcerato in seguito ad
amnistia. “E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema
viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la
morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul mondo. Danzò con
piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e danzò... Per cinque lunghi anni. Ah,
Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea...
Che cosa idiota morire senza sapere il perché.” (Dal poema Verso il nulla
creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore, è
protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di
alcuni dei più importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella
Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non
tenendo conto che allora La Spezia era una delle più importanti roccaforti
militari italiane, circondata da una serie di forti e polveriere che ne
dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e
di alcune delle più importanti industrie belliche. In quel periodo molti
lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che era in molti
anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse
dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata decisa. L'antifascismo
e la morte Coerente fino alla fine nella prima lotta al nascente fascismo,
entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e
dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per sopravvivere si unì al bandito
piemontese Sante Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli
anarchici con la sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva
per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di
Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca, che portava una borsa
piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne
colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva
già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il
colpo, al processo costui avrebbe accusato il defunto Novatore. Le forze
dell'ordine, su incarico del governo Mussolini, intensificarono la caccia alla
banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella
e Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel
genovese, perché avevano individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo.
Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro componente del
gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui carabinieri,
scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro a fuoco rimasero uccisi
il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo crivellato di colpi
si rivelò essere quello dell'anarchico Ricieri Ferrari, noto come Renzo
Novatore, ricercato per attività sovversiva e antifascismo, mentre Pollastri e
l'altro compagno riuscirono a scappare. Novatore, al momento della morte, aveva
con sé una pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba a mano ed un
anello con spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro, per
suicidarsi se fosse caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento
falso recante il nome di Giovanni Governato. Si define anarchico
individualista. Lotta per la libertà e per i diritti delle masse, ma era anche
sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare
affidamento sul popolo: «Le masse che sembrano adoratrici di Errico
Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e
sogghignano.» «Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni di questo
nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila "organizzati"
incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare.» Il suo pensiero
nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si caratterizzava
soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo fine a sé
stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento anarchico
di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione anarco-comunista).
«L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo, non ha per fine
né il Socialismo, né il Comunismo, né l'Umanità. L'individualismo ha per fine
sé stesso.» (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in
Iconoclasta!) «L'anarchia è per me un mezzo per giungere alla realizzazione
dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se
così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se i deboli sognano l'anarchia
per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia come un mezzo
d'individuazione.» «Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la
lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le
loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del
male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo e nessuna anarchia
valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho
considerato me stesso come meta suprema.» Rimaneva salda nel suo pensiero
la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità irrinunciabile tanto
che di lui si disse che scriveva come un angelo, combatteva come un
demonio. Su di lui restò sempre fortissima l'ispirazione di Max Stirner e
di Nietzsche. Opere scritte Le opere e il ricordo del Novatore sono
state in gran parte distrutte dal regime fascista e sostanzialmente a lungo
dimenticate anche da alcune parti del movimento anarchico. Le sue firme
compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al già citato "Renzo
Novatore", anche "Mario Ferrento", "Andrea Del Ferro",
"Sibilla Vane", "Brunetta l'Incendiaria") su svariate
pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La
Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario
(Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico,
Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia
(Parigi). Da ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma:
"Verso il nulla creatore" e "Al di sopra dell'arco".
Libri ed opuscoli Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna,
Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore,
prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro,
illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli
dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio
dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore, prefazione di
Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo
Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario Senigallesi, Polemica, Firenze,
Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni di Totò Di Mauro, Tito Eschini e
Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia,
Albatros, Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di
Totò Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino,
Reprint Assandri, “Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto
Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note biografiche, Pisa, BFS
Edizioni, Renzo Novatore, Toward the Creative Nothing, Portland, Venomous
Butterfly Publications, Renzo Novatore, introduzione di Alfredo M. Bonanno,
Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni Anarchismo. Renzo Novatore,
Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose, dove sono le rose?, Gratis
Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore:
una biografia Archiviato iRenzo NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal
personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di
Wilde Maurizio Antonioli (diretto da),
Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo
Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti,
citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Ricerca
Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo è definito
come la filosofia politicaapplicata o il metodo di lotta alla base dei
movimenti libertari volti fattualmente già dal XIX secolo al raggiungimento
dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia
indesiderabile, non necessario e dannoso o in alternativa come la filosofia
politica che si oppone all'autorità o all'organizzazione gerarchica nello
svolgimento delle relazioni umane. La A cerchiata, il più celebre simbolo
anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono società
senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine
inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques
Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli
enragés o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma
d'autorità. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos'è la
proprietà? (Qu'est-ce que la propriété ?) i termini anarchia e anarchismo
assumeranno una connotazione positiva. Ci sono alcune tradizioni di
anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il
dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di
pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale,
spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di
anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e
anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate
comunque su classificazioni dualiste simili. L'anarchismo in quanto movimento
sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarità. La tendenza
centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si è
avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre
l'anarco-individualismo è principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia
ha avuto un impatto sulle correnti più grandi. La maggior parte degli anarchici
sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo) mentre alcuni
anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la
rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la società anarchica. Chomsky
descrive l'anarchismo, insieme al marxismo libertario, come "l'ala
libertaria del socialismo". Come padre fondatore del pensiero anarchico in
senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che,
con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura
giacobina, precorrerà e ispirerà il pensiero anarchico dominante del XIX
secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail
Bakunin, Pëtr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai
quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda
Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo
praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese
come The Ego and Its Own e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e
totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto,
ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai
movimenti più o meno di massa dell'epoca. Quanto a Proudhon, che può essere
considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo
pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed è stato oggetto, in alcuni
casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte
asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla proprietà. Per quanto riguarda
Bakunin, se la sua influenza è diretta e decisiva sul movimento libertario,
almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il
suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte. In
realtà, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera
di Pëtr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare,
allargare l'eredità bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo
libertario. Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo può essere
considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del
pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorità esterna o
superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di
tutti i principi che, in tempi, forme e con modalità differenti, sono stati
utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul
resto della popolazione. Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si
ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori
ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto
all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale;
eguaglianza che nella società borghese si realizza attraverso la lotta contro
il capitalismo e per l'abolizione del salariato. A questa visione è
contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di
proprietà e il libero scambio come fondamenti di una società in cui lo Stato
non è più necessario: qualsiasi limitazione alla proprietà di sé stessi e di
ciò che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio è vista come
una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libertà di
scelta. Da questo punto di vista è considerato scorretto pensare di poter
formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire
una cornice dentro la quale ogni individuo può cercare liberamente di
realizzare la propria volontà ma senza mai cercare di imporla agli altri
(principio di non aggressione). Il comunismo, allora, può diventare una delle
opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire
in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con
un'imposizione non si avrebbe più un'anarchia. Etimologia I termini
anarchia e anarchismo derivano dal greco αναρχία, ovvero senza archè (principio
regolatore). La parola anarchia per come è utilizzata dalla maggior parte degli
anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e rappresenta
piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate
intenzionalmente. Origini dell'anarchismo Modifica Storicamente, il
movimento anarchico si è sviluppato in seno al movimento operaio in quanto
espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei
lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso può essere
considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo,
caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione
in classi della società. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche
entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che
sostenevano la possibilità di cambiare "progressivamente" le basi
inegualitarie della società capitalista) che con le concezioni marxiste, in
particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo
rivoluzionario. Specificità della dottrina anarchica L'obiettivo della
teoria anarchica è la nascita di una società di uomini e donne liberi e uguali
dal punto di vista dei diritti. Libertà ed eguaglianza dei diritti sono i due
concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze
sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le
correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono
l'eguaglianza considerata come uniformità dal punto di vista dei mezzi a
disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che
sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di
mercato") considerano l'uniformità come un'utopia che oltre ad essere
indesiderabile è, a causa della naturale diversità degli individui,
irraggiungibile. In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il
possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto
libertari, essi pensano che la libertà dispieghi il suo reale significato in
quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libertà ed eguaglianza devono essere
"concrete", cioè sociali e fondate sul riconoscimento uguale e
reciproco della libertà di tutti. Mentre il pensiero borghese liberale
aveva come motto "la mia libertà finisce dove inizia la tua", per gli
anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libertà dell'individuo
non è limitata ma confermata dalla libertà altrui. "Sono partigiano
convinto dell'eguaglianza economica e sociale – scrive Bakunin – perché so che
al di fuori di questa eguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità umana,
la moralità e il benessere degli individui così come la prosperità delle
nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della
libertà, questa condizione primaria dell'umanità, penso che l'eguaglianza debba
stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà
collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate
nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato".
Per realizzare una tale società, gli anarchici ritengono indispensabile
combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di
dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i
governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e
legittimità, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento
di una parte della società sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non è che un
parassita della società che la libera organizzazione dei produttori e dei
consumatori deve e può rendere inutile. Su questo punto le concezioni
anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello
Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile. Per la critica
anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al
deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani)
ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita
sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua
caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i
privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la proprietà
capitalista. Come già aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx
"La libertà senza eguaglianza è una malsana finzione. L'eguaglianza, senza
libertà, è il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere
per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata:
la burocrazia". Al modo di organizzazione della vita sociale
governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione
federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina
amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli
stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si
trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al
di sopra della società. Il federalismo, in quanto modo di organizzazione,
costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e
il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo così
inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di
federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non
si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di
organizzazione sociale a sé stante, capace cioè di inglobare tutti gli aspetti
della vita di una collettività umana. Organizzazione anarchicaModifica Il
pensiero anarchico è dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza
dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di
organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le
altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni
individuali e collettivi. Così, se l'autogestione nelle imprese rende possibile
la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato,
l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni
permette la sostituzione dello Stato. Essa intende presentarsi come il
complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore
garanzia della libertà individuale. Il fondamento di tale organizzazione è il
contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma
effettivo, che si può modificare per volontà dei contraenti (associazioni dei
produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di
iniziativa di tutti i componenti della società. Così definito, il
contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di
ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di
regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi
o collettività, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa
l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista
di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare"
dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione
non può pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare
a prodursi a tutti i livelli anche nella società federalista. Tuttavia il
federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel
rispetto della massima libertà di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi
governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici
sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero
affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come è
solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei
sottoposti il bisogno di un'autorità regolatrice). Azione anarchica Per
gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi
adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i
mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in
accordo con il fine perseguito. Lo scopo dell'azione anarchica non vuole
essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione
dell'esistente. Il Congresso di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente
vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei
lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si affermò
che il primo dovere del proletariato non è la conquista del potere all'interno
dello Stato ma la sua distruzione. L'approccio dei libertari è quello di
opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ciò non
politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre
considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale
o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie
borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere,
essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione
generalizzata e senza deleghe di potere. I libertari ritengono che per i
lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia
anche il migliore e più efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre
l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori. Gli
anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un
ruolo dirigente, poiché ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi
dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perché ciò sia possibile
occorre che i lavoratori prendano coscienza di ciò che Proudhon ha definito la
"loro capacità politica". I lavoratori rappresentano la forza reale
di una società e solo da essi può venire una sua trasformazione profonda.
L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa
degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento
delle condizioni di vita e del progresso sociale. Numerosi libertari
hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di
difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di
trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non
può essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poiché, da
una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e,
dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto
produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve,
nel suo funzionamento come nei suoi principi: cercare di mantenere la sua
autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla
e nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia
diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione;
darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle
rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare
la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto è assai importante
poiché, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non
possono essere considerati come una finalità in sé. La sua autonomia non deve
significare "neutralità" nei riguardi del potere o dei partiti perché
ciò significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialità di
cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol
cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e
di una pratica conseguente. L'azione sindacale non è tuttavia il solo
mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le
circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro
utili e opportune. Dottrine di carattere libero-mercatista. Le teorie
anarchiche di impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker,
che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si
definiva socialista[31], convergono sulla necessità di una prospettiva di
eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un
mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33],
convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si
distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la
proprietà privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che
possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme
conseguenze, cioè alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime
che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due
corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro. «Cos'è la
proprietà? La proprietà è un furto» (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon,
noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra
lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della
proprietà" arrivò ad affermare che "la proprietà è libertà".
L'apparente contraddizione è dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto
non la proprietà individuale, ma quella proprietà che seppur utilizzata da
altri individui è fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come
libertà quella proprietà, chiamata "proprietà-possesso", frutto del
proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza
determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel
mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come
scopo. Anarchismo di ieri e di oggi. Anche se oggi viene trascurata,
l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato
sul movimento operaio è stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a
sé stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza
si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come
la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile
spagnola del 1936. L'influenza delle idee anarchiche si è soprattutto
manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come
la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma
anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la
SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei
Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che
avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava più di un
milione di aderenti. L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli
anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e
nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni,
anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo
fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un
doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi
staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento
operaio e sindacale anche negli altri Paesi. Il mito della rivoluzione
bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano
una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove
le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi
nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri
paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico è ridotto al
silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio.
In generale si può dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre
più isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco
solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti. La rivoluzione di
Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di
rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie
anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle
organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione
storica più importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni
del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo. All'inizio della
guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale
anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel
maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595
aderenti, la Federazione Anarchica Iberica e la Federazione Iberica delle
Gioventù Libertarie(FIJL). Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due
blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno
ridotto le possibilità di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra
lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha
marginalizzato sempre più le correnti anarchiche. Dopo il Sessantotto,
tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le
idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del
movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come
"autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre
aggiungere la reazione sempre più viva di vasti settori della popolazione
contro la burocratizzazione delle società sia del blocco "socialista"
(in realtà trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia,
anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio
dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo più o meno
coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando
non addirittura al marxismo-leninismo. Oggi il movimento anarchico è
ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del
nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui
nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle
nel novembre 1999) si è giovato del contributo delle analisi libertarie e
dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche,
nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche
il movimento anarchico greco, uno dei più importanti in Europa, che si è visto
protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in
seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel
maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca.
L'anarchismo può ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado
di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del
nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli
armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie,
inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza
istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del
lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali
ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e
libertà. L'anarchia è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai,
così come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo è il
metodo di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e
sempre, nei limiti delle possibilità, variabili secondo i tempi e le
circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanità
Nova, Roma, 1922. Siri Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail,
2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale il
16 maggio 2007). Anarchism, su
Encyclopædia Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN )
Anarchism, in The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14.
«Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both
possible and desirable.» ^ ( EN ) Paul Mclaughlin, Anarchism and
Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, Johnston, The Dictionary of Human
Geography, Cambridge, Blackwell Publishers, Slevin, Carl.
"Anarchism." The Concise Oxford Dictionary of Politics. Ed. Iain
McLean and Alistair McMillan. Oxford
University Press, 2003 ^ a b «L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche
lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorità, sia essa economica,
politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale». Vedi: ( EN ) I principi
dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall'
url originale il 3 aprile 2012). ^ «Anarchism, then, really stands for the liberation
of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human
body from the dominion of property; liberation from the shackles and restraint
of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping
of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that
will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment
of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and
inclinations.» Emma Goldman, "What it Really Stands for Anarchy" in
Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha
definito l'anarchismo come opposizione all'autorità nel seguente modo: «They
found that they must turn either to the right or to the left, follow either the
path of Authority or the path of Liberty. Marx went one way; Warren and
Proudhon the other. Thus were born State Socialism and Anarchism...Authority,
takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies divide themselves into
three classes: first, those who abhor her both as a means and as an end of
progress, opposing her openly, avowedly, sincerely, consistently, universally;
second, those who profess to believe in her as a means of progress, but who
accept her only so far as they think she will subserve their own selfish
interests, denying her and her blessings to the rest of the world; third, those
who distrust her as a means of progress, believing in her only as an end to be
obtained by first trampling upon, violating, and outraging her. These three
phases of opposition to Liberty are met in almost every sphere of thought and
human activity. Good representatives of the first are seen in the Catholic
Church and the Russian autocracy; of the second, in the Protestant Church and
the Manchester school of politics and political economy; of the third, in the
atheism of Gambetta and the socialism of the socialism off Karl Marg». Benjamin
Tucker, Individual Liberty, su theanarchistlibrary.Ward, Anarchism as a Theory
of Organization, su panarchy.org, 1966. URL
consultato il 14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce
dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle
forme di autorità statali e non statali nel seguente modo: «All anarchists deny
authority; many of them fight against it» ... «Bakunin did not convert the League's central
committee to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably
radical recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding
economic equality and implicitly attacking authority in both Church and State»
^ città Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential
Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism:
Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. Publishing,
2002, p. 106. ^ «ANARCHISM, a social philosophy that rejects authoritarian
government and maintains that voluntary institutions are best suited to express
man's natural social tendencies», George Woodcock, "Anarchism" in The
Encyclopedia of Philosophy ^ «In a society developed on these lines, the
voluntary associations which already now begin to cover all the fields of human
activity would take a still greater extension so as to substitute themselves
for the state in all its functions». Pëtr Alekseevič Kropotkin,
"Anarchism" in Encyclopædia Britannica ^ «That is why Anarchy, when
it works to destroy authority in all its aspects, when it demands the
abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves to impose
them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free agreement
at the same time strives to maintain and
enlarge the precious kernel of social customs without which no human or animal
society can exist». Pëtr Alekseevič Kropotkin, Anarchism: its philosophy and
ideal, su theanarchistlibrary.. ^ «anarchists are opposed to irrational (e.g.,
illegitimate) authority, in other words, hierarchy hierarchy being the institutionalisation of
authority within a society». B.1 Why are anarchists against authority and
hierarchy?, in An Anarchist FAQ. Ostergaard, Anarchism, in The Blackwell
Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p. 14. ^ Peter
Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Courier Dover
Publications, Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in Western
Political Quarterly, Skirda, Facing the Enemy: A History of Anarchist
Organization from Proudhon to May 1968, AK Press, Lo storico catalano Xavier
Diez riporta che la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta
da membri di gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico
CNT. Ci furono anche casi di
anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada
che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo
segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez, El anarquismo individualista en
España: Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition"
by Geoffrey Ostergaard, su ppu. Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian
Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler, The Anarchist Tradition of Political
Thought, in The Western Political Quarterly, Chomsky, On anarchism, Woodcock,
L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli Editore,
1966. Max Stirner, trad. Steven Tracy Byington, The Ego and Its Own, 1st engl
ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della
prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire L'Unique et sa
propriété, P.V. Stock, Éditeur, 1899, ma riedito l'anno successivo, Max
Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa propriété, Éditions de La Revue
Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad.
Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito completo per i tipi della
Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History
of Anarchism, PM Press, Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org.
^ Brown. Susan Love. 1997.
The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The
Free Market in Western Culture. p. 107. Berg
Publishers. Voci correlate: Anarchia Economia anarchica Anarcopunk
Anarco-capitalismo Anarco-comunismo Anarco-individualismo Anarco-femminismo
Anarco-pacifismo Anarco-sindacalismo Anarco-socialismo Bakunin Mutualismo
(economia) Pananarchismo Possibilismo libertario FaSinPat (Fabbrica senza
padroni) Christiania Stati per forma di governo Radio Libertaire Radio Blackout
Radio Canut Radio Zinzine Radio Klara Radio Primitive Radicali Anarchici
Umanità Nova A/Rivista Anarchica contiene il testo completo di alcuni canti
sull'anarchismo Wikizionario contiene il lemma di dizionario «anarchismo»
anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
anarchismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Anarchismo,
su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Anarchismo, su
Enciclopedia Britannica. Opere riguardanti Anarchismo, su Open Library, Internet
Archive. Portale Anarchia Portale Filosofia Portale Politica. Socialismo
libertario Anarchismo sociale forma di socialismo anti-statalista e libertaria,
che vede la libertà individuale interconnessa all'aiuto reciproco e la
cooperazione Scuole di pensiero anarchico correnti di pensiero riguardo
l'anarchismo. BIBLIOTECA Luparini ANARCHICI DI
MUSSOLINI rali vere SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta”
Pisetemenzar via Garibaldi A | assonimion i Ami 13]
CRITNTEINTA] Ù o f= Niue] | Senesi Aia MILANO - Dc t9rs. |
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3 dite bed | ed incitare. all'azione: ta ‘entitoto le oc DALLA
SINISTRA AL FASCISMO TRA RIVOLUZIONE E REVISIONISMO M.IL.R. EDIZIONI.
Fenomeno spesso rimosso, quando non del tutto ignorato, in sede
d'indagine storiografica, l'interventismo di matrice anarchica costituì
un filone, minoritario ma non trascurabile, del variegato movimento
interventista rivoluzionario ed ha una significativa appendice nel
dopoguerra, allorché numerosi anarchici interventisti confluirono nei
Fasci di combattimento fondati da MUSSOLINI. Tra questi, Gioda,
Malusardi e Rocca rivestirono un ruolo di primo piano nel fascismo delle
origini. Pur nella sostanziale diversità delle esperienze e degli approdi
politici (dal sindacalismo integrale e di sinistra del repubblicano
Malusardi al revisionismo conservatore e filo-liberale di Rocca),
la loro azione all'interno del fascismo è caratterizzata da uno
spirito affine, almeno in parte riconducibile alla comune formazione
anarcoindividualista: una residua eredità “libertaria” inevitabilmente
destinata ad esaurirsi con il consolidarsi al Pptes della “rivoluzione”
fascista. Questo libro ne ripercorre la. "comlilisa
Niiindi politica, dall'anarchismo al fascismo, ‘attraverso i
decisivi passaggi dell'interventismo e della guerra, sullo sfondo di uno
dei periodi più intensi‘ e più drammatici della storia
d'Italia. Mita. Luparini è nato a Firenze. Si è laurea in Scienze
Politiche presso la Facoltà “Cesare. Alfieri” dell'Università di Firenze e
consegue il dottorato di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Politica
dell'Università di Pisa, ove svolge cone la su tività O didattica e di
ricerca. di Lineta. M.I.R. EDIZIONI. Via Montelupo, Montespertoli (Fi)
Italy Finito di stampare dalla Litotipografia SAMBO s.n.c. e Luparini ANARCHICI
DI MUSSOLINI Dalla sinistra al fascismo, tra rivoluzione e
revisionismo M.I.R. EDIZIONI. Quanto a quello che succederà domani,
caro Berneri, non è a noi, ultimi venuti, senza responsabilità per
il passato e, se non erro, abbastanza coerenti e fermi sinora, che
si possono muovere rimproveri in anticipo o intentare processi alle
intenzioni. Plechanov, teorico bolscevico, Kropotkin, teorico anarchico,
si pronunciarono in Russia per la guerra; altrettanto fecero il
socialista MUSSOLINI e gli anarchici e sindacalisti Rocca e Corridoni in
Italia, E” consigliabile dunque che nelle discussioni relative al
domani ci mettiamo su piede di parità, con lo stesso coefficiente di male
e di bene, di deviazioni possibili e di fedeltà irriducibili. Gli uomini
passano, le idee e anche i movimenti restano (Rosselli, Discussione
sul federalismo e l’autonomia, Giustizia e Libertà»). Così, in una
garbata polemica a distanza con l’anarchico Berneri (che aveva avanzato
dubbi sulla possibile tenuta antifascista di Giustizia e Libertà), Rosselli
poneva l’accento su un principio spesso ignorato: l’inopportunità in
politica (nonché - potremmo aggiungere - nelle vicende umane in
generale), specie in epoche di grande travaglio, di porre ipoteche sul
futuro, semplicemente sulla base di memorie e di tradizioni più o meno
consolidate, di preconcetti ideologici o di appartenenza. L’interventismo
di matrice anarchica, richiamato dallo stesso Rosselli quale esempio
di variabile imprevista, rappresentò senz'altro, considerato nel quadro
storico del movimento libertario italiano, una “deviazione”, ma fu, per
l’appunto, una deviazione “possibile”. Non già, dunque, un’astrusità
incomprensibile, prodotto di frange corrotte e malvissute, a stento
collocabili nella famiglia anarchica, ma un evento - sia pur
anomalo e, al cospetto dell’ortodossia libertaria, scabroso - riconducibile
all’anarchismo e, come tale, appartenente di diritto alla sua storia.
Allo stesso modo, per restare in ambito interventista, la “conversione”
di MUSSOLINI, tenuto conto dell’anima volontaristica e sostanzialmente
antidogmatica, non solo del socialismo mussoliniano, ma anche di larga
parte del socialismo italiano tout court, non costituì poi una così
grande eresia ed anzi ebbe, in questo senso, una certa sua
coerenza. Nondimeno, proprio a causa della sua “scabrosità”,
l’anarcointerventismo è stato a lungo trascurato, quando non del tutto
rimosso, in sede d’indagine storica, e solo in anni recenti un ottimo
studio di Antonioli ha restituito visibilità e, per così dire, dignità
storiografica, ad un fenomeno che, se non fu certo tale da smuovere
grandi masse (ma tutto l’interventismo rivoluzionario fu, a conti fatti,
espressione di una minoranza), ebbe tuttavia, oltre che una sua
specificità, una sua rilevanza, non soltanto in ordine alla vicenda interna
dell’anarchismo. Intento di questo libro vuol essere, perciò, quello di
ricostruire la genesi e gli sviluppi della corrente anarcointerventista
(sia come fatto in sé, sia in rapporto al più vasto schieramento
dell’interventismo rivoluzionario), per poi, in un secondo momento,
provare a rintracciarne l’eredità nell’Italia del dopoguerra, in
relazione all’avvento e all’ascesa del fascismo. Molti anarchici
interventisti, infatti, confluirono nei Fasci di combattimento fondati da
MUSSOLINI (altro motivo per cui l’anarcointerventismo è stato il più
delle volte espunto dai trattati di storia dell’anarchismo), e alcuni di
loro, come Rocca, Malusardi e Gioda, vi ebbero un ruolo tutt’altro che
marginale. Questi tre nomi, pur ricorrendo sovente (soprattutto il primo)
negli studi sul fascismo iniziale, restano tuttavia, a. nostro avviso,
ancora avvolti in una coltre d’indeterminatezza. In queste pagine si
cercherà pertanto di ripercorrere la complessa vicenda postbellica di
Rocca, Gioda e Malusardi dall’immediato dopoguerra sino alla vigilia del
delitto Matteotti -, senza mai perdere di vista i loro trascorsi
anarchici; un’eredità forte, conseguenza di un altrettanto forte senso
d’identità, che - ci sembra di poter dire - sopravvisse almeno in parte
alle radicali trasformazioni indotte dalla guerra, finendo per
condizionare, ancorché in misura e su piani diversi, il grado di adesione
al fascismo di questi uomini. Per questa ragione, ad esempio, ci è parso
che il caso di un altro anarchico interventista passato al fascismo,
Arpinati, il cui nome è senza dubbio più noto dei tre sopra citati, non
potesse a pieno titolo rientrare nelle finalità e nella ratio di questo
volume. In altri termini, mentre Arpinati (anarchico sì, ma senza alcun
peso reale nel movimento) acquisì una compiuta coscienza politica sia pur in qualche maniera
caratterizzata in senso anarcoindividualista - con il fascismo e grazie
al fascismo; Rocca, Gioda e Malusardi approdarono al fascismo al culmine
di un’effettiva e sentita militanza libertaria (anche se, nel caso di
Rocca, vissuta in modo decisamente eterodosso), sì che nel fascismo essi
portarono una precisa connotazione ideologica, quantunque, e non avrebbe
potuto essere diversamente, filtrata e rivissuta alla luce delle cruciali
esperienze dell’interventismo e della trincea. . In definitiva,
quindi, un’opera su più livelli, che così almeno speriamo dovrebbe consentire di
far luce su una componente poco conosciuta dell’interventismo
rivoluzionario prima, del fascismo poi, sullo sfondo di uno dei periodi
più intensi e più drammatici della storia
d’Italia. INTERVENTISMO Eretici tra gli eretici: gli anarchici
interventisti fra apostasia e presa di coscienza Pe Lo scoppio
della guerra europea sorprese il movimento anarchico italiano in un
momento di grande sforzo organizzativo. Il tentativo, avviato già
all'indomani dell’impresa libica, di collegare i diversi gruppi anarchici
della penisola intorno ad un programma comune, allo scopo di frenare le
spinte centrifughe interne al movimento e di non perdere i contatti con
le masse (proprio mentre lo spostamento a sinistra del Partito Socialista
e la nascita dell’Unione Sindacale Italiana rischiavano di ridurre
ulteriormente lo spazio di manovra degli anarchici), fu vanificato dal
precipitare della situazione internazionale. Il progettato congresso
nazionale anarchico di Firenze, che doveva sancire questo nuovo
orientamento, non ebbe mai luogo, e il successivo convegno di Pisa,
riunitosi poco tempo dopo l’entrata in guerra dell’Italia, avrebbe
lasciato cadere ogni ipotesi costruttiva per far argine all’incalzare
degli eventi bellici". Sul piano esterno, sul piano, cioè, dei
rapporti con gli altri partiti dell’estrema sinistra, che dopo la settimana
rossa avevano lasciato intravedere la possibilità di un’intesa d’azione
con le forze più autenticamente rivoluzionarie (soprattutto repubblicani
e sindacalisti), la guerra rappresentò, anche per gli anarchici, la
caduta delle illusioni. Ancora il primo agosto, in un articolo
pubblicato da L’Iniziativa», organo nazionale del PRI, il giovane
anarchico Mario Gioda aveva sostenuto la necessità del “blocco rosso”,
ovvero l’unione di tutti i partiti sovversivi”. Nato a Torino il 7 luglio
1883, operaio tipografo’, Gioda era un autodidatta Su questi punti v.
soprattutto ANTONIOLI, // movimento anarchico italiano, in Storia e Politica»,
Sulle vicende dell’anarchismo italiano nei mesi precedenti alla settimana
rossa v. GINO CERRITO, Dall'insurrezionalismo alla settimana rossa. Per
una storia dell'anarchismo in Italia, Firenze, CP, GIODA, La necessità della
repubblica. Io difendo il blocco rosso, L’Iniziativa», Cfr. ARCHIVIO
CENTRALE DELLO STATO, CASELLARIO POLITICO CENTRALE [d'ora innanzi ACS,
CPC], Busta [Gioda]. con la passione per le belle lettere e le scienze
filosofiche (un pensatore... proletario», come sarebbe stato
efficacemente definito molti anni dopo) ‘, poco incline, in verità,
all’attività politica-di propaganda. Negli anni prima della guerra aveva
scritto per numerose riviste, non solo di orientamento libertario,
cimentandosi nei campi più disparati, dalla filosofia alla critica
letteraria e di costume, e guadagnandosi una discreta popolarità. Di
temperamento schivo e riflessivo‘, dotato malgrado ciò di una buona vena
polemica, Gioda era in buona sostanza un intellettuale, non riconducibile
ad alcuna specifica corrente del pensiero anarchico, sincreticamente
aperto anche ad altre suggestioni culturali, con in più, sotto il profilo
strettamente politico, una spiccata e mai celata propensione al
repubblicanesimo. In ogni caso, se è vero che Gioda era - per sua stessa
ammissione - un “quasi-repubblicano”‘, convinto quanto meno che la rivoluzione
dovesse prima di tutto avvenire sul terreno istituzionale»”, è
altrettanto vero che, specie dopo 4 Così scriveva Ferrara, introducendo la
prefazione di Gioda allora
segretario del Fascio di combattimento torinese - al volume di Enrico Portino
Quattro anni di passione (Torino, Valentino), un'antologia di scritti e
di vignette dai giornali satirici fascisti Il Pettine» e Il
Sonaglio». * Poeta dilettante, il giovane anarchico esprimeva nei suoi
versi sentimentali una sensibilità quasi crepuscolare. Ancora in età
matura, ormai affermato dirigente fascista, Gioda coltivava l’ambizione
di veder pubblicate le sue poesie. Non visse abbastanza a lungo, ma alcune
sue rime giovanili apparvero postume in Vita di Mario Gioda narrata da
Croce, a cura del Gruppo rionale fascista “Mario Gioda”, Torino,
Stabilimento grafico Impronta. Gioda era in rapporti d’amicizia con importanti
esponenti del repubblicanesimo italiano, fra i quali il vecchio
garibaldino Ergisto Bezzi, che ne aveva grande stima. Alcune lettere di
Bezzi a Gioda si trovano in BEZZI, /rredentismo e interventismo nelle lettere
agli amici, Trento, Museo trentino del Risorgimento e della lotta per la
libertà, 1963. Per comprendere in cosa consistesse il repubblicanesimo di
Gioda se ne vedano gli articoli Del XXIX luglio e per un cencio di
repubblica, e Il mio repubblicanesimo, apparsi sulla rivista repubblicana
torinese La Ragione della domenica». Nel primo di essi, scritto subito
dopo l’assassinio di Umberto I, Gioda aveva deplorato il conformismo
monarchico» dei partiti estremi, che non avevano esitato a commuoversi per la
sorte del re, e aveva affermato l'imperativo morale, per i rivoluzionari
d’ogni scuola o tendenza», di essere settariamente repubblicani». Nel
secondo, Gioda aveva precisato i contenuti della propria fede
repubblicana, sostenendo di rimanere prima di tutto anarchico, ma di ritenere
la repubblica la repubblica
sociale un passaggio necessario sulla
via della rivoluzione, il solo mezzo per giungere a trasformazioni più
radicali e definitive, senza il pericolo di sfasciare la rivoluzione in
braccio alle evoluzioni riformistiche della democrazia sociale». Le
opinioni espresse dall’anarchico torinese su La Ragione della domenica»
avevano incontrato la disapprovazione di molti suoi compagni. Ancora a
distanza di tempo, il ferrarese Poledrelli aveva definito tisico e spurio»
l’anarchismo di Gioda, e bollato come una balordaggine politica» l’idea
di un fronte unico anarchico/repubblicano (POLEDRELLI, In ritardo?
Anarchici e repubblicani, L’Agitatore», 18 febbraio 1912). Qualche anno
dopo Poledrelli avrebbe partecipato alla campagna interventista a
fianco proprio dei repubblicani e dello “scomunicato” Mario Gioda.
la settimana rossa, molti anarchici, non escluso Errico Malatesta, LA con
favore crescente all’elemento giovanile e proletario del PRI, e i .
apprezzavano e condividevano l’intransigentismo Lila emi diffusione
dell’appello della DE pel 3 repubblicana per la mobilitazione contro gli
Imperi i ppi far quale riaffiorava prepotentemente l’anima mazziniana de
Lira sog riproponevano, attualizzati, temi e suggestioni dell niet seg
n fatto la fine delle aspettative rivoluzionarie . Ad esso sarebi ero
segu sa conferenza milanese di Alceste De Ambris, punto d nuvia di sa +
i decisiva che avrebbe portato alla spaccatura dell’USI e all’adesione di
larg; _/parte del sindacalismo rivoluzionario italiano alla tesi
dell’intervento (tanto Te i ; ; li È che Felice faceva
risalire proprio al discorso di De Ambris la d’inizio dell’interventismo
rivoluzionario) ‘, e una serie di altri i sà non meno traumatici, fino
alla clamorosa “conversione” di Benito Mussolini.
isleri i ’Iniziativa» del 15 agosto e * Il manifesto, redatto da
Arcangelo Ghisleri, fu pubblicato da PL pa Hb ripreso nei giorni seguenti
da tutta la stampa repubblicana. irc: a on si a anarchici a questo
riguardo si veda l’articolo di ri vie [af Aaa % i Volontà», 29 agosto,
nel q r i repubblicano e la guerra ( 3 Z reti cc A icani di i lla
causa della rivoluzione, per egli repubblicani di aver abdicato al :
izione rp iti bbri replicò il repubblic: i sperava definitivamente
tramontate. A Fal i ibblicano © Me Larini del PRI anconetano, a sua volta
accusando gli anarchici di siente si Lac i politica (cfr. Anarchici e
socialisti, Il tig 6 Sene ati ; sai pei pipi inelli i i più ivi trema
sinistr:, que @ due dei nomi più rappresentativi del es ù £ peri
ohba Halo ad Ancona, città simbolo della settimana LA san 5 ) .i giorni
gli ambienti sovversivi. a del clima di forte tensione agitante in quei
gi i : cine par iù n quanto inattesa, ripropi a ‘odotta dalla
guerra, tanto più dolorosa i I |‘ i divisioni del srt che la comune
battaglia sa coord pa via utili panta ui is, segretario della
Camera agosto Alceste De Ambris, segi della (T n an Sirigenti del
sindacalismo rivoluzionario italiano, intervenendo ad peri pe ema “I
sindacalisti e la guerra”, presso la sede milanese dell USI, sostenne coi
fn della erra rivoluzionaria. Fra il 13 e il 14 settembre si riunì il consigl
e sn AA dell'Unione La maggioranza votò un ordine del giorno di AO ERA
A i Cat io alla tesi interventista di De E : Carrara, nettamente
contrario al i A Di Borghi, principale esponente della corrente ni A su
merita re i o di i i Ambris e i suoi seguaci (il fratello ; otti,
”USI, in luogo di Tullio Masotti. De b i a ne) Em " Coni, Rossi,
Bianchi, Rossoni) pe prio Di pia de L’Internazionale», organo
dell’Unione. Dalla successiva LS cppora n opera della frazione
interventista, l'Unione Italiana del artt iaia eri sn di i i ioni si li
repubblicane., rimas seguito anche le organizzazioni sindacali ì :
i ufficiale prese a pubblicare La Guerra di com a sta o se Di >
rd ? i is è ri to in i; k
conferenza di De Ambris è riprodoti vin internazio: ; sto | . n sn
commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So
dell’interventismo rivoluzionario, si veda l’articolo Una voce sindacalista, L’Inizia
; agosto 1914. Li H x) rs sian Belgio € n Francia ad
opera dei tedeschi determinò la 1 posizione a favore dell’Intes i i
Sr a da parte di alcuni degli ini più rappresentativi dell’anarchi
“qualiv iS chismo, non ‘solo fi i i Pi Db? 9 10, rancese, tra i
quali Piotr Fnac Jezn n James Guillaume e l’italiano Amilcare ppi
il rio “colonnello” della Com ichi o) e 1 une. Le loro dich
ioni Poni a Cc € ichiarazioni, che a i la naturale e antica
simpatia dei rivoluzionari europei verso di E ella Grande Révolution e
che, a distanza di un anno e mezzo, ag ubi espressione definitiva nel
cosiddetto “Manifesto dei » suscitarono polemiche e divisioni i
dici” ni anche tra gli anarchici italiani primo intervento eterodosso di
ico i dia i 1 segno anarchico in materia di i neutralità fu opera
proprio di io Gi Reit i io di Mario Gioda. Ad ui i i ì fu o c i na
settimana dal on \ suo articolo BIO Gioda, scrivendo per Volontà»
(il principale periodico go ita iano), rilevò il fallimento improvviso e
devastante He age D sostenne la necessità che, in caso d’invasione
austriaca, anche gli anarchici impu i i i } >, pugnassero le armi per
difendere il È ici i il suolo azionale ‘. La Folla», la rivista di
Paolo Valera di cui Gioda era da tempo Sì »8 assiduo
collaboratore li offrì, a breve distanza, I Opportunità di precisare
In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di molti è ello e troppo forse si è sognato. La
guerra è il ri Wi Intanto, il fallimento dell’o) izi e A en i ILL
pposizione socialista e democratica ne’paesi I social esi dell
FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i
prebiaia S : Ag its do FEDELI, Breve storia
dell'Unione Sindacale Italiana. HI, in® Rec ana ngi ni Vac i due volumi
di FELICE Mussolini il nario,, Einaudi,, p. 235 ss., e Sindacalismo riv N
zii i rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196
19.35. ln si, per il valore della testimonianza, ARM o di (1398-1905)
NIGOlIEREARAI pp v [BORGHI, Mezzo secolo di anarchia dat Psa reo) be fog
la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di sti (cfr. Gli
anarchici intelligenti son “dichiarazione” storica, L’Internazion:
linate j ale», 25 marzo 1915), fu i da parte del movimento
anarchico itali i i GATE ROMEA taliano (si veda, in particol: ’arti
i nba } _In particolare, l’articolo di ERRICO ; governo, Le Réveil
communiste- i i N g ‘ uniste-anarchiste», 1 maggio 1915 si n arts
rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14. 9 re di Valera,
aveva contribuito alla ri; ita di e 1912, e vi scriveva regolarmente, iù
so imi ai 12, » per lo più sotto pseudonimi (l’ Amico di Vautrin, i
I torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat rese).
mentali, per pporto tra l’anziano scrittore e agitato! iali Porlinia gli
articoli di quest’ultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai Fa =
inni i ll o 1911. Su questo punto v. altresì Miano i LI, rchici italiani
e la prima guerra mondial 1 ici interventisti (1914-1915), in Rivista
Storica dell’ Anarchismo», 1995, TCA ig 14 di
difendere domani la nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la
integrità di essa, nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla
monarchia [...], reclamiamo e vigiliamo per la assoluta
neutralità" Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora
lontani da una netta presa di posizione in senso interventista)
scatenarono una polemica a distanza fra l’autore, il direttore dell’ Avanti!»
Benito Mussolini e Nella Giacomelli, una delle voci più autorevoli di Volontà»!
In essa s’inserì ben presto anche l’anarchico individualista Oberdan
Gigli, coetaneo e amico di Gioda, recandovi nuove e più profonde
inquietudini". In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli
prese senz'altro le difese del compagno. GIODA, Mentre
trionfa la guerra, La Folla», 9 agosto 1914 U Sul numero di Volontà»
dell’8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin (pseudonimo
di Nella Giacomelli), intitolato La più grande mistificazione: da Hervé a
.. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di
Mussolini che lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal
neutralismo assoluto, aveva paragonato il dubbioso direttore dell’Avanti!»
a Gustave Hervé, l’araldo dell’antipatriottismo estremo, arruolatosi
volontario nell’esercito francese subito dopo la dichiarazione di guerra
della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera
nella quale, rifacendosi a sua volta all’articolo di Mario Gioda, rimarcava
l’incoerenza di Volontà», che, nel mentre accusava lui di aver tradito le
sue idee internazionaliste, non aveva esitato a pubblicare una pagina di
quel tenore. La replica di Mussolini trovò spazio in un secondo articolo
della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Hervé a Mussolini: da Mario
Gioda a Oberdan Gigli, Volontà»), molto critico nei riguardi di Gioda e
degli altri sovversivi “guerrafondai”. Infine, il 29 agosto, il giornale ospitò
una lettera dello stesso Gioda, che, respingendo l’accusa di
patriottismo, affermava però il dovere degli anarchici, proprio in quanto
tali, di difendere la causa della libertà - rappresentata dalla Francia e
dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi
avvenimenti v.ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.
Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Giacomelli Rivista
Storica dell’ Anarchismo». Il ragioniere Oberdan (in realtà Oberdank) Gigli era
nato a Gallarate nel 1883, ma si era formato a Genova, dove la famiglia
Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere mite e
la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano più il tipo
dell’intellettuale che dell’uomo d'azione, non gli avevano impedito di
farsi strada con sicurezza negli ambienti anarchici del capoluogo ligure,
con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo. La prefettura
genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: Individualista,
professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca
influenza sui correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma
anche in provincia [sell instancabile nella propaganda delle teorie da
lui con calore professate, esplicando tale propaganda con buon profitto,
specialmente fra la classe operaia». ACS, CPC, Busta [Gigli]. 15
I problemi dello spirito affermava sono tramontati per ora: forza e della
razza e della nazionalità ritornano a predominare coi ferocia. I valori
sociali hanno subito un'inversione. L’internazion spezzato [...]. Chi
doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi'° i problemi
della n raccapricciante alismo operaio è Agli anarchici -
concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro comune anima umana», non
escludendo l’opportunità di combattere gli invasori austriaci
(quantunque, come suggeriva, in libere schiere non governative»), il
giorno in cui questi avessero minacciato l’integrità territoriale italiana!”
i Ai primi di settembre Volontà» pubblicò una nuova lettera di Gi li
Il concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il
crohn della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero
ancora ai rt le questioni della libertà e dell’indipendenza
nazionali. son L’anarchismo sosteneva l’autore non rinnega, ma supera il concetto di
patria: rinnega però il patriottismo, che è concezione perfettamente
borghese e sibi la rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali. Ma
l’anarchismo curdo me, è una filiazione della filosofia e delle
istituzioni borghesi: perciò esso Fon presupporre una società borghese
dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia ela tradizione sono
quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi
essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter liberamente
clara verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle
nazionali la risolvere libert: fr: I bi è Ilo dell pi Il lità, da
risol A Tar n 1 Un eventuale Vittoriosa invasione delle
armi austro-tedesche non solo cn lasciato drammaticamente irrisolta
la questione nazionale, ma, sotto . TEC . . Z il profilo
delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altresì determinato un Volontà», un Pot in riferimento all'articolo di Mario
Gioda dell’8 agosto, era inserita insieme que ‘a di Mussolini nel citato
articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!! dr parole di Gigli
la redazione di Volontà» (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi
esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi
Fabbri) fece seguire una de i aperto disappunto. A noi pare vi si leggeva
che la situazione di quelli che,
come io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento patriottico sia
la medesima di quegli E rici che, tempo addietro, andarono volontari a
combattere per le patrie dei greci, dei cubani, dei boeri, degli
albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso
esula dal compito specifico degli anarchici divi ‘on questo incoerente
se si arriv: i anarchici, e può ‘entare c P qi Incoe; si ‘a
regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema feudale e
militaristico» sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che
ciò avvenisse aveva di per sé un valore rivoluzionario; significava
combattere per la causa anarchica e, allo stesso tempo, salvare
l’anarchismo dall’isolamento, riportarlo a contatto con le masse,
ravvivato alla fiamma dell’umanità dolorante»!?. La condanna fatta
seguire dalla redazione di Volontà» alle parole di Gigli hiuse
definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava il giornale
di Ancona. Nondimeno, le “defezioni” di Gioda ed Oberdan Gigli,
considerati fra i migliori giovani ingegni dell’anarchismo italiano”,
segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento libertario.
Rygier, intanto, già paladina dell’antimilitarismo e, in assoluto, una
delle personalità più stimate del campo rivoluzionario”, aveva firmato un
sorprendente ‘articolo per Il Libertario» di La Spezia”, nel quale,
richiamandosi alle tradizioni garibaldine del Risorgimento», aveva
plaudito alla fine della Triplice Alleanza, il patto infame» già
vincolante l’Italia agli Imperi Centrali, auspicando la guerra
liberatrice contro gli Asburgo, i carnefici di Oberdan»? Rygier era
da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era stata
sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi
legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese
(con cui sembra fosse in rapporti già dall’anno precedente), legami
comunemente ritenuti la ragione principale della sua invero repentina
conversione |a stessa Giacomelli, nell’articolo del 22 agosto, li
aveva definiti i nostri migliori uomini»; mentre Errico Malatesta, nella
suà prima affermazione ufficiale contro la guerra (l’articolo Anarchists
have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre della
rivista londinese Freedom», poi ripreso dai principali giornali libertari
italiani), si rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero
dei compagni che amiamo: € rispettiamo profondamente». Rygier, nata
a Firenze, aveva militato nelle fila del sindacalismo rivoluzionario. Nel
1907, con Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista Rompete
le file!». La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con
la campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale
agitatrice) le era valsa il carcere e numerosi processi, contribuendo ad
accrescerne la fama negli ambienti sovversivi. Nel 1909 era passata al
movimento anarchico. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, // movimento operaio
italiano. Dizionario biografico, Vol. IV, Roma, Editori Riuniti,
ad nomen. Per una breve storia de Il Libertario» v. BIANCO, COSTANTINI,
Per la storia dell'anarchismo. Il Libertario» dalla fondazione
alla prima guerra mondiale, in Movimento Operaio e Socialista in
Liguria», RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, Il
Libertario», all’interventismo. Nei mesi che intercorrono tra la
settimana rossa e il suo ritorno in Italia nelle vesti di propagandista
dell’intervento ha scritto a
questo proposito uno storico dell’anarchismo Maria Rygier trova la sua strada proprio
con l’aiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente di
Francia, che l’accoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovrà
assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell’
Avanti!”»?, A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati
al fenomeno dell’anarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti
la svolta della Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha
scritto né più né meno di tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato»”?.
In quest’ottica, anche in considerazione del ruolo che molti anarchici
interventisti ebbero nel fascismo, non è difficile capire il perché, a
posteriori, si sia finito semplicemente per negare loro il diritto di
cittadinanza nella storia dell’anarchismo italiano. Senza dubbio, al di
là delle durissime e CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo
ventennio del secolo, Pistoia, RL, 1968, p. 34. È Quello dei finanziamenti,
più o meno occulti, della massoneria al movimento interventista, fu uno
dei motivi dominanti della polemica che precedette l’entrata in guerra
dell’Italia (e basti pensare alla nota questione dei fondi de Il Popolo
d’Italia»). Nel caso di Maria Rygier, quel che è certo è che ella era da
tempo in stretto contatto con gli ambienti dell’emigrazione italiana in
Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di Marsiglia, città
dove la questione dei rapporti tra le frange interventiste di estrema
sinistra e le logge massoniche era sentita in modo particolare. A
Marsiglia, infatti, su iniziativa dell’anarchico Raffaele Nerucci, si
costituì un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano, accusato
dagli avversari, fin dal suo apparire, di loschi connubi con la
massoneria. Un anonimo articolista dell’Avarti!», commentando la
pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un numero unico a
sostegno dell’intervento (La nostra guerra», 21 marzo 1915), rimproverò a
Nerucci e agli altri interventisti rivoluzionari marsigliesi d’essersi
serviti del denaro dei massoni, nonché del sostegno del Ministero degli
Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia, Avanti!). Personaggio
ambiguo e contraddittorio, Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in
provincia di Firenze (oggi Pisa). A Marsiglia, dov’era emigrato
nell’aprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a lungo
esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che l’ambasciata
italiana aveva definito audace e pronto», ma anche della sua
spregiudicatezza (pare, del resto, che egli fosse in qualche modo legato
alla malavita locale). Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de La
Protesta Umana», de Il Libertario» e de L'Avvenire Anarchico». Nel
dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento marsigliese, da
cui fu tuttavia espulso nel 1927 per indegnità morale e politica». Condusse
il resto della sua vita sotto l’attenta sorveglianza delle autorità
fasciste. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci Raffaello]. MASINI, Gli
anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in Rivista
Storica del Socialismo», comprensibili polemiche del momento”, che hanno spesso
sisi anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni successive, la scelta
i campo c Maria Rygier, per quello che il suo nome evocava nell
immaginario simbolico dell’estrema sinistra italiana, rappresentò un
trauma n pe riassorbito, cui può essere paragonato (ma solo in minima
parte) quello a fece seguito alla professione di fede interventista di un
altro protagonis delle battaglie antimilitariste d’inizio secolo: Antonio
Moroni ; Lbatnn Circa le ragioni ideali, se non devono essere
sottovalutati, ne i inire il mutato atteggiamento della Rygier che prima di aderire all anaro ismo e
stata sindacalista rivoluzionaria, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga
46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti
rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben più rilevanti, come
emerge dalla febbrile attività propagandistica della stessa Nico vr
precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia,
appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non è certo un eri pe Pan veste
della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n lei
medesima finisse vieppiù per accostarsi al dpi . ni repubblicano, fino 2a
n la confluenza di tutte le [ *interventismo rivoluzionario ne È i
manifestazione ufficiale dell’interventismo della Rygier Li lettera di
adesione alle tesi di Ambris, che ella pn 20 agosto, all’indomani della
discussa conferenza milanese del dirige i i i i i in Volontà» del
19 2° Basti, al riguardo, ciò che della Rygier preti slo sini
settembre 1914: Io trovo in te solo un merito: que î i i al tuo
dnerottiio d’occasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per
morbosità di i i; inti i spirito». NOILIA . sentimenti; per
intima debolezza di spiri G i RG 27 Il caso del giovane militare di leva
Antonio Moroni, nie su vela di pria i i impatie anarchiche,
eri San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma i imilitari
È inistra (battaglia che egli stesso avi battaglia antimilitarista
dell’estrema sinis ‘negre i ie di l carcere, regolarmente
pubblicat limentare con una lunga serie di lettere dal ere, )
d ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa
DRSAATE campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no
A vs ci de i del sovversivismo; il che pu era stato accolto
come un vero e proprio eroe de ) E i i vecchi compagni allorchè egli, al
Ì » della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E i i ì
tari garibaldini (a ti dove finì per arruolarsi fra i voloni I
prese la via della Francia, i i $ I IN Arti i *arti i l'i L’Avvenire
Anarchico», 8 g 6 lempio v. l’articolo Moroni l'ingrato, i Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO
ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. III, ad Oltre i Iniziati i ì
ropria penna a 28 Oltre che all’organo nazionale del PRI, L Iniziativa»,
la Rygier 9 la pi sa pci molti altri giornali repubblicani, tra cui
principalmente La Libertà» (Ravenna), Repubblicano» (Roma) e Il
Lucifero» (Ancona). sindacalista Ma la Rygier fu anche i ratrice del
Manifesto yg spirat le ‘anife degli anarchici Interventisti ;
redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3 gli di ‘anifesto ne
quale egli VI ‘orma di programma, le manif riprende a, ordinandole in fi
d prog! 8 Si 5) = 1 gia espresse nelle su ue lettere a Vo lontà»
ppello, steso 1 tesi già espresse nell ed Vol ); L’a Il t 120 sette
re e diffuso alla fine de (ese, critto da alcuni noti e meno ne del mese,
era sottosi ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1 noti esponenti dell
anarchismo italiano Insieme a sindac. I 1 ns d t tal ; sinda
alisti, socialisti dissidenti e repubblicani, e non fu un caso ch Ve
pressi In e vedesse la luce essoché contemporanea a un manifesto
Intransigentemente neutralista diramato dalla e: s Quasi ad anticipare la
nascita (; C lavi Direzione del PSI d I anche in chiave anti nu
ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista’’. el
testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia
libertaria, SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti
apertamente democratici e mazziniani (noi riteniamo che |
Internazionalismo sarà possibile solo q o nazioni saranno libere, P' iché
là dove odio divide l’Irredento uando le na: i, po là di l’odio divid I
‘eden dall’o, ressore, ogni altro problema economico e politico no! può
trovare ppi p! P' liti n ti SO uzione»), romantiche visioni camicie
rosse (la ri Li I, è per mi isioni di camici (l I neutralità. 088
P' utti solamente un a ‘0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni lett
‘gO. ional p legazione tutti solamente ui bbie iazionale; essa è la
recisa neg dello inter nazionalismo mater iato di solidarietà e sacrificio,
che ci ha spinto sui campi della Francia, della Grecia, del Messico,
della Serbia») e roboanti ! p proclam di stampo roto-mussoliniano (I
Inerzia è vigliaccheria e la neutralità, che ancora disconosce la
volontà po olare, è trad mento. E? l’ora ) pop:, ti 1 I 29 ì n E,
n kia pon fn L’Internazionale», Edizione Nazionale [d’ora innanzi
Ed.Naz.], 12 4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R
soglia t i i YG ia di Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica,
1915. pp. 19-24 drain questo scopo ella si era segretamente in ’ n Gigli
più di cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli più di una volta. Cfr.
ACS, pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25 e firme
apposte al manifesto erano i: e igli i 1 ap al m quelle di: Oberdan
Gigli, Maria Rygi i pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani,
ta elit Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei,
Len } I ‘asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini
eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle
63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici
caiser, Inizi », 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i sui
intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA appello della
Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato
dall’Avanti!» del 22 settembre 1914 i rivolazionario, ite pp,
250251, colato FELICE, Miasolini:1 L'invito finale, rivolto a tutti
i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la “loro” Francia, la Francia della
libertà e della rivoluzione»**. Gigli, in verità, avrebbe voluto inserire
nel testo almeno un accenno alle terre italiane Irredente, ma ne fu
dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il momento per
un’esplicita dichiarazione in senso nazionale”. In calce al
manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di
Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Gioda, di Gigli, di
Rygier e di altri che ne sarebbero
seguiti destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca
si schierasse per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto,
anzi, come una logica cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in
passato, specie in relazione alla guerra di Libia. Un giudizio di Berneri
del 1924 (mentre volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente
fascista) racchiude in poche parole il comune sentire degli anarchici
italiani e si può dire riassuma buona parte della successiva riflessione
storiografica sul personaggio. Massimo Rocca scriveva Berneri non è mai stato anarchico. Fu
individualista; il che non è la stessa cosa». Comunque si voglia vedere,
è però indiscutibile che fu nel clima culturale e politico
dell’anarchismo V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v.
RYGIER, Sulle soglie di un'epoca, cit., pp. 27-29. Il
manifesto, intitolato “Per la Francia e per la libertà”, fu pubblicato a
stralci su Il Resto del Carlino» del 21 settembre 1914 (Un manifesto di
anarchici e di rivoluzionari a favore della guerra), su Il Corriere della
Sera» del 23 e su L’Iniziativa» del 26. Eloquente il commento del
quotidiano liberale bolognese: Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani
si levano in piedi a respingere la neutralità e a richiamare il soccorso
di tutti gli uomini di libertà, per dar mano alla Francia, per
schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio
della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella
dell’individuo e della nazione: la nostra!» Per le
ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli /
sovversivi guerrafondai, Avanti!», 23 settembre 1914 (cui fece seguito
una risposta di Gigli a Mussolini, pubblicata dall’organo nazionale
socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei falliti, Volontà», 3
ottobre 1914. Sull’intera vicenda v. altresì FEDELI. Note su! 19141915. Gli
anarchici e la guerra, in Volontà», 1950, n. 10, pp. 622-628. 35
Cfr. RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26 36 CAMILLO
BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, La Rivoluzione Liberale», 18
marzo 1924. Il profilo tracciato da Berneri non nasceva
unicamente da una valutazione di carattere personale, ma sinseriva in una
lunga consuetudine di pensiero. A proposito della campagna interventista
intrapresa da Rocca, Volontà» del 5 settembre 1914 lo definiva un
anarchico che... non è mai stato dei nostri»; e Luigi Molinari, uno dei
padri dell’anarchismo italiano, in suo intervento su L’ Avvenire
Anarchico» del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto a dirsi
anarchico, almeno nel senso scientifico della parola». Su Massimo Rocca si
veda anche la voce corrispondente in ANDREUCCI, DETTI, gra n. che si
formarono uomini come Massimo Rocca e che questi Icolare si pone come una
delle fi iù i x i igure più controverse e a tutt’oggi cin definite
della storia politica italiana del Novecento. seal so n° ‘è fon il 26 ni
1884 da una famiglia di modeste condizioni, operaio tipografo come il compagno
Mario Gi i i ; io Gioda, Rocca accostato all’anarchismo agli inizi
del ‘ ù ole ‘ lel ‘900, nel momento in cui, insi prime suggestioni
nietzschiane e all’inqui IRR € Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si
TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt mosciuto con lo
pseudonimo di M i il fil ueglicicoa i ‘ax Stirner), il filosofo de
n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a
iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per un’intensa nferenziere,
collaborando nel frattem i gi i ttività d ere, collal po a numerosi
giornali o anarcoindividualista, fra i quali Il Grido della Folla»
di ip ; Pi 1906 al 1911, con l’amico Alfredo Consalvi”, aveva dato
vita PR lata rino del Novatore», rivista improntata a un marcato
alismo intellettualistico; esperienza che gli d | istici e gli era valsa
lunghe ed acri polemiche con gli ambienti dell’anarchismo ufficiale’,
Agli eccessi è Pics E ; a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le
sue proprietà, apparve nel P i Torino, a cura del tipografo modenese
Ettore Z. i, già i gruppi anarchici degli Stati Uniti e l°o, i i ua
FR pera di Max Stirner, una i i i del Geni met 1a d ner, prima introduzione
al pensiero Ì $ ; pali divulgatori delle teorie individualiste i i
libertario italiano furono - con i i an eri Nella Giacomelli - Ettore
Molinari, Giuseppe Monanni e Leda Sulle fortune ‘e le diverse correnti
dell’indivi i ell’individualismo anarchico nel nostri DA A ’
pu Pena piace alla settimana rossa. Per una storia dell Di. Italia
(1881-, Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i ici vet csi; HRR
degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg rido della Folla» fu il primo giornale ‘a hico
italia i Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i HR ino acri
ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad i ovanni
Gavilli, cessò le pubblicazioni cinque anni più tardi i i 7 Vai toi PIER.
. ardi. T CAS ira din videro la luce in quegli anni, i più Sposi
frico » (Firenze, 5), La Protesta Umana» (Mil: 3 1 i ire
1907-1908), Sciarpa Nera» (Milano, 1910 veli Gil INIT A |, -) e La
Rivolta» (Milano, 1910 ueste pubblicazioni ebbero fra i | iù assidui i si
i 9 i loro più assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi i
loda. V a ale a i. nel ve Anarchico individualista, stretto
collaboratore oca, 1 protagonisti dell’anarcointerventismo. Nel do)
ì convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virtù ' fottla chi
paria ; i ; rtù della stretta amici Rossoni, fu radiato dall’elen i
ivi Mir gira gs co dei sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441
[Consalvi 40 : . 13 Ra SS anni (poi semplicemente Novatore») uscì
in tre serie successive: la Lr n Pose A psi ottobre 1906; la seconda dopo che Rocca e Consalvi ‘alia per gli
Stati Uniti a New York, dal 15 ottobri
i i a i 7 i } e 1910 al 4 de Wperzia di nuovo in Italia (prima a
Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al Nel 1907 il giornale anarchico romano La
Gioventù Libertaria» accusò MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR
polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano d’altra parte
il carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della
sua formazione di autodidatta. Lo scoppio della guerra libica lo
aveva visto a fianco di Arturo Labriola e degli altri sindacalisti
rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si sentiva affine per
vocazione ideale), su posizioni decisamente “tripoline”’'. Con la sua
propaganda a favore dell’avventura coloniale, il solco che già lo
Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nell’estate
del 1914, tuttavia, grazie anche all’interessamento di Mario Gioda, aveva
tentato di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche
speranza, di poter prender parte al progettato - e presto abortito -
congresso di Firenze®. Con ostinazione, cui non era stata estranea una
buona dose di autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari,
Rocca aveva continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a
considerarsi anarchico. Rocca e Consalvi d’essersi
appropriati dei fondi raccolti in Italia e all’estero per finanziare la
rivista. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, ad indicem.
dl Sul “Tibicismo” di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista
rivoluzionaria. In pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice
Partenopea. Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del
sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il 1911 suoi scritti erano
comparsi su Pagine Libere» di Paolo Orano e Angelo Oliviero Olivetti e su
La Lupa», la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena d’incontro
fra sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra l’altro, scrisse la
prefazione al volume di Rocca La tragedia di Barcellona, pubblicato nel
1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che Rocca ne aveva seguito
con grande interesse l’avventura politica, come anche testimoniato
dall’articolo. // neo nazionalismo, scritto per il Novatore» di New York nel
dicembre del 1910, all’apertura del congresso nazionalista di Firenze che
decretò la trasformazione del movimento in Associazione. E’ notevole aveva scritto Rocca in quell’occasione che nell'Italia democratica del
presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini
abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il
nazionalismo in Italia è un fenomeno nuovo, che sconvolge molte
teorie, ma che comincia ad imporsi e col quale bisognerà
confrontarsi. Bisognerà, se non altro, considerarlo come un’onda di
sincerità lia, e che non manca d’un lato che avvolge gli
ultimi residui virili deila borghesia d’Ital onorevole e
grandioso». #? Gioda (un intervento del quale figurava nel
programma congressuale) av “Gli anarchici di fronte agli altri
partiti sovversivi” eva accompagnato una nota di raccomandazione
alla lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso
fiorentino. In quella lettera - che Volontà» rifiutò di pubblicare Rocca aveva auspicato che il congresso potesse
servire di spiegazione fra compagni e di mezzo di pacificazione» e aveva
chiesto d’esservi ammesso come relatore sul tema “Guerra e militarismo”,
al riguardo assicurando che la sua tesi era meno eterodossa» di quanto
potesse sembrare € di essere in grado di spiegarsi fraternamente su
Tripoli». Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra
mondiale. Lettere di anarchici interventisti Nelli 7 f 4 7
ell’introduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere
come La programmatico del suo modo di interpretare l’anarchismo,
aveva ritto: i Dal momento ch’io persisto a dichiararmi ed a
sentirmi anarchico senza curarmi dell’altrui divieto o permesso [...],
credo e persisto a credere che l’anarchismo quale energia. critica di
pensiero e di temperamento individuale, e le affermazione ribelle di
valori etici nuovi, possa avere una vasta ed îm Bi funzione da compiere,
a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo ve ne sia
molto oggidì fuori degli anarchici
ufficiali nelle minoranze ch
formano la parte più viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i
A ; questa visione concettuale, estetizzante e fortemente
elitaria dell anarchismo, inteso più come uno stato d’animo che come un
corpo certo di dottrine e di programmi, Rocca restò in definitiva sempre
fedele, pur nel mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa
si sarebbe fiheli richiamato, negli anni della sua adesione al
fascismo, a motivare le posizioni assunte all’inti del ito! interno
del partito". E È n 5 È RSA ott ; “regni; contro l'anarchia.
Studio critico-documentario, Pistoia, Il Punto focale della riflessione
di Rocca era la contrapposizione fra la rigidità formale dell anarchia,
intesa come dottrina politico-filosofica, e l’energia liberatoria
dell’anarchism Se l’anarchia rappresentava il mito elevato a dogma, una
concezione trascendente [ n superiore e padrona anche di chi vi crede»;
l’anarchismo era invece più propriamente 104 disposizione dello spirito l’eterna
sete di progresso, di libertà, di novità», incarnantesi nell: rivolta, nel
senso più puro ed etico del termine», al punto che tutte le rivolte passate
è future, tutti gl’ideali nel loro senso dinamico» potevano considerarsi
sue mai istazioni AI libro di Rocca era premessa una breve lettera di
Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti ia individualista torinese
e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che Gol da È ci Sia
ammirazione per l’autore, definendolo uno degli scrittori politici più
Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi
articoli revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: Tu, Gioda, sei
tra i pochi che mi furono compagni di spirito anche prima che il fascismo
sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che volevano esser tali per
disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della
nazione, ma che affermavano ereticamente la realtà della patria fra le masse
sovversive di allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio
libro L'anarchismo contro l'anarchia [..] ein quelle cinquecento pagine,
ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ciò che è oggi il
fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cioè [...] il riconoscimento del
sentimento nazionale quale dato integratore dell’individuo e quale spinta
indispensabile al progres umano; l'immortalità dellò stato e del diritto,
pur attraverso le sue trasbordo fol organo necessario a consolidare e
conservare le conquiste operate dalla società su se ‘stess concretandone
la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le
Pisi veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini
dissolventi; il diritto alla libertà Non mancherà di stupire chi conosce
qual sia la concezione politica per la quale io milito scriveva Rocca all’esordio della sua campagna
interventista - sebbene sia coerentissimo con ciò che penso da dieci anni
e che da tre anni sostengo apertamente, nella previsione dell’attuale
catastrofe». Fulero della nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la
rivendicazione, ribadita fra il settembre e l’ottobre in numerosi altri
interventi”, della natura sostanzialmente anarchica della lotta contro il
militarismo e l’espansionismo desco in difesa dei popoli latini,
dal momento che Ia latinità aveva sempre rappresentato la libertà, il
progresso e la rivoluzione»*”. Alla maggioranza degli anarchici
rimproverava perciò di. aver tradito l’eredità e il messaggio ideale del
vero anarchismo, quello che combatteva Mazzini per completarlo, più che
per negarlo»'*, e di essersi messi al giogo dell’opportunismo
ministerialista e del complice “teutonismo” dei socialisti
ufficiali”. interiore per chi è capace di foggiarsi nel proprio spirito
una legge, e la legittimità della coazione su chi non si eleva a tanto»
ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce, TANCREDI, // dovere della
guerra, L’Iniziativa», 29 agosto 1914. Questo e altri scritti del periodo
sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o rimaneggiata) nel
volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia,
Milano, Il Rinascimento, Oltre agli
articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, L’Iniziativa», Gli eterni vinti, Il Resto del Carlino», 3
ottobre 1914, e Gli anarchici, i sindacalisti e la situazione
internazionale, Il Lavoro», TANCREDI, // dovere della guerra, cit.
4" Ip., Gli anarchici del kaiser, L’Iniziativa», L'organo del PRI pubblicò
la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La controversia che
ne seguì coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato da Rocca fra gli
anarchici favorevoli alla guerra contro gli Imperi Centrali (insieme ai
fiorentini Lato Latini e Giovanni Canapa), per via di due suoi interventi
apparsi su Il Libertario» del 27 agosto e del 10 settembre (Gli eroi
della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente
ammesso di trovare realistiche e più positiviste», rispetto alle astratte prese
di posizione dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda
e di Oberdan Gigli a proposito dell’eventualità della difesa in armi del
territorio nazionale, respinse però ogni addebito Interventista, dapprima
con un nuovo articolo su Il Libertario» del 24 settembre (La guerra no!),
poi con una lettera di poco successiva a Volontà». A parte il caso di Manni,
bisogna dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non
erano granché probanti. Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto
con lo pseudonimo Brunetto D’Ambra) era un nome noto dell’anarchismo
italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Il Prefetto di Firenze
- dove Latini, nativo della provincia di Arezzo, esercita il mestiere di
tipografo - aveva informato la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di
non averne fino ad allora segnalato il caso, perché modestissimo gregario
della setta anarchica». ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato]. 4° Per
un giudizio di Rocca sulla politica del Partito Socialista si veda la sua
prefazione al volume di LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno,L’ardente
propaganda di Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del resto
gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del
movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribuì a
esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le
intemperanze, da una parte e dall’altra. La sera del 4 ottobre Rocca e
Maria Rygier s’incontrarono alla Società Operaia di Bologna per una
conferenza sulla “Morale della guerra”, ma la decisione non si rivelò molto
felice, vuoi per la sede prescelta il pubblico essendo costituito per lo più da
operai anarchici e socialisti vuoi
per il momento poco propizio”, e l’annunciata discussione si concluse in
un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di sedie, nel quale i due
oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra cui il giovane
romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio”. Si
era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand in Italia allo scopo di sensibilizzare
l’opinione pubblica alla causa del proprio paese in occasione del quale gli organizzatori
avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che i
repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici più colti e intelligenti erano per
la guerra all'Austria». Il Fascio Libertario bolognese e il gruppo del
foglio antimilitarista Rompete le file!» avevano reagito con sdegno alla
pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli anarchici tra i
fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata
dall’Avanti!» il 3 ottobre). ®! Cfr. La conferenza di un anarchico
sospesa con una sedia in testa, Il Secolo», 5 ottobre 1914, e Violenze e
tumulti di socialisti ad un comizio di anarchici, Il Corriere della Sera»,
6 ottobre 1914. Sul periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0,
meglio, sui legami tra l’azione politica di Arpinati durante il fascismo
e le sue radici anarcoindividualiste, v. WHITAKER, Arpinati anarcoindividualista,
fascista, fascista pentito, in Italia Contemporanea». Per il resto, le poche
notizie sulla formazione politica di Leandro Arpinati sono mediate dal
vecchio volume di NANNI, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese
(Bologna, Edizioni Autarchia7), un’opera agiografica, scritta nel pieno
delle fortune politiche dell’Arpinati fascista, alla quale occorre guardare con
molta cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la
pubblicazione (sembra per volontà dello stesso Arpinati) e mai più
ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di Arpinati, da
SUSMEL (Arpinati, in La Domenica del Corriere», 1967, n. 36 pp. 16-20) a
IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato a
Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, Arpinati si era trasferito a
Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero d’albergo, poi come operaio
alla fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre
Sante era stato uno dei maggiori esponenti della sezione socialista di
Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato all’anarchismo intorno
al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e
divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a
questo periodo anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini,
all’epoca direttore de La Lotta di Classe», chiamato a inaugurare il
nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa.
Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero
inscenato una dura contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini
(ma non v'è traccia di quest’episodio nelle pagine dell’organo socialista
forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra PPANTPP 777
VIP PRRPPIA Le seggiolate rimediate alla Società Operaia bolognese non
Fine Rei effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar
campo, né gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n
proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione”. % si g D i
dopo l’episodio di Bologna e un momento
prima di lasciare sn ia o ; Francia alla volta delle truppe garibaldine -
Rocca, che era da an > rapporti con Mussolini e l’Avanti!», ottenne
anzi il suo per più yritido e importante, firmando i celebri e
controversi articoli su ua
Carlino» che forzarono il futuro “duce” del fascismo ad accelerare i
temp: del suo strappo interventista"‘. citati Arpinati e
Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt î E) ri . .
A icizi è ipazione di Arpinati alla vita politica amicizia. Quel
che è certo è che la partecipazi T a Fi i ico itali i ionale
collaborazione con un giorn: ino, anarchico italiano, fatta eccezione per
un'occasi x DE dpr arti i i Socialismo e anarchismo (L’ Alleanz ;
che aveva fruttato l’articolo in due parti 4 % nt gent i he rilevante, e
che solo l’intervei), era stata tutt'altro cl ] ) i re ) A ità di i
notare. Secondo la figlia, autrice anc! futuro gerarca l’opportunità di
farsi noi rice | na iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i
iscutibile biografia, l’anarchico romagno i ima 4 a Fira dopo quello
famoso della Società Operaia, in papea RE incidenti, al punto da assumere
un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda all'oscuro la madre delle
sue disavventure» (Oo Cari erinen ‘eigen i r ittari ttera a firma È
io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O ( Civitella che
si proclama al fianco» di Mussolini per la A i verso sa rr, i i Italia»
del 25 novembre . Impiegato, comparve in effetti su Il Popolo d Ita i È |
pi aopinti fu riformato dal servizio militare perché figlio maggiore di
madre vedova, rese parte alla guerra. i iris fi ida A I} GIà i 6
ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i
gii artecipò ad una conferenza, indetta dall’ Unione Repubblicana
bolognese Ure SR ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice
Alleanza. Cfr. L’Inizi: n ail il i izioni Librarie Italiane, 1954),
Rocca S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni
Librarie » anni cbr scrisse di aver conosciuto Mussolini nell’estate del
191 pra a pa dr n del fi i À i lini direttore dell’Avanti!», Rocc: i
ì del futuro “duce”. Divenuto Musso! ‘ V HAN gie zi ialista
(firmandosi con gli pseudonimi a collaborazione con l’organo social 1 i
i juidi il l’articolo 4/ rimorchio dei ciechi., ve Guidi),
conclusasi 1°8 agosto 1914 con colo i c Sligo soin isagli i P in Dieci
anni di nazionalismo di ui 2g ( avvisaglia ricordava l’autore in n eta A is la
censura di Mussolini, allora fe; t d'interventismo», non aveva passato la
cei h IR M Si i articoli // direttore dell’Avanti!» smascherato. 9
i Si tratta degli articoli / » ‘ato. U xa aperta a Benito
Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed del
socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, Il Resto del Carlino», 7
e sd Ai abissi è. nÎ,, o 9 ‘sì questa vicenda v. FELICE, Mussolini
il rivoluzionario, cit, p. 255 ss., € Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura, I casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto
quello del famoso pubblicista Roberto D’Angiò) 5 sono sicuramente i più
noti ed emblematici, ma l’irrompere del conflitto europeo, lungi dal
trovare gli anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni
incanto guerresco, suscitò anche nel movimento libertario non pochi dubbi
e ripensamenti, che, se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di
sostegno all’intervento, fermandosi a volte al limite dell’ “eresia”, o
non andando oltre un generico - e del resto largamente condiviso -
sentimento di simpatia per la causa dell’Intesa, testimoniavano di
un’incertezza diffusa e sotto molti aspetti inevitabile, considerata
l’asprezza della prova, capace di segnare in modo indelebile la coscienza
di molti. Così, via via che gli eventi bellici maturavano e si modificava
la situazione politica interna, numerosi altri anarchici (alcuni dei
quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro giovane
romagnolo, Edmondo Mazzucato?” -, si sarebbero fatti le ossa Angiò, nato
a Foggia, era stato redattore de Il Libertario». La sua attività si era
dispiegata per la maggior parte all’estero: in Egitto, dove aveva soggiornato
per quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a
due giornali da lui fondati e diretti (L’Operaio» e Lux»), a rinsaldare
la già fertile comunità anarchica italo-egiziana; e a Montevideo, in
Uruguay, dove era giunto nell’aprile del 1906 e dove aveva dato vita al
foglio La Giustizia». A differenza di Rocca e degli altri esponenti di
punta dell’anarcointerventismo, D’Angiò non ebbe un ruolo determinante
nella propaganda per l’intervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a
favore della guerra contro gli Imperi Centrali destarono egualmente
sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo -Angiò avrebbe rivendicato con
pervicacia la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di
raccogliere i superstiti dell’anarcointerventismo intorno ad un progetto
politico autonomo. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D°Angiò Roberto]. Sulla
figura e l’opera di Roberto D’Angiò v. altresì BETTINI, op. cit., ad
indicem. Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile
a quello di Leandro Arpinati. Nato a Forlì nel 1887, il repubblicano
Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano appena diciottenne, in cerca
di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato dapprima lavoro
nell’ufficio pubblicitario del giornale socialista Il Tempo», poi, come
tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava
l’anarchico Il Grido della Folla». Risalivano dunque a quel periodo i
primi contatti di Mazzucato con l’anarchismo, testimoniati dalla sua
collaborazione ai fogli libertari milanesi, La Protesta Umana» e L’Operaio».
Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto
per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della “domenica di
sangue” in Russia. Tre anni più tardi, militare di leva, era stato
condannato a un anno di reclusione per aver percosso un superiore e
internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del 1910
aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il
quale - come sembra - conobbe il conterraneo Mussolini. Nove anni dopo,
scrivendo per l’organo dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia,
Mazzucato avrebbe rievocato quell’episodio con queste parole: Lo
ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel
1910, quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferzò tutto un
sistema di obbrobrio, di patteggiamenti osceni, di volute rinunce della
parte cosiddetta intellettuale del Partito Socialista. Fu una
rivelazione» MAZZUCATO, Governo di pigmei, L’ Ardito», proprio nella lotta
interventista) si lasciarono attrarre dal fascino e dalle ragioni della
guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini, diversi per indole e per
esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato opposti
destini), ma uniti allora nella comune battaglia interventista, nella
quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli,
di Grottaferrata?”, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari
del manifesto del 20 settembre. Lo stuccatore Edoardo
Malusardi, che all’epoca dei fatti aveva appena venticinque anni (era
nato il 30 agosto 1889), era poco conosciuto negli ambienti anarchici
nazionali. La sua esperienza di maggior rilievo era stata la
collaborazione con il foglio bolognese L’Agitatore», per il quale aveva
curato una rubrica di corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli
pseudonimi ‘Turbolente e Odroade, e rivelando, già allora, una naturale
propensione per la polemica giornalistica”. Attivo nella propaganda
spicciola, specie in ambito sindacale, e noto alle autorità di Pubblica
Sicurezza per l’irruenza dei comportamenti, il contributo di Malusardi
alla vita politica del movimento libertario era stato comunque limitato
(sembra anzi che molti compagni lo tenessero in conto di buono a nulla) e
la sua sola uscita pubblica di una certa importanza risaliva ad un
comizio “pro scioperanti di Piombino e Isola D'Elba”, il 7 settembre del
1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva avuto il compito
d’introdurre l’oratore principale, che nell’occasione era stato Massimo
Rocca”. ; i Benché influenzato dalle teorie dei sindacalisti
rivoluzionari, l’anarchismo di Malusardi appariva intensamente venato
d’individualismo. L’anarchia -). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato seguì
dunque Mussolini nell'avventura interventista e si arruolò volontario,
combattendo negli arditi. Nel opoguerra wi rese protagonista nelle file
del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta
[Mazzucato], e MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO
EEgIeTE 1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di
Mazzucato A si n; “i rappresentazione significativa non solo ne av
politico dell’autore, ma anche del cl >) a il primo movimento
fascista). È È Matino iaia db nel 1882. Approdato all’anarchismo dopo
travagliate esperienze personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni
e otto mesi di carcere per aver a la matrigna), fu uno dei grandi
protagonisti dell’anarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi
Paolinelli Attilio]. 7 liaison che Ho vita, con qualche
interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta stato uno dei più
importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto
di alcuni tra i nomi più rappresentativi dell’anarchismo, da Luigi Fabbri
a Domenico Li da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al
settimanale bolognese, Malusari i aveva occasionalmente collaborato a Il
Grido della Folla», a L’Avvenire Anarchico» e alla sindacalista L'Internazionale»,
sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana. Cfr, ACS, CPC, Busta 2964
[Malusardi Edoardo]. aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di
Lodi ai tempi della sua collaborazione a L’Agitatore» - è un sublime
Ideale di redenzione proletaria», avente per seguaci tutti gli spiriti
ribelli delle innumerevoli nazioni» e per compito quello di combattere
ogni tirannia”. Noi però aveva concluso Malusardi non ci illudiamo, lo sappiamo che la
realizzazione di quest’Ideale è molto lontana, ed ecco perciò che, basandoci
sulla realtà, benché siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti
gli atti di violenza diretti contro l’autorità, le alte personalità e
l’ordine costituito, poiché fintantoché voi adoprerete la violenza per
sopprimerci, e fintantoché vi cardio diseguaglianze, esisteranno sempre
individui risoluti, i quali, facendo getto della propria vita,
emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe”!
La realtà opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice
e pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle,
l'individuo eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella
simbologia e nella fraseologia dell’individualismo anarchico e già
contenevano, in potenza, il germe dell’anarcointerventismo. Nel caso
specifico di Edoardo Malusardi, si può affermare che ne avrebbero
accompagnato, segnandolo profondamente. l’intero percorso politico.
i Nella propaganda per l’intervento Malusardi manifestò un’ancor
più spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza
organizzativa rendendosi sin dall’inizio protagonista di un vivace
dibattito, nientemeno che con Luigi Molinari®?. La contesa sollevata dal
giovane anarchico lombardo. che investiva proprio la consistenza e la
misura dell’adesione anarchica alle tesi interventiste, finì per
coinvolgere il direttore de Il Libertario», Pasquale Binazzi. Malusardi,
infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi sul giornale
spezzino (uno dei più diffusi e autorevoli dell’anarchismo italiano) come
segno dell’orientamento tutt’altro che univoco degli anarchici in merito
alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare che il condannare e
disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori austro- TURBOLENTE,
Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale Il Cittadino»
di sal L’Agitatore», La prima sortita interventista di Malusardi apparve
su L’Iniziativa» del 12 settembre 1914 (i articolo Anarchici per la
guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dell’organo nazionale
repubblicano, Malusardi si scagliò contro Luigi Molinari, il quale, sull’ Avanti!»
del 25 settembre, aveva definito bugiarda ed interessata» l’opinione,
diffusa soprattutto negli ambienti borghesi e democratici, che gli
anarchici italiani fossero per lo più favorevoli all intervento. La
polemica fra i due si trascinò per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto
Malusardi tre anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco
Ferrer avvenuta a Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964
[Malusardi]. tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi»? era cosa
assai diversa dal far attiva propaganda per l’intervento, con ciò
riaffermando l’indirizzo indiscutibilmente anarchico del suo
giornale. In verità, la condotta de Il Libertario», improntata,
rispetto a quella di Volontà» e de L'Avvenire Anarchico», a una maggiore
elasticità, costituiva di per sé la spia di un non trascurabile disagio.
Non si può negare, infatti, che il foglio di Binazzi che, come si è visto, aveva pubblicato
il primo articolo “revisionista” di Maria Rygier concedesse ampio spazio ad enunciati e
proposte che, agli occhi dell’ortodossia anarchica, dovevano apparire
quanto meno discutibili. Negli scritti di Tanini, di Baldassarre e del
socialista-anarchico Francia (collaboratori di lunga data del giornale e
figure non marginali dell’anarchismo italiano) ci, scritti ispirati ad un
radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto violento per
1’ Austria e la Germania, non si esitava a parlare di nuove orde di
Attila» che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civiltà
occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal pangermanesimo
delirante, negatore violento delle razze e del genio latini»; di
Francesco Giuseppe e Guglielmo II come di due semi umani [...]
avvinazzati, due bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio
militare»; e si evocava il tragico lievito rosso» della guerra, da cui
sarebbe dovuta scaturire, sulle rovine delle antiche tirannie, la
palingenesi rivoluzionaria”. Il fatto che, col passare del tempo,
queste posizioni si andassero mitigando*° è che Binazzi (come anche ebbe
modo di chiarire nel dibattito a distanza con BINAZZI, Non equivochiamo, Il
Libertario» Tanini, in particolare, in virtù della sua costante attività
politica e propagandistica € nonostante la giovane età (era del 1889),
godeva di molta considerazione. Costretto a riparare In Svizzera per
sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato
una rubrica per Il Libertario»), era rientrato in Italia alla vigilia
della settimana rossa. Cfr. ACS, CPC, Busta 5023 [Tanini
Alighiero]. © le citazioni sono tratte, nell’ordine, da: TANINI, La
guerra dei titani, Il Libertario», 20 agosto 1914, e La triplice alleanza
è morta per il bene del mondo,BALDASSARRE, /mperialismo barbaro, Ivi; FRANCIA, l.'apocalisse storica,
Ivi. ® Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini
e Marino Baldassarre chiarirono che la loro manifesta simpatia per la
Francia e per il Belgio non celava assolutamente il desiderio di vedere
l’Italia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in più di
una eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini s’ingegnò anche a
mostrare la via per una soluzione pacifica della questione nazionale:
fare di Trieste una città libera e del Trentino una provincia
indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro
pensiero pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, Il
Libertario; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi
dell'agonia). Malusardi) fosse personalmente del tutto contrario al
coinvolgimento degli anarchici nel nascente movimento interventista
rivoluzionario, non toglie che il suo giornale, si consideri o no un
segno di discutibile larghezza», rappresentò, almeno sino alla fine del
1914, una tribuna affatto secondaria di confronto, anche estremo, sui
temi della guerra. Fondamenti ideologici e riferimenti politici
dell’interventismo anarchico Patrimonio di tutti (o di quasi
tutti) gli anarchici interventisti era - come si è già più volte
accennato - l’eredità dell’individualismo. Poiché l’individualismo fu
fenomeno complesso e variegato, è indispensabile cercare di definire i
contorni di questa comune matrice dell’interventismo anarchico e, più in
generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti. A tale
proposito, considerata la sua influenza, è il caso di soffermarsi ancora
una volta sul pensiero di Massimo Rocca, per il quale, nonostante
l’iniziale infatuazione per Stirner, l’individualismo non s’identificava
- e non si era mai del tutto identificato - con lo stirnerismo, quanto
meno nella sua accezione più diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla
volgarizzazione di Stirner e alle sue conseguenti degenerazioni
“metafisiche” (di cui egli imputava la responsabilità a giornali come Il
Grido della Folla» e che non riteneva meno dannose per l’anarchismo
dell’utopia comunista kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione
storica e “sentimentale” dello stirnerismo, che sostanzialmente non
avrebbe mai abbandonato e che costituirà il substrato culturale dei suoi
futuri approdi politici. AI contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato
Francia (che era nato nel 1869 a Minervino Murge, in provincia di Bari, e
vantava una lunga militanza nelle file dell’estrema sinistra pugliese)
non tornò affatto sui propri passi. Smessa la collaborazione con Il
Libertario», si schierò senza esitazioni per l’intervento e si arruolò
volontario nei reparti garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel
dopoguerra aderì al movimento fascista e prese parte, in rappresentanza
dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale
fascista (cfr. Il Popolo d’Italia», 11 ottobre 1919). Rimasto fedele all’idea
socialista- anarchica, si distaccò dal fascismo non appena questo ebbe
assunto una marcata coloritura di destra. Pur senza mai assumere un
atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in virtù di un
carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva
all’isolamento) Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta
sorveglianza dell’autorità di Pubblica Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155
[Francia]. CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del
secolo, cit., p.37. Sull’atteggiamento de Il Libertario» riguardo alla
guerra europea v. anche COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima
guerra mondiale, in Movimento operaio e socialista in Liguria», Egli aveva scritto di Stirner ai tempi del NOVATORE»
non predica il delitto pel
delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perché nella
Germania profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua
“potenza”, il suo “sacrilegio”, il suo egoismo hanno un’intenzione, un
significato, una portata non Individuale, ma sociale [...]. L’individuo
di Stirner non è dunque lo scialbo calcolatore egoistico del giorno per
giorno o dei quattro soldi per truffare. E’ l’uomo che si erge di fronte
al sole e al mondo, pieno di tutta l’umanità che il passato gli ha
trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditarietà, comune a tutti i suoi
simili, dalla gigantesca statura della sua personalità
individuale” Rocca sottolineava pertanto la grandezza “passionale” della
filosofia di Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e
rivoluzionaria nell’esaltazione del sentimento e dell’istinto. Ammettere
questo significava riconoscere, accanto all’individuo, ogni entità
collettiva, dalla famiglia, alla classe, alla nazione, cementate e
fondate da una comunanza sentimentale»; significava, in una parola, negare
l’astratto a favore del reale». Muovendo da queste premesse, Rocca era
approdato a quello che definiva “liberismo rivoluzionario” o
“novatorismo”, che era poi l’individualismo anarchico ampliato e
confrontato con la realtà». Noi sono ancora sue parole affermiamo altamente l’importanza
dell’individuo singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma
comprendiamo pure le folle che rovesciano impetuose un ostacolo al
progresso dietro la spinta di una minoranza rivoluzionaria; comprendiamo
la classe che si materia soggettivamente dell’avversità sorda verso la
classe opprimente; comprendiamo la nazione che si forma per lunga eredità
storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo Interno
che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le
rivolte; comprendiamo tutte le volontà di affermazione e di dominio e le
esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera d’entusiasmo che le innalza
al di sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti
che tiranneggiano in nome di un principio confessato e francamente
servito sono infinitamente più nobili e rivoluzionariamente più fecondi
dei Giolitti che inaugurano l’accordo delle classi corrompendole nella
generale mangiatoia” TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo
democratico, Novatore», New York,
Ivi Ivi, "Ivi, A proposito
dell’individualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo
auto-apologetico, Una difesa postuma (agli ex amici della Vir»), in Quand-meme»
(un numero unico pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su
interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel quale Rocca difendeva
la propria interpretazione dello stirnerismo dall’accusa di morbosità»
Solo tenendo presente questo punto di vista è possibile comprendere
i presupposti teorici dell’interventismo di segno
anarchico-novatoriano (quanto meno nei suoi artefici più consapevoli,
come Gigli) e le ragioni profonde della successiva adesione al fascismo
di molti dei suoi protagonisti. Quantunque il “novatorismo”
fosse il tratto saliente dell’interventismo anarchico, pure quest’ultimo
non può non esser considerato nell’ambito di quella vera e propria
esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu l’interventismo
rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni risorgimentali e
dell’utopia garibaldina fece da ponte tra le forze dell’estrema sinistra
sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano”, i miti dell’azione
e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo, rimandavano a
un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti quanto ai
discepoli di Massimo Rocca”, Lo stesso individualismo, per la sua carica
eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici
propugnatori della guerra e le correnti più radicali della cultura italiana
del tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte
non trascurabile nella campagna interventista”. mossagli dalla
rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per l
individualismo, Vir»). Fondamentali, per una testimonianza diretta
a questo riguardo (prescindendo dagli inevitabili accenti
propagandistici e agiografici), le pagine dell’allora segretario del PRI
Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra
d'Italia, Roma, Edizioni de L’Iniziativa», 1916. ?° Circa i legami
fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel e, in
senso più ampio, l’ideologia e la prassi politica sindacalista v. FURIOZZI, Socialismo, anarchismo e
sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra
anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla
nascita e all’attività dell’USI, v. anche l’introduzione di Maurizio
Antonioli a LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti scelti, Pisa, BFS,
1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici
italiani, Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss. A partire dal
numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina Lacerba», fondata l’anno
precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico,
dando un appoggio incondizionato alla propaganda per l’intervento. Nel
quadro di un indirizzo sostanzialmente nazionalista, le pagine di Lacerba»
non disdegnarono di accogliere posizioni di segno rivoluzionario. Valga
per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre, Per la
guerra, nel quale l’artista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e
tesseva l’elogio di Hervé. Sui rapporti tra anarchici e
futuristi v. soprattutto CIAMPI, Futuristi e anarchici. Quali rapporti?
Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni, Pistoia,
Archivio famiglia Berneri, Le differenti impostazioni ideologiche, cui però
sottostava una molteplicità di riferimenti culturali comuni,
s’intrecciavano dunque nella complessa trama dell’interventismo
rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani andarono a costituire
uno degli elementi formanti. “Guerra e Germinal” (ovvero guerra e
rivoluzione sociale, guerra come mezzo per l’abbattimento violento del
militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi), la meta
additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in un’intervista a Il
Resto del Carlino», divenne il tema dominante della campagna
interventista dei partiti estremi”; e il “mito” della guerra
rivoluzionaria - come lo ha chiamato Renzo De Felice - s'impadronì anche
dell’interventismo anarchico. Massimo Rocca firmò il famoso “appello ai
lavoratori italiani”, lanciato a Milano, per la costituzione di un Fascio
rivoluzionario d’azione internazionalista, punto d’inizio di un movimento
che, di lì a pochi mesi, avrebbe messo radici in tutta l’Italia
centro-settentrionale”?. Da quel L'intervista a Dinale (Ottavio Dinale
dice guerra e germinal») si trova in Il Resto del Carlino. La
biografia politica di Dinale offre un esempio emblematico del clima
culturale nel quale prese forma e maturò la corrente interventista
rivoluzionaria. Inizialmente ‘socialista, organizzatore e agitatore
sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i promotori
del sindacalismo rivoluzionario in Italia e fondatore del primo giornale
ufficialmente sindacalista, il settimanale La Lotta proletaria». Quattro anni
più tardi aveva Iniziato la pubblicazione prima a Nizza, poi a Milano del
periodico La Demolizione, caratterizzato da un’impostazione marcatamente
antilegalitaria e da frequenti richiami sia all'individualismo
stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo
collaboratore del mussoliniano Il Popolo d’Italia», nel dopoguerra sostenitore
dell’impresa fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921,
Dinale si avvicinò infine al fascismo, diventando amico intimo (e poi
persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu nominato Prefetto del Regno.
Cfr. ANDREUCCI, DETTI, op. cit., Vol. II, ad nomen, € CIAMPI, op. cit.,
ad indicem. "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario
(sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca, da Decio Bacchi, Michele
Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Attilio
Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi,
Silvio Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da La Folla» del
4 ottobre 1914, quindi, sei giorni dopo, dal primo numero della nuova
serie di Pagine Libere» (la rivista quindicinale di Olivetti, che si
stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta
sulla guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo
Rocca e di Maria Rygier. Sulla nascita, la diffusione e il
significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il
classico VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1,
L'Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di quest’ultimo autore v.
altresì il breve saggio L 'interventismo rivoluzionario, in Il trauma
dell'intervento, Firenze Vallecchi, Infine, per una riflessione sui primi
giorni dell’interventismo rivoluzionario v. SERENI: alle origini
dell’interventismo rivoluzionario, in Ricerche Storiche», 1981, nn.
2-3, pp. 525-574. momento gli anarchici interventisti furono parte
integrante dei Fasci, collaborando attivamente ad essi e intensificando i
rapporti con le testate dell’interventismo rivoluzionario. Nondimeno,
essi avrebbero sempre conservato una loro specificità. Alla fine di
ottobre Attilio Paolinelli, con Rocca, la Rygier, Antonio Agresti” e
Torquato Malagola””, pubblicò La Sfida», “giornale di polemica
anarchica”, un numero unico che, se testimoniava dell’organicità del
manipolo anarcointerventista in grembo al neonato movimento dei Fasci,
voleva anche dar prova di una peculiarità ideologica rivendicata con
fierezza e destinata, più tardi, a trovare eco nelle pagine de La Guerra
Sociale»”*. Poco dopo la nascita de Il Popolo d’Italia», Paolinelli (che
peraltro auspicava per il nuovo giornale di Mussolini il ruolo di
portavoce ufficiale dell’interventismo rivoluzionario) scrisse al
direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo,
addirittura un precursore Il fiorentino Agresti (1864-1926), incisore,
anarchico vicino al sindacalismo rivoluzionario, collaboratore de La
Lupa» di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi contributi di parte
anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perché sono
interventista. Risposta all’opuscolo “La guerra europea e gli anarchici”, Roma,
L’Agave, 1917 (l’opuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri,
pubblicato a Torino per la Tipografica Editrice). Nel corso della
campagna interventista, come altri suoi compagni, a cominciare dalla
Rygier, Agresti finì per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a
questo proposito, una sua lettera pubblicata da La Libertà», organo del
PRI ravennate). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si
ritirò sostanzialmente dalla vita politica. Da molti anni- annotava nel
marzo del 1925 la Prefettura di Roma, proponendone la radiazione dal
registro dei sovversivi si è allontanato
dai compagni di fede e non professa più principi anarchici. E’ un
valoroso pubblicista, redattore de “La Tribuna”, uomo d'ordine». ACS,
CPC, Busta 31 [Agresti Antonio]. 7 Il sarto Torquato Malagola, di
S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come Agresti,
anch’egli nel dopoguerra si allontanò dall’impegno politico, rompendo i ponti
con l’anarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato]. 7 La
Sfida» si apriva con una dichiarazione programmatica a .firma gli anarchici indipendenti
d’Italia» - e si componeva di cinque articoli (PAOLINELLI, Comunismo e
individualismo. Ideologie metafisiche e realtà anarchiche;
TANCREDI, Dell’anarchismo; AGRESTI, Oggi e domani; RYGIER, Per la civiltà
contro la barbarie; MALAGOLA, Alle armi!), più alcuni estratti da Lectres
à un francais sur la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla
guerra franco-prussiana (dal quale trasparivano le simpatie del vecchio
cospiratore per la patria dell’ “Ottantanove”), comunemente citato dagli
anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste.
Per le reazioni in campo anarchico ufficiale all’iniziativa di Paolinelli v.
Accettando La Sfida». Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero
Tancredi, L’ Avvenire Anarchico», 12 novembre 1914, e BERTONI, Agli
“sfidatori”, Volontà», 28 novembre 1914. ?° Caro Mussolini scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi
ti presento a traverso un foglio La Sfida», del quale ti mando alcune
copie [...]. Il nostro numero unico di Roma, come vedi, precorre il tuo
bel quotidiano» (Il Popolo d’Italia», 19 novembre 1914). Inesorabilmente,
più gli schieramenti si andavano definendo e più l’accanimento col quale
il gruppo degli anarchici interventisti reclamava il diritto alla
qualifica anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La sera del
primo novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe luogo un
comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de La Sfida» ed altri
anarchici dissidenti. A proposito di questi ultimi commentava quasi divertito un quotidiano
liberale occorre notare che essi sono
invasati dall’idea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta
meraviglia e stupore»®°. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali
non si fecero attendere”, mentre già da tempo, nel fluire ininterrotto
delle questioni di principio e delle polemiche verbali, il movimento
libertario si trovava di fronte alla spinosa e assai più concreta
questione dei volontari. Anarchici o garibaldini?
] Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del
Risorgimento la nobiltà dell’ispirazione e alla loro opera disinteressata
il merito di aver educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito
di sacrificio, non nutriva però gran simpatia per il garibaldinismo.
Nella definizione del celebre capo anarchico, che pure da giovane, come
quasi tutti i protagonisti del primo internazionalismo italiano, aveva
pagato il suo tributo di affetti al mazzinianesimo, lo spirito
garibaldino era la “malattia infantile” dell’estrema sinistra italiana,
retaggio di un’epoca ‘lontana, sentimento generoso ma sterile, tanto più
pernicioso in quanto distoglieva i partiti popolari da quello che avrebbe
dovuto essere il loro solo scopo, la rivoluzione sociale”.
Certo è che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero
democratico risorgimentale continuò ad esercitare un forte ascendente
anche sui più 0° Un comizio al Testaccio in favore
della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati, Il Giornale
d’Italia», 2 novembre 1914. Alla fine di novembre si costituì anche
a Roma un Fascio rivoluzionario d’azione Internazionalista, che ebbe
proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei più attivi
propugnatori (cfr. L’Internazionale», Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i
' Al riguardo v. Soprattutto TONIETTI, Alienazione mentale o
mistificazione, L'Avvenire Anarchico», 5 novembre 1914, e la lettera di
protesta del gruppo libertario romano “Martiri di Chicago”, pubblicata
dall’ Avanti!» del 7 novembre. "? Per l'opinione di Malatesta
su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne veda la
prefazione a NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il
Risveglio, accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano
formati, così il garibaldinismo costituì, almeno sino al giro di boa
impresso dalla prima guerra mondiale, l’anima avventurosa, romantica e un
po’ ingenua, del sovversivismo italiano. Se ciò non sorprende affatto per
i repubblicani, i quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta
alle questioni di politica sociale, non avevano mai abbandonato le
idealità mazziniane, non deve del pari sorprendere per quel che riguarda
il Partito Socialista, quanto meno in alcune sue correnti, quelle più
vicine al socialismo delle origini. Allo stesso modo, sebbene gli
anarchici indulgessero assai meno alle suggestioni della camicia rossa,
anche in seno al movimento libertario sopravviveva, qua e là, un residuo
di mentalità risorgimentale, in cui - com’è stato scritto - libertà dei
singoli e libertà dei popoli si intrecciavano e si confondevano e in cui
la pianta dell’internazionalismo affondava le sue radici in un terreno
impregnato più del volontarismo mazziniano che del determinismo del
socialismo scientifico». L’esempio più noto e certamente più
suggestivo di questo modo di concepire l’anarchismo è senz'altro quello
di Cipriani; ma egli era, in fin dei conti, un uomo d’altri tempi, di
quell’epoca di mezzo che aveva visto germogliare l’idea internazionalista
dal tronco del mazzinianesimo, sotto il pungolo della predicazione di
Bakunin®'. Quel medesimo clima ideale che aveva generato uomini come il
romagnolo PCeccarelli, compagno di Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda
del ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale.
Lettere di anarchici interventisti Su L’Internazionale» del 5
dicembre 1914, per la rubrica “Lettere dalla Francia in guerra” -
inaugurata il 21 novembre comparve
un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare Cipriani. In essa, che
ebbe larga risonanza in tutto il campo dell’interventismo rivoluzionario
(fu ripresa anche da Il Popolo d’Italia»), Cipriani ribadiva le ragioni del
proprio filo- intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il
sindacalista anarchico Boldrini tracciò un acuto profilo del vecchio
rivoluzionario. Cipriani scrisse
Boldrini è l’uomo che sintetizza
l’avvenire, ma con sistemi e con emotività passate. Non siamo feticisti:
Amilcare Cipriani è dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti
i grandi uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo d’oggi, come
il suo anarchismo del processo di Roma, è infarcito di repubblicanesimo e
la sua rivoluzione sociale è la rivoluzione dell’indipendenza italiana,
che, con l’idealità umana di Mazzini, fu prima del °70 come oggi, per gli
uomini d’azione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libertà
di tutti i popoli oppressi, al di fuori d’ogni preconcetto, sotto però
qualunque forma di stato» (BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De
Ambris a Cipriani, L’ Avvenire Anarchico» ibdiaibbici. Matese (di
cui era stato l’ideologo militare), un anarchico che aveva vestito la
camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione®. Ma
qui è più che altro importante ricordare come giovani volontari anarchici,
senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non avevano
esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e all’anarchico
Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna, sarebbe stato
persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio com’era
nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) ‘, e poi di
nuovo, nnon ancora spentasi l’eco per le agitazioni antimilitariste
contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi!” Sulla
scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva
pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si è visto, Sulla
figura di Ceccarelli v. ANDREUCCI, DETTI, 0p. cit., Vol. II, ad nomen. In
merito alla sua importanza quale teorico militare dell’anarchismo
v. PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori
Riuniti, 1973, ad indicem. “© Cfr. L’ Alleanza Libertaria»,
27 luglio 1911. Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo
Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi libertari romani, riuniti
in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni onoranze
funebri. Il funerale dell’anarchico garibaldino era stato motivo di gravi
incidenti fra gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a
favore della guerra libica. Il racconto che di quell’episodio aveva dato L’Agitatore»
di Bologna è sintòmatico del favore e del rispetto con i quali, anche in
taluni ambienti dell’estrema sinistra libertaria, si guardava al
garibaldinismo. Cosa non può aspettarsi aveva scritto l’anonimo articolista
de L'Agitatore» - il buon pubblico italiano in questo quarto d’ora di
solenne e malefica sbornia di fesso patriottardume poliziesco? Tutto.
Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque pretesto [...] per
inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia
studentesca del nazionalismo da vedova allegra pretende d’impossessarsi
dei resti mortali d’un nostro eroico compagno, Filippo Troia, caduto
gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni della leggendaria
camicia rossa, per l’indipendenza del popolo ellenico oppresso dalla
dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non à permesso una
profanazione e violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti
del cittadino romano, cittadino del mondo, appartenevano al popolo,
perché egli aveva combattuto, si era volontariamente sacrificato, per la
libertà e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista,
un propugnatore dell’idea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di
popoli oppressi, e cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto
del suo meglio per donare la tanto desiata libertà a quel popolo
torturato dalla barbarie turca. Quel giovane è nato in Italia, a Roma.
l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...]
pretendono di servirsi del ricordo terreno di chi per la libertà morìa,
per dimostrare alla Turchia, da loro oggi combattuta, che anche uno di
quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo combatté contro
di loro» (SPARTACO, // caso Troja, L’Agitatore»). N Le insegne
rosso-nere dell’anarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la
guerra d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario
l’anarchico napoletano Oreste Ferrara. Cfr. TAMBURINI, L'indipendenza di
Cuba nella coscienza dell'estrema sinistra italiana, in Spagna
Contemporanea», PROPONI PORNIA dell’anarchismo individualista) dell’azione
anarchica anzitutto come ribellione istintiva: una concezione assai poco
dogmatica ed anzi intrisa di spontaneismo, che ben si sposava, per questa
via, con l’epica del garibaldinismo. Pochi giorni dopo
l’inizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi confusi progetti
di una spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le infuocate
polemiche dell’autunno, sette giovani italiani, raccolto l’appello di
Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla
volta della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. Erano
repubblicani? Erano anarchici? commentò
un foglio repubblicano qualche tempo dopo Non importa sapere: erano italiani e seguivano
una tradizione che è gloria d’Italia: quella garibaldina»*”. Con loro,
tutti militanti del PRI, si trovava in effetti anche l’anarchico Cesare
Colizza, di Marino Laziale, un veterano della camicia rossa (aveva preso
parte come ufficiale alla seconda spedizione garibaldina in Grecia, nel
1912, combattendo a Drisko). Cinque dei sette volontari, fra i quali lo
stesso Cesare Colizza, erano caduti nello scontro di Babina Glava, presso
Visegrad, il 20 agosto 1914”. Era anarchico scrisse di Colizza l’organo romano del PRI il suo ideale muoveva verso l’
universalità, ma la sua anima ribelle sentiva la protesta contro ogni
ingiustizia»”'. Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci, che lo
aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo
ideale che merita di esser ricordato perché rivelatore del modo
d’intendere l’anarchismo cui si è più volte accennato. Il suo dio ricordava Spallicci era Max Stirner e
sulla sua opera, L'Unico e le sue proprietà, aveva fondato il suo credo.
Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul campo di
battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come contro
le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il
L'appello di Ricciotti Garibaldi [si veda], incitante la gioventù italiana a
prendere posizione di difesa e, in caso, di offesa», fu diffuso a mezzo
stampa dal giornalista ed ex garibaldino Ravasini. Lo si veda in Il Fascio
Repubblicano», 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v. MANNUCCI,
Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima guerra
mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini,
[s.d.]. MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue italiano, La Libertà», 12
settembre 1914. °° Gli altri membri della spedizione erano
Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti, Arturo Reali, Vincenzo
Bucca, Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la loro fu
un’iniziativa personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti
Garibaldi, infatti, dopo aver inizialmente accarezzato l’idea di una
spedizione di camicie rosse in Serbia (e dopo aver preso contatti, a
questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini), già il 9
agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da Il Fascio Repubblicano», con la
quale sconsigliava apertamente l’invio di volontari. °! Eroi
italiani caduti in Serbia, Il Fascio Repubblicano», 6 settembre
1914. turco che aggrediva la Grecia e, come nell’ultima sua trincea,
contro l’austriaco che aggrediva la Serbia»? La morte dei volontari
italiani aveva offerto il destro agli interventisti rivoluzionari per una
delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i garibaldini caduti
in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di Roma, in via
Capo d’Africa, su proposta della locale sezione del Partito
Repubblicano”. A quella celebrazione, che fu la prima manifestazione di
un certo rilievo dell’interventismo di sinistra (anticipante, non solo
sul piano simbolico e iconografico, ma anche su quello più strettamente
politico, le assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano preso parte
anche alcuni anarchici, fra i quali Rygier e Paolinelli”. E’ indice
ulteriore delle incertezze e delle ambiguità di quel momento il fatto che
la Rygier avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai
gruppi anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del
giorno nettamente contrario all’iniziativa repubblicana”, e che,
ciononostante, ella fosse convinta di poter avere con sé la maggior parte
del movimento. I miei compagni aveva detto anzi nel suo applauditissimo
discorso alla Casa del Popolo saranno ove occorra, ‘ al fianco di quanti
soffrono e gemono sotto le percosse di secolari violenze».
L’episodio aveva profondamente turbato l’ambiente anarchico della
capitale, suscitando in particolare la dura reazione di Ceccarelli,
personalità di spicco dell’anarchismo romano”, e la risposta non meno
infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a Il Giornale
d’Italia» aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi
trascorsi anarchici e antimilitaristi’”, Paolinelli aveva replicatà, in
questo modo: n MANNUCCI " Cfr. Azione Socialista», e Il
Fascio Repubblicano. I due soli superstiti della spedizione,Colizza e Reali,
erano rientrati in Italia da ochi giorni. Cfr. Il Corriere della Sera», 5
settembre 1914 e Il Lavoro», Il Giornale d’Italia» del 15 settembre e Il Fascio
Repubblicano» del 20, nel riportare la cronaca della
commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici
“Arganti”, “Salucci” e “Martiri di Chicago”. Cfr. Volontà»,
L’Iniziativa Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario “Martiri di
Chicago”, operante nel rione Esquilino, gruppo che alcuni giornali
avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione del 14
settembre " Polemiche fra anarchici, Il Giornale d’Italia», 17
settembre 1914. In quanto [...] alla scomunica lanciata dal Ceccarelli
pontificalmente contro l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte
alla realtà della guerra, si convinca il Ceccarelli che la essa scomunica
non ha valore maggiore di quelle che possono lanciare i papi veri.
L’anarchismo non è disciplinato, interpretato e letto da alcun dittatore,
né il Ceccarelli può arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli
anarchici, come se egli fosse l’unico depositario della verità e della
coerenza?” Se la spedizione in Serbia di un pugno di giovani
avventurosi aveva destato clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor più
ne sollevò quella in Francia, ben più consistente e organizzata. Essa fu
il definitivo canto del cigno della camicia rossa (che peraltro non venne
nemmeno utilizzata), ultimo bagliore di utopie ottocentesche prima che la
moderna guerra tecnologica e le mutate condizioni della lotta politica
facessero piazza pulita d’ogni residuo romanticismo. Già ai
primi d’agosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si
ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, diversi, fra anarchici,
sindacalisti, socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la
Francia, ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia
rossa, magari con organizzazioni proprie»', Dalla metà di settembre,
operanti in molte località del centro nord dei comitati di arruolamento
repubblicani, erano cominciate le prime partenze di volontari italiani
per la Francia. L'indirizzo all’impresa, tanto sul piano militare quanto
su quello politico vero e proprio, era dato dal Partito Repubblicano, il
quale, sopravvalutando l'appoggio inizialmente ricevuto dalle autorità
francesi, mirava ad organizzare una spedizione per la liberazione di
Trento e Trieste, nonché a strappare l’iniziativa dalle mani della diplomazia
sabauda, così accelerando la formazione di un vasto moto insurrezionale
all’interno del Paese e la caduta della monarchia'. All’intransigenza dei
dirigenti repubblicani (soprattutto di Eugenio Chiesa, il più risoluto
sostenitore della spedizione adriatica, mentre il segretario del partito
Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato più possibilista) '°°, avrebbe
fatto da contraltare la disinvolta malleabilità di Peppino Garibaldi, il
maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza perpiessità (legate
più che altro alle ambiguità ideologiche del personaggio), in molti
riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino VIGEZZI, A
questo riguardo v. ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit. 12 Per
quanto attiene al ruolo e alla centralità del PRI nelle vicende descritte v.
anche CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra,
in Atti del XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma,
Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, 1965, p. 86
ss. Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese
alla costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per
accettare il semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione
Straniera. Era dunque nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni,
con sede a Montélimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly
all’inizio di novembre), mentre una compagnia “Mazzini”, di netto
orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e
forte di trecento uomini, era stata sciolta già il 14 ottobre dietro una
precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI". La maggior
parte dei suoi membri aveva fatto ritorno in Italia; altri, come Massimo
Rocca (che aveva raggiunto la compagnia il giorno stesso del suo
scioglimento) 104. si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino
Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi combattimenti delle
Argonne nel dicembre-gennaio. Oltre a Rocca (che, a quanto risulta
dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro che più si adoperarono perché la
Legione fosse inviata al fronte) !%, facevano parte di quel corpo di
volontari altri anarchici, fra i quali sono certi il veneto Gino Coletti,
autore fra l’altro di una breve storia della spedizione", i
romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!°”, Pezzi Su tutti questi punti v.
VIGEZZI La fine della compagnia “Mazzini” non significò solamente il tramonto
del progetto politico repubblicano, ma fu, in un certo senso, la.
dimostrazione dell’impossibilità, per l'interventismo rivoluzionario, di
costituire un movimento davvero autonomo, in grado d’influire in modo
determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento
all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali
molti sovversivi erano partiti volontari, quelli di loro che avevano
scelto di rientrare in Italia avevano agito correttamente (cfr. GioDA, A
proposito del battaglione Mazzini, La Folla). 104 |a data del 14
ottobre è sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche
da Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto
della comunicazione ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia.
Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS MAZZINIANA DI Pisa (d’ora innanzi ADM), Fondo
Zuccarini, FI e 3/18. 08 La Legione Italiana lasciò il campo di
Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo temporeggiamento, dovuto ai
molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino Garibaldi e
quest’ultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto
un accordo con gli uomini a lui più vicini (fra i quali citava Libero
Tancredi) per partire al fonte da soli», qualora l’ordine di partenza non
fosse giunto per la fine dell’anno, V. ZUCCARINI, La missione a Parigi, i
Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo Zuccarini, FI e 1/3. + ì
10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna,
Stabilimento Poligrafico Emiliano, 1915. Sulla figura di Gino
Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario
dell’Associazione Nazionale fra gli Arditi d’Italia) ci permettiamo di
rimandare a LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso
di Gino Coletti in una lettera a Mussolini, in Nuova Storia
Contemporanea», e Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a
Parigi) » e un certo Perati, descritto proprio da Coletti come
anarchico romagnolo profugo della settimana rossa, che perde la vita nello
scontro delle Argonne. A tal episodio partecipò anche Rocca, che pare vi
rimanesse ferito. Di sicuro egli si trovava ricoverato in un ospedale
francese quando La Folla» pubblica un suo articolo presentandolo quale eminente
anarchico disilluso, andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un
ospedale Cfr. Il Resto del Carlino», 16 ottobre 1914 (recante una lettera
di Masetti dalla Francia, nella quale l’anarchico romagnolo si lamentava
del trattamento al quale i volontari italiani erano sottoposti dalle
autorità militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione
Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Masetti era nato
a Ravenna. Tra i rappresentanti più in vista dell’anarchismo ravennate
d’inizio secolo, collaboratore assiduo de L’Agitatore», amico di Fabbri,
di Zavattero e di Borghi, Masetti, già prima della guerra, aveva avuto
motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica. All’epoca
dell’aspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a
lungo insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri
lavoratori socialisti e lavoratori repubblicani (i “rossi” e i “gialli”,
secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur parteggiando per la
causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici
in quella lotta, temendo che ciò potesse significare la compromissione
dell’anarchismo con il riformismo socialista, che egli detestava. Il
dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato dalle simpatie di Masetti
per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre
Masetti a dichiarare di non aver più nulla in comune» con loro (L’Agitatore» 21
agosto 1910). In realtà, la separazione era stata di breve durata e
Masetti era rientrato a pieno titolo nel movimento. Direttamente
coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di omicidio,
Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero.
Terminata l’esperienza nella Legione Italiana, poté far ritorno a
Ravenna, dove fu tra i promotori del locale Fascio rivoluzionario
d’azione internazionalista (cfr. La Libertà», Ravenna). Richiamato alle
armi, cadde in battaglia. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti]. ‘°8
Cfr. Il Popolo d’Italia», 12 febbraio 1915. Panzavolta e Pezzi
militavano da anni nel movimento anarchico, all’interno del quale
godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza. Era
espatriato in Francia, da dove non avrebbe più fatto ritorno e dove, almeno
sino all’inizio del conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con
gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto costantemente sotto controllo
dalle autorità di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la guerra,
progressivamente abbandonato l’impegno politico dietro
sua esplicita istanza fu
cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose,
dimostrato buoni sentimenti patriottici». ACS, CPC, Busta [Panzavolta]. Domenico Pezzi, al
contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie
origini, segnalandosi anzi per l’impegno antifascista, sia pur modesto.
Dalle informazioni della polizia doveva risultare iscritto alla loggia
massonica “Italia” (nota come focolaio di opposizione al regime),
sostenitore della Concentrazione antifascista nonché regolarmente
abbonato a Giustizia e Libertà». Cfr. /bidem, Busta [Pezzi Domenico]. Cfr.
L’Internazionale», 27 gennaio 1915. !!° Cfr. L’Iniziativa»,
gravemente ferito». Intorno a questa vicenda si scatenarono in realtà
le ipotese e le illazioni più svariate. L’episodio aveva invero del
misterioso, se le stesse autorità - come sembra - non erano in grado di
far piena luce sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata
alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli
Interni, la Regia Ambasciata d’Italia a Parigi segnalava Rocca tra i
feriti nei combattimenti delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo,
che egli si trovava ricoverato perché ammalato di febbri»!!?. Il nuovo
caso legato al nome di Massimo Rocca trovò eco sulle pagine della stampa
anarchica italiana. Ancora a distanza di due mesi dall’episodio,
scrivendo sotto pseudonimo (Dyali) per la milanese La Libertà», la nota
scrittrice e propagandista libertaria Leda Rafanelli negò che Rocca fosse
stato ferito in battaglia e affermò trovarsi egli in ospedale vittima di
una angina pectoris, non avendo preso parte ad alcuno scontro ed essendosi
limitato a prestare servizio nella Croce Rossa. Libero Tancredi ironizza Dyali fino a oggi ha portato alla Francia un
aiuto un po” discutibile: ha occupato un letto che poteva servire a un
ferito di guerra; a un francese»!!?. A Leda Rafanelli, prima ancora del
diretto interessato, replicò Edoardo Malusardi sul foglio
anarcointerventista La Guerra Sociale», sostenendo che, se effettivamente
Rocca si trovava ricoverato per l’acuirsi di una malattia respiratoria che
da tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli scontri,
restando ferito a una mano. Fu lo stesso Rocca, in una lettera da Parigi,
a chiarire definitivamente la questione. Egli racconta - ammalato realmente di angina
pectoris, cui in Francia si era aggiunta una stupidissima bronchite, era
stato ricoverato per motivi di ll L'articolo, intitolato La
rejetta, un’accorata difesa di Maria Rygier, sortì come effetto di far
nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Ceccarelli serisse
fra l'altro: Costoro [gli individualisti] hanno arrecato danno al nostro movimento più
di quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe
insieme» (CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, La Folla», 31 gennaio
1915). !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. !!! La
Libertà», Milano. Il La Guerra Sociale. Il trafiletto di Malusardi
era firmato con uno pseudonimo (Emme). ] La polemica tra
Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima,
rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra.
Ad un intervento della Rafanelli sul giornale milanese Il Ribelle», nel
quale l’autrice aveva riconosciuto la figura morale» di Rocca, il babau
dei pontificanti dell’anarchismo», sostenendo però essersi egli, mercé il
suo acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del movimento
anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno e quindi a sé stesso e a tutti gli altri
anarchici interventisti il diritto a
dirsi anarchico (cfr. EipoARDO MALUSARDI, Per la verità, L’Iniziativa»).
MA A A Ai salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato
ferito sul campo, ma aveva nondimeno preso parte ai primi tre
combattimenti sulle Argonne ed era anzi stato proposto per il grado di
sergente'!. La lettera di Rocca precedette di poco il suo rientro in
Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9, Durante il soggiorno
nella clinica militare di Guyon, Rocca aveva inviato a Il Resto del
Carlino» una lunga corrispondenza. In essa, prendendo a pretesto la
propria esperienza come volontario garibaldino, era giunto, in mezzo a
reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore “libico” (per le quali il
garibaldinismo era l’espressione più genuina e più profonda del
rinascente imperialismo italiano» e quest’ultimo altro non era che l’esuberanza
delle forze vitali») !!”, ad evocare una sorta di sovversivismo nazionale
permanente e, per così dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il modello
proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta
combinazione tra libertà del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di
una nuova Italia. Il fenomeno garibaldino aveva scritto, in questo modo definendo le
coordinate del proprio “anarco-nazionalismo” è un egoismo intimo, perché
lungi d’imporsi collettivamente dalla nazione all’individuo, trova
l’origine e la spinta nell’individuo singolo che sente, da solo, tutta la
propria nazione!" E ancora: Io sogno ed io
scorgo una nuova Italia [...]; una più grande e consapevole Italia
garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dell’azione,
della disciplina e della libertà, raggiunga la sua massima espressione di
forza nella nazione interamente padrona de’suoi destini [...],
nell’individuo eternamente libero, pur nei limiti della compresa e
voluta, perché necessaria, disciplina Una rettifica di Tancredi, La Guerra
Sociale», Fatto rientro a Milano, dove
come si affrettava a comunicare la Prefettura era convenientemente vigilato», Rocca
riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30 marzo era alle
scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema “Classe e
nazione”. ACS, CPC, Busta [Rocca]. TANCREDI, L'imperialismo garibaldino,
Il Resto del Carlino. In questo stesso periodo la rinnovata collaborazione con
il quotidiano di Filippo Naldi fruttò a Rocca altri tre articoli,
dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra Rocca e Il'Resto
del Carlino» si nutriva evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima
della pubblicazione di detti articoli, l’autorevole quotidiano bolognese
aveva favorevolmente recensito l’ultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la
guerra balcanica: appunti storici per Sono parole, quest'ultime,
nelle quali si può ragionevolmente cogliere un’anticipazione delle future
battaglie revisioniste condotte dal Rocca in seno al fascismo.
Le vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in
patria, destando anche a sinistra un’ondata di commozione (non si deve
dimenticare che sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi,
nomi ancora in grado di risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale).
Così, un foglio anarchico di Senigallia che si definiva giornale
razionalista» indirizzava ai volontari italiani caduti nelle Argonne per
un Ideale di Libertà, il saluto di tutti i militi di un’Idea»'°°, mentre
il segretario della Camera del Lavoro di Carrara Alberto Meschi,
d’indiscusso credo neutralista, pur non approvando le idee guerraiole di
parecchi suoi amici e compagni», non si sentiva per questo di ritenerli
dei rinnegati e dei venduti», e si augurava comunque la sconfitta degli
Imperi Centrali, causa di tanti mali e di tanto danno»!?!. Persino Volontà»,
nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione alla guerra, non
poté evitare di esprimere simpatia e financo ammirazione sincera» per
quei sovversivi, pure anarchici, andati a morire sui campi di Francia'”°.
Sono esempi importanti, che attestano di un malessere vero, a riprova che
spesso, anche tra gli anarchici più intransigenti, le posizioni erano ben
più sfumate e problematiche di quanto già allora si volesse far
credere. La conquista di uno spazio politico Quando si esuli
dai casi più noti, la diffusione delle idee e degli argomenti
interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse
di fissarne le responsabilità (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i
caratteri di originalità e di onestà intellettuale (cfr. VALORI, Un
volume di Libero Tancredi sulle due guerre della vigilia, Il Resto del
Carlino). Il Resto del Carlino» occupò un posto di primo piano tanto
nella “direzione” della campagna per l’intervento, quanto nel dibattito
politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in
senso nazionale dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal
“caso” Mussolini). A tale riguardo (in merito, soprattutto, al ruolo di
Naldi) v. MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere politico ed economico a
Bologn, Milano, Guanda. Il Solco», 17 gennaio 1915. Il Solco» era
diretto da Ottorino Manni. !:! MESCHI, Contro la guerra, Il
Cavatore», Il Cavatore» era l’organo della USI carrarese. 12 Ancora
dei volontari e la guerra, Volontà» quella corrente politica, in genere
refrattaria a precise regole d’inquadramento e di organizzazione, è
difficilmente quantificabile. Un aiuto ci viene senz'altro dalle pagine
dei giornali"? e soprattutto dalla rubrica “Adesioni” de Il Popolo
d’Italia», che ci offre uno spaccato significativo delle divisioni in
atto nel campo libertario. In appena dieci giorni il nuovo organo
socialista mussoliniano, che aveva iniziato le pubblicazioni il 10
novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici anarchici!”,
svelando una realtà altrimenti destinata all’oblio e aprendo uno scorcio
su alcune realtà locali particolarmente interessanti!”’. A titolo di
esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio
Lotti, di Fucecchio, al centro di un’accesa polemica con il gruppo
libertario di Santa Croce sull’ Arno (cfr. Ad un emerito girella, L’
Avvenire Anarchico»), e Baronti, di Firenze. In una lettera a un foglio
liberale fiorentino, Baronti si dissociò peraltro dall’anarchismo,
dichiarandosi di idee nazionaliste» (Una lettera significante, L’ Alfiere»).
L’individualista Baronti, un violento con numerosi precedenti penali (e
senza alcuna influenza nel partito, secondo quanto scriveva di lui la Questura
fiorentina) si fa strada nel fascismo. S’iscrisse al Fascio di
combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla
fine della guerra, divenendo capo squadra della milizia. È addirittura
chiamato alla segreteria dei sindacati fascisti di Sinalunga e l’anno
successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica Sicurezza come un
puro fascista», venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC,
Busta [Baronti]. Nell’ordine:
Pietro Battaglino, anarchico liberista» milanese (19 novembre); Bernardo
Pieraccini, anarchico individualista» di Genova; Navacchio, operaio
anarchico individualista» di Pisa; Farè e Franceschelli anarchici
novatori» di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro
Clelotti, Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Monaci,
tutti piombinesi (25 novembre); Ferrari, anarchico non fossilizzato»
milanese; Facchini, del gruppo anarchico bresciano. Sfortunatamente, con
l’eccezione di Battaglino, la sommaria testimonianza de Il Popolo
d’Italia» è tutto ciò che ci è stato tramandato di questi uomini.
Battaglino, nato a Novara, di professione venditore ambulante, aveva
collaborato a La Protesta Umana». Operoso nel campo dell’organizzazione
sindacale aveva dato vita a una “lega di miglioramento fra venditori
ambulanti”, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e n’era stato
eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al
Fascio di combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel
1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 407 [Battaglino]. 125 E? il caso
di Piombino, città a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra
tra neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di
anarcointerventisti piombinesi citati da Il Popolo d’Italia» il più
conosciuto era senz’altro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del Piano in
provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico “L’Alba
dei liberi” e si era guadagnato una certa notorietà grazie all’intensa
partecipazione agli imponenti scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu
quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma venne allontanato
dal Fascio nel marzo del 1923 perché iscritto alla massoneria. Cfr. ACS,
CPC, Busta [Monaci]. Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle
controversie ad esso legate fossero niente affatto marginali (pur non
potendosi certo sostenere; come fece ad esempio l’organo del partito
Social Riformista con chiaro intento provocatore, che la maggior parte
degli anarchici italiani fosse per l’intervento) lo dimostrano anche il
rinfocolarsi delle polemiche e il fatto che i nomi più autorevoli
dell’anarchismo italiano sentissero la necessità d’intervenire
personalmente nel dibattito. In particolare, prima con una vibrante
lettera pubblicata su un numero unico dei sindacalisti parmensi!””, poi
con una serie di articoli su Volontà», Luigi Fabbri dovette ribadire le
motivazioni ideali e politiche dell’opposizione anarchica al conflitto in
corso, contestando una ad una le affermazioni degli anarcointerventisti,
ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata
puntigliosità'?8. Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra
fautori e detrattori dell’intervento, l’accanimento della lotta, non di
rado alimentata da amarezze e da rancori personali, contribuivano del
resto a tener alta la tensione!”?. E’ in questo 10 Egli [I Avanti!»]
scrisse
Azione Socialista»- ci accusa di malafede perché abbiamo contato
gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in campo
il deliberato dell’Unione Sindacale. La metà più uno! E” questa la norma
valutatrice di questi rivoluzionari dell’età della pietra! Noi invece,
con buona pace dell’organo milanese, crediamo di non commettere un falso
annoverando tra i nostri vicini in questo momento i sindacalisti e gli
anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che
rappresentano un pensiero e che a queste correnti d’idee danno importanza nella
vita nazionale». ; Ù 127 Si tratta di Contro la guerra!», edito a
Parma il 6 febbraio 1915 a cura di un gruppo di sindacalisti», in aperta
contrapposizione alla linea politica di De Ambris. 28 Si veda in
particolare l’articolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra (Volontà»).
Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con l’uscita de La
Guerra Sociale», furono bersaglio di molte e appassionate repliche da
parte della redazione del nuovo giornale anarcointerventista
(nell’ordine: RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, La Guerra
Sociale»; POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO Giona, Contro una
stupida speculazione; GIGLI, Anarchismo: concezione storica e concezione
razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita e nella teoria, Ibidem, 10
aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi; TANCREDI,
Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio
e c.,). ubi, Circa la posizione di Fabbri v. altresì ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Il diario di Fabbri, in Rivista
Storica dell’ Anarchismo», Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte
tendenze scaturì dalla diffusione di un manifesto anarchico contro la
guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: Che ben
vengano i tedeschi in Italia. O essi sono più civili di noi e che vengano a
portarci questa civiltà, o sono più barbari e che vengano a
civilizzarsi». Mario Gioda lo definì un documento clima e su questo sfondo
di passioni che dev’essere inquadrata la violenta aggressione subita da
Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese, una frazione di Finale
Emilia, nella provincia di Modena, dove l’anarchico genovese risiedeva
ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per avere tra l’altro a
lungo diretto la locale Camera del Lavoro!” Il fatto, condannato dalla
redazione di Volontà»!!, fu invece accolto con soddisfazione sia da Il
Libertario», che anzi deplorava il “buon cuore” del foglio
anconetano", sia da L'Avvenire Anarchico», che laconicamente
commentava: Di fronte a tanto strazio di vite non ci debbono essere
rispetti umani», Nel frattempo il processo di
organizzazione dell’interventismo rivoluzionario e della sua
frazione anarchica non aveva subito rallentamenti. Si era riunito a
Milano il primo convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari d’azione
internazionalista, al ipa avevano preso parte, applauditi protagonisti,
la Rygier e Paolinelli. L'impegno penoso», esortando gli anarchici più
consapevoli» - fra i quali annoverava lo stesso Luigi Fabbri, che infatti
non aveva esitato a manifestare le proprie perplessità al riguardo - a
non farsene complici con un ancor più penosissimo silenzio» (GIODA, Ben
vengano?, Il Popolo d’Italia». Per la cronaca degli avvenimenti v.
Oberdan Gigli ferito da’ neutralisti, Il Popolo d’Italia», e Argomenti
neutralisti, L’Internazionale». Il giornale di Mussolini pubblica una lettera
aperta» di Gigli al deputato socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio
elettorale si era verificata l’aggressione. In tale missiva, scritta
all’indomani dell’infelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori,
in maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. In questa folla
feroce scriveva non vi è più, se mai v’è stata, l’anima
socialista». In conseguenza di questi fatti la maggioranza socialista al
Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle
dimissioni (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza
intervenzionista, Il Resto del Carlino). Cfr. Volont Alla
riprovazione per la manifestazione d’intolleranza da parte degli irruenti
neutralisti finalesi, Volontà» aggiunse comunque un commento
significativo. Oberdan Gigli sostenne
l’organo anconetano che è persona di
cuore e ragionevole deve pure rendersi conto dei moventi più intimi del
fatto lamentato. Pensi egli all’impressione che deve fare nelle anime
primitive e nelle menti incolte questo fenomeno, di vedere proprio uno
che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei loro
interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima
libertà individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a
fare una propaganda che, se ascoltato, avrà per risultato l’abdicazione
d’ogni libertà individuale nelle mani dello stato, la guerra e la
chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai». 12
L’UoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, Il Libertario», CHELOTTI, Giuste
argomentazioni, L’ Avvenire Anarchico», A questo riguardo v. FELICE, Mussolini
il rivoluzionario, cit., pp. 305-306. Per il resoconto del
congresso si vedano principalmente Il Popolo d’Italia» e L’Internazionale» del 30 (ma anche
gli articoli di Azione Socialista» e de L’Idea degli anarchici nella
campagna a sostegno dell’intervento italiano trovò la definitiva
consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de La Guerra
Sociale». Il primo numero del nuovo settimanale anarchico interventista»
uscì il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a La Guerre
Sociale», il noto foglio antimilitarista di Gustave Hervé, mentre il
motto, rubato a Giuseppe Garibaldi (E’ inutile sperar alustizia se non
dall'anima di una carabina»), testimoniava una volta di più della
commistione, in seno all’interventismo anarchico, di elementi eterogenei,
tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e
risorgimentale. Il compito nostro recitava l’articolo di fondo della redazione è ben preciso: rivendicare cioè ad alta
voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico che i teologhi
dell’anarchismo, in nome di non sappiamo quale “sacro comandamento” ci
vogliono negare; prepararci ad incitare all’azione la parte migliore
degli anarchici d’Italia: quegli anarchici cioè che non sono infarciti di
femmineo sentimentalismo, ma che bensì son convinti che l’umanità non può
camminare verso la civiltà se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. “La
Guerra Sociale” dunque sarà anarchica, prettamente
anarchica" In prima pagina, Gigli riassumeva a titolo programmatico
i fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche
dell’anarcointer- ventismo. Nazionale», organo ufficiale
dell’Associazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi contemporaneamente
all’assise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, si era
riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa. Il Popolo
d’Italia» del 10 febbraio 1915 fornì la cronaca di una riunione degli
anarchici interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo
repubblicano Cattaneo di via Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di
quell’incontro era stata decisa la pubblicazione di un giornale di segno
anarcointerventista, che, oltre che propugnare le tesi dell’intervento
dal punto di vista anarchico», proponesse anche di iniziare una sana ed
audace discussione d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dall’ondata di
ridicolo in cui l'avevano trascinato i pontificanti dell’anarchismo
ufficiale». NES Rui Hervé era stato il simbolo stesso dell’antimilitarismo
e dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del La Guerre Sociale»,
aveva condotto una feroce battaglia contro le istituzioni militari. E”
singolare che gli anarcointerventisti italiani si richiamassero a quella
storica testata dell’estremismo antimilitarista (che aveva avuto un'inconcludente
edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Hervé, passato
alla causa dell’Intesa, l’abbandonava per dar vita a La Victoire», organo
del nuovo Movimento Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione
e la fortuna dell’herveismo nel nostro pnese v. GIACOMINI,
Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo Bartalini e La
Pace», Milano, Angeli, La Guerra Sociale», SI Vi sono guerre e
rivoluzioni liberatrici scriveva e accettiamo la guerra per evitare una
oppressione. Noi vediamo l’anima anarchica in ogni rivolta liberatrice.
Noi siamo gli eterni rèvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con
Mazzini per l’unità d’Italia e oggi, nell’India, saremmo coi nazionalisti nella
rivolta contro gli inglesi. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi
Centrali sarebbe un enorme male per la civiltà nostra. Sarebbero
prevalenti i focolai dell’autoritarismo cattolico più inflessibile,
dell’imperialismo più pazzesco, del militarismo più prepotente: sarebbe
rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel
riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali. Noi vogliamo al
contrario che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi
storiche della rivoluzione proletaria. Noi manteniamo integro e purissimo
il nostro ideale anarchico!» Più oltre, in una lettera indirizzata al
direttore Edoardo Malusardi, lettera che esprimeva il comune sentire di
tutti gli anarchici interventisti, Mario Poledrelli negava di sentirsi un
revisionista dell’anarchismo per il fatto d’essere favorevole alla
guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco della migliore
tradizione libertaria!”. La Guerra Sociale», che uscì con una
discreta diffusione‘, compendiava quindi, per la prima volta in forma
unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e
le passioni proprie dell’interventismo anarchico. Molto importante,
sotto questo profilo, la rubrica “Dagli amici”, dalla quale apparivano
nitidamente, nelle varie coloriture, gli umori della “base”. Così, fianco
a fianco all’anziano anarchico rivoluzionario» Alfeo Davoli, già
garibaldino, che da Milano esortava alla guerra rivoluzionaria che
abbattesse per sempre qualunque sia forma di governo»"‘', si
schieravano il maestro elementare GIGLI, Perché siamo
interventisti, POLEDRELLI, Revisione?, Ivi. Poledrelli si era
formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nell’aprile del 1912 si era
trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A
Milano aveva anche progettato la pubblicazione di un periodico, che
avrebbe dovuto intitolarsi L’ Adunata», ma era stato fatto rimpatriare a
Ferrara su ordine della Questura milanese, perché disoccupato.
Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC,
Busta 4053 [Poledrelli Mario]. 10 Nell’arco dei suoi due mesi
di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a Milano, e
beneficiò di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal
capoluogo lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale
di 251, 56 lire. Non erano grandi cifre tanto che il 10 aprile, in un trafiletto
indirizzato ai compagni», la redazione invitava apertamente i lettori ad
essere più generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni ma in linea
con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta
ovviamente eccezione per le tre grandi testate a diffusione nazionale La
Guerra Sociale», Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che
si dichiarava per l’intervento, a dispetto dello slombato
anarchismo menefreghista»!!, e l’anarchico individualista Costa, di
Verona, il quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virtù
dei propri convincimenti catastrofici»; mentre il genovese Ciotto
chiama a fondamento del proprio interventismo entrambe le eredità del
bakuninismo e del mazzinianesimo! Sulle pagine de La Guerra Sociale» si
avvicendarono dunque i principali portavoce della corrente
anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da Paolinelli a Malusardi, e
una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta però non meno
significativa. Non di tutti, purtroppo, ci è stato possibile ricostruire
la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono comunque
alcune caratteristiche ricorrenti: l’origine proletaria, la cultura
approssimativa, la fede individualista, il “ribellismo”, vissuto talvolta nelle
sue manifestazioni più eccessive (requisiti, questi, comuni del resto
alla maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma
anche il valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia.
Quanto all’adesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu
conseguenza, non automatica né tanto meno ineluttabile, di scelte
personali, diverse caso per caso. Ciò a conferma che la semplicistica
equazione anarcointerventisti prima-fascisti poi, non è motivo
sufficiente - e d’altronde nemmeno Davoli era nato a Reggio Emilia nel
1849. Morì nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630 Davoli Alfeo].
4° La Guerra Sociale», 20 febbraio 1915. Alceste Salvadori,
nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava
a Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie,
antimilitariste e radicalmente anticlericali (era membro di un’
“Associazione Razionalista”), e in virtù del suo ruolo di educatore, era
dalle autorità considerato estremamente pericoloso in linea politica».
Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di
sottotenente) Salvadori vestì la camicia nera del fascismo. Nell’aprile
del 1921 s’iscrisse infatti al Fascio di Castelfiorentino (del quale, per
breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno più tardi,
alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta
4543 {Salvadori Alceste]. 4 La Guerra Sociale», Cfr. /bidem,
10 marzo 1915. Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi
volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse persuaso che la divisa non
avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifestò la
speranza di tornare, un giorno, a fianco dei compagni in buona fede contro la
guerra» per combattere insieme le future battaglie» (// saluto di un
anarchico interventista, Il Popolo d'Italia», 5 luglio
1915). ragionevole. - per disconoscere l’appartenenza all’anarchismo
degli interventisti di estrazione libertaria!” Scrissero per La
Guerra Sociale»: Consalvi, Canapa (Ambra), Rivellini, Fraschini, M.Benedetti,
Effebo Scaramelli, Armando Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e
Raffaele De Rango. Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era
nato a Firenze. La sua partecipazione alla vita del movimento anarchico
era stata contrassegnata da numerose disavventure giudiziarie. La
Prefettura fiorentina lo aveva dipinto tra i più entusiasti seguaci delle
dottrine libertarie a Firenze, assiduo a tutte le riunioni e
manifestazioni proletari», ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli
anarchici, attesa la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura». In
realtà, Canapa aveva collaborato a numerosi fogli anarchici, specie
d’indirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto
D’Ambra. Nella campagna interventista l’anarchico fiorentino che fu membro del Fascio rivoluzionario
del capoluogo toscano dimostrò un
particolare accanimento, per lo più ricorrendo al consueto pseudonimo e
solo occasionalmente servendosi del suo vero nome (come nel caso del
lungo articolo polemico Anime di fango, L’Iniziativa). Canapa si arruolò
volontario (cfr. Il Popolo d’Italia») e cadde sul Carso. ACS, CPC, Busta
992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne celebrò la figura di eterodosso
dell’anarchismo, eretico impenitente, scomunicato del “Santo Sinodo”»
(ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, L’Iniziativa); mentre Massimo
Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe richiamato il nome
nell’introduzione al suo Dieci anni di nazionalismo. Rivellini era nato a
Milano, da famiglia poverissima. Carattere fra i più irrequieti e
impulsivi» - come scrive di lui la Prefettura milanese n -, Rivellini,
nonostante la giovanissima età, era assai noto negli ambienti libertari del
capoluogo lombardo e aveva subito già numerosi arresti per attività
sovversive. Allo scoppio della guerra fece da subito lega con gli
interventisti, ritenendo, com’ebbe a scrivere a Mussolini, di difendere
così i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo» (Il Popolo
d’Italia). Si arruolò volontario nel giugno 1915 (nel 68° reggimento fanteria,
lo stesso di Malusardi) e combatté valorosamente, guadagnandosi una
medaglia di bronzo e un encomio solenne. Si congedò con il grado di
tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte all’impresa di Fiume (e
come delegato fiumano presenziò al congresso nazionale fascista),
conclusasi la quale si ritirò sostanzialmente dalla lotta politica. Risulta
iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo]. Effebo
Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina,
provincia di Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e
propagandista anarchico Giovanni Gavilli, che spesso ebbe modo di
accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era non
vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a Il Grido della Folla».
Nel dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico
di Pontedera. Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava
come un soldato disciplinato, rispettoso e contento della vita militare».
Dismessa la divisa, lasciò l'impegno politico e muore. /bidem, Busta 4662
[Scaramelli Effebo]. Armando Senigallia era nato ad Ancona nel
1883. Ritenuto anarchico molto pericoloso», Senigallia, pur senza mai
abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva collaborato
assiduamente a Il Grido della Folla», a La Protesta Umana» e al romano Il
Pensiero Anarchico», subendo, in virtù della sua prosa infuocata, numerose
condanne per istigazione a delinquere». Attivo nel campo
dell’organizzazione di partito, Senigallia aveva pPAT TEST PRIA
TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO
MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777 Grazie a La Guerra Sociale», per
un periodo di tempo tanto breve quanto decisivo, gli anarchici
interventisti poterono dunque disporre di uno spazio autonomo ed ebbero
modo di precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di
vista all’interno della multiforme realtà dell’interventismo
rivoluzionario. La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci
risultò comunque assai intensa, specie là dove il movimento era più
forte. A Parma gli anarchici collaborarono fattivamente al quindicinale Guerra
alla guerra» (24 gennaio- I maggio 1915), edito a cura del Fascio locale,
roccaforte della politica deambrisiana e fra i principali centri
propulsivi dell’interventismo rivoluzionario. All’incirca nello stesso
periodo in cui vedeva la luce il giornale di Malusardi, era anche degno
di nota (vuoi per il rilievo dei protagonisti, vuoi perché Pisa era una
delle città italiane dove il movimento anarchico era maggiormente
radicato) il contributo degli anarchici Alberto Fontana e Ruffo Sarti
alla nascita e alla diffusione de La Guerra del Popolo», organo del
Fascio rivoluzionario pisano!‘. preso parte al congresso
interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno
anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi relativi
alla struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre forze
operaie. Nel gennaio del 1914 la Prefettura di Ancona annotava sul suo
conto: E’ sempre uno dei più ferventi anarchici di Ancona, prende parte a
tutte le riunioni del partito ed è iscritto al Circolo anarchico “Studi
Sociali”». Nell'agosto del 1916, avendo fatta dichiarazione scritta dalla quale
si rilevava la mitezza delle sue idee politiche e la completa adesione
alla guerra», fu inviato al fronte con una squadra di lavoro. Richiamato
alle armi nel luglio 1917, si comportò coraggiosamente, finché non cadde
prigioniero degli austriaci. Aderì al fascismo e, nel gennaio del 1935,
divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale fascista dei venditori
ambulanti. Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando]. Silvio
Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dell’estrema
sinistra parmense, in quanto segretario di un “Circolo socialista
antimilitarista rivoluzionario” intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto
interventista, Colla si arruolò volontario, combattendo negli arditi ed
ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta [Colla].
Di Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben
poco, se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva
visto magnificare la guerra come mezzo per far piazza pulita di tutti i
rivoluzionari di carta e da comizio» (Liquidazione di rivoluzionari, La
Guerra Sociale», 10 marzo 1915), riallacciò i rapporti col movimento
libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigrò negli Stati Uniti (prima a Chicago,
poi a Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della
numerosa comunità anarchica italiana, collaborando al foglio di San
Francisco L’Emancipazione». Da oltre oceano l'anarchico calabrese
mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico
Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC,
Busta 1739 [Rango]. 14% 1] primo numero de La Guerra del Popolo»
uscì. L’iniziativa di Ruffo Sarti e Fontana fu contestatissima dai gruppi
anarchici di Pisa (si veda in particolare D'altra parte, i Fasci
compivano il massimo sforzo di coordinamento. Pur nella diversità di
vedute, la preoccupazione principale di tutte le forze che componevano
lo schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di
affrettare l’ingresso dell’Italia nel conflitto europeo, anche a costo di
dover accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col
Governo. Il 10 aprile L’Internazionale» pubblicò una “Dichiarazione”, con
la quale il gruppo dirigente dei Fasci s’împegnava ad una tregua
“rivoluzionaria” se la monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la
guerra. Tra i firmatari di quel documento. figuravano anche la Rygier e
Mario Poledrelli (il 24 aprile l’organo sindacalista ricevette le
adesioni di Rocca e Malusardi) Commentando lo sciopero generale indetto a
Milano il 14 aprile per protestare contro l’uccisione del giovane operaio
elettricista Innocente Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera
della polizia durante una manifestazione contro la guerra'* -, sciopero
al quale avevano aderito anche i Fasci interventisti (Alceste De Ambris
fu tra gli oratori principali), Rocca auspica che non si verificassero
più simili episodi, temendo altrimenti ch’essi potessero trasformarsi in un
pretesto per una manifestazione neutralista, comunque un tentativo per
intimidire il Governo l’articolo in tre parti di OTONIETTI, Aberrazione
mentale collettiva, L'Avvenire Anarchico», 1, 8 e 16 aprile 1915), che
tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale estraneità dei due
interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare
ai compagni passati all’interventismo ogni parentela, anche trascorsa,
con l’anarchismo era una delle scappatoie di cui gli anarchici si
avvalevano con più frequenza. Del pari, la storiografia ha
sostanzialmente accolto quest’indirizzo, che potremmo definire “negazionista”.
Così, nel caso specifico di Sarti e Fontana, è stato scritto che i due
rappresentavano poca cosa, politicamente e quantitativamente, nei
confronti del vasto movimento cittadino» SACCHETTI, Sovversivi in Toscana,
1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realtà, Sarti e Fontana
erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto
la Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza.
Fontana era stato redattore de L’Avvenire Anarchico. Cfr. ACS, CPC,
Busta [Fontana]. Sarti era noto anche a
livello nazionale, avendo collaborato a Il Libertario» e al milanese Il
Grido della Folla» e potendo vantare, come sembra, stretti rapporti di
amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori. Nell'ottobre del
1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei
carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio l’intero l’ambiente
anarchico e che gli era costato lunghe disavventure giudiziarie e due
mesi di carcere. Durante la detenzione annotava la Questura fu largamente
aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono anche le spese
occorrenti per la sua difesa». /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo]. Il testo
completo della “Dichiarazione” si trova in appendice a FELICE, Mussolini
il rivoluzionario. Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le
dimostrazioni dell'altra sera, Il Corriere della Sera», 13 aprile
1915. con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di
decidere la guerra»; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a tutto
subordinare» all’eventualità del conflitto!‘ Il periodo
bellico A poco più di un mese dalla proposta de L’Internazionale»
per la tregua “rivoluzionaria”, la dichiarazione di guerra dell’Italia
all’ Austria realizzò gli auspici di tutti gli interventisti. La partenza
per il fronte dei principali esponenti dell’interventismo rivoluzionario e
la situazione di eccitazione e di generale incertezza determinata dagli
avvenimenti bellici, situazione non certo propizia al normale dispiegarsi
dell’attività politica, contribuirono peraltro a sfaldare
progressivamente il movimento dei Fasci. ua Anche Rocca, Gigli e
Malusardi, si arruolarono volontari". L'altro grande protagonista
dell’anarcointerven- tismo, Gioda, che a suo tempo era stato riformato,
partì per il fronte soltanto nell’estate del 1916". Prima di allora,
incalzato dalle accuse d’imboscamento, Gioda (che era membro del “Gruppo
di Azione Civile” di Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e
di svolgere propaganda a TANCREDI, A proposito di sciopero generale, La
Guerra Sociale Rocca si arruolò volontario ai primi di luglio del 1915, prestò
giuramento in una caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7°
reggimento fanteria prestano giuramento, Il Corriere della Sera) e fu
inviato al fronte alla fine del mese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca
Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di complemento nel 2°
reggimento artiglieria campale pesante di Modena, partì per la zona di
guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo
Malusardi si arruolò nel 68° reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr.
Ibidem, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. mia i o Mentre l’esperienza
di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all
intero svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di
guerra di Malusardi - un memoriale di un certo interesse, anche se, con
tutta probabilità, rielaborato ad arte dall autore - si trova in EDOARDO
MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma, Torino, Druetto,
Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato
al 7° reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. Il Popolo d’Italia», e L’Iniziativa).
Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte
solo pochi mesi. favore della guerra) ‘°° si batté con passione, che
non c’è motivo di non ritenere sincera, per la revisione dei
riformati!”, Insieme ai nomi più celebri dell’anarcointerventismo,
partirono, volontariamente o perché richiamati alle armi, la maggior
parte degli altri anarchici interventisti. In taluni casi la frenesia
delle armi raggiunse livelli quasi parossistici. L’anarchico romagnolo Ghetti,
ad esempio, riformato per evidenti questioni di salute, passò gli anni di
guerra nell’estenuante tentativo di farsi arruolare. Cosa
c'entra la visita scrisse ad un
periodico fiorentino l’abilità o
l’inabilità, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei
difetti organici, tutto sé stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che
oggi minaccia più che mai l’intera umanità? Per la mia libertà, che è la
libertà di un popolo, dell’umanità, voglio dare il mio sangue, la mia
vita contro l’oppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza
far sfoggio di coraggio, così è il mio sentimento di libertario Qualche
giorno dopo Ghetti si presentò in zona operativa vestito da bersagliere,
ottenendo soltanto di essere arrestato Il “Gruppo di Azione Civile” si era
costituito ad opera del tipografo mazziniano Grandi e di altri esponenti del
repubblicanesimo torinese e restò in vita sino all’agosto del 1917,
quando confluì nella ricostituita “Fratellanza Artigiana” di Torino (cfr. L’Iniziativa»,
1 settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi
(pubblicate in Vita di Gioda narrata da Croce, cit.), i due si
conoscevano da tempo ed erano in ottimi rapporti. In una lettera al
giornale di Mussolini, Gioda respinse l’accusa d’essersi imboscato e
spiegò la propria intenzione d’impegnarsi affinché fosse al più presto
riconsiderata la posizione di tutti i riformati. Io poi scrisse prima
categoria della classe 1883, sono stato riformato...per deficienza
toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, d’accordo con gli amici del
“Popolo d’Italia”, la revisione dei riformati» (Per /a revisione dei riformati,
Il Popolo d’Italia). In autunno, dopo che il Governo ebbe
annunciato l’intenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda tornò
decisamente sull’argomento. E un’umiliazione affermò inflitta a tutti i cittadini che sono stati
scartati alla leva militare, è quasi un bollo, che contrassegnerà, agli
occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e discutibile. Noi avremmo
capito la revisione dei riformati da noi
ardentemente sollecitata e poscia magari se necessità assoluta l’avesse
richiesta la tassa applicata ai
veri riformati, a quelli cioè che non potendo offrire alla patria tributo di
sangue avrebbero rassegnatamente accolto l’imposta, onde contribuire in
qualche modo per la salvezza nazionale» GIODA, A proposito della tassa
dei riformati. La revisione doveva avere la precedenza, Il Nuovo
Giornale» Ghetti era nato a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni
era emigrato in Germania, poi in Svizzera, cambiando più volte residenza,
e stabilendosi infine a Berna. In quella città Ghetti aveva svolto
un’intensa propaganda anarchica, facendosi anche promotore D'altra parte,
anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera e propria,
l’entrata in guerra dell’Italia provocò, in seno al movimento libertario
italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del 1915,
amplificata dal quotidiano romano Il Messaggero», si diffuse la notizia
(parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra
anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi
libertari capitolini “Sante Caserio” e “Francisco Ferrer” avrebbero invitato
i propri aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una
cartolina riportata da L’ Avvenire Anarchico» del 10 giugno 1915 (Gli
anarchici non si corrompono), Ceccarelli condannò senza mezzi
termini quell’iniziativa, negando l’esistenza di un circolo anarchico
intitolato a Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il foglio
pisano pubblicò una dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore
Piattini e Giuseppe Frate, a nome dei gruppi “Caserio” e “Ferrer”, nella
quale si affermava che il comunicato apparso su “Il Messaggero”,
invitante gli anarchici a inscriversi nella Croce Rossa, doveva
interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al richiamo avrebbero
dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella della suddetta
istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista»; e dunque ch’era erroneo
il commento dei compagni che avevano creduto sottolineare tale invito
come addirittura un reclutamento anarchico ced adesione di anarchici alla
Croce Rossa». Sebbene rimasto senza seguito, quest’episodio è a nostro
avviso indicativo dell’incertezza che colse parte degli anarchici
all'indomani. i Nonostante il clima di eccezionalità seguito allo
stato di guerra, la ténsione tra gli opposti schieramenti della vigilia
non diminuì che in minima parte (ed è significativo che persino
l’arruolamento di Rocca, il cui nome bastava evidentemente ad evocare
malumori e risentimenti, suscitasse una coda di di un “Comitato di difesa
sociale pro Masetti” (ma pare che i suoi rapporti con la comunità
anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero
tempestosi). Un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos'è /a caserma?, L'Avvenire
anarchico) gli era valso un’incriminazione per istigazione a delinquere.
Due mesi più tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato
arrestato perché trovato in possesso di numerosi ordigni esplosivi.
Condannato a dieci mesi di carcere, beneficiò dell’amnistia concessa la
momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Non si hanno notizie di un
suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di
nuovo arrestato (questa volta a Torino) per aver causato gravi incidenti
durante un comizio di Rygier. Ghetti riuscì infine ad arruolarsi in
fanteria. Cfr. ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico]. è 156 dea
SPERO da 9 polemiche) ‘°°. La verità è che la frattura tra neutralisti e
interventisti non si sarebbe mai più ricomposta, protraendosi
anzi, come noto, ben oltre la fine delle ostilità. La crisi
dei Fasci, seguita all’entrata in guerra dell’Italia, non valse affatto a
rasserenare gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori
il movimento. L’involuzione subita dall’interventismo
rivoluzionario, d’altronde, prima ancora che la sua capacità di
sopravvivenza politica, in ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si
sarebbero compiutamente ricostituiti solo alla fine del 1915) '5”,
investiva la sua stessa ragion d’essere. Così, lungo tutto l’arco della
guerra, si assistette al tentativo (non sempre fruttuoso) da parte degli
interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie fila e,
soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli
avvenimenti, la propria specificità ideale. In questo senso, anche
la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo Corridoni, una
delle figure più carismatiche di tutto l’interventismo rivoluzionario, acquistò
un significato che trascendeva l’episodio in sé, per assumere una valenza
quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe- simbolo
dell’interventismo rivoluzionario, che al nome dell’”’arcangelo”
sindacalista si sarebbe più volte richiamato, nel prosieguo della guerra,
come a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di
ricordare le parole di Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23
ottobre, perché specchio di quella concezione volontaristica dell’azione
politica che ich questo riguardo, si veda l’articolo // giuramento di
“managgia” (Il Risveglio Comunista-Anarchico», Ginevra), nel quale il
giuramento di Massimo Rocca era fatto oggetto di commenti particolarmente
malevoli. Sull’altro versante, un ottimo esempio di questo stato
d’animo è rappresentato da un saggio di Nerucci, pubblicato su
interessamento di Fontana e con prefazione di Malato (Da/ di là del Rubicone,
Pisa, Tipografia Mariotti). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi
abituali della propaganda anarcointerventista (la contrapposizione fra
anarchismo “reale” e anarchismo “ideale”, la necessità di difendere la
civiltà latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del
pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari.
L’apologia interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente
infarcita di citazioni latine, appariva ancor più incongrua in quanto
giungeva a quasi un anno dall’entrata in guerra dell’Italia. In ogni
caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di là del Rubicone, Nerucci
abiurò all’anarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di
Marsiglia, annunziò di aver preso la tessera del Partito Repubblicano
(cfr. L’Eco d’Italia). Nonostante la conclamata fede interventista,
Nerucci fece di tutto per evitare la trincea, ottenendo di essere
chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta 3526
[Nerucci Raffaello]. !57 Per un quadro complessivo delle traversie
dell’interventismo rivoluzionario negli anni della guerra, v. soprattutto
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al quale si
rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte. aveva animato
la condotta degli interventisti rivoluzionari nell’ora della vigilia, e
che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella tragica
sorte di Corridoni. Egli è scriv Gioda ricordando il compagno scomparso -
la nostra gioventù, tutta la nostra vagabonda, ardente gioventù balzata
fuori tra gli sterpi d’una bassa politica e il dissolvimento de’partiti,
tra l'impotenza de’dogmatici e la ribalderia de’mercanti !5
AI combattimento che costò la vita a Corridoni prese parte anche Edoardo
Malusardi. Il racconto di quell’episodio che l’anarchico lombardo inviò
all’organo mussoliniano è interessante sia come esempio di
autorappresentazione politica (l’interventista rivoluzionario che, ricolmo
di fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo),
sia come prima elaborazione del mito “corridoniano” (Corridoni che
cade eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a
crescere in breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il
sindacalismo fascista, Malusardi in testa. Mi trovo
degente in un ospedale da campo riferiva dunque Malusardi ferito in
quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto
alla baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci
perché impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie
che hanno del romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si
conta anche Filippo Corridoni, comportatosi da prode. Quest’ultimo, anzi,
è caduto vicino a me cantando l’inno d’Oberdan'° 158 Il
Popolo d’Italia Sulla figura di Corridoni v. il contributo di MELOTTO,
Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in Storia in Lombardia», Gia pochi
giorni dopo la morte di Corridoni, Il Popolo d’Italia» avviò una
sottoscrizione er l'erezione di un “ricordo marmoreo” dell’eroe.
© Il Popolo d’Italia La battaglia detta della “trincea delle frasche è
fatale anche ad un anarchico interventista toscano di nome Contini. Egli
era - scrive di lui Malusardi - un ANARCHICO NOVATORE. Un eretico su cui
grava l’anatema del “Sinedrio Anarchista.. Il suo anarchismo, come il
mio, non è la fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso, ma bensi la
teoria di tutte le libertà e sintesi di ribellione fattiva contr’ogni
oppressione. I suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Troja,
caduto per 1 indipendenza ellenica, e Colizza, la maschia figura di
spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in difesa della Serbia aggredita
L’Iniziativa. RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG
"N Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una
delle iniziative più interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli
anarchici interventisti - di far confluire tutte le forze
dell’interventismo rivoluzionario nel Partito Repubblicano. Rygier (che
dallo scoppio della guerra era andata sempre più accentuando la sua
vicinanza al mazzinianesimo) '°, reputando fondamentale anche in vista delle sfide politiche del
dopoguerra rinsaldare l’unità del fronte
interventista rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti
rivoluzionari, di ogni scuola e partito, s’iscrivessero al PRI!9.
L’invito di Rygier fu raccolto da Malusardi. In una lettera inviata a L’Iniziativa»
l’anarchico lodigiano si disse persuaso della necessità di unificare tutti
i partiti della sinistra interventista e d’accordo con Rygier nel
ritenere che ciò potesse concretamente realizzarsi nel segno dell’ ’’
Edera”, a condizione, però, che questo non significasse un appiattimento
sui programmi repubblicani. Gli unici che potrebbero
trovarsi a disagio notava a questo
proposito Malusardi saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non
essendo degli impenitenti utopisti della società paradisiaca, coi
repubblicani ci troviamo molto d’accordo. Noi siamo degli esaltatori
dell’individuo, non nel senso esageratamente Zaratustriano, ma audace e
cosciente, che sa imporsi in mezzo al falso ed imbelle umanesimo
grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi codardi capeggiatori.
Mentre i repubblicani subordinano la volontà individuale a quella
collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi
anarchici, Il definitivo approdo di Rygier al mazzinianesimo era avvenuto
con l’articolo L'ombra sua ritorna ch'era dipartita (L’Internazionale», 1
gennaio 1915), una lunga e sentita celebrazione di Mazzini. La svolta
della Rygier aveva trovato consensi e destato speranze negli ambienti
repubblicani. Si auspica che l’esempio della Rygier aveva scritto Alfredo Poggiali
sull’organo del Partito Mazziniano Italiano ch’era partita, ne’suoi primordi, da
premesse non esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici»
(Lettera politica dalla Romagna, La Terza Italia», 15 gennaio 1915). Dopo
lo scoppio della guerra, Maria Rygier, la cui opera di propaganda non
conobbe soste, intensificò, se possibile, la collaborazione con la stampa
repubblicana, massime con L’Iniziativa». L’infatuazione della Rygier per
Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri
interventisti rivoluzionari (a cominciare da Ambris) e
anarcointerventisti. Mario Gioda, in particolare, il quale - come si è
visto - nutriva già una viva simpatia per le idee e per i programmi
repubblicani (si veda, a titolo di esempio, l’articolo Mazzini e l'ora storica,
Il Popolo d’Italia», 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva tra l’altro
sostenuto che tutti i sovversivi, non schiavi dello sterile dogmatismo,
non avvelenati dalle secche teorie tedesche o intedescate», avrebbero
dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforzò negli anni di
guerra il proprio filo-repubblicanesimo. " Cfr. RyGIER, /
partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future, L’Iniziativa», pur
coadiuvando in tutte le contingenze l’azione collettiva, non intendiamo che
si È RA ERI F 16 debba tarpare le ali alle iniziative individuali e
le minoranze Il rispetto delle minoranze e delle singole individualità
era stato a fondamento dell’azione dei Fasci interventisti: qualora il PARTITO
REPUBBLICANO avesse offerto le stesse
garanzie politiche, nulla - concludeva Malusardi - avrebbe potuto
impedire il confluire in esso di tutte le forze dell’interventismo
rivoluzionario, anarchici compresi'‘. Il progetto avanzato da Rygier
rimase lettera morta, ma il problema dell’unità tra le forze della
sinistra interventista si sarebbe ripresentato più volte, durante come dopo
la guerra. In ogni caso, quale che fu l’esito della sua proposta, il
cammino personale di Maria Rygier verso le “idealità nazionali” non subì
inversioni di rotta. Ella è al congresso nazionale repubblicano di
Roma. Non ho ancora la tessera disse in mezzo agli applausi dei congressisti ma voglio confermare che la guerra ha
fatto maturare in me, come in altri, una coscienza nuova, perché ha
disvelato effetti deleteri d’una propaganda basata sul determinismo
economico più gretto. E noi torneremo al vostro Mazzini L’ex
madrina dell’antipatriottismo “tornò” in effetti a Mazzini, e quella
tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano l’ebbe in
realtà pochissimo tempo dopo!. Il prolungarsi oltre ogni
previsione delle ostilità, il malumore ognora crescente delle masse e il
conseguente, nuovo slancio assunto dalla propaganda neutralista,
aumentarono il senso di smarrimento degli interventisti rivoluzionari.
L’esigenza di opporsi alla presunta opera disgregatrice del neutralismo
“socialista-cattolico-giolittiano”, un'esigenza molto spesso tracimante
in vera e propria ossessione, fu all’origine della nascita e della
diffusione, un po” in tutta Italia, di leghe e di comitati per la
“resistenza interna”. Nell’ambito di queste iniziative, tuttavia, gli
interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati
il e su AI congresso giunsero anche i saluti di Gioda, che diceva
di seguire con vivissima simpatia il lavoro dell’unico partito che la
guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano sconvolto»; di Rocca, il
quale auspica che l’assise repubblicana potesse porre le basi per un
sovversivismo nazionale, meno settario, più serio, più vasto d’idee e profondo
di sentimento»; e di Lotti. più delle volte in minoranza (tipico il
caso del “Fronte Interno”, costituitosi a Roma ad opera di forze
prevalentemente democratiche, che finì assai presto per essere
egemonizzato dalle destre). L’interventismo di destra, infatti, e in
particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla
radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico,
prese senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa
azione delle sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti
scenari. La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella,
più o meno consapevolmente avvertita, di salvaguardare la “purezza” dei
propri ideali, dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari,
che si riunì a Milano. Pochi giorni prima dell’inizio di quel
congresso, Gioda si era fatto interprete dello stato d’animo di grande
perplessità che attanagliava l’interventismo rivoluzionario. Prendendo
spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e
Austria, agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a
esempio dell’insofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilità,
Gioda si era augurato che l’Italia rimanesse al di fuori dell’ondata di
malcontento che stava attraversando gli altri paesi belligeranti e s’era
detto convinto del buon senso e delle virtù patriottiche del popolo
italiano. Malgrado ciò, l’anarchico torinese aveva avvertito la necessità
di ribadire la ragionevolezza della guerra in atto. La guerra - aveva
affermato Gioda - era giusta perché risolutiva» e perché avrebbe schiuso
la via per maggiori conquiste, in un ambiente europeo non più accidentato
da agguati tedeschi e da barbarie prussiana. Per la cronaca del convegno
v. Il Popolo d’Italia», 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altresì Le
dichiarazioni del Congresso dei Fasci, L’Iniziativa», 27 maggio 1916, e La
grande adunata di Milano e la parola dei nostri compagni, L’Internazionale»,
GIODA, Perché questa guerra è giusta, Il Popolo d’Italia», 17 maggio
1916. Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda
aveva manifestato a chiare lettere quale fosse ormai il proprio pensiero
riguardo alle questioni economiche. Mentre il mondo aveva scritto - si dibatte nella tragica
convulsione d’una rivoluzione decisiva per l’avvenire dei popoli, è per
lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di feste di
primo maggio per quella ascensione economica di classe che il proletariato non
conquisterà se non a condizione di essersi reso degno di rimanere libero
entro libere nazioni» (GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di
maggio, L’Iniziativa», 1 maggio 1916). Del resto, in un articolo
intitolato Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da Il Popolo
d’Italia» del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non
avrebbe mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi
fenomeni storici e che lo stesso socialismo, se avesse voluto mantenere
la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto risolversi,
edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di classe, perciò,
non avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice
mezzo, da valutare secondo le circostanze. Nel caso contrario, l’organizzazione
di classe sarebbe diventata fine AI convegno milanese presero parte Maria
Rygier, che vi svolse una relazione sul tema “Neutralismo e
neutralisti”!’°, eRocca, in licenza dal fronte!”. Proprio Rocca si fece
portavoce di una convinzione che, in forma più o meno velata, cominciava
a circolare anche tra gli interventisti di sinistra: la convinzione,
cioè, che il Governo dovesse adottare dei provvedimenti, i più severi
possibili, per eliminare il pericolo neutralista. L’azione contro i neutralisti
- sostenne Rocca - doveva essere di due tipi: positiva» e negativa».
Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero dovuto intensificare
l’opera di propaganda tra le masse, negativa, perché era giunto il
momento, nell’interesse del Paese, di rispondere con misure energiche
alle provocazioni dei “nemici di dentro”. Noi afferma Rocca dobbiamo avere
il coraggio di dire: contro i neutralisti abbiamo fatto tutto quello che
si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di domandare che il
Governo faccia un’opera che sia di repressione, che sia capace di porre
un freno. La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto
da lui sostenuto alla vigilia della guerra in merito all’opportunità di
una condotta realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in
risposta a quanti, in a se stessa, e nessun alito di umanità e di
generosità avrebbe animato il popolo, rinchiuso nelle sue ghilde, nelle
sue fratellanze, nelle sue leghe». La classe - aveva concluso Gioda - non
doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini economici», ma un
insieme complesso di individui, formanti una comunità con più alte e
profonde aspirazioni; ed era pertanto inutile, sciocco e disonesto il
ripetere al popolo che solo la lotta di classe lo avrebbe dovuto
interessare», ogni altro problema essendo problema borghese». Questi î
passaggi sono a nostro avviso di capitale importanza. E” infatti in questa
visione dei rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo mazziniano
quanto di elitarismo individualista, che deve rintracciarsi il motivo dell’adesione
di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle ideologie del
sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonché, per
successive corruzioni dell’impostazione originaria, la ragione del
passaggio di molti di loro dall’antisocialismo all’antioperaismo tout
court. In Il Popolo d’Italia» sati !! Il Popolo d’Italia»
riporta le adesioni al convegno di altri due anarcointerventisti: Fanelli
e Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo qui per la prima volta, può
esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci è
giunta notizia. Il panettiere Fanelli è nato a La Spezia. Anarchico
convinto, che prende parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito
(come lo descrive un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto),
Fanelli è gerente responsabile de Il Libertario. Divenuto interventista,
fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio d’azione internazionalista di
La Spezia. Nel dopoguerra adere al fascismo, iscrivendosi al PNF.
ACS, CPC, Busta [Fanelli].Il Popolo d’Italia sede di discussione,
avevano affermato l’opportunità di scindere nettamente l’operato dei
Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore realismo
politico) sostenne che l’interventismo rivoluzionario doveva assumersi
per intero le proprie responsabilità riguardo alla monarchia, con la
quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!”?. Nei
restanti due anni di guerra Rocca è, insieme alla Rygier, il più attivo
del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde egli venne
ricoverato all’ospedale militare di Milano per una grave forma
d’ipertrofia tonsillare, ottenendo così una licenza di sei mesi
(rinnovata nel marzo dell’anno successivo) !” che gli consentì di
dedicarsi a pieno ritmo all’opera di propaganda e di organizzazione
politica’. Vede altresì la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica
predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come
attestato dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro
// Mare Adriatico, volume nel quale l’autore sposava le rivendicazioni
dei nazionalisti sull’Istria e la Dalmazia. Non si trattava di un
interesse passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a
segnare in modo drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata -
insieme ai temi di politica economica. - la nota predominante
dell’attività di Massimo Rocca nel biennio 1918-1920. Nel febbraio del
1918, del resto, Rocca entrò nella redazione del quotidiano milanese La
Perseveranza», avviando, sulle pagine di quel giornale, una serrata
campagna a sostegno dell’italianità della Dalmazia, campagna che gli
attirò gli strali polemici di Salvemini. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362,
[Rocca]. L’operato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un
attivismo capillare che non disdegnava la propaganda spicciola (lo
troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione indetta dal Fascio
interventista milanese, per salutare i “fascisti” della classe 1897 in
procinto di partire per il fronte. Cfr. Il Popolo d’Italia). Ancora la
Prefettura romana annota che Rocca, pur conservando le sue idee
sovversive», continua a svolgere attiva propaganda a favore della guerra.
ACS, CPC, Busta [Rocca]. La posizione di Salvemini (espressa a chiare
lettere nel volume La questione dell'Adriatico, pubblicato all’inizio del
1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di nazionalità, e che gli
avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di Massimo
Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista settimanale,
L’Unità», Salvemini accusò Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei
nazionalisti. Rocca, dal canto suo, non risparmiò le critiche a Salvemini
(si vedano, in particolare, gli articoli Per l'onestà politica e la
Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, La
Perseveranza). L’approdo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo
Arrivabene, un foglio di chiaro orientamento conservatore, non deve
sorprendere. Infatti, sebbene Rocca avesse già in passato manifestato
simpatie per la destra, fu in questo arco di tempo, compreso tra il
congedo dalle armi e la fine della guerra, che si consumò la sua
definitiva trasformazione politica; fu allora, per meglio dire, che l’ex
anarchico maturò un completo distacco, non tanto dal movimento
libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni residuo
sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale, passando
attraverso le decisive esperienze dell’interventismo e della guerra,
Massimo Rocca finì dunque per virare decisamente a destra, verso
posizioni che semplificando -
potremmo definire di conservatorismo “illuminato” sul piano politico; di
liberismo radicale, con forti inflessioni produttiviste, sul piano
economico. In entrambi i casi, però, i legami con il fondo elitario del
novatorismo restavano evidenti. L’individualismo di Rocca, rafforzato dalla
. sua personale convinzione di appartenere a un’ “aristocrazia”, alla
parte nobile - più meritevole perché più capace - del popolo italiano
(proprio in quegli anni, d’altra parte, l’ex tipografo autodidatta
compiva con successo il suo ciclo di studi) '”, giunse in pratica al suo
esito naturale. In questo passaggio era già compreso, in potenza, tutto
il futuro politico di Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla
rivalutazione dell’istituto monarchico, dal programma economico del 1922
ai Gruppi di Competenza, fino alla “trincea” revisionista. In ultima
analisi, infatti, il fascismo di Rocca non fu mai, nella sostanza,
granché diverso dal suo liberalismo. Rocca aderì al “Comitato d’azione per la
resistenza interna”, sorto a Milano su iniziativa di Dinale allo scopo
di coordinare tutte le forze interventiste e d’infondere nuovo vigore
alla loro opera'??. In qualità di delegato di quell’organizzazione, Rocca
partecipò al secondo convegno nazionale dei Fasci d’azione
internazionalista, convocato a Roma all’inizio di luglio, il quale si
concluse con l’approvazione di una Rocca conseguì la licenza tecnica
superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla facoltà
d’ingegneria del Regio Politecnico di Milano. Quale fosse lo scopo
principale di questa nuova associazione patriottica, bene lo illustrava
un ordine del giorno votato a una riunione del Comitato: Reclamare dal.
Governo provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e
austriaci che infestano il nostro Paese» (Il Popolo d’Italia). Alla fine
del mese il Comitato inviò un memoriale al Presidente del Consiglio, nel
quale, dipinta a tinte fosche l’azione destabilizzatrice del neutralismo
disfattista, s'invocava un’azione draconiana contro tutti i “nemici di
dentro”. Il memoriale, pubblicato in parte anche da Il Popolo d’Italia»
del 27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI.
GUERRA EUROPEA, Fascicolo [Movimento interventista]. sorta di
documento programmatico dell’interventismo rivoluzionario!”?. Nonostante
il tentativo d’imprimere all’azione dei Fasci un indirizzo certo, tanto
sul piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le
grandi questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella
delle misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per così
dire relativa all’indole stessa del movimento) della salvaguardia della
propria identità rivoluzionaria, rimanevano, complice l’inasprirsi delle
tensioni interne al Paese, più che mai aperte!*°. La tragedia di
Caporetto, con ciò che ne seguì, a livello politico-militare come a
livello emotivo, e la conseguente demonizzazione dei cosiddetti
disfattisti, avrebbe contribuito non poco a mischiare le carte in tavola,
spostando decisamente a destra l’asse della politica interventista. Le
divergenze tra le diverse forze dell’interventismo finirono per
appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi
riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla
fine della guerra. V. Il Popolo d’Italia e l’articolo // Congresso Interventista di
Roma in difesa degli operai e della pace giusta, L’Internazionale» (l’organo
sindacalista parmense riprese le pubblicazioni dopo una sospensione di
quasi un anno). E° molto difficile, per l’assoluta mancanza
d'informazioni, sapere cosa gli anarcointerventisti pensassero riguardo a
queste due tematiche, ma è ragionevole credere che la loro opinione non
differisse da quella degli altri protagonisti dell’interventismo
rivoluzionario, sempre più orientati verso una linea di ferma intransigenza.
Una testimonianza importante, anche per l’estremismo del linguaggio
usato, è quella di Edoardo Malusardi, il quale, prendendo le mosse dalla
proposta di dimissioni generali avanzata ai sindaci e agli
‘amministratori socialisti da Lazzari (un gesto che, nell’opinione del
segretario del Partito Socialista, si sarebbe rivelato un utile strumento
di pressione sul Governo e avrebbe potuto accelerare l’uscita dell’Italia
dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano perché
facesse alfine giustizia di un così ributtante fenomeno di perfidia e di
vigliaccheria (EMME, Son purl.). FASCISMO L’anarcointerventismo alla
prova della nuova Italia Ripercorrere le tracce dell’anarcointerventismo
nel caos del dopoguerra non è impresa facile. Già nei mesi successivi
all’armistizio, il blocco dell’interventismo rivoluzionario cessò di
esistere come un tutt'uno, per disperdersi e riaggregarsi in mille
rivoli, mentre la nascita di nuove formazioni, che pure ad esso si
richiamavano (fra tutte i Fasci di combattimento), aggiungeva
imprevedibilità a un’atmosfera politica di per sé già molto fluida.
L’anarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per sua stessa
natura, una rigidità organizzativa e ideologica, non sfuggì a questo
processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha più molto senso, dopo Vittorio
Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in sé,
è tuttavia possibile come si
accennava nell’introduzione -, attraverso la vicenda personale dei suoi
maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i segni nella politica
italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti, alcuni, come
Gigli e Rygier, finirono per isolarsi progressivamente dal gioco politico
e per non avere che una parte di secondo piano nella tormentata stagione
del prefascismo'; altri, come Attilio Paolinelli, riallacciarono, sebbene
a fatica, i legami con il movimento anarchico, rientrando a pieno titolo
nell’ “ortodossia”. Altri ancora, infine, Nel caso di Gigli, si può
affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto termine
la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandonò la
politica, tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici
interventisti. Più complesso l’iter politico di Maria Rygier. Negli anni
successivi alla guerra la Rygier si ivvicinò all’Associazione
Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un atteggiamento
sostanzialmente ambiguo. È comunque costretta ad espatriare in Francia,
dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la
sua travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Muore a
Roma. (fr. FRANCO ANDREUCCI,
DETTI, Paolinelli è arrestato con l’accusa di aver preso parte al
complotto di Pietralata, allorché un gruppo di anarchici, insieme a
repubblicani e arditi, tentò d'impadronirsi dell'omonimo forte militare.
Amnistiato, aderì poi - in rappresentanza degli anarchici individualisti
- a un comitato romano “di difesa proletaria” in funzione
antifascista. come Gioda, Malusardi e Rocca, si guadagnarono un
posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero,
quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda
all’interno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel
prosieguo di questo lavoro) può, a nostro giudizio, essere considerata in
relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se è arbitrario ricercare
in essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e
coerentemente riconducibile alla doppia e complessa eredità
dell’individualismo anarchico © riconoscervi, pur | nell’eterogeneità
delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non | e
dell’anarcointerventismo, è però possibile pochi punti di contatto con
quel pensiero e con quella tradizione. Nel valutare l’apporto della
cultura anarcointerventista al movimento mussoliniano (un contributo
minoritario, ma non per questo trascurabile), occorre poi tener
presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un | monolito
impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di Mussolini,
si distingueva piuttosto - come lucidamente nota Felice nell’introduzione al primo volume della sua
biografia mussoliniana - per essere una serie di stratificazioniȓ, un
accumulo di passioni e d’idee diverse, non di rado in contrasto
tra loro. Di questo multiforme e | contraddittorio universo che fu il
primo fascismo, la vena. anarcointerventista, proprio in ragione della sua
disorganicità evidente nei diversi
orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -, costituisce inoltre, per così
dire, un modello in scala ridotta. La storia
dell’anarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in ordine
al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia d’individualità, anche se,
ancora per qualche tempo, nei mesi successivi all’armistizio, si
verificarono, qua e là, sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della
corrente anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito,
in grado di misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal
rivolgimento bellico. A prescindere da alcune iniziative isolate, come
quella | partita da Domenico Ghetti‘, l'esperimento di maggior sostanza
in questa | È condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra
lo vide ancora attivo nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC,
Busta 3711 [Paolinelli]. i FELICE, Mussolini il rivoluzionario,
cit., p. XXII. 4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de Il Popolo
d’Italia», apparve un appello di Ghetti agli anarchici interventisti milanesi»
perché facessero giungere la loro adesione alla nuova iniziativa
patrocinata da Mussolini. Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno
del 1919 la Prefettura di Milano, città nella quale l’anarchico romagnolo si
era trasferito alla fine del conflitto, lo segnalava tra i più accesi
propagandisti dei principi mussoliniani» in seno al partito» anarchico).
ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti]. direzione fu quello tentato da Roberto
D’Angiò. Nella primavera del 1919, gli ambienti anarchici liguri (D’Angiò
si era trasferito a La Spezia a guerra in corso) furono messi in subbuglio
da una circolare, firmata appunto dal noto propagandista, nella quale si
dava per imminente la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico
d’ispirazione interventista. Le concezioni di D’Angiò
sull’anarchia annota il 31 marzo il
Prefetto di Genova non collimano
con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente del periodico
anarchico “Il Libertario” che si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto
deciso di fare uscire prossimamente colà un nuovo giornale anarchico intitolato
La Protesta», che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova
pubblicazione avrebbe come programma l’illustrazione del principio
anarchico adattato ai nuovi tempi sortiti in seguito all’opera di
rivoluzione fatta dalla guerra” Il prestigio che ancora ispirava
il nome di D’Angiò e il ricordo, sempre vivo, delle dure polemiche
d’anteguerra, indussero Il Libertario» a prendere nettamente le distanze
da quell’iniziativa. Parecchi compagni da varie località ammoniva il foglio di Binazzi - ci
chiedono spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto D’Angiò,
colla quale si annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a
Spezia. Rispondiamo in blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo
non ha più nulla di comune cogli anarchici di Spezia e tanto meno con noi
del Libertario»® Alla fine di maggio, Il Popolo d’Italia» - ormai
organo ufficioso dei nuovi Fasci mussoliniani - ospitò un accorato
appello di D’Angiò a tutti i libertari interventisti», affinché dessero
il loro contributo, anche economico, alla realizzazione de La
Protesta». Ciò che io desidero scriveva D’Angiò, precisando il proprio punto
di vista è che tutti gli anarchici
d’Italia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano,
abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non è
lecito star zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta gabbana,
rinnegati, ecc. Noi dobbiamo reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee
[...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le nostre idee per snebbiare le
menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci opponemmo con
la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri
anarchici” + Ibidem, Busta [Angiò]. Il Libertario»,Il Popolo
d’Italia» IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA Il primo numero de La
Protesta» uscì. Noi si afferma
nell’editoriale facciamo qui una
pubblicazione anarchica, né più né meno». Come prima della guerra,
dunque, obiettivo principale degli anarchici interventisti era quello di
rivendicare la propria appartenenza alla famiglia anarchica, nella
convinzione, semmai, che i tempi fossero più che mai propizi per una
riforma radicale dell’anarchismo; riforma che doveva passare attraverso
una “selezione” delle migliori energie rivoluzionarie. Lo sconvolgimento
europeo sosteneva un anonimo articolista
de La Protesta» - ha insegnato qualche cosa all’operaio. Noi anarchici,
che a costui predichiamo di emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel
passato, non seguire il sistema del socialismo ufficiale, per il quale il
numero, o meglio una somma di numeri, è tutto. Noi, nel rivolgerci alla massa,
dobbiamo parlare all’individuo Nonostante l’iniziale sostegno di Mussolini, e
nonostante i favori raccolti in ambito anarcointerventista'’, il giornale
di Roberto D’Angiò non sopravvisse al secondo numero, e il suo
fallimento convinse lo stessoAngiò a ritirarsi a vita privata. Lo sforzo,
tentato da Angiò con La Protesta», di connettere gli anarchici
interventisti, come entità politica autonoma, alla più vasta corrente
rinnovatrice del dopoguerra, restò un caso isolato, ma il contatto tra gli
. narchici e le forze superstiti dell’interventismo rivoluzionario fu
fecondo anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso
diretto con | l’anarcointerventismo, è doveroso richiamare
brevemente. E’ nota, ad esempio, l’attenzione con la quale, nel confuso
biennio, gli interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi
Fasci di combattimento - guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le
divisioni tra i due schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano
tuttavia i motivi d’incontro, particolarmente la comune ostilità
nei confronti dei socialisti “bolscevizzati” e del loro
inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e “parolaio” (Malatesta
manifesta a più riprese le sue riserve nei confronti dell’esperimento
leninista) '’. Sul piano puramente strategico non 8 La Protesta
? Le coscienze volitive, Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale
di D’Angiò raccolse oltre 30 sottoscrizioni - per un totale di 240,45
lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de La Protesta»
ritroviamo alcuni dei nomi più noti dell’anarcointerventismo, da Gigli a
Sarti, da Fontana ad Senigallia. Cfr. /bidem. È Angiò muore a
Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angiò Roberto]. © L’iniziale
cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia
lasciò gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza
appello del comunismo era quindi irragionevole pensare, da entrambe le
parti, ad un’intesa d’azione in chiave rivoluzionaria; e basti qui
ricordare la vicenda del progettato tentativo insurrezionale che, auspice
Alceste De Ambris, avrebbe dovuto estendersi da Fiume, occupata dai
legionari di Gabriele D’ Annunzio, a tutta la Penisola. Il piano, che
vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in Italia nel dicembre
1919, grazie all’interesse del segretario della Federazione dei
lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto
favorevolmente dalla stampa filo-fiumana), fallì, a quanto pare, solo per
la ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo
indiretto all’impresa'‘. La presenza anarchica nel nebuloso
quadro politico del dopoguerra si manifestò anche per altre vie e in
altri modi, che, sebbene inconsueti, non devono però meravigliare più di
tanto, quando si tenga conto. della multiformità delle posizioni
all’interno del mondo anarchico. D’altra parte, il processo di
ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita di
connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso
de autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura del
proletariato. Per valutare la posizione di Malatesta riguardo al
bolscevismo è essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati
all’argomento. Una scelta significativa di questi scritti
(originariamente apparsi su Umanità Nova» e Pensiero e Volontà») si trova
in MALATESTA, Individuo, società, anarchia. La scelta del volontarismo
etico, a cura di Nico Berti, Roma, Edizioni e/o, 1998. ! Il
27 dicembre, Il Popolo d’Italia», che seguì con simpatia e partecipazione il
rimpatrio di Malatesta, rilevò, a proposito dei rapporti di questi con
l’interventista Giulietti, ch’egli era forse meno intransigente dei
tenenti idioti e nefandi del PUS». Gli apprezzamenti dell’organo
mussoliniano, in verità, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro
valore strumentale (al riguardo v. BORGHI). Del resto,
l’infatuazione del fascismo per il vecchio capo anarchico fu di breve
durata (a questo riguardo si veda il duro articolo Una leggenda che si
sfata, in Il Fascio», 6 marzo 1920), e tuttavia, l’antibolscevismo di Malatesta
fu spesso opportunisticamente richiamato, dai iornali fascisti, in
aperta polemica con i “pussisti”. Su questi fatti v. FELICE, Sindacalismo
rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio Ambris Annunzio. Tra gli esempi più significativi di
questa sorta di diaspora anarchica dev’essere ricordato quello degli
anarchici triestini Andriani e Ukmar. Dopo il crollo della monarchia asburgica,
Andriani e Ukmar (che sono membri di riguardo del gruppo libertario
“Germinal”, il più importante di Trieste) entrano nel Fascio Nazionale,
costituito dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire l’unione
della città irredenta alla madrepatria. Dimentichi di ogni divergenza di
programmi recitava il manifesto del
Fascio Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci italiani, noi,
uomini di tutti i ceti, ci siamo costituiti in Fascio Nazionale, sintesi
ed espressione di quanti consentono ad un’unione con la Patria [...], che
ogni altro ideale comprende ed ammette» (/taliani!, La Nazione). Su Andriani e
Ukmar v. MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il dominio asburgico,
Milano, Giuffrè La Testa di Ferro», l’organo dei legionari fiumani diretto
dall’ardito e futurista Mario Carli!’, che fu, per circa un anno, luogo
d’incontro e di confronto tra le frange estreme del combattentismo e del
futurismo politico e certo anarchismo violentemente individualista,
gravitante attorno a riviste dal titolo emblematico, come Nichilismo» e L’Iconoclasta»!”.
Attraverso la rubrica “Polemiche d’anarchismo”, il giornale di Carli, che
iniziava le Carli, nato in provincia di Foggia ma fiorentino d’adozione, è
uno dei protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della
guerra, Carli, con il gruppo del giornale Roma Futurista» (Settimelli,
Marinetti, Rocca, Bottai, ecc.) è tra i fondatori del Partito Politico
Futurista. Il futurismo politico, al quale dettero un apporto
considerevole gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano degli
arditi, si fece promotore dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia), è
decisamente orientato a sinistra e costituì una delle assi portanti dei primi
Fasci mussoliniani, contribuendo altresì ad influenzarne gli
orientamenti. Il programma dei Fasci di Combattimento creati da Mussolini
commenta Roma Futurista» - è
sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le
due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima è uno. E”
lo spirito dell’Italia nuova: l’Italia dei combattenti. Sulla figura e
l’opera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Roma,
Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonché il
contributo di SCARANTINO, L'Impero. Un quotidiano reazionario-futurista
degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12 ss. Sul futurismo politico
e i suoi rapporti col primo fascismo v. FELICE, Mussolini il
rivoluzionario, GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, Bari, Laterza,
1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalità e al
ruolo di Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia,
Ravenna, Longo. Li Nichilismo», diretta da Molaschi, uscì a Milano; L’Iconoclasta»,
fondata da Gozzoli, vide la luce a Pistoia. Cfr. BETTINI, op. cit., ad
indicem. Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste
riviste, si veda l’articolo // mio individualismo, a firma Enzo di
Villafiore (Enzo Martucci), comparso su L’Iconoclasta» (ma se ne potrebbero
citare molti altri). Quale differenza vi
si legge corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il
patriotta che si fa uccidere pel suo paese, e il sovversivo che cade
evocando la redenzione collettiva? Nessuna! Nella stessa guisa han
perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma
irraggiungibile. Sono dei deboli. Essi non sentono la propria
individualità che vuole affermarsi, godere, vivere. E vorrebbero che io
li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico. Vorrebbero che mi
sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare. Io che voglio bere
il profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare
l’aere della Libertà sconfinata, per ricevere infine il bacio della
Morte. Io tanto superiore alla mediocrità. Io lotto per me, unicamente
per me. Sono al di la del Bene e del Male. In ogni caso, posizioni di
questo tenore suscitarono critiche all’interno della stessa rivista di Gozzoli
(che - come recitava il sottotitolo - era aperta a chiunque»). In un
articolo significativamente intitolato /ndividualismo o futurismo?,
Berneri definì deliri letterari», prose pazze e vuote», gli scritti di
Villafiore e compagni, e pazzoidi» e megalomani» i loro
autori, pubblicazioni, si aprì ai contributi di quegli anarchici
individualisti, per lo più molto giovani, che, suggestionati dalla
retorica “demolitrice” e anticonformista del futurismo, vi scorgevano
un’arma potente di rinnovamento della società e, allo stesso tempo, un
mezzo di realizzazione personale"8. In polemica con Umanità
Nova» (il primo quotidiano del movimento anarchico italiano, fondato da SUCKERT
Malatesta), che guardava con naturale diffidenza alla “rivoluzione”
fiumana e alle velleità sovversive dei futuristi”, Carli affermava
recisamente il carattere proletario e progressista del futurismo e
definiva in questo modo il proprio rapporto con l’anarchismo. Tutti sanno
quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del
mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i
carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi,
l’archeologia e i corrieri della sera, E° per questo che, non potendo più
accettare il dominio dell’attuale classe dirigente, né avendo fiducia in
quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla
concezione anarchica, cioè individualista, che vuol preparare un tipo di uomo
libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini” A
sua volta, Marinetti, rispondendo a un anarchico che, pur plaudendo
all’opera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno dato
alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico”!, invitava gli
anarchici a lasciarsi dietro le spalle il pessimismo vano», per aderire
alla lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti -
che, mentre gli anarchici erano tutti più o meno dei futuristi
antipratici, platonici e pessimisti», i futuristi erano degli anarchici
pratici, fattivi, ottimisti, con un campo determinato per le Zoro
demolizioni e bonifiche, cioè la patria. Tra gli anarchici collaboratori de La
Testa di Ferro» si contava anche Ghetti, responsabile dell’ufficio di
corrispondenza del giornale a La Spezia. !9 Si veda, in modo
particolare, l’articolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Damiani), in Umanità
Nova» CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, La Testa di Ferro Cfr.
BrUTNO. 22 Ivi. In quegli stessi giorni, Marinetti
pubblicava, per le edizioni de La Testa di Ferro», l'opuscolo A/ di là
del comunismo, che può considerarsi il manifesto del suo “sinistrismo”.
In esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le
incarnazioni, vecchie e nuove, della sinistra, e definiva le coordinate
del suo individualismo futurista rivoluzionario. Vogliamo afferma tra
l’altro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie
e dei carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la
maggior quantità possibile di individui liberissimi, forti, laboriosi,
novatori, veloci». K } Sisonialitga al quale facevano riferimento
Carli, Marinetti e u uristi de La Testa di Ferro» era il medesimo c
in l’individualista Abele Ricieri F. ov. o ETTARI FRI 3 atore,
descriveva come agilità volitiva, poesia i gli altri
he, in quello stesso meglio noto come Renzo violenza creatrice
[ dl . »_ x . O . uo: 4 ca di ei o minoritario, puramente
concettuale, pio Ismo nietzschiano, che niente a 6 $ d F Veva a che
veder il movimentismo malatesti ì sconti stiano, così pervaso di i
È i mala umanesimo, né con il comunismo libertario di Umanità x
i ità Nova (col qual i, si i munism i i quale, anzi, si poneva in
netta antitesi) ‘’, ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo
storico I primi contatti col fascismo. Chiusa questa parentesi, è dunque
il momento di tornare alle vicende dei protagonisti dell’anarco-interventismo
in procinto di vestire la cami ta nese di seguirne il cammino
nell’immediato dopoguerra, a Jomiigii re di Rocca. i vandi. In
questo periodo - come si accennava - l’interesse di Rocca è per lo più
rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd
dibattiti, egli riversò tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilità
di propagandista, con il puntiglio e la caparbietà che gli erano propri
Sebb Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione aderì subito dopo la
vera. Rocca non ne condivide le smodate mire imperialiste. Come si cilea
dai MANTRA TORE: Oltre ogni confine, La Testa di Ferro. Bocea È,
pag Leni Nazi i tra i più assidui collaboratori de L’Iconoclasta».
sponenti della corrente anarco-individualist: i È Una raccolta dei suoi
scritti si trova i Vila ae eri; va in F. UN FIORE SELVAGGIO, Pi A
pr E; beds seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di
Cimmii o ui fr vm Testa di Ferro, un certo Atomon ribade che i
futuristi Ri nino ma sh individualisti, bollando come anti-anarchica
l'Unione Anarchica ‘a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i
limi e À comuniste, si limita a fare della a, la vera anarchia non
dove dare al i fattore economico dell’esistenza, ma rici i FI nat) ;
ercare la perfezione dell’individuo nella vi i sopra di ogni pregiudizio
o di ogni do, Ò ITA a opr ] gma». Al contempo, però, l’anonimo
futuri distinguere il gruppo di Umanità Ni i pic ae a s ova» dal
Partito Socialista, mostrando di ire i primo al secondo, e define
Malatesta, d i quaglie do, lel I morale», un agitatore e apostolo».
- AE Rocca è membro del “Fascio delle iazioni iotti 2€1 ro. dels
associazioni patriottiche” e del “Comitat i L'ing irredente” di Milano.
Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca] Faggi Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne
una dittatura. suoi numerosi articoli per La Perseveranza», a cui continua a
collaborare fino a quando il mutamento della linea editoriale,
sopravvenuto a un cambio di proprietà, gli consiglia l’abbandono), la sua
posizione non anda oltre la rivendicazione dell’Istria e della Dalmazia,
che egli non dubitava essere geograficamente, culturalmente e
politicamente italiane. Una certa moderazione, che pur gli va
riconosciuta, non gli impedì di attaccare violentemente i cosiddetti
rinunciatari, a cominciare da Leonida Bissolati, sia dopo l’intervista da
questi rilasciata al Morning Post», sia dopo il suo celebre discorso alla
Scala?”. Rocca prende parte all’imponente comizio milanese “pro Fiume e
Dalmazia italiana”, che fu la risposta data dai “dalmatofili”
all’iniziativa del Zeader socialriformista, comizio nel quale - secondo
Renzo De Felice - ebbe il compito di sostituire Mussolini, che preferì
non intervenire per evitare incidenti»”8. Ai primi di marzo, Rocca
intraprese un viaggio di studio lungo la costa orientale italiana, da
Venezia a Brindisi, giungendo quindi a Spalato, sulla sponda opposta
dell’ Adriatico. Dalla cittadina dalmata, dove si trattenne qualche giorno,
fece pervenire al suo giornale un esteso reportage, nel quale si
prodigava, con la consueta e un po’ pedante ricchezza di argomentazioni,
a dimostrare l'italianità della Dalmazia”. AI suo rientro in Italia fu
protagonista di due nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e
Torino”; quindi, all’inizio di aprile, partì per Parigi, inviato speciale
de La Perseveranza», a seguire da vicino i lavori del congresso di pace”.
Dopo il messaggio di Wilson agli italiani e il conseguente ritiro della
nostra delegazione dalla capitale francese, Rocca, che fino ad allora
aveva tenuto, nei confronti del wilsonismo, un atteggiamento prudente e
non del tutto ostile*”, abbandona 7 A questo riguardo v. TANCREDI, // ministro
della piccola Italia, La Perseveranza», e Una pace di menzogna per un nuovo
giolittismo. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491. Per
la cronaca del congresso v. Il Popolo d’Italia», 18 gennaio 1919.
29 Cfr. TANCREDI, La passione di Spalato, La Perseveranza», Cfr. Il
Popolo d’Italia», e La Perseveranza», ROCCA, Come il fascismo divenne una
dittatura; cit., p. 77. 32 In occasione del viaggio di Wilson in
Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega latina, fondata
sull’alleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo
“imperialismo” anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le
tesi del presidente americano, dicendosi favorevole ad una partecipazione
italiana alla Società delle Nazioni. Essa sola scrisse - avrebbe potuto garantire giustizia
per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani dell'Istria
e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi»
(LIBERO TANCREDI, L'Italia e la Società delle Nazioni, La
Perseveranza). ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito
dell’annessione, ormai - a suo dire - l’unica via percorribile». AI
congresso “per l'annessione di Fiume e della Dalmazia”, che si tenne a
Milano, su iniziativa del “Fascio delle associazioni patriottiche”, Rocca
non lesina le accuse a Wilson, denunciando il torbido retroscena bancario
internazionale che si nascondeva dietro la figura del presidente
filosofo». Da questo momento i toni della propaganda estera di Rocca
si fecero sempre più intransigenti. In un fondo per l’organo
torinese dell’Associazione Nazionalista, egli giunse addirittura a
prefigurare la necessità di un imperialismo senza confini», qualora la
crescente ostilità internazionale e Ia fantastica corsa allo sciopero»
all’interno del paese, con i suoi effetti negativi sul livello di
produzione, avessero a tal punto danneggiato le esportazioni e fiaccato
la ricchezza nazionale da impedire di provvedere pacificamente all’acquisto
delle materie prime indispensabili”. Questi ultimi accenni alla
situazione interna dell’Italia ci consentono di soffermarci sugli aspetti
più propriamente economici del pensiero di Rocca. La sua visione
economica, infatti, che rimarrà pressoché inalterata negli anni a venire,
si veniva proprio allora configurando come una mistura di liberismo,
sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Così, a proposito
della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca esprimeva
l’esigenza che ad essa si accompagnasse tutto un sistema otganico di
educazione ed istruzione professionale che accrescesse il rendimento
degli operai»; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo economico
della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro accresciute
responsabilità”. Ciò presupponeva una matura collaborazione tra capitale
e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - l’emancipazione dei
lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. l’estraniarsi dalla storia
e dal divenire sociale, dai problemi, dai doveri e dalla
responsabilità ch’essi comportano»””, ma solo attraverso la piena
compartecipazione al ciclo produttivo, secondo il modello del
sindacalismo nazionale. Quanto alla borghesia industriale, suo compito
doveva essere, da un lato quello di comprendere il cambiamento introdotto
dalla guerra, ossia di prendere consapevolezza dell’ormai inscindibile
legame tra politica ed economia; dall’altro, quello di dimostrarsi
autentica classe dirigente, in grado sia di Audacia (appunti per l'On.
Orlando), Il Popolo d’Italia TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un
fenomeno d ‘impotenza, La Riscossa Nazionale». Le otto ore internazionali
di lavoro, La Perseveranza», ID., Assenteismo e collaborazione di operai e di
industriali, opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia di
provvedere all’integrazione e all’educazione del proletariato”. Occorre
che la classe dirigente - scrive Rocca - od almeno i suoi elementi
migliori, comprendano che il loro ufficio non è solo di “resistere” o di
“concedere”, ma di persuadere e di guidare. Questo modo di pensare era
senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale, nel frattempo, aveva
ribattezzato il suo quotidiano “giornale dei combattenti e dei
produttori” e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione che
aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la “demagogia
bolscevica”. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai Fasci di
combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita”. Questa
affermazione, con tutta probabilità rispondente al vero, non è però
altrimenti accertabile; quel che è sicuro è che Rocca - almeno per tutto
il 1919 - non dimostrò, a differenza di molti suoi compagni, un grande
interesse per l’iniziativa di Mussolini. Di Il Popolo d’Italia»
lancia un invito per la costituzione di un nuovo movimento politico
d'avanguardia. Tra le molte adesioni pervenute al giornale prima della
data fatidica del 23 marzo, ritroviamo i nomi di alcuni anarchici
interventisti: il vecchio anarchico» Vittorio Boattini (che si dice toto
corde» con Mussolini, per le sante bastonature interventiste ed
anti-bolsceviche») Rivellini e Ghetti. Gli anarchici coscienti scriveva quest’ultimo al suo conterraneo
Mussolini non potranno che aderire al
vostro appello» “. i Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu
senz'altro presente Mario Gioda, che aveva da subito aderito all’appello
di Mussolini i Secondo Mario Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato
testimone diretto dell’accaduto, fa riferimento alla cronaca de Il Popolo
d’Italia»), vi avrebbe preso parte Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo
economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919. sig In., La
svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. Cfr. Massimo Rocca,
Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31. "i olo
d’Italia», 9 marzo 1919. SIAT i è nato a Meldola, nei pressi di Forlì. Manifesta
idee anarchiche. Si trasfere a Milano, dove aveva a Li collaborato a Il
Grido della Folla». la Prefettura milanese scrive che, avendo egli,
durante la guerra, militato nel campo interventista, si dimostra un
fervente nazionalista, in tal senso svolgendo attiva propaganda. Il figlio di
Boattini, pe è per qualche tempo segretario politico del PNF per la
provincia di Milano. ACS,CPC, Busta 679 [Boattini]. #2 Il
Popolo d’Italia», anche Malusardi*, ma il fatto non è certo. Malusardi stesso,
in un telegramma di adesione a Il Popolo d’Italia», si era detto
dispiaciuto, trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare
personalmente, limitandosi a garantire la sua presenza in ispirito», per riaffermare
recisamente il suo interventismo e la sua apostasia»‘* - Il fatto che, anni
dopo, Malusardi rivendicasse la patente di “sansepolcrista”‘, non è
affatto probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima
ora, a retrodatare il più possibile il momento della loro “presa di
coscienza. GIAMPAOLI, Roma, Libreria del Littorio. In base alla ricostruzione
di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare Il Popolo d’Italia),
Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e di
Bologna. Il Popolo d’Italia Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e
Commiato, in Audacia», 28 maggio e Degli anarchici interventisti che sposarono
la causa fascista, uno fra i più intraprendenti è Arpinati. Il futuro gerarca,
peraltro, adere al Fascio di Bologna a più di sei mesi dalla sua costituzione.
Nel primo Fascio bolognese - nato nell’aprile ad opera del repubblicano
Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica - Arpinati
ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la
notorietà conquistata, allorché un comizio elettorale fascista al Teatro
Gaffurio di Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed
egli, che faceva parte del servizio d’ordine, fu arrestato insieme ad
altri cinquanta “camerati” (cfr. Il Popolo d’Italia»). È in parallelo con
l’involuzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio
bolognese (culminata con la fuoriuscita degli elementi democratici e di
sinistra), che Arpinati iniziò una spregiudicata ascesa politica. L’11
aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli affidò la
responsabilità per l’Emilia centrale; quindi, in occasione del congresso
fascista di Milano, nel maggio, entrò a far parte dello stesso organo
direttivo del movimento (cfr. Il Popolo d’Italia). Tra il settembre e
l’ottobre successivi, Arpinati, complice il subbuglio seguito
all’occupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria
riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare,
guadagnandosi il sostegno, anche finanziario, degli ambienti più
conservatori. Il Fascio di Bologna, così ricostituito, accrebbe
enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di
primo piano, divenne una delle centrali dello squadrismo
emiliano-romagnolo, rendendosi protagonista di un’impressionante
escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le elezioni
amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a
Palazzo D’Accursio, che consegnò il Comune di Bologna nelle mani dei
fascisti. Su tutti questi punti v. TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio
di combattimento: note sulle origini del fascismo a Bologna, in Bologna
Le origini del fascismo, a cura di Casali, Bologna, Cappelli, e ONOFRI, La
strage di Palazzo Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese,
Milano, Feltrinelli, Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e
operaismo A differenza di Massimo Rocca, che si avvicinò al fascismo
gradualmente e con un certo distacco‘, Gioda si gettò anima e corpo nella
nuova avventura. Due giorni dopo l’adunanza di Piazza San Sepolcro,
Gioda, con l’ex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i
promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la
segreteria‘. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda
- come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva un
ometto dalle grosse lenti e dall’eloquenza inesperta, vestito con un
inelegante abito marrone»; piuttosto il tipo dell’intellettuale - si
direbbe - che quello del tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi
ufficialmente prese sede nei locali della “Lega d’azione anti-tedesca”,
un’associazione patriottica di destra sorta ad opera del nazionalista
Cian. Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in
misura notevole gli ex combattenti (Gioda cercò in ogni modo di venire
incontro alle esigenze e alle richieste dei “trinceristi”, sforzandosi di
far apparire il fascismo come il legittimo rappresentante dei loro
interessi) nacque dunque con il concorso e sotto gli auspici della
destra, distinguendosi da Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia
di Rocca nell’accostarsi al fascismo fu dovuta anche ai non ottimi
rapporti tra quest’ultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto granché
in simpatia colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato,
obbligandolo, nei confronti dell’intervento, ad una presa di posizione che egli
avrebbe preferito assumere senza sollecitazioni esterne» (YvoN DE BEGNAC,
Palazzo Venezia. Storia di un regime, Roma, Editrice La Rocca).
Cfr. Il Popolo d’Italia. AVENATI, Dodici anni dopo. Com'è nato il Fascio di
Torino, La Stampa In seguito il Fascio si trasferì nei locali della “Pro
Torino”, in Galleria Nazionale, un'associazione patriottica di stampo
sabaudo presieduta dal CONTE BARBAVARA DI GRAVELLONA. Contemporaneamente al
lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono
un’opera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del
Fascio, il 29 marzo, l’anarchico “trincerista” Boario recò le adesioni
dei gruppi fascisti del Canavese, di Ciriè, di San Maurizio e di Caselle.
Cfr.GIODA, Il fervido lavoro dei fascisti a Torino, Il Popolo
d’Italia) La coscienza combattentistica di Gioda, benché
inevitabilmente ammantata di retorica, appariva sincera. Già prima della
nascita dei Fasci di combattimento, l’anarchico torinese si era fatto
promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dell’indennità di
congedo agli smobilitati, rappresentanti l’Italia più vera e coraggiosa,
quella in grigio verde» (ID., Sino all'ultimo sussidio militare e
l'indennità di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919). PORT PI CTPTPM PIO VT
PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA
subito per le forti venature non solo antisocialiste”*, ma,
spesso, antipopolari tout court. Ciò divenne ancor più evidente dopo
l’avvento di Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice
piemontese (cattolico militante e monarchico senza riserve», secondo la
definizione che egli da di se stesso) ‘, il quale, entrato nel Fascio
alla metà di aprile, ne divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero
deus ex machina. La convivenza tra i due uomini forti del fascismo
torinese, così diversi per indole, per estrazione sociale e per
esperienze politiche, si rivelò subito molto difficile. Emblematico, a
questo riguardo, il giudizio, sospeso tra l’ironia e la commiserazione,
che Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha lasciato di Gioda: un povero
diavolo dalle molte vicende». Il giovane Fascio torinese fu quindi
immediatamente attorniato dalla simpatia e dalla complicità dei ceti più
tradizionalisti. Se Torino - come rimarcava l’organo del nazionalismo
piemontese - era stanca di essere diffamata da chi voleva farla credere
bolscevica e giolittiana»*, allora il fascismo poteva segnarne la
definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento d’ordine, più che mai
indispensabile» a svolgere una decisa azione di vigilanza e di
controbatteria»’”. Così, già alla fine di aprile, il Fascio di
combattimento poteva vantare l’adesione di ben 31 associazioni liberali
torinesi”, e non v'è dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente
frapposti dall’autorità prefettizia”, l’apporto delle destre valse a favorire
la graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. Il lavoro
Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si
dimostrarono molto efficienti. In un telegramma del 22 maggio al
Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino riferiva dell'avvenuta
costituzione, in seno al Fascio, di un ufficio [...] con mandato di
seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed
anarchico», vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS,
MINISTERO DEGLI INTERNI, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (d’ora
innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e riservati (d’ora innanzi Affari
gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. Wp DE VECCHI, //
quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia,
»p.I/. Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli
italiani, cit., Vol. 39, ad nomen. VECCHI, La Riscossa Nazionale Cf. Il
Popolo d’Italia», Al Fascio aderì anche il comitato “madri dei combattenti”,
presieduto dalla contessa Eleonora Contini di Castelseprio.
Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in più di
un’occasione, sulle pagine de Il Popolo d’Italia» (per il quale curava la
cronaca di Torino), del trattamento riservato ai fascisti torinesi dalle
autorità cittadine, nonché della presunta campagna diffamatoria della
giolittiana La Stampa» nei confronti del Fascio di combattimento.
scriveva Gioda a Bianchi a un mese dall’entrata in funzione del Fascio -
procede benissimo e tra molto entusiasmo». Il Fascio si è imposto confermava di lì a poco a Mussolini e se noi non ci lasciamo sfuggire il
momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili»®!. Ma qual
era, in tutto questo, il vero ruolo di Gioda? Se egli era senz'altro
consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino
dall’accordo con l’oligarchia conservatrice piemontese, ci sembra però
scorretto affermare - com’è stato fatto - che egli ritenesse quella della
reazione antipopolare l’unica strada da battere». In realtà, l'approccio
dell’ex tipografo alla questione delle alleanze politiche, così come a
quella, più complessa, dell’orientamento generale del fascismo, era - e
sempre sarebbe rimasto - ben più problematico. Gioda, infatti, pur
difendendo il carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur
desiderando che ad esso accorressero tutte le forze sane, giovani,
italiane», senza distinzione di parte o di colore politico (perché il
fascismo doveva essere anarchicamente
- l’”antipartito”), teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo
e antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per dei
nemici del proletariato». Questa stessa esigenza fu da lui espressa al
primo convegno regionale dei Fasci piemontesi, all’inizio del giugno
1919%, e a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (d’ora innanzi MRF),
Carte del Partito Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di
Combattimento, Busta, Lettera di Gioda a Bianchi, Lettera di Gioda a Mussolini,
MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a
cura di Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, L'idea di antipartito
era già da tempo al centro della riflessione politica di Mario Gioda.
L’avversione alle forme tradizionali di organizzazione politica, già tipica
dell’anarchismo individualista, trovava del resto un corrispettivo nelle
nuove tensioni antipartitiche e antiparlamentari del dopoguerra. L’antipartito
aveva scritto Gioda vuol essere il sunto della nausea che
in Italia nutrono combattenti e produttori verso i politicanti». Contro
il feticcio partito», ormai incapace di conciliarsi coll’elettamente
dinamica modernità civile» (la nuova società scaturita dalla guerra), occorreva
suscitare l’idea sovvertitrice dell’antipartito», un'iniziativa iconoclasta
e squisitamente anarchica», in grado di restituire dignità e centralità
ai singoli individui (GIODA, L'antipartito, Il Popolo d’Italia). AI di là
dei riferimenti ai temi del reducismo e del produttivismo, tipici
dell’aumus del periodo e dai quali il “trincerista” e prossimo fascista
Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e individualista di
una simile impostazione di pensiero appare comunque evidente (non a caso
Gioda indicava in Henrik Ibsen uno dei padri spirituali
dell’antipartito). Sul concetto di antipartito nel primo fascismo
v. GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, GIODA, Aspetti del
fascismo torinese, Il Fascio Cfr, Il Popolo d’Italia riaffermata poi in più di
un frangente. Ad esempio, Il Popolo d’Italia» riportava un’intervista di
Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto, che l’autore stesso definiva un
saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel campo dell’organizzazione e del
socialismo italiano». L’intervista verteva sulla situazione dei
ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle otto ore
lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che l’approvazione, da parte
del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri» non poteva non
destare un senso di legittima soddisfazione», dal momento che vedeva
tutelati i sacrosanti diritti dei lavoratori». Il fatto che poi, in occasione
dello “scioperissimo, il Fascio di Torino assumesse, nei confronti
degli scioperanti, una posizione di aperta sfida‘, non muta i termini del
problema, in quanto l’iniziativa dei fascisti era ancora indirizzata
contro la politica “irresponsabile” dei bolscevichi (ed era pienamente
condivisa da tutti i partiti della sinistra interventista) e non contro la
totalità dei lavoratori!”. E’ però vero che, di fronte al
primo programma fascista, fortemente sbilanciato a sinistra‘î, Gioda -
come ricorda Felice - espresse qualche perplessità, soprattutto, lui
repubblicano, in merito alla cosiddetta pregiudiziale istituzionale. Qualcuno
-- scriveva il 6 giugno ad Attilio Longoni - è rimasto male poiché ha
intravisto tra le riforme anche quella definitiva della monarchia. Forse
è necessario mettere i puntini sugli “i” e Un manifesto, fatto
circolare dal Fascio torinese in quell’occasione, faceva intendere senza
mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero
intervenuti a tutela dell’ordine, onde salvare il paese dal tragico caos
bolscevico». Allo stesso tempo, il manifesto ricordava ai lavoratori che nessun
partito socialista ufficiale aveva scopi violentemente innovatori come i
Fasci di combattimento, e di immediata attuazione. Sullo “scioperissimo” a
Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. La Stampa». L’atteggiamento
dei fascisti nei confronti dello “scioperissimo” è ben rappresentato
dalle lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo
Mazzucato, che lavorava alla redazione de L’Ardito», il giornale
dell’Associazione fra gli arditi d’Italia, scrisse a Mussolini (che ne
definì la lettera un gesto di fierezza e di dignità») di non aver alcuna
intenzione di subire supinamente» le imposizioni della Federazione del libro,
il sindacato a cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul
posto di lavoro (Il Popolo d’Italia). Su Il Giornale del mattino» del 30 luglio
(organo ufficioso del Fascio bolognese, diretto da Pietro Nenni) comparve
una lettera non meno polemica del ferroviere Arpinati. Secondo il suo
primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica proprio in
occasione dell’assemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna,
il 20 luglio, allorché si sarebbe scontrato duramente con i colleghi
favorevoli all’astensione dal lavoro (cfr. NANNI programma, elaborato da
Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la
rappresentanza integrale, fu reso noto da Il Popolo d’Italia», chiarire i
nostri rapporti coi fascisti “monarchici”. La preoccupazione di Gioda era
dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri
interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in
netta preminenza, e non è difficile leggere nel qualcuno della sua
lettera a Longoni un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come
avrebbero dimostrato le vicende successive alle elezioni politiche, non
aveva rinnegato il proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi
dettate da considerazioni di ordine strategico e in questo senso,
piuttosto che in quello di un suo personale mutamento di rotta, devono
essere interpretate le sue pur numerose concessioni alla destra.
La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto
con la sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI,
socialisti riformisti), si presentò con sempre maggior forza in
previsione delle elezioni politiche dell’autunno. Si trattava di un
problema che coinvolgeva tutto il movimento fascista (e basti pensare al
travaglio che colse il fascismo romano a ridosso del voto) ”, ma che, a
Torino, prendeva un significato particolare. Già il primo agosto 1919, in
una nuova lettera all’amico Longoni, Gioda definì l’eventualità che si
addivenisse a un blocco elettorale di tutto l’interventismo di sinistra la soluzione preferita da Mussolini - una
sterile palla di piombo»”!. E’ chiaro che Gioda pensava a salvaguardare
l’unità del Fascio da lui guidato, dove le forze di destra, che erano
preponderanti, non avrebbero mai condiviso una piattaforma programmatica
che ponesse tra i propri obiettivi quello della costituente. Non a caso
il direttore de La Riscossa Nazionale» espresse il proprio rammarico per
le ripetute dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi
se anche i fascisti torinesi intendessero seguire il loro “duce” in
quella china”. Gioda, consapevole di doversi misurare con le ubbie
monarchiche di De Vecchi, intervenne a dissipare le perplessità dei
“destri”. Mussolini sostenne -
esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta,
almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale fascista.
Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere,
pregiudiziali di sorta. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. A Roma,
la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose
alla decisione, votata dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di
aderire alla “Alleanza Nazionale”, l’intesa elettorale promossa dai
liberali di destra e dai nazionalisti (cfr. Dichiarazioni futuriste sulla
situazione elettorale romana, Roma Futurista», 2 novembre FELICE,
Mussolini il rivoluzionario RAVA, Posizione di battaglia, La Riscossa
Nazionale», 3 agosto 1919. Se fuori dal Fascio affermava Gioda - stimo politicamente certi
nazionalisti di indubbio valore e intelligenza, al Fascio io non ne
conosco nessuno. Così come ignoro repubblicani, monarchici, socialisti,
radicali, anarchici e sindacalisti. AI Fascio, che non può essere un
partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un dato programma di
realizzazione immediata. Tra parentesi, sono stato proprio io, anarchico,
a proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista,
e Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio” Ora, ciò che
queste parole mettevano in evidenza non era soltanto uno scrupolo
elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il carattere
antidogmatico dell’idea fascista; una presa di posizione tipica della
vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel caso
specifico di Mario Gioda, è possibile scorgere (almeno in qualche misura)
anche il retaggio dell’anarcoindividualismo. Non è privo di significato,
d’altronde, che il fascista Gioda, consapevole della novità rappresentata
dal fascismo rispetto alle categorie politiche d’anteguerra, richiamasse
tuttavia la propria identità di anarchico, e non già come semplice
attitudine o abitudine mentale, ma come un dato di fatto politico. In
ogni caso, chiarito che il fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva
propositi sovversivi, Gioda poté confermare che il Fascio di Torino
avrebbe davvero costituito l’asse per una grande intesa degli
interventisti» in vista delle elezioni; ma che questa. sarebbe appunto
avvenuta fascisticamente», fuori dagli schemi destra-sinistra, ormai
superati, astraendo dal colore della tessera di partito». La
“marcia di Ronchi” e l’occupazione militare di Fiume da parte di
Gabriele. D’Annunzio parvero poter accelerare questo processo di
unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore
di in “comitato pro Fiume” (ne sorsero di analoghi un po’ in tutta
Italia), nel quale erano rappresentate tutte le forze “nazionali”, di
sinistra e di destra, dai repubblicani ai nazionalisti”. Ma si trattava
di un entusiasmo passeggero, che avrebbe ben presto ceduto il passo a una
più grande incertezza.GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, tai Ip.,
Gli aspetti del fascismo torinese, cit. Nel corso di un’adunata del
Fascio torinese alla presenza del segretario politico generale del
movimento Pasella, Gioda ribadì che a Torino i fascisti si sarebbero
battuti per un’intesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr. Il
Popolo d’Italia Cfr. Il Fascio. Dal congresso fascista di Firenze non venne
affatto, contrariamente alle aspettative del segretario del Fascio
torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo defilato), un’indicazione univoca
in senso elettorale. Alla relazione di Bianchi, fautore di una linea
politica possibilista (la politica del “caso per caso”), fece da
contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in modo non esplicito,
lasciò però trasparire l’intenzione di perseguire l’accordo con le
sinistre interventiste”’. Quel che ne uscì fu un ordine del giorno
compromissorio, che, di fatto, lasciava libertà di azione ai singoli
Fasci. Questa libertà, venuta meno ogni possibilità di accordo a sinistra,
finì per concretarsi nell’alleanza con la destra liberal-nazionale (nella
sola Milano, infatti, il fascismo riuscì nell’intento di presentare una
lista autonoma) 7”. I deliberati del congresso di Firenze,
nella loro elasticità, andavano sostanzialmente nella direzione auspicata
da Gioda, il quale, libero da condizionamenti di sorta, poté rivolgersi
alle forze politiche torinesi con l’invito ad abbandonare le fazioni» e a
dar corpo ad un potente fascio di energie», in funzione antibolscevica e
antigiolittiana”. Per questa via si addivenne infine alla costituzione di
un “Blocco della Vittoria”, peraltro chiaramente orientato a destra,
quanto meno nella sua composizione. Ne facevano parte, infatti, radicali,
liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali alcuni membri del
disciolto “Fascio Parlamentare” (Daneo, Sull’occupazione di Fiume e le sue
ripercussioni sul movimento fascista v. VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e
l'avvento del fascismo Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume,
Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, LEDEEN, D'Annunzio a Fiume,
Bari, Laterza, PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, e
OSTENC, Si veda inoltre l’introduzione di Renzo De Felice a ANNUNZIO, La
penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, Cfr. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in
via dei Cimatori, nei giorni (per la cronaca v. Il Popolo d’Italia). Vecchi
entra a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza
dei Fasci piemontesi. Di tale lista faceva parte Edmondo
Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di combattimento di Milano al
momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori della
sede dell’ Avanti!. La sua candidatura
scriveva Il Popolo d’Italia»
significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per
formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione. Nella lista
dei Fasci egli rappresenta l’operaio onesto e che non usurpa il nome di
lavoratore». Mazzucato risultò 14°, su un novero di 19 candidati, con 56
voti di preferenza. GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, Il Popolo
d’Italia», 24 ottobre 1919, e Il Fascio», Bevione e l’ex Presidente del
Consiglio Boselli), mentre il Fascio vi era rappresentato da quattro
combattenti: De Vecchi, il generale Etna, già comandante del corpo
d’armata di Torino (deposto su ordine di Nitti nel settembre), il
maggiore degli alpini Garino e il capitano Revelli”. L’Unione Socialista
Italiana, che in un primo momento sembrò poter entrare nel “Blocco”, se
ne tirò fuori quasi subito, per far causa comune con i repubblicani nella
“Alleanza Elettorale”®°. A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto
di aver imboccato una strada a rischio. Si nota infatti, nella sua
attività politica prima delle elezioni, la preoccupazione ricorrente di
non far apparire la lista del “Blocco della Vittoria” troppo sbilanciata
a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo illustrativo per Il
Popolo d’Italia» - era la più organica», la più rappresentativa anche
delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un contenuto sociale notevolissimo»?
In particolare, egli rimarcava ancora una volta che il fascismo intendeva
combattere il bolscevismo, non i lavoratori nel loro insieme, ed operava
altresì una netta distinzione tra “pussisti” e socialisti rivoluzionari.
Un accenno alla lotta contro il bolscevismo scriveva Gioda a commento di un passo
della piattaforma elettorale del “Blocco” - non è troppo felice. Si confuse,
da Cfr. Il Popolo d’Italia», 25 ottobre 1919. AI “Blocco
della vittoria” non aderì la sezione torinese dell’ Associazione
Nazionale Combattenti, che si pronunciò a favore dell’astensione. Nel
corso di un'assemblea del Fascio, Gioda critica duramente la scelta dei
combattenti, non tanto perché non ne condividesse le ragioni ideali (la
volontà, cioè, di non compromettersi nella lotta parlamentare), quanto,
piuttosto, perché la riteneva controproducente sul piano tattico. I
fascisti disse Gioda hanno accettato anche la lotta schedaiuola per
rintuzzare, ovunque e comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali
dei socialisti ufficiali». Si noti che, nel testo originale autografo del
discorso di Gioda, la parola anche è sottolineata, a evidenziare il
carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale
fascista. ACS, MRF, Esposizione, Busta[Documenti]. Il Fascio commentava a questo riguardo Gioda non ha potuto far blocco con l’Unione
Socialista Italiana, cioè con i bissolatiani, non tanto per divergenze
programmatiche, quanto per la diffidenza di questi ultimi verso i
nazionalisti ed anche perché la USI vorrebbe impostare la campagna
elettorale “prescindendo” dall’interventismo e dal neutralismo. GIODA,
/nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, Il
Popolo d’Italia). Il programma elettorale del Blocco della Vittoria.
Tra i postulati del programma elettorale del “Blocco della Vittoria”
figuravano: l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la
riforma scolastica, quella del sistema doganale (per abbattere parassitismi
e monopoli») e della burocrazia, l’assicurazione obbligatoria contro
l’invalidità, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma degli organi
legislativi che garantisse alla classe lavoratrice [...] una diretta e
specifica rappresentanza». nisticntiititnm parte dei redattori del
programma, “socialismo rivoluzionario” e “bolscevismo”. Ora, i maggiori e
migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario sono
antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora,
da Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del
socialismo rivoluzionario. Le elezioni del 16 novembre videro, come noto,
la sonora sconfitta dei fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file
del “Blocco della Vittoria” i soli Bevione e Boselli; primo dei fascisti
in ordine di preferenze riuscì Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino. Rispetto
alla vera e propria débacle registrata dal fascismo in altre parti
d’Italia, non si trattava di un esito disastroso, ma occorre tener
presente che i fascisti in quanto tali non ottennero alcunché (Bevione e
Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo parlamentare
giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne, sottolineava il
rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di brillante
risultato»**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di
una ben magra consolazione . su In verità, la sconfitta
bruciava e fu anzi l’occasione per un chiarimento all’interno del Fascio
di Torino. Si riunì l'assemblea generale dei fascisti torinesi. Gli
operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo Ruggeri, spalleggiati da Gioda,
criticarono l’involuzione conservatrice del Fascio, sostenendo la
necessità di un più stretto rapporto con i lavoratori delle fabbriche??.
Riguardo all’alleanza con le destre, Gioda dichiara Per l’esattezza, il “Blocco
della Vittoria” riporta 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti
unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dell’Aratro, i
10.093 del Partito Economico, i 6.547 dell’Alleanza Elettorale, e i 1.642
del Partito Agrario. Per un quadro esauriente dei risultati elettorali
nel capoluogo piemontese v. La Stampa». GIODA, / risultati elettorali ottenuti
dal Fascio di Torino, Il Popolo d’Italia», 28 novembre 1919.
#5 Cfr. Il Fascio», 20 dicembre 1919. Mi l Pilo Ruggeri, che aveva
militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala
operaista del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni è ben testimoniato da
un suo discorso al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per
lo più di socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a
illustrare l'essenza rivoluzionaria e proletaria del programma fascista,
evidenziandone le differenze ma anche le affinità con quello socialista,
in ciò rivelando il timore comune anche
a molti altri fascisti - che una troppo accentuata politica
antisocialista potesse condurre all’isolamento del movimento fascista
dalle masse. E’ significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante
le aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con
gravi incidenti tra fascisti Io stesso propugnai i blocchi a larga base,
ma credo che oggidì occorra molta, ma molta circospezione prima di avventurarsi
ancora in altri blocchi, se non vogliamo [...] negare sempre la nostra
giovinezza d’idee e la nostra combattività a beneficio dei vecchi partiti
e dei vecchi loro rappresentanti. Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio,
eletta subito dopo, entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri,
Cantinetto e Giraudo) L’allargamento della base del Fascio - come auspicava
Gioda (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire
la ripresa, in vista di nuovi cimenti» e di più gagliarde lotte politiche
e sociali»**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e credibilità a
sinistra restò senza seguito. L’assenza di una base reale tra i
lavoratori (a fronte di un movimento operaio forte e, a Torino più che
altrove, schierato su posizioni di avanguardia), le irrisolte
contraddizioni della politica fascista - rese ancor più stridenti dalla
nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le resistenze della
destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe più opportuno
parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima metà
del 1920 il fascismo torinese attraversò quindi una fase di ristagno, per
non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le
sorti”, tanto che l’unico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu
la costituzione, accanto al Fascio, di una “Avanguardia Studentesca”,
In occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel
maggio, Gioda pronunziò un importante discorso, che, sebbene non si discostasse
granché da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un
nuovo mutamento di prospettiva politica, nel senso di un’attenuazione
delle velleità operaiste. L’insuccesso della linea di sinistra propugnata
da Gioda e il prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un
indirizzo e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS,
Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. 80 Il
Fascio», cit. n Cfr. Il Popolo d’Italia», 25 dicembre 1919. Di GiODA,
Un appello ai fascisti torinesi, Ivi. AI riguardo v. EMMA MANA, op.
cit., p. 251 ss. 2 bt “Avanguardia Studentesca” torinese, nata alla fine
di aprile del 1920, era presieduta dallo studente d’ingegneria e mutilato
di guerra Carmelo Cimino, già membro della nuova Commissione Esecutiva
del Fascio. Cfr. Il Fascio. Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in
generale, sui rapporti tra fascismo e associazionismo giovanile, l’opera
più circostanziata rimane quella di NELLO, L'avanguardismo giovanile alle
origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza marcatamente reazionario, limitavano
del resto i margini di manovra del fascismo torinese. Ancora nell’aprile,
in risposta della grande agitazione dei metallurgici (il cosiddetto
“sciopero delle lancette”), un manifestino del Fascio, vergato a mano da
Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il bolscevismo - che
aveva corrotto l’idea socialista di giustizia e di libertà» -, per
stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali erano per le più ardite
riforme e le più audaci rivendicazioni dei lavoratori», purché queste non
significassero la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione»?!.
Nel discorso del maggio l’accento si spostò (mazzinianamente, potremmo
dire) dal piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con
un’accentuazione dei temi più strettamente produttivistici. I
fascisti dice Gioda sono delle volontà e delle capacità che
seguono direttive senza dogmi e senza battesimi politici. Per questo sono,
all’occorrenza, rivoluzionari e conservatori. Vogliamo tutti i diritti
rivendicati al popolo lavoratore, se questo sa assolvere tutti i suoi
doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere è una bestia
da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica
possono asservire. La questione del proletariato, invece, è un altra cosa. E’
una questione innanzitutto di capacità, all’infuori delle ciance
rivoluzionarie e parlamentari. E” una questione di volontà superiori
maturate attraverso l’esperienza produttiva di tutte le energie
nazionali”? Gioda prese parte al secondo congresso nazionale
fascista, che si riunì a Milano, quello della svolta a destra e
della °! ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Il Fascio,
cit. Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in
parte dal suo passato anarchico e repubblicano, e le ragioni del
compromesso (senza però tralasciare di considerare che la disinvoltura
programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo
fascista), accompagnò tutta l’opera di Gioda. Durante l’adunata provinciale dei
Fasci piemontesi, ch’ebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda,
commentando la relazione di Umberto Pasella sulla questione sindacale,
difese il principio, in essa affermato, della legittimità dello sciopero
economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte, un
cattivo padrone e un pessimo amministratore». 1 Fasci di combattimento, per
Gioda, non dovevano essere organizzazioni di guardie bianche o comitati
di difesa civile» e avevano il dovere di battersi per qualsivoglia
riforma, sia pur audace», quando essa avesse arrecato beneficio ai
lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto
caro all’ala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese
auspicò la trasformazione del movimento politico e sindacale fascista in
un unico “partito del lavoro”. ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti].
Sui presupposti ideologici del “partito del lavoro”, €, più in generale,
sugli orientamenti “laburisti” all’interno del fascismo. GENTILE., e
soprattutto NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista,
Bologna, Il Mulino, conseguente trasformazione del movimento”. D’altro canto,
l’ingresso di Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di
De Vecchi, rappresentò - come ha sottolineato Felice - l’unico
successo dell’ala sinistra del fascismo”. Al riconoscimento di Gioda sul
piano nazionale non corrispose però il rafforzamento della sua
leadership nell’ambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi,
le elezioni per il rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro
la netta affermazione della destra’””. De Vecchi, chiamato a presiedere
la Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la
propria influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia
costringevano Gioda a forzati periodi di assenza dalla scena politica
cittadina. Da questo momento, insieme al progressivo dilagare dello
squadrismo, di cui Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di
Torino riprese la sua espansione’. Gioda, dal canto suo, recuperò il
proprio ruolo soltanto a I nuovi “Postulati” programmatici del
movimento fascista, approvati a Milano, modificavano radicalmente in senso conservatore - il programma
fascista. Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e
la richiesta dell’assemblea costituente (l’anarchico Ghetti,
rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i pochi a pronunciarsi per
la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo, Marinetti e
il gruppo dei futuristi abbandonano il movimento. Per il resoconto del
congresso v. Il Popolo d’Italia», e Il Fascio. Sull’intera vicenda v. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario Cfr. Il Fascio». Il ritorno in auge di De Vecchi fu
senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo torinese
nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita un’assemblea
straordinaria del Fascio per decidere circa l’atteggiamento da assumere
di fronte alla crisi di governo. Caduto il secondo gabinetto Nitti, si
prospettava infatti l’eventualità di un esecutivo affidato a Giolitti: una
soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso
dell’assemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente
contrario a ogni intesa con i giolittiani, definendo un’ingiuria alla
nazione vittoriosa» il rientro sulla scena nazionale dell’uomo politico
di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i fascisti di
Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata
assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno
contro Giolitti, Il Fascio). Di fronte alle resistenze incontrate
all’interno del Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei
vertici del movimento, decisi a perseguire l’accordo con Giolitti, Gioda
si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilità di
affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a
convocare la nuova assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo
della Commissione Esecutiva. Su questi avvenimenti v. MANA. Con
l’occupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le
violenze fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del
settembre contribuirono a legare il fascismo torinese agli ambienti del
grande capitale (che si erano visti minacciare nei setter
cirrretricdatietnttittztt sac, allorché assunse la direzione del nuovo
settimanale del fascismo torinese: Il Maglio. Rocca: il fascismo come nuova
élite AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo
Rocca. Le sue conclusioni non dovettero dispiacergli, se è vero - come ha
lasciato scritto - che egli non si era entusiasmato all’originario
programma sansepolcrista, giudicandolo troppo impeciato di socialismo. Ma
Rocca, sia pur attento osservatore delle traversie del fascismo, era
ancora prevalentemente un giornalista. Inizia le pubblicazioni la
rivista settimanale Il Risorgimento». L’intendimento della redazione,
guidata dal conte Arrivabene, ex direttore de La Perseveranza», era
chiaro: occupare lo spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese
dopo la sua conversione al “nittismo”, fare un giornale che riflettesse
le idee e le aspirazioni della borghesia conservatrice. Poiché Rocca ne
divenne uno dei più continui e più stimati collaboratori, le credenziali
dell’ex novatore anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono
senz'altro irrobustite. Sulle pagine de Il Risorgimento» Rocca riprese la
polemica adriatica. E’ indispensabile ritornare sull’argomento, perché fu
proprio su tale delicata questione che si venne realizzando l’incontro
definitivo tra Rocca e Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere
dalla sua intransigenza, scagliandosi contro la Lissa diplomatica», cui,
a suo parere, la politica dei rinunciatari avrebbe condotto il Paese”.
Quasi nello stesso tempo, tuttavia, prese ad emergere, dai suoi scritti,
una posizione diversa, più conciliante e realistica. Di fronte alle mille
difficoltà frapposte dagli Alleati e dalla Jugoslavia alle rivendicazioni
italiane, Rocca si persuase che la sola via loro interessi e non si
sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul iano
dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Il Maglio», fondato
dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel
gennaio, evolvendo dal quotidiano La Patria», un foglio interventista
vicino ai nazionalisti. Per l’esattezza, Gioda ne ereditò la
direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la rubrica “Senza
guanti” (che usava firmare con il vecchio pseudonimo l’Amico di Vautrin), una
finestra polemica sulla realtà nazionale e cittadina che lo vide impegnato in
schermaglie a distanza con la stampa avversaria, in particolare con
Ordine Nuovo», organo del PCdI torinese. 9 Massimo
Rocca, Come il ‘fascismo divenne una dittatura TANCREDI, La lingua nostra, Il
Risorgimento», Milano, d’uscita fosse quella dell’applicazione integrale
del patto di Londra del 1915. Consapevole che ciò sarebbe equivalso a
rinunciare a Fiume, Rocca (che pure aveva avuto una breve esperienza come
legionario dannunziano) !° si disse convinto che la città, confinante con
un'Italia signora del Carso, delle Alpi Giulie, dell’Istria e dell’
Adriatico», si sarebbe sentita infinitamente più forte», che se fosse
stata abbandonata, senza continuità territoriale, ad una larva di
sovranità italiana»'”. Dopo l’avvenuta autoproclamazione di Fiume in
stato indipendente, Rocca si rafforzò nella convinzione che l’Italia non
dovesse legare i propri destini a quelli della città “martire”. In un articolo
gli elogi di prammatica al coraggio e alla “fede” della popolazione
fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano d’Annunzio. Noi
- scrive Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dell’annessione di
Fiume all’Italia. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi,
l’Italia non può contemporaneamente annettere la città del Quarnaro e
realizzare il Patto di Londra: anzi, che nella nostra lotta diplomatica
in difesa dell’ Adriatico e contro gli Alleati, l’eroica passione di Fiume
è più d’impaccio che d’aiuto. Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla
Carta del Carnaro (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui
stesso auspicate sul piano dell’ordinamento politico), non ne scalfiva
l’opinione che la reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle
aspirazioni internazionali dell’Italia. L’ambizioso esperimento fiumano
era, in ogni caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo,
stipulato 100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi Rocca, giunto a Fiume subito dopo
la “marcia di Ronchi”, vi era rimasto per circa tre mesi, durante
i quali aveva gestito l’ufficio di propaganda estera di D’Annunzio. A Fiume si
erano ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali
Mazzucato e Malusardi. !°! LiBeRO TANCREDI, La sfîda di Nitti, Il
Risorgimento», 20 maggio 1920. !°2 Ip., L'Adriatico e l'Europa. In
particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta d’Ambris
e messa in bello stile d’Annunzio) fosse sancito il dovere di produrre,
quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte
questo, egli condivideva l’abolizione del Senato e l’istituzione di un
camera tecnica, espressione delle diverse corporazioni professionali. Le
corporazioni, secondo Rocca, erano l'istituto fondamentale», il solo in
grado di raccogliere e disciplinare» le masse e di dar loro una norma e
un’idea». (ID., La costituzione di Fiume). Nondimeno, al di là delle
convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente
conservatore di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo
integrale deambrisiano. Sulla costituzione fiumana si veda La Carta del
Carnaro nei testi d’Ambris e d'Annunzio, a cura di Felice, Bologna, Il Mulino,
eli ita tra l’Italia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse
un duro colpo alle velleità indipendentiste del “comandante”. In due suoi
interventi su Il Popolo d’Italia», scritti a ridosso dell’accordo
italo-jugoslavo, Mussolini mostrò di accettare sostanzialmente l’esito
dei negoziati!”. Si trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata,
frutto di un preciso calcolo politico (in questo modo il “duce” avrebbe
realizzato il suo inserimento nel gioco politico-parlamentare a livello
nazionale») ', che disorientò la maggior parte dei fascisti ma trovò
consenziente Massimo Rocca. Il Comitato Centrale dei Fasci di
combattimento si riunì per discutere della questione. Rocca, presente
come semplice osservatore (e perciò senza diritto di voto), si schierò
apertamente dalla parte di Mussolini, imitato dal solo Rossi. Il Trattato
di Rapallo - dice Rocca - risolveva il problema adriatico dal lato di
terra, mentre lasciava insoluta la questione dell’ Adriatico centrale e
meridionale. Riguardo a quest’ultimo punto, il suo parere era che i
fascisti dovessero far buon viso a cattiva sorte, senza perdersi in uno
sterile massimalismo e soprattutto senza assecondare improbabili disegni
di sedizione militare. Non si trattava - sostenne ancora Rocca
riecheggiando le tesi espresse negli articoli di Mussolini!” - solo di
una ragione di opportunità, in quanto il problema marittimo per l’Italia
non si fermava all’ Adriatico», ed era quindi uno sbaglio ostinarsi a
considerare Fiume e la costa Dalmata come l’unico obiettivo. Occorreva
guardare oltre, avere una visione più ampia dei problemi di politica
estera. O noi concluse
Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni d’Italia e
facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure
persuadiamoci che impiantare una politica estera armata accanto a quella
ufficiale, senza essere capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe
forse essere un male gravissimo MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, Il
Popolo d’Italia», 12 novembre 1920, e Ciò che rimane e ciò che verrà,
. Su questi fatti v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Gioda,
che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e
fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di
combattimento. Il Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana, Il
Popolo d’Italia», Gli italiani scrive
Mussolini nel suo fondo non devono ipnotizzarsi sull’Adriatico.
C'è anche se non ci inganniamo un vasto mare di cui l'Adriatico è un
modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilità vive
dell’espansione italiana sono fortissime. La discussione e il voto dei Fasci
italiani di combattimento, cit. Dopo accese discussioni, la riunione
terminò con l’approvazione di un ordine del giorno unitario, largamente
compromissorio, che, se snaturava completamente la primitiva mozione di
Mussolini»! apparendo come un successo della corrente filo-dannunziana,
in realtà non andava oltre una generica dichiarazione di solidarietà a
D'Annunzio e non comprometteva affatto la strategia del duce, come gli
avvenimenti delle settimane successive, culminati con il non intervento
fascista in occasione del “Natale di sangue”, avrebbero ampiamente
dimostrato. Il giorno dopo la riunione del Comitato Centrale, Rocca
scrisse a Mussolini di non aver votato contro l’ordine del giorno (come
aveva fatto Rossi) solo in quanto non ne aveva legalmente» diritto,
riconfermando la propria solidarietà al duce. Da quel giorno Rocca entra a
pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non soltanto, infatti, riprese la
collaborazione con Il Popolo d’Italia» (per il momento continuando ad
occuparsi del problema adriatico, sempre nell’ottica mussoliniana) !'?,
ma iniziò l’ascesa politica che, nel giro di pochi mesi, lo avrebbe
portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di Rocca si
rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta dal
fascismo all’indomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli
era andato sviluppando posizioni sempre più conservatrici. Nella sua
riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed
economico attraversato dall’Italia andavano rintracciate, oltre che
nell’ignavia e nell’incapacità dei suoi governanti, nell’irresponsabilità
delle classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e
dedite allo sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di
un gaudentismo sfarzoso e gastronomico»"!. Da qui - secondo Rocca -
il dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole
manovre politiche che mettevano a repentaglio l’integrità della
produzione. A fronte di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente il
dovere di resistere e di FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1
’intesa italo-jugoslava - recita l’ordine del giorno ispirato dalla destra
fascista (Pietro Marsich, De Vecchi, ecc.) - era insufficiente per
Fiume», nonché deficiente ed inaccettabile per la Dalmazia».
!!! Il Popolo d’Italia !2 gi vedano, in modo particolare, gli
articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello marittimo, e Il
trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25
novembre 1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono
raccolti da Rocca in un volume dal titolo // trattato di Rapallo: una
pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nell’estate del 1921
per le edizioni de Il Popolo d’Italia». !!3 Massimo Rocca, La crisi
maggiore, Il Risorgimento Gli articoli citati facevano parte delle
rubrica “Pagine economiche”, di cui Rocca è il principale
curatore. vincere»"!, ma troppo spesso paralizzata dalla
bassezza dei ceti dirigenti, burocratici e parassitari, assolutamente non
in grado di comprendere i fenomeni sociali ed economici del regime
capitalistico industriale»!!5. Il nodo ultimo della crisi italiana
risiedeva pertanto, a detta di Rocca, nella perdurante e anacronistica
separazione netta fra la casta burocratica e la classe borghese, e nella
sopraffazione della prima sulla seconda, mentre l’economia andava sempre
più controllando la politica, fino ad imprimerle le sue necessità e
direttive» '!°. A questo stato di cose occorreva rispondere con la rivoluzione
della competenza»: la rivoluzione della classe borghese. La borghesia
produttiva, la sola capace di gestire con criteri tecnico- produttivi»
tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva l’obbligo
morale di realizzare un rivolgimento aristocratico» della società
italiana. Solo così, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando
effettivo sarebbero tornate in mano ai migliori, anziché ai molti, ai capaci
e ai competenti». Alla borghesia, finalmente consapevole della
propria autorità, sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo,
di cooptare in questo processo la parte migliore e più responsabile del
proletariato”. In attesa che ciò avvenisse, Rocca suggeriva una serie di
provvedimenti che, a suo modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le
storture del sistema economico, a cominciare dalla privatizzazione dei
servizi essenziali. Se si vuole che si lavori scriveva Rocca - bisogna tornare allo
stimolo dell’interesse e del puntiglio individuale, alla precisione ed
all’accrescimento delle responsabilità singole, a misura che i diritti e
gli stipendi aumentano; all’abolizione radicale dei privilegi di cui
godono i funzionari pubblici»!!8, Dopo l’occupazione delle
fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure “draconiane” contro gli
eccessi del bolscevismo!"°. Il primo obiettivo di un governo che
avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di reintegrare
il pieno dominio della legge», senza indulgere a pietismi
TANCREDI, Scioperi politici. L'articolo in questione fu scritto da Rocca a
seguito della vertenza dei metallurgici torinesi. ROCCA, La crisi
maggiore, ID., La disperazione dei servizi pubblici, si In seguito, Rocca
tornò più di una volta sulla convenienza di restituire ai privati
l’esercizio dei servizi essenziali (si veda, a titolo di esempio,
l’articolo / servizi che non servono il pubblico). La privatizzazione
avrebbe costituito uno dei cardini del programma economico fascista,
elaborato da Rocca con Corgini. Cfr, ID., La vertenza dei metallurgici,
democratici. Come si rileva da un articolo Rocca pensa a una qualche
forma di “dittatura”; a un uomo nuovo», che avesse già fornito prova di volontà
e di giustizia», il quale avrebbe potuto far cessare l’orgia di tutti i
disordini. Non è chiaro se egli si riferisse direttamente a Mussolini, ma
è molto probabile. E’ comunque significativo - come si evince da quello
stesso articolo - che Rocca ritene l’assunzione dei pieni poteri una
soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata
l’emergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo,
ma solo in quanto strumento temporaneo dell’azione politica fascista, utile
a frenare le prepotenze e le intemperanze dei rossi, Quando la
violenza fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non
avrebbe indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro
l’estremismo squadristico, in difesa della legalità. Non riteniamo
esservi contraddizione nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di
condanna - assunto da Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo
la “marcia su Roma”. Certamente, egli non seppe o non volle vedere la
gratuità e la scelleratezza delle violenze fasciste del periodo “eroico”,
e, in senso più ampio, che quelle violenze erano il frutto di una visione
totalitaria della lotta politica, visione connaturata all’essenza stessa
del fascismo, che nello squadrismo (e prima ancora nella mentalità
squadristica, esprimente non soltanto un disegno rivoluzionario ma,
spesso, un ri verso la vita in generale) aveva il proprio stile politico
qualificante‘; ma occorre tener presente che Rocca si poneva, appunto,
dall’angolo visuale del fascismo, vale a dire da una prospettiva di
parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da guerra
civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie
nere fosse la risposta più che legittima alla violenza antinazionale dei i Ip.,
Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920. In un
commento a margine dell’assalto a Palazzo D’Accursio guidato dalla sua ex
guardia del corpo Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto
di vista sullo squadrismo. I fascisti scrisse costituiscono oggi un comodo paravento per
scusare alle masse l’inanità anche della violenza [...]. E costituiscono
anche un pietoso alibi per giustificare, di fronte alla borghesia non
morta ed al codice penale non ancora abolito, una propaganda ed un’azione
da veri delinquenti. Ma è troppo noto che, senza i fascisti, la violenza
delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe più indisturbata e non meno
atroce» (Ip., Bologna, Sulla violenza come aspetto caratterizzante della
cultura e dell’azione politica fascista v. il fascicolo n. 6, 1982, di Storia
Contemporanea», per la maggior parte dedicato all’argomento,
particolarmente il saggio di NELLO, La violenza fascista ovvero dello
squadrismo nazionalrivoluzionario, Dello stesso autore v. anche le
riflessioni in merito contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini
del fascismo, cit., e Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di
Pisa, Pisa, Giardini, “pussisti”. Ciò non toglie che egli, dopo l’ascesa
al potere di Mussolini, reputando esser venute meno, con la sconfitta dei
socialcomunisti, le ragioni dello squadrismo, fosse in buona fede nel
denunciare il perdurare dell’illegalità fascista. Rocca consolida
la sua già rilevante posizione all’interno del movimento fascista. Un suo
articolo in difesa della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il
giornale di Mussolini, contribuì a rinfocolare il dibattito circa
l’orientamento istituzionale del fascismo. I fascisti - sostenne Rocca -
dovevano schierarsi a tutela dell’istituto monarchico, non solo per
motivi di opportunità strategica (una rivoluzione repubblicana avrebbe
infatti rimesso in gioco le forze del sovversivismo, a tutto danno degli
equilibri interni del Paese e del fascismo stesso), ma anche in ossequio
a più complesse valutazioni politiche (monarchico di ragionamento, si
autodefine Rocca molti anni dopo) 1a, che investivano l’intero assetto
della realtà nazionale. La società economica e politica che va sotto
l’appellativo convenzionale di borghese - scrive Rocca - si è capovolta
nel suo contenuto produttivo ed ideologico. Economicamente essa è
sindacalista e non più individualista: tanto che l’economia tende ad
assorbire la politica, compresa quella estera. Se una rivoluzione è
matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da
arena diurna, è quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di
forza se divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed
operai, e gli organismi sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai
politicanti, ai demagoghi. La funzione dei Parlamenti è oggi totalmente
diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi erano le
rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove é/ites in cui
il popolo rispecchiava se stesso. Oggi il Parlamento [...] è diventato
pur esso una casta chiusa [...] non meno delle più diffamate monarchie. E
allora resta da chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della
Nazione convenga meglio aver di fronte una sola casta, quella
parlamentare, o non sia meglio averne due, cioè anche quella monarchica,
per usare dell’una qual mezzo di controllo e di pressione sull'altra. ROCCA,
La realtà italiana, ABC. ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, Il Popolo
d’Italia» (anche in ROCCA, /dee sul fascismo). L'articolo di Rocca,
scritto in forma di lettera a Mussolini, fa parte della rubrica
“Orientamenti e discussioni”, inaugurata da Il Popolo d’Italia» in previsione
delle adunate regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato
Centrale del movimento nel gennaio, avrebbero dovuto fare il punto sullo
stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee orientative
dell’azione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su
cui era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre,
curate rispettivamente da Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e
Pasella, concernevano il problema agrario, i A prescindere dai cenni di
natura tecnico-politica, ciò che ancora una volta emergeva da queste
frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione di Rocca.
Non deve perciò stupire più di tanto il fatto che egli, dopo aver
rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,
riscoprisse il carattere “esclusivo” della tradizione monarchica (così
come, più tardi, avrebbe riscoperto l’importanza etica del cattolicesimo)
Del resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco d’implicazioni
psicologiche e di riferimenti autobiografici più o meno espliciti, Rocca
espresse il convincimento che l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno
parziale, d’individui singoli o di piccoli gruppi», e che l’ascesa e
l'emancipazione, come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi,
un’auto-ascesa, un’auto-emancipazione, un auto-insegnamento. Era dunque
necessario - chiude Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo
inequivocabile la matrice individualista della sua cultura politica) -
“tornare agli individui” e farla finita una volta per sempre con il culto
demagogico della massa. Malusardi: il mito del fascismo libertario”
Il 1921 vide inoltre l’ingresso nelle fila fasciste di Malusardi.
Conclusa una breve militanza nell’ Associazione Nazionale Combattenti!?”,
rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva
uno dei punti chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci
lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe luogo al Teatro Lirico di
Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci “ i
combattimento, Il Popolo d’Italia. ROCCA, Una questione da non risolvere, Il
Risorgimento. La questione menzionata nel titolo era quella “romana”, che Rocca
riteneva non dovesse essere risolta, nell’interesse d’Italia e dello
stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il proprio carattere di
universalità. L’articolo conteneva un giudizio altamente positivo della funzione
storica e persino politica» del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la
Chiesa e la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire.
E’ probabile che quest’interesse fosse da attribuirsi ad un’autentica
conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in seguito, Rocca
pare interessato al cattolicesimo più e altro come a un elemento di
autorità e di disciplina interiore. te ID., Quarto e quinto stato. La
seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo della
rivista, il 3 marzo. In esso Rocca ribadiva l’idea che fosse doveroso,
oltre che utile, “educare” il proletariato, così da poterne estrarre un
nucleo scelto, un’é/ite responsabile in grado di cooperare con la
borghesia alla gestione della produzione. Spintovi dalla passione trincerista,
Malusardi adere entusiasticamente all’ ANC (per qualche tempo ricoprendo
la carica di redattore capo de L'Eco della Vittoria», organo della
sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al
Congresso nazionale di Napoli perché contrario ai ventilati propositi di
trasformazione Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con
Il Fascio» e (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale)
una altrettanto frammentaria attività di propagandista per conto del
Comitato Centrale fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove era
stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa
anche quell’esperienza Malusardi giunse a Verona, chiamatovi da Italo
Bresciani, segretario politico del locale Fascio di combattimento (nonché
ex anarcointerventista) '’’, noto per rappresentare l’ala di estrema
sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e apprezzava le
doti di organizzatore di Malusardi, gli affidò l’incarico di segretario
propagandista del Fascio. La scelta si rivelò azzeccata, poichè
l’anarchico lodigiano riuscì ad imprimere al fascismo veronese non solo
un maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilità politica. Come
prima cosa Malusardi dette vita a un giornale (Audacia»), che
doveva immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero,
contribuendo al graduale inserimento del Fascio nella realtà scaligera.
Egli, in particolare, vi affinò le proprie qualità giornalistiche,
rispolverando tra l’altro una rubrica dei tempi de La Guerra Sociale»
(“Foglie d’ortica”), che divenne un punto di riferimento importante nella
dialettica politica cittadina. Come si è detto, Malusardi proveniva da
Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla fede repubblicana e
a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni libertarie,
retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la Carta del
Carnaro e il sindacalismo nazionale di Corridoni il suo compagno di trincea - e Alceste De
Ambris. Nel Fascio veronese, dell’Associazione in partito. A parte i suoi
articoli per L’Eco della Vittoria», per lo più improntati al tema
dell’apoliticità del movimento combattentistico, l’attività di Malusardi
in seno all’ ANC non è agevolmente documentabile. Anche sulle date
dell’arrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi è incertezza. Il
Fascio» riporta un avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle
Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere con la
Segreteria Politica», annunciando che Malusardi non ricopriva più
l’incarico di segretario propagandista del Comitato Centrale, in quanto,
già da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella città “olocausta”
Malusardi diresse altresì il foglio sindacalista La Conquista», del quale non
ci è stato possibile reperire una collezione (lo stesso Felice, dal cui
Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De
Ambris-D'Annunzio traiamo questa informazione, cita da fonte
indiretta). n Bresciani, classe 1890, già convinto militante
anarchico, è fra i promotori del Fascio veronese di azione
internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta [Bresciani]. Cenni alla formazione
sindacalista di Malusardi si trovano in MALUSARDI, Elementi di storia del
sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico
Commerciale, PIPTREIPPRRA \PPPTPOT” VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE
PP decisamente orientato a sinistra, Malusardi trovò l’ambiente ideale
per portare avanti le proprie idee. Si riunì a Venezia l’adunata
regionale dei Fasci del Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del
segretario generale del movimento Umberto Pasella e del vecchio compagno
Massimo Rocca, Malusardi ebbe modo di esporre il proprio programma.
Riguardo alla controversia repubblica/monarchia, egli formulò l’auspicio
che i fascisti si facessero portavoce di un fiero atteggiamento
antimonarchico». La monarchia sabauda affermò aveva tradito in più di
un’occasione: prima della guerra perché favorevole al “parecchio”
giolittiano, durante perché colpevolmente “latitante”, dopo perché
sostenitrice della politica rinunciataria di “Cagoja” Nitti, a Fiume
perché’ complice della repressione sanguinosa dell’insurrezione
dannunziana'”. Noi, che siamo repubblicani e libertari concluse Malusardi - in determinati
momenti avremmo, quando il governo non agiva e l’Italia sembrava essere
gettata nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma
quando una monarchia esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che
si commettono nel suo nome, non è per noi che un anacronismo inutile e
ingombrante! AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani
presentarono un ordine del giorno repubblicano, che raccolse però
soltanto nove voti (quanti erano i delegati del Fascio veronese), contro gli
oltre venti ottenuti da una mozione Pasella, rivendicante il carattere antidogmatico
e antipregiudiziale del fascismo» in materia di regime. È sulla questione
sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che Malusardi ottenne
i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema dell’organizzazione
sindacale era oggetto delle preoccupazioni della dirigenza fascista. Nel
novembre del 1920 era sorta infatti la Confederazione Italiana dei
Sindacati Economici” (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati
autonomi, d’ispirazione fascista più o meno accentuata, operanti - come
si usava dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dell’intera
vicenda, Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, Audacia Si
noti la determinazione con cui Malusardi teneva a precisare l’essenza
libertaria del proprio fascismo Pi n toda re: 4 det H rado
In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei
ferrovieri, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente anti-operaio.
Poiché la UIL, il sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli
scioperi, i fascisti ritennero giunto il che avrebbe a lungo condizionato
gli sviluppi del sindacalismo fascista, era se l’azione sindacale dovesse
avere natura politica oppure apolitica, vale a dire se i Sindacati
Economici dovessero agire in stretto accordo con i Fasci di
combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al contrario, se
dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo, liberi, perciò, di
agire nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la più ampia
autonomia. Nel suo intervento al convegno veneziano, Pasella afferma che
i fasci dovevano ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi
pubblici. Malusardi - facendo così intendere quale fosse il proprio
pensiero riguardo ai Sindacati Economici - gli oppose che le lotte del
lavoro andavano valutate “caso per caso”. Infatti rileva -, se i fascisti avevano il dovere di
contrastare gli scioperi dichiaratamente politici, non dovevano però
opporsi alle legittime richieste dei lavoratori, quando questi
reclamavano un più ampio diritto alla vita, e quando le loro aspirazioni
potevano essere armonizzate con gli interessi superiori della Nazione. Le
preoccupazioni operaiste di Malusardi si rivelarono ancor più
manifestamente allorché egli dichiarò che, quando i lavoratori avessero
saputo dimostrare una capacità tecnica intellettuale ed una preparazione
morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e delle
officine», i fascisti (che non dovevano essere la guardia bianca di una
classe, ma i difensori della Nazione») avrebbero dovuto riconoscere loro il
diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro»!°. L'ordine
del giorno votato dall’adunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella
parte relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali recita - i fascisti, pur non
condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di prendere
posizione “volta per volta”, in base alle circostanze. Anche in materia di
politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze dalla linea
ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del “Natale di
sangue”, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato
D'Annunzio al suo destino. Perciò, pur dichiarando -la propria stima a
Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma
di momento di misurarsi direttamente nel campo dell’organizzazione del
lavoro. I nuclei sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle
formazioni indipendenti, per lo più di modeste dimensioni, che, sorte
numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo sindacato
autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si formò a Roma
il 16 febbraio, dalla fusione dell’ Associazione Movimentisti e del
Fascio Ferrovieri. In ordine a questi argomenti v. principalmente
CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti, Roma-Bari, Laterza, e ERFETTI, //
sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello stato
corporativo, Roma, Bonacci, La grande adunata fascista di Venezia, feticismo» e
non esitò a rimproverare al “duce” di aver ingiustamente sacrificato
Fiume sull’altare della ragion di stato”. Le prese di posizione di
Malusardi all’adunata di Venezia gli valsero severe critiche da parte sia
di Pasella, sia di Freddi (il segretario generale delle Avanguardie
studentesche), che gli rimproverarono di fare della demagogia. In un
fondo per Audacia» Malusardi, quasi lusingato di aver suscitato tanta
apprensione nei piani alti del fascismo, replicò ai suoi detrattori con
queste parole: Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso
demagogico. E’ un aggettivo che non mi spaventa, quando penso poi che dai su
citati è prodigalmente distribuito a tutti coloro che si permettono di
pensare con la propria testa Riaffiora - come si può notare - lo spirito
polemico che aveva contraddistinto il giovane anarchico nei giorni
dell’interventismo; riaffiora, soprattutto, l’orgoglio individualista, la
presunzione di sentirsi | fuori dal “gregge”, senza curarsi (ma
anzi compiacendosi) di essere tacciato come “eretico”. Pochi giorni
dopo le sue dichiarazioni su Audacia», Malusardi è comunque indotto a
dimettersi dalla carica di segretario propagandista del Fascio di Verona.
L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi d’urgenza, respinse
all’unanimità le sue dimissioni". I fascisti veronesi apparivano compatti
intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato di dimostrarlo, già in
occasione dell’appuntamento elettorale. Queste affermazioni di Malusardi sul
“feticcio” Mussolini rimandano significativamente a quanto Rocca ebbe a
scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il fascismo. Per
provare poi annota Rocca - che non tutti i primi fascisti erano
mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi
tutti, e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La
maggior parte si dedicò all’organizzazione operaia, come Malusardi ed
altri. Degli anarchici di cui mi ricordo nessuno è stato squadrista,
nessuno entrò nel partito dopo la marcia su Roma, parecchi anzi si
ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente
disposta a servire la Patria o un’idea, ma non ad incensare un
uomo; la mentalità di questi anarchici era l’antitesi di quella dei
socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano
l’intransigenza settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale
solida e indipendente» (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura MALUSARDI, /n margine all’adunata, Audacia», cit.
L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia
al nostro direttore. Dalle elezioni alla “marcia su Roma Le
consultazioni generali, mercé l’inclusione dei Fasci di combattimento nei
cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono l’ingresso del fascismo nel
cuore della vita politica e parlamentare italiana. Una riunione straordinaria
del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche Mario Gioda) ratificò la
decisione che Mussolini aveva preso già
da tempo - di dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze
“nazionali. Il giorno successivo, a un’assemblea del Fascio milanese,
Massimo Rocca difese la legittimità di quella scelta.
Non è colpa nostra dice se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e
i comunisti malgrado il rosso di cui s’incipriano, ci hanno imposto di
scegliere fra l’Italia com’è, con certe sue caste dirigenti e le
incapacità e le brutture che ne derivano, e la rovina completa della
Nazione, sul tipo di quella toccata alla Russia. La nostra scelta è
dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni costo, in qualunque
modo l’Italia. Però sia ben chiaro con questo che noi non rinunciamo a
nulla delle nostre idee e del nostro programma conservatore e rinnovatore
nello stesso tempo. Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta contro
la proprietà e il capitale improduttivo, quando è tale veramente e non
secondo le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le
forze produttive della Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la
burocrazia parassitaria [...] né contro lo Stato a tipo puramente
parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le funzioni di cui
s’incarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e
collettive, capaci di esercitarle con utilità e convenienza!‘ Del pari, a
Torino, Gioda acconsentì a sostenere la politica bloccarda, giustificando
l’intesa elettorale tra fascismo e liberalismo con l’esigenza di salvare
l’Italia dal pericolo bolscevico'‘”. Nondimeno, la formazione del Cfr. /
Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, Il
Popolo d’Italia Su questi punti v. soprattutto FELICE, Mussolini il
fascista. La conquista del potere, Torino, Einaudi, 1! n Popolo d’Italia»,
Rocca riprende questi concetti in un saggio per Il Maglio», intitolato
Arrestare la dissoluzione. La decisione del Fascio milanese fu salutata
con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. Il programma dei fascisti e
l'adesione al Blocco, Il Corriere della Sera. Cfr. Movimentata Assemblea del
Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, Il Popolo d'Italia. Nel corso
dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda
faticò a imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle
perplessità della sinistra interna che (Ai li A A ici
Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivelò tutt'altro che
agevole. I fascisti torinesi inaugurano la campagna elettorale con
un comizio di Rocca. Gioda annunciò l’avvenuto raggiungimento di un
accordo di massima - sulla base di alcune condizioni poste dai
fascisti!" - tra il Fascio di combattimento, l'Associazione
Nazionalista, 1’ Associazione Radicale, il Partito Socialriformista, 1’
Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e l'Associazione
Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasciò trapelare la
possibilità che il Blocco comprendesse anche l'Associazione Liberale
Democratica, tenendo però a sottolineare come la fermezza antigiolittiana
dovesse rimanere il criterio orientativo dell’azione politica fascista.
Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell’ Associazione
Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare
dell’antigiolittismo, era un controsenso, tanto più a Torino, dove un
Blocco che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilità
di affermarsi ed era perciò nell’interesse dei fascisti non tirare troppo
la corda. Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda
definì “penoso” e “difficile”, si giunse alla costituzione del Blocco,
con l’inclusione dell’ Associazione Liberale Democratica. Così,
non soltanto i fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma,
nonostante Gioda lamentasse l’ingerenza immorale» da parte del Governo,
il Fascio accolse il veto imposto dal Presidente del Consiglio
alla candidatura dell’ex parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore
del responsabile dell’Ufficio i egli personalmente condivide riguardo all’opportunità di far blocco anche
con gli odiati giolittiani, il segretario oppose la necessità di
far fronte all’avanzata delle forze antinazionali i e, riprendendo
un concetto proprio dell’impostazione antidogmatica del fascismo, rivendicò
il carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere né
radicali, né liberali, né anarchici», | ma solo fascisti, uniti
nell’interesse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella
lotta elettorale, Il Maglio» Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale
a Torino, Il Popolo d’Italia, 15 aprile 1921, e Un poderoso discorso di
Libero Tancredi, Il Maglio», 16 aprile 1921. Rocca si dimostrò,
come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo
l’apparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio
inaugurale della campagna elettorale fascista (cfr. Il primo comizio
elettorale a Milano, Il Popolo d’Italia). Queste prevedevano: schede
elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che comprendesse la
valorizzazione della guerra e della vittoria, l’assistenza ai combattenti,
la tutela dell’italianità all’estero; il riconoscimento dell’opera di
salvamento nazionale compiuta dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e
di fede per le candidature; la difesa e la valorizzazione dell’impresa
fiumana e dalmata; la lista bloccata» GIODA, Un primo accordo fra
i vari partiti a Torino. Sarà possibile il “blocchissimo"? Trattative e moniti.
Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi unici
candidati fascisti Vecchi e Rocca,
che fa così il suo ingresso nella lotta elettorale. Dove la linea
bloccarda incontra fortissime resistenze fu a Verona. Il 10 aprile, nel
corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della
provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non
avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero
compromessi in un’alleanza elettorale con le forze della borghesia
moderata e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da
parte dello schieramento governativo (l’organo del liberalismo veronese,
arrivò a definire l'eventuale accordo con i fascisti una necessità
sacra») ‘’, il Fascio di Verona si attenne alla linea indicata da
Malusardi e disertò il Blocco. Così, unico caso in Italia, nel collegio
Verona/Vicenza i fascisti presentarono una lista autonoma!‘’. Va detto
che Mussolini non negò il proprio assenso all’operazione e che anzi, in
una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si congratulò con loro
per aver agito fascisticamente», giacché, ove mancavano certe elementari
condizioni di probità politica», occorreva non bloccare ma sbloccare. Cfr.
Ibidem. pl so Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per
non compromettere la formazione e Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile
rinuncia dell'On. Giretti). la candidatura di Rocca è particolarmente spinta da
Gioda. Rocca scrisse quest’ultimo,
presentando l’amico agli elettori torinesi è stato un novatore e un
divinatore. Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel
buio. Per questo è Stato scomunicato quale eretico dai pontefici
rivoluzionari» (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I candidati fascisti).
“ Cfr. Audacia A questo proposito v. anche / fascisti veronesi
lotteranno da soli, Il Popolo d’Italia. I DTA 148 La costituzione del
Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico: fascisti a
voi!, Arena», 24 aprile 1921. : i fo La composizione della lista appariva
comunque nettamente orientata a destra. Eccezion fatta per Italo
Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il
generale Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare
Piovene, l’ex parlamentare Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del
Fascio Parlamentare del 1917) e il professor Alberto De Stefani (che
risultò l’unico eletto). Cfr. Audacia» i 150 11 Popolo d’Italia», 3
maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche in
MussoLINI, Opera omnia, a cura di SUSMEL (si veda) e SUSMEL (si veda) Susmel,
Firenze, La Fenice). Mussolini si
reca a Verona per la campagna elettorale e riconfermò l'apprezzamento per
la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle
urne. Cfr. Il Popolo d’Italia. Rocca figura dunque candidato fascista a
Torino. La Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione
Milano/Pavia decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto
egli - come scrisse Il Popolo d’Italia» - conferiva un tono e un
colore patriottico e passionale alla listay. Rocca espone le linee del
suo programma elettorale a cavallo tra l’aprile e il maggio, in una serie
di articoli per “Il Risorgimento”. Nel primo di essi (importante
soprattutto alla luce di ciò che sarebbero stati i Gruppi di Competenza)
Rocca riprendeva un’idea a lui cara: quella della riforma tecnocratica
della rappresentanza parlamentare. Una riforma seria e duratura scrive -
dovrebbe consistere nel riconoscere l’impossibilità della politica
astratta, l’immoralità parassitaria dei politicanti puri, e nel
sostituire loro i valori fondamentali che l’economia addita attraverso le
sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che
fanno e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie
elettorali l’incarico di eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di
più, per affidarlo alle collettività ed ai nuclei organizzati sulla base
di un’attività specifica a profitto della vita sociale, attività alla
quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile
allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero
parte alla Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui è
competente: e i Parlamenti tecnici così formati conoscerebbero meglio il
lavoro fecondo e pratico e meno le disquisizioni politiche mascheranti i
settarismi e i puntigli. A questo intervento ne seguirono altri, più specifici
(una sorta di vera e propria piattaforma elettorale in tre parti), nei
quali Rocca suggellava i princìpi fondanti del suo rinnovato credo
politico: libertà economica, decentramento, rispetto della legge.
L’economia liberista - argomentava Rocca nel primo di questi articoli
programmatici - veniva accusata di essere caotica, anarchica, antisociale
ed egoista, ma ciò non rispondeva a verità, poiché il vero liberismo non
si risolveva nell’individualismo fine a se stesso. Esso, infatti,
trascende e comprende tanto l’individualismo quanto il collettivismo;
racchiudeva, cioè, tutti i sistemi di vita, tutte le forme economiche
(tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe in atto
dalla società umana. In altri termini, il liberismo era l'economia
spontanea di per se stessa». Per questo motivo, tornare al liberismo
significava, né più né meno, tornare all'economia naturale della vita
Cir. / candidati per il Blocco, Il Corriere della Sera». ne Il Popolo d’Italia»
ROCCA, La riforma fondamentale, Il Risorgimentosociale», al libero dispiegarsi
di tutte le energie economiche!'”. Le affermazioni di Rocca in materia
economica, come del resto l’intero suo pensiero, avevano ormai un
evidente contenuto conservatore, e, in questo senso, non v’è dubbio che
la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti moderati sulle buone
intenzioni del fascismo. E’ però interessante vedere quanto anche la
concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja definizione del
liberismo come organizzazione spontanea della vita economica) discendesse
almeno in parte dalla formazione anarco- individualista del suo ideatore.
Del pari, la naturale ostilità anarchica verso lo stato e, in generale,
verso ogni potere accentratore, pareva emergere là dove Rocca, nella
seconda parte del suo “manifesto” elettorale, additava la necessità del
decentramento amministrativo e politico quale condizione essenziale per
una maggiore libertà e una miglior gestione delle risorse nazionali. Nel
terzo ed ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della
legalità. La legalità scriveva - era
requisito imprescindibile per un corretto esercizio della libertà, la
quale, se svincolata da regole e da limiti preordinati, si risolveva in un
non senso, una negazione di se medesima, attraverso l’arbitrio
individuale e il disordine generale». L’Italia, quindi, non sarebbe stata
realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la disciplina,
in tutti i settori della vita civile e politica: disciplina di governo,
di vita pubblica, di nazione, di vita privata». Disciplina era anche
sinonimo di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare
Ia gerarchia in ogni campo», affinché il valore cosciente» tornasse a
primeggiare sul numero. L’articolo terminava con l’auspicio che
finalmente, in Italia, fosse ristabilita la legge contro tutti !59,
i Simili affermazioni imponevano equanimità di giudizio; imponevano,
in altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata
contro gli scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle
camicie nere. In futuro - come si accenna - Rocca non avrebbe esitato a
prendere posizione contro la perdurante illegalità fascista; ma allora anch’egli
riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento più che legittimo di lotta
politica. Così, ad appena due giorni di distanza dal suo articolo su Il
Risorgimento», commentando un gravissimo episodio di Ritorno all'economia)
y “Tornare al liberalismo” era anche il titolo di una conferenza tenuta
da Rocca il 6 maggio nei locali dell’Associazione Commercianti
Industriali Esercenti di Milano (cfr. Il Popolo d'Italia» ROCCA, Ritorno
alla semplicità, Il Risorgimento». Ritorno alla disciplina. a A mm
PPTIPONI violenza fascista a Torino (l’assalto e la devastazione
della Casa del Popolo), Rocca lo definì una sacrosanta vendetta» contro
il dispotismo comunista, dopo mesi e mesi di longanimità»!?. In
circostanze misteriose, l’operaio fascista Odone è assassinato da un militante
comunista. All’alba del giorno seguente, bande armate di fascisti prendeno
d’assalto la Casa del Popolo. Nel terribile conflitto che ne segue
restarono gravemente feriti tre comunisti e un studente fascista di
Reggio Emilia, Maramotti, che muore poco dopo in ospedale. La Casa del
Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti, sono prima completamente
devastati, poi incendiati. Gli squadristi - riporta La Stampa» -
impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle fiamme e gli edifici
andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati dall’assalto
fascista sono stimati intorno ad un milione di lire!°. Nei giorni
successivi, l’autorità giudiziaria ordina il fermo di nove fascisti, tra i
quali il segretario della sezione torinese dell’Associazione Arditi,
Bruno Ricolfi, mentre gli stessi Gioda e Vecchi sono denunciati con
l’accusa d’istigazione e complicità morale (senza peraltro che la
denuncia sorte alcun effetto). Non è affatto chiaro se Gioda è coinvolto
nella decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto
rifere il Prefetto di Torino Taddei al Ministero – è organizzata
prontamente e nel massimo riserbo), ma appare evidente dal suo
comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse
prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un ll Che cosa è “già” il controllo
operaio a Torino, Il Popolo d’Italia. Cfr. Operaio fascista e mutilato di
guerra ucciso da un comunista, “La Stampa Per le versioni di parte fascista e
comunista v. rispettivamente Giona, Un
fascista mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, Il
Popolo d’Italia», 27 aprile 1921, e Tragico epilogo di una rappresaglia
fascista, L'Ordine Nuovo Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, La Stampa»
L'organo del PCdI torinese riferì che le guardie regie di presidio alla Casa
del Popolo (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano
ostacolato gli assalitori, ma gli avevano persino assecondati (cfr. Come
è stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro di Torino, L'Ordine
Nuovo). Il comportamento delle guardie regie fu oggetto, nei mesi
seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta,
voluta dall’energico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari
avessero preso le parti degli squadristi, ma accertò altresì - come lo
stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la deplorevole
negligenza» degli ufficiali preposti al servizio d’ordine, dimostratisi
incapaci di fronteggiare adeguatamente e con fermezza d’animo l’offensiva
fascista. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris.,
Busta 112 [Fascio di Torino]. Cfr. Il Popolo d’Italia». !0!
ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., cit,
aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo
senso, accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento
coessenziale imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un
esempio di questo ambivalente stato d’animo si trae da un articolo di
Gioda di poco precedente ai fatti narrati. In esso, commentando
l'aggressione subita da GRAMSCI (si veda) ad opera di alcuni squadristi,
il segretario del Fascio torinese define sacrosante le ritorsioni
fasciste contro le vili imboscate e la violenza liberticida dei pussisti,
ma, al contempo, vivamente deplora quell’episodio, del quale non comprende
la necessità. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla Casa del
Popolo, Gioda mostrò, almeno all’apparenza, di non averne intesa la reale
portata politica, allorché ebbe a dichiarare, contro l’evidenza dei fatti,
che essa aveva avuto natura anticomunista ma non antiproletaria tout
couri n Fino a che punto Gioda fosse consapevole della contraddittorietà
della propria posizione non è dato sapere, ma è certo che egli non aveva
la forza sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva ormai
al suo controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi.
All’indomani della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35
seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblicò una lunga intervista
a Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso
parte alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura alla presenza di re
Vittorio Emanuele III, il duce risponde. IL FASCISMO NON HA PREGIUDIZIALI
MONARCHICHE O REPUBBLICANE -- ma è tendenzialmente repubblicano. In ciò
differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono GRAMSCI (si veda) è
aggredito all’uscita dalla sede di one Nuovo». Il leader comunista
non sube in realtà alcuna violenza, mentre l’ardito del polo Torrero,
accorso in suo aiuto, resta gravemente ferito. Cfr. Ibidem. GIODA, in
tema di violenza, Il Popolo d’Italia. E Che Gioda non nutre molta
simpatia per gl’eccessi degli squadristi è me provato dall’impegno
che egli mise nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c pipa
Lo recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente
precedenti i pe fo pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio,
dopo un ennesimo cruento scontro i fascis e comunisti, Gioda,
rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilevò ! urgenza li ata fine
una buona volta» a quella fosca teoria di violenze, destinata ad attizzare MEA
‘odio olitico» (ID., Un monito opportuno dopo una lotta sanguinosa,
Ibidem, ! luglio 1921). to Ip., Un rilievo opportuno dopo
l'incendio vendicativo. Rocca non è eletto. Soltanto 18° su 28 candidati a
Milano, con 5.897 voti di preferenza (cfr. Il Corriere della Sera», 24
maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE 35,282 voti a Torino
città e 88.670 nell’intera circoscrizione (cfr. La
Stampa»). pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista
si asterrà ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale!$ Le
dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente tutto
l’ambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti
Fasci, è stabilito di rimandare ogni decisione in merito a una riunione
congiunta dei deputati fascisti, dei membri del Comitato Centrale e dei
segretari delle Federazioni regionali, al Teatro Lirico di Milano.
Tra i Fasci dove la questione ha un'eco maggiore vi sono quello di Verona
e quello di Torino. Un editoriale di Audacia» (poi rivendicato da
Malusardi) fa giungere a Mussolini il consenso dei fascisti veronesi.
L’originario programma fascista - vi si legge - quello di piazza San
Sepolcro, intransigentemente repubblicano, è stato purtroppo messo in
disparte, mentre è giunto il momento di rinverdire lo spirito
rivoluzionario del fascismo. Le dure apostrofi dell’organo fascista
destano viva apprensione negl’ambienti moderati di Verona, al punto che,
rispondendo all’articolo di Audacia», il liberale Carli lascia addirittura
intendere che la borghesia veronese non esita a difendersi con le armi da
un’eventuale insurrezione repubblicana fascista. L’assemblea generale del
Fascio si chiude con l’unanime approvazione di un ordine del giorno
Malusardi. Il Fascio Veronese di Combattimento recita il documento - richiamandosi alle
origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la
propria incondizionata solidarietà con Mussolini nella tanto dibattuta
questione della tendenzialità repubblicana e riafferma essere
inconcepibile che i fascisti facciano parte anche di altri partiti. Dopo
che la riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno
successivo, si fu risolta in un nuovo compromesso (una soluzione molto
confusa e contraddittoria», secondo la definizione di Felice Il Giornale
d’Italia, L'intervista a Mussolini fu riprodotta anche da Il Popolo d’Italia Sulle
conseguenze dell’intervista di Mussolini v. FELICE, Mussolini il ‘fascista,
Cfr. NOI, Cose a posto, Audacia», CARLI, Difendo il Re, Arena, Audacia»,
FELICE, Mussolini il fascista, che eludeva l’essenza del problema, Malusardi
non nascose il proprio malumore e manifestò la speranza che il prossimo
congresso nazionale sciogliesse definitivamente il nodo dell’indirizzo
istituzionale del fascismo. E? ora di finirla scrisse tra l’altro di vedere e liberaloni e
nazionalisti e rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file
coll’unico scopo di rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed è
ora di finirla anche con questi Fasci Agrari o d’Ordine, che snaturano il
nostro programma e mascherano gretti interessi individuali o di
classe»!”?. La vicenda ebbe conseguenze assai più traumatiche a
Torino, dove portò a un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi.
Quest'ultimo, infatti, in un’intervista rilasciata a un quotidiano
locale, dichiarò che i deputati fascisti del Piemonte avrebbero
senz'altro presenziato alla seduta reale. Per testimoniare il proprio dissenso
da De Vecchi, Mario Gioda si dimise dalla carica di segretario politico
del Fascio di Torino e dalla direzione de Il Maglio»'”. La Commissione
Esecutiva del Fascio, riunitasi il giorno seguente, ne rigettò tuttavia
le dimissioni, inviando altresì un voto di piena, assoluta solidarietà»
al “duce”. In un articolo di commento alla vicenda, Gioda, rinfrancato
dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si lasciò andare a
valutazioni ottimistiche. Nessuno scrisse - aveva il diritto di
meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini.
Ben più strano, infatti, sarebbe stato se il fascismo, il giorno dopo le
elezioni, fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o
sorvolare su una delle sue principali caratteristiche»; quella, cioè, di
essere un movimento tendenzialmente repubblicano. L'intervista del “duce”
- secondo Gioda - era giunta a proposito, così da smontare una volta per
sempre la favola di un fascismo antiproletario e incatenato al servizio
della borghesia agraria e L’ordine del giorno approvava l’operato di
Mussolini e decretava la nascita del gruppo parlamentare fascista,
riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta
reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale. MALUSARDI,
Vogliamo il congresso nazionale!, Audacia». Cfr. La Gazzetta del popolo. Nel
corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dell’entrata in
guerra dell’Italia, il futuro quadrumviro riconferma quanto dichiarato il
giorno prima al quotidiano torinese (cfr. Il Popolo d’Italia»). Nelle sue
memorie, De Vecchi si compiacerà di ricordare che Gioda, nell’ascoltarne
il discorso, era diventato sempre più pallido, finché, esasperato, aveva
abbandonato anzitempo il teatro (cfr. VECCHI). Cfr.
Il Popolo d’Italia», cit. In conseguenza dell’abbandono di Gioda Il
Maglio» sospese le pubblicazioni per quasi un mese. Cfr. Il Popolo
d’Italia», industriale»'”°, Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima
repubblicana e libertaria di Mario Gioda, e non v’è dubbio che egli fosse
in buona fede. Ciononostante, le sue posizioni non trovavano
corrispondenza nella situazione generale del fascismo, sul piano locale
come su quello nazionale, ed erano, perciò, fatalmente destinate a
soccombere. Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe
luogo l’assemblea del Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca,
stranamente non edulcorata, de Il Popolo d’Italia» - si risolse in un
duello personale tra Gioda e De Vecchi. Soltanto al termine di un
affannoso dibattito fu licenziato un ordine del giorno anodino
(sottolineante il carattere unitario del programma politico fascista)
che, in definitiva, suonava come un’attenuazione della linea
intransigente sostenuta da Gioda'”. La riunione al Teatro Lirico, nel
corso del quale De Vecchi non mancò di fare una manifestazione di
fede monarchica»!?8, confermò la vittoria dell’indirizzo moderato.
A distanza di pochi giorni De Vecchi prese l’iniziativa - del tutto
personale - di convocare un vertice dei segretari dei Fasci piemontesi. Gioda
non rispose all’invito e non si recò all’incontro. Fu invece presente
Umberto Pasella, che riuscì a far passare una mozione rivendicante il più
assoluto agnosticismo in materia di regime. L'assemblea conferì a De
Vecchi l’incarico di designare il nuovo direttore de Il Maglio» e
la scelta, com’era logico, cadde su un uomo di sua fiducia, l’avv.
Ruella'” Torna a riunirsi la Commissione Esecutiva del Fascio torinese.
Gioda si dimise per la seconda volta, lasciando capire di non aver
intenzione di recedere dalla propria decisione'*°. Dieci giorni
più tardi, un’ennesima assemblea straordinaria dei soci del Fascio ‘|
provvide all’insediamento di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua
volta, riunitasi il 4 luglio, designò segretario politico un altro fedelissimo
di De Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, già comandante della
legione dalmata a Fiume Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel
giro di un | la disciplina fascista, All’assemblea del Fascio torinese
prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia intervenire nella
discussione. LOI ‘imponente convegno fascista a Milano. Cfr. Il
Maglio Cfr. Il Popolo d’Italia La segreteria del Fascio di Torino fu
assunta in via provvisoria dal capitano degli arditi Mario Gobbi. Cfr.
Il Maglio», e Il Popolo d’Italia, I membri della Commissione
Esecutiva furono portati da cinque a sei. Cfr. Il Maglio», GIODA, Le
dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari.
Per mese, tuttavia, mercé i contrasti suscitati dal patto di pacificazione
nel frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mutò ancora una
volta. Il 6 agosto, a riprova della gravità della crisi, Il Maglio»
interruppe nuovamente le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26
novembre). Trascorsa una settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria
del Fascio, quindi, l’assemblea generale fascisti torinesi votò la nomina di
un’altra Commissione Esecutiva. La sterzata a destra
coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi. Si svolge un’adunata
provinciale straordinaria dei Fasci e dei Nuclei fascisti del veronese.
Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema dei Sindacati Economici.
Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli, contraria alla costituzione
di detti sindacati, e a quella di Alessandro Melchiori, favorevole alla
formazione di organizzazioni sindacali ad autonomia “ridotta”, si oppose
l’idea di Malusardi, per il quale, mentre la prima rivelava chiaramente
la qualità di agrario» del suo suggeritore, la seconda era troppo
generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il fascismo doveva
adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto nel “testamento
politico” di Filippo Corridoni". Ma la grande novità dell’adunata
furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico all’interno del
Fascio veronese, per motivi di salute e non politici. Al riguardo mancano
purtroppo notizie certe, ma non è da escludere che la sua decisione,
anziché a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, più o
meno indirette. D’altra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi
ai suoi lettori, l'impressione che se ne trae è quella di un uomo
tutt’altro che dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da
parte e che, persuaso della bontà dei propri convincimenti, riaffermava
la propria indipendenza di giudizio. Su tutta questa vicenda v. MANA.
Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva già
espresso il proprio punto di vista in un precedente intervento su Audacia».
I sindacati - aveva rilevato - dovevano mantenersi il più possibile
indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano rinunciare al sostegno e
alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi
interessi padronali. Come fino ad oggi aveva scritto Melchiori - i nostri
camions sono serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi
serviranno per prelevare a domicilio quei proprietari che volessero ad
ogni costo andare contro corrente. MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici,
Audacia). Alla fine dei lavori l’adunata approvò un ordine del giorno,
formulato da Italo Bresciani d’intesa con il presidente dell’assemblea
Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale), per la costituzione,
anche nel veronese, di Sindacati Economici nazionali», aventi autonomia finanziaria
e politica. Ho sempre pensato scriveva Malusardi - come meglio mi è parso.
Non ho mai avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da
qualunque parte venissero. Perché io non sono di quelli che marciano
sulle rotaie dell’anchilosi cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno
portato su tutte le contrade. Sempre ho irriso, anzi, a tutte le
botteghe multicori politiche che pretendono d’aver la privativa
dell’infallibilità. E interessante, in questa lunga “confessione” di Malusardi,
il modo in cui egli tornava ad illustrare la propria concezione
sindacalista. Il tono e i contenuti - come si può vedere - non erano
granché mutati dai tempi de L’Agitatore. Benché sono [sic]
orgogliosamente individualista affermava - fui tra le masse lavoratrici e
per esse lottai, pugnai di persona. Non perché io credessi o creda nella
elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualità
e delle minoranze intelligenti e volitive, capaci d’innalzarsi realmente
ad un più alto livello di comprendonio e di personalità. Poiché io non
dimentico che la storia è sempre stata scritta dagli individui e dalle
minoranze. Il sindacalismo, quale io lo intendo è individualista ed è una
realtà avveniristica nella quale predomina il “mito” della singola
responsabilità. Il sindacalismo è logicamente per un continuo superamento
e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo statali
rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di
tutti!8* Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione
dall’evidente sapore programmatico.lo non sarò mai per il conservatorume
rancido e vilissimo che, passata la bufera bolscevica, spazzata via dal
salutare vento fascista, si è riverniciato a nuovo e pretende rimerchiare
la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver molto
contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina
e ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento
fascista! n definitiva, l’allontanamento di Malusardi da Verona - cui fece
seguito il suo temporaneo “esilio” in provincia - pareva dettato, più che
da cattive condizioni di salute, da valutazioni di opportunità
“ambientale”. Egli, del resto, non abbandonò affatto l’attività politica.
Al congresso provinciale MALUSARDI, Commiato A seguito delle dimissioni
di Malusardi la direzione di Audacia» fu ereditata da Grancelli. fascista,
Malusardi è infatti presente in rappresentanza dei piccoli Fasci di
Legnago e di Cologna Veneta, figurando altresì quale segretario generale
della Federazione fascista intermandamentale del basso veronese. In quel
frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole al patto di
pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, per ragioni di ordine
nazionale»'”°. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti a
favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Bernini, del
Fascio di Verona, per l’accettazione condizionata del patto. Ci sembra
significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese
manifestava al riguardo molte perplessità, Malusardi appoggiasse la
strategia distensiva di Mussolini. Senz'altro, com’è anche possibile
desumere dalle sue future prese di posizione in tema di violenza, Malusardi
riconosceva il bisogno di una “tregua d’armi” con le sinistre (la sua
intransigenza sui principi non dev'essere confusa con l’estremismo
squadristico), ma è anche presumibile che egli mirasse in parte a
recuperare credito agli occhi delle gerarchie!”, Tra l’agosto e il
settembre, Malusardi s’impegnò in un’intensa opera di propaganda a
sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la provincia di
Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a collaborare
con Audacia», di cui riassunse la direzione, poco tempo prima del III congresso
nazionale fascista Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche
Massimo Rocca, benché, in un articolo di poco precedente alla firma del
patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta di un eventuale
accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta
politica aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la
pace interna, Il Risorgimento). Dopo che l’accordo fu denunciato - in
conseguenza dei gravi incidenti scoppiati al margine de! III congresso
nazionale fascista -, Rocca attribuì la responsabilità del suo fallimento
ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una pacificazione Su tutte
le questioni connesse al patto di pacificazione v. FELICE, Mussolini il
fascista. Audacia A questo proposito, il responsabile per la propaganda del
Comitato Centrale, mentre rimproverava a Grancelli e agli altri dirigenti
del Fascio di Verona, il loro semplicismo politico», si disse
piacevolmente sorpreso che l'ex anarchico Malusardi» condividesse
l’iniziativa di Mussolini per la pacificazione (MARINONI, Dopo il
Congresso Provinciale). In preparazione dell’assise nazionale di
Roma, i Fasci del veronese si radunano a congresso. Tra i temi dibattuti,
oltre a quello dell’annunciata trasformazione del movimento in partito
(che avrebbe dominato i lavori dell’ Augusteo ), vi fu nuovamente quello
dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei “Gruppi
dei ferrovieri fascisti”, organismi di categoria dipendenti dai Fasci,
che lasciavano intravedere la possibilità di un sindacalismo
integralmente fascista, si andava vieppiù riconsiderando la funzione dei
Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticità era ormai oggetto delle critiche
di autorevoli Il congresso fascista, che si riunì al Teatro Augusteo di
Roma tra il 7 e il 10 novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori
protagonisti Massimo Rocca. Questi si preparò all’appuntamento con una
serie di articoli d’indubbio interesse, nei quali per la prima volta in modo compiuto - formulò
la sua proposta per un fascismo “liberale”. Nell’opinione di Rocca, i
Fasci avrebbero dovuto essere un movimento di élite, di avanguardia
politica e ideale, come lo era stata la Destra storica cavouriana. La
vita politica italiana, costretta in avvilenti compromessi, aveva bisogno
di un eccesso di spiritualità», tale da bilanciare l’eccesso di
politicantismo mercantile» che la sommergeva; e solo una destra
rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi della cultura e dello spirito
del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe potuto svolgere questo compito
di equilibrio e di correzione». In quella tradizione risiedeva del resto
un grande insegnamento realistico e morale» dal quale il fascismo non
avrebbe potuto prescindere, vale a dire che non le masse, ma le minoranze
rinnovavano il mondo» e che il progresso consisteva nel succedersi di
aristocrazie libere»'. I fascisti - Rocca non ne dubitava - avevano le
carte in regola per guidare quest'opera di rinnovamento della destra
italiana, ma dovevano prima definirsi come forza politica. Il fascismo,
infatti, era nato prevalentemente ad opera di sovversivi, alcuni dei
quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il proprio passato.
Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati
Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e rappresentavano
la tendenza filoproletaria» del movimento: una tendenza, sia pur degna
del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici della
sinistra, plasmando una sorta di demagogia fascista», non meno
deprecabile di quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca
poneva esponenti della gerarchia fascista, da Bianchi a Grandi, da Rocca
allo stesso Mussolini (su questi punti v. CORDOVA). Al congresso
veronese Malusardi si pronunciò contro la costituzione di sindacati prettamente
fascisti» e difese il principio dell’apoliticità dell’azione sindacale
(la tesi patrocinata a livello nazionale da Edmondo Rossoni). I sindacati
“di partito”, rilevò Malusardi, avrebbero ostacolato l’unità di tutte le
forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per
contrastare il monopolio dei sindacati socialcomunisti. Se in politica affermò le divergenze son profonde, sul terreno
economico son facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello
miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono tutti d’accordo nel volere
il proprio miglioramento economico e morale». Di concerto con Bresciani,
Malusardi presentò dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga
maggioranza, affinché sorgesse, all’infuori dello stesso Partito
Fascista, un forte organismo sindacale che raccogliesse sotto il suo
vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano la realtà Nazione
(Audacia ROCCA, Pér una nuova destra, Il Popolo d’Italia, anche in Idee
sul fascismo. la destra reazionaria, formata da certa borghesia,
specialmente terriera, e da residui d’aristocrazia decaduta», che vedeva
nel fascismo l’arma di difesa e di offesa da sfruttare al minor prezzo
possibile», ed era responsabile del carattere offensivo e violento»
assunto dai Fasci in talune zone del Paese, Tra le due ali estreme del
fascismo si situava tuttavia un folto centro moderatore, che Rocca
riteneva essere il legittimo erede del primo nazionalismo, come questo lo
era stato del primo liberalismo di destra, del liberalismo, cioè, non
ancora “inquinato” dall’utopia demo-sociale. Una zona media del fascismo,
dunque, fondata sulla disciplina verso la Nazione, al di sopra degli
esclusivismi ideologici e degli interessi particolari», che Rocca confida
sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a costituire il
perno della “nuova destra” di governo!” Nel suo intervento al congresso
di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo disse - doveva innanzi tutto svolgere un’opera
di educazione sulle masse», per volgersi infine alla trasformazione degli
organi legislativi, in quanto la crisi italiana era una crisi
d’incompetenza e le questioni economiche e amministrative, per le quali
lo stato politico non era adatto, dovevano essere demandate ai tecnici.
In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali avrebbero potuto
giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati divenissero
strumento di selezione delle élites proletarie. L’assise dell’ Augusteo
decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia Rocca (che a Roma
rappresentava il piccolo Fascio lombardo di Castellanza) sia gli altri ex
anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anch’essi al Un neo
liberalismo?, “Il Risorgimento” anche in Idee sul fascismo Su questo
aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altresì GENTILE, Le
origini dell'ideologia fascista Il Popolo d’Italia. L'intervento di Rocca al
congresso dell’ Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui problemi
di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca confermò la convinzione
che l’Italia dovesse avere una politica estera rettilinea e chiara»,
senza le incertezze del passato, e che spettasse al fascismo far sì che
ciò avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle glorie e alla
potenza d’Italia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso
che l'organo dell’Associazione Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /!
discorso polemico di Massimo Rocca, L’Idea Nazionale Cfr. Il popolo
d’Italia» Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di Milano
(oggi Varese), era stato inaugurato alla presenza di Rocca, che aveva
fatto da padrino. Ne è segretario Schejola e conta 67 soci, in prevalenza
operai e impiegati. L'assemblea generale dei soci designa Rocca a
rappresentare il Fascio al congresso nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF,
Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i Fasci di
combattimento,Busta [Castellanza]. congresso, votarono a favore della
trasformazione del movimento in partito!” Dal congresso scaturì inoltre
il nuovo organigramma fascista: Massimo Rocca entrò a far parte della
Commissione Esecutiva del PNF°%, mentre De Vecchi, a testimoniare la
definitiva virata a destra del fascismo, rilevò Gioda nel Comitato
Centrale?” Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in
un lungo articolo celebrativo, significativo per i numerosi richiami al
problema dell’organizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai
Consigli ; A Errante " Si raduna l’assemblea generale dei
fascisti torinesi. Nella sua relazione Gioda si era pronunciato a favore
del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare - la stessa parola
partito gli ripugnasse istintivamente». Il fatto era - aveva sostenuto - che
il movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava,
perciò, soltanto di ratificarne ufficialmente l’esistenza. La creazione
di un partito fascista era altresì indispensabile per imprimere un
carattere nazionale al fascismo, di per sé troppo frammentato, troppo legato
alle singole realtà provinciali; e per porre un freno alle lotte
infeconde» tra le sue diverse correnti, espressione, nella maggior parte
dei casi, d’interessi localistici o addirittura personali. Si noti, a
questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di
Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista
Italiano, Il Popolo d’Italia». Anche Malusardi, in occasione del già
menzionato congresso provinciale veronese del 30 ottobre, si era detto
favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto
che la nuova compagine politica ereditasse il patrimonio ideale del vecchio
partito d’azione mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista
della Costituzione Fiumana, alle esigenze della vita moderna» (Audacia»).
In seguito, Rocca riferì che Vecchi, a nome di amici nazionalisti e
sindacalisti», gli aveva offerto la segreteria del partito, da egli
rifiutata, malgrado le insistenze», per non venirsi a trovare in una
situazione difficilmente gestibile. Qualunque segretario del partito
scrive Rocca ricordando l’episodio avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in
un compito amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche
settimana il rivale e poi il nemico del Duce» (Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del PNF fu quindi
nominato Michele Bianchi. Per la cronaca del congresso
dell’Augusteo v. Il Popolo d’Italia. Sulle vicende legate a questa importante
tappa della storia del fascismo v. FELICE, Mussolini il fascista. Stando
al resoconto de Il Popolo d’Italia» del 10 novembre, al momento del voto pro
0 contro il partito Rocca manifestò l’intenzione di dimettersi dall’
Associazione Nazionalista. In base a quanto da lui stesso riferito anni
dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la doppia tessera (cfr.
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il tema dei rapporti col
nazionalismo domina a lungo il dibattito interno fascista all’indomani
del congresso di Roma. In un'intervista concessa all’organo dell’ANI, Rocca,
dopo aver sottolineato lo spirito aristocratico» che animava il nuovo
Partito Fascista, si disse convinto che il fascismo, il nazionalismo e il
risorgente liberalismo di Destra stessero preparando qualcosa che, un
giorno o l’altro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi», ed auspicò
la formazione di un unico partito nazionale (Il fascismo e la crisi
italiana in una nostra intervista con Tancredi, L’Idea
Nazionale), Tecnici. Rispetto ai sindacati - rileva il neo dirigente
fascista -, il partito poteva scegliere di prevalere aristocraticamente»
su di essi (come egli si augurava), oppure di farsene soggiogare,
soccombendo a una visione demagogica della lotta sindacale. Alla
necessità di delineare gli orientamenti sindacali del fascismo si
accompagnava quella di riformare gli organi elettivi, in armonia con la
economia sindacale moderna». Secondo Rocca, un primo passo verso questa
riforma era rappresentato dalla decisione, presa in ambito congressuale,
di dar vita a organismi professionali ristretti - i consigli tecnici appunto
-, da affiancare ai Parlamenti generici e politici, inadatti per loro
stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero competenze
tecniche specifiche. Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto
dei deliberati del congresso nazionale fu Malusardi. In primo luogo -
com’ebbe a scrivere su Audacia - egli dissentiva da Mussolini in merito
alla concezione statale. Il ritorno al liberismo e l’accantonamento della
Carta del Carnaro, sanciti a Roma, gli apparivano difatti come la
negazione dello spirito originario del fascismo. Quando egli
[Mussolini] rileva Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,
superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici
nella vita della Nazione, ecco che viene ad ammettere che dalla Carta del
Carnaro possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di più,
poiché appunto nella Carta del Carnaro vi è moltissimo di quella
ideologia mazziniana che il fascismo, secondo lo stesso Mussolini, non
deve ignorare ma integrare Quanto all’annosa questione
istituzionale, Malusardi ribadì il proprio repubblicanesimo, solo in
parte stemperato da considerazioni di opportunità politica. Rocca, Un
congresso di vivi, Il Risorgimento» (anche in ‘cismo). DIE n
prete anre ie del PNE, accolge le indicazioni del congresso circa
l’opportunità di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare).
Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito,
subito dopo gli organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale,
Direzione e Segreteria Generale) ei Fasci, avrebbero dovuto raccogliere
tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di servizi
pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto
sul piano nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere
possibile ! analisi di ogni problema politico, economico e sociale
secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e Statuti del
Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, (lo
statuto/regolamento del partito è pubblicato in prima battuta da Ii Popolo
d’Italia» MALUSARDI, /n margine al congresso, Audacia», Anche Mazzini scrive - pur mantenendo intatta la sua FEDE
REPUBBLICANA, per raggiungere l’unità d’Italia, scrive la famosa lettera
a Carignano e non ostacola di salire al trono Vittorio Emanuele SAVOIA
(si veda). Ma il veggente ligure, però, mai si adatta a servilismi o
incensamenti cortigianeschi. Così, pure noi fascisti, pur riconoscendo
inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perché verrebbe
sfruttato dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente
la nostra originaria tendenzialità repubblicana? Infine,
Malusardi deplorò la scarsa attenzione volta dai congressisti ai problemi
sindacali e alla questione agraria, attribuendo la ragione di questa
grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al fascismo, di agrari
dalla mentalità antiquata». Per contro, egli affermò la necessità di
combattere il latifondo, per giungere alla «sproletarizzazione» delle
campagne, incrementando la piccola proprietà e la cooperazione, L'ultimo
atto pubblico di Malusardi a Verona è la partecipazione al congresso
provinciale fascista. Anche in quella circostanza egli non tralasciò di
riaffermare la propria fede sindacalista e di celebrare il
«sindacalismo/corporativismo dannunziano genialmente dettato nella Carta
di Fiume». Due giorni dopo, il congresso nazionale delle organizzazioni
sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sancì la fine dei Sindacati
Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione Nazionale
delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente ideologizzato’”. Il
sindacalismo “puro”, nella tradizione corridoniana e Malusardi
abbandonò la direzione del giornale (che fu rilevata da
Grancelli). Intorno a questi avvenimenti v. CORDOVA. AI congresso di
Bologna, punto d’arrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono
tre posizioni: quella di Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui
era propenso Malusardi), quella del neo segretario del PNF, Bianchi, per
l’istituzione dei sindacati “di partito”, e quella, mediana, di Grandi e Rocca, a favore di un’autonomia
“controllata”, che finì per prevalere (a questo riguardo si veda NELLO, Grandi:
la formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della
discussione Rocca sostenne che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto
senso solo dopo l’entrata in funzione dei Gruppi di Competenza. Prima di
allora - data «l’immaturità delle masse» -, era vano sperare di sottrarre
i lavoratori al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente
lasciando loro la facoltà di organizzarsi in modo autonomo. D’altro
canto, creare dei sindacati fascisti, come proponeva Bianchi, avrebbe
esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per questi motivi Rocca
si espresse - con Grandi - per l'istituzione di sindacati
semplicemente deambrisiana, usce dunque dall’orizzonte programmatico del
fascismo, ma Malusardi pare non rendersene conto. Lasciata Verona per
Brescia, dove rileva la direzione del locale organo fascista, Malusardi
si presenta ai camerati bresciani con queste parole. Se noi dichiariamo
senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi dittatura
bolscevica, ciò non significa che siamo dei conservatori e dei
reazionari. Noi siamo, invece, profondamente NOVATORI. Se Malusardi si
considera ancora e sempre un NOVATORE, Rocca, ch’è l’iniziatore e il
maestro” del NOVATORISMO ANARCHICO, è ormai un integerrimo conservatore.
Nel suo cammino di riscoperta delle radici del liberalismo si spinse anzi
sempre più a fondo, giungendo, in un articolo carico di reminiscenze
sonniniane, ad invocare la restaurazione di tutte le prerogative della corona,
usurpate dal parlamento, secondo la lettera dello statuto albertino. Di
pari passo con la maturazione conservatrice di Rocca crescevano le sue
responsabilità politiche e organizzative all’interno del Partito Fascista
e aumentavano, con esse, il suo prestigio e la sua influenza, come
l’esplosione, in marzo, del caso legato a PMarsich, avrebbe pienamente
rivelato. A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a
Fiume?"!, un giornale vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava
la destra oltranzista e rivoluzionaria), rese nota una lettera di
quest’ultimo alla Segreteria del partito, nella quale egli lamentava la
“degenerazione” parlamentarista del nazionali, guidati da fascisti e da
uomini della cui fede patriottica non fosse possibile dubitare» («Il
Popolo d’Italia. Rocca prende parte anche al congresso nazionale delle
Corporazioni (Milano), durante il quale svolge una relazione sull’emigrazione
italiana all’estero (cfr. Il Lavoro d’Italia). Malusardi arrivò a
Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei primi giorni di febbraio.
In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi all’organizzazione del
locale sindacato fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la
segreteria del partito (rispondendo alle richieste che già da due mesi
giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva sollecitato il trasferimento da
Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato
Centrale con i fasci di combattimento, Busta
[Brescia]. MALUSARDI, A guisa di presentazione, «Fiamma» ROCCA, La
più grande crisi, «Il Risorgimento», col pretesto di vendicare l’assassinio del
fascista ed ex legionario Alfredo Fontana, le camicie nere di Fiume,
guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo autonomista di
Riccardo Zanella e presero possesso della città. La nuova crisi fiumana
si concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un
fascista, Giovanni Giurati, a capo provvisorio
dell’esecutivo. fascismo e si scagliava contro l’«infausta egemonia» di
Mussolini, contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele
D’Annunzio?!. Il “duce”, a sua volta, in una secca replica al suo
censore, ne definì lo sfogo nient’altro che una tragicommedia, Lo scontro
tra Marsich e Mussolini, che, ben lungi dall’esaurirsi in un contrasto
personale, concerneva l’indirizzo politico del partito, innestò una lunga
serie di polemiche, a tutti i livelli (a Brescia, ad esempio, contrappose
Malusardi al segretario provinciale uscente, Minniti) °!*. Dei dirigenti
del PNF, Rocca fu tra i primi a prendere posizione. Quella della presunta
egemonia mussoliniana - scrisse in una lettera a «Il Popolo d’Italia» - è
una leggenda priva di fondamento. Quanto alla “deriva” legalitaria che
negli ultimi tempi, secondo Marsich, si sarebbe venuta a creare nel
fascismo (una situazione che Rocca si vantava di aver contribuito a
determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo, dal momento che
l’Italia stava attraversando una fase di assestamento e non aveva,
perciò, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si domandava
Rocca -, levare la bandiera dell’antiparlamentarismo una volta SIRO Gebo a
: Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Marsich,
«La Riscossa dei legionari fiumani», (la lettera è ripresa anche
dall’«Avanti!» del giorno seguente). La filippica di Marsich,
già da tempo molto critico nei confronti dell’orientamento politico del
fascismo, fu originata da un’intervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di
Mussolini sulla crisi ministeriale, «Il Resto del Carlino», 3 febbraio
1922), nella quale il duce”, commentando la caduta del governo Bonomi, si
era detto ben disposto verso un eventuale rientro in scena di
Giolitti. Sul caso Marsich v. FELICE, Mussolini il fascista, cit.,
p. 197 ss. us «Il Popolo d’Italia. Nel corso di un convegno straordinario
dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi prese le difese di
Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi,
tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nell’essersi
colpevolmente adeguato alle regole e ai “sotterfugi” del parlamentarismo,
quanto nell’assenza di un orientamento politico univoco; una lacuna
grave, in ragione della quale «in alcune zone i fascisti erano elementi
novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti
del lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di
reazione e di corruzione». Il dibattito di Brescia riveste un’importanza
notevole, soprattutto perché la discussione intorno alla vicenda Marsich
toccò anche il tema della violenza. Turati affermò che i rilievi contro
il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ciò,
soprattutto dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del
Veneto, notoriamente “feudo” di Marsich, non conducesse all’apologia dei
metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al “manganello”, affermò il
futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe
fatalmente condotto all’isolamento politico. Il convegno si chiuse con
l’approvazione di un ordine del giorno unitario, col quale i fascisti
della provincia di Brescia, «non riconoscendo nelle critiche contenute
nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso»,
reclamavano la «purificazione» del fascismo e facevano auspicio che alla lotta
politica fosse «restituita la forma di un civile contrasto»
(«Fiamma»). entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema
rappresentativo, semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ciò sarebbe
senz’altro avvenuto, grazie al fascismo e all’istituzione di parlamenti
tecnici. Riguardo a Gabriele D’Annunzio - proseguiva Rocca -
l’atteggiamento di Marsich era poi del tutto irragionevole: non solo
perché, dopo le infinite vicissitudini dei legionari dannunziani, nessuno
era in grado di dire quali fossero le idee politiche del “comandante”, ma
anche, e soprattutto, perché era privo di senso attaccare Mussolini per
poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle seduzioni del dannunzianesimo.
«Il fascismo concludeva Rocca dev'essere anzitutto un’accolta di uomini
liberi, sia pur disciplinato ad una causa ed un’azione liberamente
scelte: non un plotone di soldati al servizio di un uomo. La Direzione
del partito votò una mozione di biasimo a Pietro Marsich°!°, poi
riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio Nazionale
del fascismo. Rocca conosce forse il suo periodo di maggior popolarità come
dirigente fascista. In quei mesi, che prepararono l’ascesa al potere di
Mussolini, sembra per molti versi che le idee di Rocca potessero
concretizzarsi in un progetto politico di ampio respiro. Parve, cioè, che
il fascismo (com'era nelle aspirazioni dell’ex anarchico) potesse davvero
configurarsi come élite ROCCA, Chiarificazioni, «Il Popolo d’Italia». nonna
Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi
ge «lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole
alla militare, ma quella intelligente e consapevole che viene accettata
dagli uomini liberi» (MALUSARDI, Sincerità delle sincerità [cf. GRICE,
APING COOPERATIVE PRINCIPLE], «Fiamma», 1 aprile 1922). Lo spirito
individualista di Rocca e Malusardi se così si può dire - era rimasto
fondamentalmente intatto, anche se le nn politiche dei due ex
anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, È;
fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione più o meno aggiornata del
tiberalismo i destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a
recuperare l’ispirazione i ionaria e i programmi del Partito d’ Azione
mazziniano. una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato,
«Il Popolo "Italia). ù dI Of La prima pra del Consiglio
Nazionale Fascista; Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per
tre giorni, durante i quali furono Pv temi importanti, dalla vicenda di
Fiume all’indirizzo politico del partito. SNA lo a quest’ultimo punto,
Rocca si schierò una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi -
affermò provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra]
lega " rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della
credibilità, si doveva avere il coraggio di fare la rivoluzione sul serio,
non limitandosi ad “adorarla” (cfr. La seconda giornata del Consiglio
Nazionale Fascista. Rocca dirige anche la Federazione provinciale
fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. PARETI RIE IPP IRT OT
PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT dirigente, capace di
raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra e di guidare
una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. All’inizio di luglio
Rocca ricevette dalla Direzione del partito l’incarico di procedere alla
costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene contemplati dallo
statuto/regolamento, erano rimasti sulla carta) ‘!; quindi nel settembre,
fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato nazionale.
Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva «coordinare l’opera dei
singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali», in modo tale ch’essi
servissero «da legame e da organi d’informazione fra il Partito Nazionale
Fascista e le Corporazioni sindacali», e facessero da punto di raccolta
dei «nuovi valori intellettuali e tecnici» destinati a formare la classe
dirigente del futuro - Per l’ex operaio tipografo, orgoglioso e tenace
autodidatta, che da anni andava predicando l’urgenza di una rivoluzione
dei competenti, si tratta di un riconoscimento personale importantissimo
e di una grande occasione politica. Anche per questa ragione, il
fallimento dei Gruppi di Competenza (al quale dovevano contribuire le
resistenze opposte dalla “oligarchia” fascista e dai «capi locali più
ignoranti») ?”, rappresentò, per Rocca, una cocente delusione, che
ebbe un peso non secondario nel definirne | il mutato
atteggiamento riguardo al fascismo. A fine agosto «Il Popolo
d’Italia» rese noto un programma in due parti “per il risanamento
finanziario” dello Stato e degli Enti Locali”, Il documento, che doveva
dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia
economica, era redatto da Massimo Rocca e dall’on. Ottavio Corgini, ed
era, in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista.
Proprio a motivo della sua “classicità”, il programma Rocca/Corgini
suscitò commenti benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano”?
e valse, insieme Cfr. «Il Popolo d’Italia». Gli unici due Gruppi di
Competenza operanti nei mesi successivi all’entrata in vigore dello
statuto risultavano essere quello degli “ingegneri fascisti” e quello degli
“assicuratori fascisti triestini” (cfr. CORDOVA). Il Popolo
d’Italia Su tutti questi punti V. principalmente AQUARONE,
Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in «Nord e Sud», nonché
CORDOVA, Ka cit., p. 101 ss. si Massimo Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura pì Detto programma aveva avuto un’anticipazione
nell’articolo di Rocca Disavanzo cronico, pubblicato dall’organo
mussoliniano il 18 luglio. «Il Corriere della Sera», in un fondo
del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente (senza firma, ma
opera di Luigi Einaudi), formulò un giudizio addirittura entusiasta sul
programma economico fascista. Esso - osservò Einaudi - aveva il merito di
risalire alle «sorgenti liberali dell'economia classica», senza niente
concedere alla facile demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in
tema di regime?”4, a spazzar via le residue diffidenze dell’opinione
pubblica moderata nei confronti del fascismo, nel momento in cui esso si
candidava scopertamente a forza di governo. AI centro della riflessione
di Rocca e Corgini è l’idea che il Parlamento italiano è ormai diventato
un organo di sperpero, in balia di gruppi parlamentari irresponsabili, e
che occorresse per questo abolire l’iniziativa parlamentare a proporre
nuove spese. Tra i provvedimenti atti a risanare l’erario, il programma
annovera: la riforma della burocrazia (affinché gli uffici pubblici
cessassero di essere un ricettacolo di tutti «i vinti anticipati nella
lotta per l’esistenza e l’elevazione»); la cessione ai privati delle
industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali “inutili”; la
soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici,
ai privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione
all’essenziale dei lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che
“inceppavano” la produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dell’intero
sistema tributario, nel senso di una riduzione delle imposte dirette, le
quali andavano a detrimento della produzione, e di un corrispondente aumento
di quelle dirette, che, colpendo il consumo interno, lasciavano ampio
margine alle esportazioni”, La seconda parte del programma, dedicata alla
situazione degli Enti Locali, era senz'altro molto più “politica”. La
responsabilità prima del dissesto dei Comuni e delle Province italiane -
affermavano infatti gli estensori del “socialistoide”. Rocca stesso,
riandando con la memoria agli avvenimenti di quell’estate, scrisse che il
programma «incontrò un successo rilevante», sebbene esso «andasse oltre l’ideologia
liberale. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura,). nell’ambito di
un intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini afferma che la
rivoluzione fascista non insidia il trono dei Savoia. Lasceremo in
disparte dice, fuori del nostro gioco, che ha altri bersagli visibilissimi e
formidabili, l’istituto monarchico, anche perché pensiamo che la gran
parte dell’Italia vede con sospetto una trasformazione del regime che
anda fino a quel punto (Un forte e
chiaro discorso ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista
dinanzi alle necessità storiche della Nazione, Il Popolo d’Italia. Il
discorso di Mussolini è molto apprezzato e non puo essere altrimenti da Rocca, che, in un telegramma al duce,
dichiara di condividerne entusiasticamente ogni parola. Più sfumata la reazione
di Gioda. Le considerazioni di Mussolini in ordine alla questione
istituzionale - scrive il segretario del Fascio torinese - doveno essere
valutate serenamente. Dopo tutto, osserva Gioda, anche REPUBBLICANI
INTRANSIGENTI come Mazzini e Crispi si sono piegati, nell’interesse
d’Italia, ad accettare la monarchia. (GIODA, Il discorso di Udine, «Il
Maglio. ROCCA, CORGINI, Pel risanamento finanziario dello stato
italiano. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, «Il Popolo d’Italia», Ae documento - era delle amministrazioni
di sinistra, socialiste e popolari dell’azione «immorale, disordinata e
dilapidatrice dei sovversivi». Un rimedio poteva consistere
nell’obbligare gli amministratori rossi a preparare e fare approvare i
bilanci comunali e provinciali nei modi e nei tempi stabiliti dalla
legge» (a costo di agire «fascisticamente, senza mezzi termini ed eufemismi»),
ma, ancora una volta, la soluzione vera del problema doveva passare
attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale Rocca e Corgini
auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia, di un
«comitato centrale di difesa dei contribuenti Dalla metà di settembre sino alla
vigilia del congresso fascista di Napoli Rocca è impegnato a dirigere la
campagna di comizi per il risanamento finanziario, che attraversò tutta
l’Italia. Quattro giorni prima dell’inaugurazione del congresso
partenopeo «Il Popolo d’Italia» pubblica lo statuto/regolamento dei
Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a ragione considerare il
maggior contributo di Rocca ai programmi del primo fascismo) era
preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale l’autore
esponeva in modo lineare la propria dottrina della competenza. Per prima
cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti e i
sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti
gli effetti, formazioni di massa, all’interno delle quali «i produttori
restavano raggruppati più con riguardo al numero che alle capacità
singole», al fine di salvaguardare «interessi particolari e soprattutto
economici»; i primi dovevano configurarsi come «nuclei esigui di
persone», le quali, in quanto «partecipanti ai gruppi medesimi», non
dovevano avere «alcun interesse specifico, né personale né di classe» da
tutelare. Ai Gruppi doveva quindi competere una funzione eminentemente
«consultiva e di studio», ma anche una funzione, per così dire, di
“armonizzazione” dei diversi interessi, un’opera «il cui precipuo
carattere spirituale» fosse quello di favorire «la concordia fra le
diverse classi e categorie produttive», così come fra il partito e le
corporazioni. Poiché, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non
erano compatibili «né col numero né con i metodi democratici di elezioni
e i Lo (1g ARA ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali.
Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922. Entrambi i programmi furono in
seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza pubblica.
Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione
finanziaria dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922.
Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di
organizzare i comizi. Rocca è l’oratore principale a Genova, Livorno,
Savona, Alba - dov’è previsto un suo contraddittorio con Sturzo, saltato
all’ultimo momento (cfr. «Il Popolo d’Italia») - e Palermo. di
discussioni», i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto «la
diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito. Nella sua relazione al
congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato per discutere i
problemi del Mezzogiorno, Rocca illustrò dettagliatamente il progetto di
statuto/regolamento, dicendosi altresì convinto che i Gruppi di Competenza
avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione
meridionale?””. Sul “meridionalismo” di Rocca, che egli avrebbe in
seguito rivendicato come un titolo di merito, è necessario aprire una
parentesi. Già da qualche tempo prima del congresso napoletano, il
fascismo, che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa,
mirava a mettere radici nel meridione. D’altronde, l’ipotesi - ormai
sempre più concreta - di una “marcia su Roma” presupponeva, per la sua
attuazione, una penetrazione politica e militare anche nei territori a
sud della capitale. Si è riunita la Direzione del PNF, «per studiare
l’organizzazione fascista in rapporto ai bisogni delle regioni
meridionali e delle isole», e definire l’ordine del giorno della prevista
adunata partenopea. Nel corso della discussione Rocca si era mostrato
scettico sull’opportunità di considerare la questione meridionale anche in relazione alle tematiche
riguardanti l’ordinamento del partito un
problema a se stante, slegato dalla più complessa realtà nazionale, e
aveva espresso il timore che il congresso potesse risolversi in una
contrapposizione artificiosa tra nord e Il Popolo d’Italia A norma dello
statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre,
i Gruppi di Competenza (ripartiti in sette «rami» principali: industria,
commercio, agricoltura, trasporti, amministrazione pubblica, scuola e
difesa) si dividevano in locali, provinciali e nazionali, nominati
rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal
Segretariato nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non
doveva eccedere i venti elementi, scelti, secondo il criterio della
capacità professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso,
iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere
quello di offrire un sostegno tecnico qualificato agli organismi
dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di «compiere indagini, raccogliere
materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni»,
che servissero «di guida» al partito e ai sindacati. Ai Direttori
fascisti dei capoluoghi di circondario e a quelli provinciali era fatto
obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual volta avessero
dovuto assumere decisioni «su problemi anche solo in parte tecnici», e
quando si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In
questo caso lo statuto prevedeva che i Gruppi, o parte di essi, potessero
essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a comporre i
conflitti tra capitale e lavoro. Lo statuto/regolamento dei Gruppi
di Competenza, con l’annessa relazione, si trova anche in Rocca,
Relazione al Gran Consiglio Fascista sui Gruppi di Competenza. Relazione
introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella nuova
vita nazionale. Discorso pronunciato all’adunata di Napoli: vigilia della
Marcia su Roma, Milano, Imperia, Cfr. «Il Popolo d’Italia», sud del
Paese, o, peggio, in una guerra di frazione o di campanile tra le diverse
regioni del Mezzogiorno. Nell’insieme, si può dire che il torinese Rocca
non manifesta una particolare sensibilità verso i problemi del meridione.
Eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del Governo,
egli è uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Rocca compe un
viaggio di studio in Sicilia per conto della Direzione del partito, e ne
rifere al Gran Consiglio. Sembra peraltro che nel corso delle sue
frequentazioni siciliane egli rimane invischiato in affari torbidi
(connessi alla gestione del consorzio zolfifero), che ne hanno in qualche
misura condizionato il futuro politico. Il punto è oscuro, ma deve essere
richiamato, dal momento che, tra le accuse mosse a Rocca da Farinacci e
dagli altri ras provinciali nel pieno della polemica revisionista, quelle
di corruzione hanno un peso non secondario. Stando a quanto ammesso dallo
stesso Rocca al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trova per
seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e
nordamericani), egli ha i primi contatti con i responsabili del consorzio
zolfifero siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di
un suo comizio palermitano nell’ambito della campagna fascista per il
risanamento finanziario”? Il Governo Mussolini - dichiara Rocca al suo
intervistatore - doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti
dell’industria zolfifera siciliana, da tempo alle prese con una grave
crisi, anche «attenuando» il proprio intervento «nelle faccende del
Consorzio». Ora, a quanto risulta da un documento conservato nelle
carte di PS (un dattiloscritto anonimo), alla sollecitudine dimostrata da Rocca
verso le sorti dell’industria zolfifera sarebbe in realtà
corrisposta una ricca contropartita. I produttori di zolfo, riuniti in
consorzio, avevano dato vita a un “comitato di agitazione”, allo scopo di
esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore
del settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva
prelevato Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, «Il Popolo
d’Italia» Cfr. PNF, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista,
Roma, Editrice Nuova Europa, Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca,
egli avrebbe individuato nella «regolazione delle acque e nel
miglioramento delle vie di comunicazione» la «misura immediata e
necessaria, sebbene non sufficiente» per attenuare i disagi delle
popolazioni meridionali (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura PELIZZI,
La questione degli zolfî e altre cose. Un'intervista con Massimo Rocca,
«Il Popolo d’Italia arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo
assicurazioni del sindacato zolfatari, senza farne menzione nell’obbligo
di rendiconto. La decisione, chiaramente illegale, aveva incontrato
l’opposizione tanto del Ministro del Lavoro del Governo Facta, quanto del
suo successore nel nuovo esecutivo a guida fascista, il popolare Stefano
Cavazzoni. A questo punto - secondo la medesima fonte -, sarebbe entrato
in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro adeguata “ricompensa”, avrebbe
fatto valere il proprio peso politico, intercedendo con successo a favore
del consorzio zolfifero. Le informazioni contenute nella relazione citata
rispondevano probabilmente al vero, ma non è da escludere, tenuto conto
del momento in cui il documento in questione vide la luce (al termine,
cioè, della seconda “ondata” revisionista), che esse fossero montate ad
arte nel tentativo di screditare Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un
oppositore dichiarato del Governo. AI di là dei proclami ufficiali,
l’assise napoletana servì quale adunata generale in vista della “marcia
su Roma”. Già da tempo, e precisamente dopo la prova di forza offerta
dalle camicie nere in occasione dello sciopero “legalitario” indetto
dall’ Alleanza del Lavoro alla fine di luglio, molti capi fascisti
meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori del fascismo,
riunitisi a Milano, a pochi giorni dalla conclusione dello sciopero,
avevano discusso a lungo sull’eventualità o meno di un'insurrezione
armata”. Insieme a Grandi, Rocca è il più convinto fautore della via
legalitaria, mentre la linea insurrezionale aveva trovato i suoi
propugnatori soprattutto in Farinacci, Balbo e lo stesso segretario del partito
Bianchi”. Dopo la “marcia Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca].
L’importante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del
Gruppo parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della
Confederazione delle Corporazioni) era stato dominato dalla relazione di
Bianchi sulla situazione politica. Il segretario del PNF aveva
chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di
forza offerta nei giorni dello sciopero “legalitario”, non era più
disposto a tollerare lo sfacelo del Paese e si sarebbe impadronito del
potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due tendenze, la
legalitaria e l’insurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno
alla relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a
mezza via, e i due ordini del giorno votati il 13 agosto (il primo, per
l’istituzione di un comitato militare ristretto; il secondo, firmato
anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della
Camera e l’indizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente
del “duce”. Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale
Fascista, «Il Popolo d’Italia Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano,
Rizzoli, su Roma” (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini
alla Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre più che l’ascesa
al potere del fascismo, con l’assunzione di responsabilità ch’essa
comportava, dovesse chiudere per sempre la fase “eroica” della
rivoluzione e inaugurare quella della ricostruzione, in spirito di
concordia nazionale, e soprattutto
- nell’assoluto rispetto della legalità. L’esigenza di porre un
freno alle intemperanze dello squadrismo era del resto avvertita, oltre
che dallo stesso Mussolini, da molti fascisti della “prima ora”, tra i
quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue peregrinazioni (egli stesso
amava definirsi un “nomade”), dopo aver retto per qualche tempo la
Federazione Sindacale padovana??”, Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in
provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico di segretario
politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista” I fascisti di
Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria. È in discussione
il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati episodi di
squadrismo verificatisi in molte zone del genovese Malusardi, secondo
l’impostazione cara anche a Rocca, a Gioda e ai fascisti più moderati
(una forma mentis di cui abbiamo già rimarcato i limiti intrinseci),
rilevò che la violenza squadrista, utile e legittima fintantoché si manteneva
«chirurgica e cavalleresca», non era giustificabile quando
assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo l’ascesa al governo
del fascismo, le camicie nere avevano l’obbligo, insieme morale e
politico, di essere disciplinate. Su questo punto di grande importanza v.
altresì CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze,
Vallecchi, e NELLO, Dino 4 Grandi: la formazione di un leader fascista Cfr.
ACS, CPC, Busta [Malusardi].
Malusardi è chiamato a Padova e vi si è trattenuto, contribuendo,
grazie alle sue capacità di organizzatore e di propagandista, e alla vena
popolare del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il suo
maggior successo è il raggiungimento di un concordato con la locale
Associazione Agraria, alla fine di giugno. L'accordo è tendenzialmente
favorevole ai lavoratori (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore
lavorative, l’imponibile di mano d’opera e la creazione di commissioni
paritetiche per dirimere i conflitti d’interesse), e Malusardi, ligio ai
propri convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto
agli agrari, anche i più riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di
boicottaggio da parte dell’associazione padronale, il congresso sindacale
provinciale si conclude con un ordine
del giorno molto duro, nel quale s’invocava un’«opera decisa ed
inesorabile, per far piegare, innanzi al giusto ed unanime diritto del
lavoratore, i [...] datori di lavoro» («Il Lavoro d’Italia». Malusardi
rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta
2964 [Malusardi Edoardo]. Noi non possiamo più sostenne Malusardi a proposito dell’autorità
politica I scavalcarla ed esautorarla, bensì la dobbiamo coadiuvare e
vigilare perché applichi inflessibilmente lo imperio della legge. E
conclude: Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, l’olio di
ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece delle biblioteche e
delle scuole di cultura Aspettative e delusioni
Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza
del Consiglio non attenuò affatto le brutalità fasciste, che anzi
subirono un’impennata, culminando nella strage di Torino.
L'episodio è fin troppo noto e costituisce una delle pagine più fosche
nella storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le
conseguenze che ebbe sulle sorti politiche di Gioda e di Rocca. Accampando
come d’abitudine il pretesto di vendicare l'uccisione di due camerati,
gli squadristi torinesi, capeggiati da Brandimarte, scatenarono una sanguinosa
rappresaglia contro le organizzazioni socialcomuniste. In quella che
Salvemini define una vera orgia di sangue trovano la morte una ventina di
persone, tra le quali l’ex anarchico Berruti, consigliere comunale
comunista e noto L'assemblea straordinaria del Fascio, «Giovinezza.
sn «i pa del dicembre è solo l’apice di una lunga teoria di fatti di
sangue. In un telegramma al Ministro Di Interni, il Prefetto di Torino
mostrava di aver perfettamente compreso la situazione («Articoli comparsi
su ultimi numeri del giornale fascista «Il Maglio» - O rivelano
chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni
comuniste accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma
violenta ed improvvisa») e chiedeva l’invio di rinforzi. ACS, MINISTERO
DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris., Busta [Fascio di Torino]. : It
i La ricostruzione più accurata di questi drammatici avvenimenti si trova
in FELICE, I fani di Torino in «Studi Storici», SALVEMINI, Scritti
sul fascismo, Milano, Feltrinelli, esponente del Sindacato Ferrovieri. Gioda,
il cui potere effettivo all’interno del Fascio torinese era andato
vieppiù scemando (tanto che, negli ultimi mesi, la sua attività si era
limitata a curare le corrispondenze per «Il Popolo d’Italia»), non ebbe
alcuna responsabilità nell’accaduto?‘* ed anzi, al pari di Rocca, non si
fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi. Vecchi, al
contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti, se ne
attribuì la paternità”, a nessun altro scopo - come sembra - se non
quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che
aveva incaricato una commissione d’inchiesta di far luce
sull’accaduto), «la sua | figura di ras di Torino e del Piemonte»?
Con una mossa a effetto, carica però di significati politici - e non solo
per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo torinese -, Rocca
e Gioda fecero giungere una corona di fiori sul feretro di
Berruti, loro amico di gioventù ‘‘?. Gli squadristi - nota Rocca a
distanza - non gli avrebbero mai perdonato quel gesto. Episodi come
quello di Torino contrastavano drammaticamente con la | necessità - posta
in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una | normalizzazione del
fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini Sulla figura di Berruti v.
ANDREUCCI, DETTI, Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata
ordinata a sua completa insaputa. Cfr. FELICE, / fatti di Torino
Popolo» FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82.
% Cfr. GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, «Il
Popolo d’Italia. Gioda scrive di Berruti ch’egli era «indubbiamente un
uomo in buona fede e dotato di qualità intellettuali non comuni. Cfr.
MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura L’inchiesta ordinata da
Mussolini, affidata a Giunta e Gasti, accerta le gravissime
responsabilità degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle
indagini, il Gran Consiglio si limitò a statuire lo scioglimento del
Fascio di Torino, delegando l’incarico della sua ricostruzione allo
stesso De Vecchi, nominato fiduciario con pieni poteri, mentre Gorgolini
e Gobbi (due dei più stretti collaboratori di Mario Gioda), autori di un
memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per
esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista,
chiaramente compromissorio, non significava che Mussolini avesse
perdonato a Vecchi la sua indisciplina. Di lì a pochi mesi, infatti, il
quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo, ove ricopriva il ruolo
di sottosegretario alle pensioni e all’assistenza militare, quindi, dopo
la sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare
l’Italia. In una vibrante lettera a Mussolini, poi allegata agli atti
dell’inchiesta, In un discorso al Teatro
Ambrosiano, il quadrumviro difese l’operato di | Brandimarte e si assunse
la responsabilità politica e morale della strage. Cfr. «La Gazzetta del
| furono segnati da questa stridente contraddizione, in un
difficilissimo equilibrio tra disordine e legalità, spinte eversive e
propositi riformatori, ricerca del consenso e violenza indiscriminata.
Sebbene funzionale agli interessi del partito, il dibattito sulla legge
elettorale, che monopolizzò la vita politico/parlamentare italiana è UNO
DEI POCHI MOMENTI REALMENTE COSTRUTTIVI DEL FASCISMO. Rocca, già da tempo
schierato per il ritorno al sistema maggioritario”, entrò nella speciale
commissione per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio,
primo passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo”. Per un
certo MITA] riguardo si veda l’articolo // processo alla proporzionale,
in «Il Risorgimento. Sulla delicata questione del sistema
elettorale Rocca ha un vivace scambio di vedute con Farinacci, fautore di
un ripristino dell’uninominale puro. In una lettera a Farinacci, Rocca
definì un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale
vigente (che se non altro aveva avuto il merito di immettere «sangue
nuovo» nell’asfittica vita parlamentare italiana), un’eventuale
reintegrazione del collegio uninominale; una formula dominata «dalle
aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre
con mezzi leciti ed onorevoli», e che per di più aveva il difetto di
acutizzare «Io spirito campanilistico» (La discussione sul sistema
uninominale. Una lettera di Massimo Rocca all'on. Farinacci, «Cremona
Nuova). Nella sua pronta replica, Farinacci obietta che la rivoluzione
fascista ha a tal punto innovato i costumi politici degl’italiani che il
ristabilimento dell’uninominale non puo considerarsi un semplice ritorno
al passato. «Se allora, nel passato sosteneva Farinacci sono le clientele che decideno, adesso sarebbero da una
parte il criterio e il giudizio della Federazione provinciale fascista e
dall’altra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo giudizio,
non più formulato in virtù della potenza della clientela, ma in forza del
valore del candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la loro
educazione fascista». Quanto al problema del campanilismo questione niente affatto trascurabile,
soprattutto qualora la si consideri alla luce delle future polemiche tra
Rocca e Farinacci in merito al fascismo provinciale -, il ras di Cremona
fu ancora più esplicito. «Tu rimprovera
infatti a Rocca prescindi
dall’efficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i
quali sono inclinati, mercé l’opera nostra, a conciliare l’interesse
della provincia con quello della nazione, subordinando l’uno all’altro»
(FARINACCI, // perché del ritorno al collegio uninominale). a
conclusione dei suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre
a Rocca, Michele Bianchi, Roberto Farinacci, Rossi, Maraviglia, Bastianini
e Sansanelli) si pronuncia ufficialmente per il sistema maggioritario secondo
uno schema elaborato da Bianchi e contro l’uninominale. Rocca, che si trova
in Sicilia e non poté esser presente alla riunione, invia una lettera di
piena adesione, di cui da conto lo stesso Bianchi (cfr. «Il Popolo
d’Italia). Il Gran Consiglio accettò le decisioni della commissione (il
progetto Bianchi raccolse 21 voti a favore, contro i 2 ottenuti da
Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era
fascista), dopodiché il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo
Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo,
sottoposto all’esame preventivo di una commissione parlamentare
interpartitica (la cosiddetta commissione dei VIT PATTI VENI
"TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI periodo, parve che alla
riforma elettorale com'era negli auspici
di Michele Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una più
ampia azione di rinnovamento istituzionale. Nell’ultima seduta della
sessione di aprile il Gran Consiglio deliberò la creazione di un Gruppo
di Competenza per la riforma costituzionale, affidandone la presidenza
proprio a Rocca?!. Dinanzi all’allarme suscitato negli ambienti liberali
da queste manovre Rocca si affrettò ad «assicurare ogni patriota in buona
fede» che né l’istituto monarchico, né i principi informatori dello
Statuto sarebbero stati messi in discussione”. In realtà, proprio la
diffidenza manifestata dagli altri partiti della maggioranza e il timore
che essa potesse incidere negativamente sul cammino della legge
elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni velleità
riformatrice. Rocca, che finalmente intravede la possibilità di legare il
proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad un’opera
propositiva di riforma, ne resta amareggiato. Questa volta scrive a distanza di tempo la delusione è profonda. Il movimento
fascista, che da quattro anni parla senza tregua di rivoluzione e già ne
invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava
intraprendere la più modesta riforma, meno radicale di quella “corporativa”
attuata d’ANNUNZIO (si veda) a Fiume; una riforma capace di giustificare,
dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le gesta passate del fascismo, il
dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo nel futuro, la
retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze
verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad
un'etichetta, dal significato puramente negativo, comodo pretesto per
trascurare la legalità | vigente, senza però curarsi di foggiarne
un’altra qualsiasi. Mussolini trascurava diciotto) - che lo
approvò -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo una lunga
discussione. Su tutti questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista Cfr. PNF,
I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista Il Gruppo comprendeva
anche: Bianchi (presidente), Costamagna (segretario), Corradini,
Maraviglia, Casalini, Rossoni, Tamaro, Panunzio, Lolini, Gatti e
Vecchio. «Il Popolo d’Italia», FELICE, Mussolini il fascista Fedele a una
visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno
schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei
sindacati «d’ogni categoria e d’ogni classe»; l’elezione, da parte dei
dirigenti e delle federazioni sindacali, di consigli tecnici
dell'economia, «comprendenti tre classi», a livello locale, provinciale e nazionale;
il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al
Senato vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, «per togliere loro
ogni preoccupazione elettorale ed assicurare il contributo dei migliori
uomini agli affari pubblici»; il divieto al Parlamento di proporre
nuove spese; l’approvazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come
il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138). un'occasione unica
di mostrarsi grande e d’imporsi, col suo prestigio di riformatore, ai
capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti
esteriori La delusione di Rocca fu tanto più grande in quanto
all’accantonamento dei disegni di riforma costituzionale si aggiunse il
concomitante naufragio dei Gruppi di Competenza, l’iniziativa nella quale
egli aveva riposto le maggiori speranze. In un’intervista a un quotidiano
romano (riprodotta in parte anche da «Il Popolo d’Italia»), Rocca, pur
ribadendo che i Gruppi di Competenza, «nati da un’idea prettamente
aristocratica», rappresentavano la maggior novità del fascismo, riconobbe
che la loro attuazione dipendeva «dalla volontà del Governo di
utilizzarli»?9°. Dietro questa semplice constatazione si nascondeva
l’amara consapevolezza delle grandi difficoltà fin lì incontrate dai
Gruppi all’interno stesso del fascismo (si tenga presente che, a quasi
quattro mesi dall’entrata in vigore dello statuto/regolamento, i soli due
Gruppi realmente funzionanti erano quello per la pubblica amministrazione
e quello per l’educazione, quest’ultimo, peraltro, in pessimi rapporti
con il ministro Gentile) AI Gran Consiglio del 17 marzo, Rocca, dopo aver
riferito sulla situazione generale dei Gruppi, affermò la necessità di
riconoscere loro una «franca autonomia», sola condizione per garantirne
un'effettiva operatività”. Nei mesi successivi qualcosa parve smuoversi,
al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio, Rocca poté annunciare
l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza provinciali,
ottenendo l’assicurazione che gli organi direttivi del partito avrebbero
fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo”. Nonostante le apparenze,
tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano un’esistenza stentata, senza
un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria
nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari
del partito e dalle stesse corporazioni”! L’insorgere della prima
crisi revisionista, conclusasi con l’insuccesso di Rocca, diede loro il
definitivo NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la
burocrazia, la scuola, l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con
Rocca, «Il Giornale d’Italia». A questo riguardo v. CORDOVA, op. cit., pp.
166-167. 258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era
fascista V. altresì / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella
relazione di Rocca al Gran Consiglio Fascista, «Il Popolo d’Italia. Cfr.
PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista E? estremamente
significativo, ad esempio, che il primo consiglio nazionale delle
Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse minimamente
affrontato il tema dei Gruppi di Competenza. Cfr. CORDOVA, op. cit., p.
164. colpo di grazia”. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita
del governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e
politiche, di Massimo Rocca e non v’è dubbio che fu proprio la
disillusione a indurre l'ex anarchico alla sua ultima battaglia
polemica. Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre
Mario Gioda tornava faticosamente alla vita politica (il Fascio di
Torino, sciolto in conseguenza dei fatti del dicembre, fu ricostituito),
il biennio vide la consacrazione di Malusardi come dirigente
sindacale; e tuttavia non sembri un
paradosso -, proprio nel 1924 la carriera dell’ex stuccatore rischiò di
spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi vecchi compagni sebbene su un
piano diverso -, anche Malusardi si trovò a dover fare i conti con la
trasformazione del fascismo in regime. Malusardi lasciò Sestri Ponente,
per dirigere la Federazione sindacale di Firenze”. In pochi mesi egli
seppe conferire all’organizzazione corporativa dell’area fiorentina
maggiore stabilità ed efficienza”. Nell'agosto, a coronamento dei suoi
successi, Malusardi fu nominato segretario della Corporazione
nazionale del vetro, da poco costituita”, Quali fossero gli
orientamenti generali del fascismo in materia sindacale e quanto essi si
discostassero dalla concezione operaista di Malusardi, alimentata dai
miti corridoniano e dannunziano, lo mostrò chiaramente il cosiddetto patto
di Palazzo Chigi, stipulato tra la Confederazione delle Corporazioni e la
Confindustria, un accordo che segnò «il fallimento, almeno nell’industria
e in quel momento, dell’ipotesi di In seguito alla sua sospensione per tre
mesi da ogni attività di partito, Rocca lascia la segreteria dei Gruppi di
Competenza al suo vice Costamagna, che la assunse a titolo definitivo.
Nel frattempo, il Gran Consiglio daveva disposto la trasformazione dei Gruppi
in Consigli Tecnici nazionali, organismi ancor più evanescenti, dei quali
ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.AQUARONE al Teatro Scribe, ha luogo
l'assemblea del Fascio per l’elezione del nuovo Direttorio. Questo, radunatosi
quattro giorni dopo, riconfermò segretario politico Mario Gioda. Cfr. «Il
Maglio», 2 giugno 1924, e «Il Popolo d’Italia. Cfr. MALUSARDI, Elementi di
storia del sindacalismo fascista, E A n past p In base alla
relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle
Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze sei
mesi dopo il suo arrivo a Firenze – erano XIV (I agricoltura, II commercio,
III industria, IV impiego, V professioni intellettuali, VI scuola, VII sanità,
VIII dipendenti monopoli e aziende statali, IX stampa, X teatro, XI trasporti
e comunicazioni, XII ospitalità nazionale, XIII industrie artistiche, e XIV belle
arti), per un totale di circa 50.000 iscritti. Cfr. «Il Lavoro d’Italia»,
Ctr. sindacalismo integrale»’’. L’intesa, fondata sul principio della
collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo,
sollevò tensioni e contrasti all’interno del sindacalismo fascista. Si riunì a
Roma il consiglio nazionale delle Corporazioni, nel corso del quale si
manifestarono due tendenze: la prima (più conciliante e che finì per
prevalere) facente capo a PANUNZIO (si veda) e sostenuta dal segretario
generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il riconoscimento
giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda, rappresentata
da Bagnasco e Malusardi, a favore dell’azione diretta contro gl’industriali.
Nel clima di confusione seguito al rapimento e all’assassinio di
Matteotti, Malusardi si dimise dalla segreteria dei sindacati fascisti
fiorentini (dove è sostituito da Lusignoli) 2°. È un primo atto di ribellione,
al quale fa seguito la costituzione - con Galbiati (segretario della
Corporazione nazionale dell’arte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi
- d’un comitato d’azione per rigenerare le Corporazioni, Nell’ordine
del giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la
debolezza, l’incertezza programmatica e l’autoritarismo che
contraddistinguevano l’opera delle Corporazioni fasciste, e s’invoca un
totale revisionismo, nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le
Corporazioni proseguiva il documento - dovevano agire «in senso
nettamente sindacalista», avendo presenti gli «interessi effettivi della
classe produttiva», senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici
(«di lotta di classe e di collaborazione aprioristica») e politici, ma
anzi ricercando l'intesa «con le masse e le organizzazioni che si
muovevano sul terreno nazionale». Quanto ai rapporti con il Partito
Fascista, questi dovevano essere fissati «in forma di libera e
consapevole alleanza»? Pochi giorni dopo, PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Su
questi punti v. CORDOVA. PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Per la
cronaca del congresso v. «Il Popolo d’Italia»,
e «Il Lavoro d’Italia. Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, «La
Giustizia». Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle
Corporazioni milanesi, «La Voce Repubblicana. AEREI ; i i Dal 13
settembre il Comitato iniziò le pubblicazioni di un proprio settimanale:
«L’Idea Sindacalista». Jai Un sintomatico pronunciamento fra
i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. («La Voce Repubblicana», che,
da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali
del fascismo, seguì con grande attenzione gli sviluppi della crisi, definì una
«diagnosi perfetta» quella contenuta nell’ordine del giorno del Comitato
milanese). Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzionò
l’allontanamento «dal movimento sindacale fascista» di Galbiati e Malusardi?”!,
il quale però, all’inizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato,
ottenendo il ritiro del decreto di espulsione”. Non è chiaro per quale
motivo Malusardi si decise a quella mossa, ma è certo che, così facendo,
egli salvaguardò la propria carriera politica. Pertanto, pur senza mai
rinnegare del tutto le proprie radici anarcosindacaliste (si può dire
infatti che la sua azione nell’ambito del sindacalismo fascista
continuò a vivere di velleità operaiste) ?”?, Malusardi la cui fedeltà al
fascismo non fu comunque mai in discussione - rientrò |
disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre più ai modelli imposti
dal regime. Nell'autunno del 1924, preludio all’avvento di una lunga
dittatura, si concluse quindi almeno formalmente la vicenda “libertaria” di Malusardi:
un’uscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a Massimo
Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica. Si riune a Roma il
Direttorio nazionale delle Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e
Galbiati fu liquidata come l’atto «di quattro persone che non avevano
alcuna autorità e alcun seguito». Cfr. «Il Popolo d’Italia Hi Provvedimenti del
Direttorio delle Corporazioni. Sull’intera vicenda v. CORDOVA 2a Dimissioni!,
«L’Idea Sindacalista Un mese dopo Malusardi presenzia regolarmente al secondo
congresso nazionale delle Corporazioni (Roma). Cfr. «Il Popolo
d’Italia. Esemplare, a questo proposito, l’esperienza di Malusardi come
segretario dell’Unione provinciale dei sindacati fascisti di Torino,
segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in
particolare (al riguardo v. SAPELLI, Fascismo, grande industria e
sindacato. Il caso di Torino, Milano, Feltrinelli. Le aspirazioni libertarie di
Malusardi trovano un ultimo rifugio nell’utopie socializzatrici
della Repubblica Sociale, nella quale egli ha comunque un ruolo defilato
e la cui funesta parabola non gli risparmia dolori e amarezze (uno dei
suoi figli, divenuto partigiano, è fatto prigioniero dai fascisti e condannato
a morte, Malusardi si rivolge a Mussolini, il quale intervenne
personalmente affinché al ribelle è risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA
SOCIALE ITALIANA, Segreteria particolare del duce. Nel dopoguerra,
nonostante la non più verde età, Malusardi partecipa attivamente alla
vita politica e sindacale nelle file della CISNAL. Il suo approccio alle
questioni del lavoro resta di fatto immutato, sentimentalmente ancorato
alle memorie di Corridoni e Annunzio (a titolo di esempio si vedano i saggi Corridoni
e Socialità di ANNUNZIO (si veda), pubblicati da Malusardi su una risorta
edizione de «Il Maglio. Muore a Torino. Sulla figura e l’opera di
Edoardo Malusardi, quale rappresentante dell’ala sinistra del fascismo, v.
infine PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna,
Il Mulino, 2000, ad indicem. L’inizio della polemica revisionista è
giustamente fatto coincidere # L pubblicazione su «Critica Fascista»,
dell articolo Rocca Fascismo e paese . Già da qualche mese, tuttavia,
dinanzi al protrarsi delle illegalità fasciste, i settori più
lungimiranti del PNF -e I ambienti ad essi vicini - avvertivano con
crescente inquietudine l urgenza di un cambio di rotta, di una nuova fase
che segnasse il definitivo inserimento del fascismo nell’ordine
statutario. Intervenendo alla Camera, l’on. Misuri, già parlamentare
fascista, anticipa, di fatto, alcuni dei temi poi sollevati da Rocca nel
suo celebre articolo. In RT Misuri chiede la smobilitazione delle squadre
e | inclusione le ; MVSN nell’esercito regolare; la cessazione, da parte
del segretario si Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci,
d ogni ingerenza srt; i affari di competenza dell’esecutivo e delle
prefetture; ! allargamento va base del Governo a tutte le «sane correnti
nazionali». Il discorso kr deputato perugino, al quale si sarebbe
associato Ottavio i Lee Di breve stagione del dissidentismo fascista
(almeno di quello mo lerato, ché Di furono altri tipi di dissidentismo)
‘, fenomeno parallelo e in un certo
sen L’articolo uscì simultaneamente anche sulle pagine de «Il
Giornale d’Italia», che lo definì «notevole». Lira : Epi ? Alfredo
Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn i
fasciste, dovette abbandonai Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f,
d a r i ua ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li 1922 a
seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di i P ta nel PNF rientrò
per bre i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr
| lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi
di a. MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un
uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924. i i i
95-122. | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar È ‘, hà
vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni
sgherri fascisti, guidati dall’ufficiale della Milizia Arconovaldo
Bonaccorsi, e malmenato Cs sull’episodio v. Per l'aggressione all’on.
Misuri, «Il Giornale d Italia», 31 maggio 1 i ) Il dissidentismo
conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trovò lun pun concreta
nel gennaio 1924, con la nascita dell’associazione “Patria e Libertà”,
evocante, gi: speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le
riserve espresse dai dissidenti - e da Misuri in particolare sul revisionismo e su Massimo Rocca, tra
le due “eresie” fasciste correva una differenza sostanziale. Come già
notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non
nutrivano grandi speranze circa la capacità del fascismo di
autoriformarsi (tant'è che finirono per distaccarsene quasi subito),
Rocca s’illudeva di far trionfare la propria idea “da dentro” il
partito”; credeva, in altri termini di poter cambiare il fascismo dal suo
interno, nella convinzione - per dirla con le sue parole - che esso
potesse realmente diventare «l’ala marciante e riformatrice del
liberalismo»”. In questo “vizio d’origine”, prima ancora che nei mutevoli
umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e «degli altri
ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo (che
avrebbe fatto della battaglia revisionista un’estenuante e infruttuosa
«lotta di posizione») *, devono essere ricercate le ragioni ultime della
sconfitta di Massimo Rocca. Come detto, l’articolo di Rocca vide la
luce su «Critica Fascista», la nuova rivista di Giuseppe Bottai, che
aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno nel nome, taluni circoli
monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti I
associazione prese a pubblicare il settimanale «Campane a stormo» (poi
riesumato da Misuri nell’immediato secondo dopoguerra). n Sul
dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse
coloriture e ramificazioni, v. principalmente LOMBARDI, Per le patrie
libertà: la dissidenza fascista tra mussolinismo e Aventino, Milano,
Angeli, ma anche con più esplicito riferimento all’operato di Misuri e
Corgini, ZANI, L'Apsocio4iali costituzionale “Patria e Libertà, in
«Storia Contemporanea», ‘ondamento delle loro critiche al revisionismo i
dissidenti di “Patria e Libertà” ponevano la considerazione che fosse
ormai necessaria «la liquidazione, non la revisione del fascismo». Pisi
«caotici costruttori di teorie», in quanto convinti di poter salvare qualcosa
del ‘ascismo, lavoravano «inconsciamente» per esso (Revisionismo,
«Campane), PSR A E e Cfr. LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze,
Vallecchi, Lumbroso (già nella fiorentina “Banda dello sgombero”, una delle
prime manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i
promotori in Toscana dei Fasci Nazi nali, formazioni autonome che
pretendevano riallacciarsi al fascismo “puro” delle origini. «Fascista di
animo e di azione sin dalla vigilia scriveva Lumbroso nelle pagine ug se suo
da Ta sono rimasto tale perché non credo che la dottrina e lo spirito del
cismo debbano confondersi collo scempio che ne è stato compi i inetti i f
ì iu indegni. RIA: dae Re) 2a ” Massimo Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura. ZANI. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era
fatto interprete di una concezione legalitaria, costituzionale del
fascismo. Sebbene muovendo da premesse culturali e politiche molto
diverse, anche Bottai - come Rocca - riteneva finito il tempo della
“rivoluzione” e chiedeva il rinnovamento del partito, la sostituzione del
vecchio ceto dirigente fascista «con una nuova élite» che fosse in grado
di guidare la ricostruzione del Paese. Un mese e mezzo prima che Rocca
aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro collaboratore di
Bottai, l’ex sindacalista corridoniano Marsanich, chiara in modo inequivocabile
l’orientamento della rivista. Noi scrive Marsanich - diciamo che il nostro
partito deve iniziare subito un’opera di revisione, anzi di liquidazione,
di certi suoi precetti e di certi suoi metodi, che se furono utili prima,
oggi non servono più, se non ad intorbidire le fonti della nostra forza
ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio uno dei
nostri compiti necessari, in quanto l’Italia è nata dal liberalismo e
cresciuta nel parlamentarismo, è quello di ridonare al Parlamento il suo
valore di massimo istituto storico e politico dell’età nostra, di
riconciliare insomma la Nazione col Parlamento. Il Partito Fascista
dovrebbe ormai sentire la necessità di smobilitare e di proporsi
nettamente, con un superiore obiettivo di sintesi nazionale, l'eventualità
di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i suoi nemici di
ieri"! Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile che Rocca,
il quale da tempo esorta alla normalizzazione, trova in Bottai e
nella redazione di «Critica Fascista» degli interlocutori attenti e ben
disposti. Ma ? Sul ruolo avuto da Bottai e da «Critica Fascista» nel
dibattito interno al fascismo durante il primo scorcio degli anni venti
(con particolare riferimento al revisionismo) v. soprattutto MANGONI, L
‘interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari,
Laterza, GENTILE, GUERRI, Bottai fascista critico, Milano, Feltrinelli, BOTTAI,
Disciplina, «Critica Fascista. Che il fascismo, compiuta la sua “rivoluzione” e
conquistate le leve del potere, dovesse por mano alla ricostruzione
morale e materiale della Nazione, secondo un programma propositivo, era
opinione largamente condivisa tra i fascisti più “politici”. Lo stesso
Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo numero di «Critica
Fascista» (e riprodotta anche da «Il Popolo d’Italia» del 30 giugno),
aveva scritto: «Caro Bottai, prima ancora che il programma, mi piace il
titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un gesto di
consapevole orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale,
raggiunto il suo secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacità
di controllo e di critica». !! Augusto DE MARSANICH, Revisione Su MARSANICH
(si veda), figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel
secondo dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neo-fascista, v.
Dizionario biografico degl’italiani. cosa scrive Rocca che desta tanto clamore?
La “rivoluzione” fascista questo in sintesi il suo pensiero aveva avuto
il merito di strappare l’Italia al baratro del bolscevismo, ma una
rivoluzione aveva ragion d’essere soltanto se finalizzata al bene della
Nazione, di “tutta” la Nazione, e non alla propria autoconservazione. Il
fascismo - spiega Rocca – dove servire il Paese e non viceversa, come
preteso dai capi provinciali, i quali, interessati solo a perpetuare il
loro piccolo potere, erano i primi responsabili del perdurare
dell’illegalità e del clima di tensione, da guerra civile permanente, che
ancora dominava in certe regioni"’. Ora, nella battaglia intrapresa per
la sprovincializzazione” del fascismo, Rocca era convinto di trovare
in Mussolini un alleato naturale, ma quest’opinione, se non mancava
di riferimenti nella realtà, non teneva nel dovuto conto la
spregiudicatezza tipica del modus operandi del “duce”, ed era perciò, in
definitiva, frutto di una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo
l’articolo di Rocca si ha I impressione che l’autore tendesse a
sopravvalutare certe prese di posizione di Mussolini é che, più o meno
inconsapevolmente, finisse per attribuire al duce” la propria personale
visione del fascismo. I segni più evidenti della volontà
conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano
stati: la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di
utilizzare a servizio del Paese tutti gli elementi di valore, persino se
provenissero dall’estrema sinistra: l’appoggio dato alle Corporazioni
fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di diritto, sebbene
ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; I incoraggiamento ai
Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere l’opera
sindacalista compiuta nei ceti proletari; la costituzione di un governo
non esclusivamente fascista;
l'immissione di ufficiali dell’esercito nei quadri della Milizia,
per maturarne la futura fusione con l’esercito medesimo; il rifiuto ostinato,
intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese d’impiegati e di favori
da parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dell’ultima
pes; Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la
caduta in disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di lì a poco ai
Gruppi di Competenza; all’effettivo strapotere della Milizia e,
soprattutto, al vero e proprio esercito di profittatori, d’intriganti e
d’incapaci che affollava l’entourage di Mussolini (uno stato di cose a
cui egli, forse per effetto della Cfr. MassIMo Rocca, Fascismo e paese,
«Critica Fascista. L’articolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri
ilti i STE, con, prodotto sotto il
titolo // l'Italia - anche in Idee sul fascismo. pan sua sfiducia
negli uomini, trovò sempre inutile opporsi), abbiamo la misura di quanto
Rocca s’ingannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene accolto da «Il
Popolo d’Italia», che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e nel
complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il
giornale diretto dal fratello del “duce”, Arnaldo, ne incoraggiò
apertamente le fatiche. Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai
esporsi in prima persona, dette una mano alla campagna revisionista, ma
la ragione di questo suo favore non derivava tanto, come crede Rocca, da
un’intima convinzione ideale, bensì - come ha ben sottolineato Felice (e
com'era, d’altronde, nel carattere del duce) - da considerazioni di
opportunità politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti,
è quello di una graduale apertura verso le forze costituzionali
(liberali, cattolici, ma anche socialisti riformisti), che consentisse un
ampliamento e dunque un
consolidamento della sua maggioranza. A
questo progetto si opponevano scopertamente gli intransigenti alla
Farinacci, ed ecco, perciò, che l’esistenza di una corrente revisionista,
moderata, all’interno del fascismo, poteva servire a un duplice scopo: a
rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica sulle “buone
intenzioni” del governo e a tenere a freno i ras, in vista di un
possibile compromesso! Fu quindi grazie a Mussolini che il
dibattito inaugurato da Rocca sulle pagine di «Critica Fascista» poté
uscire «dall’ambito piuttosto limitato» della rivista di Bottai per
diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi di stampa, «un fatto
politico di portata nazionale»'”. Per rimanere all’ambito strettamente
fascista, i giornali che più degli altri si fecero carico di assecondare
i disegni dei revisionisti furono tre: «Il Corriere Italiano» di
Filippelli, «L'Impero» di Carli e Settimelli, e, inizialmente in misura
più sfumata, «Il Nuovo Paese» di Carlo Bazzi. Si trattava di fogli dalla
linea editoriale incerta e contraddittoria e - ciò che più conta - legati
a interessi equivoci'5; così, se è innegabile che il loro sostegno Su
questo aspetto non secondario della personalità mussoliniana v. RENZO DE
FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. FROMBOLIERE, Un monito fascista:
basta con gli pseudo-Mussolini!, «Il Popolo d’Italia Cfr. Renzo DE
FELICE, Mussolini il fascista. «Il Corriere Italiano» era sorto grazie a
finanziamenti di origine imprecisata ed era, a ragione, considerato
l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti ispiratori due uomini
molto vicini a Mussolini: Finzi, sottosegretario al Ministero degli
Interni, e Rossi, capo dell’ufficio stampa del “duce” e membro del Gran
Consiglio del fascismo. «L'Impero» aveva anch'esso iniziato le
pubblicazioni e si distingueva per l'accento smaccatamente reazionario,
spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi dette a Rocca
l’opportunità di far giungere la propria voce a un pubblico più vasto, è
altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giovò affatto
alla serietà della campagna revisionista, e che anzi, l’essersi trovato
Rocca anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche,
offrì a suoi avversari il destro per muovergli accuse, più o meno esplicite
e motivate, di corruzione. Rocca rileva al riguardo Lumbroso puo ridersi di
certe accuse poiché la sua probità privata era inattaccabile; ma sta di
fatto che i giornali di cui egli si serviva e anche taluni degli uomini
che lo incoraggiavano nella sua campagna non erano certo i più indicati a
parlare di epurazione del Partito; ed è innegabile che certo fascismo
provinciale, illegalista, dispotico e violento, in del sostegno offerto da
Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che nei vincoli
strettissimi con Filippelli e il suo giornale («L’Impero» apparteneva alla
stessa cordata economico/finanziaria editrice de «Il Corriere Italiano»,
la società “La vita d’Italia”, di cui Filippelli era amministratore
delegato), andavano ricercati nel loro esasperato “mussolinismo”,
nell’ammirazione, certo non disinteressata, per il “duce”, verso il quale i due
| reduci del futurismo, un tempo cantori dell’anticonformismo e
dell’individualismo anarchico, tenevano un atteggiamento adulatorio,
sconfinante nel ridicolo, che più di una volta mise in imbarazzo lo
stesso Mussolini. A riprova dell’incostanza e dell’opportunismo che
caratterizzava la redazione de «L’Impero» si ricordi che, nel corso della crisi
Matteotti, il giornale, già revisionista, sarebbe stato in prima linea
nel chiedere il “giro di vite” e la soppressione violenta delle
opposizioni; e che, a conclusione di quella dolorosa vicenda, Carli
pubblica un saggio, con la prefazione di Farinacci,
(Fascismo intransigente. Contributo alla fondazione di un regime, Firenze,
Bemporad), che è tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi
epigoni. Il Nuovo Paese» apre i battenti su iniziativa di Bazzi. Questi,
che ècompagno di Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a
quelle frange del movimento repubblicano che, in polemica con
l’orientamento antifascista prevals o in seno al partito d’origine, se
n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici del
fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore di una Unione Mazziniana
Nazionale). Anche «Il Nuovo Paese» non era al di fuori di loschi giri
d’affari, essendo legato «a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che
subito dopo la marcia su Roma si annida ai margini del fascismo al governo»;
una lobby multiforme «che aveva tutto l’interesse che il fascismo
rimanesse al potere» e mirava, per questo motivo, a «una normalizzazione
che rafforzasse la situazione», da cui il contributo recato dal giornale
di Bazzi alla causa del revisionismo FELICE, Mussolini il fascista.
Su «Il Nuovo Paese» e «Il Corriere Italiano» si veda CANALI, Cesare Rossi:
da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino. Il
medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico
sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo
e politica nel primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino. Su Bazzi
in particolare v.SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione
dei residuati bellici, Storia Contemporanea.Infine, a proposito de
«L’Impero», v. SCARANTINO. complesso si era mantenuto puro dalla piaga
dell’affarismo, e non vi ha dubbio che ci erano dei ras, tipo Farinacci,
persuasi in buona fede di giovare alla causa del fascismo e dell’Italia,
dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed
incontrollabili e riducendo a zero l’autorità dei funzionari
governativi"? Il giorno dopo la comparsa dell’articolo di
Rocca su «Critica Fascista», «Il Corriere Italiano» prese di petto la
questione e, in un fondo che avrebbe sollevato l’indignazione di
Farinacci, si scagliò senza mezzi termini contro «l’arbitrio capriccioso
e tirannico» dei capi provinciali, arrivando a prospettare, neanche
troppo velatamente, la possibilità di uno scioglimento del PNF, il quale,
vivendo ormai di rendita alle spalle di Mussolini, costituiva «l’inciampo
più grave» all’azione del Governo”. L’ipotesi insinuata dal quotidiano di
Filippelli destò, com’era prevedibile, un nugolo di polemiche.
«L'Impero», per tramite dei suoi condirettori, affermò che il «feticismo
ostinato» nei confronti del partito non aveva più alcuna giustificazione
e che, essendosi chiuso il «periodo eroico» della “rivoluzione” fascista
ed essendo stati «lo spirito e la mentalità» del fascismo «gradualmente
ma rapidamente assorbiti dall’intera Nazione», non vi era più ragione di
conservare in vita il partito. Nel frattempo, Rocca non perde occasione per
riaffermare il proprio punto di vista. Personalmente contrario, almeno
nel breve periodo, allo scioglimento del PNF, il leader revisionista
prosegue imperterrito lungo la via intrapresa. I problemi più gravi del
fascismo - insiste Rocca - consisteno nell’equivoco perdurante tra
partito e governo, vale a dire nell’identificazione del primo col i
secondo; nell’irresponsabilità e nella prepotenza dei fiduciari
provinciali; nella LUMBRO50 Cfr. Governo e fascismo, «Il Corriere
Italiano». SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, «L'Impero»Così, ad
esempio, a Torino, in sede d’inaugurazione dei nuovi locali dei Gruppi di
Competenza. Nel suo discorso, che riceve il plauso dGioda, Rocca non
tralascia di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le
proprie critiche agl’intransigenti (cfr. Il discorso di Rocca sulle funzioni
dei Gruppi di Competenza, «Il Piemonte»). In una lettera pubblicata da
«L'Impero» (Partito e Governo fascista), Rocca scrive non essere ancora
giunto il momento in cui l’Italia, pienamente e consapevolmente fascista,
si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non esclude che,
in un futuro più o meno prossimo», ciò sarebbe potuto accadere, e indicò nei
Gruppi di Competenza e nei «sindacati d’ogni ceto produttivo gli
strumenti necessati di questa trasformazione. Il giorno seguente Rocca
ribade i medesimi concetti in un’intervista a «Il Corriere
Italiano», parodia d’una disciplina formale senza norme né garanzia;
nel predominio degl’organi esclusivamente politici di partito su tutto
ciò che pur rientrando nella vita corrente del fascismo, non è
strettamente ulivo (ad esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa
ragione, il partito ostacolava in ogni modo. Tutto ciò - secondo Rocca -
conduce ad una vera forma di nuovo bolscevismo, DISSOLVITRICE DELLO STATO
E DELL’ITALIA, cui si dove assolutamente porre rimedio. Contro la campagna
revisionista, che raccolge i favori dell’opinione pubblica moderata
variamente filo-fascista, insorsero invece gl’intransigenti. Nell’ambito
di una riunione del Consiglio Provinciale di Cremona, Farinacci difende
il principio dell’intransigenza, si disse contrario all'inserimento della
milizia nell’esercito regolare e minacciò una «seconda ondata»
rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori «senza fede» che si
servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici, Più avanti, in un
editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replicò seccamente alle
accuse dei revisionisti. Non era affatto vero scrisse - che Mussolini non
dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario.
costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito
in modo schiacciante al trionfo. Se si distrugge il fascismo delle provincie
si domanda Farinacci che cosa resterebbe del fascismo? Io non
ho l’acume di Massimo Rocca, ma come caffoncello” di Provincia mi
permetto di fare uno sforzo mentale pari
a quello di he pero della terza elementare calcolando che Provincia più Provincia
fa ‘azione!” ROCCA, Partito e Governo fascista, cit. Tra gli
organi “indipendenti” che offrirono spazio e considerazione alla campagna
revisionista, oltre a «Il Giornale d’Italia», tradizionalmente vicino alla
destra liberale, si segnalarono soprattutto «La Tribuna», l’autorevole
quotidiano romano diretto da Olindo Malagodi, «Il Corriere d’Italia»,
organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e «L’Epoca», un
giornale d’ispirazione combattentistica. Proprio «L’Epoca» pubblicò
un’intervista di Montalto a Rocca (Il momento attuale e il fascismo),
dando modo all’ex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un
pubblico non strettamente fascista. di Un forte discorso dell'on.
Farinacci, «Cremona Nuova» FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia. Il
giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del
bolognese Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure più note
del fascismo emiliano/romagnolo (su di lui v. NELLO, Grandi: la
formazione di un leader fascista, cit, ad indicem). L’articolo
(intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in contemporanea anche da «La
Scure» di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese «L’ Assalto») era una
difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo “spurio”,
interessato e Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicità, non
mancava di logica e di veridicità e coglieva un aspetto essenziale del
problema, andando al cuore delle contraddizioni della politica
revisionista. Il fascismo delle provincie, caotico, brutale e intimamente
sovversivo, costituiva davvero, assai più del fascismo “addomesticato”,
costituzionale e legalitario di Roma e di Milano, l’anima del movimento”.
Mussolini ne era ben consapevole, tant'è vero ch’egli non pensava
affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una liquidazione in tronco del
“rassismo”, ma, casomai, ad un suo opportuno ridimensionamento, che lo
svuotasse dei contenuti più radicali e più difficilmente gestibili; alla
qual cosa, come già si è detto, la propaganda senza anima, propagandato
dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben più sbrigative e
violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo
trevigiano, per mano del suo direttore, lasciò intendere che Rocca
avrebbe meritato lo stesso trattamento riservato a Misuri, in quanto il
suo l’articolo su «Critica Fascista» era degno «di far pari col
famigerato discorso» dell’ex deputato fascista (PEDRAZZA, Polemica
fascista. Rispondiamo a Massimo Rocca, «Camicia Nera. A Piacenza, IL
CONTE BARBIELLINI (si veda) punta l’indice contro le trame affaristiche
sottostanti alla campagna revisionista. Per quali anonimi lestofanti tuona il ras piacentino - fate voi da agenti
provocatori di torbidi nel fascismo? Vi secca la attività fascista di
provincia? Vi secca che dai ras provinciali si siano mandati all’aria
diversi grossi affari che gruppi capitalisti avevano qui realizzato ai
danni dell’Erario Nazionale? (BARBIELLINI, Perché non molliamo, La
Scure). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche
dell’estremismo provinciale fascista con
particolare riguardo a Farinacci v. GENTILE. E” interessante, a questo
riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura
antifascista, Gobetti, secondo il quale non già i revisionisti ma Farinacci e
gli altri ras del suo stampo erano gli autentici e più genuini
rappresentanti del fascismo. In due articoli non certo teneri nei
confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrive di
preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di «senso di dignità» e di
spirito di sacrificio, al politicantismo senza pudore e al «trasformismo,
senza decoro e senza intransigenza» dei vari Rocca, Bottai e Grandi,
«professionisti della politica» il cui revisionismo era nato in mezzo
alle «mollezze romane», confortato «da ricche prebende». A parte gli
aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la
predilezione, tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale
dell’intransigenza), l’intellettuale torinese coglieva nel segno allorché
metteva in risalto la maggior rappresentatività sociale - e culturale in
senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce
di sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive,
aspirazioni palingenetiche, e godeva di un seguito che mancava invece
completamente alle fredde teorie dei revisionisti. Dietro ai vari ras di
provincia - notava lucidamente GOBETTI (si veda) - vi erano «centomila giovani,
che al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il
problema della propria disoccupazione, ma vi avevano portato la loro
disperata aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli
opportunismi» (la prima citazione è tratta da Elogio di Farinacci, La
Rivoluzione Liberale; le restanti da Secondo elogio di Farinacci. Anche in
GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi. revisionista
(anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia di
scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio. Queste
considerazioni parevano sfuggire a Rocca, il quale, vittima forse anche
della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo arco più
frecce di quante non ne avesse in realtà. Per niente intimorito dalla
reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista,
perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui
stesso suscitato, Rocca alzò il tiro delle sue accuse. Non ci si è
ancora accorti, evidentemente scrisse in
un nuovo articolo per «Critica Fascista» che oggi governa Mussolini in nome di una
monarchia più salda che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo
combattuto per creare e rafforzare e ingrandire un’Italia unitaria, ove
la forza armata, anche solo di manganello, dev'essere una sola e uno il
Governo che ne dispone, e uno solo il governo che fa le leggi e le
applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il diritto di mettere
in galera anche i più autorevoli fascisti locali se contravvengono alla
legge. Non si adattano ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri,
nella loro provincia? Ebbene, facciano essi i prefetti, e pongano nella
legalità il loro dominio personale e continuino pure l’opera meritoria
compiuta nel fascismo. Ma quest’opera è indipendente dalla loro
prepotenza personale nelle cose che il partito non riguardano; ma per
continuare tale funzione non è necessario instaurare repubbliche
dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta
federare degli staterelli autonomi, ove l’augusto signore sentenzia “qui
comando io” e fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non
basta federarli platonicamente sotto l’egida di Mussolini, sopporta col
platonico omaggio di un alalà. Bisogna disfarli.Tutto ciò per la fronda
fascista, nuova specie di sovversivismo autentico imbellettato di
tricolore: unico sovversivismo attivo e ingombrante oggigiorno. Tutto ciò
per la Fronda insorta personalmente contro una mia tesi impersonale, a
minacciare col seguito dei suoi vassalli un modestissimo, ma convinto
pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se non quello del
Duce, né altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile dal
procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegherà?” La “fronda”
non si piegò. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di questo
articolo, la Giunta Esecutiva del PNF - istigata da Farinacci - decretò
l’espulsione di Rocca dal partito «per grave Rocca, Diciotto brumaio,
«Critica Fascista» (anche in ID., Idee sul fascismo). Questo saggio di
Rocca è preceduto da una significativa postilla della redazione. Siamo
perfettamente solidali con l’autore vi
si legge - e con gli scopi altissimi della sua battaglia, che è anche la
nostra battaglia. VIPATTTTRA VENTO ile A indisciplina e
indegnità politica. MUSSOLINI RICEVE ROCCA in qualità di vicepresidente
dell’istituto nazionale dell’assicurazioni, ufficialmente per trattare di
questioni riguardanti l'ente ma in realtà per aver modo di esprimergli la
propria solidarietà. La sortita del duce, da cui egli si aspettava le
dimissioni dell’intera Giunta Esecutiva, ebbe invece come effetto di
provocare quelle della Segreteria Generale (cioè di una parte soltanto
della Giunta), il che rilevava
prontamente «Il Popolo d’Italia» - «non risolveva affatto la questione».
Era in atto, come ben notava «Il Giornale d’Italia», un vero e proprio
regolamento di conti. Ora si domanda il quotidiano romano è per le
espressioni crude ed aspre adoperate da Rocca, o per la tesi generale da
lui sostenuta che la espulsione è dn stabilita? Se è vero che il “Cremona
Nuova” di Farinacci sarebbe dalla Giunta Esecutiva considerato come
giornale ufficioso del partito, sarebbe da dedurre che le lamentate tendenze,
diremmo così, provinciali, localistiche avrebbero prevalso?” E prosegue: La
lotta è precisamente tra i “revisionisti” tipo Rocca e gli ioni ono
Farinacci, tra i politici e i “selvaggi”, tra i “romani” e i “provinciali
IRPROI Crisi i coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta
di due opposti elementi: quelli che vogliono avvicinare il fascismo
all’anima, del Paese e quelli che vogliono mantenerne la formazione
chiusa e intransigente La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista
riafferma la necessità della manetta compattezza nell'interesse della
Nazione ed a sostegno del Governo, «Il Popolo d’Italia. tif, side Hib: La
Giunta Esecutiva del PNF, istituita in luogo della disciolta Direzione,
sa composta da: Farinacci, Lantini, Bianchi, Marinelli, Sansanelli,
Teruzzi, Bolzon, Bastianini, Maraviglia, Caprino, Dudan, Zimolo e
Starace. La decisione contro Rocca è presa all’unanimità. i i
31 Rocca ricopre la carica di vicepresidente dell’INA. Cfr. Ibidem. TSI
VII j; La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli,
Bastianini, Sansanelli, Teruzzi, Starace e Bolzon. bri Bata La
Giunta esecutiva del PNF espelle Rocca il revisionista. Mussolini intende
che tale decisione è ri-esaminata. La Segreteria Generale del partito presenta
le dimissioni al duce, «Il Giornale d’Italia gii vl Nell’insieme,
l’espulsione di Rocca solleva un’ondata di sdegno Si scrive di
procedimento sommario, di decisione grottesca che ha il sapore della
rappresaglia, mentre anche il consiglio bazionale dei gruppi di competenza
fa sentire la sua voce, votando un ordine del giorno di pieno sostegno al
proprio segretario. A Torino, Gioda, che fin dall’esordio della polemica
revisionista aveva preso le parti di Rocca” si dimise dalla segreteria
del Fascio in segno di solidarietà con il suo vecchio compagno. Fu un
atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra Gioda e De
Vecchi (quest’ultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle
mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte
significato politico. Non è la prima volta riconosce a questo
proposito l’organo mussoliniano che, durante clamorose polemiche, Gioda
si schiera apertamente per la corrente temperata del Partito Nazionale
Fascista, ed è ancora ricordato a Torino l’omaggio di fiori che,
unitamente al comm. Massimo Rocca, tributò al comunista Berruti,
consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso
dicembre‘' Qualche giorno dopo, nel dare l’annuncio delle proprie
dimissioni anche dalla direzione de «Il Maglio», Gioda fu al proposito
più che esplicito, con parole che non lasciavano spazio a
fraintendimenti. Li «L’Epoca L'Impero Cfr. «Il Giornale d’Italia. In un
fondo per il nuovo quotidiano torinese «Il Piemonte» (Papà buon senso),
Gioda define i saggi revisionisti di Rocca un meraviglioso, poderosissimo
quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo. In un articolo di poco
successivo, il segretario del Fascio torinese chiarì il proprio punto di vista,
perfettamente in linea con gli assunti dei revisionisti. «I fasci scrive
tra l’altro Gioda non sono sorti
per soddisfare le ambizioni militari o politiche di TIZIO, CAIO, O
SEMPRONIO, ma per l’Italia, unicamente per la salvezza e le fortune
d’Italia (GIODA, Corfù, Roma e il Fascismo, Il Maglio). Cfr. «Il
Popolo d’Italia Gioda riassume la carica di segretario del fascio e la
direzione de «Il Maglio» da pochi giorni, dopo essersene allontanato per
qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua grave malattia. Il
posto di Gioda, dopo le sue dimissioni, è rilevato da Bardanzellu, già
presidente della sezione torinese dell’ Associazione Nazionale
Combattenti. Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino
Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente «per ragioni di carattere
famigliare» («Il Maglio»). Mongini è sostituito dal milanese
Rossi. Il Popolo d’Italia. Le polemiche de’ passati giorni scrisse - mi hanno trovato pienamente,
apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta
revisionista capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico
che è Rocca. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perché mi parve inconcepibile
che si potesse appartenere ancora un minuto ad un partito ridotto a
defenestrare i suoi uomini più formidabili [...], mentre nell'ombra
prosperava e vivacchiava alquanta gramigna Mussolini convoca Bianchi a
Palazzo Venezia. Questa volta Il duce richiede espressamente le
dimissioni della giunta esecutiva, decide il rinvio del convegno dei
Fiduciari provinciali e decreta la prossima convocazione del Gran Consiglio
del fascismo. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri
della Giunta non restò altro da fare che obbedire. Rocca, dal canto suo,
non aveva disarmato. Colto di sorpresa (così almeno rivelava «Il Giornale
d’Italia) dal provvedimento disciplinare comminato nei suoi confronti,
era subito passato al contrattacco, dichiarando in un’intervista che la
Giunta, essendo parte in causa, non aveva diritto alcuno di decidere
della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non sarebbe indietreggiato
di un millimetro. A primi di ottobre Rocca si ritirò nella sua Torino"
e lì, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e ai familiari,
attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese l’ex
anarchico inviò a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente
retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e
in ossequio alla grandezza d’Italia. MagriO Giona, Commiato, «Il
Maglio. L'articolo di Gioda usce accompagnato da una nota redazionale, opera
probabilmente di Colisi Rossi, che definiva “inopportune” e
”intempestive” le parole del direttore uscente. Cfr. «Il Giornale
d’Italia», 30 settembre 1923. In un editoriale (/ncoscienza?) «Il
Popolo d’Italia» plaudì alla richiesta di dimissioni avanzata da
Mussolini alla giunta esecutiva. Quest'ultima - secondo l’organo milanese
- manca di rispetto al duce, il quale, oltre a non esser stato messo al
corrente del proposito di mettere fuori gioco Rocca, è allora interamente
assorbito d’impellenti questioni d’ordine internazionale e non dove
essere trascinato in polemiche artificiose. «Egli scrive il giornale diretto da Mussolini (A) ha altro da fare. I capi fascisti delle
provincie devono finalmente intenderlo. Se i fascisti locali non
intendono ciò, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di
appartenervi. La giunta esecutiva si dimise infatti. Cfr. «Il Popolo d’Italia».
«L’Epoca», Cfr. «Il Piemonte», Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca]. AI
cospetto di un fatto così grandioso scrive -, noi, uomini che alla nuova
creazione abbiamo con devota umiltà collaborato, dobbiamo sentire la
nostra pochezza individuale al confronto con la creatura che non è
soltanto nostra e ci sovrasta nello spazio e nel tempo; dobbiamo
comprendere che nulla sarebbe più folle, più sterile del voler
monopolizzare l’Italia nuova per noi. Dobbiamo sentire che anche il
Fascismo è una parte, certo la migliore, ma non il tutto del fenomeno
storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza
del ai è possibile solo in quanto s’inquadra nella grandezza d’Italia e le
serve di ase Nelle intenzioni dell’autore queste parole avrebbero
dovuto «placare ogni dissenso personale». In realtà, trascinato dal suo
temperamento, Rocca si era ormai invischiato in una fitta ragnatela di
polemiche. Tipica, in questo senso, la controversia che lo oppose in quei
giorni a LANTINI (si veda), uno dei maggiori esponenti del fascismo
ligure. Sulle colonne del suo giornale Lantini ch’era membro della Giunta Esecutiva - aveva
duramente attaccato Rocca, definendo la campagna revisionista
«denigratrice, svalorizzatrice ed offensiva, e denunciandone la «ben
meschina» origine, «di carattere prematuramente e comicamente
elettorale». In una lettera di poco successiva, Rocca replica al suo
detrattore con una serie di accuse minuziose, in particolare
rinfacciandogli di «aver disertato la battaglia fascista» nei giorni
infuocati dello sciopero “legalitario””, salvo poi ROCCA, L ‘intangibile
grandezza, «Critica Fascista», 8 ottobre 1923 (anche in ID. Idee sul
fascismo). f L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi
anche da «Il Piemonte» (10 ottobre) e «L’Impero» (11 ottobre). di
ID., /dee sul fascismo, LANTINI, Dichiarazione, «Il Giornale di Genova. AI
breve editoriale di Lantini fa seguito una chiosa di Pala, il fiduciario
provinciale per la Liguria (nonché condirettore del giornale), che si
professa completamente solidale con l’autore. Fin dal suo apparire Il
Giornale di Genova suscita sospetti circa i suoi finanziamenti. In
polemica con «Il Messaggero», che in un articolo svela i legami esistenti
tra il nuovo quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala
smente [cf. GRICE DISIMPLICATURA] seccamente, dichiarando che la
proprietà del giornale appartene alla società anonima Compagnia Editrice,
di cui egli è presidente (cfr. «Il Popolo d’Italia»). A Genova,
tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero legalitario”
aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle
agitazioni, il Fascio genovese da corpo a un comitato d'azione, del quale
fanno parte, tra gli altri, Lantini, gli onorevoli Torre e Stefani, e Rocca, il
cui nome è però del tutto assente dalle dettagliatissime cronache de «Il
Popolo d’Italia», la qual cosa fa pensare ad un coinvolgimento minimo del
futuro isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS servirsene,
accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere Consigliere
Comunale”. La diatriba Rocca/Lantini si trascina a lungo, in un intreccio
di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello (peraltro
sempre “onorevolmente” risolte, senza bisogno d’incrociare le armi) *, a
tutto scapito della credibilità complessiva della campagna revisionista.
Come previsto, si riunì il Gran Consiglio del Fascismo. Al termine di una
lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava l’espulsione di
Rocca in una ben più blanda sospensione di tre leader revisionista nei
disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i
fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale
della violenta offensiva fascista è stato il Consorzio autonomo
portuario, cuore del potere socialista a Genova, che riuniva le
cooperative portuarie “rosse” e aveva di fatto il controllo del porto. Dopo
che i capi fascisti lanciano un manifesto contro la camorra portuaria dei
vigliacchissimi socialisti («Il Popolo d’Italia), le camicie nere genovesi, con
il concorso di squadre giunte da Carrara, da Alessandria e da Torino,
assaltano Palazzo San Giorgio, sede del consorzio (nell’attacco, che fa
numerose vittime, rimane ucciso lo squadrista carrarese Martini, poi entrato
trionfalmente nel martirologio fascista. Il senatore Ronco, presidente
del Consorzio autonomo, è stato costretto a firmare una dichiarazione
capestro, con la quale si impegna a revocare le concessioni di lavoro
alle cooperative socialiste. Per la versione di parte fascista, v. La
cronaca delle giornate di Genova, «Il Popolo d’Italia. Su questi avvenimenti v.
altresì REPACI. La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima
lettera di Massimo Rocca a Ferruccio Lantini, «Il Secolo XIX (anche in
«Il Giornale d’Italia»). «Il Secolo XIX» segue con partecipazione le
polemiche tra revisionisti e intransigenti, mostrando di parteggiare
chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risente dell’avvenuta
pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire «non destinata alla
pubblicità» - e ne chiese “soddisfazione” al direttore del quotidiano
genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza cavalleresca, «Il Secolo XIX». A
un certo punto, come riferiva il 6 ottobre «Il Giornale d’Italia», la vicenda
assunse i contorni di un vero e proprio «torneo». Si aggiunga che
anche il dissidio tra Rocca e Lantini cela un più vasto conflitto
d’interessi (di cui la vicenda dei finanziamenti a «Il Giornale di Genova»
costituiva un risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari
che si contendevano il controllo di Genova: da una parte il trust formato
dall’Ansaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di Sconto (allora in via
di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente
capo a Mastromattei, amico di Rocca; dall’altra la potente azienda
armatoriale Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva
l’appoggio di Lantini e dei suoi (su questi punti v. LYTTELTON, La
conquista del potere. Il fascismo, Bari, Laterza). Tale contrapposizione
travagliò a lungo il fascismo genovese, ‘dando luogo a laceranti lotte
intestine. Il primo atto della crisi fu il pestaggio, ad opera di alcuni
squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, Loiacono, di cui
erano note le simpatie revisioniste (cfr. «Il Giornale d’Italia), +55 de i
fee . mesi”. Tutto, dunque, com’era nella volontà di Mussolini, si
risolveva in un accomodamento, e bene rimarcava «Il Giornale d’Italia»
allorché scriveva che: Senza esaminare il merito delle polemiche da
questi Rocca sollevate, è certo che tra la prima condanna all’espulsione
per indegnità politica e la sospensione per tre mesi inflittagli ieri
sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere all’intervento di un
compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili
contingenze che essa impone, i compromessi diventano non di rado
inevitabili Il Gran Consiglio decretò altresì un vero e proprio
riordinamento del partito, nonché la nomina di Cesare Maria De Vecchi a
governatore della Somalia. L’allontanamento del futuro conte di Val
Cismon dall’Italia (un provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di
doversi misurare con le irrequietezze del quadrunviro), fu una grande
vittoria di Mario Gioda, il quale - come si è visto - aveva avuto il
coraggio di esporsi personalmente nel dibattito sul revisionismo e poteva
ora, mercé la messa in disparte del suo rivale, aspirare a recuperare
credito all’interno del fascismo subalpino. Ai primi di dicembre, con la
rielezione a segretario politico del Fascio di Torino”, ebbe inizio
l’ultima fase della sua vicenda politica. In un'intervista di quel
periodo, Gioda espose il suo progetto per la “normalizzazione”. Occorre dichiara - puntare sullo sviluppo dei
sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base effettiva del
fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione con le altre
forze sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della possibilità di
realizzare una federazione di cooperative di tutti i colori e di tutte le
tinte politiche. Come a livello sindacale, così anche sul piano politico
i fascisti avrebbero dovuto ricercare «un insieme di aperta, onesta,
equilibrata concordia» con Per l’esattezza, il testo dell’ordine del giorno
recita.Il gran consiglio prende atto delle dimissioni della giunta esecutiva,
revoca l’espulsione di Rocca e, per le degenerazioni polemiche alle quali
il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da ogni attività
di partito a cominciare dalla seduta odierna («Il Popolo d’Italia»). Una
nuova fase, «Il Giornale d’Italia». V. anche Le importanti deliberazioni del
Gran Consiglio fascista, «Il Nuovo Paese»e l’articolo di Carli Il palladio
della rivoluzione, «L’Impero» La Giunta Esecutiva è sostituita da un direttorio
di IX membri, V con funzioni politiche e IV con funzioni amministrative.
Giunta divenne il nuovo segretario generale del PNF. Cfr. «Il
Piemonte». Gioda non riassunse la direzione de «Il Maglio», che resta a
Rossi, tutti gl’elementi politici nazionali. Relativamente ai temi della
violenza e del rassismo, Gioda è perentorio. È oggi doveroso per i
fascisti afferma - orientarsi verso
un'attività più Sa ai tempi. A tutelare l’ordine bastano le
disciplinatissime forze della milizia a Fascio può svolgere la più
intensa e doverosa attività per il suo Caveta nie cli È è rappresentato
unicamente dal Prefetto. Essendo paladini le 1A ri fascisti sono e devono
essere i primi a dare luminoso esempio. De n ci br grande partito moderno
come il nostro non può reggersi unicamente sulle Vi o qualità politiche
suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi vitali e poter
operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo’ DE Mussolini in
sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea organizzazione
che possa esprimere suna élite di dirigenti. Non dunque nu compagnia di
guitti attorno all’attore di cartello, ma un insieme di squisite cap: che
troveranno tutte una dura parte da reggere Il programma illustrato da
Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto al giudizio del nuovo
Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi. Oltre il fascismo La
sospensione di Rocca attenua ma non pose fine alla poni revisionista,
che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse: Ha le
elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad pi c iosa per
soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno i un ie sà Il
fascismo, del resto (in ciò davvero svelando l’anima dinamica Hd
decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua trasformazione e
le circostanze che avevano reso possibile 1 pr delle teorie
revisioniste e l’affermarsi intorno ad esse di un intenso i % Ù n per quanto funzionale e condizionato -, non si
sarebbero più simonos e pel mesi successivi. Mutata la situazione
politica, venuta meno, res me ma inesorabilmente, la “benevolenza” di
Mussolini, i sostenitori di suse defilarono (chi per calcolo, chi come
Bottai perché ormai persua i i i i itico GALETTO, Problemi e
propositi del fascismo torinese. Intervista col segretario pol io
Gioda, «La Gazzetta del popolo», 12 dicembre 1923. È o ; ca parzialmente
anche su «Il Maglio») fu rilasciata da Gioda all’ospedale San
Giovanni, durante una delle sue ormai abituali degenze. Il Direttorio era
entrato in carica. IRE SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI
PITT dell’inanità della lotta), mentre i giornali che gl’avevano
dato man forte manifestarono tutta la propria ambiguità, dapprima
servendosi della copertura revisionista nella logorante campagna
diffamatoria contro il ministro Stefani, quindi, girato il vento, non
esitando a passare dall’altra parte della barricata. Così, quasi senza rendersene
conto (e forse, come al solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca
s’infilò in un cu/ de sac vittima di un gioco che trascendeva ormai le
sue forze, in poco tempo mandando a rotoli la sua intera carriera
politica. Oltre che a fattori esterni certo, la sua disfatta fu
senz'altro dovuta anche gravi errori personali. Intrappolato nel vortice
della polemica, compiaciuto della propria cultura, Rocca conferì un tono
sempre più concettuale e filosofico al suo revisionismo e i suoi articoli
si fecero vieppiù cervellotici, colmi di citazioni libresche, in uno
sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con la conseguenza inevitabile - di distogliere il grande
pubblico dal cuore del problema e di stancare anche gli osservatori più
benevoli, facendo apparire la polemica revisionista in confronto alle concrete argomentazioni di
un Farinacci - poco più che una bizzarria intellettuale.
Scontato il provvedimento di sospensione, Rocca riprese - inizialmente
con cautela l’ordito dei suoi
disegni. In una sequenza di nuovi articoli, pressoché concomitanti, per
«Il Nuovo Paese», per «Il Popolo d’Italia» e per «Critica Fascista», l’ex
anarchico torna sul tema della legalità. Sebbene “paretianamente”
convinto che «l’indifferenza e la diffidenza nel Paese verso il
Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo (in virtù della
degenerazione dell’istituto parlamentare) e dunque che la responsabilità
della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla “rivoluzione”
delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico irreversibile di
cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca non cullava
sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo restaurato,
restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti
episodi di squadrismo, e in particolare dall’aggressione ad Amendola, Rocca
trasse motivo per ribadire l’urgenza di ristabilire il confronto politico
entro i confini della normale dialettica costituzionale, e l’obbligo, per
il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali. Solo così si sarebbe
giunti «ad una nuova e più alta normalità», fondata sull’imperio della
legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi
garante Rocca, Fascismo e Costituzione, «Il Popolo d’Italia (anche
in Idee sul Fascismo). Cfr. «Il Nuovo Paese (anche in Idee sul
Fascismo), nel suo stesso interesse. Il primo segnale che i rilievi
critici di Rocca cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che dagli
irriducibili del manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe
dal dietrofront de «L’Impero». In un editoriale ispirato dagli articoli
di Rocca, Settimelli si chiese se, alla luce delle sue più recenti
affermazioni, egli potesse ancora esser considerato un fascista o non,
piuttosto, un liberale a tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si
fece attendere, Rocca non dissimulò affatto il proprio filo-liberalismo.
Il fascismo scrive - è un
superatore più che un negatore assoluto dei principi liberali. Infatti,
fatto salvo il dogma della Nazione, la cui accettazione era il requisito
essenziale per potersi dire fascisti, tutte le libertà che non avessero
minacciato quel dogma e che non si fossero risolte «in una negazione
della Patria, doveno essere rispettate. Sul piano strettamente politico,
il torto maggiore del liberalismo è - secondo Rocca - quello di voler
ancora comprendere da solo tutta la società, assai più complessa e
articolata che in passato, così come il difetto di fondo del
parlamentarismo era quello di voler fare del Parlamento, un puro organo
politico € generico», uno strumento tuttofare. È dunque necessaria
un’inversione di rotta e l’esecutivo fascista ne possede i mezzi nei consigli
tecnici, l’unico proposito veramente rivoluzionario» scaturito dal
fascismo, la pietra angolare di ogni autentica riforma in senso
tecnocratico. A parte l'enfasi posta sui Consigli Tecnici (quasi una
sorta di compensazione psicologica a fronte del naufragio dei “suoi”
Gruppi di Competenza, dei quali essi avrebbero dovuto raccogliere
l’infruttuosa eredità), l’essenza delle considerazioni di Rocca non si
discostava da quanto egli aveva più volte sostenuto in passato, con la
differenza che nel fascismo pareva non esservi più posto per simili
posizioni. Non a caso, in contemporanea alla s Ip., Tornare alla
normalità, «Il Nuovo Paese», (anche in Idee
sul Fascismo,). SETTIMELLI, Fascista o liberale energico? (Risposta
a Rocca), «L’Impero. Più tardi, conclusasi la polemica revisionista con
la definitiva espulsione di Massimo Rocca dal PNF, Settimelli, in
risposta all’accusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista
(cfr. La ritirata dell'Impero, «Avanti!), avrebbe rievocato proprio
quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. “L'Impero e
Massimo Rocca ”, «L'Impero»). Ciò non toglie che, nel giro di poco più di
tre mesi, l’organo romano avesse completamente mutato la propria
linea editoriale riguardo al revisionismo, passando dall’iniziale sostegno alla
decisa ostilità. Rocca, Fascismo e liberalismo (anche in ID., Idee
sul Fascismo). a i idee pubblicazione della risposta di
Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del Partito Fascista diramò un
comunicato nel quale s’informava che il Direttorio Nazionale aveva
inviato «una lettera di deplorazione» a Rocca a motivo dei suoi ultimi saggi.
Forse per evitare altri inconvenienti, il testo di un discorso che Rocca
pronuncia al Teatro Scribe di Torino è sottoposto alla preventiva
approvazione del duce, Ciò che colpiva nel lungo intervento torinese di
Rocca (un vero e proprio compendio della sua dottrina dello STATO, quale
anda formandosi negli anni) è l’assenza - certo non casuale - di
qualsiasi riferimento al partito fascista. Perciò, nonostante il discorso
dello Scribe non contene cenni al revisionismo, pure, in un certo senso,
ne costituiva lo scheletro, il fondamento concettuale. Nella FILOSOFIA di
Rocca, sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica,
individualismo, liberal/nazionalismo e fascismo, non c’è più spazio per
la mediazione del partito. LO STATO, vertice della piramide, è il dogma
intangibile e indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e
vicissitudine partigiana, superiore, quindi, allo stesso fascismo.
Il discorso è l’ultima uscita pubblica di Rocca prima dell’appuntamento
elettorale. Egli, tuttavia, non disarma affatto e anzi lavora ad un
volume antologico dei suoi saggi “revisionisti” (il più volte citato “Idee
sul fascismo”), che vede la luce dopo le elezioni, nell’ambito della
collana “I problemi del Fascismo” diretta da SUCKERT (si veda). Il saggio,
significativamente dedicato a Gioda («un fratello che sa valutare e
comprendere la testimonianza d’un travaglio spirituale) contene anche due
inediti di grande importanza. Nel primo di essi, intitolato Una legge agl’italiani,
Rocca invoca l’avvento di una legge che è inattaccabile nella sua
imparzialità serena, amministrata da uno stato capace di farne sostanza
della Il Nuovo Paese», Cfr. Il discorso di stasera del comm. Rocca, «Il
Piemonte. Il testo completo del discorso si trova anche in MAssIiMO
Rocca, Idee sul Fascismo, come La ricostruzione morale della Nazione. Le
considerazioni di Rocca riceveno commenti benevoli da «La Stampa» (Il discorso
di Rocca), da «Il Nuovo Paese» (Il discorso di Rocca a Torino) e
financo da «Il Maglio», che ne definì l’intervento un mezzo di lento
riavvicinamento all’anima del fascismo (Il discorso di Rocca).
ROCCA, Idee sul Fascismo sua eternità, al di sopra degl’uomini e dei
governi e dei partiti e delle classi. Il secondo inedito, Il
Fascismo nel pensiero moderno, rivela pienamente i segni dell’involuzione
concettualistica che contraddistingue la ripresa della campagna
revisionista. Perno di questa lunga e spesso contorta digressione
storico-politico-FILOSOFICA è la condanna della modernità, di cui Rocca come altri anti-modernisti - individua
l’origine nella riforma protestante e di cui segue le successive
incarnazioni, dal razionalismo allo scientismo, per giungere, sul terreno
politico, all’astrazioni della democrazia demagogica e del socialismo.
Contro la decadenza e la dissoluzione d’ogni gerarchia innestate dalla
critica moderna, si leva, in passato, la rivolta isolata d’alcuni spiriti
liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma - è in Italia - prosegue Rocca -
che la reazione anti-intellettuale da i frutti migliori e più durevoli,
generando prima la riscossa nazionalista, poi quella futurista e infine,
nello sfacelo generale del dopoguerra, quella fascista. Ma il fascismo,
pur nella sua grandezza, è ancora, per il teorico del revisionismo, una
energia formidabile ma grezza, contenente i germi d’una creazione
grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali. La pienezza
restauratrice del fascismo - conclude Rocca - dove passare attraverso la
riscoperta della centralità e della missione della chiesa cattolica romana,
unica depositaria della certezza del dogma. Negli ultimi due paragrafi
del suo saggio - Il valore del Cattolicesimo e Fascismo e religione -,
Rocca immagina un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro ritorno,
dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura, quale
approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto
l’egida della Chiesa. La critica di Rocca al moderno e la sua
rivalutazione della tradizione mostrano non pochi nessi con la
contemporanea riflessione di Suckert, senza tuttavia possederne né
l’originalità, né tanto meno l’anima romantica e sostanzialmente
rivoluzionaria. Puramente e Il riconoscimento del cattolicesimo romano
come base fondante dell’unità nazionale e, più in generale, della
religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, è al centro
della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di
ABC, la rivista fondata da Bottai, Rocca ampiamente tratta questi temi,
sia sotto un’angolatura puramente storico-FILOSOFICA, sia in riferimento alla
nuova situazione politica italiana, indicando nell’autorità e nella
dottrina della Chiesa cattolica l’unico vero antidoto alla degenerazione
partitocratica caratterizzante l’Italia repubblicana. DA proposito
dell’antimodernismo quale componente dell’ideologia fascista e della sua
centralità nella riflessione di Curzio Suckert, v. GENTILE, €
MICHEL deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex
anarchico lo fa dunque assomigliare più a Maistre che a MAZZINI. AI di là
di queste considerazioni, è ormai chiaro che Rocca esprime
posizioni personali, che difficilmente, con l’eccezione di pochi
intellettuali, trovano nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a
caso Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non esita
a farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario. Le elezioni e
la crisi del fascismo torinese Rocca e Gioda parteciparono alle elezioni
nelle file del listone governativo”. La candidatura di Rocca incontra
invero moltissime difficoltà. Apertamente osteggiato dagl’intransigenti,
il leader revisionista dove rinunciare a correre nel sicuro collegio di
Torino (dove è invece candidato Gioda), per accontentarsi di un posto in
1 quello di Milano/Pavia, non senza incontrare le forti resistenze di
Farinacci. Sembra, peraltro, che Gioda condiziona la propria candidatura
alla presenza nel listone dell’amico Rocca. Avendo Rocca rileva infatti un giornale torinese -,
con cui Gioda è pienamente solidale, accettato la candidatura in
Lombardia, OSTENC. Sul pensiero politico dell’intellettuale toscano v. la
monografia di PARDINI, SICKERT (si veda) Malaparte. Una biografia
politica, Milano, Luni. Non solo Farinacci, a dire il vero. E’ singolare che quasi
a voler rinverdire le polemiche d’anteguerra, la comunità anarchica di
New York, gravitante attorno al giornale «Il Martello» (uno degli organi
più autorevoli dell’anarchismo italiano all’estero), da alle stampe un saggio
intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto a vecchi
scritti anti-clericali di Mussolini e di Hervé, riproduce il testo di una
conferenza tenuta da Rocca a Providence allo scopo di dimostrare che
il mangiapreti d’un tempo è in realtà un voltagabbana. Due anni dopo,
peraltro, il foglio anarchico italo/americano non si sarebbe peritato di
dar spazio ad un articolo dello stesso Rocca (ormai un fuoruscito
politico), violentemente critico nei confronti di Mussolini (cfr. Rocca,
La verità su Mussolini, «Il Martello»). Su tutte le vicende legate alla
decisiva consultazione elettorale v. FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. «Il
Piemonte. Il ras di Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura
Rocca. Solo dopo la diramazione della lista ufficiale dei candidati,
Farinacci si rassegna ad accettare il fatto compiuto. Ora che le liste
sono approvate, col sigillo del duce e del PNF - scrive con evidente
disappunto -, dev’essere bandita ogni discussione, anche se nel listone. V'è
qualcosa d’indigesto; vi è il nome di qualcuno che credevamo che la
rivoluzione nostra avesse sepolto per sempre (FARINACCI, Ora basta!,
«Cremona Nuova). il Segretario politico del fascio di Torino rimane
candidato nella lista nazionale. Quella di Rocca è,
necessariamente, una campagna elettorale in tono minore, né molto diversa
a causa della salute malferma è quella di Gioda; ciononostante,
entrambi risultarono eletti alla Camera. Il dopo elezioni apre
un’ennesima deflagrante crisi all’interno del fascismo sub-alpino; crisi
significativa perché, a prescindere dai fattori di ordine ambientale,
s’inscrive nel più generale contrasto tra revisionisti e intransigenti.
La Stampa» pone l’accento sui contrasti tra la tendenza transigente
filo-liberale del fascismo locale, rappresentata da Rocca, e l’ala più,
giottosa e ribelle, nostalgica dei metodi squadristici, arroccata in
provincia. Come effetto di queste lacerazioni intestine, la formazione
della lista nazionale era stata difficoltosa e, complessivamente, la
percentuale di voti ottenuta.In Piemonte da tale schieramento era
risultata la più bassa d’Italia (il 43 12%). A una settimana dalle votazioni si
riunì a Torino l’assise dei Fasci provinciali. In un’atmosfera satura di
tensione (il discorso Il Piemonte. «Io
rinfaccia più tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il duce,
ho accettato di abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie
conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando ho visto che i tuoi amici
boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono andato,
infischiandomi dei voti» (ROCCA, All'onorevole Farinacci despota e
censore, «Il Nuovo Paese. La propaganda elettorale fascista fu inaugurata
domenica 2 marzo con una serie di comizi per la proclamazione dei
candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, ch’ebbe luogo al
Teatro Regio il martedì successivo, ma fece giungere all’assemblea una
lettera “programmatica”, nella quale si augurava che il confronto
elettorale in Piemonte si mantenesse nell’ambito della correttezza, come
si conveniva ad una «lotta d’idee e non di uomini», e professava
«disciplina e fedeltà assoluta a Benito Mussolini» (// messaggio di Mario
Gioda ai fascisti torinesi, Il Popolo d’Italia. Anche in «Il Piemonte). Il
segretario del fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il
proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu
l’unica sua uscita pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. il
forte discorso di Gioda al Teatro Alfieri, «Il Maglio»). Nelle 328
sezioni di Milano/città Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza.
Miglior risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. «Il
Popolo d’Italia»). Di gran lunga più cospicuo il “bottino” elettorale di Mario
Gioda: 5.694 preferenze in Torino/città, 10.439 in provincia (cfr. «La
Stampa»). Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale. A
confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era
presentato anche un raggruppamento di fascisti “dissidenti”, guidato da
Cesare Forni e Raimondo Sala, che vantava un largo seguito tra gli agrari
e gli squadristi più facinorosi e che pare godesse delle simpatie di De
Vecchi. Su tutti questi punti v. MANA del segretario federale, Rossi, fu
interrotto più volte), il congresso si risolse in un tumulto generale,
con violenti scontri tra i membri del Fascio del capoluogo e i
rappresentanti delle province”. Il punto era - come ancora evidenziava
«La Stampa» - che, dopo l’entrata in carica del nuovo Direttorio,
all’inizio di dicembre, e la svolta “normalizzatrice” avviata da Gioda, 1
margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo subalpino si
erano definitivamente assottigliati. di fascismo nella provincia registra l’organo giolittiano - tende ad
avere una Cuggino diversa da quella dell’attuale Direttorio, un
carattere, cioè, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle
gerarchie, quasi intransigente, del tipo, insomma, che fu gi. è
i L de, È già ed è ancora definito coi i schiettamente piemontese
st GR Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare®, la gravità
della situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso
parte alla concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla
Direzione del partito, «per chiarire la vicenda di Torino»®”. Le
decisioni più importanti, in realtà, erano già state prese,
indipendentemente dalle valutazioni di Gioda Sabato 19 aprile, Colisi
Rossi annunziò lo scioglimento del Direttorio del Fascio torinese e la
nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Brandimarte, Orsi e
Gorgolini. Il provvedimento colse di sorpresa Gioda, il quale, in
un’accorata lettera a «Il Popolo d’Italia», lo definì un «atto inconsulto
e provocatore» e dichiarò di non riconoscere «nel modo più assoluto lo
scioglimento del Direttorio del glorioso e laborioso Fascio di Torino».
La Segreteria Federale, forte dell’approvazione dei vertici nazionali del
partito, non si curò minimamente pie È si “a Incidenti ad un
convegno fascista. Qualche contuso, «La Stampa». x tt n : In una
lettera della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da «Il
Popolo d Italia») l’organo giolittiano veniva accusato di «subdole
esagerazioni». «Il Maglio» attribuì la responsabilità dell’«indegna gazzarra»
a misteriosi provocatori esterni, «elementi incoscienti, operanti per
conto terzi». «Il Popolo d’Italia», 18 aprile 1924, Rs;
situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. GiodaIl giorno
prima il segretario del fascio torinese invia un telegramma ancor più duro a
Mussolini, definendo lo scioglimento del direttorio un imbecillesco
provocatore colpo di mano e chiedendo la nomina di un «commissario avente
pieni poteri» che facesse piena luce su ; pasa na $ quanto accaduto a
Torino. ACS, MIN/S7% DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris.,
Busta e delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprovò la lettera come
una manifestazione di «deplorevole indisciplina»”. Giunge a Torino
Starace, in qualità di supervisore, Su decisione di Starace il decreto di
scioglimento del direttorio cittadino è esteso all’intero fascio, la cui
ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario straordinario,
nella persona del ras Lantini. La nomina dell’intransigente Lantini, uno
dei più accaniti avversari del revisionismo, ad arbitro delle sorti del
fascismo torinese aveva un evidente significato ammonitore”. Gioda, ormai
sfinito dalla lotta contro la malattia, uscì definitivamente di scena,
assistendo impotente alla rovina politica dell’amico Rocca”. Minato dalla
leucemia, l’ex tipografo si spende in un ospedale torinese. Quale
che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse
potuto essere più incisiva ed influente, se le tortuosità programmatiche
del fascismo, le difficoltà incontrate nella gestione del Fascio di
Torino - in particolare l’annosa contrapposizione con Vecchi e le sue
stesse esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando
sulle celebrazioni postume dell’oleografia fascista”, è certo che con
Gioda Il Piemonte Cfr. «La Stampa, e «Il Piemonte. Cfr. «La Stampa», e «Il
Piemonte». Non a caso, l’arrivo di Lantini a Torino fu salutato con
soddisfazione da «Il Maglio». In un precedente fondo, l’organo fascista - che
significativamente non da spazio
alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i
revisionisti, affermando di non credere «alla utilità di mutamenti
programmatici nei postulati fondamentali del partito e negando
addirittura l’esistenza del fenomeno “rassismo” (Rassismo, revisionismo e
speculazioni avversarie. Sull’intera vicenda v. anche MANA. Dopo
l’espulsione di Rocca dal PNF, l° «Avanti!» s’interroga su quali
sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come già
avvenuto in occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le
ripercussioni a Torino per l'espulsione di Rocca. In realtà, come riferì
a Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo stesso Gioda,
questi reagì «serenamente», ormai rassegnato, consapevole forse di non
poter cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,
Gabinetto Finzi, Busta. si Esemplare, a questo proposito
(oltre agli articoli commemorativi de «Il Popolo d’Italia», de «Ii
Piemonte» e de Il Maglio, pubblicati all’indomani della sua morte), il già
citato volumetto La vita diGioda narrata da Croce. Nel secondo
dopoguerra, la memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del
sindacalismo di estrazione fascista (più propriamente salodina),
organizzato nella CISNAL. «Fondatore Gioda» campeggiava sul frontespizio
della nuova serie de «Il Maglio», come “periodico del sindacalismo
nazionale”, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda,
firmato da siii. ef .1.} scompare un protagonista
appassionato di una fase cruciale della storia politica italiana, una
figura complessa e contraddittoria, in un certo senso simbolo
dell’irriducibilità del fenomeno fascismo ad un unico criterio
interpretativo. Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta
di Rocca. Mentre si consuma la crisi del fascismo torinese. Rocca riapre
formalmente il fronte revisionista, con l’intenzione come confessò più tardi di
giungere ad un risultato pratico di epurazione e di chiarificazione. In
una lucida intervista a “L’Epoca”, che riattizza immediatamente il fuoco
delle polemiche, il neo-deputato ribadì uno ad uno i capi-saldi del
revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco contro quelle
«classi industriali». che, prive d’ogni idea generale nobilitante,
s’illudevano «di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la civiltà
foraggiando i vari capetti fascisti, in cambio di utili tranquilli. Alla
domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un
«orientamento verso sinistra» del fascismo, Rocca replica. Verso una
sinistra politica, democratica o liberale d’idee, no. Verso una democrazia
di fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione,
si». Il governo fascista - osserva Rocca -, uscito rafforzato dalle
consultazioni politiche, aveva il dovere, e insieme la necessità, di
ampliare la propria base favorendo, a tal scopo, «una profonda
collaborazione» tra le diverse componenti della società civile e del
mondo del lavoro. Una collaborazione Malusardi, che di quel
giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Gioda, «Il
Maglio»). a MAassIMO Rocca, A Farinacci despota e censore, cit.
Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» con l'on.
Massimo Rocca, «L’Epoca». Rocca riprende questi concetti in un saggio su
«Il Nuovo Paese» (// bolscevismo degli industriali). Il fascismo -
scrisse in quella circostanza - non era nato per tutelare gli interessi
delle «cricche industriali/finanziarie». AI contrario, «troppi nuovi e
vecchi imprenditori vedevano nell’Italia un paese di conquista economica,
proprio come certi “ducini” pseudo-fascisti vedevano nelle città e nelle
provincie un terreno di conquista politica e militare». Tra i due
deprecabili fenomeni - aggiunse Rocca vi
era un nesso profondo, in quanto gli squadristi «dell’ultima ora» erano
sovente finanziati da industriali e proprietari «senza scrupoli». Il
nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell ‘«Epoca» all'on. Massimo
Rocca, cit, di questo tipo, fondata sulla «solidarietà nazionale» e non
«isterilita da pure considerazioni economiche o da un’opera di
gendarmeria a favore di una classe sola», poteva darsi soltanto a
condizione che il Partito Fascista abbandonasse ogni residuo settarismo
per divenire finalmente parte integrante della Nazione”. A queste
considerazioni Rocca, incurante dell’invito alla prudenza fattogli
pervenire dallo stesso Mussolini!” fece seguire altri interventi -
soprattutto su «Il Nuovo Paese»! -, ogni volta tornando sugli stessi
concetti. In un articolo particolarmente duro per il giornale di Bazzi
(una sferzante requisitoria contro le «camarille locali» fasciste),
Rocca, quasi presentendo la resa dei conti finale, sostenne che la
normalizzazione non poteva più esser rimandata. «Dopo le elezioni scrive -, il Paese ha diritto di pretendere
un assetto definitivo del Fascismo. Il 1924 dovrà assolutamente
assistere all’inquadramento completo del partito nella Nazione,
Com’è lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una
pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta,
però, Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel
ministro delle Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior
prestigio del governo Mussolini!?. E’ noto, infatti, che la seconda
“ondata” revisionista L’Epoca», diretta allora da Madia (subentrato a
Falbo), dedicò almeno inizialmente
molta attenzione alla seconda fase della
polemica revisionista. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’intervista
a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospitò un’altra, anch'essa molto
importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalità del
revisionismo. Intervista dell'«Epoca» con l'on. Bottai). «Mussolini ricorda Rocca a questo proposito - mi fa
pregare, da Paolucci de’Calboli Barone, di abbandonare la polemica. Rifiutai
qualsiasi impegno in merito, perché volevo giungere ad una chiarificazione
definitiva (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il Nuovo
Paese» prende, di fatto, il posto che è stato de «L'Impero» e de «Il
Corriere Italiano». Il favore accordato dal giornale di Bazzi al
revisionismo era però caratterizzato da un’ambivalenza di fondo. Tipico, sotto
questo profilo, un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in
cui, agli elogi a Massimo Rocca si accompagnavano critiche all’eccessiva
«astrattezza filosofica» delle sue tesi, il tutto in una cornice di
disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque,
apparve chiaro che «Il Nuovo Paese» mirava a garantirsi una via di fuga,
nell’ipotesi, rivelatasi realtà, che i revisionisti finissero per
soccombere. 102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina
nazionale, Questo articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo
programmatico di “Mezzi per normalizzare” veronese Stefani, deputato (è eletto - come si è visto -
nell’ambito della lista fascista patrocinata da Malusardi), era entrato nel
governo Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte
del popolare Vincenzo s’intrecciò con la violenta campagna scatenata
contro Stefani da «Il Nuovo Paese» nel tentativo di sottrarre i propri
equivoci giri d’affari alla temuta opera moralizzatrice del ministro'.
Secondo Felice, il coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del
tutto chiarite - manovre fu probabilmente il prezzo che egli dovette
pagare per conservare il sostegno di Bazzi, ma è certo, in ogni caso, che
il leader revisionista ha in tutta quella vicenda una parte solo
marginale. Rocca, del resto, nega sempre di esser sceso in polemica
personale con Stefani; e in effetti, sfogliando i suoi articoli di quel
periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a questioni
economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!””. E’
bensì vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato
con Corgini fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il suo
accantonamento da parte di Mussolini) pubblicò un intero volume contro la
politica economica di De Stefani, ma è anche vero che il saggio uscì
quando della polemica montata da «Il Nuovo Paese» non resta che l’eco!?.
D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale Tangorra, anche il
Dicastero del Tesoro. La sua azione di governo, sostanzialmente
improntata ai postulati del liberismo classico, si articolò lungo tre
direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio
drastico della spesa pubblica e all’introduzione di nuove imposte);
contenimento della dinamica salariale; ripresa di un liberismo doganale
“controllato”. Cfr. Dizionario biografico degl’italiani, fe Su
questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista. Il Nuovo Paese» rimproverava al
ministro l’ostinazione nel voler perseguire a tutti i costi l’equilibrio
del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della
Nazione; ma questa era - per così dire - l’accusa nobile, “di facciata”,
essendo ben altri, in realtà, i motivi dell’ostilità del giornale nei
confronti di Stefani. Tra le principali imputazioni mosse al ministro, la
più importante - perché più strettamente connessa agli interessi della
lobby sottostante all’iniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi
presunti favori alla potente Banca Commerciale (accusata di mirare al
monopolio di tutte le attività industriali, bancarie e finanziarie), a
discapito soprattutto della Banca di Sconto, già in via di liquidazione
(ofr. Per gli uomini di buona fede, «Il Nuovo Paese»). si Cfr.
Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista. In una lettera successiva alla sua
espulsione dal Partito Fascista (pubblicata da «Il Corriere della Sera»), Rocca
si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo nome fosse stato
collegato alla diatriba «Nuovo Paese»/De Stefani, sottolineando di non
aver «mai attaccato» il ministro. 1°? Una sola volta, con l’articolo
La tirannide finanziaria (pubblicato da «Il Nuovo Paese» il 14 maggio),
Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca
Commerciale. Ra Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura.
Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli). Il saggio, che fa parte
della collana Pagine Politiche diretta d’Angiolillo, raccoglie il
testo di un dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a Stefani ha un
riflesso del tutto negativo sull’azione di Rocca. Se per i fascisti delle
province l’integerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento
nella lotta contro gl’affaristi” romani, all'opinione pubblica moderata,
che aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della
normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato
il principale organo revisionista ad un conservatore come Stefani (il
quale godeva, tra l’altro, della stima di eminenti personalità del mondo
politico ed economico liberale, come Einaudi) apparvero incomprensibili
e gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe
mai accondisceso a liquidare uno dei suoi più validi
collaboratori. discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati
(anch'esso, dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie
di note nelle quali l’autore illustrava dettagliatamente i motivi del suo
dissenso dalla linea politica di De Stefani, ribadendo peraltro la
propria estraneità alla polemica tra il ministro e Il Nuovo Paese, e
definendo una leggenda l’opinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso
dal Partito Fascista a motivo di essa. Quanto alla sostanza delle sue
critiche a Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva
nell’imputare al responsabile delle Finanze il suo economismo professorale
- troppo legato all’arida teoria e perciò fine a se stesso - e la sua
incapacità, per converso, di valutare l’evoluzione sindacalista della
produzione, colta invece dal programma economico fascista. Per un economista
di tal razza argomenta Rocca esiste soltanto la libertà economica, cioè
della classe borghese, ma non la libertà politica, cioè delle altre
classi, con la conseguenza di favorire il dominio della plutocrazia
bancaria e affaristica, la quale rappresentava l’applicazione quotidiana,
esagerata e unilaterale della scienza economica classica e borghese. Pi «La
lotta contro Stefani scrive Farinacci in
tono minaccioso - deve cessare. Il Direttorio del Partito deve
intervenire e sconfessare ancora una volta il Nuovo Paese e i suoi
collaboratori fascisti. Un ministro fascista come l’on. De Stefani non può
essere lasciato aggredire da chi è privo di ogni diritto e autorità
morale» (FARINACCI, Solidali con Stefani, «Cremona Nuova). palla
giolittiana «La Stampa» (CABIATI, Il ministro Stefani) ai filo-fascisti
«Il Giornale d’Italia» (Polemiche interfasciste sul “revisionismo” e pro
0 contro De Stefani) e «Il Resto del Carlino» (FLORA, Per
l'onorevole Stefani), la stampa liberale prese, compatta, le difese
dell’uomo di governo veronese, l’energico restauratore delle finanze pubbliche.
Il commento di Flora per il quotidiano bolognese è forse il più
indicativo di questo comune sentire. Nulla di più enigmatico e di più
doloroso per il pubblico italiano scrisse l’articolista de «Il Resto del
Carlino» della campagna ostile contro il
ministro De Stefani, riuscito in soli due anni con una politica
finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino
Sella, a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della nazione
dall’estrema rovina. I revisionisti, complice la campagna de «Il Nuovo
Paese» contro De Stefani, apparivano dunque, alla maggioranza degli
osservatori liberali, per sostenitori della finanza “allegra”, al punto
che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il
ripristino della legalità ecc.), che costituivano la vera essenza del
revisionismo, finirono per passare in fe TE avitbicee In
un’atmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si avviò incontro
alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora incerte al momento
della sua intervista a L’Epoca, si andavano d’altronde sempre più
definendo. «L’Impero», dopo un lungo silenzio, scese in campo a dar
manforte a Farinacci. In un editoriale Il
pugno e la biblioteca -, Settimelli prende le difese dei selvaggi delle
province (il pugno), accusando i revisionisti (la “biblioteca”) di
filosofare vanamente sui massimi sistemi, tradendo l’anima guerriera del
fascismo. A parte la disinvoltura dei suoi ex alleati, è però
indiscutibile che Rocca si compiacesse troppo di se stesso,
abbandonandosi sovente a virtuosismi da erudito (come testimoniato da
scritti del tipo di La rivoluzione e le fonti del Fascismo, uscito su
L’Epoca in contemporanea all’articolo di Settimelli), col risultato come
si diceva - di togliere mordente e immediatezza alla polemica
revisionista, facendola apparire, appunto, uno sterile e noioso esercizio
di critica filosofica. A strappare definitivamente Rocca alle sue
speculazioni provvide Mussolini (A) con un fondo durissimo per «Il Popolo
d’Italia. Gli onorevoli Rocca e Bottai scrive il fratello del duce -, ai quali
non si può negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati
a demolire, a precipitare ciò che anda semplicemente attenuato. I
patriarchi non si mettono a fare la boxe coi capi di provincia. Se non ci
fossero stati gli squadristi, se non ci fosse stata la violenza,
l'ordine, la disciplina, la ripresa di tutta la nazione italiana
sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici secondo
piano e che la liquidazione di Rocca sembra infine un mezzo necessario per
salvare l’integrità dei bilanci. Persino Il Mondo, l’organo
dell’opposizione costituzionale amendoliana, che pure precisa di non
tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni caso, non ha mai
risparmiato critiche all’operato di Stefani, convenne sull’inopportunità
della campagna contro il ministro. Indifferenti come noi siamo a
qualsiasi esito - scrive infatti il giornale diretto da Cianca di una cosa sola possiamo rallegrarci:
che non ha vinto una campagna che appare troppo minata da rancori e da
vendette d’uomini o di gruppi che si sono trovati in contrasto con le ragioni
dell’erario, ed hanno sferrato contro l'ostacolo Stefani attacchi di
stile inusitato perfino nell’attuale depressione del costume politico (Il
caso Stefani. La logica del pugno in opposizione alla biblioteca - replica
Rocca a Settimelli -, l’esaltazione cieca della forza, il mito dell’ITALIANITÀ,
conduce il fascismo alla dissoluzione morale (Rocca, Il problema morale
del fascismo, «L’Epoca»). Il problema d’educare e quindi di responsabilizzare i quadri fascisti è avvertito dai dirigenti
più accorti. Dopo la marcia su Roma, nel pieno delle polemiche
sullo squadrismo, Malusardi - allora a Sestri Ponente - si batte per
l’apertura, nei locali del fascio, di una biblioteca di cultura varia, in
modo da offrire ai fascisti un'opportunità di crescita “etica” e
“intellettuale” (cfr. «Giovinezza»). di oggi puo parlare da Roma,
sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il tono ieratico degl’eunuchi.
Le brusche parole di Mussolini (A), in perfetto stile farinacciano,
colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche all’improvviso - ancorché
non imprevedibile voltafaccia de Il
Nuovo Paese, Rocca prova dapprima a parare il colpo con una dichiarazione
nella quale precisa di non aver mai inteso offendere l’eroiche camicie
nere. Quindi, di fronte agl’insistenti affondo di Farinacci, si decide a
pubblicare una lettera aperta al proprio rivale. Benché traboccante di
retorica, la lettera di Rocca è un fiero atto d’accusa a Farinacci (il viceré
spagnolesco di Cremona) e al fascismo provinciale che egli rappresenta,
degenerante nella volgare brutalità del cazzotto o del randello. È stato
scritto, molto suggestivamente, che in questo modo Rocca ridiventa
l’anarchico Libero Tancredi esi prepara a riprendere la via dell’esilio. Non
sembra, tuttavia, che Rocca si è del tutto reso conto d’esser giunto al
capo-linea della sua avventura fascista, sebbene non è difficile
prevedere, come riuscì a un giornale MUSSOLINI, La Fronda, «Il Popolo
d’Italia. Lo stesso giorno, con grande tempismo, L'Impero titola: Gridiamolo
ancora: il fascismo ha fatto la rivoluzione per avere uno STATO FASCISTA,
non per appuntellare lo stato liberale. 3 ‘gu i i ni C'è una fronda
in giro? si chiede il giornale di Bazzi,
riecheggiando il titolo del saggio d’Mussolini (A). Non ci riguarda. Noi
chiediamo anzi che è spezzata. La dichiarazione di Rocca è pubblicata da «Il
Nuovo Paese» e ripresa, il giorno seguente, anche da «Il Popolo d’Italia»
e da «Il Giornale d'Italia». Farinacci, sul suo giornale, si dice
indignato per quella che considera un’autentica virata di bordo da parte
del suo avversario («Cremona Nuova»). In realtà, Rocca si era DERER a
esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della vecchia guardia
(come sO resto aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le
violenze dei teppisti pc quelli di tutte le seste giornate, ma anzi
sottolineando che egli continua a attersi per l’epurazione all’interno
del panic affinché questo puo realizzare il suo genuino di disciplina
legale e materiale. Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la
lettera si trova riprodotta anche in Come il fascismo divenne una
dittatura). Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffunde un
comunicato con il cbr no notizia delle proprie dimissioni da
vicepresidente dell’INA, nonché da membro del consiglio d’amministrazione
della Società Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica
che ricopriva da qualche mese (cfr. «Il Giornale d’Italia», e «Il Nuovo
Paese»). BEGNAC, è ti 18 In. effetti, ancora dopo che il direttorio
fascista ne sanziona il definitivo allontanamento dal PNF, Rocca nutre la
speranza che il suo caso è ri-esaminato, come già è avvenuto in occasione
della sua precedente espulsione. Ed ora dichiara il dell’opposizione, che la sua
lettera a Farinacci ne ha con tutta probabilità determinato l’espulsione
dal partito. La sera stessa il direttorio fascista, riunito a Palazzo CHIGI
alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una visita
ufficiale in Sicilia), DECRETA L’ESPULSIONE DI ROCCA dal PNF. Essa,
commenta «Il Popolo d’Italia», non è solo: la punizione ad un sedizioso,
ma un monito severo e una minaccia solenne a tutti quegli PSEUDO fascisti
o FALSI fascisti che rinnegano la fede, offendendo la patria e turbano
colla smania e la follia dell’arrivismo quel che è il dovere fascista più
grande: la ricostruzione nazionale. Il direttorio decide altresì l’espulsione
di Bottai, ma questi, grazie all’intercessione di Marinelli (non si sa a
quali eéindizioni probabilmente la promessa di rientrare nei ranghi),
ottenne la revoca del provvedimento, cosicché Rocca si trova, di fatto, a
sostenere da solo il peso dell’epurazione. Nel giro di pochi mesi,
dunque, il revisionismo passa d’una concreta, benché ingannevole,
speranza di successo al più cocente fallimento, mentre a «Il Giornale
d’Italia» più fascista che mai, se il
fascismo è legge statale e disciplina spirituale, non mi resta che
tornare ad attendere un po’ di giustizia, non Importa se più tardiva che
nello scorso settembre. Avanti!: Cfr. «Il Popolo d’Italia. Ogni
commento da parte nostra - rileva Farinacci trionfalmente è superfluo. Costui [Rocca], da noi, è
considerato fuori del fascismo già da un anno (FARINACCI Virando di
bordo, Cremona Nuova. GUERRI. La marcia indietro di Bottai addolora Rocca, che
ne attribuì la ragione alle preoccupazioni carrieristiche del intellettuale fascista. Bottai scrive Rocca --, teme di veder spezzata
per sempre la sua carriera. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura.
Il punto è che il revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene
concomitanti, muoveno da premesse culturali e ideologiche sostanzialmente
diverse. Al contrario di Rocca, infatti, che vanta una militanza politica
pre-fascista di tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua breve
stagione futurista, si e form politicamente col fascismo, al quale dedica
tutto se stesso, e di cui se così si può
dire - puo considerarsi l’unico vero intellettuale organico. Nonostante
l’approccio critico, quindi, la fedeltà fascista di Bottai non è
assolutamente in discussione. È così come sottolinea efficacemente Guerri - che
Bottai, il quale crede nel FASCISMO COME TEORIA POLITICA, non volle
rinunciarvi sempre ripromettendosi di migliorarne la prassi, mentre
Rocca, assai meno fascista e anebra molto anarchico, piuttosto che
accettare la disciplina di un partito che considera irrimediabilmente
marcio, prefere rinunciarvi del tutto (GUERRI. Rocca vienne abbandonato al
proprio destino”. Perché MUSSOLINI decide di sacrificare Rocca, di cui aveva
personalmente preso le difese meno di un anno prima, è questione di non
facile interpretazione. La risposta può essere ancora una volta ricercata
nella duttilità strategica del duce. Mussolini, infatti, coltiva ancora
il disegno d’un allargamento della maggioranza, da realizzarsi
soprattutto grazie a un’intesa con la CGL -- un progetto a cui il capo
del fascismo tiene in modo particolare e che, se non è sopraggiunta la
vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in porto.
Un'operazione tanto importante scrive
Felice dove essere realizzata con
le minime possibili scosse interne. Gl’intransigenti dovevano essere
convinti ad accettarla. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro è
la fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non puo certo
esimersi da Rocca è quindi vittima d’intricate manovre politiche, ma è
giusto ripetere che egli sconta anche gravi errori personali. Con la sua
definitiva espulsione | commenti della stampa italiana sono variamente ma
unanimemente favorevoli alla decisione del direttorio. Settimelli, su
L'Impero ha parole di stima per Farinacci (il suo programma semplice e
schietto, energico e fiducioso, è il nostro programma) e di riprovazione
per Rocca (Rocca non ha una visione chiara e sintetica della situazione. È
farraginoso e analitico). «Il Resto del Carlino», che vede con favore la
battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarca la degenerazione
personalistica della polemica revisionista concretatasi negl’attacchi a Stefani -
augurandosi che Rocca si convince dell’opportunità di rientrare in un
completo silenzio (Il provvedimento contro l'on. Rocca). Con argomenti
simili, «Il Giornale d’Italia», pur riconoscendo la validità del
revisionismo degl’inizi, ne critica l’involuzione dottrinale (non si capisce
quale è la meta, per quali vie concrete raggiungibile, che i nuovi San
Paolo si proponeno) ed espressa soddisfazione per l'avvenuta risoluzione
della crisi (Nube risolta). FELICE, Mussolini il fascista. A una
successiva riunione del gran consiglio del fascismo (in piena crisi
Matteotti), Mussolini si mostra ancora moderatamente ben disposto verso certe
tematiche revisioniste. Dichiaro dice il duce -- che io non ho ben capito
ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisogna che questi
nostri amici specificano. Si tratta di una ricaduta nello STATO democratico/liberale
con tutti gl’annessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri ed i
gregari? O si vuole come è logico ri-vedere le posizioni morali e
politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realtà, cioè al possesso del
potere politico? In quest’ultimo caso, il revisionismo ha una reale
utilità. E evidente che, assunto il potere, bisogna diventare dei
legalitari e non continuare ad essere dei ribellisti. Oppure il
revisionismo vuole condurci ad un ri-esame delle nostre posizioni
programmatiche? Il revisionismo, insomma, è una porta sul futuro, o è un
ritorno al passato? (PNF, Il Gran Consiglio nei primi danni dell'ERA
FASCISTA). dal PNF, Rocca (che non si dimise da deputato e presenzia
regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera) ©’ concluse la
propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa coscienza
anti-fascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne, riguardo
al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di odio/amore),
di cui è testimonianza il suo saggio, Come IL FASCISMO divenne una
dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo
momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tenta la via
dell’opposizione interna; quindi lascia l’Italia per la Francia, dove vive
a lungo come appartato in rapporti di reciproca diffidenza con la
concentrazione anti-fascista e in ristrettezze economiche, scrivendo
saltuariamente per Il Pungolo, il giornale diretto dal socialista Lemmi
che raccoglie anche molti ex fascisti espatriati in seguito alla vicenda
Matteotti (fra i quali Rossi e lo stesso Bazzi) !°8. Dalla Francia Rocca passa
in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a 15 Cfr. «Il Giornale
d’Italia. Rocca, PRIVATO DELLA CITTADINANZA ITALIANA dopo l’espatrio in Francia, è dichiarato
decaduto dal mandato parlamentare. Cfr. Atti Parlamentari, Camera
dei Deputati, Legislatura, Discussioni, Rocca è aggredito più volte: le
più gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad opera di Bonelli,
Masini e Nardo (rispettivamente il segretario del fascio di Genova e i
comandanti delle squadre d’azione genovesi), indignati per i riferimenti
contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo
genovese e i gruppi armatoriali liguri (cfr. «La Tribuna»,); e in
Galleria a Milano da parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr.
ACS, MINISTERO DEGL’INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 7
[Rocca comm. Massimo]. Un telegramma del prefetto di Verona al ministero
degl’interni informa d’una riunione in una trattoria di Peschiera, nel
corso della quale Rocca, illustrando il programma revisionista, propugna
la formazione di fasci autonomi, che avrebbero dovuto raccogliere tutti
gl’elementi dissidenti degni di militare nel fascismo (a questo proposito
Rocca lesse le adesioni di Forni, Padovani, Sala e Marsich) e ricercare
la collaborazione dei combattenti e dei mutilate. Il progetto, caldeggiato da
Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo
fascista intorno a un programma e a degl’obiettivi comuni, prende corpo nella
Lega Italica, sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libertà e sotto l’egida del poeta e drammaturgo BENELLI
(si veda), figura, se possibile, politicamente ancor più contraddittoria di ANNUNZIO
(si veda). La Lega Italica, che avrebbe dovuto costituire l’embrione di
un vero e proprio partito dei dissidenti, si dissolve però nel giro di
pochi mesi, vittima dell’eccessiva eterogeneità e della fumosità dei programmi.
ZANI. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. Per l'editore parigino Alcan, Rocca
pubblica il saggio “Le fascisme e l'antifascisme en Italie,” anticipante
molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il fascismo divenne
una dittatura. ci giornali e riviste soprattutto di lingua francese - e sempre
mantenendo, nei confronti del regime, un contegno altalenante (lex
anarchico approva pubblicamente l’impresa d’Etiopia, ma non ha
esitazioni, in seguito, a prendere posizione contro le leggi razziali).
Rientra in patria soltanto dopo un periodo di detenzione nelle
carceri belghe, riprendendo a pieno ritmo la sua attività di pubblicista.
Muore a Salò. Tra questi spiccavano il settimanale Cassandre e il
quotidiano Le manna entrambi editi a Bruxelles. I saggi di Rocca, per lo
più firmati con pseu toni il più ricorrente), vertevano
principalmente su questioni di politica RENO È RAT. Rocca è arrestato subito dopo la sesta di sg Ù
tgp ° so ta I È Il suo nome appare nella lista egl de ni
iale». L'ex anarchico nega sempre di aver avuto a che fare con nig
ela aa e, su ricorso del figlio, St cancellato dall’elenco (al
riguardo v. Rocca, Come il dae pri, i dittatura). Ciononostante a quanto i; a un FOA È documentatissimo
studio (FRANZINELLI, I tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN e viftime della
polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, ta pare ani Rocca
fa effettivamente parte dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome di
Omero. Le battaglie perdute sono generalmente dimenticate, poiché i
vincitori non sentono alcun interesse a ricordarle, almeno quando si sono
svolte entro uno stesso partito o una stessa nazione. Ciò non toglie che,
se non gl’uomini, almeno le cose e le verità sconfitte alla lunga si
vendichino, attraverso le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla
è più facile, ad esempio, che deridere e sopprimere certi valori
spirituali, quando si dispone della forza sufficiente per impedirne la
affermazione e persino il ricordo. Nei giorni della sventura tuttavia,
cioè quando la forza vien meno, si misura l’importanza negativa della
loro assenza, e meglio ancora la misureranno coloro che, più
tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti (Rocca,
Una battaglia perduta: il revisionismo, «ABC»). Con l’uscita di scena di Rocca,
coincidente con il fallimento della linea revisionista, ha termine questo
saggio. La caduta in disgrazia di Rocca (cui si accompagnarono, pressoché
contemporaneamente, la scomparsa di Gioda e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e
il brusco ridimensionamento delle residue velleità libertarie” di
Malusardi), può infatti essere assunta a limite cronologico della
parabola storica dell’anarco-interventismo, quanto meno di quella parte
dell’anarco-interventismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate
dei suoi principali esponenti, che confluì nel movimento fascista. Se
infatti, come giova ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della
correttezza storiografica, considerare l’anarchismo e il fascismo di
Rocca, Gioda e Malusardi come fenomeni correlati, quasi in relazione di
causa ed effetto (perché il conflitto mondiale comportò un’effettiva
trasformazione della società italiana, contribuendo a ridisegnare le
tradizionali categorie politiche prebelliche; e perché il fascismo, al di
là delle sue molte anime, fu comunque un fatto nuovo, impensabile senza
la svolta epocale della guerra), pure, come crediamo di aver illustrato,
l’atteggiamento di fondo con cui questi personaggi si accostarono al
fascismo può in qualche modo esser ricondotto alla loro formazione
anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa parlare della
presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena anarchica, che,
innestatasi in esso tramite l’interventismo, si esaurì, progressivamente
ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della rivoluzione”
fascista. ‘Renzo Novatore’ (Arcola) filosofo. ‘Renzo Novatore’. Keywords:
implicatura, l’anarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I
anarchici di Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrari” – The
Swimming-Pool Library. Abele Ricieri Ferrari. Ferrari
Luigi Speranza -- Grice e Ferraris: la ragione
conversazionale e filosofia italiana – la scuola di Galatone -- Luigi Speranza (Galatone). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferraris – he
analyses all the implicata of The Lord’s Prayer – pretty complicated – my
favourite is his excursus on the implicatum of ‘thy will be done’” Figlio
Pietro De Ferraris e Giovanna d'Alessandro. Studia a Nardò. Passa quindi a Napoli. Molte sono le
conoscenze che fa all'Accademia. Entra in contatto con Gareth detto il
Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza, Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si
laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si trasferì poi a Venezia per poi ritornare a
Napoli ed entrare nel giro della reggia partenopea, nella corte di Ferdinando
I. Si adatta a Gallipoli, dove si sposa Maria Lubelli dei baroni di
Sanarica. La serenità della sua vita fu turbata dall'invasione di Otranto da parte
dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce annotando gli eventi drammatici che in
seguito sarebbero stati il canovaccio per un'opera composta in latino. Si
sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato dottore al servizio della corte
aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di residenza. Inizia anche a
scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i ringraziamenti a Barbaro
per la dedica ricevuta; è seguente la redazione di Altilio Galateus εὐ πράττειν
e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum de distinctione humani generis et
nobilitate; e una seconda epistola a Barbaro e il saggio Ad Pancratium de
dignitate disciplinarum. Dopo la morte di Ferdinando e Alfonso II,
abbandona Napoli non prima di avere composto Galateus medicus in Alphonsum
regem epitaphium. Torna a Lecce dove forma assieme L’Accademia dei lupiensi. Scrisse
Ad Chrysostomum De villae incendio, per celebrare la propria villa di Trepuzzi
che era andata distrutta dal fuoco. E a Napoli, convocato dal re Federico
d’Aragona che lo volle con sé, ma l'inasprimento del conflitto con Francia lo
spinse a ritornare nella provincia salentina. Godette dell'ospitalità di
Isabella d’Aragona, presso cui ebbe modo di comporre in latino lavori di
filosofia, filosofici. Una delle pochissime trasferte dal Salento fu quella che
effettuò a Roma presso Giulio II, a cui offrì una copia dell'atto di Donazione
di Costantino, che era conservata nella biblioteca di Casole. Fu uno studioso
che, come gli intellettuali suoi contemporanei, riuscì a coniugare una vasta
erudizione umanistica con nozioni scientifiche. Le sue conoscenze erano di
ampio respire. Il suo bagaglio filosofico include la cultura classica di Aristotele,
Platone ed Euclide. Considera che la filosofia classica era stata traviata dai
filosofi come Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salvò
solo Boezio e la sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civiltà classica e
autori come Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio,
Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante,
Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere di
Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associò Ippocrate
e Galeno.Non trascurò gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e
descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando
con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue
opere. Ma non sfuggì a Ferraris il quadro generale della società dei suoi tempi
e della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa
soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali criticò la diffusione delle cattive
consuetudini. Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato
storico-geografico sul Salento. Mentre era a Bari ha notizia della
"Disfida di Barletta" e ne narrò per primo la storia nel suo De pugna
tredecim equitum. Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le
seguenti epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium
Sincerum de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio
indignis collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo
Lupiensi episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de
nobilitate, Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae,
Ad comitem potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis
militis Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi
Apuliae, Ad Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae,
ad Chrysostomum de pugna tredecim
equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad
Chrysostomum de Prospero Columna, phiilosophi praestantissimi de situ
elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium, Esposizione del Pater noster De
educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, ad Antonium de Caris Neritinum
episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo
Iulio II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae
ad clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum
Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo
bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro
Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas,
Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi
dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), “Gallipoli” (Lecce, Messapica
Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il
poeta nel marzo con l’apposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata
alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie, Galatone,
in Treccani Enciclopedie. PULITEZZA SPECIALE, •tifi' m CONVERSAZIONI, ' r Or^ne
delle eatwersm Umi e specie. M AUorohè, dopo il IX -secdb, ff mase sciolto
quasi ogni vincolo governativo in Europa, ciascun uomo, secondo le sue forz6%
procurò di rapire o distruggerot
£Dibbmar fortezze per difendersi o adonar prmi per
assalire. Tra gli oggetti rapiti
prìpieggiavano le donne
ragguardevoli per bellèzzà. I
cavalieri o sia
gli uomini a
cavallOy che più
de* fanti erano
anticamente pregiati alla
guèrra, spinti da
avidità e da
amore, da vanità
e da gloria»
^i assunsero il
carico di difendere il
bel sesso » come
vedremo nèlF articolo seguente.Quindi 8i uoiiODD in croecbi talora ne'
ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de' principi i cavalieri per
fare pompa delle
loro lAiprese, le doniM/ per
onorare i loro
difensori e trarne vanto,
i poeti pec
cantare il valore
degli uni e
la bellezza delle
altrer Le donne, i
cavalier, ràrme, gli
aniiori., Ile cortesie, le
audaci imprese io
canto. Siccome le dame
e le principesse
l'oggetto sono della poesia,
così ne furono le
sovrane in '
M giudizio e
prò tribunali. Imperocché
tenevano » nelle
lor Corti e
castella corte W
amore o par lamentoi
oyè trattai^nsi i
problemi^ le cause,
le » liti
amorose e cavalleresche; concorrendovi
gen- iiluomini e
dame dappresso e
da lungi, e
sopratutto poeti e cantori, quasi
avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che se
contenti non sono {
litiganti. (kyUa sentenza de'{>ai:lamenti allora
sorgevano le Tenzoni
o sfide poetiche,
eolle j> quali
r un contra
T altro scrivevano
i trobadori a
difesa dìJoi^ eauÉT'e
di lor belle»
onde sono sempre in
giro messagi e
proposte e risposte,
e lamenti e disQde
novelle d'^inore e
di poesia Cresciuti
in fom i Governi ne suasegnenti secoli, e
cessati i pericoli
delle belle, non
fu più necessario,,
per ere ammesso
in queste conversazioni, Taver rottopiù
lancia in onore
d-ona prin* eipessa
o d' una lama,
ma bastò Q^ie
vi scendesse 1) BeUifiellf.
j ^ oj by vmmztA:
sfigxale 30& Per
lungo )> pi magoanimi
lombi ordine il
sangue» Purissimo celeste»;
per appriezz^re meglio
i sentiBientì del
poeta e salire
air origine degli
usi, il lettore
può consultare la
nota. Xe ài
Londra del dicono:
Le péU^ni presentate alla carte
dei rUelami nella
circostanza
dell'incofonazione
delFattufide.re d* InghQterra),
cofi tengono pretensioni
singolarissime, e che
ricordano usi antlchissimi.
il conte d'Abergaf enny, come
signore della cascina di
Sculton, riclama l'uffizio
di capo deUe
dispense cl:àedetìàa di farne
il servizio sia
personalmente, sia .col
mezzo del sup
deputato, e riclama
per suo emolumento
tutti gli avanzi
deUe pietanze e
delle carni dt^o
il pranzo. Due
petizioni furono presentale
dal duca di
Norfolck. Colla prima,
nella sua qualità
di conte maresciallo
ereditario, egli chiede
di compiere personalmente
o col mezzo
d'un deputato gli
idficii di primo
boUiqUm'e d'Inghilterra, e
di ricevere perciò
la migitor coppa. d'oro
con «Q[M$relìio, tp
rimarranno sotto, il
inezzule, e tutti
gii orciuoll e
coppe, eccetto quelli d'oro
e d'argento che
resteranno nel celliere
dopo il pranzo.
Colla seconda petizione
li nobile duca
dimanda, come signore
della cascina di
Workoop, di presentare
al r^ un
guaoto di mano
destra, f»'di soistoiieife
il destro- liran^lo dei re nel
menti» ch'e tiene
lo scettro reale.
n duca di
Montrose, grande scui^ere;
dimanda di fare
il servizio di
sargente di lavatoio
dell'argenteria, e di
ricevere tutti i
piatti e tondi
d'argento serviti sulla
mensa del re il giorno
dell'incoronazione, e cogli
emolumenti che ne dipendono,
e di
portare eziandio gli
speroni del re
dinanzi S..M. n
8lg^ CampbeU, come
signore della cascina
fi Lyston, reclama
il diritto di
fiir de cialde
pel re, e d'
imbandirle jsulla mensa
reale al banchetto
dell'incoronazione. Rimasero
quindi a poco
a poco e
dovettero rimanere esclusi i
poeti; giacché, se
nello stato primitivo delle conversazioni, mentre
il poeta si
mostra ricco d'idee, vantavano
i cavalieri destrezza
e le donne
pericoli^ nel seguente
stato il poeta
solo sarebbe rimaso
oggetto degli astanti,
quindi ne avrebbe
sofferto la vanità
degli altri. Muniti
di privilegi reali
ed onoriQci che
dalle altre classi
li separavano, facendo,
principalmente in Francia,
professione d'ignoranza, i
nobili chiusero ad
esse la loro
conversazione, e avrebbero
creduto di degradarsi,
se alla loro
confidenza avessero ammesso chi
soltanto di talenti
o d'altre abilità
personali si fosse potuto dar
vanto. Appena comparvero leprime
scintille delle scienze,
i pochi spiriti
gentili che non
rimanevano impaniati nelle sensazioni
materiali del volgo,
provarono il bisogno
di unirsi, per
fare acquisto delle
altrui cognizioni e
dare in cambio
le proprie. Questo
bisogno era tanto
più forte, quanto
che prima della
stampa altissimo era
il prezzo de'
libri, come tutti
sanno; nacquero cosi
le conversazioni letterarie
od accademie, le
quali da principi
illustri vennero proli) Esistono scritture
del XVH secolo,
sulle quali persone
d’alto rango fecero
la croce perchè
non sapevano scrivere.
Nello stesso secolo
parecchi parenti del
celebre Cartesio si
sforzavano di cancellarlo
dalla loro memoria,
i)ersuasi che la
filosofia, di cui
egli è il corifeo, fosse
macchia alla loro
schiatta. V. Thomas, Eloge
de Décartes. PUL1tBZZ4
SPB€ULE tette, giacché
i principi illustri
non temono le
sciepze è sanno
che degli Stati
il principale pregio
son MSe e
lo splendore. Per
consimili motivi sors^
eonvecsi^ioni di pit»
tori, di musìei,
e con maggiore
coneorrenza, giae* €bè
la capacità d' apprezzare
le bellezze di
questo, «ti egregie
è men rara
di qa$Ua che
per appresare le
scienze richiedesi. Lo spirito
di commercio svegliatosi
dopo I." un
decimo secolo in
Itatta^ pisogfessivattiente 4)reseii|U> ne' susseguenti, fu
larga fonte di
ricchezze. Si vide
allora che si
poteva essere ricco
e considerato senza essere
nobile o possessore
di fondi. Il desiderio
di far pompa
di ricchezze, unito
al bisogno di
conoscersi peraccrescere le
relazioni commerciali, formò le
adunanze de' commercianti. La
ricchezza de' mercanti cozzò
colla ricchezza de possidenti, e
nette città libere
ottenne quegli o
maggi che altrove
si era riservati
la nobiltà. La classe
direttrice de' lavori nieccanlci
si diviso in
altrettante masse quante
sono le specie
di essi. L'analogia
de'lavorit il desiderio
d'imporre legge ai
lavoranti, la necessità
di conoscersi per
ripartire le imposte
che i principi
esigevano dall' industria, rkniirono i direttoli delle
varie arti, o sia i
fabbricatori, in altrettante
compagnie o cow/rafernite
che ebbero te
loro regole e
tennwo le loro
Mssioni in gicrni
determinati» Le'ricebezze perdute ddia
iiobiUàyer ie ragimif
ehe diremo, furono
raccolte da persone' intelligenti e
attive, che, senza
appartenere al ceto
de'commercianti o de'fabbrieatori, sepp
ero farle. vafere. I<on
contente delle nuòve
ricchezz e, aspimono
tfUa siderazione, e -giunsero
ad otxeaerla colf
affluenza de'commengali: si
fòrmaronò così de'nuovi
erocebi composti d'ogni
specie di per
wne; vi si
vide il fittaittolo
che viene sovente
alla città per
ta vendita de'
prodotti agrarii; il
sensale i ^he
propone de'oontratti prontamente
lucrosi; il basso
impiegato, il eol^
zelo è neoesBarìo
al itadronc )
nelle sue relazioni
col Governo; il
nobile decaduto cke
ha semjjre . prontf :
1^ E sali
e frizzi e
lepijdi racconti il
militare che più d'
ogni altro, abbisogna,
di piaceri rumorosi; il
parassito che il
naso Air odor
dell'arrosto arri ccia
in alto e
ia cambio, dell'
arrosto vende le novelle
della ^ittà ai
commensali, e del
padre ne Le signorili stupidezze
in dora ». La plebe
che eseguisce i
lavori materiali, non
rsi cedeva per
r addietro fuorché
pubblici spettacoli sulle piazze,
o per bisogni
momentanei alle «osterie,
o per pratiche religiose nt.
Ue chiese.^ Occupata
più a gozzovigliare
che a di.
«correre, si troìsava
inoltre separata dalle
altre clas: li
pel sucidume uii<cui
era involta.. I P
VI. cause per
cui aprjiréao eotmiaicaìiioDi tra
. le varie
adunanize sociali, e
dalPana aU^altta Horo- membri
trasaugrai'ono, sono le
segueati: li La
passione del gioooa,
Jartìssima io tutti i tempi e per faddietro
di più, come
vedremo nel. r
articolo aegueote, rappe
la barriera ciie
separava la nobiltà
dal eomtnereio: alenai
n(*ili noli' ere.
d^ero ài avvitire
i loro stemmi
awicinandosi ai commercianti
col non troppo
nobile desiderio d'ottener parte del
loro denaro giuncando. Molte famiglie
nobili rimaste rovinate dalle carte
dai, dadiy sen
tirono pèr csperieuza
ebe tati i di
filomi gentilizi non
bastavano per comprare
un . "Jbraceio di
panno o una
libbra di caroe^
La plebe :Che
ne era stata
insultata, cessò dì
rispellartedacehè^ •'BOQ le
vide più in
carrozza; quindi divenne
popolare proverbio i^e nobiità
sema ricf^M&ia è
fimo s^enza arrosto,
Il celiiba'oo cui
erano condannati per l'
addic: tro i
AobiH cadetti, mentre
le nobili, fanciiille
sì•senti .vano tutte
chiamate al chiostro^
gli spinse non
-di r jado ìft
traccia di beUezse
plebee. Usciti dal
• p»'iazzo pàtrizio,
non isdegnarona d* ei^ar
nella» 1? asaccia
del calzolaio, del
falegname, del parrucchiare,
ecc., e talora
. airaer bruno,
Seguir fanciulle che
espugnò U digiuno
fn questa caccia
la nobiltà contrasse
un poMi fango,
e, quel che
è peggio, si
lasciò rapire molto
sostanze; quindi per
doppia ragione scemò
di credilo. u.1^ -o c
UBaO TEMO I
principU a eui
Jiegli scorsi seeoli
a?éa fatta paura
la nobiltà potente,
colsero tutte le
occasioui di dìmìnùinie
i privilegi^ fonte
di copiose riccbezze
e maggtadri angherìe;
qtuiidì il coectiio
chiB«ra tirato da otto
cavalli, non ne
ebbe che quattro,
poi due, e
talvolta rimase polveroso
nella rimessa; audà
per óonseguensa diradandosi
la nebbia ehe
eòprìva gli alberi
genealogi e li
rendeva, grandi agii
occhi del volgo. « I^a
filosofia, i cui
delitti som precisamente
misurati dalle perdite
subite dal feudalismo
e dalla superstbUone,
vantando i diritti
dei meiito» personale,
non volle riconoscere
alcun valore nelle
vecchie pergameqe, e
disse ehe nao
zoppo «ansava 4'
essere eoppo perohe
sao nóniio aveva
avuto le gambe
diritte, e che
quiodi doveva essere
|RÙ Stimato -m
artista che con
indmtria mmhit» accresceva il suo peculio, di
quello che uni nobile
.che co^suoi vizi
daya fondo al suo patrimonio. La poesia,
più coraggiosa della
fttosefia « arA
supporre, ridendo, che le nobili
matrone non erano
siale tutte Luccesie,
e che talvolta
la moglie £^
eompaefréde'figli men patriasii
M attrito; iati soumi» la purità
del sangue soggiacque a
molti dubbi anche neU'opteione dei
volgo il quale dà
sempre ragione a
chi riesce e
farlo ridere fP^.
l pometti dell'
inimitabile Parini) la onta
di tutto ciò
vi sono tuttora
pAreeehie petsone ebe
appresEiaiD gli stemmi
geiitittzii ed «scludono
dalla lem CONVERSAZIONE clii non
n' è fornito,
per la stessa
ideutica ragione per
cui i pacftUtici
apprezzano le stampelle. L'aumento de'teatrì
dimiouì il concorso
alle eonversaziODi particolari;
quindi restando istesso
il bisogno di
conversare, fu forza
essere meno ritrosi
fieir ammettere nuovi
membri: dapprima Tetichetta
voleva un diploma,
posdà sì eratenlò
un abito di
seta. VL Le
invenzioni teoriche e
pratiche mis^D in
contatto f dotti
« gii artisti;
«iaseanaf di queste
elassi seuA il
bisogno di consultare
Faltra; la prima
per conoscere de'£atti, la
seconda per averne la
spiegazione: il dotto imparò
a rispettar Tartista;
Tartista s' accorse che
i consigli del
dQtto gli potevano
essere utili. Crescendo i
punti di comunicazione
ed i contatti
sociali, crebbero i
bisogni del lusso
e si estesero;
quindi ì lavoranti
ottennero meqo scarsa
mercede che negli
scorsi secoli; disparve
così a poco
a poco «
almeno in parte
«il sucidume dalla
plebe, ed ella
potè conseguire un
abitof ebe sebbene
inferiore nella ùiìQZZà
a quello del
ricco, ne imitò
l'apparenza. Vili. In questo stalo
di cose, dissipato
il fumo géntìlizio,
si vide qtioli
persane concorrevano al^
fMienda sociale^ e
quaU na; ciascuno
ottenne un valor
d'opinione corrispondente alla
ricchezza (caraitto reale),
o air abilità
(caratto pemnale) di cui era
fornitQuindi fu concesso
un grado di
stima alla bassa
plebe, fu tolto
un grado .di
stinia alla nobiltà^
fu diviso il
restante con proporzione
graduale. Lo aprezzo rimase
a quelli che
volevano vivere a
apese aitnri, questumuUh i;
^J9ibami^ a quatti
dtie, volevo vivere
a spese altra«
TiAa^do ' "tkmf^^
lAi pubblica beneficenza
s'interessò per quelli
€he erano impotenti
al lavoro 9
cioè noa eiano
caratìtisti per 'maacanga
di volontà» ma
(fi potere. L'idea
che tutti i
carattisti coDCorrevano all'amada
iMeiale^ e ohe
ciaseuso a?^ bisogno
degli altri, fece
allargare le porte
delle conversazioiii con
miituO' vantaggio de'
concorreati, come, v^^mo
i|iel seguente gitolo. Utilità e
nemtìtài delle conversazioni. LE CONVERSAZIONE, questo mezzo
di felicità sociale,
sì pronto, sì
innocente, sì facile
a tatti gl’uomini,
sì convenevole a
tutte le condizioni,
sì necessario a
ttttte le etsu LA
CONVERSAZIONE non potevano sfuggire al
morso della censura. Giacché, essendo
«wscettive di varii aspetti offeivano
campo ai poeti
di farne delle
caricatore; esseialo /cm^i di
piaceri dovevano essere
scopo alle declamazioni
de' moralisti pedanti. Gli
uni e gl’altri imitarono le
due donne ddia
favola, Tuna delle
quali, un pp^
vecchia, strappa al marito
i capelli neri,
V altra, un
po'^ome^ gli strappa
i bianchi, tantoché
il pover'uomo finisce
per restar calvo.
Infatti^ siccome chi
non esagera, non
djesta che lie^e
impressione, perciò ai
difettnedi reali, ddla CONVERSAZIONE
sono aggiunti de' fittizi!, e,
secondo il solito,
si bearono degli
spetri a spavento
de’ fanciulli e PULITEZZA speciale-
< delle irnmaginazioni deboli:
con eguale LOGICA
si 'screditerebbe il
sonuo, perchè talvolta
i sogni ci
conturbano. PARLO DELL’INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI SULLA FELICITA
SOCIALE. ^l,-V.^J^ ?o^l miseri
mortali a cui
sì spesso Il
tesoro del tempo
è incarco e
noia, TROVANO NELLE CONVERSAZIONI
UN MEZZO D’INNOCUO E PIACEVOLE TRATTENIMENTO. Qualunque in
fatti sia l'origine
del bisogno di
sentire, egli esiste.
Questo bisogno e forte in
tutti gl’uomini dopo
il lavoro, lO;
studio, gli affari;
yi. È più forte
ne ricchi sciolti dall' obbligo
del lavoro, dello studio,
degli affari. È fortissimo
nelle donne, sì
perchè dotate di
maggiore sensibilità, sì
perchè a maggiore
monotonìa di vita condannate. Questo bisognò
viene alimentato dall'ISTINTO DELLA SOCIABILITA CHE INDUCE
GL’UOMINI A RACCOGLIERSI INSIEME PER COMMUNICARSI a vicenda
le loro speranze
o i loro
timori, le loro
pene o i
loro piaceri. Quindi vediamo formarsi unioni
sociali sì tra
le orde selvaggie de’ deserti come tra le persone più
urbane delle nostre città. Questo BISOGNO, a
guisa di calamita, attrae spesso
e lega insieme
anche le persone più
indifferenti, e perfino
»I v VI 'i.'.-Che
amabile città si
è mai Venezia,
mi dicòva una
signora! E che
cosa vi avete
voi trovato di
sì seducente? Vi
parlavo lutto il
giorno. Siiiipatizzaat|r,c|oaìe g&u^
cani. LE CONVERSAZIONI
CONSIDERATE COME MEZZO diaria*
nimsffe'lefoi^jHanguidife,
od^né sensasibbi plccaoti
sull’intervallo che ì bisogni
BOddisfatti disgiiioée/'da! bisogni
da soddi^fàrsi^ fiume
parte degfi altri
trastulli, e sì
liiaocenti sono in
sé stesse come
un passeggio in
aoieap giardino. jL
1 piisicerf die
gustiàoio mila «oUtodine^
eccettuato il caso di
speciale affezione, illar^uidiscooo pcesto
e perdono -parte
delle lóro attrattale.
AU'op*^ postò "Àé^ii
GonAunicbiamo agl’altri, sembra
ebò si riofolrzjao
e si estendano;
s^ polli gustiaipo
in loi oòqspàgnia,
dnréno di più .
ci; «ièà^M frià
cari /e per tutto
T animo si
diffondono, Ctf ombra
è piacerj^se noi
condisce affetto. In un
crocichio di persone che
si stimano e
si amano, cresce
il sentimento delia
fór;ca phe^inijoezaa Bile
vicende' sociali ci
abbisogna. Ciascuno, oà^ noscendo
le disposizioni coniuaì,
appliea; nella sua jAiente
le foi^e altrui
ai b^ogni [tfopri. LA CONVERSAZIONE io accerta
che in caso
di calunnia tror
.'.Vei^U apologisti; di
rovescio, de' protettori } -iil^^Qì^v
die^oonsigUen; dWaoQK^t delle,
perr Possiamo dunque
t^ccUre^ di mansogna, !!
nolissinHi^ misaritropo Timone:
pcanzàva costui lin
giorno con Apenuuito,
«Itr^ ihisaotrapo, eelébnttido
ii»ienie la festa
delle libazioni fttfiebri.
Dopo lungo silenzio
Apemarilo disce: Fa
d' uopo convenire,
o Timone, che
il nostro pramo
è molto allegro:
e questi rispose. Lo
sarebbe di più
senza la tua
presenza. sone pronte
a scemarlo partecipandovi. Questa
PERSUASIONE abituale reagisce contro i vaghi timori che o nascono neir immaginazione naturahnente, 6
dalle mosse de'nemici vengònb
prodotti;.Brorbabilmente egli è
questo il motivo per cui, he^popoli che concedorto n^iplto
tempo alla CONVERSAZIONE, non
suole essere-"^
sovèrchia T inquietudine
sul futuro j se
ne potrebbero trovare
esempi a Venezia
ed a' Parigi,
^i't' S if J'W FLUENZA DELLE CONVERSAZIONI u ii.
V,., \^ sull'istruzione. v;
ì. Alcuor !eggoB(>
(>er spacciare le
loro idee nelle CONVERSAZIONI i^altri per
non mostrarsi digiuni
delle notizia più
triviali. La lettura cominciata
per vànìtà, continuata
per abitudirte, talvòlta
in passione si
cambia, e i
frivoli gusti tìghoreggia o
discaccia. Chi léggCi o
per istruirsi o
innocentemente intrattenersi,
toglie sempre degli
istanti alla covi^
ruzione, e talvolta
le toglie de'
capitali per la compra
de’libri di cui abbisogna. I gabinetti
di lettura sono
una conseguenza dello
spirito socievole dello
scorso secolo; si
procura a tutti
un mezzo d’istruzione
con pochi soldi. Non
tutti possono leggere
tutti i libri;
ciascuno è costretto
a ristringersi nella
sua sfera; ma NELLA
CONVERSAZIONE i libri letti
da uno, divengono
mezzi d'istruzione per gli
altri. In caso di
bisogno egli vi
dà in UQ
quarto d'ora il
frutto di dieci
ore di' lettura. Se
nelle dispute che
sogliona nascere NELLE CONVERSAZIONI, i due contendenti restano per la più dèi loro parere, l'influenza delle
dispute sulle opinioni non lascia d'essere reale, giacché. Gli spettatori disinteressati formano il loro giudizio sulle
ragioni allegate prò e contra dai disputanti. La voce, il gesto,
il tuono di essi rendono, per così dire, più acuti i
tratti del loro spirito e più profondamente neir altrui memoria gli
imprimono. Quegli tra i contendenti che ha torto, e che nella disputa
chiuse gl’occhi alla verità, non conserva questa ostinazione, allorché
riflette poscia di
sangue fredddo, e sovente
s'accosta al sentimento,
che aveva combattuto. In una CONVERSAZIONE
GENERALE, quegli che
parla, si vede
cinto d'una specie
d'uditorio che lo nima
e lo sostiene. Questa circostanza
da allo spirito
maggiore attività, alla
memoria maggior fermezza, al
giudizio maggior penetrazione,
alla fantasia de’ LIMITI CHE NON GLI PERMETTONO DI
DIVAGARE. IL BISSOGNO DI PARLAR CON
CHIAREZZA lo sforza a
dar qualche attenzione
allo stile e
ad ESPORRE CON QUALCHE ORDINE le sue
idee. Il desiderio d'essere
ascoltato favorevolmente gli suggerisce tutti I MEZZI D’ELOQUENZA DI CUI LA
CONVERSAZIONE famigliare é capace.Quindi LA CONVERSAZIONE è la
prima. Intendo qui di
parlare delle persone
di spirito e
di buonafede; giacché
gli spiriti falsi
e vani, o
gli uomini di
parUto, pe’ quali LA CONVERSAZIONE E UN’ARENA OVE COMBATTANO DA
GLADIADORI, non aspirando di
giungere alla verità,
ma di conseguire
un' apparente VITTORIA,
quesU non riescono
nelle loro dispute
che a raddoppiare
il velo che
ingombra il loro
intelletto, e a
vie più nelle
loro opinioni smarrirsi. e
la migliore scuola
per gli uomini
che {tarlar ia
pubblico si dispongono. Sj: f
Air opposto un
uomo che vìve
solitario nel suo
gabjìiettOr noD stimolato
a farpas^re.le sue
idee tìjrii'Mtrui'anittio, noin^eriteiidosr'itvymffiairii a fronte non
avendo obbie;{.ioni da
combattere, non impàérà.
fót^ gìàmàm qiiest'acle
delicata ebe convincere
gli spiriti senza
offender l’amor proprio. •€0Dà bel
garbo costringe l'altrui
inerzia airesame «j^ttì
prègiuritzie^ pungèndota con
x^iche tmjU* piccante Altronde sempre
solo con sè
stesso, e ^imsM
aggeUi^^L^4xm/twitoi
disposto a niguardmi
x^iascuna 4rfeache gli si pcesèdtay.came^una scoperta. Non
mai esposto a
queste piccole lotte
di società che
danno si prontamente
a tiascufiei. la misura
delle sue forze,
egli inclinerà a
formarsi mt ppinione
esagerata de' supL
talenti e ad
eBpone le ^nierìdee
con atìsi fmpfariosa
edoffenshra. Si può
dire delle CONVERSAZIONI ciò che ALFIERI
dice
dei. vhiggi;.vY| sì
impara^ più assai
che in su
le cartCi tH\
stimare o spregiar
l'uomo^ ^^^j »;Ma
a.cònoscer sè stesso
e gli altri
jn parte v. ^i^ìLo
studio ia£atti de'libri
rie^oe ua mol
languido é. ddN)le^
che esercitai non
agita!^ non riseaMa
la mente come LA
CONVERSAZIONE. S'io discorpo
con CdbustO/ ragionatore,
dicis Montaigne^, egli
mi ein|[e e iB.Incalza
da tulteie parti;
lé^sa$ fdee ri^egllaiio
le umi la^^osàia,
la gloria, .la
QQnte^ziQpe mi spingena,
mi riali^aho sopra
di me, e
non diradortni presentano
nuove combinazioni ideali. INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI. sfil
costume U de6Àderio 4i
piacere a^i atoi
vaddoldsee ia pale
mseefen dèir mm^i
ìnra questo Aderto
si svolge, ci
aDiina NELLE CONVERSAZIONI e l' abitudiM
d!eq^ijmerl€t forma J'abìMdiBe
di aeotirlo. DACCHE LE
CONVERSAZIONI DIVENNERO COMUNI, nacq[iie fiorì
«/quell'eleganza di tratto. e
quella non 9
80 quale gra^ìa^-d* urbanità^ quel
Aresentorsi plà 9.
disinvolto, quel più
leggiadro atteggiarsi, e quei n
versatili modi e
politi cbe. imlla
sentano V ioatr
titudiiie 6 TimbaMaso;
quindi quel wiàsm
wtm u più
dilicato, e que'
mutui riguardi e
qua' molti* pliei
uffieii di olviltàt
johe quaai ad
egiH .ubante »Ja
vanità e L’AMOR PROPRIO dona
e riceve. Le passioni
.medesinia c)ie erano
prima iutratta* ».iMtt'.,
Mnreggendo in pfttte
la toc nafitf
wtm^ i> biaoza,
sonosi anch' esse,
dirò così, incivilite.
L'oigo^iosa superbia si è maaobei^ata
sotto la spoglia
d' doa finta
modestia; T invìdia
siesta sa pronunciar
delle lodi, e IL
PUNTIGLIOSO E CALDO RISENTIMENTO V obe
quasi ad ogni
parola aveva li
fuoco negl’occhi e
la mano sull'elsa,
ha ».tesBiperato. queir
indole sua ferqee
»; si è
im« parato a
dissimulare un'offesa, a
Dasedndelw tipatìa, a
rispondere pacatamente; e
benché questa re
P if M
lusinghiera, gradita e
di realissimi vantaggi
sociali /ecandq, ^jper-^^la.^[y&lio ostacolo
a mali gravU-. Finalmente sogliono
non pochi giudicare
del mento 4' uoa
pecfiona dalla sua
maniera di caavMr*
sare^' nè, si
eiitano di porre
al vaglio sue
buone 0 cattive
qualità^, ma ue^
formailo giudizio dalle
idfie cb'ella .presenta:
Bé^ordeobi sociali; qoiadi
£0^ forza entrare
nelle società, giacché
le abitudini del
^eatil couversare aoit
possooo in soUngo
gabinetto aljgnistarsi. INFLUENZA
DELLE CONVERSAZIONI SULLA MORALE. h AUotcfaè
gli uomini s'uniscono
in CONVERSEVOLE ecMohior^
49orge tea di' essi
un' opinione la
quale condanna gl’atti
che riescono nocivi
a tutti od
a qualcuno deglj
uniti: ciascuno ò
costretto a nascosi dere
1 eentiméQti criminosi
che per avventura
cova neiranimp. £
aiccMie. anche ci»
maàqa éi virtù,
vuole mostrarne almeno l'apparenza,
quindi, se qualcuno
d^li uniU dà mentore di
vì^i, la van^à degli altri .
si uniseè to6t»
pericaeeierlo dal loro
imo, ae^ non
corra voce «che
lo tollerano o
f approvano. Dnn^e quanto
{mù. erescé lar
bc^ma di PARTECIPARE AI PIACERI DELLE CONVERSAZIONI, tanto più
cresQono i. motivi
per isciogli^sii dai
vizii che esse
ooodamiaiiD. 1
ref mordendo a
lungo GIOCO, è
d'uopo » Che
r oprare al
gridar conforme eqch^ggi
)\ II; Screditando
gli altrui vizii
ciascuno si lusinga
^ iter provn
di .contiaria virtù;
quindi NELLE CONVERSAZIONI cìascuoo cbiSuna
a indicato la
riprover vole condotta
degli estranei od
assenti: ciascuno ride
delle umiliazioni cui
è condannato un
leccazampe; ciascun parla con
orrore d'un tradimento;
ciascuno sviluppa le
circostanze che aggravano
un delitto ecc.
Escono DALLE CONVERSAZIONI dalle de'
gridi che chiamano
gli sguardi del
pubbblico sul magistrato corrotto, sul
giudice venale, sull' amministratore infedele ecc. Allorché
la condotta di
qualche persona potente
non è ben
nota, ciascuno degl’astanti
comunica agli altri
le sue viste;
si mettono al
vaglio i fatti
e le congetture,
si confrontano le
realtà e le
apparenze; si richiamano le
notizie anteriori e
concomitanti, e dualmente
si giunge a smascherar
l'impostura. L'opinione pubblica
va ad attingere
ALLE CONVERSAZINI i documénti
che giustificano i
suoi decreti d’onore
o d'infamia. LE CONVERSAZIONI sono come
le sentinelle notturne che
ad ogni ora
si comunicano il
grido di sorveglianza,
onde reprimere ne' pubblici
perturbatori il desiderio di
far del male. LE
CONVERSAZIONI offrono il destro
di pronte benefiche soscrizioni a
vantaggio dei poveri.
L'interesse che la padrona
di casa sa
destare nell’animo de'suoi
amici a favore
d'una famiglia o
d'una classe sventurata,
il desiderio comune
di dare prova
di generosità, l'altrui
esempio che fa
forza anche ai
più renitenti, tutto
concórre a far
riuscire immediatamente un progetto
generoso, che senza LE
CONVERSAZIONI le resterebbe sventato
o verrebbe troppo
t^rdi. Quindi con piccolo
incomodo degl’astanti si raccoglie
ia più orocebi
una-samiQil ragguai:de* voìfi
e safficieate ^1
Jbisoguo, INFLUENZI DELLE CONVERSAZIONI sulte
càrtL Le conversioni avviemando giornalmente uomini, e
ciascuno bramando di
comparire ricco e4
legaste, €i:e5C0ifo i
compratori dette merci
4^.e adornaao le
persone e le
case. Quindi si eslesero
toi^amei^te l^.arti così
dette, di lusso.
Il popolo firàneese,
"^tmiò H quale,
E MASSIMO IL BISOGNO DI CONVERSA
è divenuto IL DOMINATORE DELLA
MODA. JBari'addietrqi etmano scarsissime
LE CONVERSAZIONI, e moltissimi
gl’obbriachi; ti capitale
che ora si
spende in abiti,. allora sj
spendeva in bagordi.
Quelii cbe ftnaot rimprovero ALLA FILOSOFIA d'avere
esteso lo spirito
di socievolezza, son
costretti a dire
cAteun uomo ubbriaco
jè preferibile ad,un
nomo legante. Per disgrazia
dell' umanità questi
Ostrogoti sitrovano talvolta
alla testa degli
St^i, e con
ottime A Verona,
trovandomi unà sétat
alla convetsadon'e •
d^iHia signora che
non soleva andare
al teatro, ma
univa nella sua^eas£i
vaeii amici, ella
ci dice: Signori
: dimani a
sera no^ qi
vedremo, perchè uadcò
A teatro, t
t:ome al teatro
t ^ Si,
gbusehè la serata
va avaatagato ^ povecL^Dunque ci
vedremo, risposero tulli..
fiaÉattì' la ««ra.
susseguente non solo ciascuno
degl’astanjti andò' ài -tealro, ma,
conduce seco quattro
o cinque amici cosicché il
palco déUa signora
fu un andirivieni
continuo, ed una
specie di goecrà
a ÌMdamà V
ini4$mt0 > la
^àte si fonava
neUa sua sconfitta.
Beco la ^àvOlz^adone
: beaefioenònt ìuoit^
alpia^. cerei onore
al bel sesso
cbe la proinoveiL
intenzioni li rovinano.
Pio IV, declamando
contro l'uso delle
carrozze, indusse i
cardinali a cavalcare le
mule; si moltiplicarono le
mule in ragione
de'capitali che non
erano più impiegati
nelle carrozze cioè
le ìnule presero
il posto degl’artisti.
Non vi par
bella e sensata
questa trasformazione? Andate
avanti, beatissimo Padre,
e, giusta le
massime predicate da altri
moralisti, induceteci a privarci del
cappello, della giubba,
delle calze, delle
scarpe; e così
dopo d' aver
fatto sparire gli
artisti, se pur
questi vorranno sparire
senza cagionarvi qualche timore,
venderete le vostre
derrate agl’uccelli.
Torniamo al fatto:
IN FORZA DELLE CONVERSAZIONI si
sono cambiate le
abitudini economiche, e l’eleganza è
sottentrata all'ubbriachezza. Quella massa
di liquori che
per Taddietro consumavasi
da un solo
con danno della
salute e della
ragione, ora sopra
dieci innocuamente si
distribuisce, cioè sopra
gli artisti che
fabbricano cose comode
ed eleganti. Dunque nell'aumento DELLE CONVERSAZIONI hanno
guadagnato l’arti e
la morale. II lettore
che non fosse
abbastanza persuaso de'
vantaggi che ho
attribuito ALLE CONVERSAZIONI ed
in generale allo
spirito di socievolezza,
è pregato a sospendere il suo giudizio sino
all'articolo secondo, ove esaminerò
gli usi e
i costumi de'tempi
barbari e semi-barbari,
ne'quali di, socievolezza non
v' era quasi
traccia., Accennate nel Tranató
del Inerito e
^elìt KieomfitnUe. « Gli
oMPOstt Oggetti V
Rende più chiaro
il paragoo. Distìngua,
» Meglio ciascun
di noi; »
ic.i».n
NeimalehegIiattnopprm««4lb9A€. Scelta
deHe tantféfsaatcni: r
.f'/.v;r li Cki
.vcdesgft sfogare il
coosoitia di tutti
f reprobi, correrebbe
pericolo di viver
solo. Pupi restare
ia casa nfm
ioKdarti kfijoarp^t ma
restando in casa
ti privi d'una
passeggiata utile e
4^Uzio9a« Dpnque non
potendosi p^r noi
crear uoniiiil perfetti,
sarà sempre miglior
consiglio accrescere la
forza della j[M*opria
virtìi5 di quello
che i'irrita^ biKtà
agli altrui vizi. Dire
che aoa dobbiamo
essere cestii a
lordarci ^ le
weqMi pi^ jurooucarci
una buona passeggiiitaii nm
è dire che
dobbiamo innoitrarci nel
fango sìao agli
occhi e con
pericolo di spezzarci
una gamba :
per anpdogìa dite
lo stesso delle
conversazioni. Adombrati gh'
estremi, dirò al
giovine che nella
soelta delle conversazioni, più
ctie gli adulti
ed^ i veoohi
egli debb' essere riservato;
giacché, mancandogli la loro
esperienza» può facilmente
.restare tra queMaeei
che essi spezzerebb^o.. Inoltre
il credito degli
adulti e de'
vecchi è giàformato;
le loro buone
qualità, sona note,
un'abì. tudine provaUi
da più risponde
ad ogni dub*
bia apparenza. All'opposto
il giovine dee
tuttora £ar nascere
questa b|io)ML, opinione neir^ltrui
animo "^à4 è
di hidd^oi^eail giadhao
ebe gU/a^ dì
noi, quando dalie
persone che fréquentiamo
ci giudicano; e
fa d' uopo osservare
che la yafiitÀ
vieta lo«o di
cambiare j&KitiAièDte h
ptàtàà opinione che di
noi concepirono, vera
o falsa che
ella sia, Dun(]ue,
beii|^è ^^iva Aacora
molto istrutto, otterrà
il giovine più
gradi di stima
se correrà voce
eh' egli conversa
. spes$p.^^£on parsone di
merito e gode fa
loro confidenza. LA CONVERSAZIONE colle ballerine,
colle persóne di
dubbia fede, o
p^leseqiente scelleraté, macchia
la riputazione di
clrinncpie: i càm
'lodtì insudiciano queUi
tui ft^no maggiori
carezze. Tutti consigliano ai
giovani di non
trovarsi NELLE CONVERSAZIONI bve s!
tengono giuócW d'at^
zardo; giacdiè, quaiunqué:
sia la lóro
risoluzione, ossi finiscokio
peir teàdere e
rovinarsi; Essi cedono,
alte suggestioni ed
all' esempio altrui, al
timore d'essere dichiarati'
spilorci, paurosi, vili
o schiavi d^e^voiéiri
patemi; essi cedono
«1 defsiderlo di
ìdlve* . nire
prontamente ricchi, desiderio
che prontaménte SI
a<^de e divamìm.
aUa Tista deU'oro.^ T
' tia passione
del giuoco, principalmente sé
è {giuoco d^azzardo,
produce i seguenti
danni. Perdita deità feliùità
ifolividuale. Le^^- òende del
giuoco quand' anche siano
favorevoli, CHceitano scosse
si rapide e
sì gagliarde che
confiììano ^co) dolore;
Ora queste scossè
^gliono por :
"lo più essere
sinistre, giacché la
massima parte D'altra
parte la brama
dell'oro che, in
vece di restare
sazia, cresce colie
vincite, ed è- tormentata
dalie >peràite, 'la
brama aìzsata'dell'oro è
i|tra caiH crena
ciie rode l'animo
del giuoeatore, è
una sottile fiamma che lo consuma.
Ommetto di parlare
de' suicidi prodotti dalle
perdite nel giuoco.
Perdita della salute.
È questa una
conseguenza dell'accennato stato
dell'animo. Infatti sotto
razione ripetuta del
giuoco si sviluppa
un carattere irascibile
ed una viziosa
energìa di sensibilità
che alla macchina
corporea riesce sommamente
nociva; perciò la
massima parte de'giuocatori
sono decrepiti a 40
anni. Perdita delle
sostanze. Per un
giuoeatore arricchito dal
giuoco ne conterete
cento rovinati. 4.
Perdila delta fama.
Cicerone, per iscreditare
i giudici di
Clodio, li paragona
a quelli che
frequentano le case di
giuoco. Benché tutti
i giocatori non siano
persone infami, ciò
non ostante la
massima parte non
lasciano d'essere riprensibili
perchè si espongono
al pericolo di
divenir tali. Nissuno dà
la sua figlia
per isposa ad
un gioca^ tore;
nissuno lo accetta
per compagno in
uh' intrapresa; nissuno lo
vanta per amico;
nissuno lo vorrebbe
per padrone; ogni
padre vieta a'suoi
figli la di
lui compagnia come
la peste. Perdita
della sensibilità ai
piaceri intellettuali e morali.
Siccome le persone
abituate all'uso del
più acuto rapè
divengono insensibili ai
soavi effluvii del
garofano e della
rosa, così le
persone abituate alle
scosse gagliarde del
giuoco rimangono insensibili
ai piaceri della
commedia, della trage-;
dia, della pittura
e delle altre
arti belle; quindi
1* momenti che
i giocatori non
impiegano nel giuoco,
sono occupati dalla
noia. Il giuoco
accresce il bisogno
di sentire, e
diminuisce il potere
di soddisfarlo. Il giuocatore
s'espone al pericolo
di perdere, e
perde talvolta quell'unico
denaro che è
necessario alla sussistenza
de' figli e
della moglie; la
sorte infelice di
questi fa dunque
minor impressione sopra di
lui che il
bisogno di giuocare:
in quale punto
sarà sensibile il
di lui animo
alle loro carezze
? Un giovine
dedito al giuoco
sfugge la compagnia
de' suoi genitori,
sdegna i loro
innocenti piaceri, sprezza
i loro consigli,
amareggia i pochi
istanti della loro
vita, diviene ladro
domestico, e talora
i disonora con
azioni che gli
fruttano la prigionia
0 il capestro.
6. Perdita del
senso comune. Ogni
giocatore sragiona cosi
come sragiona il
volgo, allorché dai
sogni deduce ì
futuri numeri del
lotto. L' abitudine di
prendere per norma
a' suoi giudizi i
rapporti fantastici delle
cose distrugge l'abitudine di consultarne
i rapporti reali,
costanti e ragionevoli.
Un giocatore non
avrà vergogna d'attribuire la sua
perdita alla sua
scatola; un altro
alla presenza d'un
nemico ecc.; alcuni
non giocano che denaro
tolto a prestito,
quasi preservativo contro la
sorte; altri destinano
parte delle yincite
ad opere pie,
quasi pegno di
vincita, ecc. L' idea del
guadagno allorché soggiorna
lungo tempo in
una testa debole,
ardente, soggiogata da;
vane, combinazioni, converte
il dubbio in
certezza, e fa
riguardare come infallibile
ciò che fervidamente desidera. L'illusione
è sì forte,
che non è
distrutta dall'esperienza delle
perdite, e in
onta di esse
rinasce e si
rinforza. Gli animi fórtenfienté
agitati, dice Tacito,
inclinano alla
superstizione, cioè la
causa delle loro
sventure riconoscono in
cose o parole
incapaci di produrle;
quindi le invocano
o le maledicono,
ne sperano o
ne temono. La
fortuna^ nome vuoto
di senso, agisce
sull'animo de'giocatori cóme
se fosse un
ente reale :
a lei attribuiscono
le vincite e
le perdite. La
fortuna è un
concorso di cause
ignote ove la
temerità fa tutto
y e la
prudenza nulla. I selvaggi
dell'America, dice il
padre Lafiteau, si
preparano al giuoco
con austeri digiuni,
quasi volendo interessare
la Divinità al
successo de'loro stolti
e ingiusti desideri. Dopò ^li
antecedenti riflessi è
quasi inutile l'osservare che nel
giuoco ogni sentimento
di decenza si
perde e di
gentil costume; si
diviene rozzo, villano,
grossiere, caustico, mordace:
non si ha
riguardo nè alle
qualità altrui nè
ai diritti; si
offende l'altrui amor proprio,
si tradiscono ì
sentì-' menti del
proprio animo, ecc.
Dopo la fama
di decenti ed
oneste il giovine
' preferirà quelle
conversazioni ove è
maggiore la libertà.
Siccome il piacere
è d'indole sì
schizzinosa che non
sempre apparisce ai
cenni del desiderio';
e fugge rapidamente
allorché vede un
laccio, fosse anche
tessuto di rose,
riè di tempo
serba regola nè
di luogo, riè
a tutti i
discorsi sorride; quindi
dirò al giovine:
allontanati da que'crocchi
ove devi rendere
ragione perchè non
venisti a tal
ora, perchè ti parti
pria del consueto,
e t'è forza
al posto assiderti
che non t'aggrada,
e con tale
foggia d'abito comparire che
non ti conviene,
e sulle altrui
maniere irremissibilmente atteggiarti
e deporre sulla soglia
il tuo carattere
originale per rivestirtene
allorché n'esci. Fuggi pure,
perchè il rituale
esat-" tissimo delle
cerimonie, i complimenti,
gli inchini, i
baciamani si .frappongono
ai cuori che
corrono a contatto,
e i sentimenti
ora rispinti dall'
altrui • orgoglio,
qui umiliati dai
titoli, là repressi
dall'aria di comando, e
tra imperiosi e
inetti doveri allacciati,
non possono scorrere
rapidamente qual elettrica
scintilla e propagarsi
per tutta 1'
assemblea; quindi
l'allegrezza sfuma ed
ilpiacere, e al
loro posto va
assidersi mortai tiranna
la noia. Taccio
il civile barbaro-bugiardo V
Frasario urbano d'inurbani
petti,^ t w
Figlio di ratte
labbra e sentir
tardo. » iVs.
k IV. Il
giovine non fuggirà
la conversazione delle
donne oneste, giacché
solamente in loro
compagnia imparerà a
rattemprare l'effervescenza dell'età,
a ingentilire colla
grazia le maniere,
a piegare i
movimenti a leggiadria, la placidezza
del discorso senza
viltà, la modestia
senza timidezza, il
coraggio senza impeto, il
brio che sa
rispettar la de,
cénza, l'allegrezza che
non diviene smodata,
quelle fine attenzioni
che prevengono i
desiderii senza mostrar
d'occuparsene, e quel
conversare libero e
cordiale che non
degenera in confidenza
temeraria e plebea.
v Swift attribuisce LA DEDADENZA DELLA CONVERSAZIONE
in Inghilterra all'esclusione delle donne;
da ciò nacque
una famigliarità grossolana
che porta il
titolo d'allegrezza e libertà
innocente, abitudine
dannosa, egli dice,
ne' nostri climi
del Nord^ i)
ove la poca
pulitezza e decenza
che abbiamo sì
r DM.è introdotta,
per così dire,
dì contrabbando e
^ contro la
naturale inclinazione che
ci spinge »
continuamente verso la
barbarie, ^e non
si manfi-T tiene
che per artifizio. SOGGETTO DELLE CONVERSAZIONI.
Qualunque argomento frivolo
o grave basso
o sublime, lepido
o serio, p^rcAè
piaccia agli astanti,
€ noìi offenda
la morale^ PUO ESSERE ARGOMENTO DI CONVERSAZIONE: qui
più che altrove
debb'essere. é ragione
e legge «
Ciò che il
consenso universale elegge.
» ytl poeti
satirici hanno voluto
ristringerci in più
angusti confini; quindi
1. Pongono in
ridicolo le dimande
relative alla salute quasi
che la salute
non fosse l'oggetto
più interessante per gl’uomini, e
una buona digestione
non valesse cento
anni d'immortalità; r
2. Non vogliono
che parliamo del
tempo, quasi che
le vicende delle
stagioni sullo stato
tìsico e morale
della specie umana,
sui prodotti delle
campagne, sul corso del
commercio, e non
di rado sui
pensieri degl’uomini grandi
e piccoli aon
influissero ; c giornalmente
non fossero occupati
i fisici ad
osservarne Tandamento progressivo,
retrogrado, irregolare. Qualche
poeta ci deride
QUANDO NELLE CONVERSAZIONI PARLIAMO d'arti e
di commercio, di
pace e di
guerra, di governa
e di politica,
é vuole poi
x che ci
occupiamo dé'satelliti di
Giove é dell'anello;
di Saturno. Certamente
che anche Giove
e Saturno possono
ESSERE OGGETTO DELLE NOSTRE CONVERSAZIONI, ed
è cosa desiderabile
che Io sieno,
sì perchè pascono l'animo di
idee sublimi, sì
perchè servono di
guida al nocchiero
che va. errando
sulP immensa superficie
de' mari, ecc.
Ma avreste voi
vietato ai Romani
di parlare quando
Cesare ottenne dal
Senato il diritto sopra
tutte le mogli?
Quando Vespasiano, che
si mostrava sì
tenero pel bene
del popolo, pose
un'imposta sulle orine?
Vi sono delle
cose che ci
toccano sì dappresso,
che è assai
difficile di non
tenerne discorso, come
è difficile di
non gridare ahi
! quando il
fuoco ci scotta.
Se poi, per
opposta ragione, si
riflette che LO SCOPO PRINCIPALE DI QUELLI CHE S’UNISCONO
IN CONVERSEVOLE CROCCHIO si è d'intrattenersi e
ridere, si scorgerà
che è quasi
impossibile d'allontanarne gl’argo menti ridicoli, da
qualunque sorgente provengano.
I Romani non
potevano contenere le
risa allorché parlavano
dell'imperatore Costanzo, perchè
costui, quand' era
in pubblico non
osava movere il
capo, né fare
un gesto, né
tossire, né sputare,
lusingandosi in tale guisa
di rendere più
imponente la dignità
imperiale. Il retore
Temistlo, il quale
era stato fatto
senatore da Costanzo,
trasformò l'imperatore, che
non sapeva sputare, nel
più gran filosofo
dell'universo; avreste voi
voluto che i Romani
non ridessero né
dell'impeiratore né del
retore? Si può parlare,
senza cognizione, della
pace e della
guerra come delle
zucche e dei
ravanelli; dunque IL LIMITE DI FISSARI AI DISCORSI NELLE
CONVERSAZIONI, rispettata la
mòralé, come si
disse di sopra
non dalia qualità
dell' argomeiita 8i-d«U)e ildsomere,
ma dalh'giioliàiiza.di parla
o dalla noia
di chi ascolta. Dopo
4 avere eseldso dalle
cQiiVèi^sjùtidid^l discorsi più
interessanti, si è
fatto loro rimprovero
perchè spasso non
s'occupano che di
coseJrivoJes eoitià jfoalè
èènsbra si dà
a divedere d^aver
diinìenticato che IL PRINCIPALE OGGETTO DELL CONVERSAZIONI si'
è il
piacere: Se il
caippo in cui
il piacerò ap^
l^^cev è di
già anche troppo
ristretto, per quale
motivo vorrete voi
ristringerlo dì più?.
Vi furono* de' grand' iiòinini che
ridévanó di cuore
alle tlSt^ tezze
di Pulcinella, vorrete
voi condannarli? Più lò spirito
è 3tato avvolto
in cose serie,
più assav\* porà
il contrasto delle'frfvolezze' Ne'momenti^'ózia non
vergognava Esopo di
giuocare alle noci,
Ca* tbfifó alla
pafla nel eàmpo
Mairzio; Pascal facevi
delle scarpe, Malebranche
cucina delle vivande^
di SCIPIONE e di LELIO
dice CICERONE, che,
ritiràti alla esfiìpagna,
non isdegnavano di
bamboleggiare,
incredibiliter repuescere. Queste
frivolezze .offrono uni
trastullo necessai^io, senza
che lascino neil' a»
ttimo alcuna traccia
da che sono
svanite. « Rispettiam dunque
la follia gradita
l^.QWBe balsamo dolce
d«Ua vita. »
Cbesterfield dice che
le frivolezze DELLE CONVERSAZIONI €l^0B&
tòné ti compénso
delie àliiine piccole,
ebé neri pensano
e non amano
di pensare. Avrei «fimyandatQ
volontieri a questo
scrittore s' 6|^i addlìjMMMte per
pensare^ Le frivolezze
DELLE CONVERSAZIONI, simili alle
immagini scucite 4el
sonno, servono a farci
ridere e nulla
più. Io sono
stanooc a segno
che non mi
reggo in piedi,
e voi mi'con-À
sigliate di passeggiare?
Che cosa direste
d'un uomo che per
sgombrarvi dall'animo la
melanconia, viponesse tra le mani
le Notti di
Yòung ? —
Si devono ammirare quelli
che dopo d'essersi
occupati di studio
0 d' affari nel
gabinetto, possono ritornare
agl’affari o allo
studio NELLE CONVERSAZIONI;. hna
non si possono
spregiar quelli che
dopo avere eseguito
il loro dovere,
abbisognano di riposo.
Sic, .come i
pranzi non sono
eccellenti se non
quando possono soddisfare
tutti i gusti,
così non sono,
eccellenti LE CONVERSAZIONI se una
varietà di soggetti
corrispondenti ai bisogni
di ciascuno, non presentano. Generalmente parlando,
i discorsi serii
non possono piacere alla
maggior parte degl’astanti,
giacchè la maggior
parte vanno a
ricercare NELLE CONVERSAZIONI riposo alla
riflessione e pascolo
alla fantasia. Non si
può quindi approvare
la condotta dì
Locke, il quale,
mentre tre milordi,
Hallifax, Anglesey., Shaftesbury,
jgiocavano tra di- loro,
egli ' occupaVasi
a scrivere ie
parole che uscivano
loro ' di
bocca. Per quale
motivo ridete voi,
gli disse Ànglesey?
Perchè nou perdo
nulla di quanto
voi dite, rispose
il filosofo, e
gli mostrò la
nota delle parole
poco assennate che
ciascun giocatore aveva
detto. Questa censura era
fuori di proposito,
giacché da persone die
giocano, e giocano
per divertirsi, non si deve
aspettare che argomentino
in barbara o
in baralipton. Quando
prendiamo una medicina,
dobbiamo noi osservare
se è bianca
o nera, leggiera
o pesante, bella
o brutta, graziosa 0
no alia visita,
di qualche astante
? £Ua ci
ridona la salute,,
e bastai Airincontro, dice
Gozzi, certi Catoni
vorrebbero che oca si uscisse
mai dal malinconica
e dal ^rave,
come se gli
uomiiri fossero d'aeciaio
e non di
carne. Questi tali
ci, vorrebbero affo.» gati
nella noia. £
quando Fanioio ò
kifastfdilOt » non
è buono nè
per sè nè
per altrui. Il
meglio è un
bocconcello colla salsa
di tempo in
tempo, » e
poscia un grosso
boccone delle vivandé
usuaK. La misura
ne' passatempi è rimedio
della vita; ed
io jtanto ve^
magri sparati è
disossati quelli V che non
pensano ad altro
che al sollazzo,
quanto >» queUi
che tirano continuamente
quella benedetta li
carretta delle fecceade.
Soggetti ge^ieralni^nte noiosi
Sogliono essere soggetti
noiosi ed opposti
allo SCOPO DELLA CONVERSAZIONE i seguenti. Gl’incessanti lamenti
sopirà viali a cui non
si può opporre
rimedio.. Talvolta LA
CONVERSAZIONE in vette d'essere
un tessuto di
piacevoli discorsi e ameni,
è un vero
piangisteo, o, per
dir meglio, un
miserere. Se qualcuno
riesce a dìipenticare
i Riali eomuni,
T unó o
l'ailro degli astanti
glieli rammenta con
circostanze nuove, e il sentimento
dolorosa ne aggrava
colla prospettiva «d'un
avvenne peggiore. Che
cosa direste di
schiavi che per divertirsi parlassero
delle loro catene. É
questo up difetto
de' veccM che
non sànm aprir
l'animo alla speranza;
degli ignoranti, incapaci di
riguardare le cose
da più aspetti;
delle menti deboli che ad
ogni lotta succumbono. Alcuni velano
questa incivile abitudine
col sentimento di
compassione pe'mali altrui,
cioè per mostrarsi
compassionevoli verso gl’assenti tormentano
gl’astanti. Pietro è morto
improvvisamente; Paolo si
è ammazzato; il
pane è troppo
caro; la tempesta
ha distrutto la
vendemmia ; le imposte
sono eccessive; la
guerra è imminente;
la peste s'avvicina,
ecc. Poco manca
che non ci predicano
la flne del
mondo, come si usava negli scorsi secoli, idea che
tuttora s' insinua ne'
discorsi della plebe
quando è afflitta da
qualche calamità. Sarebbe pazzia
il pretendere di non sentire
i mali della
vita, ma è
pazzia maggiore il non sforzarsi
di dimenticarli. Sarebbe imprudenza
l'andare verso il
futuro colle spalle
indietro, ma è
imprudenza maggiore il
riguardare i mali
futuri come successi
e non distrarne
lo sguardo. La
novità della cosa
può qualche rara
volta sciorre da
inciviltà l’annunzio d'una trista
novella. Ma richiamare continuamente r idea
di mali che
tutti conoscono, è
l'eccesso deirinurbauità, giacché
questa ricordanza, oltre
d' essere dolorosa per
se stessa, conturba
e piega a
melanconia i sentimenti
degl’astanti. In questa
situazione degl’animi non
osa spuntare sul
labbro il sorriso. Cento detti
spiritosi, pronti a
ravvivare LA CONVERSAZIONE, tornano
indietro. Ora rinunziare a
cento piaceri per
procacciarsi un dolore è
un calcolo da
matto. Si può
procurare agli spiriti
de' momenti di distrazione
fissandoli sopra oggetti
diversi dagli abituali. Sì
pùo 'Yìntiizzare la
sensazione 4el dolore
riguardando le cose dal
lato ridicolo. CìasGuno^ può
cogliere de'jnoti?! dì
eoasolaaàone paragonandosi con
quelli che in
più tristo statoci
trovano. Chi vuol
viver tranquillo i
giorni sui, »
Kon conti quanti
son di lui
più lieti, 'Ma
gitanti sod più
miseri di lui. »
Si può innalzare
l’animo alla speranza,
mei]itre il volgo
s'abbandona al timore,
considerando tutta Festeosione
delle eventualità possiinli
Mentre, aeU' ulUmo
assedio di Genova,
i soldati ca?
scanti (li fame
facevano la guardia
seduti, uno di
essi disse: Ma^séna
non voiTà arrendersi
iìnchè non ci
ha fatto mangiare
i «udì stivali. Questa facezia
induce gl’astanti a
dioie ai-^ tre,
e intanto U
sentimento deUa fame
fa tr^;ua. Un generale francese,
ferito in battaglia^
sta per far^ta-*.
gliarc una ^aniba;
il suo servo
piange in un
angolo della stanza:
Meglio per te^
<t*\idìce il paziente;
non vedi tu
che quando avrà
una gamba di
meno^ non ti
resterà più da
lur sitare che
un solo stivale
? Quindi ritrova
forza per subire
r operatone. Io
ammiro la notissima
donna spartana, che
dice al fi^io
tornato zoppo dalla
battaglia: Ad ogni
passo rammenterai U iuo valore
e la tua
gloria, Gbe -bella idea,
che idea ingegoosa,
si é quella
obe ia tacere
U senUmento spia((Kev<^ un'jmpedeilone fisica
090 un sentimento
miòrale »^ desca l’amor proprio,
e a sublime
sfera lo innalza
1^ Si clìiama
leggerezza 1' abitudine
di considerare le
cose dal lato
ridicolo : preziosa
leggerezza che ci
fa sorrìdere in
mezzo al dolore,
tratto caratteristico che
distingue i' uoma
dai bruti. n
seniimenio della speranza
si cambia ki
finrza lMee^, qualunque
sia U modo
misterioso con cui
siffatta 4ra8torma Una
bella imipagmazioQe, un' iinaiagiiiazioiie rideate
sa creare delle
róse anehe ia
mezzo ai deserti.
S'ella è in
parte dono della
natura, si può
aecresceria coirabitudine e
migliorarla coirarteLe insipide
SOTTIGLIEZZE. Profondere sfarzi
di spirito sulle
parole, sulle cosev
solfe idee senza
trarne alcun vantaggio
o lepore, è
eccitare nell’animo degl’astanti
il sentiménto penoso della
fatica, è indisporne
ramon proprio coir
idea della pretensione,
è rendersi ridicolo pel
non successo. Un' uomo
cbd tenta di
ziODé «tkseede. emrva
questo fenomeno negli
stesKi animali: il
cavatto, statico dal
viaggio, aeeorgendoiii d'essere
vicino all' albergo,
trova forza per
accelerare il passo.
il Destrier che
air albergo é
vicino, )» Più
veloce s' affretta
nel corso; Non
l' arresta 1’angustia
del morso, .Non
la voce che
legge gli diu
> 'l'n imbecille non crede che T
innesto possa costringere r
albero selvaggio a
produrre de' fruin
domestici e sa.
porlti : le
anime deboli non
credono che possa
lo spirito innalzarsi sul senthnento
d^I dolore e
dominarlo : tanto
peggio per esse.
Al contrarlo lo
ho conosdiito m
nomo di tempra
' forte, che,
detenuto per opinioni
politiche, non sog^^iacciue
• che un
giorno alla melanconia
in quattordici mesi,
benché gli fosse
negato il conforto
de* libri. Far r elogio
della melanconia, come
i^ero alcuni scrittori detti sentimentali,
è fere F
elogio delle nubi
che f\ tolgonp
la vista diìl
lìriuaniento. In mezzo
a tante forze
die* tendono a
dislrng^<»rci, vanteremo noi
i pregi d' uu
seati ; meato che
accelera la distrusdone
/Itìtt saltare al di là
della sua ombra,
rapi^resMM Udi** fetto
che ho io
animo di censurare
: eccone degli
1 Far contrapposti
ad ogni paroluccja
t » Stirar
con le tanaglie
5 concettwzzi, Attaceonar
le i^ime con
Ja eer^i '
V Aé ogni
aetento far éegìi
eqntvociasm; É Lodsi^
le inoscbe, f
grilli e il
raTanello\ » Ed
altre scioccherìe c'hanno
corliposto ^ li
Bernì, il Maiire,
il Lasca ed
ii Burcbiellò.» Le
tante quistìoni di
metafisica che si
facevano per Faddietro
sopra cose ehe
la ragione non
intese giammai, dovevano
generalmente fruttar noia
agli ascoltanti.se non
erano interessati nella
disputa pef amor
proprio. Di sottili
insipidezze ei. diede
un esempio d'altra
specie Uvezio, allorché
esaminando dottamente quale
è la positura
naturale diell'uomo tra
lo stare in
piedi, «edato ^
coricate, genuflesso 0
passeggiare, dopo d'avere
discusso a lungo
gl'inconvenienti cai
andremmo ìncdntro tenendoci
continuamente nell'una o nell'altra
di queste posizioni,
conehiude clie lo
astato naturale dell'uomo
si è di
panenderle tutte sticces^mmente. Era
forse neete-^ serio
che l'erudito vescovo
d'Avranches si stillasse
il cérvello per
provarci questa verità?
Perciò ma* dama
Geoffrin, parlando d'iino
di questi stucclievoli
Ciceroni, diceva :
« Allorché egli
mi parla, »
vorrei che Dìo
mi facesse la
grazia di rèndermi
n sorda senza
che questi se
ne accorgesse \
egli n sarddbe
perisuasa eh' io T,ascolUi$si, e
s^reòiflio » contanti
ambidUie. xii ^n k^-m^ ?
Cresce ri motivo
di censuràre le>
insipide^ 6Mi«» gliezze
allorché, divenute triviali
affatto, da uq
Iato si ripetono
eoo pretensione di
novità, con che
si dà -segno dignopàhza,
daU'aUra riescono ofhn^
sive alfuno o
all'altro degli astanti.
Il poeta Despréaiix^
che iioa eika^ dotate
della pazienza di
ncia^ daina €reoffriti
^ se^ténde'^un giorno
Bordaloue a rìpeteìre
le vaghe analogie
sulla pretesa follia
dei poeti^ gU
dis9eH»xi( pp^€auslieanlellte: Io
so, mio Caro
padre, quanto si
dice d'ingegnoso su
questo » 9fg0jQsento;
se v^i y/»lete
venir meco aU'o»
spedate de'matti, io
son pronto a
mostrarvi dieci «
predicatori per i^u
poeta ^ e^roi
vedrete a tutte
lo 4(>ggb deUdjiàaal
«he dividanp il
loto dteooiso^ in
ti;e punti.-' r^Uriaql^oedenti riiles^iiaioa
condanaano Fuso dir
propÌMie
quistioofdligegncile^ le quali,
rispondendo ciascuno a
capriccio, servono di
piacevole esercizio ag^fipiiNiti
^'^liti iNToiy^ e vivaci
che sci^piana impftlìiéisamente y
-e talvélta a
lode di qualche
a« 8ti^t(^ v.|ieUa
mwì^m^lkm^ della duchessa
del MaifMVféei^lìiB»^ a dar
risalto alle pili
sfuggevoli differènze tra
i diversi oggetti
pro^ ||9^iM^>^^ dis$A,Ma
giorno ai cardinale
di
p4>)igw%]^IÌnatot^difi6ie^
passa tra me
e il mio
oralogio? — Il vostro
orologio, rispose il
cardi* nia^e ^
($tliirieor4a(^/<w:ftViJ^
ee le iate
dimenticafei Tutti i
di^corsir^ehe esconodal limiti
della conmmens,a^ j§^S^tk^<^^ si^o
alla 98. BiitArà
qui aàmmi?^ il
earattère degli astanti
è Ufi limite
^pwa^iii^iqQfP 'ir^iacchè per quanto
siano generalit per es.,
le vostre iodi
ad. toia vjrtà
e le vostre
censure ad un
vizio, vi si
attribuirà non di
rado l'intenzione di far rimprovero
quello degli aistanti
ebe manca della
prima q è
allaceiato dal secondo.
Finalmente IL SOGGETTO DELLA CONVERSAZIONE diviene noioso
allorché Tidea della
nostra per* sona
e delle cose
nostre presentiamo per
lungo tempo agli
altrui sguardi j
. come Aireìùo
nel e9« Soggetti
aggrademli. Se una parte
della civiltà consiste nel
dire a ciascuno
ciò che gli
conviene» è chiaro
che, acpiò non
manchi SOGGETTO ALLA
CONVERSAZIONE, devi parlare ad
ognuno delle cose
che più roccupano
o più gli
aggradano, della sua
arte o professione,
de' suoi gusti o
delle sue avventore,
de' figliuoli o della
moglie, ecc. Acgomento al
nocchier son le
procelle « 1»
I bovi airarator
: le sue
ferite ^ Conta
il guerrier» conta
il pastorale agneHe.
» Chiederai dunque
al giovine galante
a . A
qual cantore 9
Nel vicin verno
si darà la
palma > Sopra
le scene; e
s'egli è ver
che rieda »
L'astuta Frine che
ben cento folli
» Milordi rimandò
nudi al Tamigi;
» O se
il brillante danzator
IXarciso 9 Tornerà
pure ad agghiacciare
i petti »
De' palpitsgoiti italici
mariti. Ai vécrthfo
dfititafidefai conto degli
u^i eivlii, po*'
litici, religiosi clie
negli anui di
sua gioventù si
costuinarona, onde . procurarti
il piacere d!
con* frontarli cogli
attuali. Preparati però
a sentire eccessive lodi dei
passato; quindi avrai
Tavvertenza ^di separare
i f alti dal
giudizio di chi
"gli e^one. Spingerai
anco con bel
garbo il di
lui animo verso
l- piaceri che più
Tadescarono ». '
«Onde misero cor,
che il ben
p^dtita. » Non
ha più di goder speranza
alcuna,, » Kesii
il conforto stiinen
d'aver goduto.», Colle
donne volgari Or
di polii ragiona,
or di bucato*
» Colle donne
galanti parla « Di
veli e enfile
e femminili arredi.
» Colle donne
gentili che uniscono
ii bel costiime
airistruzione, porrai sul
tappeto le arti
belle, e a norma del
loro genio particolare
proporrai quaiclie problema,
acdocohè al piacere
di discorrere umscano
il piacere di
soddisfare la tua
curiosità. Ad una
giovinetta ohe. occupa
vasi a dipingere,
chiese un giovine,
se provava più
diletto nel ritrarre
gli uomini o
le donne ^
i giovani o
i vecchi. —
Sono indififerente a
tutti. — Eppure?
— Pre/e^ risco
le fisonomie sensibili
senza riguardo al
sesso. — £
quali sono i
segni fisionomici che
caratterizzano la sensibilità?
^ Qui cominciò
un discorso che
durò due ore,
la giovine facendo
pompa, di sentimento,
il giovine di
metafisica. Le letture,
cui talvolta sono
occupate le signore,
Yf jfffft^mo U
ctesbro di jebi«der«
loro ^ii^li f^m
le colpiscano di
più, e quali
autori in tale
ò tal altro
ramo di letteratura
preferiscano, e se
avrete l'av» mieuM
proporrà loro qualche
obbiezione pet dimostrare
che non vi
sfuggono le loro
idee^ prò* curerete
ad e^ il
diritto di pmlan^
à lun^iit^ mmBM
^^nimm/^:èe9lL mUoMi poesn
Uteek^lé d* inciviltà
y poiché ciascuno
ba diritto, di
difen^ dflisi: e
giustìicare cìòl cbe
dm*' Della fanciulla
vorrai yedere i
dis!^, i ricàini,
la scrittura, ecc.
Chtederstt «drifcaamom» ohe
ms» w^ò ^^IpM^
che brillano neH*azzurra
volta del cielo.
Per quaH €ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^ altri
cambiarono. di MlOfe. D' oode.
amnga che i
pidi^ si <
inafapo nello stesso
senso da occidente
in oriente. Perchà
mail eaegaiscjoao i
laro fioti ia,,)ioa
^iBl|a s^oa»V mentre
te comete vanno
errando liberamente per
latte le r^ipai
del cìe^o. Ove
v^aono e d'onde
veór gono questi
astri che. spa^epteeo
11 wlgoéoUli fatarba
.e colla coda. Delle
erranti stelle »
Segai il cammino,
e le eagion
disveli ^Degli aerei
portènti; onde Je
nufci, v »
Onde il tuono
e la pioggia,
e di qual
fuoco » Aceendesi il
balen; perchè sì.
lenti . I caldi
soli estivi, e qua! ritardo:
Le fredde
notti deirinverno^allQpghi.. Inviterai
l’economista ad esporti
le cagioni dell'alto
0 basso prtìsìo
de'generi, dell'abbondanza o
scarsezza d'una specie
di monete; l'influsso
delle imposte suiragricoitura e
sai mestieri; se
convengft dare la
preferenza alle manifatture
nazionali; ia quali
casi e con
quali mezzi debba
il Governo promoverle
ecc. Parlerai al
filosofo di leggi,
all'avvocato di liti, al
medico delle malattie
dominanti ecc. Ma
guardati bene di
decidere tu stessQ,
principalmente avanti queste persone
sugli accennati argomenti,
giacché, non appartenendo
essi alla tua
professione, ti esporresti
facilmente al ridicolo
cui si espose
un sarto, il
quale avendo composto
e ^presentato ad
Enrico IV un
libro di regolamenti
.•^civili, sentì il
re a dire
agli ^stanti :
Chiamatemi dunque il
cancelliere, perchè mi
prenda la misura
d'un abito. Allorché ti
trovi in una
compagnia di stolti,
non mostrare né
la distrazione né
lo spregio eh'
ei meritar si
potrebbero. Lascia alla
fatuità libero '
Campo di far
pompa delle sue
scempiaggini senza farle
giammai temere d'essere
repressa e né
anche giudicata. La
Motte, persuaso del
proverbio spagnuolo, che
non havvi stolto
da cui non
possa trarre qualche
profitto il saggio,
applicavasi a; ricercare
negli uomini sprovvisti di
spirito il lato favorevole dal quale poteva, sia per propria
istruzione,sia a conforto
della loro vanità^
riguardarli. Facendo cadere
destramente il discorso
sopra quanto avevano
veduto o sapevano
di meglio, procurava
Convengo non essere
impossibile che un
uomo si formi
in mente idee
ragionevoli anche sopra
oggetti estranei alla
sua professione; ma,
essendo la cosa
alquanto improbabile,è necessaria
in simili casi
somma riservatezza e
difidenza speciale nel
proporle.' tolto, senza
il piacere di
smérthi^ il poco
bene che possedevano;
« mentre non
annoiavasi con es^
vH wodeite ^mtentr
4I di 14
delle lo» speranze. Sargenti di
ridicolo sociale.] Tu mi
dirai che ti
porti alia conversazione
non .p«r esenatare
la pazienza^, me
per andare a
^écia d( piaceri
innocenti, e vorresti
poterli córre 0
tra i. fiori
del discorso, 0
ndie maniere delle
persione^ 0 tra.
ameni sentiiilenti e
gentili.; Ti ricorderò
dunque la massima
raccomandata di sopra,
cioè avvezzati a
riguardare le cose
dal fatto, ridicolo
: eéecotene aicniie
fonti suceinlamente. TI
porgeranno grato spettacolo.
" ù Le
variazioni deile passioni
pet em io
jrteaso uomo passe
facilmente dal giardini
d' Epicuro ai portici
di Zenone^ ed
è a ticenda
di vota, e
fiv>n dano per trimestre,
e per cai
non di' rad^ Osan
profoni e fetidi
servacci »Di libertà
mentire il nobil
fuoco. » Quanti
ancor ne veggiam
d'animo incerto 1^
E di dottrina 5
in cui fondarsi,
ignudr, Che quel
clie sol mattino
era lor Aoia,
* » Chiaman
perfetto al tramontar
del sole ? A
vicenda gli scorgi
ora del véro Difensori,
or del falso:
ora baciarti 9
In fronte amici,
or affrontarti infesti, Tanto che
sotto a due
stendardi e volti
>» A due
partiti un dì
solo li yede. m •
:}/ Le qifMate^
ripugnanze. Più Qti
gusto^ um aUbsrimfó,
wi senliflliefite 'è'
tsemofie, piò :AigMé
alcuni dì mostrarsene^
alieni. Così adoperando,
i^etnbrà loro di
«tacearsì dalla massa
volgare, e, collocatisi
in alto, divjenire
r oggetto degli
altrui sguacdi. Essi contrasto- eternò \
i. Fanno a
ragion, per voler
esser sempre \
P, Singolari dagli
altri; e picca
occulta » Hanno
in sè .d'esser
dì buon gusto
soli/ !» Jton
d'altri àppresse, e
veder soli il
vero;;; V I più
di quQSti incaputendo
avvezzi Son del
sénno a c^rcpr,
lontani ognoi^ Dalle profane
popolari turbe. Onde
se ayvjen-che il
popolo par caso Dia
pur nel segno,
e ragiohevoi pènsi,
Sc£i.nt.onan essi^ e
mal pensano e
a torto;. \
Perchè purificate eceèlse
menti. Non seguan mai
popolaresche teste. »'
ISome vi sareste
voi contenuto con
Euripide, il quale
assicbrava di non
amare le donne,
dopo4'essersi amìtaogliato tre
volte ? Seguendo
i precetti sinora
esposti, voi avreste
dovuto, senza lasciar
{scorgere dubbio sulla
sua sinceritià^^avreste dovuto
^ c^tedérgli la
storia di questi
tre^esseri tatfto odiati,
e con cui
egli strinse, alie^inz^
forse, ad esercizio
di sua pazienza.
Gli sforzi della
vanità per cui
ciascuno tenta d*
associare V idea
delia propria persona
aWidéa delle cose
pregiate o delle
persane il* lustri.
Se taluno vanta
un bel libro,
un letterato yi
accerterà tosto che
lo possiede, benché
forse OdÉflii ahbia
and' vodafe fiè
i^die pti^iAMii r''^
si tratta d'un
grand'uotno, questi vuo!
essere suo parente^
e qu^i ^la
^ide a Parigi
.0 a Londra
^ o viaggiò
còn'lai tstXto ^ièséo
meeilòV e wd
tm vanto come
l'asino della favola,
il quale portando
delle reliquie, slnun^gmava
d'éèsere adorato»- Orasio si vantava
d'urtare impulitamente chiunque
inco»»trava per if^rada^
purché potesse giungere
presto .^"^M^eeniib i^irefdete
l'asMKia o aia
il eàttraito dieK*
^i'àinclr proprio :
egli vi dà
una parte della
sua ri-piitai^we^^ cieè
ti concede d'
essereimpulHo, af« finché
Io crediate in
lega col ministro' d'AiagteMU in
somma quatti .ad
ogni istante si
scorge che ^
ttMàini iielle loro
pretensioni sohcf pìù^
iirragione* voli di
que'facchini che seqtendo
a lodare le
belle sonate d'un
organista, si gloriane
d'avere levato i
mantici. A^'^Aeciocchè i giovani
non prendano abbaglio,
farò >dHervare ebe
il vantarsi d'essere
i'amioo di qiiid(die
persona virtuosa od
altrimenti stintiablle, qtiando
10 si è
veramente V non
è un vanto
irsagtonevole èoftie gli
anteeedenti -, giaeeliè
le petiOfle Y«MMia^
le stimabili non
concedono la loro
amicizia^se non 11
persone eh' elle stimano.
» >r .
/ pregiudizi comuni.
QuéSIft torgenté^^i ri*
dicolo non ti
può mancare se
ti trovi in
compagnia di donnìeeiuole; giaeehè
ae pe)r ea. 'favai
oggetto del discorso un
male 0 l'altro,
esseti spac^i^attno tosto
de'rimedii simili a
quelli del medico
Quinto Sereno, il
quale, per guarire
tó quatìwia» '
j^neva sotto il
capo del febbricitante
il quarto li%fo
éeir Ilìade. Contìnua
tu la storia
dellegaia* lattier ed
«fisa Mtttiiuieraiiil^ dei
recale che ti
farebbero ridere, fossi
anche moribondof/ Mi
è stato di^and^to
se e come
si può iotrat*
teimrsi e ridere
eofievj^aeecherew yeramente il
problema è un
po'difflcile, ma se
il'tettora premelte di
noa tradisuii) gli
affiderò il Le
pinzochere chiamano chiunque
al loro contoitton^e;
e il. loro
eootoi^ cresce in
ragione delle persole
ehé eoodamano; ^
Quando adunque mi
.tcp vo in compagnia
d' una di
queste signore, le
em^to avioti ' una ventina
di peccatori per te meno,
e tutti colle
loro colpe sulla
fronte : qui
si;iegge rnode^ ik
ieàtfo^ più Jungi
pas^eggiy smmii "La
vista di questi
piaceri, a cui
per motivi rispettabili, madama ha
rinunziato, riscalda la
sua bHe; quindi
eceolar assisa prò tribunali,
e scrivendo sentenze
da Radiunante, colle
mani e co'{»icdi
eac* «la tìPotw*
filpifi poveri profiud.
-Appunto perchè so
che la pinzochera
è ineso-. rabitef
io mi interpongo
e chieggo pietà
ora per Vhi^.
ora per rsAtro
: tento Tapologia
della moda; dimando
qualche tolleranza pel
teatro; il concerto
dèlie (Sfere mi
serve ja difendere
i ^oni, gli
au« gelli vengonoin
soccorso de' canti
ecc.; succede dunque
una contesa tra
il giudice e
V oratore, e
coi {a siessioné.
criminale continua^ giàcohò
ie, ob* bieziofifi
ragionevoli ed a
proposito sohq uhq
sti"molante DELLA CONVERSAZIONE. E
eieoofm lo zelo
di madama è .
scevro di mallaia,
quindi riscaldandosi ella
facilmente, ini permette
di i^ere n$l/wdo
delsuo euHmofÀ ravviso allora
sotto tinte superstiziose
quelle false idee
che leggo in
alcuni libri sotto
tinte poetiche, ed
imparo a stimarne
profondamente gli autori! Crescendo il
calore di madama,
io diminuisco; l'opposizione, e
le lascio assaporare
il piacere d'avermi persuaso e vinto : in questo
modo usciamo dalla
conversazione
soddisfattissimi entrambi, ella
di me, ed io
di lei. Gli
sforzi per comparire
ricchi; del che
vedi un cenno
alla pag. 89, .Basterà
qui il dire
che il ridicolo
in questi casi
cresce in ragione
della differenza che
passa tra l'apparenza
e la realtà,
sicché il massimo
ridicolo ci verrebbe
offerto da. colóro
che imitassero i
comici di campagna,
i quali, dopo
d'avere rappresentato Cesare
e Pompeo, muoiono di
fame. La saccenteria la quale
si è di
due specie:), appartengono
alla prima quelle
persone che, non»^
facendo mai uso
del loro giudizio,
spacciano le idee
altrui senza discernimento
e come proprie.
Molti vedrai che
proferir non sanno
^ \% ' »
Mai sentenza da sè; corrono
in gìra'^ Per
la cittade di
pareri a caccia;,
1 Intendimento è in
casa lor, da
cantò 3» Mobile
disusato e inutil
ciarpa. L'opinioni più
travolte e false
» Succian avidamente,
e a grande
onore. Premon la
spugna ad opportuno
tempo, E fan
lago d'umor sorbito
altrove. La seconda
specie di saccenti
contiene que* cerretani che, forniti
d'un capitale scientifico
come 10, fanno
pompa d'un capitale
come 100, e
otten-,gono facile credenza
prineipalmeate presso le
donnicciuole che pizzicano
di letteratura. Non
basta, dice Gozzi,
l'aver buone merci
V» nella bottega;
ma il saperle
mostrare è di
grande utilità. Succede
a'ietteral, quando sanno
acqui» starsi l'opinione
degli uomini, quello
che accade >
a qualche benestante
o giocatore, che
se il primo
» ha tremila
ducati d'entrata, si
dice cinquemila; »
e se il
secondo ne vince
cinquanta, corre la
voce '»^di cento.
Così se l'uomo
di lettere avrà
buona V maniera d'insinuarsi
nell'animo altrui, non
vi sarà cosa
al mondo che
non si creda
eh' egli i^intenda.
Una così fatta
avvertenza fu buona
in » ogni
tempo. È vero
che secondo i
costumi del>» l'età
e delle nazioni
la fu anche
diversamente » posta
in opera. Ma
che credete che
fosse quella »
ruvidezza d'Antistene? Che
quel mantellaccio, quella valigia,
quel bere con
le giumelle, e
la casa nella
botte, e le
altre poltronerie di
quei » malcreato
di Diogene? Non
altro che un
saper » vendere
le sue mercanzie.
Perchè quando uno f
a con
una certa signoria
d'animo quello che
gli »^altri non
usano di fare,
tira gli occhi
di tutti a
* sè, e
a poco a
poco la maraviglia.
Aristofane V che
intendeva le cose
pel buon verso,
e diceva "
al pane pane,
per aprire gli
occhi agli Ateniesi,
», volendo far
conoscere l'artifizio di
certi studianti, »
li fece comparire
sulla scena magri,
smunti e ^
del colore della
terra, che pareva
che si fossero
» distrutti a
studiare; poi le
loro dottrine erano,
• quanto spazio
salta una pulci,
e se la
zenzala » ha
la tromba nella
gola, o, con
riverenza vostra, di
sotto. Le industrie
d'oggidì non istanno V
più nelle goffaggini
di Diogene, o
nel colorito »
della faccia che
gialleggi. Non importa
più che '
» i letterati
siano magri o
scoloriti, no; chè
ce » ne
può essere d'ogni
corpo e d'ogni
colore; solamente è
necessario un poco
di baldanza per
» dar cognizione
di sè al
mondo. È vero
che per »
rendersi baldanzoso bisognerà
prima invaghirsi.^ » del suo
fare e del
suo dire; e
a forza di
dare » ad
intendere a sè
medesimo, che si
sa, comin>» fciare
a crederlo finché
la coscienza noi
nega più, e
allora poi darlo
ad intendere anche
ad altrui. »
Poi entrare in
ogni ragionamento tanto
animati, » e
tanto a bandiera
spiegata da far
credere che quello
che si dice
abbia proprio la
radice nel» rintelletto,
e sia studio
di tutta la
sua vita.' »
Qualche picchiata agli
autori può ancora
giovare, M Verbigrazia,
se un dice
: Come vi
piace l'opera' '
» del tale
Non ho avuto
pazienza di leggerla. ALIGHIERI (vedasi) .J È
rancido. PETRARCA (vedasi)? Troppo
lavorato;> poi malgrado
gli so, perchè
ha fatti tanti
Pe» trarchisti che
sono una noia.
L'Ariosto? Divino; »
ma molte volte
dà nel basso
che m'uccide. Il
» Tasso? Semper
corda oberrat eadem.
Insomma » eirè
come dice Leopardi:
a Vuoi tu
parere un' arca
di' scienza ?
Biasima sempre, e
vedrai la brigata
» Starti d' intorno
con gran riverenza.
» » Un
grand'uomo, un grand'uomo
è costui, dirà
la brigata, che
conosce dove sono
difettivi gli » autori.
Proviamolo. Si ragiona
di questo mondo
» e dell'altro.
Su due piedi
l'uomo ha da
saper » rispondere
tanto del corso
de' pianeti, quanto
sentenziare deiinitivamente delio
arricciare ca» pelli;
e s'egli ha
grande animo, sempre
terminera col dire : In
un mio Trattato
spero di far
• vedere al
mondo eh' è
goffo. Le signorie
loro » tra
poco vedranno l'opinione
ch'io tengo sopra
» ciò in
un libro che
quasi ho terminato:
per modo »
che empiendo il
capo de' circostanti di
sentenze, » di
libri e di simili abbondanze
letterarie, egli è » impossibile
che quando prende
licenza dalla com»
pagnia non si
bisbigli : Oh
che uomo ! Oh che
profondo sapere !
Costui è una
libreria che cam»
mina. Una stamperia
che tira il
fiato. » Ma
se ti è
permesso di ridere
delle stoltezze degli
uomini, come gli
altri ridono delle
tue, la pulitezza
vuole che il
tuo sorriso al
loro guardo s'asconda,
e che, d'ogni
malizia spoglio, non
sia diverso dal
sentimento che eccitano
in te due
puU. Cini che
vengono a contesa. /,
giuochi di società.
Classificazione dé*giuochi e
vantaggi. Da un
lato non è
sempre possibile nelle
lunghe sere iemali
alimentare LA CONVERSAZIONE con
soggetti nuovi e interessanti;
dall'altro il discorso
pende naturalmente alla satira.
Ora è
meglio giocare che
annoiarsi, è meglio
giocare che maledire
« purché regola
si serbi e
misura. Le jeu
fùt de tout
temps permis p9ur
s'àmuser; Oh ne
peut pas t^mjours
travailler^ prier, lire;
// vaut, ìnieux
s'óccuper à jouer
qiià médire. 1 giaoehi
poksoAo esheré indotti
a cpiattro-elattf: La 1. esercita
le forze corporee
(per es., il
«orso, la lotta,
il pigiato eec^«.
)• La 2.^
esercita le forze
intellettuali ( per
es. gli teaochif
vari! giuochi colle
carte; eec}« La
S.* lascia Inerti
le fonie corporee
e intrilel» tuali
(per es. i
dadi e tutti
i giuochi d'azzardo)^
La . 4
esercita coDtemporaoeaoieDte le
forze fi» siche
e tntellettualf in
diversi gradi,e In
parte anco dipende
dall'azzardo ( per
es. il giuoco
della palla «
cavallo^ del pallMe.eo'piedi ecc.).
I*«r?{^ volanti divertono
nel verno tutte
le corti d'oriente:
vi si appendono
de' fuochi che
seml^rano astri in
mezeo al cielo.
Quello del i«
di Stam^ sèmpre
in aria ciascuna
notte, e i
mandarini ne tengono
alternatìvamente il cordone.
In Itàlia querto diiier^
timento è rimasto
ai ragazzi ne'giorni
festivi d'estate e nelle
ore pomeridiane, e
unisce il piacere
deHa vista airesercizio
delle membra (t).
* L' opinione comune
vuole ( ed
io l'aveva segnita
Bell0 antecedenti edizioni
di questo scritto
) che Fuso
delle carte da
giuoco fosse ignoto
pria del XV
secolo, e che
ne sia stato inventore Già*
cornino Crtn^nneur, pittore
di Parigi, verso
la fine dei
secolo XIV. Pare
che non si
possa dubitare della
(!) I cervl-volanU
meritavano una menidone
pnrtlcoIw?c, |H9cchè la
loro storia è
unita a quatta
deU' el^tlrieitè. falsità
di questa opinione
allorché si legge
il manoscritto italiano del
1295, citato dal
Tiraboschi e dal
Dizionario della Crusca,
nel quale si
parla del giuoco
delle carte, come
già largamente diffuso
in quelTepoca. Forse
ella è questa
un'invenzione asiatica come
il giuoco degli
scacchi. Che che
però sia della
sua origine, egli
è certo che
le carte, ugualmente
che altri piaceri
innocenti, censurate caldamente
da' predicatori, proscrìtte
con pene rigorose
dai governi, resistettero
a tanti nemici
potenti congiurati contro di
esse. Dopo che
l'esperienza e i
progressi dell'economia
politica hanno insegnato
ai governi a
trarre un partito
flscale da ciò
che avevano inutilmente proibito,
le carte da
giuoco godono, per così
dire, d'un esistenza
legale, impinguano il pubblico
tesoro, occupano alcuni
fabbricatori, e il
piacere deglr uni
diviene sorgente di
lavoro per gli
altri. Le carte
formano parte de'
divertimenti delle quattro
parti del mondo. Le
prime carte differivano
dalle attuali nell'apparenza e nel
prezzo; esse erano
dorate, e le
loro figure dipinte
e alluminate, sicché
la fabbricazione richiedeva
talento e lavoro particolare; quindi
ne era alto
il prezzo, in
conseguenza raro Tuso. L'invenzione delle
carte introdusse de' cambiamenti ne'modi di
divertirsi. I differenti
giuochi a' quali
esse aprirono il
campo, costarono più
tempo che dertaro;
quindi anche nel
loro abuso furono
meno fatali de'
dadi. In generale
i giuochi d'industria,
ì quali appartengono alla seconda
classe, possono essere
utile e innocente
esercizio allo spirito
di combinazione •
ed io dirò
francamente alle madri:
Se il vostro
ligliuoio è stupido
i inspirategli qualche
gusto pe^ fuochi
d'industria; k vanità
punta ed aaiouAa
^Ue vìaende delle
pmlile a deHe
Tioctto risyeglìà Tattenzione
e dà qualche
iittività allo spirito.
Aggiungete che una
persom ohe UM
sa gioem^ costringe
altre due o
tre a rimanere
oziose come eis^
in una coaversazione. r
o: Additando i
iWDtaggi det giooéo
tmè paioob al
bisogno d'intrattenersi, non
intendo di vantarne
la passioiie^ «amo
ehi addita i
pragl4el vino, iolande
di gkistifioare rubbriaebeeza.. : vi
.v>iJE che dite
dei degli scacchi?
« Quello earia
è mutile JiilfatteDHMBta ai
kh » gegnoso
(risponde il Castiglione);
ma parmfebe »
un sol difetto
vi si trovi;
e questo è
che si può
» saperaé^ troppo,
di modo che
a cui vuol
^ssaere » eccellente
nel giuoco degli
scacchi, credo bisogni
» consumarvi molto
tempo, e mettervi
tanto studio 9
quanto ii^ vatésse^iiiiparar qoaiehe
wbil aefeaza, »
o far qual
si voglia altra
cosa ben d'importauiia; »
e pu; ìd
utolme^ etn tanta
letica, non w
altep » che
un giuoco. GU^^fOiiiAi^gi^o^i qtiai
eh' essi siwa^ purché
noi! eseatiè 'dal liaMi
. della deeema^
s$ao imta pià
pregiabiUy quca^o maggiore
esercizio offrono ^iifoftj%roei;iq»ipHfi^^ alU/0rze^is»tellet' tuali;
quindi tra tutti
i giuochi t
meno pregiabiii e
i più^daiinoat aooo
i giuochi d'azzardo.:
^ 'Regote di
civiltà nel giuoco. iVoti
mQSif4Ue mal umore
se vi. toccano
cat' ièbe coorte
o se perdete;
giacebè, altvimenli facendo, dareste a
divedere che la
vostra tranquilK può essere
turbata da un'inezia,
e cte apprezzate
WfmhiiaMnlle una pieeola
niQneta« . If Nm siate
troppo fento nel
giocare, sia per
non dar prova
d'inerzia intetlettpale, sia
per non Se
il vostra compagno
commette degli ^rrorif
ó&rreggetelo €on gwbo^
iberna fare schiaiNMS^
6 dar wgM
4t troppo dispidoere
R che violerebbe
la prima regola;
d' altra parte dovete
fiewdarvi di ^fuiatli
%ìt» eonunetlete steasò. Se giocate
con persone schizzinose,
difendeté il vostro
diritto seaza riscaldarvi
e soprattutto «iiM
paiéfo «iSniiiKe; #^
Ae^po é'a?^ sposto
}e vpstre ragiooi)
cedete con beila
maniera. Io giòco per
diletto e per
conforto; chi
vuol far quistion vada
aila^guerr^ E giuochi
ad ammazzare o
ad essèr morto. Non
moxtrMe ecee$sÌoa é^ili^rwsa
fpumdo vincete, sì
percbò Waii^prez» maggiore
dell impmtattca éeila
Msa t dtnot»
picooiMza di apicito sì
perchè la vostra
allegrezza produce nel
perdente im (dispiacere
più sensibiie d^a
perdita,. ed è riguardato cornai m
prìmo''gmb d'iMuttOk Infetti
nissuno ama di
perd^e a nissun
giuoco, non tanto
per h^resse guanto
«par amair propria;
giaacbè dalla perdita
risultane idee umiliamli
eeonlrarie aii/opinione abituale
die ci3scuno arasi formata
in mente della
stia destrazza e
della sua fortuna.
Vod* taire, benché
uomo di spirito,
o perchè uomo
di . troppo
spirito, non poteva
tollerare il padre
Adam, quando guasti
lo vinceta agli
scaccili oé al
tò* ie;lìardo. Un
principe assiro uccise
il Aglio di
^>o Jbyas alla
i:accia, perebè quel
giovine era riuscito
a ferire un
orso ed pn
(ione, contro tsni
il pnriiicipe aveva
slanciate le sue
freccie inutilmente. Un uomo
probo non si
permette la minima
sùperchieria nel giuoco;
egli vuole poter
dire» io non
ho fraudato giammai,
senza che la
coscienza Io smenta
: egli temè
che V abitudioe
d' ingannare neHe cose
piccole diminuisca la
sua delicatezza nelle
grandi. Ogni frode dovrebbe
essere punita- còlla perdita
una, due o
tre partite, secondo
la sua impor*
tanza, ed a
giudico inappellabile d^gli
astanti. La somma giocala
deve essere tenuissìiha
e sempre inferiore
alle finanze del
men ricco tra
i giuocatori; altrimenti
alcuni non giocheranno
per non resbré
esposti a gravi
perditè, altri giocheranno con grave
loro daqoo per
non comparire spilorci:
Tono e l'altro
caso annuUa il
piacere delibi CONVERSAZIONE e lo
deprava. Il prodotto
delle vincite debb' essere
mpSeguito 4Z vasutaggio
tornirne; QUESTA REGOLA
dimti)uisce il dispiacere
delle perdite^ e
neutralizza l'avidi del guadagno. Il
tempo destinato al
giuoco non deve
superare i due terzi
del tempo consecFato
alla cw^ ireflsasione
i e questa
non deve succedere
a ^e»e 'de' doveri
e degli affari
di maggiore importanza.
. X» Jiton
ai deve costringere
con importuniià sèsamo
a giocasi, come
non ti deve
èoatriogere . jaissuno a
bere. Non si
devono accoppiare mi
friwM >er* sos^ie
nemiche o reciprocamente odiose.
Egli è quf$ta
un probienia teìvoita
dilGcile per la
padrora iiratO TÉMÙ di
casa, e a
scioglierlo beae ci
vuole occhio Qao
e pratica di
aioDdo.. « Lieto
così tra ramichevol
turbai » L'
ore dividi delle
amene sere, )*
E n'abbiao parte
gli eruditi detti,
« £ parte
ancora al genial
oe dona »
Breve «ommercio di
piacevol gioco, »
Cui mutua gioia
e scarsa speme
avvivi, •> Ma
sete d'oro non
corrompa, o il
renda ' » Torbido e
taciturno, e tal
che dopo »
Al vìnto Insieme
e al vincitore
incresca. DOVERI NELLA CONVERSAZIONE. ATTENZIONE. L’attenzione
ne' crocchi sociali si
divide in doe
rami distintisdmi* Il
prim^ coDuprenda quatf
a^ttnsa sansibiiilà che
immagina i bisogni
degl’astanti, li previene
od asseconda; Il
secondo oom|ltettde le
affetftudini «steHori dimostranti che Taitrui
discorso occupa interamente
il nostro anunob*
L Supponiamo una
signora, che, animata
dal-, raoeenaata sensibilità
dirige ufia CONVERSAZIONE, 0d
«serviaoMMie ^v%ibM^ La
ptontezza era mii
ella risponde alle
dimande, vi fa
supporre che la
sua attenzione sia
tutta ooeupata nelle
risposte; V ingannate; ella
si diiFÌd6, si moltiplica,
ed è presente
a tutti i
pensieri degli astanti;
non vi S&7
sfogge uno sguardo
eh' ella noi vegga;
non {orinate- tto degiderk)
ch'elici non conosca}
noa pfo^ ferite
una pàroia eh'
ella non ascolti;
non v' ha
individuo nella conversazioae
eh' ella dimentichi
iQ&tti ella vede
là Ja un
angola ehi wa
paria per timidezza,
6 gh dirige
con sorriso di
confidenza una dimanda. Ella
s'accofge^ che U
discorso d;qualcuQó eomiaeiab
ad annoiar la brigala, e gli .
cambia cofx bel.
garbo il soggetto tra
le mani. Il
vosl^ ^vvtirsacio vi
stringe»eoa
afgomenti.iQeal»Dtì a segno
che siete vicino
succumbere; ella viene
in ip(ra soccorro,
con una celia.
. Vi jsf uggì di
bocca dna parola
a cui sh
dà sinistro senso,?
ella spiega la
vostra intenzione e
la presenta in
beir aspetto. Cadeste
per inavvertenza iiv
uno sbaglio che
può divenirvi nocive
? ella vi trae d'imbarazzo
colla sua presenza
di spirito Uh
Voi non ardite
leggere una iatteira
che vi viene
pre^eotida/netta ewiversaziaiie; ella
dimanda per. voi. il
permesso agli astanti,
pro^testando che ne
conosce Timportan^a. Voi
vorreste .partire e
non osate; elja
vi et rimprovero
che 4ih 1
'Ferdinando VI re
di Spagna, benché
di carattere buono
jed amano, era
alquanto severo controquelli
che facevano uso
di tabacco proy[>ito.
tJn gìomò in
sua presenza un
grande di Spagna
trasse di tasca
una scatola piena
della polve proscritta.
Il re slanciò
sopra di lui
uno sguardo minaccioso. L' ambasciatore di
Francia ( M.r
di Duras ),
accortosi della faccenda, s' avvicinò
alio Spaludo e
gli disse: Ohi ecco la
ndaia|iaocbierache V.E., per
prenderai giuoco di
me, mi aveva
tolta. Questo felice
espediente trasse d^ impaccio il reo
6 disarmò il
monarca. (NB. I
membri del corpo
diplomatico non erano
soggelU alla legge
della proibizione ).
menrichiate i vostri
affari pe'vostri amici,
e v'ordina di partire
sotto pena della
sua disgrazia. Vinse
ella, è vero,
al giuoco, ma
se la destrezza
del suo compagno
non avesse corretto
i suoi errori, sarebbe rimasta
succumbente. Quest'oggi ella è libera
dalla sua emicrania
e ne furono
medicina i bei
motti della scorsa
sera. Osservate con
quale compiacenza arresta
di quando in
quando il suo
. sguardo sopra
uu astante, e pare che
la sua fisonomia
s'animi e s'abbellisca
: ne volete
conoscere il motivo?
Questi le presentò
l'occasione d'essere utile
ad un infelice.
Senza pretendere dominio
nella conversazione, sa
dirigerla con destrezza,
e quasi direi
fa comparire sul
palco i personaggi,
restando essa tra
le scene. Ella
sa far valere
ciascuno senz'aria di protezione,
perchè sa distribuire
le parti secondo
V abilità, il
genio e i
talenti di ciascuno.
Voi avete fatta
una bella azione,
e non ne
parlate per modestia;
credete voi ch'ella
non la conosca
? che l'abbia
dimenticata? Aspettate che
la conversazione sia
piena, ed ella
verrà, per così
dire, a prendervi
per la mano
e vi presenterà
agli sguardi di
tutti in mezzo
ai raggi della
vostra gloria. Parecchi scrittori
che frequentarono i
bordelli, hanno fatto
la satira del
bel sesso :
essi avevano Nel
testo ho abbozzato
con lievi tinte
il carattere d'una
signora, la cui
amara perdita lasciò
profonda sensazione nelr
animo di quelli
che ne ammirarono
le virù :
parlo della signora Marianna Morigi
Réina. ragione : il primo
dovere d' un viaggiatore
si è d' essere esatto.
A. chi ha conosciuta
deile dooae che
il flore delia
gentilezza uDivana aHe
fià- amabili virtù, iocumbe l'obbligo
d'esattew eguale. IL
Mostrare che degli
altrui discorsi nóu
f«t» dete una
parola, e che
le affezioni risentite
che il parlante
tende ad eccitare,
è dovere si
evidente, che. d' ulteriori
schiarimenti non abbisogna
dopo quanto è
stato detto nel
libro primo. Se
npn mostra che
il turbi o
che il conforti
Ciò che sente
chi ascolta, non
dirai ' f
O ch'egli è
sordo o che
poco gt' importi?
Con somma attenzìon
dunque dovrai Ascoltar
ehi proponga o
chi risponda,, n
Se avrai iuteìrrogato
o se il
sarai* » £.se
avversa al tuo
genio o pur seconda Sarà' la
eosa iM^t dèi
mei visito. Mostrare impressione
aspra o glo<M)ndd. Conviene assistere
ai discorso di chi parla
come si assiste
In teatro ad
una seeua nuova;
n E però
sii disposto ad
ascoltarlo » Come
di tutto ignorante
tu fossi, »
E n^suoi vari!
sensi a seguitarlo.
È quindi grave
inurbanità, allón^è qualcuno
parla, trastullarsi ooHentaglio,
col cane, coi
guanti, colla td^oduera,
eoi cappello, ovvero
Volgere qua ^.
là il capo, e far
gesti con questo
e sorridere a
qucHo, ioBomma mostrare
un' aria di
volto che, alla
sensazione comune eccitata
dai dkeeni. del
pariante non eorri^poada.
In forza di
queste distrazioni, quando
il discorsa è
innoltrato e diviene
interessante, siamo costrettJ
^ a confessare
che ce ne
sfuggì il filo,
e con altrui
. noia preghiamo
chi parla a
rannodarlo nella nostra
mente. Egle distratta intanto Torna, disse,
a ridir, ch'io
nulla intesi. L'altrui distrazione,
oltre d'essere un
affronto . a
chi parla, giunge
a turbare le
di lui idee,
mentre all'opposto l'altrui
attenzione le raccoglie. E
se ascoltando astratto
o per stanchezza
« Volgi l'occhio,
si ferma chi
favella; » Ma
guardalo, e il
discorso raccapezza. La distrazione
poi è dannosa
a noi stessi
in tre modi
nella CONVERSAZIONE A,<vr
riv i/, 1'.
Ci fa ripetei^e
le stesse dbnande ^prova labilità
di memoria, Una
principessa volendo dire
qualche cosa graziosa ad
una giovine dama,
le dimandò quanti
figli aveva. ‘Tre,’ rispose la
dama. Un quarto
d'ora dopo, la
principessa, la cui
attenzione era straniera a
questo trattenimento, dimanda DI NUOVO alla
dama quanti figli
aveva. Siccome non ho partorito dopo la prima dimanda che aveste la
bontà di farmi,” replica la dama, “così i miei figli restano tuttora tre.” Ci
fa commettere sbagli e contrassensi che ci rendono ridicoli. Un negoziante
cui fu esibito
da sottoscrivere l'estratto
battesimale d'uno de'suoi
figliuoli, scrive :
Pietro 6 compagni.
Egli non s'accorse
della sua stoltezza se
non se dopo
la risata generale
che eccita. Ci
fa si^elare i
sentimenti del nostro
animo contro nostra
voglia. . Una dama
alla presenza di
suo marito parla della destrezza, di
cui si era
servito un galante
per introdursi nella
casa d'una signora
ch'egli ama, in
assenza di suo
marito. Ma nel
mentre, dice ella,
se la intendeno
tra di loro,
eccoti il marito
che batte alla
porta. Ora immaginatevi l’imbarazzo
in cui allora io mi trovai. La verità sfuggita alla moglie pose il marito in altro imbarazzo maggiore.
Sogliono essere causa
di distrazione. La noia
prodotta da discorso
poco interessante o già
notoy e il
poco concetto che
si ha di chi parla. Quindi
dell'altrui distrazione, siamo
non di rado cagione noi
stessi. L’abituale
irriflessione che lascia
errare sbrigliatamente la
fantasia senza riguardo
alla realtà delle
cose da cui
siamo circondati. La voglia
di rispondere per
vanità od altr,
simile sentimento. Allorché
qualcuno parla, alcuni
concentrano il pensiero
sopra ciò che devono rispondere. Tutto occupati
nella risposta, non
resta loro alcun
grado d'attenzione per
ciò che ascoltano. Temendo che
sfugga loro l'idea
che vogliono esporvì,
il loro spirito
s’occupa a conservarla,
e ad impedire
che altre al
di lei posto
sottentrino. L'astratto è
una testa debole
che si lascia predominare dalle
idee che gli vanno per la fantasia, o un
uomo vano che
si finge occupato
in grandi pensieri. In
atto Di pensator
profondo, altero sembra
Quasi seder della
ragion sul trono, E il
semi-chiuso ciglio abbassa
appena .ijfiltSul non
pensante vegetabil volgo. Pretendere di
mostrarsi filosofi mostrandosi
stratti e sgarbati,
è pretendere di
mostrar ricchezze con un tabarro
rattoppato. Chi alla coltura delle scienze accoppia
gentil costume, dà
segno di forza d'animo
come due. Chi alla
coltura delle scienze
rozzo costume unisce,
dimostra forza d'animo
come uno: poiché
se la rozzezza
è naturale, la
gentilezza è figlia
dell'educazione; dunque, rigorosamente
parlando, in vece
d'innalzarsi, l'astratto si
degrada, giacché la
sua condotta prova
o può provare ch'egli basta
a coltivare le
scienze, non basta a
coltivare le scienze
e sé stesso.
Si possono dunque coltivare le
scienze senza essere
villano. Le scienze vogliono che dalla
solitudine passiamo alla società,
più amabili, perchè vogliono de'
seguaci^' non degli
stupidi ammiratori o de'
nemici. È quasi straniera
sulla fronte dell'
uomo buono la
severità, mentre non
di rado comparisce
sul suo labbro
un dignitoso e
piacevole sorriso, f.^^
L'uomo buono non
s'offende d'uno sgarbo,
non fa rumore
per un'altrui svista;
dissimula le mancanze d'ossequio e di rispetto
che a prava
inten' zione non
si possono attribuire.
Non isdegna d'occuparsi
di cose frivole,
se piacevoli agli altri:
e nelle partite
di piacere più
l'altrui genio consulta che
il proprio. iìlLìmaii
Di contrasti ignara. Condiscendenza che
alle propri voglie
Cede coàì, che
delle altrui s'indonna.»,
^ liwiisilegoa di
prestare orecchio agli
imbecilli che non
gli dicono BuUa,
e Ji toUwa,
lofitaoissiuKi 4 Gli
altrui detti e
qualche » Sbaglio
sfuggito e naturai
difetto AiranouDcfo d' un
vizio egli inc^inà
a porlo in,
dubbio; e se
il vizio è certo, ricorda
il pentimento «^he
potrà cancellarlo. Quindi
egli prende spesso
taliKesa degli assenti,
e conchiude, quando
può, Hi modo
analogo a quello
che usò Boiingroke^
aiJorchè intése a
laccfriiré la riputsbsions
éi Maftou-, Tough
: Egli ayeva
.tante virtù, che
ho dimenticato I suo» mi.
t .Egli scusa
gli altrui difetti
anche a spese
della P.erità allorché
non ne viene
danno ad altri
^1). (I) IMusladin
Saadì nel suo
Mosarium poUticwm riferisce
«che un cèrto
re condannò a
morte naa de*
tuoi sehiavi, e
^lie quesU} non
vedendk» speranza ^
grazia, ^ede sfogo
al . suo
dolore con nalèdieloini
e ìmpreeaslofxl d'ogni
genere 'contro il
re. Questi non
intendendo ciò che
diceva lo schiavo,
\ ne chiese
la spiegazione ad
uno de' suoi
cortigiani : il
corti . ji^iono, il
quale, per rara
sorte aveva il
cuor buonore desi^
derava salvare la
vita al colpevolé^
riiposè: fflgilore, questo
povero diavolo dfeè,
che U parafo
srta preparato perqueUi
( c:{]c moderano
la loro collpra,
e che perdonano
i difetti \ ed ;, Egli
è il primo a
sottoscriversi ad un
progetto di beDeficeneà;
non è loataiio
dall' imj^rtunare per
ottenere un beneficio a
vantaggio di 'qoalchè
bisognoso.; Egli ha la
delicatezfsa dare ad
un brae&iio l
apparenza d\un obbligo,
e conta pel
massinno ptqioere il
piacer di beD6fic9re
(1). È inotile
rag iH quésto
tfodo egli Implora
la tostrà d^iDenza.
AUora ir '
re perdond éló
woìàmo, e gU
aiscordà dinuovi» A
sua gmìi. Cn
altro cortigiano iniquo
per carattere, facendo
rlmpro' veri al
primo, gli disse
che non cpnveniva
ad un uomo
del,8U0 «Ugo il
mentire alla presenza:
del re; quindi
rivoltosi al, principe,
te vi svelerò
la verità, gli
disse : i^ppiale
che lo «eMavo
fak proferito gouIbo
di véf 1^
pUi; «BecraUMi/in^ "
rioni, e questo
signore vi vende
una merizegna. M
re, offeso da
questa graluila e
inopportuna malvagìtìu •
dò può ben
essere^ replicò; Kta
la menzlogna che
voi gU r
^cimbroverate, eliè la
vostra ^^ìk è
pregevole; giac1» cbè
con questo mé^
egli procacciò dfc>a)vare
la vitàad «
un uomo, mèùtre
voi tentale di
togliergliela : ignorate
vo^ » questa
MASSIMA? La menzogna
die frutta un
bene, vale »
più della verità
che produce un
danno. Turenne avendo veduto
nella sua armala
un olBciale imesto
ma povero, fornito. di
cattivo cavallo, lo
invitta pranzo, e
dopo pranzo gii
disse in disparte
con speciale bontà
d'animo: io devo
farvi una preghiera
che forse voi
troverete un poco
ardila; ma spero
che non vorrete
ricali lìtillà alvostro generale,
lo sono vecchio
ed anemie malaticcio }
i cavalli Uroppo
vivaci mi ca^^ianano
disagio e pena;
voi ne avete'
uno sol quale
starei còmodissimo. Se
non temessi di domandarvi
un sacrifizio troppo
grande, vi pregherei di
cedermelo. L' officiale
non rispose che
con profonda. riverenza,
andò ^ pifendero
il suo .cavallo
e lo condusse
nella «cudfHriA di
Turenne. ^ Questo
generali^ gii spedì
il giorno appresso uno
de* più belli
e migliori cavalli
dell* acq^ta. gfO^re
ch'egei si astiene
dalle commi ^UHaipai
a iBer di
labbro^ no» aeeompagnaté
èA desiéeria d'eseguire^
e che si
debbono chiamai'e r
« YeiMi iógafinì
in mmzognere offerte,
r fissare sei^ro
co' suoi simili
è dtmenticare di
quante qualità siamo
sprovvisti, da quanti
difetti funifflio lur^ervati
dai solo azzardo,
quanti oggetti, qpante
circostanze sulle debolezze
degli uomini influiscano. Ma per
e^eré buono non
siate imprudente }
e ricordatevi che
la bontà inclina
naturalmente a giudicare gli
uomini no quali
som ma quali
dovrebbero essere; la
quale illusione se
riesce.pia^ cevole, perchè
ci libera dalle
spine della difliden^a,
spesso di molti,
e gravi sbagli
è fonte. §
8. Modestia^. Per
Qiodéscià inteiAlesi quella,
virtù, die si
astiene dal prevalersi
de' proprii talenti
e della prò*
pria abilità In
modo spiacevole a^
j^uèlli con cui
viviamo. Ella è
veramente una virtù
^ gi^hè riesce
a reprimere la
nittùrale tendenza che
spinge ciascuno ad
esagerare i proprii
pregi e farli
sentire agli altri.
^ Io non
credo ch'uom sia
sotto la luna,
Ch'il suo ingegno
cambi^^e con PLATONE,
» Quantui^ue egli
non skppia cosa
aìcuna. Perche a
ciascun par esser
Salomone,, » £
ui essenza^si giudica
da tanto «
Che meriti ogni
onor da le
persone. Quindi Timmodestia
cresce in ragione
dell'ign^^ . ranza,
o per dir
meglio del falso
sapere; perciò Digi vi,'
la Bruyère dice
: // vanaglorlosOy
misto di sciocco
e di petulante^
sta tra questi
due estremi. Un
giudizio troppo favorevole
di noi stessi
offende i nostri simili,
ì quali, volendo
giudicare liberamente le
nostre azioni, veggono
con dispiacere che si
assegni a se
stesso nella loro
opinione un rango
o delle ricompense
che essi non
ci assegnarono. L'uomo
modesto somiglia a que'
fiori che umili
steli tolgono all'altrui
vista, e che
solo il loro
profumo fa conoscere. La
modestia dà ai
talenti, alle virtù,
alle abilità quell'incanto che
il pudore aggiunge
alla bellezza. '
« Ippolito, che
sài più in
là A\ tanti
Fra lor che
sanno, e di
saper dan mostra,
Mentre a te
ignaro de' tuoi
proprii vanti. Schietto pudor
Tonesta guancfa inostra.
» « LaseianK),
dice GOZZI, il
commendarsi da se
medesimi a coloro
i quali, temendo
di sè e
delle y> opere
loro, tentano di
sostenerle coi puntelli,
» come gli
edifizi vecchi e
cadenti. Non sia
disgiunta da noi
giammai queir onorata
modestia » che
è condimento e
grazia di tutte
le virtù, e
^> le rende
più care e
pregiate. Qual baldanza,
vi L’umiltà, differente dalla modestia, è
una qualità cha
brama mostrarsi agli
occtii altrui, perchè,
mostrandosi, In vece
d' offendere la loro
vanità, X adesca
\ ella suppone
per lo più
in quelli che
la ostentano, un
sentimento segreto d'amor
proprio od anche
d'orgoglio ch'ella si
sforza di reprmiere,
desiderando che le
si sappia grado
della sua vittoria.
prego, sarebbe la
nostra se volessimo
privar le »
genti della facoltà
di dare il
proprio giudizio »
sopra di noi
? Perchè vorremo
noi essere niae-^
» stri a
tutti coloro i
quali ci ascoltano,
e coniandare ad
ognuno che a
nostro modo favelli
? E se
per avventura V
intendessero altrimenti da
» quello che
andiamo noi vociferando
di noi me»
desimi, che sarebbe
allora ? Le
nostre voci si
» rimarrebbero offuscate
nelP immensa furia
delle » contrarie,
e noi verremmo
giudicati senza cervello.
Quanto è a me, così
penso e tengo
per » fermo,
che farà sempre
inutile opera colui
il » quale
a dispetto di
mare e di
vento vorrà essere
» d'assai con
la sola forza
delle sue ciance.
» r Giusta
gli esposti principii,
l'uso ha introdotto
nel conversare socievole
certi modi di
dire che, lungi
dal dare segno
di confidenza eccessiva
nel nostro giudizio,
lasciano scorgere dubbio
e diflldenzà. Franklin
ci dice che
conservò T abitudine
di non impiegare
giammai nelle quistioni
controverse le parole certamente,
sicuramente^ indubitatamente^
od altre
simili che il
dimostrassero irremovibile
nella sua opinione.
Io diceva piuttosto,
egli soggiunge i
fo credo^ io
suppongOy a me
pare che la
cosa sia così,
per tate a
tale ragione: ovvero la
cosa è così,
se non m'inganno.
Prima di Franklin,
aveva detto Monsignor
Della Casa :
« Bisogna che
tu ti avvezzi
ad usare le
parole gentili e
rao » deste,
e dolci sì,
che ninno amaro
sapore abbiano* e
in» nanzi dirai
: Io non
seppi dire, che
Voi non m' intendete,
j» e Pensiamo
un poco, se
così è, come
noi diciamo; pint:
» tosto che
dire: Voi errate,
o E' non vero,
o Voi non la
Poiché gli scopi
della conversazione sono
d'iVr^struirsi o d'istruire
gli altri, di
piacere o di
per» siiadere, è
cosa desiderabile che
gli uomini in-»
telligenti e ben
intenzionati non diminuiscano
n^vjl potere che
hanno d'essere utili,
affettando » d'esprimersi
in modo positivo'^
presuntuoso che »
vi|i9n lascia di
spiacere a quelli
che ascoltano,, e »
non è proprio
che ad eccitare
delle opposizioni' »
e prevenire gli
effetti pe' quali fu
concesso al . uomo Jl.s dono
della favella/, «tr
r « Se
volete istruire, ricordatevi
che un tono
af^, fejrmativo ^fidogmatico,
proponendo la vostra
-Ili sapete; perciocché
cortese é amabile
usanza è lo
Incolpare M altrui,
eziandio in quello
che tù intendi
d'incolpaclo;^ anzi<^ »
si dee far
comune Terrore proprio
dell' amico, prenderne prima una
parte per sè, e
poi biasimarlo e
ripren i> derlo. Noi errammo
la via :
e Noi non ci
. ricordammo À
ieri di così
fare* ^ome che
lo smemorato sia
pur colui A
solo e non
tu : e
quello che Restatone
disse ai suoi
com » pagni non
istette bene: « Foij
se
le vostre parole
moìi men' M
lono n; perché
non si deve
recare ili dubbio
la fede al »>
tmi: anzi, se
alcuno U promise
alcuna cosa/e non
tela » attende,
non istà bene
che tu dica:
Voi mi mancaste
della •) vostra
fede; salvo se
tu non fossi
costretto da alcuna
necessiti, p«r salvezza
del tuo onore,
a così dire
: ma se
n egli ti
avrà ingannato, dirai
: Voi non
vi ricordaste di
così fare :
e se egli
non se ne
ricordò, dirai piuttosto
: Voi non » poteste;
o Non vi
ritornò a mente;
che Voi dimenUcastc,
» o Voi
non vi curaste
d'attenermi la promessa:
perciocché » queste
sì fatte parole
hanno alcuna puntura
e alcun ve »
neno di doglianza
e di villania;
sicché coloro che
costu » mano di
spesse volte dire
colali motU, sono
ripulaU per » sone
aspre e ruvide;
e cosi é
fuggito il loro
consorzio M conie
si fugge di
rimescolarsi Ira' pruni
e tra' triboli.
S6ft » proposizione
^ è sempre
causa per cui
si cerca di
eontraddìpvi'^ e p«r
non si^ aicoltato
1» con attenzione.
Da un altro
Iato se, desiderando
» d'essere istruito,
e di profittare
delle coignizteiii »
«degli altri ^
toì ti esprimete
eooie pensona for<)>
temente ostinata nei
suo modo di
pensare, gli 9
MouNAt modesti e
sensibiii che nm
amane la H
disputa, vi lasceranno
tranquillamente in pos»
sesso de' vostri errori.
Seguenda un metodo
or-» y> goglioso,
raire volt» potete
speme, di piaeefs
af » vostri
uditori, di conciliarvi
la loro benevolenza,
» e di
convincer quelli cui
voi eravate vago
di £a9 »
aggradire i vostri
pensieri La ragione
non lia giammai
maggiore impero che
quaodo alla si
presenta non come
una legge che
si deve seguire,
ma come un'opinione
che può meritare
d'essere esaminata; perciò
ne' crocchi di
Filadelfia pagavasi un'ammenda
tutte le volte
die facciasi uso
d'un' espressione decisiva.e
dogmatica. Gli liQmini
piià intrepidi' nella
loro c^rtsasa 4^rano
obbligati d'impiegare le
formole del dubbio,
e prendere nel loro
linguaggio l'abitudine della
modestia^ la quale,
quand'anclie s*|uerestasse alle
sete parole, L*
abate Polignae sapava
presedtave le ime
Idee i^a aria
sì modesta e
gentile, clieil Pontefice
Alessandro VIU gli
diceva: Voi sembrate
sempre essere del
mio parerei ma
alla line de'
conti é sempre
il vostro che
prevale. Luigi XIV,
dopo d*avere ascoltato
U suddetto abate
sulla ìiegoziazkme Intrapresa
à Boma per
le celebri proposiztoid
idei clero Oallleano,
disse : R!l
sono Inlratlenuto con un nomo,
e glovìre uomo,
U quale mi
ha sempre controddetUi
c mi e
smifte piaciuto, /
ai* uno xiMa
^ * avrebbe
già il vantaggio
di non offendere
1' altrui amor
proj^io, ma che^
per rinfluenza delle
i^aaroie MHe idee
y ém fiiialMefite
etftfindent 4mU6 fltetse
opkìioai..Ii6 pmone gemili
sapendo die ralttni
wiità soffre allorché
si vede convinta,
sogliono terminare la
contesa con una
lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo icrtet»
dall'oppoeisimd, eh0 Ellero offendere il
loro antagoniata,. che
non si, vantano 4Mla
vktona».C&a^imazi(me
dello stésso argomento.
Siccome T ombra
sola della pretensione
offende Faltmi amor
proprio, perciò i
titoli di vano,
suIUrbò, anrogantef tallita
si regalane a
tollo^ a torto
si dichiarano offensive
le giuste ragioni
con cai l'Qinocenza
e il nierito
rivendicano i loro. diritti. Costretto
non di rado
Tuomo grande ad
imporre silenzio air
orgoglio soperchialore, £a
conoscere dè di* egli
è, sbalza nella
tua possa e
torreggia dinanzi alla
mediocrità impertinente che
vorrebbe avvilirlo. a
Di modestia »
Tempo or non
è, voce d*oner
n'appella. » Infatti
la vera modestia
è eome la
vera bravura, ÌJ
quale non oltraggia
giammai, ma sa
rispingere gli oltraggi
y fuorché quelli
che. li fa
non sia vile
à segno da
non meritare che
disprezzo. Chi avrebbe
potuto tacciare d'arroganza
Cicerone, allorché, totnato
dall'esilio, pregiavasi d'avere
salvato gli Dei
del Campidoglio, il Senato dalla
vendetta di CATILINA,
il popolo dal
giogo e dalla
schiavitù ? Non
era egli giusto
che mostrasse a'suoi
nemici il suo
Dome cancellato, i
suoi, monumenti distrutti,
la, sua casa
demolita, e c6l
peso della sua
gloria gli opprimesse?
I^aseiando da. banda
il caso assai
rara di CICERONE Cice«ronC)
e consultando la
giornaliera esperienza, vedremo
che ì^Uoìtdi.. l'esternare
giusto sprezzo per
gUr aUH e
giusta sHtim pctsé^
è gittstij^ato, ^alr altrui insolenza. Gbe cesa
dite di quelH
ohe scrivono la
propria vita? Il severo
Tacito non ha
osato fare rimprovero
a parecchi' famosi
ingegni dell' antichità,
che le loro
gesta pubblicarono, non
per ostentazione e
Un prelato cortigiano,
il cui merito
consisteva ne'suoi avi,
ccedevasi disonorato vedendo
in Flechier un
confratello, che Dio
aveva fatto eIoqu$inte,
caritatevole, virtuoso, ma
non gentiluomo :
egli era ^sorpreso
che Fléchier fosse
passato dalla bottega
de* snoi paventi
affa ^e tescovfle,
ed èMie r
impertinenza di dirglielo
: Con questo
modo di jwmare^
rispose il vescovo di
Nìmes, temo assai
che se voi
foste nolo f
ai posto m
cui io aono^
rum ne feski
disceso far delle
eandéU» Anche H
«lareseiallò de la
Feuììtàde, tanto più
soper cliialore con quelli
che credeva inferiori
a sè, quanto
più era vile
alla Corte, disse
al sullodato Flechier,
eh' egli non'
era a' suoi
ocelli che un
meschino borgliigilino di
Nimes, e SQg^nset
Gmmdt» ehs vostro
padre sarebbe 6m
sér^ preso nei
vedérvi dà che
voi siete. Forse
men sorpreso che
non vi sembra^
rispose il prelato,
giacché non il
figlio di mio
padre^ ma io^
fui fatto vescovo.
— Il diritto
di difesa giustificava
questa risposta; poiché l'
alta opinione che
U buon vescovo
mctetiava di sè,
oltre d' essere fondata
sul veiO} ten«
deva a reprimere
un ioigjusto 8pcegio« arroganza ma p«r quella tonfideasa
the .la 'pvobità
inspira. Alfieri che ci
ha lasciato. la sua
vita confessa candidamente
che il parlare
e molto più
lo scrivere ^.^i
se sl^esso nasce
da molto amor,
di se stessa. '^ìkipo questa
ingenua confessione rautece
giustifica * la
sua condotta nel
modo seguènte: '^-Avendo
ia oramai scritto
naolto, e troppo
pià forse che
non avrei dovuto
^ è cosa
assai nàturate che
alcuni di quei
pochi a chi
non saranno dispiaciute
le mie Opere
( ée non tra' miei
con^, » temporanei,
tra quelli almeno
che vivran dopo
), avranno qualche
curiosità di sapere
qlial i<^ mi
» fossi. Io
ben posso ciò
credere, senza neppor
» troppo lusingarmi,
poiché di ogni
altro autore 1»
andie minimo quanto
ad valore, ma
voluofiinoso quanto alle
opere, si vede
ogni giorno e
serin ver^^e leggere^
q vendere almeno
la vita. Ondo^
quand'anche nessun' altra ragione
Vf fosse ^ è )».jQ^^pur
sempre che, morto
io, un qualche
» lyÉsJo peir
càyaore alcuni più
soidi da una
nuova edizione delie
mie opere, ci
farà premettere una
» qualunque mia
vita» £ quella
verrà verisimil<* »
mente scritta da
uno che non
mi aveva o
niente » 0
mal conosciuto, che
avrà radunato le
materie » di
essa da fonti o dubbi
o parziali; onde
codesta vita per
certo verrà ad
essere, se non
» altro, alquanto
meno verace di
quella che possa
dare io «team;
E ciò tanto
più, perchè lo
scrit« » t<(^
a soldo dell'editore
suol sempre fare
uno »|,smto panegirico
dell'autore che si
ristampa^ sti^ »
mando amendue di
dare così pià
ampio snriercio »
alla loro comune
m^canzia.; L'illustre Alfieri adunque,
a ragione persuaso
che il suo
iiome sarebbe grande
^ucbè restasse scintilla
di;gusto sul nostro
globo ^ scrisse
la sua vita,
acciò Aa stolta
e mercantile adulazione
non venisse presantata
ai postai sotto
falso aspato. '
Questa difesa è
modesta nel tempo
stesso e sa«
gace. L' auto re
avrebbe dovuto aggiungere
« che anche
lo spirit o
psfrtitp s'accinge spesso
a scrivere delle vite
o de'romanzi, e
di censure è
largo o di
lodi ugualmente contrarie
al vero. Ossian, dice
Cesarotti, non ha
difBcoItà di far
Assentire la goista
estimazione ch'ei possedeva
V presso la
sua nazione. L'uomo
grande è sincero;
» parla di
se stesso come
degli altri, ed
è giusto 3»
Ugualmente con tutti.
La decenza moderna
è È compftrsaìn
Franeia ima cosi
delU SiUtoteca de gli
uomini viventi ecc.
GU ignoti autori
di questa miserabile rapsodìa mettono
i vivi nel
sepolcro, contaoo i
morti tra i vivi, di
più individui ne
fanno un solo,
squartano un Individuo
10 tre, C8nd>iano
U medica in
«rrocato^ lo stampatore in
consigliere, ll^canieiioe in
arlecchino: raccontano fatti
che l' opinione locale
smentisce, citano libri
di cui non
conoscono il frontispizio,
alterano le date
per creare odiosità od
affezione, censurano quelli
che non li
pagano, vendono le lodi
a tre centesimi
per jMigina, gindicano
^ af-* lui
coir acume della
stupidezza, parlano degH
uomini come ne
parlerebbe un Ourangoulangh, ecc.
ecc. : speculazione
libraria che né dà,
ne toglie riputazione,
perchè nissuno guarentisce nè i
fatti, né i
giudizii, ma che
può far ridere
sinceramente le persóne di
éenno, giacché le
persone di senno
hanno diritto di
ridere, quando veggono
lin' impòsta «icfAi
credulità^ sidV invidia e
tuUo $pitii0 di
fmrUio ^ affezioni
tanto più pronte
a pagare quanto
più. goffe son le
menzogne die lor
$i vendono» molto
schizzinosa su questo
punto: gli uomini,
» non osando
lodarsi in pubblico,
si adulano più
» liberamente in
segreto, e sì
credono in diritto
» di risarcirsi
della loro Onta
modestia col detrarre'
» alla fama
degli altri. Così
non abbiamo guada-*
» gnato che
virtù apparenti e
vizi reali. »
Eccettuati i casi
di difesa accennati
di sopra,' a
me pare che
il giudizio di
Cesarotti dia in
falso; giacché chi
vanta i proprii
meriti, in vece
di far^ parlare
gli altri a
suo favore, li
fa tacere; In
vece di farsi
degli ammiratori, si
fa de'nemici; quindi
il dignitoso silenzio
della modestia sarà
sempre preferibile: II merito
più grande è
il più modesto. Se
facesse d'uopo confermare
questa idea popolare
con autorità, sceglierei
tra gli antichi CATONE, il
quale, a detta
di SALLUSTIO, faceva
grandi cose senza
menarne rumore, e
avrebbe potuto dire
: a Cedo
a tutti in
parole, a nullo
in fatti. Tra
i moderni v'
additerei il poeta
Despréaux, il quale,
eccitato da un
incisore a far
qualche verso pel
suo ritratto :
Io non sono
sì malaccorto, rispose,
da dir bene
di me, nè
sì stolto da dirne male.
§ 6. Rispetto
ai pregiudizi. I
giovani non conoscendo
ancora per esperienza
quante passioni vegliano
alla conservazione degli
errori, ignorando che
tra gli errori
v' è una
fortissima lega, e tale
che scotendone uno,
gli altri si
risentono e CQjrrono
in difesa: i
giovani, dissi, si
danno a credere
che ogni verità
potssa essere, sRa- presenza
di chiunque proclamata,
e fanno le
maraviglie se più
ostacoli le si
oppongono. Come inafi
ha (iNDlnto il
sensate Bandi riguardare
il rispetto ai
pregiudizi come un
legame inventato dai
eapriccio e dalla
moda? Se qualcuno,
entrato in una
moschea zeppa di
adoratori di Maometto,
grl-> classe ad altissinia
voce che Maometto
era un impostorcr
credete voi. che
farebbe HK>lti proseliti,
e che non
verreUe in pezzi
dagli astanti? Ma
senza anco voler
calcolare i danni
cui si espone
ehi spaccia una
verità imprudente, fa
d'uopo con-f venire
che, offendendo i
pregiudizi contrarii, non
le rende più
agevole la strada^
ma più scabrosa.
Ella è infatti
cosa difficilissima il
convincere un' uomo
dopo che abbiamo
offeso ilsuo an^or proprio, '
Se il -sole, dice
d'Alembert, ^lene ad
illuminare in un
istante gli abitanti
d'una caverna oscura,
e dardeggia impetuosamente i suoi raggi
&m loro occhi
non anco disposti
e preparati, e
quindi gli irrita
soverchiamente, renderà loro
per sempre odioso
lo splendore dei
giorno, di cui
non conoscono ancora i
vantaggi, mentre sentono
il dolore che
loro cagiona. Se
ai contrario introducesi
in questa inverna
un debole raggio
che per insensibili gradi vada
crescendo, si riuscirà
a dimostrare il
pregio della luce,
e gli abitanti
stessi ne branieranno
l'aumento. Per la
medesima ragione conviene rattemprare la
luce dei vero,
ed aspettare che
rintelletto a poco
a poco si
sciolga dalle false
idee che l'ingombrano,
divenga gradatamente più
forte. I s' abitui
e s' addomestichi cpl
nuovo ospite f^he
non conosceva per
anco. Pretendere che tutti
gli intelletti ammettano
tosto le stesse
verità, è pretendere
che tutti gli
stomachi digeriscano egualmente
le stesse vivande.
La pulitezza vi
fa dunque un
dovere di conoscere il
carattere personale e
la situazione sociale
delle persone che al solito
crocchio concorrono, acciò
le vostre idee
ed affezioni non
vadano a dar di cozzo
contro quelle degli
astanti, e con
reciproco risentimento
rimbalzino. F'élo alle
antipatie. Lo sprezzo
che merita la
vile adulazione ha in-, dotto
a fare distinto
elogio della franchezza,
e come virtù
assoluta raccomandarla. La
massima di velare
le proprie antipatie,
come quella di
rispettare i pregiudizi,
è stata riguardata
qual legame inventato
dal capriccio e
dalla moda da
più scrittori. Si
dice che dassì
prova d'integrità allorché
la lingua ed
il cuore essendo
d'accordo, le parole
rappresentano i sentimenti.
Ciascuno per altro
s' accorge, o
sente almeno confusamente,
che se merita
sprezzo un cortigiano
che ci protesta
stima, affezione, amicizia,
mentre nell'interno dell'
animo egli si
ride di noi,
merita disprezzo maggiore
un cinico, che
senza necessità viene
a dirci: Io
v'abbomino e vi
detesto. Dunque tra la
menzognera adulazione e
la frani chezza
eccessiva vi debb'essere
un mezzo. La necessità
di questo mezzo
è dimostrata da
tre ragioni. f
i. L'amor proprio
di ciascuno, costantemente
avido di farsi
degli amici e
degli ammiratori, agevolmente
lusingasi di ritrovarne
dappertutto, e sente
in lui sorgere
e crescere il
dispiacere in ragione delle
persone da cui
si vede sprezzato.
Il dispiacere risultante
dallo sprezzo è
copiosa fonte d'antipatie,
animosità, odii, e
perciò di gravissimi danni sociali.-Noi
c'inganniamo sovente nell'opinione
che concepiamo degli
altri, e più
volte siamo costretti
a ritrattarla V
senza riuscir sempre
a giudicare più
sanamente. Laonde quando alcuno,
giusta l'interno suo
sentimento, dice ad un
altro, Vi sprezzo,
è sempre certo
che gli cagiona
un dolore, non
è sempre^ certo
se colpisce nel
vero, -^y, Ora,
escluso il caso
di necessità, fa
d'uopo essere 0
crudele ò pazzo
per cagionare ad
altri un dolore'
che ppò essere
ingiusto, e farci
un nemico che
può riuscirci funesto. ^i^V'-Alcuni dicono:
Da un lato
v' è sèmpre piacére
neir esprimere i sentimenti quali
nascono nel nostro animo,
mentre si prova
pena nel reprimerli;
dall'altro noi non
abbiamo bisogno di
nessuno*f^i Di questo
raziocinio la prima
parte è sempre
vera, ma la
seconda è sempre
falsa, finché re^*
stiamo nella società.
Voi non avete
bisogno di Pietro,
e forse senza
danno presente o
futuro potete dirgli :
Ti disprezzo; ma
la faccenda non
va così con
tutti gli altri
uomini. £ntrate in
una CONVERSAZIONE con quella
franchezza encomiata da
alcuni scrittori, e
presentandovi
successivamente a ciascuno,
dite a questo
: Voi pretendete
di piacere a
tutti, e tutti
si ridono di voi; —
a quello :
Voi siete sì
sciocco che m'eccitate compassione;
— a un
terzo : Non
saprei dirvi il
motivo, ma sento
ars avversiófte Contro
di voi, ecc.
Se voi così
operate^ 'mi par
certo che tutti
s'alzeranno per cacciarvi'
fuori della conversazione
a ceffate; e
vi succederà lo
stesso in tutte
le altré. ^^'o^mii
' La franchezza non
consfete nell' offendere
inu^ tilmente l'altrui
amor proprio, ma
nel difendere con
coraggio i dirìtti
deWinnanità contro r
orgoglio che li
calpesta^ e nel
convenire de'prqpri difetti
ed emendarsene. ' •/ ^,»iliisidu6m;2 In
vece dunque di
dire al giovine
: Alza il
vélo che copre
il tuo animo
e mostra a
tutti Podio/ lo
sprezzo, la noia,
il dispiacére che
in te producono le
loro debolezze e
i loro difetti;
gli dirò piuttosto
:; Jpl^; Uflf' lato
sii pronto a
compatire le loro
debolezze, dall'altro non
crederti infallibile j
ne'juoi giudizi. L'uomo
franco può conservare.
il j suo
sentimento senza offendere
l'altrui amor prò
=5 prio; non
si deve offendere
l'altrui amor proprio
se non in
vista d'un vantaggio
maggiore, come nònr
si taglia una
gamba se non
per salvare la
vita. Mi spiegherò meglio con
un esempio: ^ Uno
de'confratelli di Guettard
lo ringraziava un
giorno perchè questi
gli aveva dato
il suo voto
4 allorché quegli
fu accettato membro
dell'accadenriia delle scienze,
roi non mi
dovete nulla, risponde
il botanico : s'io
non avessi creduto
che era giusto
it darvelo ^
non r avreste
avuto ^ giacché
io non v'
amo. Questa risposta, benché
lodata da Condorcet
mi sembra riprensibile,
perchè gratuitamente offensiva.
Per quale motivo
cagionare un disgusto
e dire, non
v'amo^ a chi
viene a protestarvi
un sentimento di
riconoscenza.^ Se Guettard. avesse,SW' d(^V
Nèl^ire tt 'mi§^i^
te eoasultù te
giùsUzìa e niente
altro; non ringraziate
ddnqiié me^. ina
voi stessè, giicebè
se nra avessi
creduto cto lo meritaste^ ndw
?ir«fcMè »v«to;<catìh riq^^mileaddi^ Gtiettard
sarebbe stato^^ franco
senza essere offeasiw
é «liand. L'abAté
S. ae«l (Aragofift*
la indotta 4egH4t9^
mini nel mondo
a quella de' ciechi
in uiìà casa*
vàs|sì è ^nregoiare
: rj^^iH^^ I
più sensati a
tentone. Quelita
irregolarità di condotta
non succede per
Tapplicarle. Non uscendo
dai limiti deirargomento
che jdiscitto^ dirò aduncfue,
che in mezzo
a tanti earattefi
diversi, tr«*te-vtóc pMftéser^Ue
^pasaitini^* neK'aod^giQjnento costante
de' gusti e de’
pareri, tiatf 'si eMre
'pericoiè di sbaglio,
«dlforicbè attenlèiidòsi allo
scopo della conversazione^ che
è il rfi*
^rtimento, si ha
riguarda alla vanità
di tia^ scuìw, che talvolta
è-il prineifmte\08tàiiUù^ fatti, se; nelle botteglie
predomina l'interesse, nelle
cooversaÈtoni prevale la
vanità, e I
bkdgtii -deila vanità sono
anteriori al bisogno
di trastullarsi. La vanità
è più o
meno maneggiaste secondo
iindole delle altre
qualità eiA f&
trova uffitt; Mvl^
viene dunque, tener queste
presenti al pensiero
per rttrovkre i
bieztl onde adescai
qaè)la { o
dmetio iVon irritarla.
Vanità e ignoranza.
AUorisliè la vanità
è Hìnalgamatà coH'ignoranza, apre
foreccbio aHé più
sciocche menzogne, e
delle più improbabili
illusioni si pasce.
L'uomo vano ed
ignorante, per es.,
gongola di piacere
alle Iodi che
voi date al
suo eappello, alla
sua giubba, al
suo abito,: mentre
un uomo di
spirito ne rimane
offeso. . f^anità e
riflessione. In questa
combinazione le lodi
impudenti, anche desiderandole
per altri fini, dispiacciono: i Romani non
sapevano come contenersi
con Tiberio, il
quale non voleva
la li; berta
e odiava la
schiavitù. A Traiano
éfie aveva Io
spirito sodo, non
andavano a sangue
le basse maniere
e servili che
usava seco lui
Adriano. Carlo» ^.V
disse ad un
adulatore: IVF accorgo
che pensate a
me ne' vostri
sogni.,3. Fanità e viisantropia.
In questa combina .'zlone la
vanità è sì
schizzinosa e bizzarra,
che una |
lode, benché veridica,
e ravvolta in
gentile scorzi V
la offende, amando
essa meglio essere
contradidetta che encomiata.
Infatti egli è
un mezzo quasi
infaUibile per conciliarsi
l'animo del misantropo
il somministrargli occasioni di
esercitare la sua
bile contro quanto
succede, e procurarsi
così una specie
^di celebrità, essendo
ohe nessuno maltratta
il genere umano se
non per occupare
di se stesso
il genere umano.
4. Fanità e
sesso debole. Benché
le lodi alla
bellezza non siano
vere lodi, ciò
non ostante suonano piacevolmente all'orecchio
delle donne comuni, ed
anche degli uomini.
Osley, famoso mendicante a
Londra, fece fortuna
servendosi del se-,guente
stratagemma. Quando era
permesso di mendicare in
Inghilterra, egli si
appostava ove era
maggiore la concorrenza
delle persone di
buon tuono; e
allorché vedeva delle
donne eleganti, cercava
loro la limosina.
Se esse gliela
ricusavano, Madama, diceva
egli all' una,
In nome di
questi begli occhi
neri; all'altra, In
nome di questa
bella capellatura; a
quella, In nome
di questo bel
taglio incantatore; a
questa, In nome
di que' labbri di
rosa; finalmente venivano
le gambe divine,
i piedi leggiadrt,
il portamento da
regina: nulla era
dimenticato : ed egli
andava a casa
colla borsa piena.,
inanità combinata con
qualunque sorta di
carattere. La qualità più
costante della vanità
in qualunque combinazione
di cose, o
sia considerata nell'uomo
in generale, si
è il piacere
crescente in ragione
delle persone che
parlano di lui
senza svantaggio. Un
principio d'involontaria allegrezza
scorgerete sul volto
di chiunque, appena
gli dite che
avete fatta menzione
di lui in
tale conversazione; che
Pietro ne ha
parlato in tal
altra, ecc. È
successo un piccolo
urto nell'amor proprio
di due famiglie,
il cui rumore
non è giunto
alla fine della
contrada? Gli individui
di esse vi
diranno che ne
ha parlato tutta
la città; e
se voi mostrate qualche dubbio ivyi^ si dimanderà se
siete caduto dalle nubi:
tanto è vero
che là brama
d' essere r oggetto
degli altrui pensieri
c' induce a
credere d'esserlo realmente,
e la supposta
esistenza nell'ai: trui
opinione è centupla
dell' esistenza reale
: in somma
gli uomini in
generale somigliano quel
miserabile principe dominante
sulle coste della
Guinea, il quale
seduto a' piedi
d' un albero, avente
per trono una
grossa pietra, per
guardie quattro ISegri
armati di picche
dì legno, diceva
ad alcuni francesi :
Si parla molto
di me in
Francia? Atteso questa
forza estensiva della
vanità, ciascuno, spesso
di buona fede^
rappresenta la sua
opinione^ privata comè
opinione pubblica, di
modo che nel
^progresso del discorso
vengon affibbiate al
pubblico cinque o sei
opinioni talvolta contraddittorie sullo
stesso argomento. Conoscendo
le principali combinazioni
della va;ìiità, e
i prodotti sentimentali
che i^'e risultano
> saprà il
giovine adescarla con
garbo senza compromettere la dignità
dell'uomo; ritroverà il
limite che separa
la dissimulazione dalla
simulazione, e idalla
vile falsità si
terrà lungi ugualmente
che ridalla sincerità
gratuitamente offensiva. Dapprima,
in vece di
mostrarsi stupido e
silenzioso alla vista dell'altrui
nierito,, il giovine
ne sar \
pronto encomiatore, esternando
gradi di sti?nu
proporzionati alle qualità
utili e lodevoli,
associando alla stima gradi
di rispetto, se
di particolari virtù si
tratti e di
grandezza d'animo; in
tulli i casi
egli procurerà che
il sentimento rappresentato da' suol atti
e dalle sue
parole s'avvicini ìi
quello che gli
altri vogliono ritrovare
in lui, non
dimenticando che quando
sì tratta di
riguardi; e men
male peccar per
eccesso che per
difetto. Sta dunque
attento nel passar
del guado, ^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli, Da cui
scampano pochi, o almen
di rado. »
ft ben che
in questo mar
la nave sciogliCol
rischio a destra
ed a sinistra,
ancora :^ »
Salvar ti puoi,
se il mio
consiglio accogli. .
Va per la
via di mezzo,
e se pur
fuora ^.;»vDel relto
calle fantasia li
mena, .» AH
pilo, e non al basso
tien la prora.
» ' d'avvilirsi^
isostràndosi indulgente alle
umane de^lez29e, aUoìr«][iè
nmaa dmm ne
risulta^* EUa^Mftì isdegna
A tendere agli
altri tachè dì
più di quel,c^e
hanno diritto d'esìgere,
sapendo ejie nel
com* smercia < deUa
vita cU ai ostinàsae^
a coVmmr^ gli
uonuni nel loro
vero posto, correrebbe
pericob di ppjRsi
ia coi^esa eoja
tutti. >Le aote
anima ficoole^ jpqttìtfe aidle iaM pretemttoi, speaae^
sospette jti guardando come furto
fatto a se
stesse lutto ciò
(^p c(NM«doiif^ figli
aitai > Ungotìé
goolàùiaf^^ là tfiiancia
in mano per
pesare a rigore
ciò che 4«!^oiiq|
fat^f^iiidaie o musare:
é sg^s^ sotto
pr^ testo di
non degradarai, si
im»lmiio*iiliiv^tlaeif|i .(^io^Q usfmli
eà inferiori. I Lacedemoni,
che- neri peccavano per
eccesso di bassezza,
hanno lasciato un
beli' esempio dell'
indulgenza che si
debba alla follìa
de' grandi. 41e^s^^o
piccolis^iiaio, qMlido péélèadava
drenare figUo 4i
Giove, e JHo
egli stessè, ^ireeheper
Melo rieooosotaeiDo tutti
gU 8ta(l.éella Grecia
: in occasione
dì queste pretensioni
i Lacedemoni fecero il
«eguente decreto, veramente
laconico ~ Poiché
AlessaneÉto vuol essere
Dio che lo
sia. ' .
Attai meao ladolgeiito
si moslflò FilosseiMr
een Dioiiigi fttotteo.
Questo ttasniio, peidiè
era vètf laceva
de*very, pre* tendeva
al vanto di
pòela. Ef^li prff^ò
un giorno Filoss^ne
a correggere una
sua opera teatrale;
e questi, avendola
rappezzata e rifatta 4al
primo verso air^Himp,
il re lo
condannò alla lettere, ^acciò- fi Imipamse
a rispeltase ia
regia pc^la. li
giómò sussegnèiYte^ tra(toìòdi
cacGasKe,^K>'amiiiis8
alla sua mensa,
e liniio il
pranzo, dopo avergli
fettOfaleciDl versi, gli
domandò il suo
parere. Il ponila,
senza rispon iV?^ Raccomanderò
finalmente ai giovani
di non imitare la
vile e perfida
condotta di coloro
che lodano alcuni
collo scopo di
denigrarè altri. Ih
ciascuna carriera alcuni
personaggi distinti occupano gli
sguardi del pubblico
: cbe cosa
fa V invidia per
defraudarli ? Suscita
loro de'rivali, colma
di lode degli
imbecilli che appena
hanno il senso
comune, e si
sforza di ripeterne
i nomi, acciocché
il pubblico s'induca
ad occuparsi di
essi e dimen-,/tichi
i primii -^^Nel
corso della giornata
si riproducono ad
ogni vistante de'
casi, ne' quali
alla sola azioiie
d'innocente lode si
può ricorrere per
conseguire l'assenso di
alcune volontà, e
diminuire la resistenza
di altre; perciò
ad esercizio de'
giovani soggiungo i
seguenti problemi, ciascuno
de'quali ammette, col
dere, si rivolse
alle guardie e
disse loro: Riconducetemi
in ctarcere. ^f-^u
i Un uomo
^11 «pirilo nel
case di Fllossene
sarebbe uscito d’ impaccio
con una celia.
Infatti la condotta
di questo poeta
sarebbe ammirabile, se
si fosse trattalo
d'una cattiva legge
od alli-a operazione
daivàosa al pubblico;
ma scegliete jl
carcere pcrclié un
Uranno vuol essere
poeta, é paizrja. Maggiore imprudenza
commise rarchitelto Apollodoro,
il quale, sapendo
quanti l' imperatore Adriano
è avido dì lodi,
critica un di
lui tempio in modo
un po’ burlesco, osservando cbe se
gli Dei e
le Dee si
fossero alzale in
piedi, si sarebbero
rotta la testa
nel soffitto. Questo
scherzo gli costò
lii .vita. 11
quale fatto Ù
dice che i
coltivatori dozzinali delle belle
arti hanno una
vanità atraordinaria, superiore a
qualunque sentimento^ e
capace di sacrificoì'c
la slessa amicizia, mezzo della
lode, soluzioni indefinite
nelle varie circostanze
sociali. Disarmare la
collera. .Aureliano faceva rimprovero
a Zenobia, perchè non
aveva riconosciuto gl’imperatori
romani. La principessa lo
calma, dicendogli. Io riconosco
voi per imperatore,
voi che sapete
vìncere. Galieno e i
suoi pari non
mi sembravano degni
di questo nome. Addolcire l'amarezza
d'uri rifiuto. ( il gran
Condè, pregato dalle
dame di lasciarle
uscire da Vezel
ch'egli assediava, prevedendo
che Ja loro
uscita ritarderebbe la
resa della piazza,
rispose che non poteva
acconsentire ad una
dimanda che del
più bel frutto
del suo trionfo
lo prive, rebbe.,
Accrescere pregio ad
un favore. Luigi XIV
nominando al vescovato
di Lavaur Flechier,
che predicava alla
corte, gli dice:
Vi ho fatto
aspettare alcun poco
un posto che
meritavate da lungo
tempo, ma non
voleva privarmi così
presto del piacere
d'ascoltarvi. ) ' elare
il lato offensivo
d'una verità. (
Despréaux interrogato da
Luigi XIV sopra
alcuni versi da
lui composti: Sire,
rispose, nulla è
impossibile a Vostra
Maestà : ella
ha voluto fare
de' cattivi versi, e
vi è riuscita.
) Un soldato
francese si faceva
chiamare col nome
d| Turenne, celebre
maresciallo di Francia:
quesU mostrò d'esserne ofifèso: il
soldato rispose: Generale,
io sono invaso
dalla gloria de’nomi:
se ne avessi
conosciuto uno più
bello del vostro,
l' avrei preso. L'uso
della lode è
ragionevole finché, fondato
sul vero o
verisimile, è stimolo
o ricompensa ai
talenti, all'industria, alla
virtù. L'uso della
lode è riprensibile
quando o fondasi
sul falso, 0
di gran lunga
oltrepassa la misura
del merito encomiato,
e allora dicesì
adulazioìiél Vi sono
de'Iodatorì eterni, i
quali non vi
danno una lode
fuggiasca e dilicata,
ma vi inondano
e opprimono d'elogi;
e ciò per
ogni inezia, ad
ogni istante, alla
presenza di qualunque
persona; cosicché se
non rispingete le
loro lodi smodate, acquistate taccia di vanità ; e se le
rispingete, essi '.
le replicano con
usura, e per
così dire non
vi incensano, ma vi
danno il turibolo
nel naso. Tre
caratteri distinguono l'adulazione
dalla lode ragionevole 0
meritata: L'adulazione cambia
i vostri vizi
in virtù; ^
m||||( Ella vanta
in voi delle
qualità che non
avete; Ella innalza eccessivamente quelle
che avete; .Nel mentire
esperto, » Maestro
in adulare, egli
senz' onta V
Chiama faconda indotta
lingua, e bella
I » Schifosa
faccia; un sottil
collo e lungo
I )) Agguaglia
a quello d'Ercole,
che innalza I
. Di terra
Anteo; magnifica. una voce
» Stridula e
chioccia qual d'irato
gallo Che alla mogliera
sua morde la
cresta. L'adulatore adunque
È un
ipocrita che finge
&entimeoti c^^ptmru a
qutìlìi ohe cg^
ffi^U' animo; ^ Z
m vile «
Buffon, perpetao l^ioMM'
di eaptf «, die
trama ai cenni
del rìccOf e
Ib.ecQ ai detti
deUd persgy|;iefiu viziose
i % wó
soroccatore cl)e.)dà .menzogne
per fitleoi^rj; vantaggi
personali; É un
ladro che toglie
alla virtù r.eiicomio
ehe profonde al
vizio; £ un
infame che »
io^i^^i^te ali' onore
» non teme
il pubblico disprezzo;
L infamia delPadulazione cresce
in ragione della
pubblieU^ ddta aUe
lodi menzognere. Pera
colai che sa
malnati fogli «
Famelfto eerifter vende sue
lodi, » E
d'aura popolar Talme
rigonfia. » Sid
labbro a lai
le venenate tazze
» Vota menzogna,
e Favvilito incenso
» Onde frodonne
di virtù gli
altari, » La
lusinga vénal pria^nde
a Itti; »
Che col prestigio
d'un error che
piace 19 Cangia
il ?izio in
virtù, traiforma in
mmie » T»
Ignoranza, follia, viltade,
e mira »
Sorger Tersità emulator
d'Achille » E nn Sfida
infame in an
Traian rivolto. Allorché
Filippo di Macedonia
divenne guercio, il
cortigiano Clisofo usciva di
casa con un
empiastro sulF occbjo,
e si traeva
dietro una gamba
allorché il re
zoppicava per una
lecita. Sono arcìpochissimì quelli
che facciano sforzi
per acquistare le
qualità che loro
mancano allorché vengono
accertati che le
posseggono; e meno
sentono stimolila salire ad
alto grado di
gloria se quelli
che li circondano
dicono loro ad
ogni istante che
sono giunti alla
cima. Si può
asserir anco che
più personaggi potenti
non divennero tiranni
se non perchè
fu fatto lor
credere che tutto
era loro dovuto,
e che il
loro rango scusava
qualunque colpa potessero
commettere. Da un lato
essendo utile l'uso
moderato e ragionevole della lode,
dall' altro non
essendo difficile d'essere
tacciati d'adulazione, perciò
ricordecò la regola
dì Montaigne, il
quale, nel lodare
le virtù e
i pregi reali
de' suoi amici,
compiacevasi bensì d'esagerare
alcun poco, ma
limitavasi a cambiare
un piede in
un piede e
mezzo : secondo
Montaigne adunque il
rapporto tra il
merito e la
lode che possiamo
tributargli, non deve
oltrepassare il rapporto di
uno ad uno
e mezzo. Quindi pria
di profondere lodi
dobbiamo esaminare le qualità
delle ji^rsone; e
se ci accade
d'esserci per bontà o
generosità d'animo ingannati,
non essere restii
a ritrattarci. Squadra
ben ben Tuom
che commendi, ond'onta
» De' falli
altrui non ti
rifletta in viso,
w Diam talor
nella ragna, e
ottien l'indegno M
Da noi favor;
dunque la man
delusa « Sottrai
da chi va
di sua colpa
onusto. » Delicatezza animo. Si' dic0
delicato oa fiim
aUovcbè al ooniatto
' d'aurà un
po' pungente s'attrista,
e al raggio
meridiano piega ti capo
suUo stelo. Pèr
drantMre quanto è
dUiaiad r onora
dette donne, lo
parago;iiaDao a terso
cristallo, i, :A
debìl canna y
» Ch'ogn'aur9 mchina,
ogni respiro appanna
Si,ah)ai;pa animo dilicató
quello che alle
tnioime
seai^kKÌon|,m&raUj^iK^
od a vanjia^o
aly 4rui si
risente. \\. pi^Q
4^, essere bontà
d'animo senza de.
Rcatezzas ^ uoma
ìytiòno vi &rà
tosto il piae^
^ebcgli domandate :
un uomo dilicato
farà dì più;'
egli Vif risparmierà
la peqa 41
domandare,, e éa^rà
tenere segreto il
beneficio. Vi può
essere giustim Sj^nza^
delicatezza : un
uomo giusto difenderà
con calore i
vostri diritti nel consiglio: un uomo dilicato difenderà
anco le vostre convenien^, e s' affiretterà
a .spedirvi la
Booi^ del felice
enccesso. La delicatez^
d'animo è un
misto di speciali
qni^ità e'si manifesta
coi caratteri di
esse, ^esie.qualità sono
le seguenti. Finissima sensibilità.
1 generali Ateniesi
a ' Maratona,
ecc^itati dall'esempio d*ArÌ9tide,
cedettero intero a Milziade
quel comando che
gionialmmte^ed a vicenda
toccava a dascuno*
Milziade, acciò la
vittoria che lusingavasi
di conseguire non
fosse cagione di
rincrescimento a qualcuno
de'ge9erali, spinse la
delicatezza al segno
da non dare
la faiOtagli^ che
giorno ia cui
gli dpparlBomirjeoinandd. «iW^^h-T^
Cemdido disinteresse. Nelle
cose di.seasibite vitloree
boa hm^wYv^laà^fe^ kk^eosa
offerta e Ja
cosa (zccettata. serve
à misurare la'
delicatez;uhi [wgìio àir^
che è t^Qto
< aiaggMtr^ Jid
dftlieatez» quanto è
mifiore raccettazione a
fronW deirofi^rta^ Neirampiezza
del terreno che
i Mitll^nesi offerserb
a Pfttaco« loro
cooeittadiao» la ri^'
compensa'' averiò per
la repubblica acquistato,
non accetto egli
fuorché io spazio
che perocMrsa un dardo per
esso lanciato. E tra ta
iikunifiteàza de* doni
che il console
Postumio mise avanti
a Marzio per
ncojfj^seiaieiUo del sjao
vatoré, idtro non
volle il generoso
romano ch0 un
prigionièro col quale
ebbe comune l'albergo,
ed un eavallo
da guerra di
cui potesse natile -biittaglie ^sl^irvirsi. ÀU'opposto non
si vedé ombra
di ^éélloiieas net
ée^ guente fatto.
Il sopranlcnclente delle
finanze francesi BuUion,
nel ^640 fece
battere a Parigi
i primi luigi
che comparvero in
JPrancia; e avendo
invitato a pranzo
cinque nobilissinù •signori/
fecfe postare A
deueré .^6 badll'
pieni di i|uesle
wm, specie, e
diése loro di
pMnd^è quanto ne
VolévatfO; Clàacun signore
si gettò avidamente
sopra questo nuovo
fruito, ne riempì
le sue tasche
e fuggì colla
sua preda, senza
aspettar la sua
carrozza, di modo
che 11 soprantendente rideva
di cuore dell'imbarazzo che
ciascun signore mostràva
eànoninando. Io vece
di delioateàa qoà
vedAwM^ vmssimo' interesse^ e
liiffà y. IndiacSMzione, giacché
ciaseano, di cosa
non bisognevole, accetta
quanto gli viene
ofiferto e se
ne carica in
ragione della capacità
delle sue tasche.
V Ne' casi comuni
V indiscrezione cr^^e a
misura che è
ptà '^keoìù U
vafitaggiù chei'eonkBgue accettante
y^ejiiù grande it danno
che re$ta alt
offerente. Vo6ite fierezza. Il
tratto più hello
che somministri la 3to];i^-)re]^tijKaiiiaate airargpmeittP^ si
è il wgaeaté,
se la memprìa
noii m*in* gauna.
Roberto, duca di
Normandia, padre di
Gu^ gUelmo ll^^tmgttistatore ^
trovaadasi a Xgfitif|tìDQr
poli diretto per
Terra Santa, erft
eéldbre p# tt
fiv^cità del suo
spirito ^ per
la sua a£fai^iUtà
t, fi* WaMlÀ
sd altre 'vir^
L^jQipera|M)ré ^ ^ogHo
farne prova^ Io
invito co' suoi
nobili a pranzo
nella «graiijsàla del.palazz^
iniperial^i quindi^or^inò che
tutte lè^ tavd^v
é tutti gli
seaniii £MSerd':bQé^patt dagli
altri commensali pria
deU'ajr^iì^Q de* quali
prescrisse* clie nissunà
A prendlésse >
stero. Giunto >
il duca co'suoi
nobili, tutti riccar
m^te vestiti,; avendo
os^rvato che gli
scandi erano oecopati,
« die nissano
rispondeva alle sue
gen* . tilezze,
si diresse, senza
mostrare la minima
sorp^^. joè II
4iiniQiO turbamento., veysp
jl'una delle estremità
della sala che
rimaneva vuota, si
levò il mantello,
lo piegò con
bel garbo, lo
pose sul pa- imento
e vi si
assise sopra, nel
che fa imitato
dal suo seguito.
Pranzò in questa
posizione colle vivande
cl^e gli vennero
polite, dando segno
d^lla . più fèrfetta
soddis&zione. Finito ìi
pranzo, il iw»
e i suoljaobìli
s' alzarono, presero congedo
dalla ^mpagàrai nel moda più
grasìoso ed uaeiroao dalia sala
colle loro giubbe,
lasciando sul pavimento i
mantelli che erano
di gran valore.
L'imperatore che ^y^Va ammirato
b tòro condòtta,
fa sorpreso da
quest^^ul)imo tratto, e
spedì .upo de'
suoi còrtigìani.jal sappUcare
U dqcft iiA il sao.
se^ guito a
riprendere i loro
mantelli. Andate, a
dire al vostro
padrone, rispose il
duca, che i
]!>{ormannì non usano
portar via gli
scanni di cui si servirono
a pranzo. —
"Questo rifiuto era
delicato, nobile, convenevole
e fiero nel
tempo stesso.^ r*vi-Gentili
sorprese. Il czar
Pietro, che viaggiava in
Europa per istruirsi
nelle manifatture europee,
si fermò alcuni
giorni a Parigi,
e tra gli
altri stabilimenti visitò
quello della zecca.
Si coniarono molte monete
alla sua presenza:
una di queste
essendo caduta a'suoi
piedi, egli la
raccolse e vi
vide da un lato II
suo ritratto in busto, dalraltro
una faRia appoggiata
col piede sul
globo, e questa
leggenda : Fires
acquirit eundo^ felice
alIasione ai viaggi
ed alla gloria
di Pietro il
Grande.; D( queste monete
ne furono presentate
a lui ed
'alla sua comitiva.
Il czar non
potè ritenersi dal
dire : I
soli francesi sono
capaci di simili
gentilezze (o.;2'!!C
-^..rT.'^'' Dopo d'avere
adombrati i quattro
principali elementi che
caratterizzano la delicatezza
dell’animo, passiamo ad
osservarne' qualche combinazione.
Lo spirito vivace e
la pronta sensibilità
di questa nazione rendono l’uso delle
sorprese gentili men
raro che altrove, anche nelle
basse classi sociali.
Dopo la battaglia
della Marsalte, vinta
da CaUnat, egli
passò la notte
sotto la sua
tenda alla testa
delle truppe» Trovavasi
egli in mezzo
alla gendarmerìa e
dormiva inviluppato nel
suo mantello. I
gendarmi, che avevan presi
ai nemici 28
stendardi, immaginarono di
circondarlo di quesU
trofei: gli altri
reggimenti portarono essi
pure gli stendardi
conquistali. 11 giorno
comparisce: Catinai si
sveglia circondato dai
trofei della sua
vittoria, e salutato
dalie acclamazioni dell' esercito. V%Mm
Waniniù diHcata sa
mggeHrìs de* vtm*
sigli senza mortificare
V altrui vanità y
ad imitew zione
di Livia, la
quale gettava, per
così dire, a
e^w nella convèrsazione
delle fdee trtlK
ad Aogostò senza
che egli s'accorgesse
ch'ella aveva più
spirito di lui.
. Non suole
offrire alta per
rinfacciare penuria^ contento
di mostrare la
sua disposizione a
chi volesse approfUtqme*
Nelle poe«e d'Ossian^
mentre Gaulo viene
circondato da Svarano,
Fingal s'alza ma
non si dà
fretta d'accorrere; egli
non vude rapire
a Gaulo l'onore
di rimettersi e
liberarsi dal nemico;
troppa sollecitudine sarebbe
stata un' offesa alfa
sua gelosa delicatézza
su* questo pùnto.
' Egli sa
coprire il soccorso
con qualche p7 etesto
plausibite^ e all'idea
sì mortificante della
Kmosìnà sostituisce quella
d'un credito, d' un
compenso, d'un'
indennizzazione, d'un onorario. Eccone alcani
esempi: Un sigDoi»! per
mr 'eampd di
benefleare un aVvooatò
miserabfle, ed aUonlanare
dal suo animo
l'idea umiliante del
soccorjK), lo consultava
$opra cause immagiaarie,
e pagava largamente
i consulti. AJCcesUao
visitando il suo
amico Ctesibio ammalato,
e vista la
sua Indigenza, trovò
modo di cacciargli
destramente sotto II
capeuftle U denarb
che abbisognavagll. l
signor Dubois all'
epoca del terrorismo
in Francia, essendo
stato destituito dalia
sua carica e
rinchiuso in pri^one,
il botanico (^ll^ei^t
portò ciascun mese,
e finché durò
Uk detenzione,. alla fl^posa
dell' amico detenuto^
la metà del
proprio onocario, acclorcb',
ella non sospettasse
la destituzione del marito,
e non iscoigesse
tutto il pericolo
cui rimaneva esposto.
Facendo de' benefica, egli
si guarda dal
rammentarli sì perchè aspira al
piacere delle belle
anime, non a
quello dei despoti;
sì perchè sa
che la ricordanza
de'beneiizi riesce gravosa
al beneficato. CiLstode
deW altrui gloria
y e quasi
dimentico della propria
y si trova
infinitamente lontano dal
più vile di
tutti i sentimenti,
F Invidia Che d'altrui
ben, quasi suo
mal, si duole. Allorché Ulisse
e Diomede ritornano
dal campo troiano,
conducendo i cavalli
di Reso e
riportando le spoglie
di Dolone, Ulisse,
che poteva dividere
col suo amico
la gloria di
questa spedizione, si
fa un dovere
di lasciargliela intera
: egli racconta
minutamente tutto ciò
che fece Diomede,
e nulla dice
di se stesso.
Dimenticando ch'egli ha
dello spirito, sa
far valere quello
degli altri, ed
incoraggiare il merito
nascente talvolta timido,
si perchè non
crede che possa
essere offuscata la
sua gloria, sì
perchè si regola
coll'idea del pubblico
vantaggio. Apre r animo
a tutti i
sentimenti che ingrana
discono la natura
umana, e vorrebbe
pur chiuderlo a quelli
che la degradano.
Egli sarebbe slato
buon credente in
Grecia ove si
divinizzavano gli eroi,
miscredente in Egitto
ove si divinizzavano
gli animali. Riceve
con riconoscenza gli
altrui avvertimenti anchè
quando offendono il
suo amor proprio,
e ne profitta,
mentre le anime
piccole e grossiere
ingrognano e riguardano
come nemici quelli
che additano loro
i mezzi per
divenire raigliori. S#S
buisce a virtìt,
collo scopo di
ravvivarne l'imagioe e
promoverne resecozione Ltmgi
dal brigare sotta
mano là carica
del sm amico
i egli è
disposto a rinunziare
ad una pen^
sione a vantaggio
di chi la
merita più di lui (
Proporziona la riconoscenza
non al beneficìoy
ma air intenzione
di chi V
eseguì, nè crede
che cessino i
suoi obblighi se
ìì benefattore cKvièhe
sventurato. Egli è
penuaso che la
rottura deW amiditAa
non Vautorizza a
manifestare i segreti
che furono affidati
alla sua onoratezza,
e non vuole
screditare la sua
causa con un
tradimento, come fu
detto a suo
luogo. * Costretto
a correggere qualcuno,
egli nùn lo
fa alla prssenza
di estranei, e
quando può ^
il fa a
quattr'occhi; sa anco
condire la correzione
con lodi. che
animano, in vece
di ricorrere a
Dopd Ta tn?6«n
dèUa fertem di
SoltneU'riainiflt, nid 4657,
ì primi soldati
che entrarono nella
piazza avendovi ritrovato
una bellissima donna,
la condussero al
celebre maresciaUo di
Turenne come la
parie più preziosa
del bollino. U maresciallo,
fingendo di credere
che essi altro
scopo non s'avessero
proposto che di
sottrarla alla brutalità
de' loro compagni, il colmò di
lodi per si
onesta condotta, fece
quindi ricercare il di lei
marito, e gli
disse alla loro
presenza: Voi dovete alla
morigeratezza de' miei
soldaU l'onore della
vostra sposa. Dugnay Trouin,
dopo una campagna
gloriosa nel 1707,
ricusò una pensione
che II ministro
voleva dargli, ma
la dimanda e l’ottenne per
Saint-Auban, ^uo aiutante,
ciie aveva perduto
una coscia nella
steslsa campagna. t
è f4i. villanie
che avviliscono. Egli procura
di scemare la
colpa attribuendone parte
alle circostanze; e
per eccitare la
voglia del ravvedimento^
ne lascia intravedere
la speranza. Egli
dice, per esempio
: .<(. Nissuno
di quelli che
vi conoscono e
vi stimano ')
vi credeva capace
di tal errore,
ed io meno
degli » altri.
È vero che
i compagni sorpresero
la vo» stra
buona fede, o
l'impeto della passione
v'ac» ceco, ma
io sperava di
più da quella
perspicacia » e
forza d' animo di
cui ci deste
tante prove, e
^> che certamente
non è estinta;
in somma Y
er» rore è
indegno di voi.
Come mai non
vi cadde »
in mente che
esponevate i vostri
genitori alla w
taccia d' avervi istillato
cattive massime ?
Do» vranno essi
cogliere disdoro dove
speravano lode »
ed onore? I vostri amici
che tentano di
nascondere il vostro
fallo, accertano che
ne sentite w
profondo rammarico : Vorrete
voi smentirli ?
» Dovrò io
accertarli che s' ingannano
? ecc. Vuomo
dilicato^ nelle contese
co^nemici sdegna le
vie segrete, le
quali, essendo favorevoli
alla calunnia e
alla frode, sono
preferite dalle anime
vili Non abusa
della vittoria perchè non
v'è merito neW
abusar del potere^
e v' è viltà
nell'insidtare i cadaveri.
li Son frmvde ncque
occuUis^ sed palam
et armatum populiim
romanum hostes suos
vlcisci, diceva Io
stesso Tiberio. Achille,
che fu da
Omero divinizzato, insulta
Ettore moribondo, e gli protesta
che, in vece
d onorata sepoltura,
Io farà pasto
de' cani. Dopo che
Achille ha attaccato
egli i /V fl
sentimento della vendetta
confondendoci coi bruti,
egli si sforza
sempre di reprimerlo,
perché, ^ .ogniqualvolta il
può, vuole distinguersi
da essi. Egli
tenta quindi di
soggiogare il nemico
più ^ colla
generosità che colla
/orsa i' pffl
'<H)f menti nobili
che con atti
freddamente feroci; é
. neri può
reprimere il sorriso
dello sprezzo alla
vista di chi
aspira alla gloria
del carnefitcefi r S
varano nelle poesie
d'Ossian è vinto
da Fingal: la
condotta e i
discorsi di questo,
l' artifizio cgrtV
cui s'insinua nell'animo
del suo nemico,
sono e-r qualmente
ammirabili. « Poteva
Svarano esser esa cerbato
verso di Fingal
per quattro motivi
: per '
» l'inimicizia nazionale
degli Scozzesi e
dei Da-..,;»~'nesi; per
l'inimicizia personale tra
lui e fingal
» per la vergogna della
sua sconfitta; e per desi derio
di risarcirsi. Fingal
prende a superare
tutti - 0»
unesìi ostacoli colla
nobiltà de' suoi
sentimenti./ ^» Comincia
dal primo, e
mostra che le
guerre delle loro
famiglie non venivano
da un odio
ereditario, » ma
da una gara
di gloria, e
che anzi esse
da » principio
erano amiche e
congiunte. Passa indi
» ad allontanargli
dall'animo l'idea della
vergogn ch'era il punto
più delicato e
più necessario; e
.» f^ì\iì grande
elogio del valore
di Svarano, |n V
'rslesso il cadavere
d'Ellorc al suo
carro, dopo die
Io ha strascinalo
tra i sassi
e il fango,
sferzando a più
non posso .1
suoi cavalli^ dopo
che ne ha
fatto il più feroce strazio,
il poeta viene
a dirci' »
Ch'ei non è
^lollo, nò villan,
né iniquo il
suo eroe 11 !; *
j^v, v dicando
che nel suo
spirito egli non ha perduto
V^Al^iuUa dell'antica sua
gloria. La lode
non è mai \ «
più lusinghiera quanto
in bocca d'un
nemico, i ^
f Riconfortalo l'amor
proprio di Svaranp
con que•:^.filo calmante,
Fingal mette in
uso ì modi
più *^ >>
blandi. Lo chiama
delicatanriente fratello d'Aganadeca,
per destar in
lui Sentimenti teneri
ed amichevoli coll'imagine
d una sorella
amala non ij^rjf^^^no
da lui che da
Fingal.
Mostra che sin
dal ^ »
tempo di quella,
egli avea concepita
molta pro)) pensione
per lui, e
gli rammemora la
prova sen/^h sibile
che glie ne
diede in quella
occasione. Con •
> ciò égli
induce Svarano a
vergognarsi di conservar
odio e rahcore
con una persona
che già;s;3i;:da gran
tempo 1* avea
provocato in affetto
e in ..p
benevolenza. Finalmente mette
in opera un
tratto di generosità
singolare che doveva
espugnare l'a.:;t4.oimo il più indomabile. Svarano era
vinto : Fingal
era padrone della
sua vita e
della sua libertà.
>»^« questi si
scorda della sua
vittoria ? suppone
^,>) (:he Svarano
sia libero come
innanzi la battaglia,
jfc)»/^- propone, per soddisfarlo,
un nuovo cimento
personale, come se il passato
non dovesse deci-jf^'
dere. Svarano non
è un nemico
vinto, ma un
ospite nobile a
cui si desidera
di far onore^
A;d tanta generosità
Svarano s'ingentilisce, e
la sua V
ferocia si va
cambiando in grandezza. Svaran, disse
Fìnga], nelle mie
vene » Scorre
il tuo sangue
: le famiglie
nostre, » Sitibonde
d*onor, vaghe di
pugne, jj w
Più volle s aCfronlàr,
ma più volte
anco W^iti n^^l^
cqnv.ersa:;>ioni . § 1.
Cohcorrenza superiore alla
capacità " .
y'^^ : 'del
locale, *JL. ' j
I • Invitare
più persone dl
qiiel che possa
compreu dere il
locale, è invitarle
ad essere soffocate
dal ^ (ialore,
a restare in
piedi con sommo
disagio, a i
non i^ssere servite
se h<innQ^ sete,
ecc. Quest'\jsQ *
.'X Festeggiarono fnsiéme,
e Tona hU' altta
. . W •
V i • ospitai
cortese dono. ^^À ^^l^^j^ Ti
rasserena dunque, e
tiel tuo voltò'
'^f » .f^-V
» Splenda letizia,
e alla piacevol
arpa-Apri rorecchio e
'1 cor. Terribil
fosti ^ ^
iij » Qual
tempesta, o guerrier;
de' flutU tuoi
' . i>
Tu sgorgasti valor;
l'alta tua voce
» Quella valea
di mille duci
e mille. »
'Sciogli doman le
biancheggianli velCj;' 'Pt^lu^'^w
Fratel d* Aganadeca;
ella sovente Viene
all'anima mia per
lei dogliosà /J^
Qual sole in sul
merìggio: io mi
rammento. Quelle lagrime lue;
vidi il tuo
pianto. Nelle sale di
Starno, e la
mia spada òt^
» Ti rispettò
mentr' io volgeala
a tondo Rosseggiante di
sangue, e colmi
avea » Gli
occhi di pianto,
e '1 cor
ruggìa di sdegnò^J
»> Che se
pago non sei,
scegli e combatti
: \x ' Quell'aringo d'onor,
che i padri
tuoi »> Diero
a Tremmor, l'avrai
da me: gioioso
(; Vo' che
tu parta, e
rinomato e chiaro Siccome Sol
che al tramontar
sfavilla, n regna
in Inghilterra ne'
così detti routs
0 GRANDI CONVERSAZIONI. Una
signora sceglie una
giornata in cui terrà
un rout. Ella
spedisce de'biglietti d'in-;.,.-^vìto a
più centinaia di
persone, non perchè
sono suoi parenti,
suoi amici, suoi
conoscenti, ma per^,
chè le ha
vedute, e. perchè
la loro presenza
acqui» • •
sterà credito alla
sua assemblea., « .un
vano » Secreto
genio femminil che
gode >» Di
un numero maggior,
non sceglie i
buoni, Ma tutti
accoglie, e popolando il foco. D'un incomodo stuol, cresce la turba.
Minorando li piacer. Pria
delle 11 ore
della sera (il clie si
chiama il momento
dell'alta marea )^
la casa brulica
di persone d'ogni
rango e d'ogni
sesso. Si pongono
\ i tavolini
da giuoco in
tutti gli angoli
della casay e
tanti in ciascuno
quanti ifc può
contenere, la-, sciando
appena spazio bastante
onde i giocatori
possano passare o
sedersi. Il caffè,
il tè, la
limo* nèa circolano
negli appartamenti. La confusione
è la vera
essenza d'un rout.
Una dama che
tiene queste assemblee
non consulta la
capacità delle sue
sale, ma la
lista delle persone
.. di buon
tuono. Elia invita
sempre più persone
di quel che
possa ricevere; ella
si compiace degl'in*
convenienti della stanchezza,
del rumore, del
calore con tanta soddisfazione, con
quanta un attore
' ascolta i
gridi e il
fracasso degli spettatori
che assistono ad
una scenica rappresentazione destinata
a suo beneficio.
Gli sbagli de' servi,
la perdita di
qualche gioiello, le
ripetute esclamazioni buon
Diot come fa
caldo! sono vicino
a svenire! riescono
estremamente piacevoli alla
padrona di casa.
Non manca nulla alla
sua felicità s'ella
viene a sapere
\ che v'ha
tumulto nella strada,
che I servi
d'alcuni Pari si
sono battuti^ che
de' cocchi si sono
spezzaiì j e
che qualcuno della
compagnia è stato
derubato alla porta
ecc.; giacché tutti
questi accidenti romoreggiando
per la città
porteranno il nome
di madama da
una estremità all'altra.
Il giuoco è
il solo piacere
che vi si
trovi : delle
perdite considerabili procurano
rinomanza ad un
róut, e se
un giovine erede
vi resta rovinato,
la celebrità della
casa è sicura
per sempre. Talvolta
si .danza nei
rowte, e il ballo
è seguito da
un^|;,gran cena; ma
vi manca sempre
ciò che fa
la delizia della
danza, la grazia
e l'allegrezza. Il locale
destinato ad una
conversazione è semM
' pre difettoso
quando i concorrenti,
atteso la situazione
de' canapè, non possono
unirsi in linea
ciri ^ colare,
o stare a
fronte gli uni
degli altri. Allorché restano
seduti in linea
retta da una
sola banda, la conversazione si
spezza, e da
generale diviene pa^^;
tìcolare., il che
va soggetto a
più inconvenienti^ come
vede nel seguente
paragrafar CONVERSAZIONE
PARTICOLARE SOSTITUITA. v.'^T alla CONVERSAZIONE GENERALE. LA CONVERSAZIONE è gehèVatè
allorché ciascuno defili
astantì vi contribuisce
come attore o
spettatore. LA CONVERSAZIONE é
particolare quando gli
astanti si dividono in
più crocchi, stranieri per
così dire, j
gli uni agli
altrii benché riuniti
nella stessa stanza.
Supponiamo, a cagione
d'esempio, UNA CONVERSAZIONE DI
DODICI PERSONE -è facile cosa
Io scorgere che
se esse restano
unite in un
solo crocchio '! '
conseguiranno maggior effetto con
minore sforzo; dì
quello che se
in quattro si
dividessero. Infatti nel caso per
intrattenere XII persone ne
basta una; nel
2.o per intrattenere
XII persone se
ne richieggono tre.
!' Nel 1.^caso una
celia fa ridere
XII persone; I
^ ngl2.« s'arresta
nel circolo di
quattro. VAllorché LA CONVERSAZIONE è
generale, un'idea vera
ma inesalta annunziata
da un'individuo, viene
rettificata da un
secondo, commentata da
un terzo, dimostrata
da un quarto,
ecc., sicché alla
fine del discorso si ha
per prodotto una verità lampante. All'opposto separate in IV crocchi
questi' contribuenti, e
vedrete che in
vece di quella
verità penduta comune
a XII teste,
restano in ciascuna delle semi-idee,
delle nozioni inconcIudenti, delle
notizie qui inesatte, là
false, e dalle quali nulla si può dedurre.
Succede NELLA PRODUZIONE DEL PIACERE
NELLE CONVERSAZIONI ciò che succede
nella produzione delle
ricchezze nell’agricoltura o
nelle arti. PIETRO possedè
l'aratro. PAOLO i
buoi, GIOVANNI ra))llitó
tì' arare. Se questi individui
s'associano, ^ Taratura
$\ leffetliia, non
si effettua se
restano di: sgiunti.
Allorché dunque qualcuno
trae a se
due o tra
/ astanti, commette
una specie di
furto verso gli
altri, poiché li
priva del piacere
che produrrebbero in essi
le persone spiritose
e gioviali ch'egli
' bà rapito.
Egli stesso debb'essere
riguardato come un
disertore od un
contribuente moróso. È
un fatto dimostrato
dall' esperienza, che
le scosse sensibili
s'accrescono comunicandosi, atteso
la forza sussidiaria
che loro presta
l'immaginazione degli astanti. Quindi una
celia che fa
ridere quattro persone in
un grado come
quattro, ne fa
ridere dodici in un
grado come cinque
o sei.. Inoltre, se
assistono XII persone
al discorso del
parlante, con maggior
cura ed attenzione
egli svolgerà le sue
idee di quello
che se assistessero
quattro solamente. Allorché LA
CONVERSAZIONE è generale, un fatto qualunque, esposto da chi parla, va ad
agitare XII immaginazioni, nelle quali sì trovano associate altri fatti e
diversi in ciascuna. Dunque si deve
sperare maggior movimento NELLE IDEE CHE ALIMENTANO LA CONVERSAZIONE e maggior
varietà. Se in vece
di XII persone
(numero preso per
ipotesi), gli astanti
fossero di più,
i crocchi a
parte sarebbero meno
condannevoli; giacché ammettendo
gli accennati vantaggi
della CONVERSAZIONE GENERALE, bisogna
anche ammettere che in molti la voglia di parlare è vivissima:
e che questa
meno NELLA CONVERSAZIONE GENERALE
resta soddisfatta che ne’ crocchi
parziali. D'altra parte,
QUANDO LA CONVERSAZIONE è
troppo numerosa, scema
in alcuni l'allegrezza, perchè scema
la confidenza. È
cosa rara che LA
CONVERSAZIONE resti generale, i
allorché in XII concorrenti si
trova più d' una
donna; giacché ciascuna
diviene centro particolare,
intorno al quale
parte degl’astanti naturalmente
si unisce. Ho
detto è cosa
rara, poiché non
é certamente impossibile che
una speciale gentilezza
nelle donne si
sforzi di prevenire
la divisione. V %
Z/parlare motti insieme^
' V v
' ^ IMa
lsto^^ idi tàiite
: ' »,'Vòcr
distordf e gareggianti
iiisiéme » Pur,
ua senso accoppiar?
Tutti ad un
tén^o; » VoglioB
la boeèa aprire'
é n^n^ i^/^
^ " Affastelfano
insieme. Quanti argomenti. Ad
ua sol puQtot
AKri di cuCQe
ed. «tiri «failli
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iMe;; Là ^si
contrasta^ e la
quisti^ja si .
cribra ' r-^»
Con oàikktò ttpljcàre
altertm ' v vf .
r" ^ Di sì
e dì no.
Di trenta voci
acutaV/f -Stridule,, rauche,
reboanti e gravi,;
V DIssoiiaQti tra
ior odi lin
eóiifiise : ì ».
Frastuono ingrato di
parole e d'^rK,
' .1» fìi.
tumulto e di
«tiMa^^nde Jà T^ta *; Concava
echeggia e riinbombahdò
à&sorda, » Là
civile modestia ed il, buon
senso i^ v
/ y> Lèi
ift'iifi àngolo stringono
le labbta E Storditi
ai tarano gli
wecchl ». /
f^iimando ii^Iti^fBirJdiio Jnsiemip
i Yh9^wfȈ' d'M^ .
gara per superarsi
a yieè(ida, «.tpro^\irii^^^ 4'a8sor49tffe:^gli ^istanti^
> A >
? :ì * /.
Ili alcuni SI
uniscono tré _d[i|etti ', 1
. La
sfnania, di int^rrpmp^e
glt alt^i^; jlk X'impazkiDza
di seiitìr Hiténrétii
.m stessi; '
a. La pretensione
che gli alJLrì
uoa siano 4istratti> «lontre
es^i li aiuioiaiiò. Allorebò iiHrfli
parlano insieme .
' L Si .
stancano i iK>liuoni
f gli iBSofi^
d0' par-! istori'}'- V.
\ ^ V t'O'V.
\ I &i annoiano
gii astanti con
un fraatiMno in* intelligibile; Si
è costretti a
ripetere più volte
la stessa cosa;
Si afferrano male
le idee altrui. Si
oonsuma tempo e
fasica a combattere
delie eliimére. Siccome
poi si parla
per piacere o
istruire, non j)er
fajr pompa, 4i
cognizioni» quindi allorché
Taltrui impazienza ci
interrompe, è miglior
consiglio lasciarle libero
il campo, e
tacere, di quello
che battere inutilmente
gli orecchi di
chi non vuole
ascoltarci CO* L’imp^iua e
la vivacità che
domìDano mi carattere
della Jiazlone francese
r assoggettanó al
difetU accenùaU: mi
testo. Cornino^, riportaiado
B Trattato di VERCELLI
Vsegnato ft 40
oUobi^ 4495 tra
Carlo VILI e
gli Ualiani, osserva
come un tratto
caratteristico dello spirito
francese la suania
di paelare, per.
cui molte («rsone
parlando insieme ed
alzando a vicenda
la voce ^
nesaùna é realmen^
inte^. AH* opposto,
egli aggiunge, degl’italiani
nessuno parlava, 'ftioréhè il
duca Lodovico, il quale
perciò dice ai
francesi : Gii I
ad uno ad
uno. le memorie
dell* Accademia francese
hanno conservato per
IradlikHQé no moUirdI
If^ miran, R quale,/oireso: piò d'ogni
aHeo dell'aeeennato difetto,
disse un giorno
seriamente a' suoi confratelli:
Signori, io vi
propongo di decretare
che non parleranno
qui più di
quattro persone Insieme
forse così riusciremo
ad intenderci 1
! Un francese
diceva a numel,
vescovo di SaUsboiy/
oMe il fàesi
eei^Uisini eea stola
cosa' molto merìtosia per
cjH'Imglfeaf)^ non potendo
essi die difficilmente
rinunziare ad un
pezxo di manzo.
Al che iiurnet
mpo.se : Non
è men. meritoria
per voi altfi
francesi, atteso la
legge del silenzio. y
.i^co L.Allegrezza clamorosa.
Un grado moderato
di sale rende
lè vivande gradite
a tutti! palati
: i gradi'
maggiori, 1 quali
non riescono piacevoli
che a poeliissimi,
estinguono Tappetito negli
altri* L'allegrezza moderata
nelle conversazioni passa
facilmente d' animo In
animo ed è
accolta con lieta
fronte da tutti.
L'allegrezza clamorosa si
comunica a pochi, e
spesso muore sul
labbro di chi
Tolle eccitarla* Del
quale fenomeno tre
sono le cagioni. 1 .
I caratteri freddi
non essendo suscettivi
d'aU legrezza clamorosa,
s'armano contro di
essa e le
oppongono la reazione
deirindifferenza. ' L’
allegrezza clamorosa dipendendo/ da un
ino4o particolare dì
vedere le cose,
alquanto strano, 6
spesso* da ^ccolezza
di spirito, i
^'arett^ ragio* nevoli
e sensati non
possono approvarla. L'jiUegrezza
moderata più facilmente
che la clamorosa
si coniiunica agli
^stariti, perchè dista
meno dallo stato
abituale degli spiriti.
Qualunque sieaa te
dause deli' accennale
fono* meno, egli è fuori
di dtfbbio che
se V allegrezza
moderata fopienta ta CONVERSAZIONE, l'allegrezza
clamorosa tènde ad
estinguerla, e la
cosa non può ^essere altrimenti;
infatti, U Durairte
lo scoppio dfille
risa smodate ma
potendosi comunicare agli
animi i moti
d' un aU
legrezza piti mite,
tutti quelli che
non. parteoi|iane aHe
prime, si veggono
'ditfraudaft de' secondi;
quindi mentre alcuni
ridono a piena
gofà, restano gli altri
atteggiati a sprezzo
o sbadigliano; essi
provano quell'ingrata
sensazione che prova
chi attento al
dolce suono dell'arpa
viene im;«rovvisainente assordato dal
rumore delle campane.
Dopo lo scoppio
di risa smodate
succede una serietà
agghiacciata, come dopo
un fuoco d'artifizio
ci sembra l’oscurità più
profonda. Un'allegrezza clamorosa
ci balza improvvisamente fuori
di strada, e,
per così dire,
sopra un'eminenza, ove
non sappiamo d' onde
siamo venuti, nè
dove dobbiamo andare;
da ciò poi
la serietà, il
silenzio, qualche esclamazione,
e la difficoltà
di riprendere il
filo di ameni
discorsi. L' allegrezza clamorosa
non comunicandosi agii
altri, ed assai
pochi essendo capaci
di rianimarla, quegli
che la eccita
si trova nella
necessità di farne
tutta la spesa;
quindi se vuole
restare sulla scena
è costretto a
rappresentare il personaggio
del, buffone. L' allegrezza
moderata, figlia d' una
buona coscienza, animata
da un' immaginazione
ridente, trova facilmente
motivi d'innocente trastullo
e dignitoso sorriso nelle
scene morali esposte. L'allegrezza
clamorosa, figlia talvolta
dello stravizzo, talvolta d'un
immaginazione irregolare, per lo più d'una sensibilità ottusa e
piccolezza di spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza, trova pascolo nella goffa derisione degli
astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti sguaiati,
plebei, vHlanì. Loquacità
eccessiva. LA CONVERSAZIONE è COME UN’AZIENDA COMMERCIALE; ciascuno dee pèrvi
il suo caratlo e ciascuno partecipare al prodotto. L’uomo che
tace sempre IN UNA CONVERSAZIONE
è uomo
che vuole essere
a parte del
prodotto senza essere
carattista. L’uomo che
parla sempre è un
jearattista che vuole
tutti i prodotti
dell’azienda. In generale
NELLE CONVERSAZIONI ciascuno ama
meglio spacciare la
propria mercanzia di
quello che acquistare
l’ altrui; e, in
vece di formarsi
giusta idea degl’altri,
aspira a darla
di sé stesso. Agitati dalla
smania di parlare,
non pochi bramano di
comparire sempre alla
tribuna, senza volerne mai
discendere. Quindi vi tengono
discorso su di
tutto, d' un
libro nuovo dopo
la. lettura di
quattro ò cinque
pagine a salti,
d’una nuova macchina
dopo d'averne veduto
un pezzo, d’un
quadro dopo d'averne
ammirata là cornice
ccCm e decidono
e sentenziano senza
interruzione, simili al
giudice d'Aristofane, che,
chiuso in casa
dai parenti vuole almeno
dar sentenza tra
due cani. GOZZI fa il
seguente carattere dell'imperlerrito parlatore.
SIgpor jS. N.
y a penai
la algaoria; vostra
«ente un cct»
stailo, un luteo,
o un ebfeo
a oomlnclaM uara^hmar
» mento, eh'
ella si scaglia
ìà^ e glielo
rompe a mezzo
col dire. La non
é così. Io so l'
ordine delle cose,
e ve la
D iUcò lo;
e dàlie dàlie
dàlie, non la
finite più, tornando
Gir irteoiiTenienti a coi va
incontro uu uomo
che parla troppo,
sono i seguenti:
molte volle da
capo, con molle
cosette di mezzo,
clje sono uno
sfinimento, come sono,
per esempio, que'vostri
colori » r^ttorici
: E dov'
era io oca? Ah sì.
E» toeno due
passi indietro: e
la fu da
rìdere, e verbi^eazlai
ecceleira, tanto ohe
mm lasciate più
tirare il fiato
a poveri drcaslanti. Così quando
avele assassinali e
ammazzati ì primi
a uno a
uno, eccovi a
volar via di
là in qualche
cerchio d'amici -o di patenti,
clie cagionana de'fatU
lorO| e piombate
sopra que povereUi
come un uccello
di rapina, sbaragUandogliì »
e facendogli andare
qua e colà
per paura della
furia vostra. M'
ha dello un
certo maestro, che
qualche volta andate
al suo collegio, e che, appena
entratovi, stornate i
discepoli n dallo
studio, e i
maestri dall' insegnare, parlando
di dot* •
tftoe, di scienze-,
d'armeggiare, di salière
U cavallo, e di
tutto quelló che
volete e potete,
si che nessuno
si può salvare dalla
furia vostra. Se
un pover uomo
prende U» cenza
da voi per
andare a casa
sua, e voi
subito volete »
accompagnarlo per forza
come se foste l’ombra di lui, petseguitandoto fino
In sali' nscìo e
sulle scale, e
nette » stante
ancoia. Se per
caso si narra
qualche novella per la
» citt;i, voi
slète come, ma
rondine, ora qua,
ora colà a
» dirla e
ridirla a tulli
quanti. Nè giova
punto eh' altri
vi • iaficìsL
intendere che la sa: perche
voi volete cominciarla
» a dispetto
di ttUU, aggMtigendevi
anche Im proemio.
Parli late di predicatori,
dlmiàinoranenli, di battaglie,
del vostro »
servo, e delle
fmestre di casa
vostra con tanfo
tedio di chi
» v'ascolta, che,
appena avele favellato,
Tuno si dimentica
• tutto, Taibro
sbadiglia sonniferando, e
c'è chi vi
pianta là »
nel meo» Aet
ragionamehto. Siccliò se
vi trovato con
uno » ch*ahliis
'4a sedere .a
un magistnito, a
una predica, a
» mensa, a
una commedia, siete
cagione che slede
mezz'ora A dopo
il bisogno alla
sua faccenda. E
credo che piuttosto
» vi contentereste
di morire, che
di non superare
il cicalat' mento
delle gasze, de'
pi^papHii delle rondini,
e di quanto
Egli affatica i suoi polmoni. É
spesso costrétto a
ripetere^ le stesse
cose il che
cagiona noia agli
altri e svela
i limiti del
suo «pirUo S'espone
a dire degli
spropositi vc^ndo parlare
di cose che
non gli sono
familiari^, e dimostra
di non saperne
alenna, giacché quelli
che sisinno una
cosa bene si
astengono dal parlare
di quelle che
ignorano. Offende quelli che
vorrebbero parlare in
vece di lui
(2>; « bestie Gidiio, schiamaizo. Oh
|^ é puie
un eraii peccato
» a non
aver (ante gole
quante canne hd
l'organo, da poter cavar
fuori le parole
da tutte 1
Basta cbe siete
i^unto a Il
tale, che non v Imporla
più che ciascheduno
si fugga da
» vqL cpme
da un can
guasto, e cbe
fino i fanciulli
di casa »
vostra si ridano
di voi: petclièquando
la sera il
sónno comincia ad aggravarli,
vi pregano a
contar lo;o qualche
i) cosa per
dormire più presto. Saggio e
cauto ad un
tempo j e spesse. voHe
Timido un poco,
lentanijenle sffgno . Dà
di stia decisloa
uom che ben
vede, E in
brevi detti ognor
spiegarsi agogna^ Clii
ragiona a proposito, di rado, S'allarga
ragioiUMiKlo ma la folle
. SupecUa )
che a scloe&bezza si
cong^mge Si diffonde
In loquela ^
e s^gue solo,
I. suoi fantasmi
^ e a
sè paria e
risponde. E alcuni
altri tanta ingordigia
hanno di parlare,
che non lascian
dire altrui. E
come noi veggiamo
taUolki su »
per r aie de’ contadini
X un pollo
torre la spLca
di becco % atf allvo;
^^osl cavano costoro
i EagtonaoieiiU di
bocca a colui. che
li cominciò, e
dicono essi. E sicuramente
che eglino fanno venir
voglia altrui d'azzuffarsi
con esso loro.
Rende gl’altri più
severi nel giudicarlo. Impedire la
diffusione di idee
migliori delle sue;
?• Svela talvolta,
per procurare alimento
al dìscorso, ^11
altrui segreti. Quindi si
mostra indegno e si "pfwù
deirallrui confidenza. Dimentica spesso
la convenienza, non ha riguardo al
caratterie delle persone
con cui i^rla,
al luogo In
cui si trova
alla situazione degli
animi. Per concentrare in
sò viémmargiormente gli
altrui sguardi, balza
in piedi, molti
gesti facendo colle
mani e col
capo; e se
qualcuno ardisce non
di t»orre in
dubbio la di
lui infallibiUtà, che
verar mente la
sarebbe un'impertinenza senzjj
pari, nia perciocché
«e tu guardi
bene, ninna cosa
muove Y uomo
piuttosto ad ira,
die quando d' improvviso
gli è guasta la sua. voglia
e il suo piacere, eziandio
minimo; siccome »
(|umd0 i^ avrai
aperto la bocca
per isbadii^re, e
alcuno !>' té
la Cura con'
mano, ò quando
tu liai alzato
il braccio «
per trarre fa
pietra, e egli
l' è sùliitamente tenutò
da colui, che V
è di dietro. Ecco
l'origine del pedanlimo:
quegli è pedante
che, s(M*gendo io
.piedi ed alzando
una voce magnale
e dura »
detta le sue
opinioni e pronuncia
l& sue sentenze
eoi tuono che
adopera il maestro
di scuola co' suoi
scolari. Pedantìfimo si dice
anche rusò troppo
frequente e inopportune delle cognizioni tecniche pella
conversazione ordiiiìarte, e
lapresunzione ebe ravvisa
in esse importanza
eccedènte ; quindi i
seni-détll Geminano ^ppertutlo
H lor6 .falso
sapere, allegano Platone
e S. Tommteo
in eosii ebe
ai accertarle ba«ta
Tasserzione d'un facchino.
Pedantismo finalmente s'appella
un' eccessiva severità
ed uu^ndeféssa affettazione
nella scelta delie
parole e delle
frasL solo di
fargli qualche obbiezione,
esso gli volta gentilmente le spalle sorridendo tra sè dell'altrui
dabbenaggine, o gli risponde alla maniera della Pitia la quale furiosa
mostravasi allorché non sapeva come sottrarsi
ad una dimanda
importuna. Questi eterni
parlatori, per lo più teste
superficiali, e talvolta
prive dì senso
comune, affettano di
sapere ciò che
non sanno, d'intendere
ciò che è
superiore alle loro
cognizioni, di possedere
ciò che loro
realmente manca. Si
tratta egli d'una
notizia? essi la
sapevano; d'una scienza?
Thanno studiata; d'un fatto
straordinario ? ne
sono stati testimoni; d'
un giuoco ?
i' hanno insegnato
al loro nonno,
ecc.: e per
voglia di comparire
istrutti, allontanano da
essi l'istruzione. Chi
ha poco senno e
dovrìa starsi ignoto,
Vuol far tutte
le carte in
compagnia : »
In simile maniera
un carro vuoto
)' Fa il
fracasso più grande
per la via ». La
loquacità presuntuosa de' giovani
è una conseguenza necessaria. Della vanità
generale comune a
tutti gl’uomini.
Dell'educazione particolare, supposta
scientifica, e veramente insensata
che ne’ prim’anni della
loro giovinezza ricevettero.
Siccome ciascuno procura
di mostrare ricchezza
collo sfoggio degli
abiti, così molti
procurano di mostrare
spirito collo sfoggio
delle cognizioni. Essi
crederebbero d'aver perduto
tempo e fatica
se aprisserola bocca
senza aver detto
qualche cosa spirit,.cT
Volendo presentare tratti
ingegnosi e superare
l’altrui aspettazione^ fanno
degli sforzi che
tormentano gl’astanti, e
ad essi fruttano
ridicolo. Presumer vanto
di sagacé, arguto»
E senza aver
punto di sale
in zucca, Imprudente mostrarsi
e linguacciuto v.
Rendere eunuco V intelletto
e feconda l’immaginazione tale era
il problema che si proponevano
grinstitutori nello scorso
secolo. Un sonettino, una
canzoncina, un po' di
latino, uno sche-T*
letro cronologico detto
storia, un elenco
dei nomi delie
città e de’ fiumi,
chiamato geografìa, ecc.,
in somma parole
e poi parole,
e non mai
cose, èò*v,.^. stituivano
il capitale intellettuale, l'immenso
fogliame senza frutti che
i giovani compravano
s caro prezzo.
Abituati ad accettare
parole senza' conoscerne IL SIGNIFICATO nelle prime
scuole, accettarono parole IN
FILOSOFIA senza corrispondenti idee. Si
pronunciando per es., le parole mistiche di KANT, redetterjo di essersi
innoltrati nella scienza dell'uomo; e
così dite di
tanti altri sistemi
cui la sola magìa
delle parole e
Tbitudine di ammetterle
r'^ senza esame
acquistarono rinomanza. Quindi
LE CONVERSAZIONI brulicarono
di cianciarelli, che, essendo verbosi, credevano d'essere
eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere si lusingarono e d'
istruire. Ma fatai cosa
eli' è ch'ove
più abbond)a Un
bel parlare, ivi
la specie umana
Sia seccatrice almen
quaut' è faconda
ti dono di
parlare con facilità
e prontezza è cosa
pregevolissima, e. non
può essere Irascui'alo doq
da chi PITAGORA,
ìper reprìmere ne* giovani I
' eccessrvà'^ loquacità,
esige da' suoi discepoli
un assoluto silenzio ne V
primi anni delle
sue lezioni; il
che era spingere
le cose all'
estremo opposto, e
spezzare il ramo
per raddrizzarlo. Più
saggia Tao-tìca cavalleria
diceva a' suoi
seguaci: Siate semjore
l’ultimo a parlare
in mezzo agl’uomini
che vi, superano
in età e il
primo a battervi
alla guerra. Non
arrogarti dunque il
diritto d'eterno parlatore,
ma « Solo
i tuoi detti
nel comun discorso
» Ifitreccia a
tempo, e in
un civile e
cauto » Le
tue parole e
il tuo silenzio
alterna. Colui che- si finge
dotato di cognizioni
che non ha,
perdi il diritto d’essere creduto
negl’affari sociali. Volendo
mostrare troppo spirito,
si resta caricati
di TUTTO IL PESO DELLA
CONVERSAZIONE, e si
perdé in affetto
ciò che si
acquista in ammirazione;
gidoo ^ ignora
che, per convìncere
lò spirilo, spesso
é forza sedurre
le passioni che
gli fan siepe. Ma
questo dono per
se stesso ilion
è sicuro indizio
di profondo pensare.
Parecchi buoni spiriti
non riescono a
svolgere le loro
idee fuorché col
mezzo della meditazione; ed
è stato osservato
che i filosofi non sono
quelli che brillano
di più ne'
crocchi sociali. Ne'
discorsi di ROUSSEAU neppur l’ombra
scorgevasi di quello
stile che ne' suoi
scritti si ammira.
NICOLE, uno de'
primi scrittori del
XVn secolo, stanca quelli
che l’ascoltano. Perciò egli
dice del sig. TREVILLE, U
quale parla con facilità:
Egli mi batte
rulla camera :
ma egli non
è g^cora in
fondo deHa^caìa eh
io V ho confuso,
t 4t&l chè,
generalmente parlando, gli
uomini non amanq '
quelli che li
offuscano. > -^pm
> ^Allorché non
avete argomento interessante
da proporre, la
civillà vuole che
vi astenìate dal
parlare, in vece
di mettere alla
tortura l'altrui pazienza con
puerili e non
gradite scempiaggini. Perciò
r abate S. PIERRE, il
quale non discorre
gran fatto NELLA CONVERSAZIONE, non
per sterilità nè
per disprezzo, ma
per tema d'infastidire
i suoi ascoltanti,
dice. Quando io scrivo,
nissuno è obbligato a
leggermi. Ma quelli ch'io
vorrei costringere ad ascoltarmi
si darebbero la
pena dì farne
almeno le viste, ed
io la risparmio
loro per quanto,
posso. Inoltre chi
vuol parlare di
ciò che non
intende, al quasi
certo rischio si
espone di guadagnarsi il titolo
d'ignorante. Quindi l'abate
Choisj', il quale
non era dotto,
ma lontanissimo dal
volerlo comparire, scrivendo
ad un suo
amico sulle sue CONVERSAZIONI
o sul
suo silenzio coi
dotti missionarii che
nella sua ambascerìa
egli aveva ritrovati
a Siam, si
esprime così.ii^^ Io
occupo un posto d' ascoltante nelle
loro assemblee, e
mi servo sempre
del vostro metodo
: una gran
modestia e nissun
prurìto di parlare.
Quando la palla
mi viene naturalmente,
e ch'io mi
sento istrutto a
fondo della cosa
di cui si
tratta, allora mi
lascio »v forzare, e
parlo piano, modesto
egualmente nei D sono della
voce che nelle
espressioni. Questo metodo
fa un effetto
mirabile, e sovente,
quando non apro
bocca, si crede
ch'io non voglia
parli lare, mentre la
vera ragione del
mio silenzio si è
un'ignoranza profonda ch’egli
è pur bene
di nascondere agli occhi
altrui. tjttl^ ^ Da
qiiesta modesta confessione,
soggiunge d^A^^. lembert,
si raccoglie che
l'abate Choisy non
rassomiglia certi ciarlieri,
i quali, presi
dalla manìa di
parlare di quanto
ignorano, meriterebbero la
risposta che un
artista greco fece
nel suo laboratorio
ai ridicoli sragionamenti
d'un dilettante:,. Guardatevi
dal farvi sentire
da' miei scolari. Infatti parlano
costoro con leggerezza
tale, che spesso
l'uomo pulito si
astiene dal far
loro un'obbiezione per
tema di vederli
ammutolire. I chiacchieroni
si fanno tacere
col non dar
retta ai loro
discorsi, come appunto
un suonator di
violino ferma i
danzatori cessando di
sonare. Co?itimcazione dello stesso
argomento. La loquacità eccessiva
è un difetto
che i moralisti
sogliono rimproverare al
bel sesso. Quindi
essi dicono, che
mostrare molto spirito colle
donne non è
il miglior mezzo
per conciliarsi, il
loro animo. Una
dama d'alto tono
che si era; I, scelto
per amico un uomo di
beli' aspetto e
di molto spirito,
gli disse un
giorno che poteva
ritirarsi, perchè ella
non ama le persone
che parlano troppo.
. vFin dal
pergamo fu rimproverato
alle donne ' l'accennato
difetto : un
predicatore parlando avanti
I UA consesso
dì monache nel
giorno di Pasqua/
I diede loro
ad intendere che
Cristo risuscitato coin '
parve alle donne
prima che ai
discépoli, acciò la
nuova della sua
risurrezione più rapidamente
si diffondesse. i
11 suddetto difetta
potrebbe essere confermato dall'uso delle
donne negre della
riviera. di Qs^m d
j tot. le
^uaH essendo applio^tisshne ai
labori; glioBO, a
fina ^'^fitace hi
maldicdiusa 0 i
diseoiti inutili, empirsi
la bocca d'acqua
mentre lavorano.. La
leqoacità dette, domiet
seoondo che io
ne giu« dieé,
a due Ani
d^lta fimportanzia* éorridi^nde.
L'uno si è che, essendo
é$$e. te prime educa-triei
éé faneiiilll') detona
esiereltttfe te fero
.tenere^ orecchie con
un cicaleccio continuo,
e imprimere Ìb
^ue'édb^li cernili oiolte
tracce ideali, che
senza,^ questo soccorso- diffleHmente Vi
«gioirebbero. ' .'1)
seeogdq si, è
. che, essendo
esse destipate a
«ìMi^iEnfel^ra aspra la
vita airaomo,. dover*
vano essere dotate
d'una sensibilità squisita
che a lotti
ì di lui
affetti prontamente si
risentisse, e della
facoltà d' insiniìàVs^
gqrbo nqf di
l«i allibo, ìi|jtrattenerlo oaa
sentimentale colloquio ed
àHeirtariiét té pene:
tton saprei ben
dire se questo
sia il motivo
per cui generalmente
le donne superbie gli
n^minLoella gra^^ia della
voce e del
canto. GIOVENALE, come
tanti altri poeti
dopo di lui
v ha eensurato
la loquacità deUe
donne letterate ne',
segufati^'veirn: . SI
tosto, ^ '
i> T'assidi a
mensa, essa 1^
mensa in scuola^.
» EcQO ti
cangia ^ é
dà sentenze e.-npr|Be,
/ » Loda
il cantor d'Enea,
s'intenerisce. Per la pQv.era
Elisa ^ i
due poeti '
' » Mette
al paraggio; a
ima bitaneia appende,
» In un,
gùscio Maron, neir
altro Òmero. »
Orammatici, rettorìd, seolastiei
«.^ i> Ite
a rfporvi :
i convittor son
muti PiissuQ fisponde; e
chi tentar latria
. s ;
» D'arresUrue la
foga? Un avvócatd,
y B'altre donne
uno stuol; tal
dalla bocca <
Vei^ (NTi^vio ^
parote^ e tale
r-Stridor mòtesto; e
tintinnìo di voei^ Che
un picchiai di
patini e cauipaneU.!
' » D'udir
ti sembra i
»rrà piHtrìa sot;
.)i Senz' altra aggiunta^
di caldaie o
trorobe. Recar ^eoisso ^ti!
ii^iHuitata inaa «^t»
. Qnestà gairrulita
è condannabile n^lle.dQnàè
gualmente che iiegli
uoinini i. e
ciò che Aiolièjre
ba detto nella
sua commedia cóntro
le donm sac^
cenli^ ai saccenti
in generale sì
applica. La noia
cheviene prodotta dalla
loquacità noq. scema in
milione della barba
di chi parla,
meatre air opposto un
bel detto cresce
di |^regio se
esce da bel
labbro. TaciturnUà., lia storia
d' Atene e di
Sparta due estremi
-ci piTe^nta nel
modo di parlare.
Gli ^Ateniesi érana
talmente invasi dalla
manìa ciarliera ^
cbia lunghe dissertazióni
dicevano so|tfa Inezie,
vi spiavano dottamente
in quanti modi
può eseguirsi una
CAvriola, parlavano ad
alta vo((e in
pub|ilic0| disputavano per le'
strade, si fermavano
eui mereati, e
ricoveravansi sotto d'un
portico per risolvervi
dQ* problemi nel
modo più rumoroso.
Plauto li de scrive
in atto di
portare sotto le
pieghe del loro
manto pateechi libri
per convincere i
loro avver-» Mrii
eon assiomi e
sentenze decisive. Gli
SpUrtUfir-all'opposto erano più
silenziosi delle pietrcr
Disapprovando la verbosità
degli Alenicsì e
la V taciturnità
degli Spart.an?, condannerò
con maggior y
ragione il laconismo
degli ultimi, i
quali non ri|
>^'1^pondendo che con
monosillabi, lasciavi^no scor^
'^gere un orgoglio
offensivo.. Filippo re
di Macedonia avendo
scrìtto agli Spartani
che avrebbe fatto
i le sue
vendette se entrava
nel loro territorio,
que^ Bti aljro
non risposero se
non che Se.
Gli stessi Spartani scrivevano
lettere molto laconiche,
cioè H impertinenti;
ma dacché furono
compiutamente. 'i. i battuti
a Leutre, cominciarono
ad allungar loro frasi. Son
io, diceva Epaminopda,
che ho inse^
guato loro questa
civiltà. La taccia
d'inurbana data alla
tacilurnilà è dun^
'ì' ì que molto antica,
e con ragione
/ principalmente i
quando son le
persone adulte che
tacciono; giacchè se
è necessaria la
riservatezza per non
esporre pensieri che
poscia si vorrebbe
invano rivocare, non
fa d'uòpo spingerla al
punto da rendersi
muto. Una persona
taciturna nella conversazione
è una persona
che vuole entrare
in teatro senza
biglietto d'ingresso; è
una persona che
vuole godere senza
contribuire. Una persona
taciturna diviene incomoda
per più ragioni. Ella arresta
la comunicazione de'sentimenti, i
quali sogliono acquistar
forza diffondendosi.
Presenta l'idea d'un
censore severo che
semr brà accusare
gli astanti di
frivolezza. Eccita una diffldenza
non favorevole alla
giovlalità. Una persona chè
parla ci dà,
per cosi dire,
la misura delle
sue forze :
le sue idee,
i suoi sentimenti,
i suoi gusti,
i moli della
sua fisonomia, \a
qualità de' suoi
gesti la palesano
al nostro sguardo
: noi sappiamo
come fa d'uopo
regolarsi con essa.
All'opposto una persona
che tace, inspira difUdenza, perchè
si diffida di
tutto ciò che
non si conosce.
D'altra parte non
si sa che
cosa 'possa piacerle
o spiacerle: questa
incertezza diviene un
limite illegittimo alla
facoltà d'agire e
di parlare, quindi
è penosa. Finalmente,
siccome nel i^commercio
V amor proprio
d' un negoziante
resta offeso allorché
vede rigettate 1^
sue cambiali, cosi
nella conversazione spiace
all' amor proprio
degli astanti la
vista d'una persona
che non corrisponde
alla loro allegrezza,
e ricusa d' accomunarsi con
essi; perciò più
facilmente viene perdonata
la frivolezza che la
taciturnità. La taciturnità può essere prodotta da cinque cause.
Mancanza d'idee o
stupidezza. In questo
• caso è
certamente miglior consiglio
tacere qhe parlare;
giacché parlando si
procurerebbe spregio a
se stesso e
noia agli altri.
Le persone taciturne
che appartengono a
questa classe sono
tollerate "nelle conversazioni
come si tollerano
nella società '^1
bisognosi impotenti : la pubblica
beneficenza gli alimenta.
Non potendo CONTRIBUIRE ALLA CONVERSAZIONE, esse
devono rappresentare il
personaggio dèlia scimmia,
cioè atteggiarsi a
norma de'seutimenti che
si dimostrano dagli
altri. Diffidenza eccessiva di se stesso. Questa qualità si trova
talvolta anche nelle persone di carattere amabile, e proviene da mancanza d'
educazione e di pratica:
è una debolezza
che merita Indulgenza,
almeno sul principio,
benché faccia torlo
alla società privandola
di molte idee
utili; dico almeno
sul principio, giacché un
po' d'esperienza dandoci
la misura delle
altrui forze e
delle nostre, questa
diffidenza deve sparire
se non é
unita a stupidezza,
ii» Scarsa scienza è
molta vanità. Alcuni
non osano di
contraddire perchè non
soffrono d'essere contraddetti;
la loro pazienza
non é che
un timido orgoglio;
il loro silenzio
é un mezzo
di sicurezza; essi
tacciono per non
esporsi alla censura.
/4. Stolto orgoglio.
L'amor proprio raffinato
e tronfio sdegna
di prendere parte
alle frivolezze della CONVERSAZIONE,
e di comunicare
agli altri i
suoi più che
sublimi concetti. Si
danno anche uditori
disdegnosi che, per
non accordare leggermente la loro
ammirazione, ricusano l'approvazione più meritata. Malizia. L'orgoglio
va spesso unito
a cattivo carattere;
quindi il silenzio
é non di
rado effetto della
malizia. Ritornando dalla CONVERSAZIONE, in cui
non proferirono una
parola, alcuni passano
a rivista tutto
ciò che vi
fu detto, con
intenzione di censurare
i discorsi più
indifferenti; osservatori malevoli,
il silenzio de’
quali é uno
spionaggio sempre pronto
ad abusare del
vantaggio che le
anime false e
fredde sulla franchezza
e la veracità
agevolmente ottengono. Fu
dimandato a M.r
Fontanes 9 celebre
matematico, che cosa faceva
nelle CONVERSAZIONI ove slava
sovente taciturno: Sto
osservando^ diss'egli, la
vanità degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un
filosofo! Alcuni finalmente non
sono taciturni nelle CONVERSAZIONI,
ma misteriosi: essi
dicono alcune cose e
poscia troncano il
discorso con aria
d'importanza e mistero.
Questa condotta è
doppiamente censurabile; giacché
da un lato
eccita una curiosità che
non resta soddisfatta,
dall'altro fa supporre che
crede gli astanti
inoapaci di silenzio
o capaci di
tradimento. EGOISMO #
r ir Se
alla loquacità s' unisce l’egoismo, cioè
se parliamo sempre
di noi ste&i,
de’nostri gusti, delle
cose nostre, in
somma di quanto
ci appar.tiene, siamo
certi d'annoiari gli astanti
oltre misura. È difficile
di ritrovare un
viaggiatore che sia
sobrio nel racconto
de'suoi viaggi; un
cliente delle sue
liti; un*galante delle
sue avventare» ecc.,
. senza aspettare
che l'analogia delle
idee guidi il
discorso ove essi
vogliono, taluni parlano
della loro moglie
che è un'ottima
creatura, de'loro figli
cJiie hanno sortita
ìndole divina, de'
loro maestri che
sono altrettanti Socrati,
de'loro affari che
tutti vanno a
maravigliai de' loro
nemici che sono
il fior de'
birbanti, ecc. : u
Di sé, de' suoi
pernierà de' sogni
suoi » Perpetuo
citator, storia e
giornale » Invasi
da questa manìa
si mostrano spesso
i gipvàni poeti,
perchè lusipgandf^i facilmente
d'avere composto sublimi
versi, vogliono recitarli
anche ai sordi. inedtartoir acerbo
» In fuga
volge e ignorante
è 1 dotto;
» Se poi
ne abbranchi alcunOf
il tìen, l'uccsMIe*
1» Leggendo ognor;
mignatta, che la
cute » Non.
lascia pria che
ae rilK)cchi ii
saague. La stoUem e
la vanità giungono
talvolta a segno^
che non potendo
far oggetto dell' altrui
attenzione te nostre
heUe qualità, le
presentiamo i nostri
incomodi^ lenostre . debolezze
9 la nostra
pusillanimità, e talora que'raali
che, essendo comuni,
non meritano speciale
riflesso. « i'
A che lai
lezzi, Schizzinoso mortai,
e con qual
dritto ' i>
Pretender puoi d' esser
tu solo esente
)» Da la
sorte comnn, come
se fossi r>
Il figliuolin della
gallina bianca, 1»
Moi vili polli
e di vii
uovo usciti ? » Cresee
r impertinenza, se alla
voglia di ptflmre
sempre di sè,
si unisce la
pretensione di superare
in tutto gli
altri. A sentire
qualche stolto, i
suoi cavalli ilono
più veloci di
quelli d' Achille, i
suoi jiervi più
avveduti di Ulisse,
il suo cuoco
più sagace d'Apicio,
ecc. Il sole
comprimi ed ultimi
raggi saluta il
suo palazzo; l'aria
non è pura
fuorché nelle sue campagne;
in nessun gianlino
olezzano sì soavemente i
fiori come nel
suo. Chi si
move in una
danza con maggior > garbo di
lui? Al paragone
della beHesza non
potrebbe egli contendere il
ponto alle tre
Dee? ecc. Quindi
ora pretende al
sublime onore di
passare prima degli altri ;
ora si lagna,
perchè non pieghi
sino a terra
la fronte chi
gli fa di
cappello ecc. I suoi
vanti giungono sempre
alla menzogna quando
parla con persone
che non lo
conescono. ! a
E sei miglia
lontan dal suo
paese » Tal
faceva il signor,
barone o conte.Ch'ivi
guardava i porci
per le spese
». f ^
Siccome gli uomini
vogliono più applausi
die istruzione, inclinano
più a censurare
che ad applaudire;
perciò comparir nelle
conversazioni più di
sè occupali che
degli altri, voler
primeggiare sopra tutti,
pretendere di singolarizzarsi a
spese altrui, è
il più sicuro
mezzo per rendersi
spregevole e ridicolo, /j/vj .
La smania di
rappresentare un personaggio
distinto nella conversazione e
rendersi lo scopo
di tutti gli
sguardi, è il
difetto principale degli
uomini di spirito ^
i quali perciò
amano meglio talvolta di
conversare con persone
di poca levata
cui possono dar
legge coloro discorsi,
di quello che
ritrovarsi in crocchio
coloro simili, da cui temono
di .riceverla; cioè
preferiscono d'essere re in una
cattiva compagnia, alPessere
sudditi in una
buona. Ma solamente
una vanità puerile
può compiacersi dell'omaggio
di quelli ch'ella
disprezza. Due donne di
primo rango ti
movevano querela^ pretendendo runa suir
altra il passo
in una chiesa
y e assordavano colle loro
dispute i tribunali.
Carlo V, per
impedire le cabale
.cui poteva dar
luogo questa sì
seria contesa, stimò
a proposito di
farsene arbitro, e decise che
11 diritto d'
andare avanU apparteneva alla
più stolta delle
contendenti. L'abate Testu,
dice d'Alembeit, dominava
principalnieDte all' Hòlel-Richelieu, ovo
era l'oracolo e
l'amico intimo ^iqitif L'amore disordinato
di noi stessi
ténehdoci fissa avanti
lo spirito V
idea delle nostre
qualità, V ingrandisce snrìisuratamente, come
il sol eadente
ingrandisce l'ombra del nostro
corpo e la
fa comparir gigantesca. Può
essere citato sotto
questo articolo il
difetto 4i coloro
che la loro
arte o professione
innalzano ' sopra
tutte, e vi
mostrano i beni
immensi di cui
è fonte; e
vi provano con
cento argomjenti, che
se sparissero tutte
le altre, essa
sola sosterrebbe la,
società cadente e
le darebbe lustro.
Da ciò nasce
una serie indefinita
di sgarbi, di>spregi,
di censure alle
volte ingiuste, spesso
false, sempre ìmpulit;e.
Un buon prete
cui confessavasi Despréaux,
gU dimandò Qual
era la sua
professione. Io sono
poeta, rispose il
penitente. Cattivo mestiere,
replicò il prete
: e poeta
in qual genere
? Poeta satirico. Amora peggio;
e contro chifate
voi delle satire?
Contro i compositori
difxommedie e di
romanzC '^^Òh !
per questo aggiunse il
prete, alla buon'
orix; e gli
diede fassoluzione immediatamente. In
conseguenza delPaccennata impulitissima
pretensione Alcibiade diede
uno schiaffo ad
un maestro di
rettorica, perchè non
aveva un esemplare
delle poesie d'Omero;
ed un altro
adoratore di questo
poeta fece voto
di . della
duchessa di questó
nome, ^lìceome egli
non amava d'essere
contraddello, ma molto
di essere ammirato,
perciò gli andava
poco a sangue
il commercio degli
uomini, più conlenlo
di brillare in
un circolo di
donne che talora
col suo dir
sorprendeva, talora adescava,
secondo che meno
o più gli
piacevano., t leggere
Ogni giorno mille
versi di esso»
a riparazione tarli
gli venivano iattL
\Irritabilità e ruvidezza.
Lo spirito stizMso
è ii flagello
deH^^Niéi^tà'i come il
carattere dolc« ne
è il ba)san(M),.»Iiiriitàbilità rende
deeuplo-'il.fientìmjeiito.ctolAh
supposta offesa: e
spesso ha fonte
neir ìntima p^sijasiooe di
non meritare alcun
riguardo. Quindi le*
peiisMe più ^irtilei)Ui
smé' per lo
fiià4e? teste più piccole,
più vuote, più
prive di qualità
reati." Gcnìvinte dqlla
..kro .BiiUftà.> iMiinam
amdenl scopo dell'altrui
spre^?o, e si
confermano in questa
idea ad j^oi/miaima
eerknoma che per
ioavverf lénaa vengà
cdii «ssè traseuràta.^
Uina parole eftig«
gita in un
momento di calprCi- di
vivacità, d'àlle^ grezza,
viene da ^se
esaotlnata con tutto
il rigorè, non
dico della logica,
ma del puntiglio,
staccata da quelle
circostanze che se
non la giostificanò
pienain6iite< la^dimò^tranO' figlia
pintlMto''4eH', riflessióne che
delio malizia. r^-r
I L-esser tenera
e vezzo6CKaBìci»*(it ditdiee
aseai;" »:dicc monsignor
della Casa, e
massimamente agli M.
i^omioi; iNsreiocchè l'osare
con si &tta
maniera «: di
pet*s0Be non pme
eompagnia-me servitù re » certo
alcuni se ne
trovano ohe sono
tanta tenerr '>
e fragili 4,
che il viv.ere
e dimorar con
«asdoìfo, » ninna
altra cosa è,
che impacciarsi fra
tanti • »
sottilissimi vetri; così
temono essi ogni
leggier '^ercosisé, e
così conviene trattargli
e riguardar* »•
gli : 1
qijali così si
crucciano, se voi
non foste 1*
così pronto ^
fioUeeìto a sduladii
a visitarli, a
» riverirli, ed
a risponder loro,
come un altro*.
farebbe d'un' ingiuria
mortale; e se
voi non dato » loro
così ogni titolo
appunto, le querele
aspris» sime e
le inimicizie mortali
nascono di presente.
» l^oi mi
diceste messere^ e
non signore. E
per» chè non
mi dite voi
S. ? Io
chiamo pur »
voi il signor^
tale. Ed anco
non ebbi il
mio » luogo
a tamia !
E ieri non
vi degnaste di
» venire per
me a casa,
come io venni
a trovar i^voi
Valtr* ieri. Questi
non sono mòdi
da tener con
un mio pari.
Costoro veramente recano
le » persone^a
tale, che non
è chi, li
possa patir di
» vedere, perciocché
troppo amano se
medesimi » fuor
di misura; ed
in ciò occupati,
poco di »
spazio avanza loro
di poter amare
altrui; senza »
che gli uomini
richieggono che nelle
maniere di w
coloro co' quali
usano, sia quel
piacere che può
» in cotale
atto essere; ma
il dimorare con
sì ì> fatte
persone fastidiose, l'amicizia
delle quali sì )^ leggiermente,
a guisa di
sottilissimo velo, si
w squarcia, non
è usare ma
servire, e perciò
non solo norf diletta,
ma ella spiace
sommamente. » Altri
a nissuno mai
fanno buon viso;
e vo-~ »
lonlieri ad ogni
cosa dicono di
no; e hòh
prèri dono in grado
nè onore nè
carezze che loro
sf >i faccia,
a guisa di
gente straniera é '^barbara;
non » sostengono
d'essere visitati ed
accompagnati; e »
non si rallegrano
de'motti nè delle
piacevolezze; » ^
tutte le proferté
rifiutano. Messér tale
m*im» pose dinanzi
ch'io vi salutassi
per parte sua.
Che ho io
a fare dei
suoi saluti ?
^ E>l messer
cotale mi dimandò
come voi stavate.^
» Fenga, e
sì mi cerchi
il polso »
La naturale rozzezza
dell' uomo, fa
mancanza d^educazione, una
stolta vanità, la
piccolezza di spirito,
talvolta dei risentimenti
amari, talvolta Fimpossibilità di
partecipare ai piaceri
sociali, bastano a spiegare
in generale gli
accennati difetti. Una
causa speciale d' irritabilità e
ruvidezza si era
per Taddietro uno
stolto orgoglio di
famiglia, per cui
alcuni, persuasi d'essere
vasi d'oro, e
credendo tutti gli altri
di fango, sfuggivano
ogni contatto con essi,
si mostravano alieni
da ogni confidenza,
s'atteggiavano a sprezzo
abituale come queir
Omberto ALDOBRANDESCHI a cui
Dante ALIGHIERI fa dire,
« L'antico sangue
e l'opere leggiadre
» De'miei maggior
mi fèro sì
arrogante, » Cbe
non pensando alla
comune madre, »
Ogni uomo ebbi
in dispetto tant*avante,
^ Cb' io
ne morii » Finalmente
vi è una
irritabilità e una
ruvidezza che è
figlia di timori
immaginarii. Un asino
sta mangiando il
suo fieno; voi
gli passate a
fianco senza pensare
a lui; egli
si volge e
vi mostra i
denti, temendo cbe
vogliate rapirgli parte
del suo pasto
o tulio. —
In questo stalo
d'allarme si trovano non
di rado alcuni,
percbè credono d'avere
sempre qualche nemico
a fronte; quindi
stanno continuamente sulle
ditese, pronti anche
ad assalire chi non
ha giammai pensato
ad essi. Uno
sguardo incerto, una
parola dubbia, un
atto che non
sanno spiegare, eccita
tosto il loro
mal umore; quindi
succedono degli sgarbi,
parecchie amicizie cessano,
delle nimistà sottentrano,
e l' allegrezza dalla
conversazione sparisce. Contro i
quali difetti . vatgpna
i seguenti riflessi.
La società è
una piazza di
commercia, ove 8i
dà amor per
amore « .stima
per stima, odio
per odio, sprezzo
per sprezzo. Jn.q«iesto
camliia d'affetti ciascuno
procura di non
essere ingannato, e
rieiisa é} dar
più di quel
ctie riQeve. L'orgoglioso
vorrebbe violare queste
due lef^i; egli
dà sprezzo, e
vorrebbe ammirazione :
egli dà poco
o nulla, e
vorrebbe motto; quindi
s' irrita non rfeevendo
!n proporzione delle
sue pretensioni; egli
è irragionevole come
colui che con
pochi centesimi volesse eomprar
delle gemme. Il
tempo che perdete
in lagnarvi inutilmente,
in prepararvi a
difese, in mulinare
contro chi non
pensa a voi,
occupatelo a rendervi
stimabile in qualche
cosa, e coglierete
rispetto e contentezza
> mentre attualmente
cogliete sprezzo e
rammarico. É ottima cosa
la sensibilità airopinione
pubblica, perchè è stimolo
alla virtù e
ritegno ai vizi;
ma è pazzia
il far dipendere
la propria felicità
dairopinione eventuale di
questo o di
quello. « «
Brami invan d'esentarti
alle punture, »
Se fòf d' A
pelle infin Topre
Immortali » D'un
ciabatti Q soggette alle
censure. Pretendere che la
nostra condotta ottenga l’approvazione di
tutti, è nretendere
che a tutti
piacciano le stesse
vivande, i falsi
giudi%i del volgo
non tolgono pregio
alle nostre azioni,
come le nubi
non tolgono pregio
alla hice del
sole. Chiama in
Roma più gente
alla sua udlenea
» L'arpa d'aoa
Ucisca cantatrice^ »
Che la eampafia
della Sapienaa. »
Laseino omai> le
dispute e i
litìgi » Il Portico e
il Liceo, poiché' et
MllM • »
Più di Talete
un aarto di
Parigi. » *i^ì
sono delle persone
dalle quali essere
lo4a(p sarebbe infamia, e
lo sprezzo delle
quali è segnò
4| merito. $iate
dunque sensibile air
opinione pubblica^ e sordo
alle yoci .p^rtioolari
cbe da es^
discordano^ ricercate l'approvazione delle
per som assennata
2;iV^2^o5e,^e ridetevL4f)U§ dpgli
sciocchi e de'yiziosL
*t Uq .vi^giatore,
dice Boccalini, era
importunato dal rumore
delle cicale; egli
yolle ucciderle, e
sì allontanò dalla
strada; egli doveva
continuare quietatneate il
suo viaggio, e
le Qical^ sarebbero
wprJje 4a se
9|M8e alla fiue
di otto giomL.
I •lE fo
come il villan,
che, posto in
mez^ ' r
i V Al
romor delle stridule
cicale, » Semai
eurare H fimeo
strido toro D
Segue traa^uìUamente il
suo lavoro. »
III. Se avete
qualche difetto fisico,
siate il primo
a riderne voi
stesso; in questa
maniera sfuggirete airaltrui
motteggio : facendo
altrimenti, mostran* dovi
tenera da questo
lato, ognuno si
procurerà il piacere
di pungervi. Alfieri,
costretto a portare
la parrucca nella
$ua gioventù, allorché
trovavasi in collegio,
divenne iminediataBiente lo
scherno di tutti
i suoi compagni.
« Da prima,
egli dice, io
m'era messo a
pigliarne apertamente le
parti; » ma
vedendo poi ch'io
non poteva a
nisBua patto »
salvar la parrucca
mia da qaello
sfrenato tor» »
rente che da
ogni parte assaltavala,
e ch'io ao»
dava i rischio
di perdere anche
con essa me
» stesso, tosto
mutai di bandiera,
e presi il
partito » più
disinvolto, che era
di sparruccarmi da
me » prima
che mi venisse
fatto quell'affronto, e
di » palleggiare
io stesso la
mia infelice parrucca
per D l'aria,
facendone ogni titapero.
E io fatti,
dopo » alcuni
giorni, sfogatasi Tira
pubblica in tal
guisa, » io
rimasi poi la
meno perseguitata, e
dirci quasi v
ìa più' risj[léttàta
parroeca fira le
due o tre
altre » cb^
ve n'erano in
quella stessa galleria.
Allora » imparai
che bisognava sempre
parere di dare.
» spontaneamente quello
ebe non si
potea impedire »
d'esserci tolto. »;
>^ Benedetto XIV
fece di più:
un cattivo poeta
aveva stampata una
satira contro di
lui: il Pontc0è9%^jBsaminò, la corresse,
la . rimandò
air autore, accertandolo che
cosi corretta la
venderebbe iV. (%esterfi0ld
aggiunge: « IVon
mostìrate iriai »
il più piccolo
segno di risentimento
se non potete
i in qualche
maniera soddisfarlo: ma- sorridete^ »
sempre quando non
potete punire. Non
si po: »
trebbe viver nel
mondo se non
si pocesserana^ »
scondere o almeno
dissimulare i giusti
motivi di »
risentimento che incontrano
ogni giorno in
» un'attiva vita
e affaccendata. Chi
non^è padrone »
di se stesso
in tali occasioni,
dovrebbe lasciare ilmondo
e ritirarsi iu
qualche romitaggio o
de« » serto.
Mostrando m inutile
e cupo risentimento^, LIMQ^EUO,
» autorizzate quello
di coloro che
vi possono. of«*
3» fendere, e
oh/f voi olCeodigre
aoa potete} porgete
1» loro quel
pretesto eoa cui
forse desiderano di ». Komperla
cop voi e
d'iugiuriarvi, mentre un
op» pqsto coQtegBO
li forzerebbe a
star ae'liiniti delia
» decenza almeno,
e sconcerterebbe o
farebbe pa» lese
la loro otalfgoità
V * J
^ii^' In somnia^
sodo le deboli
canne che si
lasciano turbare da
ogni soffio di
vej^o, pentrj^ le
alte gtt€pr0e réslstoiK)
agli aquiioni. Finché dunque
si tratta d'ingiurie
lievi, la miglior^ risposta, si
è il sorxiso
del dispre^ui^o; ma
Quando iti tratta
d' ingiurie gravi ché
offendano l'onorey chi
le soffre le
merita; il risentimento
in 'questi casK
è cosi jiusto
come è giusta^lsi
legge che le
punisce. ^à^l \
i 10. Curiosità
degli affari altrui.
> Non può
abbastanza censurarsi, perchè
contraria alla confidenza
e quindi. all'allegrezza, la
smania di eeloro
che vogliono conoscere
tutti gli affari
altrui^ saperne le più minute
circostanze, e dei
nomi chieggono notìzia a de'
luoghi, e, per
trarvi di bocca
qualche cosa di più, pria
fingono di non
avere bea intesot
poi vi dimandano
schiarimento ad un
dubbiti^ orarvi piantano
avanti un sospetto
come in* fallibile,
e, vedendo che lo respingete,
mostrano di riciedersì
passando al sospetto
opposto, e dalla
nuova vostra negativa
o maraviglia fatti
accorti si ripiegano
aopra se stessi
per ritornare airattacco;
e 0 non
gran pompa «di
tolleranza v' invitano
ad aprir V
animo, o con
improvvisa ed isolata
interrrogazione vi sorprendono
: e tenendo
gli occhi fissi
sopra di voi,
cercano di leggervi
nel volto V
impressione che fanno i loro discorsi,
la quale, pav -
ragonata e unita
alla vostra risposta,
serve loro di
via per giungere
al vero. Questa
curiosità conduce -i
ciarlieri, i parabolani,
gli invidiosi, i
tristi per tutte
le case, i
palchi, i caffè,
onde raccogliere e.
raccontare i^.^^ >
' it ie
vicende ascose: w
Degli instabilì amor,
le cagion lievi Dei
frequenti disgusti, i
varii casi »
Del dì già scorso, le
gelose risse, Le
illanguidite e le
nascenti fiamme Le forzate
costaiize e le
sofferte. Con mutua
pace infedeltà segrete,
• » Dolci
argomenti a feraminii
bisbiglio. Questo prurito d'indagare
le faccende altruf
è tanto più
attivo, quanto più
si manca di
idee e di
sentimenti proprii; giacché
il nostro animo
volendo ^un continuo
pascolo, se non
ne trova in
se stesso .
va per le
altrui case a
questuarne. v •
^ Senìbra che anco la
vanità concorra a
rendere il pungolo
della curiosità più attivo.
Si crede acqui"
*i ' ir
L'Imperatore Claudio sarel)be
morto di noia
se noi) si
fosse occupalo ad
ascoltare tutte le
cause che si
agitavano nel foro, ed
a conoscere tutti
i segreti, gli
accidcnU, le sventure,i
piccoli odii, gli
intrighi, i pelegolezzi
delle famiglie. Gli
avvocati, cui era
nota questa sua
debolezza, lo prendevano alle volte
per i piedi
e lo trattenevano
in tribunale allorché egli
voleva partirne. Le
dimande inopportune, le
rispostestolte, i riflessi
ridicoli di qlieslo
preteso giudice mei
\ levano in
tale evidenza la
sua stupidezza, che
un avvocato :,v.',.Starsi
qualche grado di
gloria nel poter
dire lo^lo io
l'ho veduto :
infatti gli stolti
e gli scioperati
• amniirano queste
notìzie, e credono
uom d'acuto e;
perspicace ingegno colui
che le spaccia;
mentre tutto :
il suo ingegno
si riduce a
prestare le sue
orecchie ai discorsi
degli altrui servi
e nio;izi di
stalla. >^ Siccome
in tutte le
classi sociali sta
la realtà all'apparenza
come la grossezza
della rana alla
grossezza del bue;
siccome ciascuno si
sforza di coprire
con color lusinghiero
le proprie debolezze,
quindi il curioso
che vuole spingere
lo sguardo /sotto
al velo delle
cose, offende sensibilmente
l'altrui amor proprio, e tanto più,
quanto che da
un lato si
temono maligni commenti,
dall'altro si vede
minacciata pubblicità alle
proprie miserie ed
ai difetti, sapendosi
da ciascuno che
il curioso è
indiscreto e ciarliero.
Sarebbe desiderabile che
i ^ curiosi
venissero a scoprire
nelle loro impulite
ricerche ora un'azione virtuosa
che la modestia
voleva sottrarre agli altrui
sguardi, ora qualche
accidente che offendesse il
loro amor proprio,
come •successe a
Catone, il quale
stimolando Cesare a
mostrare una littera
che questi ricevette
in pien senato,
e di cui
faceva mistero, Catone,
dissi, vide con
sua sorpresa una
lettera galante scritta
i"di pugno di
sua sorella. Allorché
sì tratta di
cose alcun poco
ragguardevoli, il curioso
corre pericolo d'assicurarsi
Tonoratissimo titolo di
spia. Gozzi dipinge nel
modo seguente la
comune curiosità de' faUi
altrui e i
suoi ridicoli commenti.
(« Sarà uno
nella sua slanza
cheto, solitario; penserà,
Franklin ci dà
un metodo, se
non per liberarci
dai curiosi, almeno
per troncarne Y
importunità; 1 .v.
• Jegc;erà, scriverà,
o farà qualche
altra opera onorala
: » uscirà
di casa, anderà
un poco inlorno
a ricrearsi all'aria;
» saluterà due
o tre amici,
perché pochi più
ne avrà voluti^
» sapendo che
di rado se
ne trova anche
uno che sia
vero: » e appresso rientrerà
come prima a fare i
falli suoi. Che
» uccellaccio è
questo ? diranno
alcuni : non
è possihile che
)» un uomo
sia fallo a
questo modo. Si
comincia ad inter»
prelare ogni suo
atto, ogni parola.
Sapete voi che
ha voluto •
dire quando alzò
le spalle ?
quello che significò
queir oc*, »> chìala?
e quella parola
tronca ch'egli ha
proferito? Sicché il
pover uomo, senza
punto avvedersene, ha
dietro il notaio
» e Io
strologo, e chi
nota, chi indovina,
chi fa commenU
alla sua lingua,
e a quante
membra egli ha
indosso. Vo » lete
voi più? Tanti
sono i sospetU
del fallo suo,
che egli »
avrà fatto nell'
opinione d' alcuni
quello che non
ha fatto» mai,
o che non
avrà sognato di
fare. Le cose di
questo mondo sono come una matassa
di filo; chi
non sa trovarne
il capo, la
lasci stare, perchè
s' impiglierà sempre »
più. A me
pare che quando
s' ode a
raccontare qualche »
cosa d'uno, si
dotesse prendere questa
matassa, metterla »
sull'arcolaio, come fanno
le femmine appunto
del filo, scio »»
gliere con accortezza
il primo nodo,
e preso il
bandolo in »
mano, cominciar a
dipanare con diligenza,
e, secondo che
si trovano gli
intrighi e i
viluppi, tentare se
col candore dell'animo e
con la verità
si possono sciogliere.
Se non si
H può, buttisi
via la matassa,
ma quasi sempre
credo che sì potrebbe
da chi non
corresse troppo in
furia, per vo^
H lontà d'ingarbugliare piuttosto
che di snodare.
Questa u-^ r
ganza è quasi
comune. Benché la
logica insegni in
qual » forma
s' abbia a fare
per venir in
chiaro di certe
faccende incredibili o inviluppate,
pochi se ne
vagliono, e menasi
il n basloie
alla cieca, e
suo danno a
cui tocca. Quando
il » capo é principalmente alteralo
da sospetti o
dal mal volere
» contro una
persona, si può
dire che questa
sia una specie
ivi 4Sfl umm
tmM e . questo
n^do coo»ste nel
precisare il disMMio
e limitame H
soggetto in nòde^
da 'Weliidero quai^lunque
eventuale dimanda. Allorché
questo filosofo ni
1 0 che
dove prenderei sapendo
quanto erano curiosi
^ kiterrogatorì gli
Americani, usava dire
alle persoAe cui
dnrigevasi: 11 mionome
è.Franklm, staoH' patore
di professione; io
vengo da tale
luogo, voglio andare
a tal altro:
quale strada devo
tenere? Dichiarando impulita
l'eccessiva curiosità, av-^
verto i giovani,
che in molti
casi la curiosità
è; vinù; perchè l’indifferenza, la
non curiinza l’insensibilità sono
la massima offesa
per l’amor proprio x^he vuple
occupare gU ititn
ili S9 atpsso
V é ^
conservare le apparenze
della modestia. La
pulitezza v' impioiie adunque
dt chiedere frequenti
aptfeàief di mostrarvi
inquieto suH' . altra! aorte
^ «d esternar
piacere o dolore
alle altrui foi
tnne o disgrazie. L'infelice, come
è stato detto
altrove ^\ sente alleviarsi
il peso de'
suoi mali allorché gli
4j^e^ al suo
simile; ma q^olte
volte temendo d'imv
^tf^unaito, si pasce
di cordoglio in
segreto, allora fa d'uopo
che una tenera
sensibilità gli faccia
una dolce vio^enzaf
e "versi il
balsamo della eon«
^ solazione sulle
piaghe del suo
animo: la curiosità
de' superiori o degli
amici in questi
casi diviene imlesto
rugiada. • Parimente,
«ccome II timore
dV equistarsi la
taccia di vani,
consiglia alcuni a
ve* lara le
loro fortune ed onori :
qòindi la pulitezza^,
y d'ubbriache/za, per
la cui forzii
l' uomo non vede,
né sa più
quello che si
dica o faccia,
e appena coiX)sce
più sé »
medesimo 4Sr eome. attrai» ai àìm ^
vgoto^ehe éiiigtaM il di* scorso
da questa banda,
ma con destrezza
e tale eanfeaiaQsa
di parole, dm
la congratulazione e
l'elogio seovri é'adiilaamie
si mostrino e
di men^ 20goa.
V In «oMkia
> Ja cnriofiità ò
ripronslbile qomdo minaccia pubblicità alle
altrui debolezze e
imperfé« zioni; è
lodevole quando tende .
a dare risalto
al merito o
porger aoeeorsò al
bisogno. Burrasche delle CONVERSAZIONI i o
dispute. 'I glardiAf
de'iilosofi d'Atene si
estendevano dalla rive
deirillisso sino a
quelle del Cefìso.
Gli Epicurei sì erano
stabiliti al centro,
i discepoli di
Piatone vèrso il
Nord, e quelli
d^Aristotite al Sud.
Non si videro
giammai vicini men
turbolenti nè man
geloìsi: un sentiero
d* ulivo ^
un boscbetto di
mirto, una siepe
di rose separava
i sistemi e
serviva di limite al
regno dell'opinione. Le
conver* sazioni non
«ono sempre ugualmente
paciliche; la diversità
delle idee apre
il campo a
lotte rumorose accompagnato
e seguite da
parecchi inconvenienti. Idea della
personalità. Discutere è allegare
le ragioni e
gli argomenti cui
due opposta opinioni
si ' 0
sione degenera in
disputa al momento
che qualche personalità
vi si frammischia.
Per personalità non
si intèndono qui
quelle patenti ingiurie che
la buona compagnia
interdice, ma quelle
che, sebbene meno
gravi, non lasciana
d'essere nel tempo
stesso pungenti per
Taltrui amor proprio,
ed estranee alla
cosa. . Due
specie di personalità
sogliono per lo
più introdursi nella
discussione, e le
fanno degenerare in
disputa. • >
Colla 1.3 spede
si fa rimprovero
air avversario ch'egli
parla per motivi
particolari, d'interesse per se stesso,
d'affezione pe'suoi amici
o per la
sua classe, d'odio
contro i suoi
nemici, ecc. «
Voi » parlate
così perchè siete
militare; e voi
negate » perchè
siete prete, ecc.
» Ognun vede
che queste non
sono ragioni; e
quanto è facile
di farne uso
ad uno, altrettanto
riesce spedito all'altro
il ribatterle. Colla
2.3 specie sì
dice all'avversario ch'egli
non conosce la
materia di cui
si parla; ch'ella
suppone cognizioni superiori
alle sue; eh* ella
è estranea alla
sua professione. Anche
questo modo d'argomentare tende bensì
a deprimere la
persona dell'avversario, ma non
scioglie i dubbi
eh' egli proipove.
Inoltre, senza essere,
per es., giureconsulto, non
è impossibile d'avere
delle idee giuste
e nuove sulla
giurisprudenza. Cause delle dispute.
Si direbbe che
gli uomini inciviliti
amano le dispute, come
i selvaggi i
combattimenti. Sono cause
di dispute: I.
// desiderio di
conservare la propria
libertà. In parità
di circostanze ciascuno
preferisce all'ai'. litti^ Ja«ia
»9§iMm^ «ppunto perahà
ò sm ^ jqumdi
siamo tanto più
resti! ad ammettere
l'opinione altri, quanto
è maggiore 13aria
di epmaoido con
om ei viene
proposta, fiiif sottopond
al nostro giudizio
un'idea sotto le
forme del dubbio,
riesce fià,f«eibiimt0 a
eonYtnemi. dr ^oello
^ ehi >
senza produrre argomenti
maggiori, nfH>stra di
vo* ler dogmatizzare
e vietarci ogni
obbiazioiie L'uoma ò ai
geloso detta sua
libertà intellettuale, eoitae
la è. della «ua
libertà civile e
politica. Dopo molti acutissimi
argomenti 1» E
molte riflessioni pellegrine
» E belle
cose détte da^taienti
» Sì grandi,
la questione ebbe
quél firó v '\l. »
Che soglion tutte
le quistioni avere
v " Cioè
^estò ci€iscun,4el, mo
parere ». IL
La vanUé^^eàe^ uaa
apecie d'avvilimento^ tìst
sommettere la propria
alF altrui opinione,
percKè' lo crede
segno 4'iaferiorità intellettuale. Il
dispia-, cere dì
questa supposta infèricirità,
sensibile in ttìtì^
cresce in ragione
dell'alta idea che ci formiam
di noi stessi,
e può (
tant' è la.
debolezza umana j
) . giungere
al plinto da
cagionare la morte,
come successe ad
un filosofo dell'antichità detto
Dìodoro. Erano state
fatte a questo
sedicente filosofo alcune,
obbiezioni, alle quali
egli non seppe
rispondere : lo
sgraaiato .fu punto
da sì vivo
malincuore e dispetto,
perchè il suo
spilli to lo aveva
tradito, tìm spirò
air istante. è
si ver4 die
la. vanità è
cavia di dispute^
che il silenzio
d'uno de' disputanti che
resta nella propria
opinifma diviene offensivo;per Taitro.
Il silenzio in questo
caso sembra provare
che si ha
sì basso concetto
dell'antagonista, che qualunque
ragione non basterebbe
per convincerlo; quindi
si risparmia la
pena di parlare.
Costui vede dunque
che mentre egli
si sfiata, il
nemico sorride, e
lo lascia abbaiare
come i cani
alla luna; e
che quindi egli
non ottiene lo
scopo che si
aveva proposto, cioè
la superiorità sul
suo avversario. La
Mothe aveva detto
male d'Omero; il
poeta Gacon pretese
di vendicarlo; la
Mothe non rispose]:
roi non volete
dunque rispondere al
mio Omero vendicato'?
gli disse il
poeta, f'^oi temete
la mia replicai
Ebbene, voi non
V evltet^ete; io
pubblicherò un libro
che avrà per
titolo : Risposta
al silenzio di
la Mothe. Lo
spirito di contraddizione. Alcuni
par che non
godano d'altro che
d'essere molesti e
fastidiosi a guisa di
mosche, è fanno
professione di.. contraddire dispettosamente ad
ognuno senza riguardo.
« Pria che
tu parli, M
Nega quel che
vuoi dir, e
se consenti . » Pur
d'aver torto, Non
è yero^ ei
grida^^^" É vuol
ch'abbi raglotii"»/-' E
siccome taluni si mostrano terribili
nelle dispute per la forza
e capacità de'
polmoni, perciò sembra
che lo spirito
di contraddizione si
debba primieramente a stolto
orgoglio attribuire, o sia indistinto
bisogno di dominare.
Lo fomenta fors'anche
una causa fisica
non ben nota,
chiamata temperamento, quella
causa per cui
il can rosso
dell' abate Casti
neinilustre adunanza degli
animali parlanti. Di petto
Instancabile e di
voce » Ringhia;
con tutti ognor
brontola e sbuffa,
» Pronto con
tutti ad attaccar
baruffa. Le inimicìzie sogliono
essere una delle
primarie ragioni per cui si rigettano
le idee altrui;
giacché all'odio sembrano
vere e reali
vittorie le mortificazioni alla
vanità dell'odiato. Secondo
che racconta il
Castiglioni, trovandosi due
nemici nel consiglio
di Fiorenza, V
uno di essi,
il quale era
di casa Altoviti,
dormiva; l'altro che
gli sedeva vicino,
e che era
di casa Alamanni,
per ridere; toccandolo
col cubito, lo
risvegliò e disse
: Non odi
tu ciò che il tal
dice ? rispondi,
chè i signori
dimandano del tuo
parere. Allor TAltoviti,
tutto sonnacchioso, e
senza pensar altro,
si levò in
piedi e disse
: Signori, io
dico tulio il
contrario di quello
che ha detto
T Alamanni. Rispose rAlaiiianni:
Oh! 10 non
ho detto nulla.
Subito disse rAllovitì:
Di quello che
tu dirai !
! i V.
V imperfezione inerente
a qualunque cosa umana apre
il campo a
rinascenti dispute. Questa
imperfezione risulta :
Dagli oggetti che
hanno molti lati,
e de'quali ciascuno
considera quello che
più gli piace;
2. Dalle persone
che non hanno
gli stessi occhi,
gli stessi interessi,
gli stessi principi!,
le stesse cognizioni, gli
slessi gusti. Petrarca parla
iV un uomo,
il gusto del
quale era si
depravato, che non
poteva tollerare il
dolce canto degl'usil^nuoli, e
gongolava di piacere
al crocidar delle
rane. Dalie parole
che non sono
abbastanza moltiplicate ne abbastanza
particolari per essere
sempre esatte ^
e corrispondere ali^
varie modiGcazioni de'
sentìment!. Quindi tutto
ciò che si
dice e si scrive essendo
SQfi^ettfvo. di «varietà
indefiaila^ non deve
recare maraviglia se
a costanti opposizioni
va soggetto, ^»1ra
le eansa delle
dìApntei e sotta
questo arti* colli
fa d'uopo» ace^nramia
monto di spiegm^
i futti prima
d'esserBi accertati della
loro esistenza ^ e .per col
si dispala con- taMd
maggioi* calwes quanto
che ciascuno parla
y ccilne si
dice, in aria,
e M batte
con strali di
nebbia. Nel lì>05 corse
rumore elio essenilo
caduU ideali ad
qiì faiìciailo df
sette anni nella
Slesia, gUe.tté era
sorlo uno d'drd
al poslo d*tino
de'ipollftri eadutt. HorsHus,
professore di meileina
mellf università ^i
ffelmaMftd, sf rìsse
nella storia di
questo dente, e
pretese ch'egli era
in parte naturale, in
parte nìiracoloso, e. che
era stato spedito
da Dio a
questo fanciullo^ a
fine di consolare
i Cristiani afflitti
per le vittorie
de'Turéhi. t^lguratévt quale
consolazione poteva recare al
cristiani tm dente
d' oro, e quale
rapporto poteva unire
un dente e
i Turchi. Nello
stesso anno, attìnchè
questo dente noB-manoasse
di storici, RuUandtui
ne diede una
nuova storia con
VMOvI cijmiDelitIt SuaUnni
dopo ^ IngloBlerns
^ altro, dpU^
tedesco, scdsse contrq
II sistema esposto
da iWlandus^ W
quale rispose cpn
una pix)fonda arcihelllssima replica, come
è ben naturale
di supporre. Un
altro dotto d'eguale calibro raccolse
tutta ciò i^ìha
era stato detto
sopra questo dente
maravtgliosOi e vi
aggiunse i! suo
parere* A tante
béHe òperé aitro
non mancava se non che
la cosa fosse
vera, doè òhe
II dente fosse
d'oro. Onando un
orefice Tebbe esaminato,
risultò che questo
preleso dente d'oro
era umi Incmvementi
delle disputé/ L'imn
araltya éelle sopraece&nate peirsonalità
suole inacerbire gli
animi nelle discute
: Ordiìiariamente ricorre
piò spesso aite
personalità chi più
scarseggia di ragioni,
3. Nel calore
delia disputa ^li
animi perdano di
vista rargomento' primitivo^
'e vanno divagando
fra idee accidentali
Tuno all'oriente, Taltro
all' occidente, questi in
>Icò; quello al
bassé ^ èDsicchè
dopo lungo alternare
di sì e
di no, dopo
un'ora di tempesta,
dopo d'ayere perduto
la voce e
i polmoni, i
conteodeati più cbe
pria trovansi lootàn!
dalla meta,, ]^fiMii0 di
4U08|ta dUpQsizione d^
loro che la
decisione della disputa
temono contraria alle lor
viste; quindi s'arrestano
sopra «oa parola,
contendono sopra una
slhfiìfrtudine,
scÌMainazzano sopra un'idea
accessoria ecc.; il
perchè .talvolta/a cdlwosa
i^ntesa sopra circoif^s^nze
ac' cideìitali potrà
smprirpi la dubbia,
fede di lai
uno da' coniendentL
foglia d'oro destramente
applicata al dente
ma sì cominciò
«A disputale e
aompprre de'libn, posd^
^ consultò l'oreiice.
foMaeeademfeo A Seeliao,
me^ibro d' altre acc«deoUe,
in vm giOg^Mti
|MdÉb1k»ta ael 4821,
j^ailmdb deUa pcovinda
Lodigiana, dice che
ivi si fabbrica
.iV- celebre formaggio deUo
parmigiano; nel che
ha ragione :
ma il bello
si v che ag. SiWgB
cbe questo ((nrmaggio
si fabhi:ie^ col
latte di asina. Se
quaala gcariaso M^ddoM>
ò oneduto, possiamo
aspi^tacci uoa feoiioa
di dissertazioni sui
nostri formaggi ffasipati Dal
riscaldameato contro le
ragioni si passa
al risealdtmeiiio Mnlro
Je feraipei»; e
:i disputanti dimpslrano
Negli occhi il
fuoco e sulle
labbra il tosco
In somma dalla
disputa sì pass^
alle ingiurie, gentilissiiue
ed edificanti ragipni
degli eroi di
Omero. Iqfatt^ Giove
non parla mal
a .Giunoné .senza
dirle molti improperi!,
e Giunone non
risponde che sullo
stesso tonOì. Dopo
sì npbiU esenipip
figuratevi come dovevano
parlare gli Dei
minori. In forza di
questo riscaldamento, o
in, mezzo a
questa lotta di
vanità, ciascuno a'osti^ia
nel pri (i) jF^ra
i IraUi caratterisUci.degli awpcaU
iligìéiil, 1 an'impudeittà. Que
<sai^dìet. à permettoBÒ
I sarcasmi 'più
indecenti, le personalità
più ingiuriose contro
la parte avversaria;^ essi apostcatapp
A|¥rt^^ i iestimoDii
nel mado più
villano ed .offeosivo, colio
scopo di turbarne
ranimo e indeboliroe
te deposizioni/ EMI per
attro Urano Ulv<^
addosso delle repliche
che gli espongono
àlle risate deir
udienza. In una
causa che discutcvasi
avanti il banco
del re, fu
prodotto un testimonio
che aveva il
naso estremamente rosso:
l' avvocato avversario volendo intimidirlo,
gli disse, dopo
che il testimonio presta il
fjlufaiiiento : Vediamo
ciò che r
avete da dirci
col vostro naso
di rame. Pel
giuramento che ho
prestato, repricò il
testimonio, io non
vorrei cambiare il
mio naso di
rame còlla vostra
fronte di broDso
. Ua paesano det
Berkslìire andava a
^tepoMre isT una
oauM che dteutevad
GnMinH « Cdmo
dàVMUÈ ét ^lle/
gH «disrie »
V avvoi^alb '
Wallace / quanto
guadagnate voi ^
giurare ? 1»
Signor avvocato onoratlssimo,
risponde il paesano,
se voi non
guadagnaste ad abbaiare
ed a mentire
più di quel
che ' lo
a giurare, voi
portereste ben prèìrtn^m
abllo di^ili9;€0iiie lo
porto io^ mitivo
parere, benché il
discorso il dimostri
persuaso del contrario. Gli amici
delFabate Regnier gli
davano il titolo
di abate pertinax,
perchè ''^<'V?'Pìù*duro ed
òslinato degli incudi
», » egli
aveva l'abitudine dì
disputare '^fehacemente ne^ crocchi,
lìnché i suoi
avversari!, più per
stanchezza che per
convincimento, fossero costretti
a sottomettersi al
suo parere. Tra
cento contendenti forse
se ne trova
un solo che
finisca col dire,
et lo parlo
per dir vero,
r. f ».
\y\ .^jil» Non
per invidia altrui
nè per disprezzo. r4^oi)>;.Mia gloria
non ripongo in
ostinarmi,, i <:Iì;»
Nel mio pensier.
lia debolezza è
questa ri Delle
piccole menti, ed
io mi credo
oii^(ffiiGrande abbastanza per
lasciarti tutto ^
iMi^P L'onpr d'avermi
persuaso e vinto
Regole per impedire
o diminuire .
gli iìiconvenienli ielle
dispule., i Nelle
assemblee numerose astenersi
dalFindicare col nome
proprio l'individuo cui
si risponde^ Quando
un uomo s'è
ostinato a dire:
La non ha
ad essere allrtmenii,
io Intendo che la cosa
vada così, o
)» così; va,
picchialo, spingilo, dagli
d'urto, tu cozzi
con una >».
torre, hai a
fai*e con un
greppo, e non
ti riesce altro
se » non
ché tu medesimo
t' induri, e a poco a
poco senza *»)
avved<^rtene, come chi
é tocco dalla
pestilenza, che dall'uno
»> s' appicca
air altro, tanto
sei tu ostinato
e duro nella
tua n opinione,
quanto egli nella
sua, e non
c'è più verso,
che » né
l'uno nè Taltro
si creda d'avere
il torto. Nella
camera de'comuni d'Inghilterra, chi
discute r altrui
mozione o risponde
ad un argomento,
in vece di
'designarne l'autore col
di lui nome
individuale, ricorre a qualcuna
delle seguenti circonlocuzioni :
l'onorevole membro alla
mia destra o
sinistra, il gentiluomo
dal cordone bleu,
il nobile lord,
il mio dotto
amico (parlando d'un
avvocato)* ecc., ovvero
semplicemente il preopinante.
La ragione di
questa regola si
che la specifi<;azione del
nome è un appello più
vivo all'amor proprio
che qualunque altra
designazione. Col primo
modo di parlare
si dimentica, per
così dire, la
persona individuale, e
non si considera
che il di
lei carattere politico.
Si scorge Tutilità
di questa regola,
se si riflette
che nel calore
della dìsputa i
contendenti durano fatica
a sottomettervisi, e
la passione tende
a violarla. Allorché
Tex^ministro Decazes montò
alla tribuna della
camera dei deputati per
rispondere al notissimo
segreto di Rignon,
e cominciò per
chiamare a nome
il Bignon, mostrò tutta
l'amarezza del risentimento,
e dimenticò le
regole della pulitezza
francese c delle
assemblee numerose. ^
t.fn . Non
attribuire giammai a
pravi motivi od
intenzioni perverse V
altrui opinione. Anehe
questa regola è
osservata rigorosamente ne'dibattimenti brittanici.
Voi potete con
tutta libertà rimproverare al
preopinante la sua
ignoranza, i suoi
errori, le sue
false interpretazioni d’un
fatto, ma fa
d'uopo che v'asteniate
dall'accusare i motivi
che riaducono a
proporre od a
rispondere. Estendetevi
sopra tutte le
conseguenze nocive della
mi Sttm poopoata
o doiropinioQe «h'egli- dtf&nde; diìnositraie
ehe saifann^ fenestè
atta Sl^, ehe.-la?»^
riranno la lirannia o l'anardua;
ma non fate
giam f mei siipporrèch'egH abbia
iiMvediite a ¥ol«teqìieslfi conseguenze.
-, f^^oi'^ii.vRigorasamente parlando,,V
aocennata regola è
fondata nella giustisia;
potùhè se è
dfffidto U conoscf^re
i mi e
segreti motivi che
agiscono sul no^tta
aiilmo « è
edsa taneruria il
preMiém di ravvisare
quelli che movono
Faltrui; e ciascuno
sa. per pisoptfia
«sperienra quante volte
i nostri spetti
diano in fate»
in queste ricerche. La
risérta^ tMZza imposta
d^UA suddetta regola
è olile a
tutti, perchè è
scM»tegiia> aOa libertà
delle opitueitì é
schermo contro le
ingiuste accuse. Nei
dibattimenti pplitieìii com(9
HeUa^gju^rra^' ciascuna deve.
asteneESì da que'
mezzi che ragjionevoitnente non
yorrcèbe Msati opntro
di sè. » )
? 1 -Ma
sQi^rirttutto
poid'Memoata^^liegek ètepiiliMr^ alla
prudenza. Infatti, voi
credete che il
vostrb a^jta^aui^ «'apfiig^
al. torto^^ oi^.
egli ummrk torse
restìo ad abbracciale
là vostra opinimie*
sé gliela presentate
nella sua nudezza
scortata sold dagli
argofwoti elM la
dinioetiaadv Me< se
eontet ciate dal
rendere sospette le sue inten2ionì,
voi Toffendete, voi
lo provocate, voi
Mn igH toseiete
la calma neeessaria
per ascoltafvi con
atteKione. Egli diviene
parte contro di voi. Il
calore Sì oem
munied dairun^idraltro; i
suoi amici sMotereasMit
per lui; e
tfiiindi nascono non
di rado de'risenti^
associano alV opposizione politica
tutta l'aqj^retua 4e;gB-
od&if^iia»opti|b. Un uomo
di carattere benevolo
^ modesto nella
superiorità, generóso 4iieHa
siDei for2a, *
confida solo ne'
suoi argomenti, e
sdegnerebbe di dovere
la vittoeNiv alla
Intenwopi siiippioste prave
del rao nemico.
% 8; Gmrd(VFU- dal
perdere tempo e
parole nel eùnfuiar^
èùse pafpàbttmenl^ fake.
' In questi
casi è meglio
troncare il discorso
e fkàMatA allTopiniaiie
degli astantì )
giiBicehè la discussione recherebbe noia
ad essi, senza
riuscire a persuader
ravver^ariou Zenone nega,
l'esistenza M NfnMo Diogene,
-senza spendere parole
V sì mise
a passeggiare :
Zenone persistette nel
suo pnadoiw y
' e Dìo^e
eontÌlm6 il sùo
passeggio; Allorché Didone
s' incontra negli Elisi
con Enea, da
€w «ra stata
si ingiustamente e
là barbaramente abbandonata,
s'airesta ella per
argonventare con lui
e convincerlo ?
Enea cerca di
riacquistare il di
lei aflhMt dia
gK tolge spregevolmente le
sptflè senza dir
verbo. Badale bene elle
nel -caso pratico
rorgéglio potrà ingaummled
ff^durvi a sopporre
palpabilmente false le
>altnù idee, o
palpabilmente vere le
vostre. La mAt
0» r^ppfovairtmi» 'che
4wdrete sut<vdlto degli
sitanti, v*r servirà
di norma per
troncare la discus*
skma o oantiomrla.
4. NoH rispondere
alle ingiurie thè
net co* lùT
della disputa fuggono
di bocca aWaivver*
Battiy ma ascolta,
dicf^va Temistocle ad
Euribiade « il.qsale
alzava il bastone
per provar la
sua tesl^ Questa
fermezza d'pnimo in
un uomo che
era tutt'altro che
vile i ci
dice cbe si
devono lasoiat uigiii^LCi
4^ &è sentite, e*
difendere le proprie
idee con tutto
il sangue freddo
deJla ragione. '
IitfAtti ib^ in^lalfi^l
della disputa sfuggon
di bocca parole
che si ritrattalo appena cessata;
dialiaitro l 'altriii (?;4iit»'*ftifi^ .
giustiflcberebbe la nostMi.
la questi casi,
una risposta urbana
che dimos^i. torrente
di villanie. Perchè
mi dite voi
delle ingmiy^ in
luogo M rg^ionVf
Avreste voi preso
if niie ragiónt
per ingftif^^iN^w ion.
all'impetuoso^B^^j^^
BQiUiOW^.as: salilo da
^if^jT Menai^ev^^' ùiia dlà^wiéy
'' ne raccolse
un centinaio delle
più villane, quindi
vi. aer4s^^Mtl,Q qi^e^te
{K^cha psirol^ :
ìuAi^z^^i^r polito. jiv
'';^'ì'^T''-^òJ (4) La
fissa concilio degli
Dei tra Gipve
e Ciunone, relativamcnle
alla causii de'
Greci e dtMroiabi
. fa assopita
dalla deitrem^dl Vincano.
Vulcano ^soM'^ .
e i sereMi»
ìa spirto »
Retta ìnadre abbat|u(o;
Oh, dfssé, ìnrvéto
/ » Strana
fia questa e
memoranda istoria^ . Che
per la dispregevole
e meschina "
» ^a2ià idectri
v&da a soqnjaadro
H clélo. '
» brande è
fl perigito : 'addiovconittt e
èè^^e, • Se
preval la discordia;
addio retema »)
Gioia che ne
fa Dei :
sei saggia, o
madre, » Né
d'uopo hai tu de'
miei consigli; ah
cedi » (U
pur dirò ),
VolgiU a Giove,
e .paìià » CompiacenUi
*, sòmniessa, onde
dal'ciglia » Sgombri
quel cupo nuvolo
cbe offusca^ f
> nSMI'iBltM^'^ I
me ii^KmMà^ cAft»
ee^Hunà^ Urisùt faecia
ces\ queista me:&2;o
già iicceooato di
sopra. Chi ael
eà<« - n ^éiien
d^lfa leste^^ -
.>. Qqanlo forte
e pòsseote :
e sì dicendo,
. ' v\
Prende capace coppa,
e a lei
con questa, »;
Presentandosi innanzi :
Ah soflri, o, .madre
n SommessameotéJ^lgllando a^unse'^,
i $Qnrif èiiie'yoòH^^Impiinem^EHtftlei 9 N<m'''SI
còzza 'con Giove; ab
se noi tutti'*
^ ' »
» Ei vuol
cacciar da' nostri seggi,
il sai j
4 Sì sei
potrebbe; q 4Uor
che fora (ip
tf^igio): ., » pel
tuo VulcaD»,sé'8i ioateoricio
atioor^ ' V
fio^mi dal «^n^i^
r Stramassaf Bulla
teìrra ? A
coUi detti » L'
afflitta Dea V
annuvolata faccia '
« Rallegrò d'un
sorriso. Or che
^i tarda, i(
.Gridò 'lesali già
vineitor;; a* Assaggi
-i là tazza
della gioia :
el ff alt»
tefaa " V
Neltarè afiMfWanre, e
posto a fronte,
Alza il nappo
alla Diva. Ella
lo prese \
Dalle mani del
figlio : e|
poscia Jo giro
» N'andò agli
fdhi .m^sceBdoV id
volto ^ agli
atti,-,; . All' qfDr^ttar ddlModampante
passo, '. »•
IJn ìIso sollazzevole
si sparse «
Fra la turba
dei Numi, ognun
applause • t
Al vivace coppiere,
ed ogni fronte
' 9 Basscjreoossi
: fra letizili
e festa .
<ft /Pràscorre II
^rno, ^ hon
vi nùiDca i^^o*
». Cpnla dorata cetra,
e non le
Muse » Con
rarmonìca voce e
l canti alterni,
' » E
tutto di gioia
esulta Olimpo hJre
(Sella disputa scappa
fuori con una
celia ai»* gaia,
sembra direi dlie
rimo^a.alla vìltaria^^^ vi
rìhuDzfa spontaneàmente, e
die mfoìe iestarei
amico liei tenipo
stesso chejn iuìla
nQ$tra vanità iir
ftiigeira W nemleio.
t^óeslo tirAtfa-^g^AeiféM^ sorprende
piacevolmente; e quella
vanità che volea
vineere n:0lia .dìapQta>
non vuole mtate-fiirta'
in generosità. Quindi gl’animi si
acquietano. Lo spiritoso Voiture ha punto e
ìnareeiNto un cor
^hHoi queétf vt)léva
èomingerlo a battersi in duello. La partita non è uguale, risponde il poeta.
Siete grande io soa piceola; \voi siete bravo
ed io poltrone. Voi volete uccidermi? ebbene, eccomi morto. £gU
dissirma il suo nemico
facendéM Quando i contèndenti non
la finiscono, e kt disputa è alquanto loalorom y
pànM dàvèf^ degli
astanti d'interromperla con
suoni, cantij giuochi^
soniniinistraziani di Jiqwri
o «ifn|li. V Al
suon {piacevole.» D'arpe
trèniafitr, » Mescete,
o vergini, »
Mescete i canti Satira
itréanà. t I.
UtilHà della satira
urbana. Condannando come inurbane
le villanie e
le ìngiuriC) non
intendo di vietar
Tusa savio ed
op^ pòrttino deli'
ironfa o idetta
a^ttn eh» flUt^
pregiU'* tifiao tElujO
» volta giunge
a porre sul
trono il vero,
)ridendo« . Jà'amor
pri^Mifo, che non
ahbaadana uomini m
aoQ qiiMd^,9m abtoodoiiwo
la, vk»; iìi
toi^ temere sópra
ogni altro male
la derìsione, e
scuote Jovb dì
dos89 .r uidolenza,
e daUe^ i^j^
cai^ feUìe gir
spoglia per non
rimanere esposto ai
frizzi del ridicolo^:
i) che jpes^.
non, ottime la piìi
l^mpaoti^ Térìià 6d
ligguerrìta >ragiònir./$e Aristo&iie avelie
dato agli Ateniensi
In una concione
quegli ani* ma^brameoti.
etie died^.loro .aeU^
cooiniedie, l'avrebbero
lagnato a pezzi;
laddove in teatro
ridevano smasc^llatamente e di^vaiio
eh' egli, aveya vagioiie.
Bèi^chè i Geniti
aTesaerc^ veduto CiaerOQe
assalire Tedificio dellldolatrìa
con armi prestategli
dalla, filosofia V. poro
iiea. aapavafio lodimi
.ad abbandonarnei tempii.
Comparve in mezzo
d'essi Ladano, il
^uàiQ fece la
guerra al gentilesimi.
doI .«lotteggio, fi
se non ne
distrMse gli altari,
ne d^ sperse
in gran parte
gli adoratori. Il buon senso ha {iròseritte. la^
mz^ia cavallefescfae in
fspagna, pria che
nasces^è d^rvanfes;C mà
quella nazione non
riuscì a spogliarsene
se non dopo
^'tgii abbe preÉcutato
al ptibbli^, 11
suo ridico* Kssimo
Dpn Chisciotte. Tanto
è, véro ciò che
dice Orazio: «
fPnoa graVf sèstenza
ottieB più spesso
» II desiato
Cne arguta celia
». Si deve
adunque riguardare la
satira come una
apecia d'ammenda censoria
che aerve a
corriere quei difetti
i quali, senza
cessare d'esser molesti
e talora 4muk)sì
alla aociatìb non
triy^Qsijaei codici, St
inosservati dalio stesso
colpevole seoza la
caule àmmo9lmùe della
satira \ del
an^tteg^; « dello
scherzo. Il suo
pungolo viva e
leggiero, vibrato a tempo,
può divenire suppUmento
alla le* <
gìslazioue, più ef&eaée
dei gravi sèrmoni,
più acutd di
qualche pena afflittiva,
e il rimedio
blando e specifica
dei morbi lìpn
^ilcerosi fleiranljsgo, e
f^ec così dire
cutanei: V \
Seguasi il Venosin,
che ride e
taglia » Chi
sfugge a) Fpro.
IJ satiresco uffizio
f » .Piiif
die II fratesco
può levarti il
pelo ». P%chè
il frizzo piii
scotta che il y^j
L'ironia
però e la
satira sono armi
pericolosissitne di cui
egli è^estMmametite foeìle
di alm^ sare,
sia perchè questo genere di discorso non è il più difficile^
sia perchià la
sottra, .presenta UM
. fat^B sembi^^^
sia perche^ deprimendo
gli altri, sembra
airaniòr proprio d'ionateaiÀ
80 stesso:, perciò
riesce iiiiripido 11^k»gio%
• e il
motteggio piacevolissimo (3);
ed Ennio sog-*
gittiige^ ch'egli è
più facile ad
uà uomo di
spiriló il wlbeare
««Ha bocctt* de'
carboni^ àeeeal, di
quello, che riteoere
.un iiiottti s^tipco
che gli corra Un
giovine gloriandosi d' avece
composto una satira^
CiebiUoD^gU dice: lUcón^spele
cpsnfo è JMle
qiiesl^ niera di
scrivere, giaccbiè ij
siete riusdto aUa^^vesbrft
et^u Maliffnilad falsa
species liberiate inesL
Xacit., Hist., I.
OblrectaU<K et Uvor
prouU wiuihm accifiuntuTn
Idem, m ^^ '-^fi
tiimo s'assoèia spesso
l'invìdia, la quale
stiilerf>ià mtnvte azioiii'
altrui ^l»U&ee severa
inquisizione, A fiiie
ét iìtùywfì qualche»
«aeGateBa^ e;.coii wAì^
gni >ep]orì. adoaibrarla: € Di
tutti invidioso diceà
malQ Sénisa rispetto,
e pretendi^vii ardito
' . »
Piovra i costumi
altrui far da
fiscale Quindi suUe
cose, sulle follìe
^ sui pregiudizi,
sulle |ti*€itensi(^ai d^lj'aiuor
proprio, ' sui
vizi in generale àevc
H 'jmotteggit) più
spesso cadere che
.non suiruomo particolare,
àccioecbè alpri, vo^ndo
eedtaré iH .rteOi
non apra una
piaga mortale mei4'altrui
animo, e non
s'esponga all^d^o delle
per SOM emeste se la
/SMira dà in
ialso, . FqItio
che< per diletto
o per malignò
V Animo Valtrui
fama è a
morder presto^ Ch'infin giunge
a sp^ieqiar pef
corbe un cigQps
' » IQ
ebt^nt'odio vìen^ eh' ogn'uoin
ené i Lo
d^nna con ragion,
l'abborre e fugge
\VÌ»:Con9e mostrò all'umah
éóusdrzio inlissto Meii
voglioT^f ' ommettere
d'és8èrvà?e, ehe ai
rinvèi^iore di falsa
maldicenza o d'ingiusta
sdittra è ripr^sibiie,
lo à pure
quello ebe la
difiba^e: lAi-'appiceando il
fuoco all'altrui casa
si scusasse dicendo,
che ha ricevuto
il fuqco da
altri, non oV
Mrrebbcf cotnpatimento; per
he stessà ragioné
t>t-. tenerlo non
debbe chi spargendo
false maldicenze e
ingiuste satire, dice
d'averle intese da.
Pietro a d9
Martino, io un
caffè o in
un'osteria, enones^ i^ne egli
rinventore^ ' »
SenCilor W raceontar, fti un
trombe]^ Preso una
volta da'nemici in
campo r
» Mentre stava
sonando alla veletta:
V \\ qiial,
per ritrovar riparo
o scampo/ »
Dicea che solamente
egli sonava, Ma eoi
stio fèrro mai
non tinse il
campq. Gli fu
rispo$to allor, ch'ei
meritava • Maggior
iien^ pero; poichò
sonando^ > Alle
stragi, al. furor
gli altri irrita. Dopo
(Tavere stabilita la
legge generale, fa
d' uqpo aggiungere
le ecceziotU, le.
qvali per lo
piiij dall' e$amé delle
ragi«ni w cut
fondMli là 4lessa
legge^ risultano. y
url^nità jno!» coBdaQQa
ne nel convenar
ab eiale nè
nella repubblica letteraria
i modi satìrici
più. 0 .iDeoo
.piccanti, ma veri,
contro gìi indk^i^,
dui tÈ^ seguenti
casi e pe'
seguenti motivi: /,
1^ Rispingere m
impertinente aggressore» ^
jMtiasiiiio Oacier^ entuaiasta
della àeiMza ^digb'
antichi, ascoltando un
giorno una dama
che non ne
parlava Qon troppo
rispetto, e prioiHpdknj^qt del
divino Platone, le .disse
con tatta la
gentilezza degli eroi d'Omero:
Certdment;^ madama non
degnasi di leggete
dtro Sèrittere anticò
che Petronio (ciascun
sa che Petronio
è ràutore prediletta de' dissoluti^;
Perdojiate^, replicò ellat
fò aspetto, per
leggerlo \ che
voi fie abbiate
Jatto un santo.
Chi vorrejìèe dare
al {rizao di
quella dama ia
ttisoiii dimpulito? Un
principe volendo divertirsi
a spese d'
un suo cortigiano I
eli' egli avm
impiegido ip diversè
amb^^ecie, lo Mendicar
la ragione degl’attentati d’uno
stolto o d'un
impostore. SOCRATE adoprava L’IRONIA – cf. Grice -- colle persone
presuntuose, con que'
pretesi dotti universali
che, non sapendo
nulla, davano ad
intendere al popolo di
saper tutto, e
pronti mostravansi a
rispondere sopra qualunque
argomento. Luciano smascherò
il celebre Peregrino,
il quale profittando
della dabbenaggine popolare,
e facendo false predizioni,
aveva aperta una
bottega d'impostura nella
Grecia e s'era
arricchito a danno
del senso comune
e del pubblico
costume. Mendicare i
diritti del giustOy
delVonestóy .della patria
dagli attentati de’malvagi,
per falsa opinione
potenti o per
forza' reale. Chi
avrebbe potuto condannare
Cicerone, allorché metteva in
evidenza i vizi
di Catilina e
i suoi atr
tentati cóntro la
Repubblica? Il giudice
che espone un
delinquente alla berlina
con un cartello
sul . pettOj
ove t\ leggono
i suoi delitti,
è senza dubbio un
maldicente; ma questa
maldicenza personale è necessaria
a scorno del
delitto ed a fine;di prevenirlo'
rassomigliava ad un
barbagianni. Io non,
so bene a
obi mi ral^omlgli,
rispose il cortigiano
: tutto ciò
cb'io so si
é, che ho
avuto l'onore di
rappresentare molte volte
vostra maestà. '
Anche nel «eguente
madrigale il frizzo
è giustilìcato dal
diritto di difesa:
« D'un ponte
al passo stretto. Stando sopra
d'un carro Tommasetto
y hicontrossl In
due fraU zoccolanti -, n
Che disser :
Villanaccio, Ur avanU. Ed
egli: Aspetto che
passiate voi; •^
» Non to'
mettere 11 carro
innanzi t* buoi
». a.. m
f-Il pdjdrone che,
interrogato sulle qualità
d'un servo licenziato,
dietro la sua
esperianza lo dìchiara
ladro, è senza
fallo un maldicente;
rna que* sta
maldicenza o diffamazione
è utile, giacche
è meno male
che resti senza
padrone un ladro,
di quello che
vengano derubati più
innocenti. ChesterOeld non distinse
con precisione i
con* fini che
la satira, la
derisione, la maldicenza
utile e necessaria
separano dalla maldicenza
inutile 0 ingiusta, nel.
seguente paragrafo. La privata
maldicenza non deve
giammai es*^ sere
accolta e divulgata
volontariamente, perchè »
sebbene la diffamazione
possa al presente
ap» pagar la
malignità e Torgoglio
de'nostri cuori, i>
pure la fredda
riflessione trarrà da sì fatta
inclinazione conseguenze sfavorevolissime per
noi. » In
fatto di maldicenza,
come di ruberia,
chi la »
raccoglie è sempre
creduto colpevole quanto
il ladro stesso
». Distinguete la
maldicenza che svela
le altrui innocue
debolezze per sola
voglia di denigrare,
dalla maldicenza che
svela i vizj
veri e i
delitti reali che
possono essere dannosi
al prossimo. La
prima è ingiusta
e riprensibile, la
seconda utile e
necessaria. L'uomo cui
siete per affidare
la direzione della
vostra cassa, è
un truffatore, xxn
giocatore, un dissoluto:
mi farete voi
rimprovero se ve ne
avvertisco? Qualcuno vi
imputa dei vizi
e dei delitti
falsi: vi lagnerete
voi di me, se gli
strappo dal volto
la maschera, e
Io dimostro bugiardo
ed impostore? È
giunto in città
un cavaliere d'industria che
co' suoi ingegnosi
stratta gemmi scrocca
l'altrui denaro: vorrete
voi che noR
ne dia avviso
a' miei amici,
acciò la loro
jomoaa fede, non cada
in laccio? AU^
corte; sevo] amate
il gregge, darete
la caccia ai
lupi; e se
gli uoiiiiali. accennerete
loro i cani
arrabbiati. Jieyole ^er V
uso^ della satira. Tre
sono le fegole
che debonsi osservare
motteggiatore, acciocché il
motteggio riesca onesto e
Jegittiibo, cioè non
offenda nè la
giusti^à^ ijè Yumanitày
nè la convenienza.
Il motteggio è
ingiusto in due
modi: 1^ quando
t>un^e (^ersóne esent!
dal vizio ìniputato;'
2^ qMando cade
su difetti che
non possono ascri'
versi a colpa,
come le imperfezioni
fisiche ^ ovvero
le sventure accidentali. L’umanità rimane
offesa quando il
motteggio nialigno ò
acerbo. Dà segno
dì malignità chi
mostrasi avido del
male altrui y
M si delizici^
e còn^piaep neirinsuJtare
e nel nuocerer^$idà
segno d'acerbità, qualora
il motteggio è
sproporzionato alla jcolpat
.e flagella a
sangue chi ^on
merita che un
lieve colpo di
stafile (I)., (\\
V itotàh' SoMÉe
m rattopprata .^iHn'^Mee»
delle sue maniere
^ dairameDìià abituale
de'suoi sguttdi, dal
tiorriso dì bonlA
sempre pronto a
Dc^cere sui suoi
labbri, di modo
che 4'icoDia cessa
d'essere aiuara, e
diveniva, per oqsì
dite, ua agro-dolce
eondile dalle grazia. Cresce or
' t*inK>, or riiRro
di ifuéstt due
efemeiilt, secondo cbe il
difeifò Tdie Socrate
voleva correggere, era amb
nodfO. Voltaire dice,
che volendo censurare Cornelio,
imiterebbe iioid4> Il
Quatoy nellA poomi^edl» del
Uakiouuto pet ior^a
y .i.Lo u
Si Tìola la
convenienza, quando i
motteggi di' sconvengono
al motteggiato o
al motteggiatore éHa
«iveostanza di ioogo
e* di tmf^;
qrówto sono sconci
o villani, quando
si scialacquano senza misara^
e : se
ne fa professione
aperta « perpetnà»
L'ingiustìzia nel motteggiatore
o è maliziosa
o ' irriflessiva^
la prima nasce
dal bisogno di
umiliar PMtrttì merito
ptat inoftlnorsi sulle
f«^tie deli" ftb^*
battuto rivale: la
seconda proviene da
un errore d3iiteUetto
originalo de rislielftesie
di idee^ siste*
mi esclusivi, rigidezza
dì carattere, tenacità
d'opìnìoni. Da quesi^a
causa derida j^e
tal,Y9|ts^ l'aicer* Utà
prodotta p*^ii spesso
umor eausticeié. etrabiUariqi^
JLi|i causticità è
sovente figlia 4/
<^uor depravato i
ebbro d' orgoglio malefico,
e pasciuto del
fiele deirinvidia; talora
una cattiva organizzazione, o
le persecuzioni ostinate
deUa Tortutia giungòtiò
e guastare aiidie
unendole Me^'-e ad
avvelenarne Io spìrito. Le:
e^ ke peir
'sóei pìriii dpii 0
una natura grossolana,
0 la mancanza
d'educazioney o una
vita isolata e
lontana dalla so^
eietà, 0 il
pocò studio dell'uomo,
o le compagnie
yolgi^p^^ ioQne T
abitudine; di parlare
spensier^ taméirter; ji non
dà giottliBat ma<>
bailaalata a' Sganardio'w
non previo un
eoDipUmento rispeUoso, e
colla protesta d'essere
disperalo per essere
caj[tr41o di Cario.
Questo inpdo.di^ceosarareiM»ja debb'
esjsere escluso dai
croccili. sociaB , se
ma cb0 in
vece di porre
in m&no al
censore uh bastone
j fa d*
uopo dàrgfr un
fltigeRò di jNMe. Jl}ìm^
li6)Ia ùimwènms^h satira
appoggiate al falso
va mordendo lievemente
i costumi degli
assenU, non ta
99vero cepsore aggrotterai
tosto ki eiglia,
uè tomi icon
mano ardita qoeatò
tenoe piiiBere alla
mediocrità che si
consola della prò-!
|lrìa batwzza sfoirmndosi4i4«pcimi^V J'alte^^^
n»erito V ma
a condiscendenza atteggiato
più che ad
a88.ei) .ammirerai lo
spirito di ehi
censura, e^ter^ modo
dabbii mU'applicaaioQa. Sa poi
U piacere di
satireggiale gua4dgi]ia gj[i
9Staim al puntp,,(^e
'aQi;ga qwlcha ;vt.-(:;- Tewité
et6lrti0 nrò?atord^^ f'':: Motti
protervi, onde a
maligno riso V
» Mover la
dorma e la
virtù schernire ti sarà
permesso di. troncare
em jdigailà V
altrui aiscorso, e
assumere la difesa
degli assenti; ma,
per non scemar
fede alle tue
parole ^ non
devi mostrare alterazione
di spirito; giacché,
altrinieriti operando, al
piacere di satireggiare
si assoeierà, nell'animo
.del satìrico il,
piacere di conturbarti,
e gl} assenti
verranno ad essere
danneggiati dalla tua
stessa apologia. L' e^peri^jdza dimostra
infatti che il
calare della difesa
rendè, tahotta gli
assalitori più feroci, e
allora la conversazione
rasso» miglia i^ue'aiigrifizi sbarbarì
ne' quali immola vansi ijjttime
omaiie. ' Lascia
dunque qualche pascerlo
.alla malignità, se
vuoi ch'ella ti
permetta un elo.gìo;
MBt per prosare
la. itiocei^ità del,
4iio ttlo,> allorché
tu stesso produrrai
in mezzo le
azioni di qualcuno,
in cui siano
difetti frammisti a
vir^, userai la
dèstrézza di quel
pittore che, dovendo
ritrarreAntigono guercio, lo
pins^ di profile. Facezie. Un
discorso che inaspettotanieiile e
contro JTapparanza caoibid
il rimpjTovero in.
lode, it male. in
.tiene, il lisGMHre
iO; sqi^exanza, lo
spmzo iii istinni^
e talora anche
ali'oppostcs si chiamai
face zùa La facezia
si divide in
due. specie; La
l> ^ un
hréYé raceoitto che
fa passare IV
nimo tra alcune
d\Tenture, e dopo d’averne
alimentota la curiorttà,
ikiisce con iin
sentimento non preveduto. Dionigi il
tiranno avendo sapulo
che una sua
coni-' me^Ua^ dajui
spedita. 4l: concorso in Atene,
era^t^ta eorooata^ ne
injpti «r«lleg)nem. CiH
Ateniesi dissesn cbe^ise
*av«flh aero preveduta' questa tdaf^t^jotià
i vsu^hf^eio cèronatQ.Dlou^ venti
anni prima. in
qiieslo caso la
iode copre un
vero disprezzo, e
mmìtesta la Viziosa
compiacenza ct^e dovevano
provare que' repubb|i^|AMr
la moi>t€i d'un
tiranno tanto abbòminato;
Sorge^^fftiBrmo
piaqèvolissitna sorpeesa nel
vedere etie «gl’ateniesi
potevano liberar Siracusa
onorando Dioniiii in
Atenei Jjl. padre
Le 'i'cìlier, che
mentre era confessurti
di Luigi XÌV,
tenne il protocollo
de’beneticii ecclesiastici, dice
ad uti abate:
Yoi altri esitanti
agli impieglil sièle
oost^ amfei' finché
aVeté, bisoerio di noi; 'ma
qìiéaida siete saziati^
ci dimenticate. Ah,
non temete nulla,
rispose ridendo Tabate:
io iK>n vi
dimcoUciierò giuiumai, giaccliè
solip iosa^ In
questo ciùo tt
timore si cambia
in speranza^ e
nel -tempo slesso
éi si pres^ta
improvvisamenfe nùi^ upa
brama I •
che con somma
gelosia suol tenei:sì
nascosta., i, Eia è
un semplice detto
pronto, rnaspettàtoi opportuno t
un vivo ^^apidgi£ripo
che vellica e'
punge piaeevoimente. Con maggiore
chiarezza e precisione
di ter^ Quni>giusta il
suo costume, spiega
la cosa il dottissimo Gberardffil dksemkK. La
giocondità delle lacezie
par che nasca
ordinariamente da un
ingé^ gIMMt»' ed
iroproiovlM
'aecoppiftiBentcr W d«ie
idee disparatCL tra loro
e disconv^jiienti. lì riso,
semjira il prodotto
4i due sensai&ioni uiike,
sorpresa e piacere,
eccitate da Jien
elitra»-, stì 0
da finissime analogie.
L'impressione oagionata nel
nostro animo da
un oggetto nuovo
o inaspettato sidsiiania
sorpfesia. La sorpresa
è maggiore quando
T oggetto .coni0
la' eosa raeectea' è
eonivìirìa a/ qiiai^
suole comuneipente succedere. Quindi la
aorptesa. è massiin»
allorché è massióio
il contrasto tra
il fatto ^pcaditio
.eJa-Hft:
stifi.jaspettazione* Ciò posto: jChie
éel jtUo abbia:
kmga la sorpresa^
è di^ mostrato
dai seguenti notissimi
fatti: Ridono frtù spe&so
gli ignoranti che
gli o^-, mini
cotti, poiché ì
primi nón conosGéndo
i rapporti die uniscftpo,
ie cas.e, 9,
WAggiori sorprese soggiacciono. 11 saggio
appena sorride mentre
lo sciocco t'abbandona
a^ riso sgangherato,
^acchè il sagg^ìo
. EIcmonti peesla ad uso delle
scuole. trava presto
le idee intermedie
che imi»sip>pi^jlor^ liuie'
afeiluate. ddto «òse
.«col fi^ k»q^«if^ì^^
successo e che
sembra smentirlo. ^
r "> a<«
fy. mette* «bea
fUe^ Ue9ggiOt4t^^l<^ f^eioeco
non ride; e
questo accade quando
il contrago' ma
è immediatamente espresso
» ma dietro
rapporti pBBfiìm.ài idee
s'asconde « e
quaìdie mé^ noento
di riflessione per
essere EientUp o
ricono 4.0 '6H uomini
faceti e lepidi
dicono e sanno
rHl^yar jOOi^e che
lanno ridere gli
altri, ^senza die
. «et irfdeno^tesifi. Man
vidptin esa perchè
veggenti* ril nodo/cUe^unisce le
idee in apparenza
contrastanli; ^Qao*. ridwe
gli. altri. 4^rehè
hfinBQ T artiiisio.
di. ^asconderlo ai
loro occhi. >'
r^r? II riso
die ecdta .una
facezia^ sentila la
fush ma yoitai
è'«moltn pjéore alte
sead^a, e posbin
diviene millo, perdiè
le cose note
fioii lasciano Ittoga^^liia
ijorp». IL Che
a/ riso non
basti una sorpresa
q^it^*'^ limqu^f ma
si riohicgga Vaggiìmla^i
sensaziaue piacevole, seop^ira
rieattare -dat ft^^fuenti
ietti: Noi ridiamo ricordando
le nostre passate
fi^lÀ^ Qv^j^m^ aUoiaOia
annessa jd^a del
.disi^nore, perchè questa
Vicordanxa dà risalta
al sen^ limentOc:4^4.;POSti;a #Utuaj|^e
.saggezza » e!,
quasi « dissi,
le accresce piregio;
t, evi^ rvjV/.
2. <> Noi
ridiamo aH'udire le
altrui goffaggini; il,*
cl\e fiorse d^riiui
dairamor (HPQpriOr il
qmlei gica-f, see
nello scoprire in
altii de'difetti de'quali
egU ait crede
esente. Koi rìdiamo
alle sveMure^dei ncNMvl^nemicti. allorché
non sono sì
forti da interessare
la nostra compassione; poiché
le accennate sventure
adé^ scano piacevolmente
il sentimento dell'
inimicizia e della
vendetta.,i^>>i
-^^t^^fi r/Ji^U\p>y'4,i
^j'^Mip^i 4.« I beffardi ridono
nello scliernìre questò
o quello, giacché
il loro orgoglio
coglie tanti gradi
di piacere, quanti
gradi di depressione
ed avvilimento fa subire
agli altri co'suoi
motteggi. • ^fi.p
Noi ridiamo nello
scoprire somiglianze tra
oggetti che credevamo
non ne serbassero
alcuna, come rìdiamo
in generale sentendo
ingegnosi tratti di
spirito; perchè il
facile esercizio della
nostra intelligenza nel rapido
passaggio da un'
idea dtf un'altra,
ì cui rapporti
lontani non erano
ben noti e
distinti, é per
se stesso piacevole,
com' è piacevole
un moderato passeggio,
il respirare aria
nuova, la comparsa
d' un lume neiroscurità
e simili; 2.0 perchè
quella cognizione diviene
argomento della sagacità nostra^
la quale ha
saputo cogliere un elemento che,
i:estìo all'analisi, al
comun guardo ascondevasi*
V. "4(^j»*, III. j4cciò
la sorpresa e
il piacere cagionino
riso, vogliono essere
prodotti da lievi
contrasti 0 da
finissime analogìe; ecco
qualche fatto: •
1.° Alla vista,
per es. d'un
bel quadro, all'udire
una bella musica,
noi proviamo sorpresa
e pia-» cere,
ma non rìdiamo;
dite lo stesso
allorché al' vostro
occhio sì presenta
l'arcobaleno od altro
simile grandioso ed innocente
fenomeno. "i.^ Vi cagionerà
sorpresa e piacere
senza farvi ridere
la vista d'un
animale selvaggio non
mai veduto prima,
per es. la
grossa scimia chiamata
Qurang-outang. Ma se
la scimia vi
si presenta con berretto
da cardinale in
testa, voi non
potrete comprimere il riso:
v'è qui un'
contrasto. Osservate bene
che non tutti
i contrasti fanno
ridere^ ma solamente
i contrasti lievi,
e son quelli
che escludono la
compassione e l'orrore.
Se un uomo
millantandosi di poter
saltare un fosso
vi cade in
mezzo come un
animale, voi ridete
sgangheratamente; ma se, cadendo
si rompe una
gamba od altro, voi
non ridete più;
qui il riso
è compresso dalla compassione.
Dire con Aristotile,
che il riso
è prodotto da
una deformità senza
dolore^ è ristringere
di troppo, secondo
che io ne
giudico, il campo
del ridicolo; poiché
spesso noi ridiamo
saporitamente senza che
alcuna ombra di deformità al
nostro spirito si
appresemi. Infatti ci
fa ridere la
scoperta di finissima analogìa
non prima supposta,
l'unione di qualità
che sogliono essere
disgiunte, la disgiunzione
di qualità che
vanno ordinariamente unite
insieme. TI rasllf^'lìone raccoma
come un dottore
vedendo uno che
per giusti/.a era
frustato intorno alla
piazza, e avendone
compassione, perchè 'I
meschino, henchè le
spalle lìeramente gli
sanguinassero, andava così
lentamente, come se
avesse passeggiato a
piacere per passar
tempo, gli disse. Cammina, poveretto,
ed esci presto
di questo affanna
Allora il luion
uomo, rivolto, guardandolo
quasi per maraviglia,
stette un poco
senza parlare, poi
disse : Quando
sarai frustato tu,
anderai a modo
tuo \ eh'
io adesso voglio
andar al mio.
Vediamo in questo
caso disgiunte due
quaìilù che sogliono
essere unite; cioè,
sotto Fazione delle
percosse, non scorgiamo né I SEGNI DEL DOLORE [cfr. Grice –
frown], nè lo sforzo a liberarsene. Abbiamo dunque d’un lato una forte sorpresa,
dall’altro Fonti 4ija0ezie€ Le numerose FONTI da cui s^possoikl tram
ìetà^cezie, vogliono esser ridotte a cinque capi generali. Deformità logiche,
deformità morali, deformità fisiche; opposizione artifiziale tra lo stile
– Grice: THE HOW -- e il soggetto (Grice: THE WHAT), e somigh'aoze e contrarietà
lontane o LATENTI (implicit – Grice) ed
miprovvisamente svelate. Sono DEFORMITA
LOGICHE le deviazioni dal retto raziocinare;
e i gradi d’esse sono sempre maggiori quanto più peccano – GRICE: flout, INFRINGE]
contra le regole del giusto raziocinio. L'rghpranza quindi delle 1) pili facili
combinazioni, la credulità soverchia, i>
la scimunitaggine sono FONTI sicurissimi dia'qiiali emerge quella deformità
logica che provoca il riso [man is a laughable animal – Grice on Aristotle]
senza eccitare nè rodjQ nèla compassione. Quindi le parole o prive di senso o storpiate, le interrogazioni,
le risposte fuor di proposito, e le incoerenze, la pertinacia neg’errori
evidenti, e quella abitudine che i goffi hanno
dì dir sempre e credere le cose a rovescio dei logici detr »
tand ». un sospettò dié quel padeiité
o non gòffrissC} il che fa tacere n denttinéoto
penoso della compassione o ituscisae a deoilnare
il dplòre il che dà luogo ad anudirazione
scevra d'invìdia. Io non saprei come
innesLire sulle azioni e sul discorso
di quest'uomo L’idea della deformità mentre
vi veggo cbiarrsslmo un bel contrasto con quanto succede comunemente. DUn
esemplo di ^&r^giooaaieuto logico cagionato
aà '
bijióna dó^e d'òirgotglia
sì vede nel
discorsa 'die ALFIERI (vedasi) mette in bocca al suo conte, allorché costui
viene a contrasto eoU'abate, futuro mae^a
.de'suo] pglì^ sup'ofiiararto che gli vuol dare. Ora, venendo
al sodo, .S. ^ Del salario parliamo. V do tre
scudi; Che tutti in casa far star bene io
godo. Ma, signor, le, par egli? a me TRE SCUDI?
S Al cocchier ne da SEI. Che impertinenza?
Mancan forse i maestri anco a DU'scudi?
Ch'è ella in somma poi vostra scienza?
'^r% Chi siete^D somma voi, che al mi'
cocchiere Veniaté a contrastar la precedenza?
l
ìK GU è nato in casa, e d'un mi'cameriere: i i
Mentre tu sei di padre contadino, e lavorano
i tucti r/altrui podere^
H Compitar, senza intenderlo, il latino.
Una zimarra, un mantello n tallare, i
» rCn> coUaru^cia
sudi-rcelestrino, Vaglion iòrse a natura in voi cangiare r. Poche
paròle: io p^go^ereibeiiissimo: C
. u ' Se a lei non quadra ella è padron d'andare. Atteso
una grata sorpresa sono parimente mate)ie di RISO (laughable animal – Grice on
Aristotle) le imle^ intelligenze come allorché un discorso vien preso
ih UN SENSO OPPOSTO – cf. Grice, IRONY -- a quello che gli è dato da chi. Jo pronunciò;
d'onde nasce una contrarietà fra la dimanda – How is he getting on at his new
job at the bank, I’m out of gas -- e la
risposta – He hasn’t been to prison yet, there’s a garage round the
corner --, ed una sensibilissima divergenza.
Per es., Pietro dimanda a Paolo – robbare
a Pietro per pagare a Paolo – “Dove va?” Paolo risponde jparfii pesci. ij,.i^L.o
i.Appartengono a questa ètasse té
ISu'tle contengono un certo inganno inaspettato, per cui nasce molestia ad
alcuno senza dolore però e senza grave incomodo. Per DEFORMITA MORALE intendesi
quella che NON E CONSONA ALL’USATA MANIERA CON CUI CONVERSANO GL’UOMINI, ma sì però
che non turbi o funesti l’ordine socievole,
poiché allora questa deformità anda congiunta colla scelleratezza, e ingenererebbe
ODIO – My lips are sealed --, NON RISO. Quindi fanno ridere l’incongruenza de’caratteri,
perciò sembrano piacevolmente assurde – alla You’re the cream in my coffee -- le
millanterijs in bocca d'un vile, e LE GRAVI SENTENZE SUL LABBRO D’UNA MERETRICE
e simili. Tutti i caratteri e tutte l’azioni
che hanno l'aria di singolarità cioè che si scostano dalle ricevute costumanze;
la discordanza tra i mezzi e il fine (METIER) pròpostosi – Grice: conversation
as goal-directed rational discourse -- o
le pretensioni maggiori delle forze. Le passioni gagliarde svegliate da lievi cagioni; talvolta per
es., resta annullato un progetto di matrimonio, di commercio, od altra associazione,
per contesa sui titoli de'contraenti da
inserirsi nella carta di CONTRATTO – Grice: “For a while, I was a
quasi-contractualist, and my pupils suffered my seminars as a result!”--; e le reciproche
vanità rimbalzano come rimbalzano e retrocedono due palle elastiche che, moventisi
in opposte direzioni, vengono ad urtarsi in mezzo al bigliardo. Allorché il cardinale
Mazarino, ministro francese, e don Luigi di HarO) ministro spagnuolo, convennero
nell’isola de’FaggianI (in mezzo alla Bidassoa sul confine de’due regni), per concertare
tra l’altre cose il matrimonio d'una S. Gli sforzi per attribuire agl’altri la colpa,
de nostri sbagli.r A scanso di ripetizioni
vedi il passagio. DEFORMITA FISICA si è quella che emerge dalle deformità visibili,
corporee, naturali. Vastissimo campo di ridicolo – CYRANO d’ALFANO -- si è questo,
poiché infinite sono l’aberrazioni che notarsi possono nel regno della natura, e
nell'uom principalmente, che per eccellenza è detto re della natura – Grice,
natural/nonnatural -- medesima. Quante mai numerar si possono deformità corporali, sia nei membri, sia nel portamento, tutte sono
GIOCONDISSIMA FONTE DI RIDICOLO – cf. Trump --,
perché le deformità che prendonsi
D per oggetto di scherzo non siano indecenti o col dolore congiunte, poiché allora non riso, ma ecciterebbero
di leggieri odio – O COMPASSIONE. Un uomo urbano per altro non fa MAI oggetto
di scherzo quelle fisiche deformità che non si
possono attribuire a colpa – cf. Grice on Strawson on Freedom and
resentment --, come ho già detto più volte. Ito
L’infante di Spagna, Maria d'Auslda, con Luigi XIV re di Francia, sono tante le reciproche pretensioni,
sorgeno si gravi difficoltà sul cerimoniale e l’etichetta, che trascoreno due mesi
prima che i ministri possono accordarsi. Un ingegnere mezzo ul)briaco e barcollante prende a misurare un terreno, e commette: ercoli
tali die gl’astanti ne fanno le maraviglie. Il buon uomo in vece di rendere giustizia
a sè stesso, se la prende col suo strumento, e dice balbetttUìdo: Ehi ma il difetto é nella mia pertica:
ora ella lia otto piedi, ora non ne ha quattroj e la getta sul fuoco. In questo
esempio primeggia la deformità logica sulla deforniifà morale. Ceretti. .j^
xxl i^\.^r Jife
àctoi^ v ti. "'llr, il ridicolo nasce alle volte dal veder trattali
con uno stile lepido e scherzevole gl’argomenti gravi e severi, il che vellica piacevolmente
la malignità del cuore umano, il quale gode nel veder posti a livello gli’oggetti
eminenti coi più comuiif, ed è questo il copioso fonte delle parodie. Talvolta all'incontro
s'induce riso col ragionar d’oggetti bassi e plebei in un tono grandioso ed elevato – cf. Grice, The
theory of context --, dal che vengono
essi a ricevere un’aria comica e faceta, mentre sotto aspetto di lode son fatti
ridicoli, e LA CRITICA RIESCE TANTO PIU SALSA QUANTO PIU E DISSIMULATA – cf.
Grice: “Miss X. executed a series of sounds that closely corresponded to the
score of ‘Home, Sweet Home.” --. Senza alcuna specie di discorso si può eccitare ridicolo con una lode
apparente smentita dal fatto (“A fine friend! +> a scoundrel – Grice). Batru, che ha motivo di lagnarsi del duca d'Epernon,
fa un libro che ha per titolo, “Le grandi imprese del duca d'Epernon” – cf. H.
P. Grice, “Prejudices and predilections; which, become, The life and opinions of
H. P. Grice” -- ma tutti i fogli del libro sono bianchi. tt Debbono essere collocati sotto questo titolo
que’CONCETTI D’AMBIGUO SIGNIFICATO, onde può trarsene una grave sentenza ed una
arguta faì) cezia. DAMN BY FAINT PRAISE – He has beautiful handwriting – Grice.
Così a dire d'un uomo liberale, che quello che ha non è suo può divenir salso ove si V torca a biasimo
d'un ladro: e salso riesce – cf. Grice
on the philosophy tutor on Socratic midwifery: stranging error at birth -- per D
non dissimil ragione quel motto citato da Tullio – CICERONE (vedasi), )i a proposito
d’un servo infedele, lui essere il y>
solo, per cui mdla vha in casa disuggellato e di chiuso; il che a lode d'un
servo LEALE po» irebbe dirsi
ugualmente. Se non che sì
fatti >p scherzi vengono commendati
più per ingegnosi .?>> che
per festivi, essendo manifesto INDIZIO – DICTUM di Grice -- d'acuto ingegno
il tor LA PAROLE IN ALTRA SIGNIFICAZIONE DA QUELLA IN CHE SOGLIONO ESSER USATE –
Grice on Humpty Dumpty, Impenetrability. Ordinariamente questi scherzi riescono
insipidi, perchè per lo più d’un lato lasciano scorgere la voglia di scherzare e
l'impotenza di riuscire. Dall'altro, non
producono effetto sensibile sull'animo per mancanza d'acume. Tra tutte la maniere
onde si perviene a movere RISO --- Grice on Aristotle: a laughable animal --, piacevoli senza fine riescono, tanto il torcere
contro d'altrui quel frizzo che a farci ridicoli
è proferito, a quel modo che CATULLO (vedasi), interrogato da Filippo perché abbaiasse.
Perchè vedo il ladro, risponde; quanto
dal concedere argutamente all'avversario ciò stesso con che ti morde, trarne
appunto occasione di vituperarlo, siccome usa avvedutamente L. CELIO (vedasi), al quale essendo da taluno
di bassi natali rimproverato che egli è indegno de’suoi maggiori: Affé, ripiglia,
che tu se' degno de' tuoi. In questi e simili casi il piacere risulta da doppia
fonte. Primo, dalla depressione d'un
impertinente, aggressore, o sia dalla cessazione d'un dolore; il
che, quando succede rapidamente nelle cose
mo-.^ fall, equivale
a piacere. Secondo, dagl’improvvisi
rapporti di somiglianza tra la pro-posta e la ris-posta. Il ridicolo risultante
dalla scoperta improvvisa di somiglianze o contrarietà non comuni, non si
Luigi XV dice un giorno al conte Eric di
Sparre, che è due volte ambasciatore in
Francia pel re di Svezia: SigfioF di
Sparre, provo dispiacere vivissimo in pensando che voi non siete della mia religione. Un giorno o lallro io anderò in cielo,
e non vi troverò. Perdonatemi, sire, risponde l’ambasciatore. Il mio padrone m’ha
ordinato di seguirvi dappertutto. ,
f può assolatamaote attribuis
alia iiialigQilà|ii»Ma, come si dovrebbe,
se in queste indagini si preip
(fesse peK gttidé la
^ola teoria d’Asistoteteì il che multerà meglio dall'analisi del seguente fiattóv. Un contadino, venuto a dolersi pon un
podestà perchè gli è rubatali sto «ino^ dopo
d'aerare; parlato della. Sfla povertà e dell’inganno fattégH dal ladro, per. fine pjè
grave la perdita sua, dice. Messere, se voi aveste veduto il
«lio asioo^, aiio0r, fiitt riconoscereste quanto io ho ragion di dolermi; chè quandi veva il suo basto a^osiSiH f iHraa
:f sopriam^iM^ *ii8^^i^hevci
cagiona qiipste 4i8Cor^^
non n^sce dal vedere depresso TulHo a livello dell’asino, ma DèVoiedei^x
s£orz;aur dosi d'ingrandirne l’idea, scappa &ori
improvTl^ ^saQiente con un
confronto nuovo, e si Insinga t^^ré
sowiigliaiwa.tra Basilio e TiilfiQ^r lù
ttótele cose vi
sono certi limiti
che non si éebboào oltrepassare, certe condizioni alle qu^lì
jEa d'uopo sottomettersi -- l’argomento trascendentale debole di H. P.
Grice. Altrimenti facendo, si va lungi, dalla
meta – o METIER, GRICE -- cui si propone di giungere, non si consegue lo scopo che
si vagheggia (Don’t bite more than you can chew – Grice). Lo
^opo cui miriamo, i mezzi che possiamo porre m <>pera,
servond a farci ricondscere quelle condizioni e que’limiti. Le facèzie x) celie che teodono a rendere festiva a brigata,
sì possono considerare nella persona che
le dice;. i.o Ifelia
persona che m è l'oggetto;r3«. Migli «auuiti eh», le
aseetbp^i' Persiona che^ celia .
1^*0 uomo geutila nè
ride nè fa
ridere aUa foggin
de'pazzi^ degU seioeioliii
id^IL iilériichif degl’inetti, de’buffoni, Fenelon non ischerza come arlecchino:
uè Xmsm
4ì §M8to eaft£<)iìde.il «mono de^G^'. dfiH' a||ia C9I
fracaaso assordante ddle
campane. Vupmo dmiene^ bttffime,
Mihrchà Mace^ altri
a ridere per le
sue sciùcchezzey allorché
ai4eiU axgiuti smtilm$c$
de'mUi arJecJmetehif ed
a misura che si
fa attore in
vece, «fi restare
semplice narrale; perciò
alquanto buffonesca, aeeottdo
<die 10 Be.^iiuiieo,
fa. la wnéatta iK Imo
gene nella seguente
occasione. Ne’giuochi pubblici d'Atene si distribuivano un giorno de’piemii
a quelli che dano saggio di maggior destrezza negl’esercizi dell'arco, della Jotta e.
delia €om« Ira
qnoUi v^Ae ^tiravmo
Tareo,. prìmèggiaìFa 4100 per la sua gofiferìa. DIOGENE anda a
collocarsi PRECISAMENTE ALLA META cui mira l’arciere. Gli si dimanda perchè sceglie
quel posto. PER NO ESSER FERITO, risponde il cinico. Il motto è arguto. Ma la condotta
è bu£fonesèa PER UN FILOSOFO. Ed
oltre a ciò
troppo acerba p^r
Tarciere. Minore taccia, perché
accompagnata da minore pubblicità, merita la condotta
di SoeriOe, «norcHè ALCIBIADE rKoniò
d’Olimpia vincitore di
tre premi al
cdi*8o deH^tìt Tutta
la Grecia lo celebra per questa sua vittoria. Al suo arrivo tutta Atene
anda a ritrovarlo. SOCRATE solo non i.^
iloiiici 'ébe fiol^iioi detti argutt
impirtii ad eccitare negli altri IL RISO, nofì^debb'igssere il priino a rideriie;,iina facezia. detta cojxsei^età
riei^eepiù piccante; Egii si
tenderebbe ridieak) m per si
fatte ^ver ti questa
0 quella brigata
coi» tale o tal altra
ciUa vJd^iJpÉltaatf ' 0MÉ i^ipateMa
divanto. Non conviene fare
oggetto di celia
mordace Gl’uomini generalmente
stimati e non
taiiitave JiliisMfiMM^ al qlMpte'dól^
tanfiNBeoolt rifèane ancora la macchia d'aver
messo in deriso SOCRATE; La peiaM»
troppo atolido«' pat«hè
nott v*è glo^
im'nel venire a contesa con esse;.1 miaer»
ed- ìi^ìcÌy perchè sarebbe
(grude^; eÓMtMatd a ^isaÉo
cbe immé^ mmaMMori;
GU ttomini troppo
sensitivii peròhè motteg*^
gio ^ alvvilifiM;
I vendicativi, perché ci
esponiamo a pagarne
ii ioo lo
«tesso si diea^ degli
igMraQtl«^|K)l^tf9 ai 1pllaI^^tlri
strale acutis8i«M €be ai
pianta nel loro animo 1 comparve che il giorno appresso, e,
in vece di
domandare il vincitore,
dimanda i vincitori, (ili
schiavi non comprendendo
il suo pensiero,
egli ordina loro
di conduco alta
stalla. Ejf^li vi
étitrò col suo
seguito ed essendosi fatto
mosiràre iisavalli iIMNmati
d’Olimpia, si avvicina
ad essi, li
salutò con rispetto,
fa loro de’gran
complimenti sulla loro agilità
e sulla gloria
che si sono acquistala. Alcuni del suo seguito recitarono loro
l'oite cl^e EURIPIDE compone in
onore d'ALCIBIADE. Dopo questa
scen^ i^oiffonesqa^ Socrate
si ritira senza
domandar di vedere il
Iripoiiilbre. m, la
calimi» «W» si
4^ iii^o^teggiare alj[a
cìepa; It.' Persona
cui è diretta
la eeiia. it^ .
l^aiwlla è.pegUa 4^i9r
cadere, una eelia senza disposta, di
quello elie^ ifnpegnar<A hi
im 4Kmi}^atUi|i^to con
p^r$pua che forsp
non . mirò 1^
yvWWfH; (»Hr«4|^ «l
wilapfi dagU scbiarimenti
che, ìoi vj^
d'^vj^icio^r^ g^lj ajoÀmU,
gli allontaDano ifi
QMfidla BOB Vi
è pcmHHle dUsimulare,
e vedete gli
altri a ridere a vostre spese, ridete voi iwret e topralMiO' hm imetistelAsMtbneDto
dispiacere, come è stato detto di sopra. Si veg-^ goao ogni giorno persone incivili che non sanao
rispondere ad-mi innoceote scherso fncMrchè con ingiurie e viHapì^ pgiKJiq pgpi, ((erflQpa prudepte
cli^ qQ|i,.vi|ote {s^ii^Qin^
8filg(;e il loro
in• contip» a.
Se nQg.èyfk^m^ dirìiy^
^ to, è
penDcsso re4argi|ìre, e
ripnandare la palla
a chi la
gettò; è que||9
|i dii^itto dal
^iit^cp^. ob^ Le facezie
che piacciono al
volgo, riescono il
. #iii d«U«
y9H&. tPWH^ (Ursone aeasat^. !
<P^(^'lwmle p9S9<wkQ sembrai^
tra gravi matrone
qpelie ce|'^ cbie,
proiferite in un
croccilo d up .
Altronde Ya?iaipo 4»^Qto
i giudizi degli
noli jnini interno 4, n^P^T^^i^
$SO)hra qnasj iip»
Dosaihile il iiSBarae il véro ed
essenzial caratatère; conciossiacliè a
taluno parrà lepido
e gentile un
molto che ad
altri riescirà dispiacevole e rozzo. Sappiamo in sfatti che a
CICERONE (vedasi), ricco altronde
del talento della
facezia, ivano a san
'fi'' gue gli scherzi di PLAUTO, mentre ORAZIO (vedasi) li
ri» prova siccome
illepidi ed inurbani. ED ECCO buovi MOTIVI PER CONOSCERE
INTIMAMENTE IL CARATTERE E IL GUSTO DELLE PERSONE CON CUI SI CONVERSA,
acciocché i nostri detti non fanno nascere nel loro animo la noia, mentre
aspiriamo ad eccitarvi il diletto. 'ik' Qualità
delle celie. È necessario
iin"^tìsto fino e
delicato per diStinsuere
...ì,j*»«u«u^ y-mm-^:, l.« Ciò che adesca da ciò che punge. Ciò che punge
da ciò'ché è insipido Ciò che è insipido da ciò che è triviale. Basta il senso comune
per discerncré ciò che è triviale – Grice, War is war, women are women -- da
ciò che è ributtante. Questi quattro gradi servono, a
i^oèì dire, di scala per apprezzare
le celie. La finezza del gusto è il risultato di certa facilità d'immaginazione,
volubilità di spirito, fecondità d’idee, rapidità di confronti,
acutezza di giudizio, delicatezza di sentimento. Colla scorta di queste facoltà
si riesce a coii4porre un misto felice di
serio e di giovfale, a vestiredi forme leggiadre l’idee piu astratte, a ritrovare
una massima che corregge piacendo, uri pungolo
che scuote senza irritare, una censura che nè il rispetto offende – Grice, He
has beautiful handwriting -- nè ramìcizia. Allorché dunque muniti di queste fàcòltà Vac^
cagete che gli asMatì fiono disposti ad éseoltarvì; che n soggetto vale la
pena che parliate; che tutte le circostaii^e vi sono favorevolij se ^udebe idea festiva e cap^ d’irallegrare una società
amabile si presenta al vostro spirito, commettereste una ispeéfe d'ingiustizia se
ne la privaste^ qualunque.' sia n vostro carattere qualunque carica occupiate nello stato
italiano. Le celie fehe si possono chiamare il fiore dello spirito, vogliono essere
dilicate. Alembert rK portando il deita*M Bourdaloué relativo à Despréaux. Se Despréaux mi mette in ridicolo netà sue satire, ìq
gli rènderò ta^rigtia Mite mie prediche Alembert
con tutta la delicatezza attica soggiunge. V'ha, apparenza che questo non sarebbe successo nella predica del perdono delle
ingiurie. Per non ripetere ciò che è stato detto iòtaTear pttolò antecedente, F. si ristringe ad
accennare alcuni difetti che si debbono sft^ire:nel maneggia delle celTe.^ Le celie non vogliono essere insipide.
Sono sempre insipide le celie che si risolvono in EQUIVOCI (“I have Scinde” –
Grice), IPERBOLI esagerate – Grice: “Every nice girl loves a sailor” --, giuochi
di parole – Grice, “He was caught
in the grip of a vice -- , verbi a doppio SENSO – Grice: unfettered, unbridled
--, cui la vera – Grice on Austin on
trouser word ‘vero’—Keith Arnatt, I’m a real artist -- SIGNIFICAZIONE si toglie per sostituirle un'altra
che non l'è. Essendo più facile il RIPETERE delle parole – Grice, be brief --, dei suoni, delle sillabe di Quello che awiéihare le qualità lontane delle
cose o scoprirne le LATENTI – implicite – Grice, what is unsaid --; perciò le suddette,
celie piacciono al volgo, mentre danno noia alle persoa# seiiHAe»
I fanciulli confondono le carte nel mezzo della partita quando non hanno
buon giuoco. Gli scìoli non potendo ALIMENTARE LA CONVERSAZIONE coll’amenità dei
sentimenti e dell’idee, le interrompono
con bischizzi, calembonrg^ discorsi che sembrano dire qualche cosa, mentre non
dicono nulla, e sono il tormento di chiunque è dotato di qualche spirito,
ij Le celie non devono essere scurrili. Esse
sono tali allorché versano sopra cose la cui immagine offende il gusto, come la
loro realtà offende i sensi. Si chiamano anche scurrili quelle celie che fanno arrossire il pudore. Le celie non devono peccare per eccessiva
ìiìalignità. Le celie non devono peccare per eccessiva acerbità dovendosi bensì far uso del sale, ma
con moderazione. I bischizzi consistono nel mutare ovvero accrescere o minuire
una lettera o sillaba d'una parola; cóme
colui che disse. Tu dèi essere più xlollo
nella lingua latrina che nella lingua greca. Pecca pec bassa e villana scurrilità il seguente epitaffio che Lasca fa
ad un Grasso. Qui giace il Grasso (noli ben chi legge). Che avendo il viso simile
al cui molto, l'alma, non discernendo il
cui dal volto, se n'uscì per la via dette coregge. Alla consccrazione d’un'abadessa,
le magnifiche tappezzerie, i vestimenti
ricamaU, i diamanti, i profumi,
Iannisica, i molli vescovi esecutori dell’ecclesìasliche cerimonie
sorpresero una buona donfia in modo che ella dice. Ecco il paradiso. Qualcuno risponde
malignamente. Non vi sarebbero tanti vescovi (Grice, IMPLICATVRA +> stanno
all’inferno). Una vecchia contessa assai ricca avendo sposato'un marchese malagiato,
e nel contratto di matrimonio. Le celie, allorché il soggetto lo comporta devono richiamare gli spiriti
alla morale. Non si deve cambiare il mezzo in fine (METIER – GRICE), cioè non
conviene consecrare alle celie quel tempo che è dovuto alle cose più gravi. Da
tale passione pe'combaltimenti di spirito o duelli di mot, leggi e di celie sono
invasi i normanni, che anche nell’ardore d'un assedio i nemici sospendeno talvolta
l’ostilità –cf. Monty Python, THE HOY GRAIL -- per abbandonarsi ad una guerra meno dannosa, guerra di motti, di redarguziom, de'buffonerie.
Allorché qualcuno dei due partiti, è preso da questa vaghezza, si mostra all'altro
in abito
bianco, il che è riconosciuto ed accettato come una sfida di celie. La qual
cosa certamente non è riprensibile in tempo di guerra, giacche non distrugge città
guerra di lingue avendogli falla la donazione di luUi i suoi beni, lemelle, dopo
molte infedeltà, che il marito volesse disfarsi
di lei, e un giorno sentendosi male, crede e dice d'essere avvelenata. “Avvelenata?”,
risponde il marchese alla presenza di più persone. “E chi accusate voi di questo
delitto?” “Voi,” replica la dama. “Ah, signori, nulla di più falso,” esclama
il marito. Sventralela subito, e toccherete
con mano la calunnia. Qui l'acerbità e la malignità vanno insieme. Si fa
rimprovero ad una donna perchè acconsente a sposare un uomo che urta di fronte gl’usi
e le mode del suo tempo, un orUjinale in
una parola. Ma la singolarità di quest'uomo non è che un vizio dello spirilo, e
nessuno ha l’animo più onesto di lui. Quindi la donna che lo conosce, risponde
con finezza. “L’acconsento a sposarlo perchè spero che sarà buon marito per singolarità
ed è meàe male dileggiarsi che iieoidev9Ì; ma 6ao^ vafìiìi di Salisbury rimprovera ai detti
popoli quell'eccedente p^issiona aoebe ia tempo di pace. Kantagqi che si possono
trarre dalle /ae^ie. Benché le celie sì riducano a momentanei tratti di spirito^ i^e,
^imiU^alle sciatillc, jcoin|^ariscooo -e
eeìssano m un utante Don segue pero che di grandi eventi non possano esser
cagione. Infatti, alloiìch^ei tvatta di coscT mòrali, gl’effetti dipendono dalla determinazione
della volontà. Ora a determinarle la volontà i più frivoli MOTIVI (Grice/Baker)
bastano, sì quando mancano MOTIVI (Grice/Baker) più gravi, sì quandi questi si trovano
in opposizione come una seinplice dramma basta
per'&r traboccare la bìlaacta<t allo^hè
i più gravi pesi là tengono in equilibrio. L'aftlisi de' fatti porrà in maggior luce il mio pensiero.
Coloro che nel CALCOLO (Grice, working out – CALCULABILITY) degl’effetti considerano
solo le ma^se,. apparenti, inarcherapnò le ciglia se dirò loro che tma celia può
in forza essere uguale ad t^ailamato. Eppure
bisogna rigorosamente ammettere questa eqtiaasione, aile^cbè si osserva che
un'armata atterrita da maggior numero di
nemici, può da uoa celia ricevere
tanta torza coraggiosa da riuscire a vincerli, come lo ba provato più volte
r^^sperieoza (Prima della battaglia
successa a! Trasknene, i cartaginesi sono ì»pa\
untati dai iìuuiux^g
esi^rcilu ROMANO ^uppi
m. È noto che l'orgoglio de' tiranni non soffre indugi; che le loro volontà
si eseguiscono in ragione del loro potere; che, sordi alla clemenza, alla giustizia, alla ragione, mandano a morte chi fa loro rimostranze,
sicché per fare equilibrio ai loro desideri, converrebbe avere un potere uguale
al loro. Questo potere si trova in una celia. Una celia può cambiare le più risolute
voglie del più feroce tiranno del loro. Glscon ne esterna la sua sorpresa ad Annibale:
V ha una cosa, risponde questo generale, che mi sorprende ancora di più, ed è che in questo gran numero di nemici
non v' ha un solo che si chiami Giscon. La storia dice che questo sangue freddo
anima il coraggio de’cartaginesi; giacché
non possono essi persuadersi che il
loro generale è disposto a scherzare in un momento sì importante, $cn/a essere sicurp di battere i nemici, come infatU
li battè éJi vince. In caso simile un altro generale viene sollecitato a far riconoscere i nemici che s’avanzavano
in gran copia. “Noi li conteremo,” dic'egli, “quando gl’avremo DISFATTI.” Queste
parole bastano per far passare i suoi soldati dal timore alla speranza, dall'
avvilimento al coraggio, e renderli vincitori di quelli da’quali temeno pochi momenti
avanti d'essere vinti. Tutti sanno quanto è dispotico e feroce
Enrico VIII re
d'Inghilterra. Avendo egli
de'moUvi di scontentezza contro Francesco I re di Francia, gli spedì per aipbasciatore un
vescovo inglese eh' ci volle incaricare d'un discorso pieno di fiele, d'orgoglio
e di minacele. Questo prelato scorgendo tutto il pericolo della sua
missione, cerca di farsene dispensare. “Non temete niente,” gli dice Enrico,
“poiché Se il re di Francia vi fa morire,
io faccio abbattere LA TESTA a molU francesi
che sono in mio potere. “Va benissimo,” replica
il vescovo. “Ma DI TUTTE QUESTE TESTE di nissuna s'adatterebbe sì bene al mio tomo
SiTO MnMwto dàlPidea
impoiiml» Moveri dTitn mioistroi «lalla gravità
de' moti?! che devono de«ternmarlOt
dai dami tnm aeea. demaail» chiamato^
atle pubbliche cariche,
si dora fatica a comprenda
<die una ceiia si possa j^om^
pénqueiMmpiego «fttr^ em
^tefe mepatù pér
demerito; e pure
gueata posaihUità ceaUuata
fili Mita tOvfyìsìo
come quella che vi é. ta
celia, «heloee.Bidéee. Bnlriè^
idasci a fario candMàre.'df
rlsolufeimiie; senza di
etto .'forse l'Inghilterra e
la Francia conlecebbero
una guerra di
più. IVouchirevan, re di Perula,
aveva condannato a
morte uno de'suoi
paggi per aver
^uesU
kia)i{vertéDteaiea(e:8pas8a
sopra lui della salla ^intti)dèii> a
mensa i il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo ^mmà
di perdono/ 'ifMò tutto
II piatto sopra
tjùèll'liii||lah cabile re.
Nouchlrevan, più sorpreso
che sdegnalo, volle
saperi la ragione di
siffalta temerità. Prìncipe, gli
disse i( paggio, io
desidero die te laia morte non
rechi niacclìia. 1» alia «ofiiii»
Hplitazioiia; com vóe de'moffiirehi, mavoi perdereste quello bel titolo se
là po»
»slerìtfi sapesse che per lievissima colpa condannaste a morie •ano de’vostri sudditi; perciò ho versalo tu Ito il piatto. Nouchirevan rientrato lo se stesso vergogpò della sua collera,
e gli
f(?ce grazia. Il Marelìesé d’Andrea
tnristeva pressò Lòuvóis
ministro della guerra
in Francia, onde ottenere una
carica^ il ministro
die aveva ricevute
parecchie lagnanze contro questo officiale gliela ricusava.
S io
eoiniociassi a servire so.
ben io ciò
^he faéel, ri8|Mstf roffieii|le
un po^ eómmosso;
fi che fareste
vd ? gli
disse fl mli^stro
con un tono
risentila Regolerei sì bene la
mia coikloUa, replicò
l'officiale, che non vi trovereste nulla da ridire. Il
ministro sorpreso plaeevollafDte da questa
òsposia, ac<;ordò dò
che aveva ne|{alo. Una
celia può ottenere
quel premio che,
non ottenne la
ragione che non
attenne C im^
portunità talvolta più valevolé detta fazione. Non v'ha cosa nè più
comune pè più noiosa idè'n^lHantatork nàOB votte odirotia «si le ragioni
<die condannano la loto condotta, e mille Tòlte toroano iii oamjio. eolie
toorn celia può agevolmente ridérre' à
'^ Hlimzio titt wiWantoioìre; giacché, in genejrale riesce
più difficile il rispondere ad unà:
ieHai chà ad
ma tuona ragione. Gli poeta aspettava tutu i giorni
Augusto a certo passaggio còn un epigramma alta mano: eglli'sperava qualche
ricompensa, mai la ricompensa nòn' Éttritic Blair Un giorno l’impilatore, per
divertirsi a spese del poèta è IrastuHarlò cevolmcnle).gli.pi;sBsentò deVyéssi
eh'egli aveva composti
10^41 Ijoi'.oiiore. Il poeia
degpo4*«ieiji Mtt ti(Ui|
trasse (U tasca
dèi deuaiO) e lo da ad Augusto
(OTTAVIANO (vedasi)), dicéndo^lt
ch'io v*ò£fro non è degno del
vostro merito, ma iò nórt possere di più. AUGUSTO (OTTAVIANO (vedasi) incantato
da questa risposta nuovia piccante, gli fa dare
fOO,(HW sesterzi (circa ^ 30,000
fr.) Ecco und ttiolui ì&àst»-oiprale suttor
u ^elo d'una facezia. Iki gie«iDe
a^'A vantava CU/Sapare
Hutto e d'aveifo imparato
in poco tempo, aggiungeva à-avere speso grosse somme per pagare i suoi maestri.
Uno degl’uditori non potendo più contenersi a tali iat(tanze, gii
disse freddamenté: Affé, se V voi trovato cento scudi per tutto ciò ebe
sapete ef«dètefni, Mn fiidagteite a pABderiLn
detto e eccellente, ma pùngeva un
poHroppo fUA'iM. Uno
spiantato lagnavasi in un crocchio di molte
perscibè •pel gK^asto
che la grandine
aveva fatto nel suo paese e
masirimanento Re;siR>l pcNlerl.-tin
ii|le cl)e a fondo
conosceva qitelmQlantaiofe è che sapea qaaiilk tasse povero in ràiim;
non potendo più contènersi a laìl iattanze, gii
inosse soìbi. Grice: “Ferraris’s Galateo
was so famous that, unlike Vico with his ‘new science’, a few philosophers
cared to consider seriously a ‘nuovo Galateo’. Antonio De Ferraris, Antonio De Ferraris. Galateo.
Ferraris. Keywords: conversazione, il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi
Speranza, “Ferraris e Grice” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Ferraris: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della supercazzola – scuola di
Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo
piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Ferraris is what the
in the Renaissance used to be called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is
“La svolta testuale” – he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard,
and I still connect!” Si laurea a TORINO
sotto VATTIMO (si veda). Insegna a Macerata, Trieste, Torino al Laboratorio di
Ontologia dal Centro Inter-Dipartimentale
d’Ontologia. Studiato a Torino. In ambito teorico, lega il suo nome al rilancio
dell'estetica come teoria della “sensibilità” a un'ontologia sociale intesa
come ontologia dei documenti (documentalità) e a un superamento del post-modernismo
attraverso la proposta di un nuovo realismo. Centro inter-universitario d’Ontologia
Teorica e Applicata. I primi interessi di F. si rivolgono alla filosofia
post-strutturalista (“Differenze”; “Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente
a Derrida, F. dedica: Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione
a Derrida, Il gusto del segreto e, infine, Derrida. Ritratto a memoria. Lavorando
invece a contatto con Gadamer, si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti
dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust, Nietzsche e la filosofia, e
soprattutto Storia dell'ermeneutica. F. sviluppa un'articolata critica alla
tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria di
una svolta, postfazione alla conferenza di Heidegger La svolta), che fa valere,
in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come contestazione del
retaggio romantico e idealistico che condiziona tale tradizione. La conclusione
di questo percorso critico sfocia nella riconsiderazione del rapporto tra lo
spirito e la lettera e in un ribaltamento della loro contrapposizione
tradizionale. Spesso i filosofi e gl’uomini comuni disprezzano la letterale
norme e i vincoli che sono istituiti attraverso documenti e iscrizioni di vario
genere anteponendole lo spirito il pensiero e la volontà e riconoscendo la
libera creatività del secondo rispetto alla prima. Per F. è la lettera a precedere
e fondare lo spirito. Abbandona il relativismo ermeneutico e la decostruzione
di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività
e realtà, considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di
sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione
tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti
dell'arbitrio. Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento
di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento
teorico. Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra
schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo
significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una
rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con
altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant. Rilegge
Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino BOZZI (si veda) (Il
mondo esterno e Goodbye Kant! La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il
mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi
concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla
confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del
sapere), di cui F. articola una tematizzazione critica fondata sulcarattere di
inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si vedano in
particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione sul
realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism. L'esito
naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo
inemendabile di un dominio d’oggetti in cui la filosofia trascendentale
kantiana trova la sua adeguata applicazione: gl’oggetti sociali, l’intersoggetivo
(Dove sei? Ontologia del telefonino, Babbo
Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La fidanzata automatic, Il tunnel delle multe.
La tesi di fondo è che la distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al
riconoscimento dell'autonomia ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli
oggetti sociali (regolata dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”),
consente di correggere la tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di
fuori del testo" (letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori
testo”) per teorizzare che “niente di sociale esiste fuori del testo”. Documentalità.
Perché è necessario lasciar tracce.In seguito la sua si arricchisce di piccole ma significative
metafisiche dei costumi artistici e scritturalifin anche ultratecnologici con
Piangere e ridere davvero e Filosofia per dame, vere e proprie grammatologies,
insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come
del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente
quelli per Alfabeta e Alfabeta). La svolta realista compiuta da partire
dalla formulazione dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come
ontologia della percezione e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore
declinazione nel Manifesto del nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi
sono anticipati da Ferraris in un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto e che avvia un imponente dibattito, è in
primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici
(l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da
queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle
derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei
realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire
dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra
individuo e realtà). Da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla
degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace
della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il Nuovo Realismo si
identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia,
Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e
convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni
che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti
extrafilosofici. In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per
quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia
culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di
sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha sollecitato
una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare da Della
realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti di Vattimo e Inattualità del
pensiero debole, Udine, Forum, di Rovatti sino a Il senso dell'esistenza. Per
un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Gabriel, Bentornata Realtà. Il
nuovo realismo in discussione (Caro e F.), Torino, Einaudi, e a Sociologia e nuovo realismo,
Milano-Udine, Mimesis, di Luca
Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da F. e De
Caro, che conta numerose pubblicazioni). Al Nuovo Realismo di Ferraris
hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Caro (cfr. Bentornata
Realtà, a c. di Caro e F.), sia filosofi di formazione continentale, come
Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Taddio (Verso un nuovo realismo) e
Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia neo-realista), che ha raccolto il
sostegno di filosofi come ECO (si veda), Putnam e Searle, e che si incrocia con
altri movimenti realisti sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze
affini, come il realismo speculativo di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo
realismo, il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è
sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta che
si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva
concluso molta filosofia del secolo scorso. Significa piuttosto che anche
la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha
qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo. In questo
quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un realismo negativo: la
resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi concettuali non va
considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una prova dell'esistenza
di un mondo solido e indipendente. Se le cose stanno in questi termini, però,
il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo (Cfr. F., Realismo
Positivo, Rosenber e Sellier ). Nella sua resistenza la realtà non costituisce
soltanto un limite, ma offre anche delle possibilità e delle risorse, il che
spiega come, nel mondo naturale, forme di vita differenti possano interagire
nello stesso ambiente senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel
mondo sociale, le intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da
una realtà che è anzitutto data, e che solo in un secondo momento potrà essere
interpretata e, se necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del
postmoderno, il nuovo realismo ha intercettato un diffuso bisogno di
rinnovamento in ambiti extradisciplinari come l'architettura, la letteratura,
la pedagogia, la medicina. L'ultima corrente filosofica inaugurata ha
provocato resistenze e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e
del pensiero debole. Altre saggi: “Differenze. La filosofia dopo lo
strutturalismo” Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno,
Milano: Multhipla); Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in
Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova:
Marietti); Proust, Milano: Guerini e associati,
Storia dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria
di una svolta, in Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e
conclusione, Postille a Derrida, Torino:
Rosenberg et Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma: Laterza); Mimica.
Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano: Bompiani); “Storia della
volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon rationis, Milano: Pratica
filosofica, 1nterpretazione ed
emancipazione. Milano: Cortina); L'immaginazione, Bologna: il Mulino); Estetica,
(con altri autori), Torino: Pomba); Il gusto del segreto, con Derrida, Bari:
Laterza); Estetica razionale, Milano: Cortina); Honoris causa a Derrida,
Torino: Rosenberg e Sellier); Una Ikea di università, Milano: Cortina); Il
mondo esterno, Milano: Bompiani); L'altra estetica, (con altri autori), Torino:
Einaudi); Derrida, Roma: Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!,
Milano: Bompiani); “Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo
Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier.
Ontologia dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano:
Bompiani); Il tunnel delle multe. Ontologia degl’oggetti quotidiani, Torino:
Einaudi); Storia dell'ontologia, Milano: Bompiani, Una Ikea di università. Alla prova dei fatti,
nuova edizione, Milano: Raffaello Cortina; “Piangere e ridere davvero.
Feuilleton, Genova: Il melangolo); Documentalità. Perché è necessario lasciar
tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a
partire da Derrida, Milano: Bompiani); Filosofia per dame, Parma: Guanda); Anima
e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari: Laterza, Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione,
con Caro, Torino: Einaudi); Lasciar tracce: documentalità e architettura, Visconti
e Capozzi, Milano: Mimesis); Filosofia Globalizzata, con Caffo, Milano:
Mimesis); Realismo Positivo, Torino: Rosenberg e Sellier); Spettri di
Nietzsche, Guanda: Parma); Mobilitazione Totale, Roma-Bari: Laterza); I modi
dell'amicizia, con Varzi, Napoli-Salerno: Orthothes); Emergenza, Torino:
Einaudi); L'imbecillità è una cosa seria, Bologna: il Mulino); Filosofia
teoretica, con Terrone, Bologna: il Mulino,
Postverità e altri enigmi, Bologna: il Mulino); Il denaro e i suoi
inganni, con Searle, Torino: Einaudi); Intorno agl’unicorni. Supercazzole,
ornitorinchi, ircocervi, Bologna: il Mulino); Il capitale documediale.
Prolegomeni, in Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, Torino:
Rosenberg e Sellier. Responsabile scientifico di "Pensiero in
movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse
curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale
l'Espresso e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica si
segnalano: "Felicità. Cos'è
la ricerca della felicità?", Roma, la Repubblica, "Libertà. Quando si è davvero
liberi?", Roma, la Repubblica, "Arte. Perché certe cose sono opere
d'arte?", Roma, la Repubblica, "Male. È possibile vivere senza il
male?", Roma, la Repubblica, "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale
degli altri?", Roma, la Repubblica, "Bellezza. C'è una regola del
bello?", Roma, la Repubblica, s
"Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,
"Morale. C'è un solo modo giusto di
vivere?", Roma, la Repubblica, "Potere. Perché si lotta per il
potere?", Roma, la Repubblica, "Pensiero. Che cosa significa
pensare?", Roma, la Repubblica, "Violenza: La violenza è
inevitabile?", Roma, la Repubblica, "Passione: Chi decide, la ragione o la
passione?", Roma, la Repubblica, "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo
che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica, "Linguaggio: Si può pensare senza
parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli
scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i
filosofi?", Roma, la Repubblica, ha curato, oltre a partecipare con
singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di
Repubblica curandone gli epiloghi. Nel biennio - ha diretto e condotto
tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai
Scuola. Nel e nel ha continuato tale lavoro nel programma
televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Conduce la rubrica
di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso canale. “F.",
in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano:
Bompiani, "Maurizio Ferraris", la Repubblica, Per una rassegna completa del dibattito sorto
intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su
labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua
del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis, Reperibileonline.
Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono
quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli altri, Bazzanella, La
filosofia e il suo consumo. Il nuovo New Realism, Trieste, Asterios,; Perché
essere realisti? Una sfida filosofica, Andrea Lavazza e Vittorio Possenti,
Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a cura di), Negli archivi e per le strade.
Il ritorno alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne,;
Architettura e realismo, Milano Maggioli,
Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi Lo stato dell`arteIl di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in
Il di RAI Cultura dedicato alla
filosofia. “F.", in Antiseri e
Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani, "Ontologia analitica e ontologie
continentali: F. e i filosofi italiani di impostazione analitica", in
Esposito e Porro, Filosofia contemporanea, Roma: Laterza, dal
Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di
tutti gli interventi a proposito della proposta teorica sul realism. Documentalità
Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro Interuniversitario di
Ontologia Teoretica ed Applicata, Laboratorio di Ontologia, su labont. Il
«questionario Proust» a F., su elapsus. F., il Nuovo Realismo, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Parsons
sociologo Parsons. Sociologo. Parsons produsse una teoria generale per
l'analisi della società chiamata "struttural-funzionalista", nella
quale sono evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale
nonché all'etnologia. Cerca di combinare "azione sociale" e
"struttura" in un'unica teoria non limitata al solo
funzionalismo. Il suo lavoro ha avuto grande influenza quando la ricerca
era quasi solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più
raffinata. Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti
come Habermas e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il
più importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto
l'etichetta di "neofunzionalismo", si deve ad Alexander. Parsons
nasce a Colorado Springs. Frequenta l'università ad Amherst, Massachusetts, ed
è orientato allo studio della biologia e alla medicina, ma s’interessa
progressivamente all'economia e alle scienze sociali, anche grazie alle opere
di Durkheim e Weber. Dopo Amherst, Parsons si reca alla London School of
Economics, dove subisce l'influenza dei lavori di economisti quale Laski e
Tawney, gli antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi
Ginsberg e Hobhouse. Grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia,
si trasferisce a Heidelberg, dove consegue il dottorato con una tesi
sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart. Tornato negli Stati
Uniti Parsons insegna a Harvard. Entra a far parte del Dipartimento di
Sociologia (diretto da Sorokin, con il quale Parsons è in disaccordo) e
successivamente presso il Dipartimento di Relazioni Sociali (diretto dallo
stesso Parsons). Viene eletto presidente dell'American Sociological
Association. Muore a Monaco di Baviera. Lo struttural-funzionalismo
L'approccio di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone
di individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando
le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di
Durkheim, il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha
all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per
la sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque,
in linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due
approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo
dell'individuo, il secondo sul ruolo della società. L'azione sociale In
La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che l'azione (o atto) è
l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto richiede i seguenti
elementi: L'attore, colui che compie l'atto; Un fine verso cui è
orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano nuove linee
d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali l'attore non ha
possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore controlla e utilizza;
Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore a preferire certi
mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul sistema morale
vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in questa visione
di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè a ridurre
l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo ogni ruolo
alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni in base a
un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le norme
collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce il
libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste norme
sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono
espressione dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione
individuale vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme -
Parsons ha già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia
individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del
concetto di sistema. Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale
Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace
di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla
riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere
almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo
concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana, per
giustificare i ruoli: Adattamento all'ambiente; (Adaptation) il
sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema economico. Nella
famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale attraverso il
lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la sopravvivenza.
Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il sottosistema che svolge
questa funzione è il sottosistema politico. Nella famiglia a guidare i vari
membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il padre. Integrazione delle
parti componenti; (Integration) il sottosistema che svolge questa funzione è il
sottosistema giuridico e il sottosistema religioso. Nella famiglia, a regolare
i conflitti interni, era il padre. Conservazione della propria organizzazione;
(Latency pattern maintenance) i sottosistemi che svolgono questa funzione sono
il sottosistema della famiglia e il sottosistema della scuola. Nella famiglia,
ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli (latenti) di comportamento su
cui, all'epoca, si reggeva la società, era la madre. In realtà nella visione di
Parsons gli individui non sono singole persone ma persone che svolgono dei
ruolispecifici, modelli di comportamento regolati da norme ed orientati
all'espletamento di una funzione: Parsons non tratta dei signori X e Y, ma
dell'insegnante e del meccanico. Il sistema sociale è dunque un sistema di
ruoli. Nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli
altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso. I ruoli
fanno anche parte delle istituzioni, sottounità del sistema sociale che
implicano più ruoli interagenti tra loro: la scuola, ad esempio (fatta dei
ruoli di insegnante, studente, bidello, ecc.), la famiglia (padre, madre,
figli). Lo stesso argomento in dettaglio: AGIL. Famiglia e
socializzazione Si è già detto che in pratica il congiungimento tra l'individuo
e la società avviene tramite le norme. Ma in che modo le norme diventano parte
dell'individuo? Parsons riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in
Freud chiamato introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a
vivere in società attraverso la formazione di un'istanza psichica (il “super-io”)
che riproduce l'autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi
interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel
corso del processo di socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie
alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello
di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è nucleare, composta
cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un'abitazione indipendente
mononucleare. All'interno della famiglia avviene una differenziazione di
funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli
e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa,
cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa
dell'interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari,
l'uno non esiste senza l'altro. I figli e le figlie svilupperanno una
personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei
ruoli tra i due genitori. Variabili strutturali e universali
evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di parametri sulla base dei
quali è possibile classificare società e culture diverse: sono le variabili
strutturali (pattern variables). Esse sono scelte binarie di fondo compiute da
una cultura nel corso della sua esistenza: Particolarismo/universalismo.
È la differenza tra il comportamento di un genitore e quello di un giudice. Il
primo è ispirato a criteri particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio
ma non un altro individuo. Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le
regole che applica valgono per tutti indifferentemente ("la legge è uguale
per tutti"). Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a
tener conto di tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel
secondo l'azione si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto
dell'insieme della sua personalità; quando un commesso interagisce con un
cliente tiene conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo.
Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha
tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di
provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di
realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi).
Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali
vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano
sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi
privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è
orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati
(il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società
moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai
tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni
particolaristiche e tratti ascrittivi. Per universali evolutivi, invece,
Parsons intende dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso
della sua storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo
successo rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana,
le società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i
concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù dell'incesto),
tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la natura). Nella
rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti di sistema di
stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società moderna è
caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il mercato, le
norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle società che nel
corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti, questi
universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità. Parsons effettua
una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il quale la
classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata nella
misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per tutti.
Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo
evoluzionistiche. Abbiamo quindi 3 stadi di società: - società primitive:
dove la parentela è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra
gli individui - società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come
passo fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne:
dove abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto
universalistico e dove la cultura ha un ruolo preponderante L'evoluzionismo
non è mai lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons
procede quindi all'analisi specifica delle società seguendo la loro
evoluzione: - Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è
forte l'influenza della mitologia e della religione e dove vi è uno stato di
chiusura mentale che non dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale:
l'organizzazione sociale è divisa per parentela e per gruppi di età mentre
l'economia è semplice e si utilizzano risorse date dalla terra - Società
tecnologiche: l'ambiente tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie
ai macchinari, vi è una forte divisione del lavoro e una distinzione tra
proprietari e consumatori che lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è
quindi un'alienazione dell'uomo e una larga diffusione della burocrazia. -
Società urbana: dove la città è il simbolo più evidente e dove le classi
sociali assumono un ruolo dominante, esse sono divise in "élite"
ovvero gruppi di persone che grazie alla loro influenza contribuiscono
all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei tipi di élite: tradizionali,
tecnocratiche, proprietarie, carismatiche, ideologiche, simboliche.
Ulteriore sviluppo Le teorie di Parsons sono state sviluppate ulteriormente da
Merton, Luhmann e DONATI (si veda). Critiche. L'opera di Parsons apparve a
lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa, per esempio dai sociologi
Pitirim Sorokin e da Mills, che ne indicava efficacemente anche le implicazioni
sociologiche conservatrici. Il pensiero di Parsons è stato spesso
accusato di etnocentrismo per il fatto di aver assunto le società occidentali
come il modello a cui tutte le altre società dovevano tendere e conformarsi.
Egli vedeva infatti il processo di modernizzazione come un processo unilineare.
L'etnocentrismo di Parsons è presente anche negli studi sulla trasformazione
della famiglia, facendo riferimento soprattutto alla famiglia nordamericana
bianca, appartenente al ceto medio. In questo senso poi le critiche sono venute
soprattutto dai movimenti femministi che non hanno accettato la tendenza di
Parsons a ratificare la subordinazione di fatto della donna a partire dalla
tesi di complementarità dei ruoli dei coniugi. Parsons viene criticato
anche da Merton. Attribuendo a Parsons una valenza sempre positiva all'ordine
sociale, Merton ritiene che quest'ultimo è anche fonte di disordine. Per
Parsons tutte le istituzioni sono funzionali per la società, mentre Merton
rileva l'esistenza di disfunzioni. L'attore di Parsons sarebbe un
over-socialized man, cioè un uomo iper socializzato ai valori, che ha un
comportamento del tipo conformistico e che si comporta come la gente vorrebbe
che egli si comportasse. OpereModifica Ulteriori informazioni Questa
sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla
secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di
riferimento. Elenco delle principali opere: La struttura dell'azione
sociale, Il sistema sociale, Toward a General Theory of Action (con Shils et
alii), Working Papers in the Theory of Action (con Bales, Shils et alii), Saggi
di teoria sociologica, Famiglia e socializzazione, Structure and Process in
Modern Societies, Sociological Theory and Modern Society, Politics and Social
Structure, Hamilton, Parsons, Bologna, il Mulino, Marinelli, Struttura
dell'ordine e funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli,
Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, Gerhardt,
Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Marra, Parsons. Valori, norme,
comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Segre,
Parsons: un'introduzione, Roma, Carocci, Bortolini, L'immunità necessaria.
Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, Hart (ed.),
Parsons. A Collection of Essays in Honour of Parsons, Chester, Ruolo di genere
Giddens Luhmann Dahrendorf Habermas Touraine A Parsons, Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Parsons, su sapere.it,
Agostini. Parsons, su
Enciclopedia Britannica, Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North
Dakota State University. Opere
di Talcott Parsons, su Open Library, Internet Archive. Portale
Biografie Portale Sociologia Funzionalismo (sociologia) posizione
dominante tra le teorie sociologiche contemporanee Merton sociologo
statunitense. Grice: “There is
a big difference between ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’ – and then
there’s inter-active, co-active, and shared – intenzionalita condivisa --.
Subject applies to object, so inter-subjective should be used when a neutral
common ground (the object that both subjects perceive) matters. Usually, this
is not the case, since our focus is communication or psi-transfer. However,
‘interpersonal’ is too vague because we never know what a person is. Co-active
and inter-active seem better, alla Parsons. The dyad or interpersonal or
interactional unit, where A orientates his action towards B and reciprocally or
mutually so does B. Co-operation.” Keywords: the ontology of the
intersubjective – intersoggetivo – a functionalist approach to the
inter-subjective – Grice as an ‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist
of the inter-subjective. The intersubjective conditions for the understanding of
pretty subjective utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective
intentionality, shared intentionality, and the inter-subjective –
inter-subjective and inter-personal. ‘conversational’ as short for
‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as
relying on utterer AND addressee. Grice’s definition of communication as
relying, obviously, on utterer and addressee. Ferraris reccognises the
rhapsodies of Austin needed some systematization, and while Ferraris refers to
Grice, he does so very superficially -- and more. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferraris” – The
Swimming-Pool Library. Maurizio Ferraris. Ferraris.
Luigi Speranza -- Grice e Ferrero:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale arimmetica
– scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese.
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Just for
having written on the influence of Pythagoras on the Roman world, Ferrero is
highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras taught of
course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!” -- Italian
philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del Pitagorismo
nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione
Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi
uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno
spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento
dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che
Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire
sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico
occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più
importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra
filosofia romana e pitagorica,
rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana
classica. Su questa base l’a. arriva a
sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica
ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e
realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la formazione
del politico. Il piano dell’opera è
semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente permettonodi
abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della Roma antica, arricchite
da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice analitico che ne facilita
la consultazione. Si laurea con Rostagni,
a Torino. Insegna a Trieste. Ferrero is
not the first to claim Italianita and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father was an Etruscan! Numa learned from him! CICERONE
corrects here – it’s the tradition that counts – Livio also notes that a book
by Numa was destroyed: by that time, the republic had an official religion and
Pythagorianism was not part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is
Pythagorean. Ficino claims Plato is Pythagorean via his tutor who was
Pythagoras’s tutee – Pico asks Ficino for advice on these maters. Caparelli
thinks it’s all Pythagoreian. The important bit is politic, and ethnic.
Pythagoreanism became popular in the rest of Europe via Italy, that always
showed more of an interest for ancient history than the Germanic peoples –
perhaps because runes do not give so easily to history! ARISTOSSENO ('Αριστόξενος,
Aristoxĕnus) di Taranto. Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della
prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco
di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno
alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoi
Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della ricerca e della
elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti
aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni del suono
(v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica
l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento
di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come armonia, che
già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure
ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche
di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica,
aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in
troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su
Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di
svalutazione polemica. Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni
moderne di Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino), di Westphal (A.
v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento,
Lipsia) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes,
introd. and index of words, Oxford). Bibl.: von Jan, in
Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis, che contiene ulteriori
indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d.
Philos., Berlino; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans
l'antiquité, Parigi 1924. La restituzione della Geometria Pitagorica
Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri
regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di
Euclide. PREMESSE. Proclo, capo della Scuola d'Atene, ci ha lasciato un
prezioso commento su Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed
importanti notizie che i moderni posseggano sui risultati conseguiti e le
scoperte fatte in geometria da Pi-tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo Pitagora
trasforma questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimonta ai
principi superiori e ricerca i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura;
è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure
del cosmo (poliedri regolari). PROCLO, Com. in
Euclidem, ediz. Teubner: la traduzione su riportata è quella del Tannery TANNERY,
La Géométrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en
savons, Gauthier-Villars, Paris). Non è una traduzione alla lettera; e non
per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo
greco non dice che Pitagora rimonta ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν
τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'alto i
principi della geometria. Anche Loria (Le scienze esatte nell'antica Grecia),
riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. Proclo ci
attesta inoltre che Eudèmo, il peripatetico, attribuisce ai pitagorici la
scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qualunque la somma degli
angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che
consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato
opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni
formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del
triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un angolo
piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei
triangoli equilateri riuniti per il vertice riempiono esattamente i quattro
angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono
qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti;
questa somma non è data esattamente che dai soli Cfr. TANNERY, Le Géométrie
Grecque, PROCLO, ediz. Teubner MIELI riporta il passo nel testo greco in Le
scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1Eudemo da Rodi, l'eminente
discepolo di Aristotele. poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È
un teorema pitagorico. Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa
di un triangolo rettangolo. Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la
storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema
a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta. Secondo Eudemo (οἱ
περὶ τὸν Εὔδημον) la parabola delle aree, la loro iperbole e la loro ellisse,
sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa nomenclatura,
classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i problemi
dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel- la in
difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica,
dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego
del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di
riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re
l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner,
PROCLO, ediz. Teubner Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE
LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), e da ATENEO. 6
PROCLO, ediz. Teubner PROCLO, ediz. Teubner Per quest'ultimo punto vedi anche
GIAMBLICO – De Vita Pythagorae Queste, insieme a poche altre che avremo
occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono
sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta
le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il
Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto
unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera
geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha
neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad
Euclide da Eudemo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita
Eudemo solo di seconda mano, e precisamente attraverso Gemino, un greco,
probabilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare
l'origine delle indicazioni passabilmente numerose e circostanziate perve-
nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola pitagorica, Tannery
sostiene che deve essere esistita un'o- pera di geometria, relativamente
considerevole, che Eudemo deve avere avuto tra le mani, opera composta dopo la
morte di Pitagora, approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse
l'opera che Giamblico designa come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il
Tan- nery10 che, in base al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di
geometria greca di cui si può sospettare l'esisten- TANNERY, La Géom. gr.,
TANNERY, La Géom. gr. TANNERY, La Géom. gr., za, il quadro era già quello
che riempiono gli «Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due retti),
al 10o (scoperta degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri
regolari). Questo è il coronamento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di
Proclo e degli Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie
élémen- taire nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de
Pythagore, de même que Minerve du cerveau de Jupiter. Nulla però sappiamo
circa le dimostrazioni dei teoremi, le risoluzioni dei problemi ed in generale
la trattazione delle questioni riportate da Proclo – Gemino – Eudemo; nulla,
all'infuori della dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non
manca niente. La dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eudemo ai
pitagorici, non coincide con quella che si trova nel testo di Euclide (prop.
32) ma ne differisce di poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di
un triangolo è eguale alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi
sopra la proposizione 29, a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle
parallele o postulato di Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei
tre angoli di un triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella
proposizione stessa. Teorema e dimostrazione sono però, come osserva Vacca,
anteriori ad Euclide; perché, come è stato osser- TANNERY, La Géom. gr., VACCA
Euclide – Il primo libro degli elementi, Testo greco, versione italiana e note,
Firenze vato da Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica si riferisce
non solo a questo teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A
questo punto dobbiamo sollevare una questione im- portante dal duplice punto di
vista storico e teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è
quella stessa che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come
quella di Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente
ammesso e formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da
Eudemo del termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; fa lo
stesso anche Eudemo, e fanno lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo?
Ed in tal caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola:
parallela? Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta
l'altra di ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è
necessario basarsi sopra il famoso postulato di Euclide, o sopra un postulato equivalente?
Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter
dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si
riferisce Aristotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si
può fare senza ammettere o premettere il V postulato, o, ciò che è equivalente,
senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data
passante per un punto assegnato. Se infatti si ammette, per esempio come fa il
Severi, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte
di una retta ed aventi da questa una data distanza, è ancora una retta, si può
osservare: che tale retta è unica; che per poter dimostrare come questa retta,
cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è
anche l'unica non secante della retta data, Severi ricorre al postulato di
Archimede, il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente
al postulato di Euclide; che la dimostrazione data dal Severi del teorema
dell'angolo esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo
(e che è quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della
equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta,
non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre
per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà
degli angoli alterni interni, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e
non su quello di Euclide. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, È l'edizione
non ridotta. SEVERI, Elem. di Geom.,SEVERI, Elem. di Geom. Vedremo in seguito
come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato.
SEVERI, Elem. di Geom., ISEVERI, Elem. di Geom. Ne segue che la dimostrazione
cui si riferisce Aristotele può benissimo sussistere sulla base di un postulato
come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è
legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la
lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi
pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico
dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a
mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema
dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde
anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente Loria. Una sola cosa bisogna
notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta
di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo
ragionamento, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un
passo del commento al 1o libro delle Coniche di Apollonio (Apollonio – ed.
Heiberg, Lipsiae) dica: Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei
due retti a parte per ogni specie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per
l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo
dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli LORIA, Le scienze esatte
nell'antica Grecia, Hoepli interni di un triangolo sono eguali a due retti».
«E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino». In conclusione anche questo
dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an-
goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli
antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti;
particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la
dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine
delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria, «era noto il
valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano
dimostrare [come?] il relativo teorema; ad essi per universale consenso viene
attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca-
ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno
quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il
primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna
escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche
essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale
dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo:
«per conto Cfr. MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze; ivi
è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo nelle
«Scienze esatte. LORIA, Storia delle matematiche, Torino mio ammiro coloro che
per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più
l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di-
mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più
generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento. Non è noto quale fosse
la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci
sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata
dal postulato delle rette parallele. Altrimenti gli antichi pitagorici, che per
quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed
anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che
solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha
indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che
egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei
triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la
somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un
terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due
retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona,
perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata
riporta il testo greco di Proclo. ALLMAN, Greek Geometry from Thales to Euclid,
Dublin, 1necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si
ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si
possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma
nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a
meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo,
indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso
del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo
rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del
triangolo rettangolo qualunque, egli completa il rettangolo (di cui si
presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily
(empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il
triangolo rettangolo è così decomposto in due triangoli isosceli cogli angoli
alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per
somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad essi
rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un
triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si
estende agevolmente, sebbene Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo
isoscele, e da questo ad un triangolo qualunque. Tannery riconosce
esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà
relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei
triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche
egli inverte l'ordine dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il
riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti
attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della
eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi
triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino,
prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che,
seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso
particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello
all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que,
soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno.
Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia
quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai
risultati nel- TANNERY, La Géom. gr., l'ordine indicato da Gemino, e che faccia
appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul
quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive Tannery, «che se non
l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime
che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è
nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per
questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo
non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma
deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle
proporzioni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte,
se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli
aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto
trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema
generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse
ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i
peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la
dimostrazione, Tannery, dopo avere detto che «i greci introducevano il più
tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo
che Pitagora deve essersi TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr., servito
della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa
della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si
dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente ammettendolo
a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele. Ora, a parte il
fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento,
biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della
similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema
dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la
teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante
i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica
dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche
secondo Loria la dimostrazione che presenta il massimo di verisimiglianza è
quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che nascono
abbassando la perpendicolare dal vertice dell'angolo retto sull'ipotenusa. Con
una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi
di Euclide. Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di
Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione
accennata da Loria e da Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo
teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di TANNERY, La Géom. gr.,
LORIA, Storia delle Matematiche. Pitagora, non sia affatto quella originale;
senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora
dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra
il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più
felicemente osserva Allman che sebbene Pitagora possa averlo scoperto come una
conseguenza del teorema sulla proporzionalità dei lati dei triangoli
equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera
deduttiva, e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora
tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera
più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito
da Bretschneider. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni
ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le
nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette
perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due ALLMAN,
Greek Geometry BRETSCHNEIDER Die Geometrie und die Geometer vor Euklides,
Leipsig, retti; ed è invece, come
vedremo, indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua
l'Allman, l'Hankel nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che
«si può obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente
greco, ma ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale
del teorema mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli
egiziani, da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che
sia la stessa cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia
pure derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa
sarebbe, secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da
Pitagora; si vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita
dalla figura, la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe
il merito che Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a
Pitagora? Del resto l'apprezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia-
no della dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed
applicando codesto criterio è probabile che si dovrebbe assegnare una
provenienza orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente
greci. Noi mostreremo come una dimostrazione del teorema basata sopra questa
figura si ottenga molto semplice- ALLMAN, Greek Geometry, HANKEL H., Zur
Geschichte der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig. mente
usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed,
anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli
stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone
fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non
soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione
del Menone. 32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, Da quanto precede risulta che
occorre risolvere questa questione essenziale e preliminare: Trovare in qual
modo gli antichi pitagorici dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo
soltanto che essi ne davano una dimo- strazione che non era quella basata sopra
il postulato delle parallele; e questo porta con una certa sicurezza a
concludere che non ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per
altro, trova conferma nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto
stesso di rette parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che
prolungate all'infinito non si incontrano mai, doveva apparire particolarmente
ripugnante alla mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il
compiuto e perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra
parte, escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la
29a proposizione del libro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per-
venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici
dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di
dimostrare il teorema. Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il
Tannery che al tempo di Pitagora il numero delle verità ammesse come
primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso deve
essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu-
to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il
Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se
questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non
serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di
questo teorema e non a quella arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la
esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione
ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici
ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo
riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale
permetto- no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con
sole considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere
il postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di
qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del
postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma
che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo
probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale
fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo
inspirazione e 25 non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo
sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la
mentalità pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente
raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati conseguiti da essi,
quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a
scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per bre- vità noi
presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il
contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il
postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che a noi
interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le proposizioni
nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da quella euclidea.
Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o
no) ammettessero: i postulati di deter- minazione e appartenenza; i postulati relativi
alla divisione in parti della retta e del piano (riferiti se si vuole a rette
finite e piani finiti); i postulati della congruenza o del movimento. E
riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le proprie- tà che cogli ordinarii
procedimenti se ne ricavano, e cioè: i
criteri ordinari di eguaglianza dei triangoli; le relazioni tra gli elementi di
uno stesso triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a
lati di- suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di ciascuno degli
interni non adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due. l'unicità
della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle
perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle
oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za
con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide.
Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo
postulato, ossia ritrovare l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema
dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le
verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della
geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza
logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al
medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di
Euclide del Commandino, e come termine filosofico nella versione latina della
Reth. ad Alexan. del Philelphus. La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati
è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα.
Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente
delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo
avvenisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario
punto di partenza; né è detto che venissero
scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed
all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tenere presente che la mentalità
geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per
ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della
logica. Al contrario, osserva Rostagni, «Religione, morale, politica, scienze
matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o veramente
si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere
emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito
nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le
domina tutte, indifferentemente. Archita, il pitagorico amico di Platone, in un
frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio, dice che
la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono
delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una
disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen-
dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gioco degli scacchi; era la
scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e
dell'estensione. L'aritmetica è la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del
numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- ROSTAGNI, Il verbo di
Pitagora, ed. Bocca, Torino Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie
pythagoricienne; Paris, gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed
è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le
altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che
questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era
presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed esperienza sensibile umana
ordinaria e non aveva per oggetto soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο,
dell'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpicamente inalterabile
ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza delle cose, l'al di là del περιέχον, della fascia
cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti.
Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna ancora all'intelligibile e non al
sensibile gli oggetti della geometria. Tenuto conto di tutto questo, la verità
primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la
seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano
ruota rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato attorno ad un suo punto
fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta
situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della
retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui
ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è
innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, dell'osservazione e
dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e
rigidamente connesso con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira
sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che
più o meno gira la ruota; e l'intuizione e l'osservazione dicono che la
rotazione del segmento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra
parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai
pitagorici; giacché, secondo Eudemo, il problema, un poco più arduo, di
costruire un angolo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato
dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di
Euclide; ed Oinopide è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato parte
dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre
osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del
movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa
essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto
che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito
nessun pregiudizio. Il movimento, ed in particolare il movimento di rotazione,
si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e
perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche
nella geometria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento
è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua
grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non
si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai potuto procurarsi
l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un
pitagorico e gli basta che la definizione delle parallele ed il relativo po-
stulato gli dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. Il
postulato pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con
l'ordinario postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione
ci dice che quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O di un certo
angolo α, tutti i punti di una retta qualunque AB del piano ruotano intorno ad
O, in modo che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in
OA', OB' tali che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro
punto C della AB va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B'
come C è disposto rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota
dunque di α. Il postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre
tutta la retta AB, con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa
l'angolo α. Nel caso di un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si
ottiene con la semplice rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una
retta qua- lunque AB la sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale
intorno ad un punto esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto
di intersezione (se esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna traslazione.
Il postulato afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto
della AB ruota di α, non era naturale affermare che l'insieme di tali punti,
ossia la AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente
che se la ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si
portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 .
Perciò la proprietà si estende subito al caso dell'angolo concavo e dell'angolo
giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro di rotazione
la perpendicolare OH alla AB, il raggio vettore OH si porta sul prolungamento
OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il postulato
pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con essa un angolo
piatto. Ma siccome è noto che due rette perpendicolari in punti diversi H, H'
ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere che in questo
caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si incontrano.
Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse debbano
incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche enunciare sotto
forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso in un certo senso
intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta qualunque del piano con
la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano compie due rotazioni
consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima in r1 e poi in r2
allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 . Ma ci sembra che la forma che abbiamo prescelto
aderisca in modo più immediato alla osservazione ed abbia quindi maggiore
probabilità di coincidere con la verità primordiale ammessa dai pitagorici. Con
l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso del triangolo
equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò presuppone che
esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un triangolo
equilatero di lato assegnato. La considerazione del triangolo equilatero doveva
comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la corrispondenza che
essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la retta (individuata
e limitata da due punti), il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo
spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche
in Euclide la prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il
triangolo equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa
Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una
circonferenza ha il centro su di un'altra circonferenza ed un punto interno ad
essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro
caso par- ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to
congiungente due punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da
essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta conoscere il 1o e 2o
criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo
isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della
ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un
triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo equilatero
(fig. 5), e quindi equiangolo. 34 La bisettrice dell'angolo ̂CAB
incontra il lato opposto in un punto D interno ad esso, e poiché i due punti A
e D si trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si
tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono
eguali perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I
triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e
^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli
OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA
sono eguali. Facendo ruotare la figura attorno ad O dell'angolo ^COB,
ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse formato,
cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB. Proseguendo
nella rotazione, con due altre rotazioni eguali, la figura si sovrappone a se
stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre angoli esterni
del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro retti. D'altra
parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo esterno; perciò
la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia
a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d. d. 35 5. La
verità del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai
pitagorici è dunque una conseguenza immediata del postulato pitagorico della
rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in questo caso particolare, era
naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era
naturale che pri- ma del caso generale essi studiassero l'altro caso parti-
colare del triangolo isoscele. In questo secondo caso la dimostrazione non è
così immediata; occorre premettere parecchie altre proposi- zioni tutte
dimostrabili con una certa facilità e senza bi- sogno del postulato di Euclide,
come del resto si trovano in Euclide stesso e nei testi moderni. Ad essi
rimandia- mo per le dimostrazioni e ci limitiamo a ricordare queste proprietà,
che sono del resto comprese tra quelle indicate innanzi: La bisettrice dell'angolo
al vertice di tal triangolo isoscele è anche mediana ed altezza. Esistenza,
unicità e determinazione del punto medio di un segmento. Teorema dell'angolo
esterno di un triangolo. La somma di due angoli interni di un triangolo è
sempre minore di due retti. Se un angolo di un triangolo è maggiore od eguale
ad un retto gli altri due sono acuti. Se in un triangolo un lato a è
corrispondentemente maggiore eguale o minore di un secondo lato b, l'angolo ̂A
opposto ad a è corrispondentemente 36 maggiore, eguale o minore
dell'angolo B̂ opposto a b; e viceversa. Se un triangolo ha un angolo ottuso o
retto, il lato opposto ad esso è il maggiore. In un triangolo un lato è minore
della somma degli altri due.
Definizione, esistenza, unicità della perpendicolare ad una retta per un
punto. Teoremi inversi sopra la mediana e l'altezza del triangolo isoscele.
Teoremi sull'asse di un segmento e sulle bisettrici degli angoli formati da due
rette concorrenti. Premesso questo dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli
interni di un triangolo isoscele è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo
isoscele e sia AB = AC e quindi ^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed
altezza del triangolo isoscele. Si dimostra come nê l caso precedente che la
bisettrice dell'angolo alla base ABC incontra la AH in un punto O interno, e
congiunto O con C dall'eguaglianza (1o criterio) dei triangoli BAO, CAO segue
che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra
parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà BH < AB = AC; e presi allora sui
lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano interni rispettivamente ad AB ed AC.
Congiunto O con K e con L, i triangoli OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per
il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL, e le AB, AC rispettivamente perpendi-
colari ad OK ed OL. Facciamo adesso ruotare la figura intorno ad O, in modo che
OH ruota in OK, la BC per- pendicolare ad OH si porta sulla retta BA
perpendicolare alla OK in K, e per il postulato della rotazione l'ango- lo
esterno ̂VBA del triangolo dato risulta eguale all'angolo di rotazione ^HOK.
Continuandolarotazionenel- lo stesso verso OK va su OL, la AB perpendicolare ad
OK va su CA perpendicolare ad OL e l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL.
Proseguendo la rotazione e portando OL sopra OH la figura ritorna, dopo un giro
completo, sopra se stessa, ed ^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è
eguale all'intera ro- tazione di quattro retti; ed anche questa volta, essendo
i tre angoli del triangolo dato rispettivamente supplemen- tari degli angoli
esterni adiacenti, la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli
angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti, ossia a due retti c. d.
d. 6. Passiamo al caso generale. Occorre solo premettere i seguenti teoremi,
che si di- mostrano agevolmente per assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad
enunciare. In un triangolo acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai
lati. b) In un triangolo ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza
relativa al lato maggiore è interno al lato. Basta questo per dimostrare che:
TEOREMA. In un triangolo qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due
retti. Sia A il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo
qualunque ABC. Abbassata l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo
^BAC è diviso in due parti dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH
e congiungiamo A con B e con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali
per il lo criterio, quindi BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H.
39 Per il teorema precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA',
CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA '+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del
triangolo isoscele BAA', si ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un
retto, ^ABH+^BAA '=un retto . ^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti,
^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così dimostrato in generale. 7. La
dimostrazione si è presentata immediata nel pri- mo caso menzionato da
Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due casi da essi
menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del primo caso è,
da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso include il
primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente in modo da
includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale occorre
solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli
rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali.
Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40 Se BA = B'A' il teorema
è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il
triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi
C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può
condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre
premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote-
nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due
triangoli, ^A=^A '=90°, BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo
rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele
41 B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB.
Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema
fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso
del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC, ^ABC . Si
dimostra al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo
ABC. Gli angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel
triangolo OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in
tutti i casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno
ad AB. Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti,
dimodoché anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di
vertice O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O
sopra AC e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I
triangoli rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto
eguale; perciò sono eguali, ed 42 OK=OH. Analogamente sono eguali i
triangoli OAH, OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC
hanno l'ipotenusa in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è
bisettrice di ^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di
un triangolo qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale
che, abbassando da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono
interni ai tre lati, e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la
figura attorno ad O, portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC
andrà successivamente sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC
per il postulato pitago- rico della rotazione risulteranno rispettivamente
eguali ai tre angoli ^KOH, ^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e
quella degli angoli interni sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende
dunque superflue le due precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del
triangolo isoscele include quella del triangolo equilatero. Se ne deve
concludere che non è questa la dimostrazione in tre tappe degli antichi
pitagorici, menzionata da Eutocio e Gemino? Concludere in questo senso
equivarrebbe ad attribuire agli antichi la tendenza e l'abitudine moderna alla
gene- ralizzazione, ossia significherebbe giudicare alla stregua della nostra
mentalità. Per obbedire alle nostre norme avrebbero dovuto rinunziare a
dimostrare subito il teorema nel primo e semplice caso ed attendere (e perché
mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso.
Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il teorema; ed è probabile che
la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo equilatero; soltanto dopo ed
in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore- ma valesse in generale, e solo
dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a dimostrarlo negli altri due
casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire non soltanto all'ordi- ne
dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine cronologico, storico
delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a dedurre ed in modo ab-
bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con- vinti che le nostre
dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi quasi riteniamo che
anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione dal secondo caso, ma
preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre ancora al postulato della
rotazione. Si tenga presente ad ogni modo quanto scriveva il Tannery35: «credo
inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere trovato i primi geometri
ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici», citando ad esempio proprio il
caso del teorema dei due retti. Comunque siamo giunti a questo risultato:
Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un
triangolo senza fare uso del postulato e del concetto delle rette parallele. È
un risultato di una TANNERY, La Géom. gr. certa importanza se il postulato
pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9.
Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al
postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato
pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa,
ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne
deduce il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed
S il punto d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r.
Prendiamo sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno
B da parte opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che
porta r in r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA
'=̂BOB ' l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi
B^=^B'. I triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ', ^OTB'=^STB; e,
se ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante,
il terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo
rr ' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il
postulato pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza
della somma degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati.
Ammettendo quindi la costanza della somma degli angoli di un triangolo si
potrebbe dedurne il nostro postulato della rotazione, ed applicandolo al caso
del trian- golo equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è
ammessa la costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è
noto, la nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti
in sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che,
se si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri
equivale ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente
che se oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche
quello di Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette
altro, esso non equivale al postula- to di Euclide. Infatti Dehn dimostra che
l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordinaria geometria
elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non archimedea,
dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano infinite non
secanti rispetto ad una retta data. Math. Ann., B. 53, Die Legendre'schen Sätze
über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. BONOLA, Sulla teo- ria delle parallele e
sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti le Matematiche
elementari. Dehn chiama questa geometria: geometria semi-euclidea. Lo
stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la
proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si
può: ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato
quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea.
negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di Archimede;
e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn. ignorare completamente i due
postulati d’Euclide e d’Archimede e le questioni relative, e sviluppare una
geometria più generale, indipendente dalla loro accettazione o negazione (e
valevole quindi nei due casi), come conseguenza del teorema dei due retti
oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano quasi certamente il
postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo- strazione del teorema
dei due retti con un procedimento indipendente dalla teoria delle parallele.
Non introducendo il postulato di Archimede noi veniamo a trovarci esattamente
nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso del
concetto di pa- La proposizione 1a del libro X di Euclide equivale all'assio-
ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che, prima ancora,
Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed Loria ritiene che l'origine di
questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr. LORIA, Le
scienze esatte nell'antica Grecia). Comunque gli antichi pitagorici dovevano
ignorare il postulato di Archimede. rallela, deve essere possibile adesso, dal
teorema dei due retti, sempre senza ricorrere al postulato di Euclide ed a
quello di Archimede, dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da
Proclo ai pitagorici. Se questo ac- cade questa geometria più generale
concorderà o coinci- derà con la geometria della Scuola Italica. 10. Prima di
proseguire vogliamo però esporre una via più rapida per dedurre dal postulato
pitagorico della rotazione il teorema dei due retti. Dal vertice A
dell'angolo retto (fig. 11) di un triango- lo rettangolo qualunque OAS
conduciamo la perpendi- colare AH all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo
HA'=AH. Sappiamo che H è interno ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli
rettangoli OHA', SHA' ri- sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e
quindi OA=OA', SA=SA', ^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H =
^SAH+^OAH=unretto. Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la
AS va sopra la perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il
po- stulato della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono
quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S +
^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA',
OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della
precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la
somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si
passa a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo
la bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'altezza; ed essendo oramai
complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma
degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decomposto il
triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele
si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le
tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori
della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora
indicato. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per
dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non
ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come
sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il
teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria
pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza,
comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via
tenuta per ottenere il teorema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però
indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella
medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria
pitagorica, come sviluppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo
la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da Proclo
ai pitagorici, La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio posteriore
anche a Proclo, è attendibile. Dice LORIA (Le scienze esatte) che Eutocio, di
mediocrissimo ingegno, è però assai diligente, accurato e coscienzioso. È difficile
d'altra parte inventare una notizia così precisa e circostanziata. omettendo
spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle a tutti note. E per prima
cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta immediatamente la
costruzione e la consi- derazione del quadrato e del rettangolo e la
dimostrazione del teorema di Pitagora. E notiamo come dal teorema dei due retti
discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze: Gli angoli acuti di
un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello rettangolo isoscele
sono eguali a mezzo retto. L'angolo del triangolo equilatero è eguale ad un
terzo di due retti. L'angolo esterno di un triangolo qualunque è egua- le alla
somma dei due interni non adiacenti. Passando ai quadrilateri, osserviamo
subito che Euclide ne distingue, nelle sue definizioni, cinque: il qua- drato,
il rettangolo, il rombo, il romboide, e tutti gli al- tri. Essi sono definiti e
distinti da Euclide in base alla eguaglianza dei lati e degli angoli, e la
definizione di rette parallele viene subito dopo; mentre invece nel testo la
costruzione del quadrato si basa sulle parallele e com- pare alla fine del
primo libro. Definito il quadrato come un quadrilatero con tutti i lati eguali
e tutti gli angoli retti, la costruzione di un quadrato di lato assegnato AB, e
quindi la sua esistenza, discendono invece dal teorema dei due retti e da esso
soltanto. Condotto AC eguale e perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del
triangolo rettangolo iso- scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B
la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB
= AC; la BC divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da
parti opposte rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il
termine: semiretta per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e
semirette prolungate all'infinito non puo, ci sembra, essere condiviso dai
pitagorici. Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si
riferiscono alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il
postulato se- condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si
può prolungare κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla
parte di C rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso
convenientemente prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La
definizione 23a di Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette
infinite. Si tratta dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito
dell'antica geometria e che male si adatta alle altre definizioni dell'elenco
stesso che precede il testo di Euclide. golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC
risultano eguali per il 1o criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il
quadrilatero ABCD ha dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è
dunque, per definizio- ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian-
goli rettangoli isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le
due diagonali si tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3.
Definizione, esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la
seguente definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti.
Sia ABD (fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an-
golo retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D
rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte
rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo
retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o
criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53 ^CDB=^ABD; e ̂
siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di
^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è
dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non
si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si
dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano
per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i
vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché
altrimenti la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli
rettangoli ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti.
Sia dun- ^ADC, ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli
rettangoli ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti
all'ipotenusa, la BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del
rettangolo, e lascia A e C da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di
^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli
ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di
lati eguali ad AB ed AD, si prendono a partire dal vertice A di un angolo retto
so- pra i due lati i segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB,
e su di essa dalla parte di D si prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il
ret- tangolo richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti proprietà
del triangolo rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici
l'effettiva esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la
costruzione, e ne dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la
proprietà relativa ai poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice
comune, biso- gnerebbe passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque;
ma, siccome per dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di
altro, passiamo senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale.
TEOREMA DI PITAGORA. In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato
costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i
cateti. Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna
equivalente, anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide
nella sua) della «nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della
no- zione di eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza
(Duhamel) o di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo
rettangolo isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione: pre-
PLATONE, Menone. Una traduzione corretta e completa del passo di Platone
trovasi nelle Scienze esatte nell'antica Grecia di LORIA. Platone conosceva la
validità so un quadrato ABCD e riunitine altri tre eguali congruenti in un
vertice come è indicato in figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato.
Dividendo poi ciascuno di quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene
un quadrato che è doppio del quadrato dato, perché composto di quattro
triangoli eguali ad ABC, mentre il quadrato dato lo è di due. Passando al caso
generale, tra le settanta ed oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici
sono: 1o quella suggerita dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni,
ma di cui si sa che è antica; 2o quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel
901 d.C.) e di cui ci ha serbato memoria Anarizio; 3o quella di Baskara
posteriore a Tabit. La prima, sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia
per la sua del teorema nel caso del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa
doppia del cateto minore; risulta dal Timeo. Cfr. G. LORIA, Storia delle
Matematiche.Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.grande semplicità, può
darsi benissimo, e noi ne siamo convinti, che sia quella di Pitagora. Vediamo
come questa dimostrazione si possa fare senza il postulato delle parallele.
Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC sia  l'angolo retto ed AC il
cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC prendiamo CD = AB e sul
prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE = AD. Per C e per D
conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette perpendicolari alla
AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con P e con B. I due
quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione rispettivamente un rettangolo
ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è eguale al doppio del triangolo
rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un segmento eguale al cateto AB del
triangolo dato. Essi sono separati e situati da parti opposte del lato comune
CK, perché le tre semirette AB, CK, DP perpendicolari ad una stessa retta AD
non si incontrano due a due, e siccome C è compreso tra A e D, la DP e la AB
stanno da parti opposte della CK. Essendo poi retti gli angoli di vertice K del
rettangolo e del quadrato la loro somma è un angolo piatto, e quindi i punti P,
K, B risultano alli- neati sopra una perpendicolare comune alle rette DP, CK,
AB. Sui prolungamenti delle DP e CK dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti
PF = KM = BE = AC, e congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta
un rettangolo per costruzione ed anche esso è il doppio del triangolo dato ABC;
KMBE risulta un qua- drato che ha per lato un segmento eguale al cateto AC del
triangolo dato; ed anche i tre punti F, M, E risultano allineati sopra una
perpendicolare comune alle tre rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il
quadrilatero AEFD ha tutti gli angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un
quadrato. La terna delle tre rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD,
BP, EF sono tra loro perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B
e P, CM e BP dividono il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale
alla loro somma. Il quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato
costruito sul cateto AB, del quadrato costruito sul cateto AC, e di quattro
triangoli rettangoli eguali al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG
= FH = AC e congiungiamo C con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli
ABC, DCG, FGH, EHB risultano eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero
CGHB ha 58 tutti i lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH
stanno da una stessa parte rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e
complementari (perché ^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do
dall'angolo piatto i due angoli ^DGC, ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si
dimostrano retti gli altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il
quadra- to costruito sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è
acuto e ̂DCM retto, il trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti
op- poste rispetto a CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè
il triangolo CDG ed il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il
po- ligono precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il
poligono CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il
triangolo HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel
triangolo ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal
quadrato ADFE togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma
togliendo dal quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro
triangoli eguali al dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti
AB ed AC, e siccome la seconda nozione euclidea (che si trova però già in
Aristotele) dice che togliendo da cose eguali cose eguali si ottengono cose
eguali. Così il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei
quadrati costruiti sui cateti. Ammettendo il postulato pitagorico della
rotazione ed ignorando i due postulati d’Euclide e d’Archimede, abbiamo così
ottenuto subito i due teoremi fondamentali della geometria: il teorema dei due
retti, e da questo il teorema di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto
nella ordinaria geometria euclidea ed archimedea quanto nella geometria più
generale che ammette il postulato pitagorico della rotazione e prescinde dai
postulati di Euclide e di Archimede. Il teorema di Pitagora si presenta così
come primo teorema nella teoria dell'equivalenza; precisamente come, secondo il
Tannery, avveniva coi pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non
alla fine. La dimostrazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema
dei due retti, noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate.
Si sa che una dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato
esisteva, è antica, ed il suo autore non è noto agli storici moderni della
matematica. Noi non abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal
postulato di Euclide, di cui i pitagorici non si servivano per dimostrare il
teorema dei due retti e che diventa perciò superfluo anche per il teorema di
Pitagora. Tutto sommato, non ci sembra affatto improbabile che questa sia
proprio la dimostrazione che il fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette
venticinque secoli fa. Con essa il teorema è valido nel senso di eguaglianza
per differenza in una geometria che ignora od anche che nega i postulati di
Euclide e di Archimede. La dimostrazione del testo d’Euclide prova la validità
del teorema di Pitagora sempre nel senso di eguaglianza per differenza se ed
anche se si ammette il postulato delle parallele e nulla si dice di quello d’Archimede.
Le dimostrazioni moderne ne provano la validità nel senso di eguaglianza
addittiva (Duhamel), equivalenza od equicomposizione (Severi), se ed anche se
si ammette insieme al postulato d’Euclide anche quello d’Archimede. Dalla
dimostrazione che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e
con la massima sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni
moderne dalle formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2
Quanto al primo basta semplicemente osservare la figura per riconoscere che:
TEOREMA: Il quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è
eguale alla somma del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua-
drato (BEMK) costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati
eguali ai segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema
diventa: il quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è
quadruplo di questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII.
61 am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla figura,
ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP
ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla
differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma
dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo
che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si
ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone
ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b
) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha
per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro
che la squadra dei muratori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto
di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito
sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così
pure il 62 TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il quadrato costruito sopra un
lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri
due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per
brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo
sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e
chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2, e
supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 +
c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma
allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo,
come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im-
mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63 TEOREMA:
Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al
rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH
(fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni
CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no-
tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e
di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte
quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+
c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e
h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64 [β]
h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è
la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso
è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+
2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema:
TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è
uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto
sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide.
Ricordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che
ad Euclide appartiene solo la dimostrazione che si trova nel testo degli
Elementi (Libro). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato
delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due
l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente
il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro
equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la
[β] ossia potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo
è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto
omologo del secondo. Siano i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC =
B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d.
b2=(AC)2 –BC·HC=ab' Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le
conseguenze del teorema di Pitagora ha massima importanza la scoperta delle
grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un triangolo
rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel nostro tema; così pure non ci
occuperemo dei metodi attribuiti a Pitagora per la formazione dei triangoli
rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo studio dei
rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei poligoni in
generale. Dal TANNERY, La Géom. gr., triangolo rettangolo isoscele e dal
triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro
proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si
ottiene il rombo ed il romboide. Rombo, secondo la definizione che si trova in
Euclide, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (perché in tal caso si
chiama “quadrato” [GRICE, IMPLICATURE: A square is a quadrilatero rettangolo].
Sia ABD un triangolo isoscele non rettangolo, e dal vertice B della base BD
conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla BD, formante
con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è acuto, sarà
̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad AB, mentre
C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due triangoli
ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro lati del
qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gl’angoli  e Ĉ sono
eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD biseca gli
angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; quindi anche l'altra
diagonale biseca gli angoli, è perpendicolare alla prima ed il loro punto
d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è un
rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordinati), osserviamo
prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte
rispetto ad AD. Supposto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi
rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD,
CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C
coinciderebbe con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte
opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base
comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto
medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di
B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi
sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici.
Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in
due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del
rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si
tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra
loro, e bisecano gli angoli del rombo. La definizione di romboide data dagl’elementi
d’Euclide è la seguente. Romboide è il quadrilatero che ha i lati e gli angoli
opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco
(ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri
quadrilateri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette
parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo,
la definizione di parallelogrammo; mancanza sensibile anche per il fatto che
sappiamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione d’Euclide.
Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la
23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'elenco dei
postulati, non va troppo d'accordo con le definizioni 2a, 3a e 4a per le quali
la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri
precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in conseguenza la
definizione di parallelogrammo. Si ha l'impressione che l'elenco delle
definizioni a noi giunte insieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico,
e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione
antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il
postulato delle parallele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri
postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una
geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea,
basata sul V postulato; PROCLO, ed. Teubner. Cfr. ALLMAN, Greek Geometry, e si
spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadrato, rettangolo, rombo e
romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il
triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il triangolo
isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo). Anche il
romboide, infatti, si ottiene con questo procedimento. Sia, infatti, ABD un
triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo- sta ad A
rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD, si unisca
C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta dunque
insieme a D dalla stessa parte rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD sono
eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide
l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC. Abbiamo dunque
costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti
eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i
triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; quindi ̂DMA=̂CMB e
perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide
si tagliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in
due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente
eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli angoli
opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si
escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non
convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso
è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere
tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe
stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA
e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A
interno al triangolo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB
minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono
essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da
una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il
quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta
rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il
quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il
quadrilatero ABCD, allora, è diviso dalla diagonale BD in due triangoli eguali
per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati
opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che
se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide.
Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD,
perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il
triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester-
no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero
ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte
opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma
dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo
eguali le coppie di angoli opposti si avrà allora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi
̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teorema dei due
retti questa somma ha per supplemento l'angolo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB.
Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il
secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un
romboide. Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un
quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47.
10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si
possono definire quadrato, rettangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro
pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto
d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre
quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso
ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a
questo punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli
altri ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa
con ogni rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato
si sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della
generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e
dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del
quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al
contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale
verisimilmente e probabilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se
non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec-
cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo
attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di
Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di
scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei
pitagorici. pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso
del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro.
Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque
quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato
si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro
volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste
considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del
romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος
(da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro.
Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute
prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo
di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno
scoliaste alle Argonautiche d’Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che
vien fatto girare battendolo con delle striscie di latta. Archita pitagorico
parla in un suo frammento di questi rombi magici che si fanno girare nei
misteri. Apollonio, Argonautiche. In OMERO (Iliade) sono chiamati anche
στρόμβοι. Anche Proclo (Teubner) dice che sembra che anche il nome sia venuto
al rombo dal movimento. MIELI (si veda) che riporta il testo greco di Archita
traduce ῥόμβοι in tamburi (MIELI – Le scuole jonica, pythagorica) e lo CHAIGNET
traduce: les toupies magi- Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si
trova negli Elementi di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di
parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia
sembra riconnettersi al postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà
dei triangoli che vi si riferiscono. La proprietà riscontrata per il triangolo
equilatero e per il quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed
equiangolo, inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od
una circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i
raggi n segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene
un poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di
eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al
centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e
quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il
postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e
quello interno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo interno va crescendo
e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ... ques. Siamo ora in grado
di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti
attorno ad un vertice che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno
tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'angolo
giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte
di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro
retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono
il cui angolo è un terzo di giro; e non può verificarsi con altri poligoni
regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il
terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teorema dei due
retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è
affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come
Tannery e Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita asserzione di Proclo che
della proprietà dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice fa un
teorema pitagorico. La divisione della
circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della
inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presenta
difficoltà per i pitagorici. Occorre appena osservare che dalla riunione di sei
triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono
regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta.
Più difficile invece si presenta il problema della divisione della
circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono
e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale
interesse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera
circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo
problema, perché altrimenti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il
dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver
fatto, sempre prescindendo dalla teoria delle parallele, della similitudine,
delle proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archimede. Il problema
dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il
teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere,
in un caso particolare, anche senza ammettere il postulato delle parallele. Il
problema si può enunciare così: Costruire un rettangolo di base data ed eguale
ad un rettangolo od un quadrato assegnato; problema che corrisponde alla
determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc
ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra
geometria. Sia, per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b
e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA =
a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti
restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia
in un punto P interno la diagonale AC. Conduciamo infine per P la MN
perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli
ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è
eguale (in estensione) al rettangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il
rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al rettangolo dato
HBCK. Il segmento CN è dunque l'incognito x dell'equazione. Se invece a è
minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più
la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del
lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il
postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel
commento ad Euclide (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi
dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ
τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è
basato sopra l'autorità d’Eudemo. La testimonianza non è questa volta quella
personale di Eudemo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza
corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle
parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del
resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che
ci si presenteranno in seguito. Per risolvere, dopo quello dell'applicazione
semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo
premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio
dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed
in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai
tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A
il verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad
AB la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa
è interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O
interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli
alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio
dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici. Viceversa, se nel
triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA;
^OAB=^OBA,, siccome per il teorema dei due retti la 80 somma di questi
quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le
due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli
eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi
dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può
enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la
differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un
quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data
area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere
l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD il quadrato di lato AB =
b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà
di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF. Per il
teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co-
struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il
rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il
quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF
risolve dunque il problema, ed è EA la 81 x dell'equazione data. Affinché
il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema
dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un
rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il
rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema
equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei
lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed
ammette sempre soluzione. Sia ABCD il quadrato di lato b, e prendiamo dalla
parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo
sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua-
drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA
= EK, ed AF = EF' dei cateti. 82 Se da questo rettangolo si toglie
il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap-
punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA
è la x dell'equazione. PROBLEMA. Determinare la parte aurea di un segmento;
ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte
maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero
segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del
problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b.
Costruiamo il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di
AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo,
quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per
lati DK = DF ed ED. 83 Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC,
ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque
minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente
maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal
rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte comune AGDK si ha che il quadrato
EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed
il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG,
ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel
modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che
AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della
parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte
aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG
un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB ‧
BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS
‧ SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB ‧
BG = AB ‧ BS – AB ‧
SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧ SG = AB ‧
BS – AB ‧ SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧
SG + AB ‧ SG = AB ‧
BS 84 dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS ‧
SG + AB ‧ SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0
Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0,
ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te
l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea
del lato. Un triangolo isoscele VAB che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e
quindi quelli alla base di 72°, è diviso dalla bisettrice di uno degli angoli
alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB
risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre
equiangoli tra loro. Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H
l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli
rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è
l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si
ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett.
(VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la
parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un triangolo
isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al vertice
eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e la base
A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con VA = VB
= V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il teorema
precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della parte
aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50 LORIA (Scienze esatte) attribuisce a Pitagora
la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello
della base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare
che la base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli
VAB, ABC (fig. 24), e sembra che in- Per costruire un triangolo isoscele con
l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo
eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta
prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo
com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo
al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un
decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali,
il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo
dunque in grado di risolvere il PROBLEMA. Dividere una circonferenza in dieci
parti eguali. Uniamo il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio
perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA
eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la
circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza
di centro O e raggio OA. Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente
(come Euclide ha fatto ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della
continuità in un caso particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il
centro A sopra una circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda significare
che tale via fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato
parte, invece, dal teorema di Pitagora, ed utilizza soltanto conseguenze di
questo teorema, in particolare il corollario ed i problemi dell'applicazione
che sappiamo erano stati risolti dai pitagorici. esterno ed uno interno a tale
circonferenza le due circonferenze si tagliano. Questa proprietà talmente
assiomatica che Euclide non ha sentito il bisogno di postularla, per i
pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità primordiale. Gli
archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo centro
successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano gli
altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un numero
pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare inscritto;
riunendo il primo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si ottiene il
pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come partendo dal teorema di
Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici erano in grado
di dividere la circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di inscrivere in
essa il decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato o pentalfa (o
pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le cinque diagonali
del pentagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico, la
scoperta della divisione della circonferenza in 10 e 5 parti eguali e la
costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del pentalfa, vanno
attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu
prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura geometrica.
Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre scienze e la
cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra loro il rag-
gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono regolari
inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa, sono
tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato l'ammirazione
dei pitagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti- ficare la
scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di riconoscimento tra gli
appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una parte. Congiungendo
successivamente i punti di divisione A, B, C,... della circonferenza in 10
parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il
lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. Congiungendo A con C, C con E
ecc., si ha il pentagono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5;
congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decagono stellato ADGLCFIBEH
oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10;
congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure ANCN1EN2GN3IN4
di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si ottiene il diametro,
e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo ecc. dell'arco AB si
riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già ottenuti. I poligoni
regolari e stellati inscritti nella circonferenza, e che si ottengono mediante
la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e solo quat- tro. Il
pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A dell'alfabeto greco)
come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura. Il nome è adoperato da
Kircher nella sua Aritmetica. Siamo però convinti che questa è la denominazione
originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la denominazione origina- le
del decagono stellato. Abbiamo già veduto che riportando 10 volte
successivamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce la circonferenza,
come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E come gli elementi
della geometria: il punto, la linea (retta o segmento determinato da due
punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre punti), il volume
(tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed esauriscono lo spazio
(tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi quattro numeri interi
dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che dall'unità attraverso la
sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto, naturalmente, succede nella
nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo doppio BD, con il triplo DG e
con il quadruplo GA dà per somma la intera circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA,
Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66. 91 Il quadrilatero ABDG
che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso
dalla diago- nale BG in due triangoli rettangoli, e quindi si ha: l2+s2=4r2 10 5 l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali
l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il raggio della circonferenza ed i
lati dei quattro poligoni, che si enuncia con il TEOREMA: La somma dei quadrati
costruiti sopra il lato del decagono regolare, del pentagono regolare, del pentalfa
e decalfa inscritti in una circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato
costruito sul raggio. Si riconosce facilmente che il diametro AOF è
perpendicolare al lato EG del pentagono ed al lato CI del pentalfa, ed essendo
l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA isoscele l'angolo ̂EAF risulta di
18° e quindi ̂EAG di 36°. Ne segue il TEOREMA: La somma dei cinque angoli del
pental- fa è eguale a due retti, che si dimostra facilmente vero per qualunque
pentagono intrecciato. I triangoli isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al
vertice di 36° hanno la base parte aurea del lato. Dunque il lato del pentagono
regolare inscritto è la parte aurea del lato del pentalfa; ed NN è parte aurea
di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene di 36°; simil- mente si riconosce che
̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la perpendicolare per A al diametro AF e
le congiungenti A cogli altri punti di divisione in 10 parti eguali della
circonferenza dividono l'angolo piatto attorno ad A in 10 parti eguali; ed
analogamente per gli altri vertici. Se ne trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il
triangolo ECN avendo i due angoli alla base CN eguali e di 72° è isoscele;
perciò EN è eguale al lato l5 del pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo,
le dia- gonali del pentagono regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in
parti corrispondenti eguali, di cui la mag- giore è eguale al lato del
pentagono. Nel lato AE del pentalfa, NE = EG = l5 è la parte aurea di AE,
quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente
NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare. Notiamo infine che l'apotema del pentagono
regolare è la metà del lato del decalfa, come si ottiene dal trian- golo
rettangolo ACF. Altre proprietà avremo occasione di riconoscerle in seguito.
Dobbiamo ora stabilire un'altra importante relazio- ne che si presenta nella
costruzione dell'icosaedro, e che i pitagorici debbono quindi aver conosciuto.
Ammettendo che ogni retta passante per un punto in- terno ad una circonferenza
è una secante, si dimostra che la perpendicolare al raggio nel suo estremo è la
tangente in quel punto alla circonferenza. E siccome sappiamo che il luogo
geometrico dei vertici dei triangoli rettangoli di data ipotenusa è la
circonferenza che ha per diametro l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre
le tangenti ad una circonferenza da un punto assegnato. Conduciamo allora da un
punto P esterno ad una circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una
secante qualunque PCD. La mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare
alla base CD, ed il rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM
è eguale come sappia- mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC.
Si ha: PC · PD = (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 –
[(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora
nella figura sulla AB a partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli
OAC, ASO, avendo il lato eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e
quindi OS = AC = l3; e siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera
quello alla base, la base 94 OS è maggiore del lato OA ed il punto
S è esterno alla circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il
teorema ora dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono
regolare, esso è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB =
l10 Dal triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la
relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del
pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per
cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura
26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai
triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC
= l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la
parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si
ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95 Da questa relazione e dalle
altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per
brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6]
s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e
perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l
quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l
=3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo
adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r;
l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF =
l10 si ha AD=AF=s10; CD=s5. Preso AM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si
trova (cfr. LORIA, Scienze esatte) nel libro di Euclide (che è di Ipsicle), e
così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima
di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero
è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. sulla
perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL
risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo
compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha
per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha
per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti
sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re
inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte aurea
dell'altezza e l'altezza è parte aurea della proiezione del cateto
maggiore. Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei
quadrati costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato
costruito sopra l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a
quei poligoni regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per
metà dalle diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del
rettangolo di lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha
quindi una terza relazione tra quei cinque elementi: l5·s5=r(s10+l10) indicando
con a5 l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo
alle precedenti anche le relazioni:
2a5=s10=r+l10 2a10=s5 Vedremo in
seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del
dodecaedro regolare. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si
disegna, con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei vertici le
lettere componenti la parola ὑγίεια, latino salus, da intendere nel duplice
senso che ha la parola salute in Dante e nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso
di quella salvezza o sopravvivenza privilegiata indicata alla fine dei Versi
d'oro. Questo antico simbolo pitagorico riappare qua e là nella tradizione
esoterica occidentale, designato di solito come la figura di Pitagora. Talora
al centro si trova scritta la lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem-
pio nella flaming Star di un noto Ordine Occidentale avente per scopo il
perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera, la teleté dei misteri. Ma non è
ora il caso di fare la storia della sua trasmissione sino a divenire il
fatidico stellone d'ITALIA. Diremo soltanto, che il pentalfa ed IL FASCIO
LITTORIO (tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti simboli
spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien
dall'Oriente. Per vedere in quale modo Pitagora pervenne alla costruzione dei
poliedri regolari ed alla loro inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo
spazio quel che ab- biamo fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la
geometria pitagorica dello spazio senza introdurre i con- cetti di rette
parallele, di rette e piani paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si
possa egualmente pervenire ai risultati che Eudemo attraverso Proclo ci
tramanda come conseguiti da Pitagora. Ma per non allungare troppo questo nostro
studio ci limiteremo ad indicare per sommi capi la via da tenere, o una delle
vie da seguire, tralasciando in generale le dimostrazioni che ognuno può
trovare da sé. Perciò, ammettendo che un piano divida lo spazio in due
semispazii, ammettiamo anche il postulato del semi- spazio: Il segmento
congiungente due punti situati da parti opposte rispetto ad un piano è tagliato
in un suo punto dal piano. Può darsi che anche questo caso parti- colare del
postulato di continuità fosse ammesso tacita- mente come una verità
primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: Una retta non giacente in
un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da esso in due semi-
rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. Se due piani hanno un
punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per quel punto; uno
qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in due semipiani
situati da parti opposte rispetto all'altro. Se per un punto H di una retta m
si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b, ogni altra
retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni
perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab dicesi per-
pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al piano ab in H.
d) Per un punto A appartenente o no ad una retta passa un piano ed uno solo
perpendicolare ad essa. Teorema delle tre normali: Se una retta m è perpen-
dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a perpendicolare
ad una retta r di α (passante o no per il piede H), la terza retta r è perpen-
dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si intersecano dividono
lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le definizioni di die- dro
convesso, piatto e concavo. Sia β un
piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede. Conduciamo per a un
piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in β la bb'
perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è perpendicolare
al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano retti. Facendo
ruotare il piano ab intorno ad H su se stesso esso rimane perpendicolare alla r
e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il semipiano β vasul semipiano
α ed α su β'.I due diedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono, sono quindi eguali; il
semipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è
interno all'uno od al- l'altro dei diedri α̂βe^αβ'; quindi per una retta r del
piano β si può condurre uno ed un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β
r β ' . Il piano α dicesi perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi
sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la
perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il
piano a'c è perpendicolare alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano
β va in α ed α in β', la semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a
=̂a ' c ' = un retto, e quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la
sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta
perpendicolare ad un piano per un punto. Sia H un punto di un piano β, e si
conduca per H in β una retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto
dato fosse P esterno al piano β, condotta in β una retta b qualunque e per P il
piano α perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo
una retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema
delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra
subito la unicità. I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano
sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H
condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre
normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H
si di- mostra per assurdo. k) Se i piani α e β sono tra loro perpendicolari,
la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è perpendicolare a
β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano, se due piani α e
β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la perpendicolare a β
essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque. Per due punti A e B
(fig. 31) della costola r di un diedro α̂β
conduciamonellafacciaαleperpendicolari a, a' alla r, e nella faccia β le
perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli
angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi infatti su α AC = BD e su β AE = BF i
qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli e quindi CD = AB = EF. La r è
perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il piano α è perpendicolare ai piani
ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla interse- zione a dei due piani α ed
ab risulta perpendicolare al piano ab e perciò anche alla CE; analogamente
risulta perpendicolare alla DF; ed analogamente la EF risulta perpendicolare
alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è
perpendicolare al piano ACE, e la EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE,
giace nel piano CDE; perciò il quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano
cogli angoli retti, ossia è un rettangolo. I triangoli ACE e BDF risultano
quindi eguali per il terzo criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104 sono
eguali. Le sezioni normali di un diedro qua- lunque sono dunque eguali. Se due
piani α e β sono perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è
perpendicolare a γ. Due piani perpendicolari ad una retta non si incontrano.
Definizione di piano assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo
geometrico dei pun- ti equidistanti dagli estremi del segmento. Distanza di un
punto da un piano; e luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza
assegnata da un punto esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto
in una circonferenza, un punto qualunque della per- pendicolare al piano del
poligono condotta per il centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano
bisettore di un diedro e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore
del diedro α̂ β si conduca il piano δ perpendicolare allo spigolo r. I
tre piani α, β, γ sono perpendicolari a δ; condotte da P le perpendicolari PH e
PK ad α e β esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r
e di δ con H, P, K, i triangoli rettangoli PHM, PKM sono eguali per avere
l'ipotenusa PM in comune e gli angoli ^HMP, ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β
efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli
si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β è equidistante
da α ed a β,esso appartiene al Si dimostra nel solito modo, e si estende
all'angoloide. TEOREMA. La somma delle facce di un triedro è minore di quattro
retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango- loide convesso.
Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce eguali, ed eguali i
diedri for- mati da due facce consecutive. Definizione di poliedro. Il poliedro
si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni regolari eguali e gli
angoloidi sono regolari eguali. Possono esistere al massimo cinque poliedri
rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con cinpiano γ bisettore del
diedro αβ. Definizione di triedro e di
angoloide convesso. TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma
delle altre due. que facce congruenti in un vertice eguali a dei
triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con
tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra
nel solito modo. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità
dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro effettiva
costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si può
riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica indipendentemente
dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è poi facilissimo
rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due circonferenze
circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di quello della
seconda. Per il centro H di un triangolo equilatero ABC si condurrà la
perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si determina nel
piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si
unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC
ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli angoloidi sono dei
triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di
spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che
ha per lato l'altezza della faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso
per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB.
107 Chiamando l4 lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK
)2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro
della sfera circoscritta sta sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da
A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame-
trale, il triangolo ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è
equidistante dai vertici, AH è l'altezza di questo triangolo rettangolo e
quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e
OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera
di raggio r. 108 Preso OD = r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH
l'altezza. Si conduce una circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la
perpendicolare al diametro; la sua intersezione con la circonferenza sia il
vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano passante per HB e
perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la circonferenza di raggio
HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il
tetrae- dro regolare inscritto. Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare.
Sia ABCD un quadrato. Conduciamo per i vertici le perpendicolari al piano del
quadrato ABCD da una stessa parte del piano, e prendiamo su esse i seg- menti
AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I piani EAB, EAD risultano perpendicolari al
piano α del quadrato ABCD; e le perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono
rispettivamente nei piani EAB, EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali
al dato. Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC
perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è
perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al
piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH
perpendicolare all'intersezione CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF,
e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare al
piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE
sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi
appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano
coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce
dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni
vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è
costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è
perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un
quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due
diagonali del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF
e CD risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la
diagonale FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto
medio; lo stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano
in un medesimo punto O 110 che le biseca, quindi O è equidistante da tutti
i vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi
(EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM
perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà
dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si
riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra il lato del triangolo
equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è triplo del quadrato del
raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3 e si ha quindi il TEOREMA.
L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R è 13 del lato del
triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo
del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema
della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato, occorre sapere divi-
dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par- ti eguali. Il
problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è sempre risolubile
grazie al seguente LEMMA. Se l'ipotenusa di un triangolo rettangolo è divisa in
n parti eguali e per i punti di divisione si conducono le perpendicolari ad uno
dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia ABC un triangolo
rettangolo, e sia l'ipotenusa BC divisa in n (5) parti eguali; per i punti di
divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai cateti AC e AB. Si
riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei rettangoli e che
essendo EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli rettangoli EDP, DBM sono
eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK = KI = HI =
HC. Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento dato, se
ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti eguali, le
congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano perpendicolari
al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre, indipendentemente
dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema di dividere un
segmento in un numero assegnato di parti eguali. Frattanto per il caso di n = 5
il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo quintuplo sia
maggiore del segmento dato (per esempio
riportando cinque volte consecutivamente la quarta parte del segmento
assegnato), si descrive sopra di esso come diametro la circonferenza, e poi con
centro in uno degli estremi del diametro e raggio eguale al segmento assegnato
si descrive un'altra circonferenza; il punto di intersezione delle due
circonferenze è vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il
diame- tro della prima circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del
diametro le perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali.
In modo analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre
parti eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella
sfera di raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir-
conferenza di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un
diametro CE della sfera si conduce un piano, ed in esso si costruisce il
triangolo ret- tangolo di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo
equilatero costruito. Per il punto medio O di CE (centro della sfera) si
conduce la perpendicolare MN al cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N
si conducono i piani perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce
il quadrato che ha EH per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici
dei quattro ver- tici rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. Inscrizione
dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della
sfera il piano perpendicolare al diametro EF, sia ABCD un quadrato inscritto
nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del diametro EF con A, B, C, D si ha
l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli
equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al
vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia
e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro
che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il
tetraedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle
tre facce ivi congruenti è regolare. L'icosaedro regolare. Divisa una
circonferenza di centro V e raggio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in
essa il decagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari
A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le
perpendicolari al piano α della circonferenza, e si prendano su di esse i
segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è
perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano
C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano
C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così
proseguendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso
è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed
al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4
perpendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un
rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3;
analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un
pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo angolo C1 C2 C3 è eguale
all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro,
analogamente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono
regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano
α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano
C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q
sta nel piano del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un
quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della
circonferenza circoscritta al 116 pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale
alla circonferenza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha:
(C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della
circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà
C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente
dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 =
B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo
si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si
ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del
pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede
subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla
VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce
che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due
cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono
C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo
DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del
pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi
il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila-
teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E aventi per lati
opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro
avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3-
C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto
nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così
pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2
si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al
piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra
parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono
perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F
interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per
lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico-
saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F
risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche
OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano
DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3
sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono
DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di
centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della
piramide pentagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimostra che ogni
vertice dell'icosaedro è vertice di una piramide pentagonale regolare eguale.
La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo
punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di
un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la
diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni
diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un
icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si
può dunque procedere nel modo seguente: si determina il segmento C1C4 di cui
C1C2 è la parte aurea. si determina il centro Q della circonferenza
circoscritta al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la
circonferenza di centro Q e raggio QC1. si inscrive in questa circonferenza il
pentagono regolare C1C2C3C4C5. si conduce per il centro Q la perpendicolare al
piano del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si
ha nel punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il
raggio. si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. si
conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. si abbassa dal vertice C1
la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla
circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. si abbassa da C2 la
perpendicolare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla
circonferenza di centro V. si prende il punto medio B1 dell'arco A1A2 e si
inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo
punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. si
unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1
aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare
nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. è rettangolo in C2 per-
ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q =
r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi
C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di
Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha
il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di
base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta.
Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque
parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen-
dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha: (DH)2
= DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120 DH è dunque eguale al raggio r
della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il lato del
decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si toglie da
OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per Q e per V
i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r si
descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu- namente
i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed unendo il
vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque vertici C tra
loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C opportuna- mente ai
vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando con R il raggio della
sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con l5 lo spigolo, con r il
raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di lato l5, con l10 la
parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa inscritti in
questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli spigoli
dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono di lato
l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti
relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E
si ricava: R '=12 s5⋅a10
121 cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'icosaedro è
eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio
r, oppure è eguale all'apotema del decagono inscritto in questa circonferenza.
Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo
rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte
dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R' –12=4s5–12=12(3s5–l5)
e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2 –r2+s2 )= 125 101210 10 = 1
(4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1 (s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12
= 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il quadrato che ha per lato l'apotema
dell'icosae- dro è eguale alla terza parte del rettangolo che ha per lati il
raggio della sfera circoscritta, e questo raggio R au- mentato del raggio r
della circonferenza circoscritta al pentagono. La relazione si può anche
scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53 Dal triangolo ON5D si ha invece: l2
l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 Si può riconoscere infine che il piano diametrale
pas- sante per i vertici D, B2, E sega l'icosaedro secondo un esagono che ha
due lati opposti eguali allo spigolo del- l'icosaedro e gli altri quattro
eguali all'altezza della faccia, e si può dimostrare geometricamente che questo
esagono ha la stessa estensione del rettangolo che ha per lati s10 e R + a5.
Tagliando invece l'icosaedro con un piano diametrale perpendicolare al diametro
DE si ottiene per sezione un decagono regolare che ha il lato eguale alla metà
dello spigolo dell'icosaedro ed è inscritto in una circonferenza di raggio R',
da cui risulta che la metà di l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche
dalla formula: R '= 12 s5 . 7. Costruzione del dodecaedro regolare. e e
quindi e Si ha pure: ossia Si ha inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R
· l 10; s52=2R · s10 123 3a2=3R2 –l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr;
l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2 +(5)=R2 10 2 Consideriamo nella
fig. 36 la piramide pentagonale di vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi
K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della base sono alla loro volta vertici di un
pentagono regolare di centro F che è base di un'altra piramide di vertice C3 e
spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 = C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle
facce late- rali della prima piramide stanno sugli spigoli della se- conda e si
ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1 ̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3
K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo
criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4 = N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1
è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo dell'ipotenusa, la perpendicolare al
cateto C3F condotta da N1 incontra il cateto C3F in un punto L tale che FL è un
terzo di C3F. Lo stesso accade per gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi
N1N2N3N4N5 è un pentagono piano equilatero in- scritto nella circonferenza di
centro L e raggio LN1; os- sia è un pentagono piano che ha per vertici i centri
delle facce dell'icosaedro congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri
delle facce laterali della piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i
vertici di un altro pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente
in comune con esso il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali
della piramide di vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago-
124 no piano regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune
con il primo ed uno in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è
comune ai tre pentagoni. Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici
vertici dell'icosaedro si ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni
regolari eguali a N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il
vertice C3 ed il centro L della base sono equidistanti dai vertici della base
N1N2N3N4N5 e quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro
è equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il
dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso
allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce
̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione
normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che
ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che
unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei
triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti
L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che
ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele
che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4
dell'icosaedro. Tali elementi restano dunque gli stessi se si prende la sezione
normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125 diedri son
tutti eguali, e possiamo concludere che il dodecaedro costruito è regolare, è
inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la
costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro
regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro
regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del
dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso
infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e
presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente
opposti, questi otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono tutti
eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa
inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i
vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono
trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di vertice A è
trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un
momento alla figura, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono
regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli
rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali
e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di
base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a partire dal
punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e Q con I.
Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del dodecaedro, e
presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli;
e perciò la P'Q' è perpendi- 127 colare alle Q'A e Q'C ed al loro
piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K.
Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al piano AQ'C ed al
piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare alla
intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C come
pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il
quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo
stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in
un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la
CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono
dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri
di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano
perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di
questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do-
decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la
diagonale del cubo. Dalla fig. risulta che i centri di due facce opposte del
dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O
della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due
facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella
fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O
ed è O1O – O2O l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1,
avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r
della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che
l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP.
Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato
dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2
ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo
equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato
del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne
segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del
triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è
anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi
del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R.
Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA
= R si può procedere così. Si inscrive il triangolo equilatero nella
circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo
spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella
faccia. Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. Si
costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo
triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia
del dodecaedro. Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto
r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. Preso un segmento O1O2 eguale
al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad
esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed
O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è
simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono
quattro vertici del cubo inscritto. Si conducono per A e per P i piani
perpendicolari ad AP. Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che
ha per diagonale AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si
hanno così gli altri quattro vertici del cubo. Nel piano AFG si completa il
pentagono regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e
poi HBCIK ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione
del problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura i
triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA
della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re
inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del
decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della
circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130
perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del
pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella
maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella
maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea
del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e
OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e
quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del
decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella
minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono
inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza
di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per
raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e
sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono
regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella
minore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del dodecaedro,
e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze circoscritte ed r il
loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare alle due facce e
quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due facce; esso coincide
con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6 di questa figura ed è
perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è perpendi- 131
colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della faccia C2C3B2 secondo
la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa quindi per N4 ossia per il
vertice B della figura 37; e siccome questo piano O1AO2 passa an- che per il
vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia inferiore KILUV secondo la
O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1; quindi il pentagono O1AB-
B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta- gono piano O1O2UTT1; ed il
piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono ABB1UTT1. Analogamente è
piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i lati ordinatamente
eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di vertice B1 e D1
eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce facilmente che
anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono rispettivamente
eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni O1ABB1O2,
O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi- colari al
lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD. Così pure ΘN,
ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ è il centro
di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano perpendicolare a O1O2,
nella quale è inscritto il pentagono piano regolare BDNSG. Analogamente
conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra che η è centro di una
circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad O1O2) nella quale è
inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132 Siccome AE spigolo del
dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo che il lato del
pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte aurea del lato del
pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne segue che il raggio
r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è eguale al lato s10 del
de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso ora su BΘ il segmento Θλ,
eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e poiché O1AλΘ è un
rettangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La sua ipotenusa è
l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r. Il rettangolo
O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze di centri O1 e Θ
hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema O2B1 della
faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio del segmento O2μ preso
eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un triangolo rettangolo
di cui l'ipotenusa è eguale ad r+a5, il cateto μB1 è eguale a a5 e quindi. Ma
perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e siccome 10 10 10 10
10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l s si ottiene quindi
ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi anche BμO2Θ è un quadrato;
e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la faccia inferiore KILUV è
eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra O1O2 tale che O2η = O1Θ = r
esso è il centro della circonferenza di raggio s10 passante per CMTRH.
NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i piani dei vertici
BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare inscritto nella faccia
del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del dodecaedro AEPQF e
KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2 r + l 10 = r + s 10
= r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che hanno per cateti r ed
s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5. Siccome poi r è la
parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di O1O2; dunque la
distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa dai piani degli
al- 134 triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla parte aurea di
2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di s10 e la parte
intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono inscritto nella
fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di centri Θ ed η
hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del dodecaedro,
hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio della faccia
e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al lato del
decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è disegnata nel suo
piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita dall'esagono
PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle facce della
figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del dodecaedro.
BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND è il centro
della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta, DH è eguale
ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV, risulta AB eguale
ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK = r; condotta per K
la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che AC = DE = r e BC
= AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL,
KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N sono
allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135 parti, AK eguale ad
l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad s10; preso
allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed OQ il
raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti
medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5
2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il
rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e
quindi si ha: 2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10
10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e
gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di base
AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di base AB
= l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5 ed al-
tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai
triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136 [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a
2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 )
L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10
e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2
s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 =
4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 =
6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel
dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il
vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato
l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono
eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e
quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali
anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli
angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono
eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i
triangoli 137 PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le
due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del
triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da
9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato
l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la
sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si possono
dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che abbiamo
trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il
dodecaedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla
prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici. Dato R si
determina come nell'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è
anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Si
determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo
del dodecaedro. L'altezza del triangolo
rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del
dodecaedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta
alla faccia del dodecaedro. Le proiezioni dei cateti di questo triangolo sono
l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti
nella circonferenza circoscritta alla faccia. Si prende un segmento Θη = l10
lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti
ΘO1 = ηO2 = 138 r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro
della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del
dodecaedro. Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad O1O2;
in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2
eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse
i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B
stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e
che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici
del dodecaedro. Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si
uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il
dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto
alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte
aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è
s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso
precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5,
si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo
assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5
ed l5, la figura fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'.
139 Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli
circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro inscritti
nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può fare così:
nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2 ... prendo
OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici dell'icosaedro inscritto
nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 = L'1L'2 = ... perché basi
di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice eguale; 2o – Il triangolo
equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1 equidistante da essi: questo
centro X è il piede delle altezze di vertici L', L'1, L'2 dei triangoli eguali
ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché
l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è in comune; quin- di XL'1 = L1N1;
ma XL'1 è il raggio della circonferenza circoscritta alla faccia dell'icosaedro,
ed L1N1 è il raggio di quella circoscritta al pentagono del dodecaedro; e
quindi la proprietà è dimostrata geometricamente. LORIA – Le scienze
esatte nell'antica Grecia. IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO. In relazione ai poliedri
regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora soffermarci
alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai pitagorici, ossia la
media aritmetica, la media geometrica e la media armonica. Nicomaco attesta che
Pitagora conosceva le tre proporzioni aritmetica, geometrica ed armonica; e
Giamblico attesta che nella sua scuola si consideravano le tre me- die
aritmetica, geometrica ed armonica. Si ha proporzione aritmetica tra quattro
numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la proporzione è continua se b = c; ed
in tal caso b è il medio aritmetico o la media aritmetica di a e d e si ha:
b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in proporzione aritmetica, la
definizione è la stessa ed il segmento b semisomma dei due segmenti a e d è la
loro media aritmetica. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner; e JAMBLICHI, Nicomachi
Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G. LORIA, Le scienze esatte. Si
ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b, c, d quando a : b = c : d, e
per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è eguale al rettangolo degli
estremi. Con questa definizione non vi è bisogno della teoria del- le parallele
e della similitudine, non si considera il rap- porto di due segmenti e non si
sbatte nella questione della incommensurabilità. Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici
erano in grado di risolvere il problema dell'ap- plicazione semplice, ossia di
costruire il segmento quar- to proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b,
c, nel caso in cui il primo segmento era maggiore di uno alme- no degli altri
due, sempre s'intende senza bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la
proporzione è continua e b è il medio geometrico tra a e d; la media geometrica
di due segmenti è dunque il lato del quadrato eguale al rettangolo degli altri
due; ed abbiamo visto che i pitagorici erano sempre in grado, come applicazione
del teorema di Pitagora, di costruire tale media geometrica. Quanto alla
proporzione armonica e alla media armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b,
c, d sono in propor- zione armonica quando i loro inversi sono in proporzio- ne
aritmetica, ossia quando 1a – 1b = 1c – d1 ; e conseguentemente b è medio
armonico tra a e d quando l'in- verso di b è eguale alla media aritmetica degli
inversi degli altri due. Archita in un suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni
pitagoriche nel caso della proporzione continua 142 di tre termini; le
definizioni antiche coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e
della geome- trica, la definizione della media armonica è invece diversa.
Riportiamo il frammento di Archita, inserendo per chiarezza gli esempi numerici.
La media è aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di
eccedente, vale a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo
è precisa- mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta
proporzione si trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed
il rapporto dei più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in
proporzione aritmetica perché 12 – 9 = 9 – 6. Il rapporto dei termini più
grandi cioè il rapporto di 12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più
piccoli, cioè di 9 e di 6 è eguale 1+ 12, ed 13 è minore di 12 ). Si ha media
geometrica, continua Archita, quando il primo termine sta al secondo come il
secondo sta al ter- zo, ed in questo caso il rapporto dei più grandi è eguale
al rapporto dei più piccoli (esempio: 6 è la media geometrica di 9 e 4 perché 9
: 6 = 6 : 4); il medio subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico
esiste quando [Cfr. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin; fr. 2o.
Il frammento d’ARCHITA DA TARANTO (si veda) è riportato nel testo greco dal
Mieli a pag. 251 dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la philosophie pythagoricienne)
ne dà la traduzione. 143 il primo termine passa il secondo di
una frazione di se stesso, identica alla frazione del terzo di cui il secondo
passa il terzo; in questa proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il
più grande ed il rapporto dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la
media aritmetica di 12 e di 6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il
rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore
di 13 )». Prima di Archita di TARANTO (si veda) (o dei pitagorici?) questa
proporzione è chiamata ὑπεναντία tradotto con subcontraria anche da LORIA (si
veda), perché secondo la definizione che abbiamo riportato, in questo caso
succede il contrario che nel primo. Da questa definizione si può trarre con
operazioni aritmetiche semplici la definizione moderna. Difatti se a, b, c,
formano proporzione armonica, ciò significa secondo Archita di TARANTO che a=b+
1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c)
a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed
Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144 e quindi:
2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+
c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che,
secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pitagora trasporta da Babilonia in
Grecia. In questa importantissima proporzione geometrica gli estremi sono due
numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata- mente la loro media
aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti, dalla penultima
relazione risulta la presumibile definizione geometrica della media armo- nica:
la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente
per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha per
lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la media
geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti a e c
è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due segmenti
a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica, per determinare
geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il pro- blema
dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- La testimonianza è di
Giamblico, cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc. bile sicuramente (anche senza la
teoria delle parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica
tra le tre medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media
armonica tra 12 e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero
il nome di armonica alla media sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono
ri- spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda
del tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze
rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la
nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tanto nella scala
pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo
conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra
le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia).
Ce lo dice, in parte, FILOLAO (si veda) in un suo frammento. Dice Filolao:
L'estensione dell'armonia è una QUARTA più una QUINTA [adoperiamo i termini
moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta
di nove ottavi. Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia
il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo
modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si I termini
di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner. Cfr.
CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; estende mediante l'aggiunta
di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il
tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle
del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio
tetracordo). Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze
od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse
delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le
lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la
metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era
semplicemente la media aritmetica delle lunghezze di queste due corde estreme.
Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sensazione di un
intervallo rispetto al do inferiore eguale Questo tetracordo non è altro che la
lira d’Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il
canto. Osserva TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (Hoepli), che è notevole
che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella
declamazione. Infatti, INTERROGANDO (cf. Grice, ?p – interrogative mode,
indicative mode, imperative mode), la voce sale di UNA QUARTA; rinforzando,
cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta.
Occorre anche tener presente che l'ACCENTO dell'indo-europeo è un accento di
altezza. La vocale tonica è caratterizzata, non da un rinforzo della voce, come
in tedesco ed in inglese, ma d’una ELEVAZIONE. Il TONO greco antico consiste in
una ELEVAZIONE DELLA VOCE, la VOCALE TONICA è una VOCALE PIÙ ACUTA delle vocali
atone. L'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un INTERVALLO D’UNA
QUINTA (MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grecque,
Paris). all'intervallo del do superiore a quello del fa, ha una lunghezza
tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formano una proporzione
geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34,
23, 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima
corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la
lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo
dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la
media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica
a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze
che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della
prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde
estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media armonica delle lunghezze
delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente.
Se invece delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la
quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde
estreme, e la quarta la media armonica. In molti testi di fisica e di
matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che
le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione
armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle
lunghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque Vediamo ora
quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando
gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha
12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze
della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala
naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze
del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala
naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la
media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi;
come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala
pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza
della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde
estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella
dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel greco
parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su cui
cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da
Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non
dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora
inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala
pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del
tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano
le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi=
64, fa= 3, sol= 9 81 4 149 tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è
il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il cubo
armonia geometrica. I numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione
che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa
cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli,
8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della
sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base
pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e
del decalfa in 2, la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3 27
mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi
pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra
il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della
nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di
media armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e
soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano
attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica si
presenta nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo dell'universo.
Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filosofia. Robin, p.e.,
(ROBIN, La pensée grecque, Paris) prende per le quattro corde della lira la
bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai numeri interi
6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la terza alla
quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. Cfr. NICOMACO, ed.
Teubner] essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La media
aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media geometrica è r.
Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M si avrà:
(s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M =
45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due raggi,
abbiamo trovato che la loro media geometrica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica
l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica si ha:
e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2;
s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della circon- 151
ossia la media armonica tra la somma del raggio della ferenza
circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un
rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa
circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema
dell'icosaedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e
della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la
prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce
opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro;
la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai
due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN =
l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti,
ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo
con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene
prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha:
a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è
la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac –
c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi D'altra parte, indicando con M la
media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia sostituendo,
che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c. Possia- mo perciò
enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono segmenti consecutivi di
una successione tale che ogni segmento è seguito dalla sua parte aurea, accade
che il secondo segmento ed il terzo sono rispettivamente la media aritmetica e
la media armonica degli estremi. Esattamente la stessa cosa accade per le
lunghezze della seconda e terza corda del tetracordo rispetto alle lunghezze
delle corde estreme. Considerando allora la quaterna 2a, s10, r, l10 dei
segmenti determinati sopra la congiungente i vertici di due facce opposte del
dodecaedro dai piani delle facce e dai piani contenenti gli altri vertici si
ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del decalfa inscritto nella faccia) è
la parte aurea del doppio dell'apotema ed è la media aritmetica tra il doppio
dell'apotema ed il lato l10 del decagono in- scritto nella faccia (ossia la
distanza tra i piani conte- nenti i vertici intermedi); 2o – La distanza tra
uno di questi piani e la faccia più vicina, ossia il raggio r della
circonferenza circoscritta alla faccia, è la media armoni- ca tra 2a ed l10. [Analogamente
il lato l5 del pentagono regolare in- scritto è la parte aurea del lato s5 del
pentalfa, ed è la media aritmetica tra il lato del pentalfa ed il lato del
pentagono NN1N2N3N4; mentre il lato AN della punta del pentalfa è la media
armonica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel
dodecaedro la distanza 2a delle facce opposte, e nella faccia il lato del
pentalfa, sono così suddivisi in modo da costituire due quaterne di segmenti,
tali che i segmenti medii si ottengono dagli estremi prendendone la media
aritmetica e quella armonica, esattamente come le due corde medie del
tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come segmenti estremi s10
ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media armonica M si ha:
a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s
–r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media aritmetica tra s5 ed
l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 –
R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della punta del pentalfa. In
queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea del primo, ed i due
segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Si ha
infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10: 154 (2a+s
)·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17]
(2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è
eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza
di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli
elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago-
rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli
elementi 2a, s10, r ed deve avere costituito ai loro occhi una conferma
significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regolare il
simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa
corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni
ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché
erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II
dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è
che da leggere alcune pagine del Timeo di Platone. Riassumiamo servendoci della
versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che ogni specie di corpo ha profondità
ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di triangoli,
in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di triangoli e
corrispondentemen- [PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da ACRI, Milano] te
ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al
numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei
vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una
retta che è individuata da due punti. Il punto, la retta, il piano o triangolo
ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre
e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fatto che
ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è
il principio della generazione. I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da due
specie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo
rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri
corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi,
ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro elementi]. Siccome di
triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma),
Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di
essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipotenusa doppia del cateto
minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore.
Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr.
PROCLO, ed. Teubner. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET. Quanto si trova entro le
parentesi è stato aggiunto da noi per chiarimento.] versa, preso un triangolo
equilatero i diametri della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi
vertici lo de- compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi
triangoli equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può
essere compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in
numero di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene
l'ottaedro (composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo,
l'icosaedro, ha venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte
sessanta di tali triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce
triangolari non vi sono. Con il triangolo rettangolo isoscele si genera il
cubo; perché quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il
quadrato è diviso dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli rettangoli
isosceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di ventiquattro
triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una forma di
composizione che è la quinta, di quella si è giovato Iddio per lo disegno
dell'universo. Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Mieli esclude
assolutamente che i pitagorici fossero arrivati a riconoscere la impossibilità
dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta in nota, non dice se a
sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la dimostrazione d’Euclide nel
suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici potevano benissimo pervenirvi;
ad ogni modo è certo che essi conoscevano i cinque poliedri che effettivamente
esistono. A questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per riserva forse
perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il
medesimo metodo di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il
pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta
triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa.
La superficie del dodecaedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triangoli
rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a
Timeo. Ora il numero XII (che compare anche negli altri poliedri) ha già per
conto suo un carattere sacro ed universale. XII è il numero delle divisioni zodiacali e XII
in ROMA è il numero degli Dei consenti, XII è il NUMERO DELLE VERGHE DEL FASCIO
ROMANO, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenutici stanno
ad indicare l'importanza del numero XII e del dodecaedro. Il numero CCCLX è poi
il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni
dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il
dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. Il
silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche a Robin, il quale
dice (ROBIN, La pensée grecque, Paris) che «au sujet du cinquième polyèdre
regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux. Robin non prospetta
alcuna ragione di tanto mistero. REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista
«DOCENS»] La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi
scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri,
dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag-
giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della
faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale
360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci
facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni,
aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che
l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come
l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua,
terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il
περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rappresentano. Abbiamo
veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro
regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per vertici i
centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro
regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un
vertice del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti ALCINOO, De
doctrina Platonis, Parigi; Cfr. an- che l'opera di MARTIN – Études sur le Timée
de Platon, Paris, PLUTARCO, Questioni platoniche. Naturalmente si tratta
dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. e questi tre
fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei
quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia,
come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te-
trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello
spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo
numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro
numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto
ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto
ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il
dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del
tetracordo costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro
elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così
intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r,
l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii
hanno rispetto agli estremi esattamente la stessa relazione delle corde medie
alle estreme del tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i
vertici del dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici
identifichi l'oracolo di Delfi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed
all'armonia. La parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del
pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo [ROBIN, La pensée grecque, Paris dell'universo.
Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza
nell'architettura pre-periclea; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa
l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia,
l'architettura e le varie arti. La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci
limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria
pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del
dodecaedro nella sfera ed il riconoscimento delle sue proprietà, come sappiamo
che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di
Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure
platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di
Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre
in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà
del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella
stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del
tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria alla
cosmologia, e forniva la base e l'impul- [CANTOR, Vorlesungen über Geschichte
der Mathematik] Alla considerazione della media armonica si connette, invece,
il canone della statuaria di Polycleto; ROBIN, La pensée grecque; LORIA, Le
scienze esatte ecc.] so anche all'ascesi pitagorica; e si comprende ora con una
certa precisione, e non più vagamente, come Platone potesse scrivere che «la
geometria è un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno, una scuola
preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività
dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino impossibile arrivare a
una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'intimo legame di que-
st'ultima con la musica». Per i pitagorici e per Platone la geometria era
dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la geometria euclidea,
spezzando tutti i contatti e divenendo fine a se stessa, degenerò in una ma-
gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della cosmologia con la
musica, percepibile nel tetracordo formato dagl’elementi costitutivi del
dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo che l'assenza di
ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva costituire uno
degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio del fatto è
fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo appena
giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto un
passo abbastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica, non
soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio geometrico
puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo per scoprire
LORIA, Le scienze esatte ecc.] le connessioni tra la geometria e le altre
scienze e discipline. Altre cose si potrebbero aggiungere in proposito, ma
anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς πάντας πάντα ῥητά.
Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del conseguente teorema di
Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle parallele, della similitudine e
della propor- zione, è dunque possibile pervenire a tutte le scoperte dei
pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica restri- zione che il problema
dell'applicazione semplice (para- bola) non si può risolvere in tutti i casi,
ma solo in un caso speciale, per quanto importante e sufficiente a con- sentire
il pieno sviluppo della geometria pitagorica pia- na e solida come la abbiamo
potuta restituire sin qui. Ed abbiamo notato il fatto eloquente che per i
problemi del- l'applicazione la testimonianza addotta da Proclo non è quella
autorevole di Eudemo, ma soltanto quella di co- loro che stavano attorno ad
Eudemo. Si obbietterà che questo non basta a dimostrare con assoluta certezza
che effettivamente quella che abbiamo ricostituito sia tale e quale la
geometria pitagorica. Lo sappiamo perfettamente, ma sappiamo anche che, data la
assoluta mancanza di ogni documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto
tener conto come elemento per la restituzione e non come documento di prova,
non era possibile fare di più; e sappiamo che in questa circostanza anche le
prove indirette, che abbiamo raccolto per via, hanno il loro valore a favore
della nostra tesi. Nello sviluppo della geometria pitagorica ci siamo limitati
a quanto occorreva per poter raggiungere i risultati menzionati da Proclo; ma
si possono raggiungere altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo
premettere per trattare l'importante questione del «postulato» delle parallele.
Il problema dell'applicazione semplice, corrispondente alla risoluzione
dell'equazione ax = bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia
maggiore di b o di c. Nel caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza
della soluzione si può avere solo quando si disponga della proprietà postulata
da Euclide con il suo V postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in
altre importanti questioni. Così, dati tre punti di una circonferenza, si
dimostra che gli assi delle tre corde passano per il centro; ma non si può
dimostrare in generale che per tre punti non allineati passa sempre una
circonferenza. Ora, di fronte a questo ostacolo che sbarra la strada
all'ulteriore sviluppo della geometria, come potevano comportarsi i pitagorici?
Abbiamo veduto quali ragioni importanti fanno ritenere che essi non hanno
ammesso il postulato delle parallele e nemmeno il concetto di paral- lele quale
è definito da Euclide; ci proponiamo adesso di mostrare come potevano,
egualmente, superare la dif- ficoltà. Osserviamo anzi tutto come sia noto come,
conoscen- do comunque il teorema dei due retti (proposizione Sac- cheri), si
può, ammettendo il postulato di Archimede, dimostrare con Legendre la unicità
della non secante una retta data passante per un punto assegnato (proprietà
equivalente al postulato delle parallele); e così pure osserviamo come il
Severi, ammesso il suo postulato delle parallele, dimostri, sempre con l'aiuto
del postulato d’Archimede, la unicità della non secante. La cosa è dunque
possibile servendosi del postulato d’Archimede; se non che, non possiamo
pensare a ricorrere a questo postulato perché Archimede è posteriore persino ad
Euclide, e non è verosimile che i pitagorici abbiano ammesso un postulato come
quello di Archimede. D'altra parte, è vero che il postulato d’Archimede basta
per permettere di raggiungere il risultato; ma è anche necessario ricorrere ad
esso? E se non è necessario, potevano i pitagorici, senza di esso ed in modo
più sempli- ce, raggiungere il risultato, dimostrare cioè la unicità della non
secante una retta data passante per un punto assegnato? BONOLA in ENRIQUEZ,
Questioni riguardanti etc., SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze. Vedremo di
sì, e vedremo come; ma ci è necessario per far questo premettere ancora altre
proposizioni che si deducono da quelle già viste. TEOREMA: Se due rette a e b
sono perpendicolari entrambe ad una stessa retta AB, ogni altra perpendicolare
ad una di esse incontra anche l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due
rette a e b perpendicolari alla AB; e da un punto P della a conduciamo la
perpendicolare alla b. Il suo piede Q è necessariamente distinto da B, perché
altrimenti da B uscirebbero due perpendicolari alla b. E siccome la AB e la PQ
perpendicolari in pun- ti diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi,
i punti P e Q devono stare da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q
il triangolo ABQ è rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB;
la QA divide quindi in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i
due angoli acuti del triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP
e ̂QAB risul- ta^no eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due
triangoli ABQ, QPA, avendo inoltre eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché
entrambi com- plementari dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il
secondo criterio; e quindi l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo
unica la perpendicolare per P alla a essa coincide con la PQ, ossia la
perpendicolare PQ alla a incontra la b ed è ad essa perpendicolare.
Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una delle due rette a o b ha
dall'altra distanza costante. Infatti, essendo ABPQ un rettangolo il lato PQ è
eguale al lato opposto AB. Perciò due rette perpendicolari ad una ter- za sono
tra loro equidistanti. Viceversa, se un punto P situato nel piano dalla parte
di A rispetto alla b ha dalla b una distanza PQ = AB, allora diciamo che questo
punto P appartiene alla perpendicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla
a. Supponiamo infatti che i due punti A e P situati dalla stessa parte della b
abbiano dalla b distanze eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può
naturalmente appartenere alla AB, altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P
con A; allora anche Q e B sono distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del
triangolo rettangolo AQB è acuto e complementare di ^BAQ; la QA divide quindi
^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP; perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ
in comune, AB = PQ e l'angolo compreso eguale e sono perciò eguali; l'angolo
̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+
̂QAP 168 è eguale ad un retto. Il punto P sta dunque sulla a
perpendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni altra retta passante per a non
può essere tale che i suoi punti abbiano distanza costante dalla b; si ha
dunque la unicità della retta equidistante; cioè il TEOREMA: Per un punto passa
una ed una sola ret- ta equidistante da una retta data. Il problema di condurre
per un punto A la retta equi- distante da una retta data b, si risolve
immediatamente. Basta da A abbassare la perpendicolare alla b; e poi da A la
perpendicolare a questa. Abbiamo visto che tutti i punti della a e soltanto
essi hanno dalla b la distanza costante AB. Questo si esprime con il TEOREMA:
Il luogo geometrico dei punti del piano situati da una stessa parte rispetto ad
una retta data ed aventi da essa una distanza costante assegnata è una retta.
Questa proposizione è quella che il Severi assume come postulato, chiamandolo
il postulato delle parallele. Per noi è un teorema conseguenza del teorema dei
due retti e quindi del postulato pitagorico della rotazione. Queste tre
proposizioni sono tali che ognuna di esse porta per conseguenza le altre due;
vedremo infatti tra breve che dalla proposizione ora stabilita si può dedurre
il teorema dei due retti. Osserviamo finalmente che l'aver dimostrato l'unicità
della equidistante da una retta b passante per un punto 169 assegnato A,
non dice affatto che ogni altra retta passante per A debba secare la b;
possiamo soltanto dire che, se vi sono altre rette passanti per A non secanti
la b, esse non sono equidistanti dalla b: ossia per ora abbiamo dimostrato la
unicità della retta equidistante; e nulla sappiamo della unicità della non
secante. 3. Valgono per le rette equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli
valevoli per le rette parallele di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra
altre due e forma con esse angoli alterni interni eguali esse sono
equidistanti. Siano a e b le due rette incontrate dalla trasversale AB, e
siano gli angoli alterni interni eguali. Ne segue che gli angoli coniugati
interni sono supplementari. Se questi angoli sono anche eguali, ossia se sono
retti, le a e b sono perpendicolari entrambe alla AB, e per il teorema
precedente sono equidistanti. Se i due angoli sono diseguali ed è per esempio
^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la
perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri- 170 spetto a B dalla
parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non può avere più di un angolo
retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo ̂BAH del triangolo ret-
tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'angolo ottuso ̂BAD in due
parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma
^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e
b perpendicolari alla AH sono due rette equidistanti. Lo stesso accade se la AB
forma con le a e b an- goli corrispondenti eguali, angoli alterni esterni
eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se una trasversale seca due rette equidistanti,
forma con esse angoli alterni interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc.
Supponiamo che la AB (fig. 39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse
perpendicolare ad una di esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il
teore- ma sussisterebbe. Se non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti
diseguali; sia p.e. BAD ottuso. Condotta da A la perpendicolare comune alle due
rette a, b essa divi- de BAD, e nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH
risulta complementare di ^BAH; e quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2
retti 171 ̂HBA+ ̂BAD=2 retti I due angoli coniugati interni sono dunque
supplementari; e quindi gli alterni interni sono eguali ecc. Non è però
dimostrato che se due rette sono equidistanti ogni secante della prima deve
secare anche la seconda; perciò non si può ancora risolvere p.e. il problema
dell'applicazione semplice nel caso generale. Diventa ora possibile la
dimostrazione del teorema dei due retti attribuita d’Eudemo ai pitagorici,
dimostrazione alla quale si riferisce il passo della Metafisica d’Aristotele.
Condotta per il vertice A di un triangolo ABC (fig. 1) la equidistante dal lato
opposto BC, per l'eguaglianza degli angoli alterni interni di vertici A e B, ed
A e C il teorema si dimostra nel modo ben noto. Naturalmente questa semplice
dimostrazione è per noi un cavallo di ritorno. Lo era anche per i pitagorici
cui Eudemo attribuisce la dimostrazione? Lo era anche per Aristotele? Se non lo
era, ossia se non si basa sopra il teorema delle rette equidistanti, derivante
dal teorema dei due retti, doveva necessariamente basarsi sopra questa
proprietà delle rette equidistanti ammessa per po- stulato o dedotta da un
postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò inesplicabile la esistenza
dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio.
Comunque questa dimostrazione si basa sopra le proprietà delle rette
equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti o non si usi il
postulato d’Euclide. La equidistante è una non secante, che a differenza delle
altre eventuali non secanti (o parallele secondo la definizione di Euclide)
gode delle proprietà vedute, e consente perciò la dimostrazione del teorema dei
due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni che abbiamo vedu- to, non
ammettevano né il postulato di Euclide né un postulato sopra le rette
equidistanti come quello di SEVERI (si veda). Se, come crediamo, pervennero al
concetto delle rette equidistanti, si fu come conseguenza del teorema dei due
retti da essi dimostrato con la ignota dimostra- zione in tre tempi, e non
viceversa. A meno che non si voglia supporre che in un certo momento una parte
dei pitagorici abbia creduto di poter prendere come punto di partenza il
concetto delle rette equidistanti, e di trarne la dimostrazione del teorema dei
due retti al posto dell'an- tica dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al
concetto delle rette equidi- stanti Poseidonio e Gemino con lo scopo di
eliminare il postulato di Euclide; ed altri tentativi furono fatti come è noto
in seguito, ma sempre in modo non rigoroso, perché, come SACCHERI dimostra,
l'ammettere che delle rette equidistanti esistano effettivamente è da con-
siderare come un nuovo postulato. Esso è il postulato del Severi, equivalente
alla proposizione SACCHERI, ed al nostro postulato pitagorico della rotazione.
VAILATI, Di un'opera dimenticata di SACCHERI, in Scritti.] Per noi è un teorema
perché è conseguenza del teore- ma dei due retti, a sua volta conseguenza del
postulato della rotazione. Per le ragioni vedute è certo che gli antichi
pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la proposizione Saccheri, e la
dimostravano in un modo che non è verosimile derivi da un postulato delle rette
equidistanti o dal concetto stesso di rette equidistanti; mentre è per lo meno
possibile che la dimostrazione si basasse sopra un postulato come quello della
rotazione. Se ammettevano questo postulato, non solo ne pote- van dedurre il
teorema dei due retti, e quello di Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro
attribuite da Proclo-Eudemo, ed inoltre la teoria delle equidistanti e, di
rimando, la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita ad essi da
Eudemo.Se una trasversale incontra due rette equidistanti e da un punto di una
di esse si conduce la retta equidistante dalla trasversale, essa incontra anche
l'altra. Sia m la trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e
sia P il punto assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla
b il segmento BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con
le a e b angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono
eguali per il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano
equidistanti. E siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174
equidistante dalla m, essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m
condotta per P punto della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione:
il quadrilatero ABQP è un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome
una diago- nale fa coi lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono
equidistanti. Dunque nel romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti.
Questa distanza costante si chiama altezza del romboide. TEOREMA: Se per il
punto medio di un lato di un triangolo si conduce la retta equidistante da uno
degli altri due lati essa incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il
punto medio M del lato AB (fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta
equidistante dalla BC. Tutti i punti della BC stanno da una stessa parte
rispetto ad essa; i punti A e B stanno da parte opposta rispetto ad essa, e
quindi anche i punti A e C stanno da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è
tagliato in un suo punto N da questa retta. Completiamo il romboide che ha per
175 lati consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è
equidistante dalla AB e lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il
vertice P compreso tra B e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché
corrispondenti rispetto alle equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione
analoga, i triangoli AMN, NPC risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il
punto medio di AC. Naturalmente per la stessa ragione P è il punto medio di BC
e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due
lati di un triangolo è equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di
esso. Si dimostra per assurdo, come conseguenza della unicità della
equidistante dalla BC passante per M, e della unicità del punto medio M. Come
conseguenza di questi teoremi se ne possono dimostrare degli altri sul fascio
delle rette equidistanti, sul trapezio, ecc.; si può risolvere il problema
della divi- sione di un segmento in un numero assegnato di parti eguali; si può
dimostrare che le tre mediane di un trian- golo si incontrano in un unico punto
ecc.80 Ci limiteremo al seguente teorema di cui abbiamo bisogno. TEOREMA: Se
sul prolungamento di un lato di un triangolo si prende un segmento eguale al
lato, e per l’estremo del segmento si conduce la retta equidistante da uno
degli altri due lati essa incontra il prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN
il triangolo dato; prendiamo sul prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e
sul prolunga- mento di AN il segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema
precedente la MN e la BC sono equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN
passante per B incontra il prolungamento della AN nel punto C. Vogliamo ora
dimostrare la proprietà, fondamentale che per un punto assegnato A esterno ad
una retta data b si può condurre una sola retta che non la seca. In modo simile
a questo si può sviluppare la teoria delle rette e dei piani equidistanti e la
teoria dei piani equidistanti. Avremmo potuto premettere questi sviluppi,
ottenendo poi con il loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che
abbiamo trattato, ma con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di
essi. Dal punto A conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal
punto A conduciamo la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b
entrambi perpendicolari alla AB non si possono incontrare. Si tratta di
dimostrare che ogni altra retta passante per A e distinta dalla a è una secante
della b. Supponiamo se è possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre
alla a, almeno un'altra retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A
divide la m in due semirette situate da parti opposte della a; consideriamo la
semiretta m che rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della
b, ossia della striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b
situate ri- spetto alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una
delle semirette di origine A e comprese nell'angolo ^B A a delle semirette AB
ed a, la quale per ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne
possono essere altre di origine A che non incontrano la semiretta 179 b;
anzi ve ne sono di sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese
nell'angolo m^a, perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto
N, siccome la semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e
lascerebbe quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento
BN contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna
all'angolo ^mAa,, è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra
parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese
in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB
l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infatti, a partire da A su
questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio
M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è
equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che
significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante
della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle
secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A
comprese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b
oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la
AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono
inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne
all'angolo C A a ; basta infatti 180 prendere un punto S qualunque sul
prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A,
passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta
b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi,
e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A
a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b
costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con
l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon-
denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita ordinatamente dalle altre;
e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima
semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qualunque della
b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre.
Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare
comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e
precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmento BC; le
semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i
punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese
tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata
ortogonale ABC, estremi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la
a l'ultima delle non secanti la b. Facciamo a questo punto una osservazione: La
corrispondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo
convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC,
permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC. Per dedurre
dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un
fascio, il Severi nota che occorre prima introdurre il postulato delle
parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette.
Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in corrispondenza
con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in corrispondenza con i
punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li passino per A, e la
corrispondenza è completa, nessuna semiretta esclusa. Naturalmente per fare
questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente dal postulato delle
parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di questa no- stra
geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità dell'insieme
delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD, e stabilito
il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono necessariamente
secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che precede una
secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una non secante è
anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste l'ultima
delle se- [SEVERI, Elementi di geometria] mirette secanti la b così da un punto
di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa non
esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una
semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre
pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo
dalla posizione iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad
arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta
alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al
momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento
per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta
sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non
secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta
che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima
non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta
corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era
naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato
della rotazione pitagorica (o l'equivalente proposizione Saccheri) sarebbe
stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del postulato
d’Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità.
Bisogna ammettere come postulato la esistenza di una semiretta di separazione
delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità talmente
evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse
costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non
sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non
ha sentito il bisogno di postulare il postulato di continuità nei due casi che
abbiamo a suo tempo espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere
che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo
due secoli prima d’Euclide quando Pitagora per primo faceva della geometria una
scienza liberale. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno
una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b
da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi
sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo,
la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare
che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non
secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica.
Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce
la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b),
ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h
in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sappiamo la
r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h;
in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è
quindi contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE:
Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che
non la seca. Sia A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la
perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a
perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto
medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte
delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che forma con la
semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b
(eventualmente anche la prima). Allora la prima non secante, ossia la se-
miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa
l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r,
ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove
per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la
semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto
C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere
acuto l'angolo HAB del triangolo 185 rettangolo AHB, il piede H sta sulla
semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30°
e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un
punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia
ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H
sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha
subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com-
preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo
che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a'
perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD
sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti
opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186 e A; perciò il
segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va
sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò
nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma
con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK, ̂DAH eguali;
quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε.
Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I
triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale
perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli
alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto
la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK
ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s'
incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base
complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo
ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA,
il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra
la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di
AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una
secante della b. La prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ;
ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ;
quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe
soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser
né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non
secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali
condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è
una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di
origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione
si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione
at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della
rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione SACCHERI (si
veda)) o l'equivalente postulato di SEVERI (si veda) opra le rette
equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al
postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar-
chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione
delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva
apparire indi- scutibile. Dimostrato il postulato d’Euclide si rientra
naturalmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro
compito è finito. A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria
pitagorica, non in quanto collimava con la geometria euclidea, ma in quanto ne
differiva. Che ne differisse sostanzialmente lo prova la esistenza di quella
arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata
sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa
dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero
il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo
veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso
particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che
di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi
sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e
sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato,
abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale
consente da sola la più recente dimostrazione del teorema dei due retti
riportata da Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene
quali obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico
della rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la
capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma questo
è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa invece
vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo
postulato della rotazione. Come riprova del fatto che essi non ammettevano il
postulato delle parallele, definite come in Euclide, abbiamo addotto la ragione
che per i pitagorici il concetto di infinito si identifica con quello di
imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si
potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il
concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come
il concetto di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed
imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di immobilità si oppone a quello
di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria dell'altra.
Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di infinito sia
quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo tenere
presenti i legami che avvincevano le concezioni geometriche dei pitagorici a
quelle cosmologiche; e se nessuno ha mai veduto due rette parallele nel senso
anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si incontrano
mai, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento è un
carattere essenziale della vita umana ed universale. Gl’astri, ossia gli dei,
si movevano eternamente nelle loro danze celesti. E secondo i pitagorici, il
movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per la sua
regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di
rotazione restavano im- [VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova]
mobili e partecipi della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano
situata ad una qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche
essa, era ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione
intorno alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed
ammettere che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale
fosse eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era
ammettere un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel
campo raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente
onore ad Euclide di avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei
suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato
possibile. Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di
lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una riprova che i
pitagorici ne fanno uso senza tanti scrupoli e che quindi potevano benissimo
anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello
che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava
intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente,
accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata,
puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il doppio
scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di procurarsi un 83
G. VERONESE, Appendice agli elementi etc.] mezzo comodo e rapido per risolvere
difficoltà che altri- menti si possono superare solo con molto maggiore pa-
zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che non ha mai
soddisfatto nessuno e che Alembert chiama lo scoglio e lo scandalo della
geometria. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari da
una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si
incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si
può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si
ammette il postulato pitagorico della rotazione o la proposizione Saccheri, si
ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette
anche il postulato di Archimede oppure il caso particolare del postulato di
con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendicolari in punti
distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che
una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad
essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto,
per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione.
Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A
rispetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe
appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P,
dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia
coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r:
quindi esse non si incon- trano.] tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che
la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo
dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del
teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così. Sia il
triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ
παράλληλος ἡ. Qui appare il termine parallela e l'articolo determinativo ἡ ne
implica la riconosciuta unicità. Ma, anche ammettendo che Proclo riporta di
peso la dizione usata d’Eudemo, resta a vedere se Eudemo adopera il termine
parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di
Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva
anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi d’Euclide.
Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa
dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla
dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante.
Egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce
la retta di fianco o di fronte al lato. Anche in questo passo l'articolo ἡ
mostra che tale retta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nessun
modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della
parola parallela non dà in proposito nessuna luce. Il termine è adoperato in
astronomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel linguaggio
ordinario d’Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle vite parallele.
Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e
con quale precisazione non risulta. Aristotele lo usa tre volte nella
Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano
di descrivere le parallele commettono una petizione di principio. Così come
stanno le cose il passo di’Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non
provano affatto che la dimostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra
una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla
definizione ed al postulato d’Euclide. E non è da escludere che questa retta
fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica
non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla
equidistante vi potessero essere anche altre rette non secanti. In tal caso il
dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità
introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele
sarebbe corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si
intende che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela
ne fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe
corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui
unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due
retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela nel senso euclideo e non
si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, d’Aristotele
e d’Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due
retti una dimostrazione identica a quella d’Euclide. Se, come ci sembra, questa
dimostrazione pitagorica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette
equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche questa dimostrazione era
indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si
incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'accordo
con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che
abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di
prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione
pitagorica. E notiamo ancora che, anche se non si vuole accordare che la
geometria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pitagorico della
rotazione, la dimostrazione del postulato d’Euclide che abbiamo esposto si può
fare egualmente, se si ammette la proposizione SACCHERI od il postulato del SEVERI.
E siccome i pitagorici conoscevano certamente il teorema dei due retti
indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che
essi potevano dal teorema dei due retti e senza postulato d’Archimede arrivare
a dimostrare la unicità della non secante. La questione non trascendeva i loro
mezzi, né certamente l'intelligenza di quei così detti primitivi. La
trasformazione del postulato di Euclide in teorema è un risultato secondario di
questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia-
mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un
punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo
cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e, tagliando
il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di Euclide, le
cose si semplificano. Ma dovendo scegliere tra il V postulato ed il postulato
pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due è meno
restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è anche un po' personale, e noi
lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare che
il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema dei
due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla teoria
delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e consente
da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e non ci
consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più soddisfacente, ma un
modo qualunque, di raggiungere lo stesso risultato. Il postulato di continuità
al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per risolvere l'ultima questione,
quella di dimostrare il postulato d’Euclide in modo non trascendente le
possibilità dei pitagorici. Una volta introdotto, come postulato, il V
postulato d’Euclide, la proprietà enunciata dal postulato pitagorico della
rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia quindi il non
trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse accaduto
diversamente quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è perduta ad
eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se la nostra
ricostruzione corrisponde al vero, la introduzione del postulato d’Euclide
dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto
è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide
cambiò l'ordine e le dimostrazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della
geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e
ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno
goduto per oltre venti secoli gl’elementi di Euclide, aggiungendosi a queste
condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato
alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della gloria
della scuola italica. Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della
nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fondamenta, nulla si è
salvato. Un destino avverso sembra essersi accanito contro l'opera vasta ed
ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime
pitagorico in CROTONE Cotrone; disperso l'ordine e la scuola, le scoperte e le
conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate.
Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra
natura, impede l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagoriche,
assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la
filosofia, intesa nel senso etimologico e pitagorico della parola, venne
occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del
moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere
salde basi, si è perduta a tutto beneficio della scuola greca posteriore. Per
quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche
cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla
funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di restituire l'opera
geometrica della scuola itala è stato per noi non soltanto un importante
argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel
terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti
di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed
all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a
rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto
intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi,
gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti,
preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore
della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere
direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ. Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo
romano. Cf. uomo, scuola pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il
pitagorismo comparato con altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone –
crotona – Taranto – metaponto, aristosseno, prima seguace del pitagorismo,
reghini, massoneria, esoterico, numeri sacri. Cf. Luigi Ferri,
L’interpretazione dei filosofi italiani sull’origine del pitagorismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrero” –
The Swimming-Pool Library. Leonardo Ferrero. Ferrero
Luigi Speranza -- Grice e Ferretti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo – scuola
di Brusasco – filosofia torinese – scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Brusasco).
Filosofo italiano.
Brusasco, Torino, Piemonte. Grice: “I like Ferretti, for one, he wrote on
intersubjectivity which is a problem for Husserl: cogitamus; nobody speaks of
‘cogitamus --; one has to distinguish between my favoured –‘inter-subjectivity’
and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti has also philosophised on the infinite,
which poses a problem to my principle of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino,
Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI,
Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg et Sellier,
Torino). Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica (LA)
«Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.»
(«Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo risiede la
verità.» (da La vera religione di Sant'Agostino) Il termine soggetto che
deriva dal latino subiectus(participio passato di subicere, composto da sub,
sotto e iacere gettare, quindi assoggettare) letteralmente significa
"quello posto sotto", "ciò che sta sotto". Nella
speculazione filosofica il termine ha assunto una varietà di significati:
un essere, sostrato sostanziale di qualità che lo configurano particolarmente e
accidentalmente; elemento soggettivo che determina una data sostanza nella sua
singolare peculiarità; termine che, in età moderna, viene riferito alla
coscienza individuale e all'autocoscienza intesa come attività consapevole
dell'io. Il ribaltamento di significato nella storia del concettoModifica In
filosofia il concetto di soggetto ha subito un ribaltamento del suo significato
originario. Inizialmente il termine si riferisce a un concetto di essenzialità
immutabile, ad una "oggettività" ben determinata e certa.
Successivamente il significato si capovolge assumendo il valore di ciò che è
apparentemente vero nell'ambito della soggettività individuale. Il termine
latino infatti traduce l'originario greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol
dire appunto "ciò che sta sotto", ciò che secondo il pensiero antico
è nascosto all'interno della cosa sensibile come suo fondamento
ontologico. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Calogero. La teoria sul pensiero greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus)
è la sostanza (sub stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che
propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo
di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e
che Aristotele chiama "accidente": anzi, è proprio la sostanza che
sorregge gli accidenti rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la
loro apparenza nel tempo e nello spazio. Sempre in Aristotele, poi, il
soggetto assume anche una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde
al piano del soggetto nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di
partenza, la base a cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il
predicato mutevole. E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso,
significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in
atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso
significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato,
può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il
composto di materia e di forma.» Un terzo aspetto particolare del
soggetto in Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato
materiale delle cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una
forma, il soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione
indissolubile di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere
identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in
terzo luogo con il composto di entrambe». Il ribaltamento
soggetto-oggetto inizia con Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al
pensiero soggettivo che definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché
l'attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del soggetto
corporeo cui inerisce, «il termine soggetto è adoperato per designare, in
genere, la coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la
realtà che esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve
adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come soggetto ciò
che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come
oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere
conosciuto.» Nel lessico moderno, allora, "soggetto" fa coppia con
"oggetto": da una parte c'è qualcuno che pensa, vuole, accetta,
respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto); dall'altra, necessariamente, c'è
qualcosa che è pensato, voluto, accettato, respinto, desiderato, temuto, ecc.
(oggetto). Soggetto assume una serie di nuovi significati come "interiorità",
"libertà" o anche "umanità", in quanto contrapposte alla
Natura ed alla cieca materia. Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia,
Uomo/Natura, si possono ricondurre a quello fondamentale soggetto/oggetto.
Questo insieme di significati è relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio
parlare di "autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a
"realtà esterna". Gli antichiModifica Nel pensiero antico,
almeno tra i presocratici, l'interiorità come già accennato non viene
contrapposta alla "realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in
stretta unità. Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il
primo concetto filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e
di quella umana. Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante
nella natura e nella mente umana, il Lògos. Parmenide afferma che lo stesso è
pensare ed essere, ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere. Per
Anassagora il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa
ed agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto
ed oggetto. I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in
generale il concetto di realtà, verso la quale ostentano uno scetticismo o un
relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo
umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al
quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito
proprio del filosofo diventa: conosci te stesso». La ricerca si orienta verso
l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e
vizio, giusto ed ingiusto, ecc. Con Platone il concetto diventa Idea, da
sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone
afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie
sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata
l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene
sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa,
apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere
ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si
presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di morte".
Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con
l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui poggiano le qualità
accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono
i vari predicati (soggetto logico). Aristotele afferma che la sostanza pare che
sia in primo luogo il soggetto di ogni cosa. Alla sostanza competono numerosi
altri aspetti (potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del
contesto; ma tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello
fondamentale, che è la sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel
senso moderno, è solo un caso particolare di sostanza e di soggetto.
Riassumendo la posizione greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che
nella realtà del Cosmo l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa,
o un rapporto di tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in
ogni caso la sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale
ontologicamente sul soggetto (la mente). Con il Neoplatonismo la coppia
soggetto/oggetto si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della
realtà (che si manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello
oggettivo (Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi
sono derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di
esistere» non è che un riflesso, una manifestazione particolare
dell'autocoscienza dell'Uno, che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha
di nuovo la coincidenza tra soggetto e oggetto e l'"assorbimento"
dell'intelletto umano in una dimensione intellettiva universale. Sulla
scorta di Aristotele, nel Medioevo il soggetto assume un significato oggettivo:
il soggetto del discorso, l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente
nel mondo anglosassone (subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze,
nemmeno Agostino si oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì
l'anima, l'interiorità; ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie
all'illuminazionedivina: il soggetto umano dipende in tutto da una Verità che
lo trascende. Col Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di
Dio rispetto a quella greca: non più come entità impersonale, o semplice
fondamento oggettivo della natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui
l'uomo è immagine e somiglianza. Nella disputa sugli universali, Aquino prende
posizione a favore del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del
soggetto ricondotta alla trascendenza divina. Su questa strada anche il
Rinascimento descrive variamente l'interiorità come contatto con l'universale
che si riflette nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno),
Intelletto (Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione
del soggetto umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un
microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto
specchio dell'Uno dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di
questa soggettività universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo
automatizzato ma abitata da forze e presenze nascoste. Si verificano due
processi paralleli: con Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica
della Natura; con Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo
duplice processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette
la nuova consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla
Natura. Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici
Idee, di varia natura (il significato cartesiano è differente da quello
platonico: esse sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a
queste Idee corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il
mio pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia
rappresentazione mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato,
inventato, anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la
non-esistenza reale dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare
un costante dubbio circa la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai
dubitare della presenza delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che
dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore
del primo termine. La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum"
riassume un lungo ragionamento che si può esprimere così: Posso dubitare
di essere ingannato riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma non posso
ingannarmi sul fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto dubitando e
ponendomi queste domande è necessario che io esista almeno quando me le pongo;
Poiché infatti posso liberamente dubitare di tutto, non posso invece dubitare
del mio libero atto del dubitare, di essere un pensiero che dubita; L'attributo
necessario alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono in grado di
concepirmi distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un prototipo di
quella che si può definire "metafisica del soggetto", dove l'io
individuale diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica che possa
costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante per la
successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res extensa. Il
pensiero è contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio identifica
con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal dualismo res cogitans/res extensa
si svilupperà il meccanicismo come visione matematica e deterministica della
Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti fermi: L'autocoscienza umana
non si aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è, per definizione,
antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto nell'autocoscienza si
manifesta tutto il resto; Le cose, che il senso comune vuole esistenti di per
sé, esistono anzitutto nella coscienza; la loro esistenza indipendente come
sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è perciò il sub-iectum delle
altre cose, poiché mi viene data preliminarmente rispetto ad esse ed è capace
di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la sostanza vera diviene la sostanza
che si interroga sulla Verità. Con Leibniz tuttavia si ha una nuova metafisica
del soggetto, più complessa del semplice dualismo cartesiano, basata sulla
pluralità delle sostanze, che torna a riunificare la dimensione del pensiero
con quella dell'essere secondo l'ottica platonico-aristotelica; le idee, vere e
proprie realtà pensanti che si esprimono nel soggetto metafisico (la monade,
corrispondente nell'uomo alla sua mente) hanno di nuovo il ruolo di fondamento
della verità. Infatti il giudizio, nella sua forma logica “S è P”, è vero
quando il predicato è già contenuto nel soggetto, che è la sua causa o, per
dirla con Leibniz, la sua ragion sufficiente. Il soggetto logico S esprime la
sostanza reale o monade, che quindi è la causa della verità, sia in senso
logico (come soggetto del giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente
del predicato). Se è vero che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio
di Leibniz), la ragione di tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo
stesso. Leibniz descrive un soggetto già simile all'uomo moderno, come
individuo indipendente dagli altri («la monade non ha porte né finestre»),
dotato di una sua energia vitale (appetitus) e di una libertà e finalità sua
propria (l'entelechiaaristotelica), ma inserendolo entro un quadro organico
d'insieme, fondato sul concetto scolastico di armonia prestabilita.
L'empirismo inglese, prima con John Locke e poi più decisamente con Hume,
reagisce a questa sostanzializzazione del soggetto criticando sia la nozione di
sostanza (Locke), che poi quella stessa di soggetto (Hume). Ma in tal modo
l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare la
concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la
possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da
una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una
frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della
realtà esterna.Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni
soggettive derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come
opposizione tra fenomeno e cosa in sé (vedi oltre). Concludendo sul
pensiero moderno: all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere
sull'oggetto esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica
autonoma (Cartesio), generando per reazione la negazione della sostanza
(empirismo). Kant e l'IdealismoModifica Con Kant si ha la
"rivoluzione copernicana" che mette il soggetto al centro del sistema
della conoscenza, facendo ruotare gli oggetti intorno alle sue forme a priori
(quelle sensibili, cioè spazio e tempo, e le dodici categorie dell'intelletto).
Il soggetto da individuo si fa soggetto trascendentale o puro: l'Io penso. Le
forme a priori, infatti, su cui si fonda l'oggettività delle conoscenze
empiriche, a loro volta poggiano su una forma universale, che è appunto il
soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso deve poter accompagnare tutte le mie
rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato qualcosa che
non potrebbe affatto venir pensato. Il pensare dunque è un atto originario
dell'io puro. Scrive ancora Kant. La chiamo originaria, poiché essa è quella
autocoscienza che, col produrre la rappresentazione "Io penso", non
può essere preceduta da nessun'altra rappresentazione, poiché condizione a
priori di tutte le altre rappresentazioni». Il soggetto empirico, l'io in carne
ed ossa, deve la sua stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma
preesistente dell'io penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici.
L'Io penso kantiano non ha però un carattere sostanziale o metafisico come
quello cartesiano, poiché è soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi
contenuti sono i pensieri che i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà
fenomenica, ben distinta dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste
indipendentemente e al di fuori del soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In
questo limite conoscitivo del soggetto si manifestano il criticismo e
l'avversione di Kant per la metafisica razionalistica. In Kant non abbiamo una
metafisica del soggetto vera e propria, ma piuttosto una visione
antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e fisici) tra gli oggetti
naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad un soggetto generale,
generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo. Da Kant all'idealismo
il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé. Avremo così un
soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio metafisico della
realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia di quella
dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling l'Ioassoluto è
l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io o Natura:
l'identità di questi due termini è un'unione "immediata", attingibile
solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione. Veniva
perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e oggetto tipica della
metafisica neoplatonica. La dialettica soggetto/oggetto Soggetto e
oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati secondo Hegel nel momento in cui
la ragioneprende coscienza che l'uno non può esistere senza l'altro, che un
oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e viceversa. A differenza di
Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben conoscevano una tale
dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la ragione stessa che
opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza, mentre nella
metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori, sin
dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da sola.
Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due termini
contrapposti. Hegel identifica esplicitamente il soggetto con l'Assoluto,
ed infine col divino cristiano, ma diversamente dai suoi predecessori li
congiunge in forma "mediata", generando quindi nuovamente un
dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è
espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito», ma quel che ancora
mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della vita umana
nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli elabora la
nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed assoluto che però
inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana consiste in un
progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito, proprio attraverso
le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e dei popoli. Le
diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono narrate nella
Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata della
autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza sensibile), ma
poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più universale.
Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è
l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie
all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato
alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo
"sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e
Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso
cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri
di Dio") viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza
universale o Spirito. Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale,
storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e
soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per
l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx
il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza
collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel
sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo
sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non
sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma
piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il
Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si
lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di
significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio
filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte
esistenziale dell'uomo moderno. Il soggetto oggi La filosofia già da un
secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il
soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi
all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si
è messa) al centro del mondo. La rivoluzione copernicana esprime un ottimismo
della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e
l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione
soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della
Natura. Secondo Aristotele costituito da una materialità informe,
originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. Aristotele,
Metafisica, Aristotele, Enciclopedia
Treccani, Dizionario di filosofia Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura),
Platone, Fedone, Aristotele, Metafisica, Salatiello, L'autocoscienza come
riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino,
Pontificia Università Gregoriana, Roma. Ad esempio Paracelso nel suo Liber de
nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus parla
apertamente di entità spirituali responsabili di ogni legge e avvenimento di
natura. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia
dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma Homo Laicus:
Berkeley. Kant, Critica della Ragion pura, Hegel, Fenomenologia dello spirito,
introduzione Vedere introduzione alla Scienza della Logica. Boulnois, Généalogies du sujet.
De saint Anselme AOSTA (si veda) à Malebranche, Parigi, Vrin, Alain de Libera,
Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi, Vrin, Libera, La quête de
l'identité (Archéologie du Sujet), Parigi, Vrin, Alain de Libera, La double
révolution. L'acte de penser I (Archéologie du
Sujet), Parigi, Vrin. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nella
cultura antica La Nuova Italia, Milano, Bompiani. Parisoli, Il soggetto e la
sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi
Medievali, Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca
fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, Thiel, The
Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes
to Hume, New York, Oxford Individuo Oggetto (filosofia) Portale Filosofia:
accedi alle voci che trattano di filosofia
Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del
pensiero Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui
l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io) Il
contenuto. While
subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only
that it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The
inter-subjective” sounds Butlerian in English! Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I
soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto
nell’intersoggetivo – ‘the common ground’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferretti” –
The Swimming-Pool Library. Giovanni
Ferretti. Ferretti.
Luigi Speranza -- Grice e Ferri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Bologna – filosofia
bolognese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Bologna, Emilia. Grice: “I love Ferri; for one, he wrote on Ficino’s
‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and which I may call the
most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!” Insegna a Firenze e Roma. Linceo. Discusse in tre
lettere le “Confessioni di un metafisico” di ROVERE Mamiani ed elabora in tre
memorie le sue concezioni. Pubblica la
“Rivista italiana di filosofia.” La filosofia platonica poggia su due basi:
cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono
le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni
sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua
scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la
dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle
idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri
sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine,
le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio;
osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini
degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e
l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia,
cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al
Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to Conf. La Dottrina dell'amore
secondo Platone, lezione e note, questa
Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni.
L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia
che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità. Questa
corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto
spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è
percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci.
Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra
facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che
l'amore non ha altri strumenti da applicare. Grato è a noi, dice Ficino,
il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo
bello. E perchè queste tre cose, l'animo Università di Palermo un'analisi
accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà
nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla
traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in
toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza
nome di stampatore: “Il Commento di Ficino sopra il Convito di Platone e il
esso Convito tradotlo in lingua toscana per BARBARASA da Terni con dedica al
maguifico messer Grimaldi”. Il Convito platonico vi è effettivamente tradotto
in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze, per Neri DORTELATA con
dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza è pure di Firenze e
dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo “Sopra lo Amore ouver
Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Ficino a Vero, cad Manetti, da
cui risulta che la versione in lingua toscana del Commento edito a Firenze dal
Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino. Le citazioni
fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da
essa. « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai
stima che l'altre tre, però è conveniente che egli più avidamente queste ricerchi,
con più ardore abbracci, con più veemenza si maravigli. E questa grazia di
virtù, figura o voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo della ragione,
viso e udito, rettamente si chiama il bello (pulchrum, to kalon). Se si vuole
conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto
concetto del suo oggetto. I ragionamenti di Ficino su questo punto meritano di
essere riferiti. Trovandosi il bello nella forma del corpo bello, è
mestieri che il bello sia una essenza comune. Non sarà dunque corporea,
altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che il bello possa
dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in una ‘forma’ non procede dalla ‘materia’,
ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale. Difatto, il corpo
puo perdere il suo bello. Quantunque, la ‘materia’ del corpo sostanzialmente
non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa piccolezza
diventando brutto. La condizione del bello non corrisponde alla condizione
della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue vicende non dipendono punto
dalla natura corporea e dai suoi più essenziali attributi. Nè si dica come
fanno alcuni, che il bello è una certa posizione di tutti i membri del corpo o
veramente commisurazione – simmetria -- e proporzione “pro portione” – portio
cognate with Greek parao, to divide in parts --– analogia -- con qualche soavità
di colori. [ocr errors] ("). Objectum placitum res piacere Oggetti e
piaceri del gusto, dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione
e generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo
questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna
cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una
voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente
e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il
bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può
essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando
ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto
prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato
e non la medesima “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna
cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la
grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E
ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e
misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si
giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che
dobbiamo stimare la forma bella essere
qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci
ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè
spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è
maggior grazia. E negli uguali di età alcuna volta accade che quello che
supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è
dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè
quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua
causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento
nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la
specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale
poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una
statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il
sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo
fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita
è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in
un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre
l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato
conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il
suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al
finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera
l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo.
L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose;
quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi
le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che
guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e
istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo
concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un
sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per a qual cosa accade che
alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la
cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo,
non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e
« occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa
esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è
dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero
allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque
corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel
corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro
influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti,
debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono
ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo
tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del
tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il
bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce
la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a
innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra
gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè,
l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli
perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero
continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo,
secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di
un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e
brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla
povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere?
Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al
secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre
Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che
tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che
non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del
convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il
primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio
del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il
Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un
amore infinito che spande la bellezza nell' uni verso. Ma prima di
salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia
dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto
della sua vera natura nell'uomo. A malgrado della tendenza mistica che
distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini
e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in
tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è
per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di
quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un
altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento.
Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con
Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito
– cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle
cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini
viventi in terra. Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i
due influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere
fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba
attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al
godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e
dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore
con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui
l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza
dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione
che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la
forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che
ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza
il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità
dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo
carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone
scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo
nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa
una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e
prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata
nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la
catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e
il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa
presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella
dell'intelletto. Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della
coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a
portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni
epicuree. Difatto, sogliono i mortali, quelle cose che generalmente o spesso fanno,
dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo
per la nostra stoltiza falla in amore.
Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto
più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo
faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque
nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa
da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per
innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso
della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo
soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione
dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori
erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in
questa coine nelle altro parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio
entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza
dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto
e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non
sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino
sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo
di esporla il più completamente possibile. Arriviamo con lui al termine
della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È
quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima,
mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei
corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi
come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la
bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando dall'ordine
fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le
specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù,
nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè
accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e
beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie,
la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura. Tale
è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga
la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel
fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri «
amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che [ocr errors][ocr
errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori? Qui è la « grande
opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La divina potenza
superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati,
clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è
virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como
più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più
espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del
mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più «
espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie,
del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste
pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e
notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son «
chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo.
Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine
nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua
dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua
Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni
e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria;
così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o
abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo
dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da
scienza. Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri
mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua
diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le
traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non
diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze
fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende
visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare
l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta
come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli
angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si
ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso
all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora
finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi
concentrici della mente, dell'anima, della natura e della materia, ce lo
dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti
delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta
Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi,
produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un
medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti
angeliche le idee o verità, in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel
cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme. In questi
cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla
all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè
della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e
perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come
perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E
il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della
creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella
sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto
ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello e Giustizia. La Bontà
crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra.
Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in
lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene
dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è
la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è
l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e
ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo,
nell'anima e nel corpo. « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a
se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra
Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio
termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un
cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre
modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto
ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna
nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque
cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione». Egli è a questa
dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della
religione che suol chiamarsi naturale, del Cristianesimo e del
Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio
che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio d’ALIGHIERI
sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza
sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua
immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due
cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la
intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di
Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra;
poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti
abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo
amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende
quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che
sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al
cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo
dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi
un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una
esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che
seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti;
quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si
pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più
amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza
contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo
onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva
ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di
ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore
del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi
della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.
Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima
parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e
dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare
che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o
nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un
tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto
per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della
religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli
si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si
ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di
Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza
più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue
inspirazioni. Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle
essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo
proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo
degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì
additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo
della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una
prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil; aveva
insegnato como un sublime do [ocr errors] vere la fuga dalle cose
sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro
pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe
prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto
dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei
contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al
cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle
passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai
cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le
vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio
di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e
spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e
del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità;
per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la
unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei
fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più
sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al
mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali
all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie. Così è, Platone, a
malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non
separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare
fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde
le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al
cielo. Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore
si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo
mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per
ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in
quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva
ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva
bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza
speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non
accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri
dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle
attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica
ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in
questi confini. Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla
terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali,
artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era
questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la
religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di
vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che
dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e
applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli
affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col
quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto,
accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la
moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina. A conferma
del carattere mistico del Commento di FICINO si aggiunga che nell'orazione
quarta detta dal Landino il grazioso mito. In Platone l'amore collegandosi
colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti,
stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al
reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori
di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell'
amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali,
ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene
dell'individuo e della società. Questo aspetto stupendo dell'affetto umano
in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo e la
gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno non ha
ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci
ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in
Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di
contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che
sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero
uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i
nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla
vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre
Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando
con ardore il doppio ordine della degli Androgini esposto da Aristofane
nel Convito platonico è nel commentu di Ficino trasportato dalla integrità e
divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza
o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e
aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa,
frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra
che ritrovando il lume sopranaturale. vita attiva e contemplativa lo
conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne
penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si
contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di
persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa
giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e
certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due
importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana
dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o
d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo
regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte
soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma
eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con
fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza
l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la
loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della
bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via
d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali,
salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio;
in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto,
separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le
tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla
realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli
vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni
celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati, [ocr errors][ocr
errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia
e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per
renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i
suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita
contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società
scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della
materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il
magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina
concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo
del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii
troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero
insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che
rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità,
innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra
l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato
dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste
sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud
diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea
senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal
modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni
fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se
stesso al trionfo della libertà e del diritto. A questo segno aveva
mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi
l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per
correggere i suoi costumi, per dare alla forza materiale un
fondamento incrollabile nella forza morale. In questo modo essa avrebbe
dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e
del coraggio allo straniero che sta per immergerle il ferro nel seno. Egli
venne attratto dalla sua bellezza. La trova mal difesa, la vinse e se ne
insignor. Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fa schernendo
la sua debole resistenza, e Ficino è fra essi. Lagrima il pio sacerdote su
tanto male, ricordd agl’uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di
punizione; gl'invita a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a
Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più
informata a carità che a fermezza, si sforza di volgere l'animo di lui a miti e
clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri
difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostra di che tempra
sono gl’animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il saggio-dialogo di
Ficino sopra l'Amore consta di orazioni che espongono e commentano con
indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel convito di Platone.
Ficino stesso narra l'origine e lo scopo del suo lavoro. Platone spira
(secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il giorno
anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni. anno,
celebrano cotesto giorno in un convito. Abbandonato per mille e dugento
anni da Porfirio in poi il rito solenne, è restaurato con regale apparato per
ordine di MEDICI (si veda) nella villa di Caregri, sotto la direzione di
Bandini che ne è costituito Architriclino. I convitati sono IX, pari cioè
al numero delle muse. VII figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle
che sono contenute nel convito dell’Accademia. Si trassero a sorte le parti da
sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le
distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del
nuovo Simposio. Cosicchè le orazioni. La I, di Fedro, retore, tocca a CAVALCANTI (si veda), che per virtù e nobiltà
di animo è chiamato l'eroe del convito;
la II, detta da Pausania, tocca ad Antonio degl’AGLI (si veda), vescovo di
Fiesole, la III d’Erissimaco a SPERANZA, medico a Ficino; la IV, d’Aristofane, a
LANDINO; la V, d’Agatone, a MARSUPPINI, la VI, di Socrate, a BENCI (si veda),
la VII, di Alcibiade, a MARSUPPINI (si veda). Ma il vescovo e il
medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le
loro disputazioni a CAVALCANI. FICINO non puo essere più cortese coi suoi
discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e
commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche Nuti e Bandini che
insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui
dimenticati. A Bandini, ordinatore del banchetto, non ha bisogno di attribuire
altra parte che quella assegnatagli da MEDICI. Nuti suppone fatta la lettura
del simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo Bandini è Cavalcanti
che persuade Ficino a scrivere il dialogo dell’amore per invogliare i
fiorentini del celeste bello. La versione toscana del commento di Ficino
al convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con
qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'amore, stimo
opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel
testo. Definizione della Bellezza e dell' Amore. Il bello è una
certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla
corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè
la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è
nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia
grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è
la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la
mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella delle voci non
con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e
il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro
essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia; bo. Amore sempre
della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi
seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama. Finalmente
che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia, che
risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è
prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose
s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti, il
modo significa la quantità, la specie significa lincamenti e colori. Perchè in
prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è
che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e
che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa
parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi
s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la
grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che
tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto; e ancora li due
mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca
aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La
lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello
orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino l' apertura della bocca, otto
capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese
per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo
stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi” tratti delle
linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle
parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna
del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno: perchè
lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova.
Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la
distanza ė o nulla, o vacuo, o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee
essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità, necessarie
al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I
termini sono superficie, linee, punti, le quali cose non avendo profondità non
si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma
nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra
essere il bello dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a
essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le
quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i
caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene
chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica: dipoi l'anima del mondo come
vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si
chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto: ed
cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di
tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da
Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che
noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano.
In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi
essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e
tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato, a Dio
suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per
lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si
accosta; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella
mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si
creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in
questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle,
quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre, de' metalli, delle piante, e
degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in
quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo; e quella forma e
idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo
pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che
seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio
Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone;
per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore,
sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la
mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e
prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e
prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e
prima che di tale splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo
principio già si era rivolto E il suo primo voltamento a Dio è il
nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo
incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è
lo impeto d'amore; [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e
lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci
Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento
è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse
la mente angelica, la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne.
Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le
brutte alle belle aggiugne. Amore legame universale. Secondo che
mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti
è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che
costringe germinare fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe
i parti, e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual
cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di
una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole
caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo
perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della
universa macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua
giovinezza il convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo
quasi sempre felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di
quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del
conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da
pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande
filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua
pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché
di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di cui
Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che
risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli
permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle
ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume,
che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo
posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere
in questi lavori. BONGHI apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si
discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti
riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente
la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori
greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse
rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere
misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in
questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli
accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto
tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non
sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo
di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto
basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua
connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando
che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due
vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha
dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse
un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione
di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della
dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica,
da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza.
Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre
offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo
la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente
del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti,
della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina
dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia
dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale.
Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito
platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e
commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e
l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia
estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi
personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in
qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio,
riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene,
Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in
modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il
modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei
convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di
Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore
ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo
gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di
mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e
precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si
ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano,
ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo
ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente
morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio
spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli
altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli
con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei
costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di
Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di
volgere al bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli
spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua
parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla
passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del
suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del
convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il
soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il
disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il
quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da
Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto
e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra
l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita
universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora
nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la
nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che
ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della
essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta
delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di
suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata
esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della
scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto
dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo
corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi
dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo.
C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo
gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di
corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre
il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa,
intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di
tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale
irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e
il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del
bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate
molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già
liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare
un bello, che su tutte tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne
scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un
bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di
cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al
sommo della scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto,
senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a
scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e non accresciuto (nè
scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni
virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore
intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a
tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e
servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore
che s’inizia con la percezione dell’AMANTE del corpo bello dell’AMATO -- in due
modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col
primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio
specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito
che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto)
nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura
dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’AMANTE e l’AMATO sempre
povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella
vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fa credere a parecchi
interpreti e critici che l’ACCADEMIA quivi, come in altri luoghi, ricorre a
invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare
coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse
delle sue dottrina dell’amore. Ma a BONGHI sembra, e secondo noi con
ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno
tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma
di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non
sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali
subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopra enumerate che BONGHI conduce
colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del paganesimo
rinascimentale di FICINO. Altre opere: Il
genio del LIZIO. Discorso, Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà,
della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e
del metodo di SERBATI Rosmini, Il Cimento, Della filosofia del DIRITTO presso il
LIZIO, «Il Cimento», Estr.: Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta
nelle Confessioni di ROVERE Mamiani e alle dottrine platoniche, Riv. cont.,
Sulle dottrine dell’ACCADEMIA e sulla loro conciliazione colle del LIZIO.
Lettera a ROVERE Mamiani, Riv. cont., Estr.: Torino, Sulle attinenze della
filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un
corso di storia della filosofia, Niccolai, Firenze, Ciò che possa la filosofia
per l'istituzione civile dei popoli. Discorso per la riapertura del R. Istituto
di Studi Superiore di Firenze, Firenze, Rec. Di SAVIGLIANO (si veda), La
filosofia di Bossuet; di TURBIGLIO (si veda), Storia della filosofia; di CANTONI
(si veda), VICO (si veda), NA, La libertà del pensiero e la filosofia nell’università
italiane, NA, L’epicureismo L’ORTO e l’atomismo. Considerazioni
storico-critiche a proposito di un saggio recente, FSI, IEstr.: Cellini, Firenze,
Le Meditazioni cartesiane rinnovate da ROVERE Mamiani, NA, L'arte della
rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il materialismo e la scienza moderna,
NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. tradotti da BISSOLATI
(si veda), Imola, Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica
contro il materialismo, FSI, Rec. di R.
Bobba, La protologia di PINI (si veda), Torino, FSI, VICO (si veda) e la
filosofia della storia [Rec. di CANTONI (si veda), Studi critici e comparativi;
SICILIANI (si veda), Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; ROVERE
(si veda), Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, VINCI e la
filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr., Torino, Rec. Di FIORENTINO, POMPONAZZI.
Studi storici su la scuola bolognese e padovana con molti documenti inediti,
Firenze, ASI, Estr.: Cellini, Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della
religione, NA, Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, Il senso
comune nella filosofia e sua storia, FSI, Estr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi
sintetici a priori nelle dottrine italiane, FSI, Rec. di Kirchmann, La teorica
del sapere, FSI, Filosofia della Religione. Sull’attinenze della religione e
della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera a ROVERE, Conte
Mamiani, FSI, Rec. di FIORENTINO, La filosofia della natura e le dottrine di TELESIO
(si veda), Firenze, FSI, Estr.: Paravia, Torino Del principio e concetto di causa
nella scuola di Herbart, FSI, VINCI (si veda) filosofo. Vita e scritti secondo
nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo saggio
di Strauss e i suoi critici, La forma del pensiero filosofico e l'ideale
platonico della filosofia, FSI, Janet, La dottrina dell'amore secondo l’Accademia,
FSI, Estr.: Paravia, Roma, L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i
sistemi filosofici, NA, Importanza della psicologia nella filosofia moderna,
FSI, La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, L’avvenire, Herbart, NA,
Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Civelli, Roma, Il metodo
psicologico e lo studio della coscienza, FSI, Cenni biografici su Ferrari, Acc.
Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia di Pomponazzi, secondo
un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, intitolato: Pomponatius in
libros de anima. Memoria, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, Sulle
vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nell’università
di Roma, Annuario Univ. di Roma. Estr.: Civelli, Roma, La questione dell'anima in
Pomponazzi, FSI, Estr.: Opinione, Roma,
“L'io e la coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI, L’ORTO -- L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti
dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla dottrina psicologica dell'associazione
considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico
critico, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia
dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma, Rec. d’ALLIEVO (si
veda), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a BRUNO (si veda), Acc. Scienze Torino. Memorie, FSI, “L'assoluto”, FSI, CICERONE (si veda) sui
doveri. Conferenza, FSI, Rec. di CONTI (si veda) e ROSSI (si veda), Esame della
filosofia epicurea dell’ORTO nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia
platonica fondata in Firenze dai MEDICI. «Acc. Lincei. Transunti, FSI, Helmholtz
sulla percezione, FSI, Dell’idee e propriamente della loro natura,
classificazione e relazione, FSI, Il
Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, ROVERE
Mamiani sulla religione, NA, L'Accademia romana d’Aquino e l'istruzione
filosofica del clero, NA, Sulla recente restaurazione della filosofia
scolastica e tomistica d’AQUINO considerata in ordine ai metodi degli studi ed
all’attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, Acc. Lincei. Transunti»,
Vera, Acc. Lincei. Transunti, Sulla percezione esteriore e sul fenomeno
sensibile, Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti intorno a BRUNO (si veda),
a cur. di BERTI (si veda), Roma, FSI, La filosofia d’AQUINO (si veda), FSI, PETRARCA
(si veda) e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI, Estr.:
Salviucci, Roma, FSI, ZANOTTI (si veda),
La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti
dell'Etica Nicomachea per cura di F. e Zambaldi, Paravia, Torino, Dottrina
aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa,
«Acc. Lincei. Transunti, Relazione sul concorso al premio reale per LE SCIENZE
FILOSOFICHE, Acc. Lincei. Transunti, Il fenomeno nelle sue relazioni con la
sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la causa della rinascenza
del platonismo nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la
struttura delle revoluzione filosofiche] FSI, VINCI, NA, Il concetto di
sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come
contributo al dinamismo filosofico, Acc. Lincei. Memorie, Acc. Lincei.
Rendiconti, Estr.: Salviucci, Roma, Il platonismo di FICINO (si veda), FSI, La
dottrina dell’amore di FICINO (si veda), Una lezione elementare di psicologia.
Fatti psichici e fatti fisici, FSI, La GIUSTIZIA (cf. Grice) nella repubblica
utopica dell’Accademia. A proposito di recenti pubblicazioni, Storia della
filosofia. Il platonismo di FICINO (si veda). Le idee e la dialettica. La dottrina
dell'AMORE, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le malattie della memoria e la sostanzialità
dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, Ercole, Acc.
Lincei. Rendiconti, Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti, Vera, Acc. Lincei. Rendiconti,
“Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di
forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma, Di alcuni
uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, La psicofisiologia
dell’ipnotismo, FSI, Il concetto di persona [cf. person and personality –
Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di CHIAPPELLI (si veda), Del suicidio nei
dialoghi dell’ACCADEMIA, FSI, ROVERE (si
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filosofico nel nostro tempo, Acc. Lincei. Rendiconti, ROVERE (si veda) Mamiani,
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realismo, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico,
RIF, Rec. di CHIAPPELLI (si veda), La cultura storica e il rinnovamento della
filosofia, RIF, Lettera a PENNISI (si veda) -Mauro, RIF, Rec. di Levi, BRUNO
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inorganica animale ed umana, RIF, Le lauree in filosofia, RIF, Dell’idea del
vero e sua relazione coll’idea dell'essere, Acc. Lincei. Rendiconti, Acc.
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fisiologica e l'origine dei fatti psichici, NA, Franchi, NA, La dottrina della
cognizione nell’hegelianismo secondo SPAVENTA (si veda), RIF, La dottrina della
conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, Rec. di COLINI (si veda), ROVERE (si veda) Mamiani,
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e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino, RIF,
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esterna - la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani BRUNO (si veda) Nolani
Opera inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario
dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di TOCCO (si
veda), Acc. Lincei. Rendiconti, - F.
Cicchitti-Suriani, Della dottrina degl’affetti e delle passioni secondo la
filosofia del PORTICO: saggio storico di psicologia morale con prefazione
di F., Aternina, Aquila,Intorno al pitagorismo
de CROTONE in Italia, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Roma, Il problema della
coscienza divina in ‘Esperienza e metafisica’ di SPAVENTA (si veda), RIF, Rec.
di LESSONA (si veda), Elementi di Morale Sociale ad uso dei licei e degl’istituti
Tecnici, compilati secondo gl’ultimi programmi, RIF, L'accademia platonica di
Firenze e le sue vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, Acc. Lincei. Rendiconti, Della
conoscenza sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, Alcune
considerazioni sulle categorie, Acc. Lincei. Rendiconti, Il Teeteto, tradotto da BONGHI (si veda),
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di ZUCCANTE (si veda), Saggi filosofici, Renan, Acc. Lincei. Rendiconti, Taine,
Acc. Lincei. Rendiconti, La percezione intellettiva e il concetto, Taine,
RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia della
filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni,
Bocca, Roma; Estr.: Balbi, Roma; “Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica
degl’italiani, NA, Estr.: Forzani, Roma, Rec. di MALTESE (si veda) Socialismo, RIF,
“L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici” RIF; Cenno
su FERRARI (si veda) e le sue dottrine, in FERRARI (si veda), La mente di G. ROMAGNOSI
(si veda), Milanese, Milano, a cur. di Campa, La Voce, Firenze. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love by
Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by
Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated
as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t care.
As for Carmide and Licide, Ferri
dedicates little attention. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio –
psicologia filosofica dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con
relazione alla percezione dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito
di Platone nella traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R.
Bonghi” RIF, il dialogo dell’amore di
Platone come sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono
quattro: Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ferri” – The Swimming-Pool Library. Luigi Ferri. Ferri.
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