Luigi Speranza -- Grice e Geymonat: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del temperamento romano – filosofia
torinese – la scuola di Torino -- filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo
piemontese. Filosofo Italiano. Grice: “I like Geymonat – he calls himself a
neo-rationalist, like Canova – whereas I go for the real thing! Plato!” –
Grice: “Geymonat has explored the origin of infinity in the triangle of
Tartaglia.” – Grice: “Geymonat has explored what he calls ‘the images of man’ –
Grice: “Geymonat has a curious essay on darkness (‘tenebre’) – and a longer
essay on ‘reason.’ – Grice: “Like me, Geymonat has explored the philosophy of
probability – from Latin ‘probare’ – and he was an anti-fascista1” –Figlio di Giovanni
Battista, un geometra liberale di origini valdesi. Frequenta la scuola privata del Divin Cuore e poi
l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale
fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in
linea con l'ortodossia e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour.
Si laurea a Torino con “Il problema della conoscenza nel positivism” sotto
Pastore e sotto Fubini lcon “Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti
intere”. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e logica, tenute
separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella
gentiliana che, con la sua riforma della scuola, privilegia la cultura
umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza,
creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di un “pseudo-concetto”, mostra
l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da G. e la
sua estraneità al provincialismo culturale italiano. Un rifiuto che egli estese
anche alla politica del regime allora dominante. Assistente di Analisi
algebrica nell'Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al
partito fascistacio è di prendere la cosiddetta tessera del pane vedendosi così
preclusa la possibilità di una carrier statale. Si avvicinò altresì a Martinetti, non tanto per comunanza di
prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno
civile e morale, essendo stato tra i pochissimi filosofi a rifiutare il
giuramento di fedeltà al Fascismo. Come Ayer. Anda in Vienna per approfondire
la dottrina del Circolo di Schlick, e
pubblica “La filosofia della natura”
e “Nuovi indirizzi della filosofia.” e iscritto clandestinamente
al Partito comunista, si guadagna da vivere insegnando matematica nella scuola
Leopardi di Torino, dove Pavese insegna italiano. Con il nome di battaglia Luca
fu partigiano in Piemonte nella Brigata Pisacane e, dopo la Liberazione,
assessore comunista al Comune di Torino, quando, vinto il concorso a cattedra,
e nominato professore a Cagliari. Insegna a Pavia e Milano. Fonda il Centro di
studi metodologici a Torino. Ha uno stile di pensiero razionalista ateo. La sua
filosofia può essere inquadrata nel filone del neo-positivismo (ha diversi contatti
con il Circolo di Vienna), da lui ri-elaborato nell'ottica del marxismo! Nell'evoluzione
della sua filosofia, si possono tracciare due fasi. Nella prima fase, approfondisce
temi tipici del positivismo. Nella seconda fase, si sforza di analizzare la
realtà oggettiva ed a questo scopo utilizza concetti caratteristici del materialismo
dialettico. Interpreta la concezione della matematica di GALILEI (si
veda) come un strumento d'interpretazione della realtà. Approfondisce alcuni
temi teorici come quello della causalità, il fondamento della probabilità, il
continuo, l’intuizione, centrali nell'epistemologia. Politicamente fu vicino
inizialmente al Partito Comunista Italiano, da cui si allontana poi per aderire
a Democrazia Proletaria e successivamente ai movimenti che diedero vita al
Partito della Rifondazione Comunista. Nel corso di questo viaggio politico ha partecipato
alla Fondazione, a Roma, dell'Associazione Culturale Marxista e collabora nella
rivista Marxismo Oggi (Teti). Ha compiuto alcune ricerche sul teorema di
Picard e sul teorema di Carathéodory per le funzioni armoniche. In
“Neo-razionalismo”, spiega che un'indagine efficace della realtà, e svolta
solamente tramite lo strumento della ragione. Per fare questo, propose di scarnificare la
razionalità di ogni verità e da ogni sistema di riferimento assoluti. Il neoilluminismo,
capeggiato da Abbagnano e coinvolgente numerosi altri filosofi italiani, rappresentò
per G. il suo corso del neo-razionalismo, che avrebbe dovuto accogliere i
metodi e i risultati della scienza, perseguendo un duplice obiettivo:
ummanizare la scienza e concretizzare la filosofia – e l'utilizare un'impostazione
storicistica al posto di quella metafisica. Per storicismo, intese l'analisi
storica della struttura di un modello scientifico. Pur condividendo inizialmente
l'anti-idealismo di Popper, sostenne che vi era la più manifesta e totale
incompatibilità tra il marxismo e l'epistemologia popperiana. Alle sue accuse
di essere il filosofo ufficiale dell'anti-comunismo, reo di difendere i regimi liberali,
Popper gli rispose: “I nostri intellettuali dicono che vivono in un inferno,
mentre di fatto questo mondo non è stato, fin da Babilonia, mai così vicino al
paradiso come lo è ora il mondo occidentale. Per contrasto, in Unione
Sovietica, si dice alla gente che vivono in paradiso, e tanti lo credono e sono
moderatamente contenti; è questo, credo, l'unico aspetto per il quale la società
sovietica è migliore della non-sovietica. Si deve a G. l'introduzione in Italia
di Kuhn. Altre opera: “Il problema della conoscenza nel positivismo” (Torino,
Bocca); La nuova filosofia della natura in Germania, Torino, Bocca, “Per un
nuovo razionalismo, Torino, Chiantore, Neo-razionalismo. Torino, Einaudi, Galilei,
Collana Piccola Biblioteca Scientifica, Torino, Einaudi, La filosofia della
scienza, Feltrinelli, Milano); Filosofia nella storia della civiltà, con Renato
Tisato, Garzanti, Milano, Storia della filosofia, Garzanti, Milano, Il materialismo
dialettico, Editori Riuniti, Roma, Scienza e realismo, Feltrinelli, Milano); “Paradossi
e rivoluzioni. scienza e politica, Giorello e Mondadori, Il Saggiatore, Milano,
La probabilita, con Feltrinelli, Milano, Kuhn e Popper, Dedalo, Bari. Lineamenti
di filosofia della scienza, Mondadori, Milan); “Le ragioni della scienza” (Laterza,
Roma-Bari, La libertà, Rusconi, Milano, La società come milizia, Minazzi, I
sentimenti, Rusconi, Milano, Filosofia, scienza e verità, Rusconi, Milano, La
Vienna dei paradossi. Controversie filosofiche e scientifiche nel Wiener Kreis,
Mario Quaranta, Il poligrafo, Padova, Dialoghi sulla pace e la libertà, Cuen,
Napoli, La ragione, con Minazzi e Sini, Piemme, Casale Monferrato, Attualità
del Marxismo. Quaderni di Città Futura, Ancona); “Storia e filosofia
dell'analisi infinitesimale, Boringhieri, Torino. Regny, Mangione: breve storia
di una lunga amicizia», «AppendiceL'Associazone Culturale Marxista», in
Attualità del Marxismo. Filosofia e dintorni, Intellettuali non fate ideologia.
L'Occidente non è quest'inferno, Antiseri, articolo su Il Mattino di Padova, lincei.
G. Mario Quaranta, G. filosofo della contraddizione, Sapere, Padova, Mangione,
Scienza e filosofia. Saggi in onore di G., Garzanti, Milano, Pasini, Rolando,
Il neo-illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Minazzi,
Scienza e filosofia in Italia negli anni Trenta: il contributo di Persico, Abbagnano
e G. . Bobbio, Ricordo, "Rivista di Filosofia" Merlo, Consuntivo
storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf
(Cnr), Genova, Minazzi, “La passione
della ragione” Thélema Edizioni Milano-Mendrisio, Mario Quaranta, Una ragione
inquieta, Seam, Formello, Minazzi, Filosofia, scienza e vita civile inGeymonat,
La Città del Sole, Napoli, Minazzi, Contestare e creare. La lezione
epistemologico-civile di G., La Città del Sole, Napoli, Silvio Paolini Merlo,
Nuove prospettive sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, in
Bollettino della Società Filosofica Italiana», Maiorca,Scritti sardi. Saggi,
Cagliari, Minazzi,G., un Maestro del Novecento. Il filosofo, Edizioni Unicopli,
Milano, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul
pensiero italiano del Novecento, il Mulino, Bologna, Minazzi, G. epistemologo,
Mimesis Edizioni, Milano Positivismo logico Circolo di Vienna Scuola di Milano.
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. G., in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Massimo Mugnai, Scienza e filosofia: G. e Preti, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,.Articoli della stampa italiana su L. G,, dal Sito Italiano per la
Filosofia L'eredità intellettuale di G. (Preve). La setta di Crotone
rappresenta un movimento filosofico di livello scientifico molto superiore a
quello delli precedenti. Per la verità non tutti lo storici della filosofia
italiana sono d'accordosu ciò. Taluni sostengono infatti che Pitagora (il quale
non lascia nulla di scritto) sia stato il fondatore di una setta analoga
all'orfismo, che non di un vero e proprio
movimento di pensiero
scientifico-filosofico come il di Austin. Essi affermano che soltanto
mezzo secolo dopo la morte del fondatore la setta comincia ad interssarsi di
filosofia. Oggi però si ritiene dai più che l'interpretazione ora accennata sia
eccessivamente critica, e si preferisce
ritornare all'interpretazione tradizionale, che attribuiva proprio a Pitagora
la maggior parte delle concezioni. La
ricchezza del suo sapere ci è del resto attestata d’Eraclito, che polemicamente
lo define polymathés, erudito. Anche noi
dunque ci atterremo alla tradizione, pur riservandoci di trattare la reazione
dei Crotonesi ai Veliani rappresentata
da Filolao. Pitagora si trasfere nella “Magna Grecia”, e precisamente a Crotona
in Calabria, dove e fiorita un’
importante scuola di filosofi medici medic. A Crotona fonda una setta che ha un notevole peso, essendo legata al
partito aristocratico. La setta e
organizzata sulla base di regole rigorosi che esigeno dagli scolari un
lungo periodo di tirocinio prima di essere ammessi ai segreti. Su questa base
si crea la divisione fra acusmatici od ascoltatori e matematici, partecipi
degl’insegnamenti che in seguito si accusarono a vicenda di non essere i veri
depositari delle dottrine del maestro. L'insegnamento di Pitagora e circondato
da grande rispetto, e si ripone in lui una fiducia illimitata, tanto che a lui
si rifere l’”ipse dixit” (autòs efa).
Una sommossa provocata dal partito della plebe caccia i filosofi da Crotona.
Pitagora fugge a Metaponto e muore.
Sul grande filosofo sorsero
numerose leggende, alcune delle quali
note ad Aristotele. Queste accentuano il carattere religioso della sua figura,
facendone poco meno che un semi-dio, e sono particolarmente care a quella filosofia
misticheggiante, attraverso Numenio e Giamblico. La realtà accertata dagli
storici è che, dopo l'espulsione da Crotona, si organizzarono varie sette.
Esse hanno lunga vita
e danno notevoli sviluppi. Le più
celebri sono la scuola di
Filolao e quella d’Archita, che
fiore a Taranto, dominando anche
la città. Di Filolao ci sono pervenuti
frammenti, che dopo lunghe discussioni
vengono oggi ritenuti autentici, e che
costituiscono la base per ricostruire la dottrina
di Pitagora. Archita, uomo
di straordinaria va- stità di
interessi, fu legato da amicizia con Platone. Platone ricorda Archita
affettuosamente nella VII Epistola, ed esercita per suo tramite gran influenza
sull'Accademia. Né l'influsso della
setta di Crotona si limita alla filosofia ed alla scienza, ma si risente
fortemente in tutte le manifestazioni della filosofia. All'acustica si possono far risalire molte
delle teorie musicali tramandateci dagli Elementi armonici d’Aristosseno ed al
pitagorismo esplicitamente si richiama
Policleto, amico di
Fidia, che nel
Canon sviluppa una teoria
artistica basata sulla concezione del
del corpo bello come giusta proporzione delle parti. Legato a Crotona e pure Ione
di Chio. Questa dottrina si
impernia su di un pensiero fondamentale.
El numero e il principio di tutto. Tutte le cose che si conoscono hanno numero.
Senza numero nulla e possibile pensare, né conoscere. Dovremo ora cercare,
innanzi tutto, di comprendere il significato filosofico di questo pensiero. Poi
di svilupparne le conseguenze matematiche e fisiche. Alla
fine del capitolo
accenneremo al valore
intrinseco della teoria,
e al significato
della crisi scientifica
formatasi nella scuola
prima ancora della
cacciata di Pitagora da Crotona. Pitagora prende forse le mosse
dalle ricerche ioniche
sul principio e
in particolare dalla
teoria dell'àpeiron d’Anassimandro. Una più acuta
sensibilità ai problemi
etico-religiosi (quali l'opposizione
del bene e
del male nel
mondo, la vicenda della colpa e del
riscatto), stimolata probabilmente
dall'incontro in Italia con i
culti misterici, e
d'altro canto una
maggiore attenzione per le leggi
formali e modali
della realtà, cui
diedero impulso le
sue prime ricerche
acustiche, dovettero però
fargli apparire inadeguato
il principio unico
dei naturalisti ionici.
Per rendere conto
di questi più
complessi problerill, Pitagora
sdoppia il principio in due opposti. Da una parte il principio del
limitato, del finito, dell'unitario, che rappresenta l'ordine, il cosmo,
il bene; dall'altra il
principio dell'il- limitato, dell'infinito, che raffigura il disordine, il caos, il male. La sua grande intuizione consiste nel vedere
nel numerola chiave e la struttura ultima di un assetto della realtà.
Col termine “numero” i
crotonesi intendeno soltanto il numero
intero. Non fanno
particolari indagini sulla natura
di queste unità, limitandosi a
rappresentarle con un punto,
circondato da uno spazio vuoto. Proprio questa rappresentazione
spaziale facilita il passaggio,
caratteristicamente arcaico, dalla
concezione del numero
come chiave e
rapporto alla sua
concezione come costituente
fisico elementare delle
cose. Il problema
essenziale diventa allora,
per i crotonesi,
quello di cogliere
il modo con
cui dalla collezione
di più unità
si generano tutti
gl’esseri. Le leggi
della formazione dei
numeri venne considerate
come leggi della
formazione delle cose,
e. si ritene
di poter trovare
in esse la
vera ragione esplicativa
del mondo fisico
e morale. La
più importante di
tali leggi e costituita
- secondo i crotonesi dall'opposta struttura
dei numeri dispari
e di quelli pari. L'antitesi dispari-pari
venne cosi assunta a
principio di una
serie di altre
opposizioni, che spezzano
il mondo in
due: limitato-illimitato (opposizione
che e stata il
problema iniziale, ma puo
ora venir spiegata
sulla base dell 'antitesi precedente);
uno-molti; destra-sinistra;
luce-tenebre; buono-cattivo; immobile-mobile; retto-curvo;
quadrato-rettangolo. Alcune di queste opposizioni hanno palesemente un carattere
fisico (quella per
esempio di luce e
tenebre; da essa
scaturiva la raffigurazione del
cosmo come costituito da un fuoco centrale, immerso
in un'estensione illimitata
di nebbia); altre
invece un preciso
carattere morale. Questa
presenza di significati
multipli finiva con
l'infondere ai numeri
in generale, e
a certuni di essi in
particolare, un vero e proprio valore
magico-simbolico. Così “V” veniva
assunto a rappresentare il matrimonio, essendo
la somma del primo numero dispari,
il III, con il
primo numero pari,
il II (l'I viene considerato
come parìmpari ervendo a generare
sia i numeri
pari che i
dispari; il IV
e il IX
venivano presi come
simboli della giustizia;
il VII dell'opportunità; e così via.
Di derivazione crotonesi
è un trattato
di medicina intitolato Sul numero
sette, Peri hebdomadon, che cerca
appunto nei rapporti
settenari la spiegazione
della struttura dell'organismo e delle
sue affezioni. Qualcuna
di queste concezioni
è pervenuta fino
a noi, onde
si attribuisce per
esempio a VII un
significato speciale etico
e fisico (VII sono
i vizi capitali, sette
le opere di
misericordia, in varie
malattie si ha la
settima, ecc.). La
purificazione religiosa, che
forma almeno in
un primo tempo
il fine principale
dell'insegnamento
pitagorico, era cercata
essa pure attraverso
la contemplazione dei
numeri. Questa venne
pertanto a possedere
un doppio aspetto:
filosofico e mistico.
La peculiare nobiltà
dell'ascesi pitagorica consisteva
appunto nel fatto
che a ogni
sua tappa doveva
corrispondere la conquista
di un più
alto gradino del
sapere. Il carattere
mistico delle ricerche
matematiche costituì per
molto tempo un
notevole impulso al
loro sviluppo, e
insieme un impedimento
al loro caratterizzarsi come
ricerche puramente scientifiche.
In particolare, la
concezione ora spiegata
spinse i pitagorici
a studiare la
geometria per via
aritmetica. Ne sorse
una disciplina che,
per il suo
doppio carattere, e
chiamata aritmo-geometria. Essa
e fondata sulla
convinzione che da
un lato. fosse
possibile ricavare le
principali caratteristiche delle
figure a partire
dal numero dei
punti (supposto, in
ogni caso, finito)
che le compongono,
e dall'altro è possibile-
viceversa- ricorrere alla forma
delle figure per
illustrare le più
recondite proprietà dei
numeri. Di qui
la distinzione dei
numeri in vari
tipi. Per esempio: triangolari
poligonali quadrati c~
bici. Al numero triangolare
X venne attribuita un'importanza
speciale, come somma
dei primi quattro
numeri naturali. I dispari venneno chiamati
gnomoni, per la
possibilità di rappresentarli informa
di gnomone, cioè squadr). Questa rappresentazione permise
di scoprire che
ogni numero dispari
è la differenza
di due quadrati; per
esempio: • • • • • • • • • • • •
• • • • 7 = 42-32 Varie testimonianze tra
cui quella di Proclo ci dicono che
Pitagora e il
primo a comprendere
la validità generale
del teorema che
ancor oggi porta
il suo nome,
e che, per
taluni casi particolari
(per esempio quando i
cateti valgono III e IV, e
l'ipotenusa V), è noto
già prima di
lui. Non sappiamo
però quale ragionamento
servisse a Pitagora
per provare l'importante
teorema. Certamente la dimostrazione
riferita negl’Elementi”
d’Euclide non è
ideata dal filosofo di
Crotone. IV La dottrina
che i numeri
sono il principio
di tutte le
cose trova pure
conferma negli studi
d’acustica. Stando alla
più antica tradizione
dobbiamo infatti ammettere
che Pitagora riuscì
a scoprire i
principali intervalli musicali.
Sarebbe giunto a
questa notevolissima scoperta
dallo studio sperimentale
delle corde sonore,
e dalla constatazione
che nei principali
accordi il rapporto
fra le loro
lunghezze è espresso
da numeri interi
molto semplici. L'acustica venne
in tal modo a
costituire una specie
d’aritmetica applicata, come
l'astronomia costituiva una
«geometria applicata». Il
quadro delle ricerche
scientifiche risultò pertanto
suddiviso in quattro
rami fondamentali: aritmetica,
musica, geometria, astronomia. 1 L'astronomia pitagorica
- - parte dall'ammissione di un fuoco centrale
immerso in una
sconfinata nebbia di
tenebre. Intorno a
tale fuoco si
pensava ruotassero dieci
corpi (notiamo l'intervento
del numero X):
la Terra, l'Antiterra
(invisibile), la Luna,
il Sole, i
cinque pianeti allora
conosciuti, e il
cielo delle stelle
fisse. I movimenti
ciclici di questi
corpi produrrebbero - secondo
Pitagora una meravigliosa armonia, che
noi però non
riusciamo a percepire
a causa della
sua continuità. La loro
ciclicità sarebbe la
causa del ritorno
periodico di tutte
le cose. Questa
ripartizione costituisce il
lontano antecedente del
celebre quadrivio, che starà alla base dell'istruzione nelle scuole del
medioevo. successivi
l'astronomia pitagorica portò
a concezioni di
grande interesse scientifico;
degna di particolare
menzione l 'ipotesi
eliocentrica, ideata per la prima
volta da Aristarco
di Samo. Ricordiamo infine
la teoria secondo
cui tutto il
cosmo sarebbe sorto
dal fuoco centrale
e ritornato in
esso per poi
nascere un'altra volta.
Con riferimento ad
essa, i pitagorici chiamano anno
cosmico l'intervallo di
tempo impiegato dal
cosmo per nascere
e ritornare nel
fuoco. La teoria
pitagorica dell'anima, malgrado
la sua ambiguità,
ebbe notevoli riflessi
sui filosofi posteriori.
Da un lato
alcune testimonianze ci
dicono che l'anima
veniva concepita dai
pitagorici come armonia
del corpo, nel
preciso senso in
cui si parla
di ar- monia dei
suoni emessi da
uno strumento musicale.
Secondo questa interpretazione, l'anima
doveva venire necessariamente pensata
come mortale, poiché
spezzato lo strumento
- anche l'armonia viene
a cessare. D'altro
lato sappiamo però
che uno dei
cardini della filosofia
pitagorica era costituito
dalla trasmigrazione delle
anime (metempsicosi), e
questa suppone ovviamente che
l'anima non muoia
con il corpo
che la ospita.
Un frammento del
medico Alcmeone (che
visse a Crotone
e è legato
ai circoli pitagorici)
afferma che l'«
anima è immortale
per la sua somiglianza con le
cose immortali la
luna, il sole,
gli astri. Come risolvere
l'apparente contraddizione? Probabilmente
bisogna ritenere che
i pitagorici ammettessero due
specie di anime:
una costituita dal
temperamento psichi co,
legato indissolubilmente al
corpo e destinato
a morire con
esso; l'altra da un principio immortale
o anima-dèmone. In
ogni vita si
avrebbe una stretta
rispondenza tra le
due anime; questa
rispondenza verrebbe però a cessare
coll'uscita
dell'anima-dèmone dal corpo. Tale
uscita sarebbe da
lei desiderata per
raggiungere la purezza
di una vita
interamente spirituale. A tali
dottrine si ispirava
il modo di vita pitagorica, altamente
lodato da Platone
per la sua
unione di teoresi
e di ascesi;
la metempsicosi in
particolare determi- nava il
più famoso dei
divieti rituali pitagorici,
quello di mangiare
la carne di
certi animali, nei
quali potrebbe essersi
incarnata un'anima. Anche
dio veniva concepito
dai pitagorici come
anima; e precisamente
come anima del
mondo che circola continuamente
in esso e
perciò è presente in ogni luogo.
Il rapporto dio-mondo restò
tuttavia molto incerto
nella filosofia pitagorica,
sicché non possiamo
cercare in essa un vero e proprio sistema teologico. Ad
Alcmeone si deve la notevolissima
scoperta che il
centro della vita
organica e mentale
va localizzato nel
cervello. Quanto abbiamo finora
riferito basta per
farci comprendere la
complessità dell'insegnamento
pitagorico. Se in taluni
punti esso può
apparirci ingenuo, in
altri casi contraddittorio, ciò non
deve farci sottovalutare
l'importanza dei temi
ivi abbozzati, che
ricompariranno ampliati e
sviluppati nei più
diversi indirizzi filosofici
e scientifici. Notiamo,
per esempio, che l'idea
di cercare nei
numeri, cioè nella
matematica, la spiegazione
di tutti i
fenomeni, ricomparirà potenziata
nell'epoca moderna e
formerà per molto
tempo la spina
dorsale di tutta la
ricerca scientifica. Vi è chi
sostiene, esagerando forse
le cose, che
le più celebri
teorie della fisica-matematica moderna
(per esempio la
teoria della relatività
generale) non costituirebbero altro
che il proseguimento
del programma pitagorico. Ma, a
parte ciò, noi
troviamo nella matematica
di Pitagora un
carattere speciale che
la differenzia notevolmente
da molte altre
concezioni posteriori, pur
esse accentratesi sulla
ricerca matematica. Il
carattere cui voglio
riferirmi, suol venire indicato
col termine «discontinuità». Si
dice che la
scienza di Pi- tagora
è una matematica
del discontinuo, perché
essa si fonda
esclusivamente sui numeri
interi e su
ciò che può
venire espresso con
i numeri interi
(per esempio sulle
frazioni ordinarie, e non, invece,
sui numeri irrazionali). Secondo essa,
l'accrescimento di una
grandezza procede per salti
discontinui, essendo impossibile
aggiungere qualcosa che
sia minore dell'unità.
Taluno giunge a
riconoscere nelle teorie
quantistiche moderne una sopravvivenza dell'antica eredità pitagorica
sotto forma dì
concezione discontinua dell'energia. Lasciando da
parte le reminiscenze
pitagoriche presenti nella
fisica moderna, va
detto però ben
chiaramente che l'aritmo-geometria di
Pitagora non ebbe
vita lunga nella
scienza greca. La
sua fine fu
provocata, per l'appunto,
dalla crisi di
quell'idea di discontinuità
che costituiva come
s'è detto uno
dei suoi cardini
fondamentali. La grande
crisi fu causata
dalla scoperta che le
figure geometriche sono
co- stituite non da
un numero finito,
ma da una
infinità di punti. Le teorie moderne, che
tornano ad un'idea
rinnovata di discontinuità, sosterranno
implicitamente che la
geometria classica - proprio
perché parla di
una infinità di
punti - non trova
esatta applicazione nella
realtà. Il primo fatto
geometrico che costrinse i
pitagorici a riconoscere
che le figure
sono costituite da infiniti
punti, è proprio
connesso a quel
medesimoteorema che porta
il nome di
Pitagora. Ed infatti,
applicando detto teorema
ad uno dei
due triangoli isosceli
in cui è
diviso un quadrato,
si dimostra facilmente
che il lato
e la diagonale
di tale quadrato
non possono avere
alcun sottomultiplo comune,
cioè sono incommensurabili. Orbene
proviamo a supporre
che un segmento
sia generato dall'accostamento di una serie
finita di punti
(piccoli ma non
nulli, e tutti
eguali fra loro,
come allora si
immagina): ne se- guirebbe
che uno qualunque
di questi punti
risulterebbe contenuto un
numero intero, e
finito, di volte
(per esempio m
volte) nel lato
e un altro
numero in- tero, e finito,
di volte (per
esempio n volte)
nella diagonale. Lato
e diagonale avreb- bero
dunque un sottomultiplo
comune, e non
sarebbero come si
era dimostrato - incommensurabili. La
loro incommensurabilità esige
pertanto che essi sono costituiti
da una infinità
di punti. La leggenda
racconta che il
fatto scandaloso, ora
riferito, è gelosamente
custodito per vari
anni tra i
segreti più pericolosi
della setta. Esso è
rivelato fuori della
scuola pitagorica d’IPPASO (si veda) di Metaponto, una
delle figure più
notevoli dell'antico pitagorismo.
Pastosi a capo
degli acusmatici per
la moderna irre- quietezza del
suo ingegno che
mal tollerava il
dogmatismo della setta, egli
sarebbe stato vicino
ad Eraclito per
l'idea che il
fuoco è il
principio di tutte
le cose, e
si sarebbe schierato
dalla parte dei
democratici nei moti
che condussero alla
cacciata dei pitagorici
da Crotone. Per avere
rivelato la natura
delle grandezze incommensurabili, Ippaso è cacciato ignominiosamente dalla
scuola, ed a
lui anzi i
pitagorici hanno eretto
una tomba come
ad un morto.
Secondo la tradizione
su di lui è caduta
anche l'ira di
Giove, il quale
lo fa perire
in un naufragio;
la sua triste
morte non impede
tuttavia che lo
scandalo si diffondesse
rapidamente tra i
cultori di matematica
e finisse per
scuotere dalle fondamenta
l'intera concezione pitagorica. Questa crisi verrà resa
ancor più acuta dalla
scoperta delle antinomie
di Zenone sul
movimento e sulla divisibilità. Per uscire
da essa, i
maggiori scienziati greci
non troveranno altra
via se non
quella di scindere
completamente la geometria
dall'aritmetica,
interpretando la prima
come studio del
continuo e la
seconda come studio
del discontinuo. Il
rapporto tra continuo
e discontinuo resterà,
per tutta la
storia del pensiero
umano, un problema
molto difficile e
molto dibattuto; verrà,
anzi, considerato come
uno dei più
astrusi labirinti della
ragione. L'averne intuito
l'esistenza e la
difficoltà va dunque
considerato come un
merito, e molto
notevole, dello spirito
greco. Il primo
passo della ragione
umana si compie,
in ogni ricerca,
col porre a
nudo le difficoltà
ivi esistenti, per
gravi che esse
siano, non col
nasconderle. Solo chi
le conosce, non
chi le ignora,
può sentirsi spinto
a cercare i
mezzi indispensabili per
risolverle o, comunque,
dominarle; e questa
ricerca è la
molla più decisiva
del progresso scientifico. Oggi si
riconosce quale autentico fondatore della
scuola eleatica il
grande Parmenide, nato a
VELIA (si veda). Parmenide scrive
un poema allegorico, Sulla natura, Perì
physeos, di cui ci
sono pervenuti alcuni interessantissimi frammenti
che, integrati da
varie testimonianze, ci
permettono di ricostruire
con sufficiente sicurezza
il suo pensiero.
Data la vicinanza
di VELIA (si veda) ai
maggiori centri del
pitagorismo, è indubitato che
Parmenide subì, in
forma più o
meno diretta, l'influenza
di questo indirizzo
di pensiero. Taluni storici,
accentuando questo legame,
giunsero a presentarcelo
come un pitagorico,
distaccatosi dalla scuola di
provenienza per divergenze di
ordine filosofico. Tale
interpretazione ci costringerebbe a vedere
in gran parte
degli argomenti eleatici,
come ad esempio
nelle aporie di
Zenone, un intento
polemico soprattutto antipitagorico. La gravità
di questa conseguenza
lascia tuttavia perplessi
molti autorevoli critici.
Si ritiene oggi
piuttosto che la
critica di Parmenide è
rivolta in generale
contro tutte le
filosofie ioniche ed
italiche del molteplice
e del divenire, di
cui egli rilevava
acutamente la contraddittorietà: nel
tentativo di spiegare razionalmente
la realtà, e
di modellare la
ragione sui dati
dell'esperienza, tali filosofie
dovevano ammettere una
serie di opposizioni
e di alterità
di cui però
si assumeva la
coesi- stenza. Ora - osserva Parmenide - se
di una qualsiasi
cosa si dice o
si pensa
che è, di
ciò che è
diverso od opposto
ad essa si
dovrà dire o
pensare che non
è: e com'è
possibile riconoscere realtà
alcuna a ciò
che non è,
se non si
vogliono violare le
leggi immutabili del
discorso e del
pensiero? La grandezza
della filosofia di
Parmenide, quella grandezza
che costituì un
fecondo punto di
partenza per il
pensiero successivo e
anche un difficile
problema la cui
soluzione era tuttavia
indispensabile per poter
progredire, sta proprio
qui: nell'aver cioè
individuato nella sua
radice filosofica l'ambiguità
della speculazione ionica
edita- lica, e nell'aver posto
in primo piano
il problema della verità
del linguaggio e
del pensiero, il
problema della via,
cioè del metodo,
che linguaggio e pensiero dovevano
percorrere per giungere
alla realtà. Il
metodo vero costruisce
conoscitivamente la realtà,
l'essere, perché elimina
gradualmente dal pensiero
tutti i contrassegni di
irrealtà, di non-essere,
che vi si
erano infiltrati: la
molteplicità nello spazio,
intesa come differenziazione di
parti, la molteplicità nel
tempo, intesa come
differenziazione di momenti,
il vuoto inteso
come assenza di
realtà, la generazione e la distruzione intese come
limiti dell'essere. Partito
dal riconoscimento logico
e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso,
Parmenide giunge al
culmine della via a dichiarare
l'impensabilità,
l'inesprimibilità e l'inesistenza
del non-essere, e la parimenti
assoluta esistenza dell'essere,
che condiziona la
possibilità di pensare
e di dire
il vero. All'essere non
potrà venir riferito sempre per
l'opposizione or ora
accennata alcun attributo,
che possa in
qualche modo diminuirne
la positività, assimilandolo
al non-essere. Ci
si dovrà limitare
a dire che
esso è uno,
invariabile, immobile, eterno.
Qualche critico moderno
però (come Untersteiner) ha
ritenuto che Parmenide
avesse concepito l'essere
come totalità e non come unità.
L'erronea interpretazione del suo
pensiero sarebbe dovuta
alla falsa testimonianza di Teofrasto
che attribuisce a Parmenide
il sillogismo. Quello che è
oltre l'essere non
esiste; quello che
non esiste è
nulla; dunque l'essere
è uno. L'attributo dell'unità,
con cui polemizzò
Aristotele, risalirebbe solo
a Melisso. Come
possiamo conciliare la
concezione parmenidea dell'essere
col fatto incontrovertibile che
l'esperienza ci presenta ad ogni piè
sospinto degli esseri
molteplici, variabili, temporanei?
Di fronte a
questo stato di
cose risponde Parmenide
non vi è
altro da fare
che respingere la
nostra spontanea fiducia
nell'esperienza,
riconoscendo che essa
costituisce per l'uomo una
via di conoscenza
fallace e illusoria. Al mondo
dell'esperienza è appunto
dedicata la seconda
parte del poema
di Parmenide. Confutate le opinioni dei
mortali, quali si sono
espresse nelle precedenti cosmologie naturalistiche basate
sul divenire, Parmenide
non rinuncia tuttavia
a costruire una
propria spiegazione di
questo mondo, di
cui aveva di- chiarato
la radicale inconsistenza
di fronte all'assoluto
essere. Molto si è
discusso fra gli
studiosi sul significato
da attribuire a questo
sconcertante aspetto del
pensiero parmenideo: fra
le più recenti,
le due posizioni
estreme sono quella
di Raven, secondo cui
l'eleata, impegnato nella
polemica contro l'indebita
confu- sione di razionale
e di empirico tipica
dei suoi predecessori,
avrebbe voluto costrui- re
una cosmologia a
base puramente empirica,
da affiancare alla
dottrina logico- razionale dell'essere
in modo da
isolare ancor più
chiaramente i due
momenti; e quella
dell'Untersteiner, che ritiene
che il mondo
dell'essere e il
mondo del- l'esperienza siano
unificati nel pensiero
di Parmenide dal
medesimo metodo razionale,
in grado di
individuare il fondamento
di realtà presente
anche nel se- condo:
una realtà, tuttavia, che
si differenzia da
quella assoluta in
quanto immersa nel
tempo, e che
ne costituisce perciò
soltanto una immagine.
In ogni caso
se ne può
concludere che per
Parmenide solo la
ragione è un
mezzo di conoscenza
veramente efficace; solo
essa, rompendo la
crosta delle apparenze,
può farci cogliere
l'unità profonda del
reale. L'opposizione tra razionalismo ed
empirismo, che tanti
sviluppi avrà nella
storia della filosofia,
trova proprio qui la sua
prima radice. L'essere
di Parmenide è
stato interpretato da
taluni in senso
idealistico, da talaltri
in senso materialistico. Enttrambe
queste interpretazioni svisano,
però, il pensiero
del grande eleata, non tenendo
conto che esso antecede,
in realtà, ogni
consapevole distinzione tra idealismo
e materialismo. L'affermazione di Parmenide che
più si presta
ad una interpretazione materialistica è
quella che ci
presenta l'essere come
sferico (cioè come
una sfera piena). Evidentemente Parmenide pensa alla
sfera, perché la
superficie sferica non
è limitata da
alcun perimetro né
interrotta da alcuno
spigolo. Non si
può tuttavia negare
che la sfericità
ora accennata vada
accolta con la
massima cautela; se
infatti la interpretassimo alla
lettera, cadremmo in
contraddizione con tutto
l'insegnamento di Parmenide,
perché siamo costretti
ad ammettere l'esistenza
di un non-essere
(o vuoto), che
è al di là
dell'essere sferico, e lo
limita. Essa va
intesa invece come identità
e assolutezza dell'essere lungo
tutte le direzioni;
come è stato
recentemente osservato, la sfera
di Parmenide è
più simile allo
spazio curvo einsteiniano
che al solido
euclideo che siamo
portati a raffigurarci.
L'interpretazione
idealistica è d'altra
parte esclusa perché
se il pensiero
scopre l'essere, certamente
non lo crea;
anzi è piuttosto
l'esistenza dell'essere a
rappresentare la possibilità
e la condizione
del pensiero, che
in esso culmina
e con esso
deve identificarsi. Parmenide ha
due grandi discepoli:
Zenone e Melisso. Il contributo
da essi arrecato
all'affinamento del pensiero del
maestro assicura loro
un posto assai
ragguardevole nella storia
della filosofia. Entrambi
si adoperarono a difenderne le
tesi sia pure
svolgendo in direzioni
opposte la tensione
che vi era
implicita: Zenone cioè
approfondendo la problematica
dellogos nella sua
crescente autonomia, Melisso invece
sviluppando il tema
dell'essere nella sua
assolutezza sostanziale. Zenone
di Elea e un ingegno
acuto, sottile, e vigorosamente polemico. Per
gl’argomenti ideati a
difesa dell'unità (intesa
come omogeneità e
continuità non divisibile
in parti) ed
immobilità dell'essere, e
per il suo
metodo di discussione,
Aristotele, che li discute
a lungo nella Fisica,
lo considera il fondatore
della dialettica.
L'originalità del suo metodo consiste
nell'assumere a punto
di partenza la
tesi da confutare
e nel dedurne
rigorosamente tutte le
logiche conseguenze, per
mostrarne la contraddittorietà e
di conseguenza l'assurdità
della tesi. Si occupa
di politica e contribue
notevolmente al buon
governo di Elea.
Muore con grande
fierezza per aver cospirato
contro il tiranno
della città (Nearco
o Diomedonte). Sullà
sua fine si
tramandano vari particolari
che ne confermano
l'eccezionale coraggio. I celebri
argomenti di Zenone
a difesa della filosofia
di Parmenide di VELIA (si veda) mirano
a provarci che,
se la negazione del
movimento e della molteplicità
può a prima vista
apparire assurda, l'ammissione
di essi conduce
tuttavia ad assurdità
ancor più gravi,
nascoste, ma non
risolte, dal linguaggio
ordinario. Il perno di
tali argomenti consiste
nella dimostrazione che,
sia nella nozione
di movimento, sia
in quella di
pluralità, si annida
il delicato concetto
.di infinito. Immaginiamo
che un mobile
debba spostarsi da un estremo
all'altro di un
I [Ecco, per
esempio, una versione
dei suoi ultimi
istanti. Antistene, nelle Successioni,
racconta che Zenone,
dopo aver denunziato come cospiratori gl’amici del
tiranno, è da
questi interrogato se c'è qualche altro complice. Egli rispose:
Tu, la
rovina della città. E
poi, rivolto ai
presenti, esclama: Mi
meraviglio della vostra
viltà, se siete
servi della tirannide
per timore di
questo che ora
io sopporto. Da
ultimo, mozzatasi coi
denti la lingua,
gliela sputa addosso.
I cittadini allora,
incitati da questo
esempio abbatteno il
tiranno.] dato segmento: prima
di aver percorso.
tutto il segmento,
dove averne percorso
la metà; prima
di questa, la
metà della metà,
e cosl via
all'infinito. In modo
analogo, se il
piè veloce Achille
vuole raggiungere la
lentissima tartaruga, che
lo precede di
un tratto s,
egli dovrà percorrere:
innanzi tutto quella
distanza s, poi
il tratto s'
percorso dalla tartaruga
mentre Achille percorre
s, poi il
tratto s" percorso dalla
tartaruga mentre Achille
percorre s', e
così via all'infinito.
Nell'un esempio come
nell'altro, il fatto in
apparenza semplicissimo del
movimento, si frantuma
dunque in infiniti
moti, sia pure
sempre più piccoli
ma non mai
nulli. Proprio questa loro
infinità è causa
di profonde difficoltà
concettuali, che non
possono non rendere
perplesso qualsiasi uomo
disposto al ragionamento.
Quanto all'argomentazione di
Zenone contro la molteplicità,
essa si svolgeva
così: supponiamo che
esistano due entità
A e B distinte;
per il fatto
di essere distinte,
queste due entità
devono risultare separate
da uno spazio
intermedio C. Ma C
è distinto tanto
da A quanto
da B, e quindi
esisteranno altri d).le
elementi D ed E
che separano rispettivamente C da A
e da B,
ecc. Poiché ciò
può venir ri- petuto
all'infinito, se ne
conclude che l'ammissione di
due entità distinte
conduce di necessità
all'ammissione di infinite
entità. Al fine
di porre luce
sulle difficoltà logiche
di quest'ammissione, Zenone
passa poi a dimostrare
come, partendo da
essa, si debba
giungere a negare l'esi- stenza
di qualsiasi lunghezza
finita. Ed infatti- così
ragiona se gl’elementi che
costituiscono un segmento AB
sono infiniti, o
essi sono nulli,
o non sono
nulli; nel primo
caso la lunghezza del
segmento non può
essere che nulla
(perché la somma
di infiniti zeri
è zero); nel
secondo non può
che essere infinita
(per- ché a suo
parere la somma
di infinite quantità
diverse da zero
sarebbe infinita). È ingiusto
considerare questi ragionamenti
zenoniani (e gli altri che, per
brevità, siamo costretti a tralasciare) quali
semplici sofismi o
pseudo-ragionamenti. In realtà,
essi attirano efficacemente
la nostra attenzione
su talune gravissime
difficoltà dei due
concetti di movimento
e di lunghezza,
dovute all'inevitabile in- troduzione dell'infinito, sia
allorché si scompone
un intervallo di
tempo (o il
moto attuantesi in qtJ.esto tempo),
sia allorché si
scompone un segmento.
Questi argomenti che venneno ad
aggiungersi alle difficoltà
connesse alla scoperta
delle grandezze incommensurabili - suscitarono
presso i greci
una tale diffidenza
nei confronti dell'infinito, da
persuaderli a compiere
qualunque sforzo pur
di escludere tale
concetto per lo meno
nella forma d’infinito
attuale 1 - da ogni seria costru-I Si dice che una grandezza
variabile costi- tuisce un infinito
potenziale quando, pur as- s~mendo
sempre valori finiti,
essa può crescere
al di là
~i ?gni limite;
se per esempio
immaginiamo di suddividere
un dato segmento
con successivi di- mezzamenti, il
risultato ottenuto sarà
un infinito pot~nziale
perché il numero
delle parti a
cui per- ventamo, pur
essendo in ogni
caso finito, può
crescere ad arbitrio.
Si parla invece
di infinito attuale quando ci
si riferisce ad
un ben determi- nato
insieme, effettivamente costituito
di un nume- ro
illimitato di elementi;
se per esempio
immagi- niamo di avere
scomposto un segmento
in tutti i
suoi punti, ci
troveremo di fronte
a un infinito
attuale perché non
esiste alcun numero
finito che riesca
a misurare la
totalità di questi
punti. zione scientifica. Oggi
noi abbiamo imparato,
con l'analisi infinitesimale e
con la teoria
degli insiemi, a
trattare con disinvoltura
l'infinito matematico (sia l'infinito
potenziale sia quello
attuale); proprio perciò
tuttavia ci rendiamo
conto che le
difficoltà incontrate dai
greci sono effettive,
non artificiose, e
possiamo affermare con
piena consapevolezza che
non sono certo
dovute a volgari
errori di logica,
non sono dei
sofismi nel senso
usuale del termine.
Dal punto di
vista dell'eleatismo, il
metodo scelto da Zenone per
difendere le posizioni
di Parmenide di VELIA (si veda)
pone tuttavia la
premessa di una loro crisi
e di un
loro superamento. Lo
spregiudicato uso logico-matematico che
egli faceva del
logos non si
muoveva più sulla
via di una
identificazione del logos
stesso all'essere, del
riconoscimento di una
realtà scoperta dal
pensiero ma in
cui il pensiero
doveva confondersi; Zenone
pone piuttosto le
premesse per uno
svincolamento del discorso
logico-matematico dalla realtà,
e lavorava quindi
oggettivamente alla rottura
di quella unità
discorso-pensiero-essere che caratterizzava la
vera via proposta
dal grande maestro
di VELIA (si veda). La
figura di Melisso
è assai diversa
da quella di
Zenone. Nato a
Samo quasi contemporaneamente a
Zenone, egli trascorse
tutta la vita
nella propria isola,
ove ricoprì importanti
cariche politico-militari. Basti
ricordare che fu
capo della flotta
con cui Samo sconfisse gl’ateniesi.
La sua permanenza
a Samo costituì,
in certo modo,
il ponte ideale
attraverso cui l'insegnamento eleatico
pervenne dalla Magna
Grecia nell'Asia Minore.
La lunga lotta
fra Mileto e Samo
può del resto
contribuire a spiegare
l'abbandono melisseo della
tradizione ionica; una
tradizione, tuttavia, che
continuò ad operare
indirettamente nel suo
pensiero condizionando in
senso realistico la
sua riforma dell'eleatismo, in
contrapposizione
all'indirizzo prevalentemente logico
che quest'ultimo aveva
assunto in Zenone.
Più che alla
difesa delle teorie
del maestro, Melisso si
dedica infatti al
loro sviluppo e
alla loro integrazione. Abbandonatane l'iniziale
carica logico-verbale e
metodica, Melisso si
propose una più
coerente deduzione dei
caratteri sostanziali e
antologici dell'essere. Egli è il
primo ad insistere
sul suo carattere
di unità, che
rappresentava più adeguatamente
in senso spaziale
e temporale la
totalità dell'essere parmenideo,
e soprattutto sulla
sua infinità. Melisso
afferma in proposito
che non è
possibile interpretarlo come
sferico (per le
difficoltà accennate alla
fine del paragrafo
n) bensì lo
si deve concepire
come infinito o
illimitato sia nello
spazio sia nel
tempo. Per analoghe ragioni
egli nega che
si puo ammettere,
nell'uno, una qualsiasi
sofferenza o dolore
o altra passione,
perché ciò provocherebbe
in lui una
specie di perturbazione
e quindi ne
diminuirebbe l'unità e
immobilità. Quest'ultimo
argomento sembra mostrare
come Melisso, sulla traccia della
teologia di Senofane
e della tradizione
ionica, dovette interpretare
l unico essere come
dotato di vita:
una vita, probabilmente, identica
al pensiero, secondo
l'equazione parmenidea che
abbiamo già esposto.
Secondo la tradizione,
Melisso avrebbe anche definito
l'essere come incorporeo,
il che contrasta con
la sua infinita
esten- sione spaziale e
con la negazione
eleatica del vuoto:
ciò mette a
nudo in realtà
una profonda contraddizione dell'eleatismo, che
non puo concepire
la realtà come
puramente intelligibile ed
incorporea, ma tuttavia
tentava di attribuirle
tutte le caratteristiche di
pura intelligibilità richieste
da un pensiero
filosofico ormai maturo.
L'incorporeità dell'uno melisseo
significa dunque soltanto
che esso era
invisibile e illimitato
da qualsiasi forma
o corpo tangibile;
e significa al
tempo stesso il
portare al limite
una contraddizione già
implicita in Parmenide
del cui superamento
avrebbe grandemente beneficiato
il pensiero posteriore. L'avere
reso l'essere infinito
nello spazio e nel
tempo impede a
Melisso di accettare la
bipartizione parmenidea tra
realtà atemporale e
mondo sensibile temporale:
a quest'ultimo dove
venir negata qualunque
sia pur secondaria
sussistenza, ed è infatti
alla negazione dell'esistenza e della
concepibilità delle cose
sensibili che Melisso dedica alcune
delle sue argomentazioni più
suggestive. Perché una
cosa qualsiasi, egli
dice, possa essere
conosciuta, pensata ed
esistere, essa dovrebbe
essere sempre identica
a se stessa,
assolutametnte immobile ed
immuta- bile nello spazio
e nel tempo,
giacché una minima
modificazione ne farebbe
una cosa diversa
e così via
all'infinito; dovrebbe dunque
avere le stesse
caratteristiche dell'uno. Proprio
questo argomento, che egli
intendeva come una sfida
contro il pluralismo,
è stato rovesciato
e raccolto dalla
corrente estrema del
pluralismo, quella atomistica:
si può dire
infatti che l'atomismo
attribuì alle sue
in- finite unità fisiche
proprio tutte le
caratteristiche dell'uno melisseo,
ad eccezione dell'immobilità che
non era più
necessaria dato il riconoscimento del
vuoto. Con Zenone e
con Melisso, l'arco
dell'eleatismo di VELIA (si veda) si
conclu e ci è rivelata
dai sensi; ma
il suo scopo
è quello di
rivelarci la verità
di questa molteplicità
dando conto dell'unità
che la informa
e della necessità
che la domina.
D'altra parte, la
conoscenza mitica è
penetrazione intensiva di
questa unità e necessità,
è il porsi
per così dire
dal punto di
vista dello sfero che simbolizza
l'unità da un
punto di vista
sia fisico, sia
religioso, sia morale;
è drammatica consapevolezza, tuttavia,
della necessità del
ci-do e dd
molteplice, nel loro
decadere dall'età aurea
e nel loro fatale
tornarvi. Di qui le purificazioni, di
qui la dottrina
pitagorizzante della metempsicosi
che adegua la
sorte dell'anima al
ciclo cosmico. E
la via alla
purificazione
etico-religiosa è ancora una
volta, per GIRGENTI (si veda), quella
di vivere fino
in fondo la vicenda
per il singolo uomo,
il dramma dell'uno e dei
molti, del tempo
e dell'eterno, della necessità
e del caso; la
via della purificazione
è quella che conduce
nel cuore profondo
della natura che
sola giustifica l'uomo
e il suo
destino, che sola
gli. concede conoscenza
e potenza nel
tempo, salvazione nell'eternità. Sicché
la leggenda della
morte del filosofo
sparito nella voragine
dell'Etna bene esprime,
sotto questo aspetto,
la vocazione del
pensiero empedocleo. Si
intende così anche
il senso dell'ambiguo atteggiamento
di GIRGENTI (si veda) verso
le technai, e del
suo interesse profondo
per quelle che
consentissero un immediato
controllo della natura
(la. medicina, le
tecniche manifatturiere, la
fisica; mentre la
matematica gli doveva
sembrare irrimediabilmente lontana
dal mondo della
vita e quindi
sterile). Non v'è
nulla di più
ingiusto dell'immagine trasmessaci
dalla tradizione di un GIRGENTI
(si veda) abile medico
e tecnologo che
ciarlatanescamente am-
mantava di magia
i suoi successi per
guadagnarne in prestigio.
In realtà, l'opposizione
fra technai e magia
sarebbe sembrata assurda
ai suoi occhi.
Al culmine della
sua capacità di
penetrazione e di
controllo, la techne
aderisce così compiutamente
all'intima vita del
mondo da diventarne,
dall'interno, una forza
agente: il miracolo è una possibilità
di fysis che techne
porta alla luce (non
troppo diverse dovevano
essere le vedute degli
alchimisti rinascimentali).
Techne si situa
dunque al crocevia di
conoscenza
razionale-discorsiva e conoscenza
mitico-intensiva; come il
problema del rapporto
tra uomo e
mondo, tra conoscenza
e realtà s'è tendenzialmente annullato nell'unità
della vita del cosmo, così a
techne, allorché muova
dalla consapevolezza della
struttura del reale, basta foggiarsi via via ad immagine e simiglianza
della natura per
poter penetrare sempre
più profonda- mente in
essa, per paterne
acquisire un sempre
maggiore controllo. Disvelandosi
all'osservazione dell'uomo, la
natura gli aveva
donato la conoscenza;
offrendosi ad una
techne che ne
sappia comprendere i
segreti, essa gli
concede l'accesso alla
potenza: sicché alla
fine, nel volgere
del ciclo, l
'uomo diviene profeta,
bardo, medico e
principe, pari agli
dei immortali, come GIRGENTI (si veda) proclama
di se stesso.
Data la natura
della conoscenza e delle
technai, è chiaro come
per il filosofo di 1 [V'è un
oracolo del fato,
antico decreto degli
dei, suggellato da
larghi giuramenti: se
mai alcuno dei
demoni (anime) che
ebbero in sorte
lunga vita, macchi
le sue membra
di sangue colpevole,
o seguendo la discordia empio spergiuri,
vada errando tre
volte diecimila anni
!ungi dai beati,
nascendo nel corso
del tempo sotto
tutte le forme
mortali, permutando i
penosi sentieri della
vita. Uno di essi
sono anch'io, fuggiasco
dagli dei ed
errante, perché fidai
nella folle discordia
Da quale onore
e da quale
ampiezza di felicità,
così bandito mi
aggiro fra i mortali! La
traduzione di questi
frammenti, come di
quasi tutti quelli
empedoclei citati, è di
MONDOLFO (si veda). Ma v'è la
via del ritorno:
Ma alla fine
essi vengono sulla
terra fra gli
uomini come profeti,
bardi, medici e
principi, e poi
assurgono al rango
di dei degni
d'onore. Io vengo nelle
vostre città quale
un dio eterno,
non certo mortale,
coperto d'ogni onore. Agrigento non si ponesse
il problema della
logica e del metodo. Il
metodo che egli
in effetti usa è essenzialmente analogico:
acute inferenze dall'osservazione quotidiana,
sia biologica (il
palpito del cuore,
lo sviluppo dell'uovo,
il meccani- smo della
respirazione), ia fisica
1 (la riflessione,
l'evaporazione, il ciclo stagionale),
sia tecnica (il
travaso dei liquidi,
la manifattura dei
vasi, la miscelazione
dei colori), gli
offrivano lo spunto
per audaci generalizzazioni cosmiche.
Tuttavia ai suoi
occhi queste estensioni
non avevano nulla
di arbitrario, basate
com'erano sulla certezza
di una fondamentale
unità e significatività di
tutte le manifestazioni della
natura (una certezza,
come abbiamo visto
all'inizio, a sua
volta ricavata dall'esperienza immediata,
sia sensoriale sia
psichica).Allo stesso modo, l'espressione linguistica
di GIRGENTI (si veda) non puo
che tentare di
riprodurre, grazie ad
una poesia potentemente
sintetica e visualizzante, la vita
del mondo nella
sua ricchezza; anche
qui, l'immagine poetica
(la trasvalutazione delle
radici in divinità
o in «membra»
del mondo, l'affiorare
ovunque dello psichico,
del vivente, dell'orga- nico) riposava
sulla profonda verità
che per questa
via si tentava
di rivelare. Tale
dunque la risposta
empedoclea al nodo
di problemi che
si sono esposti
in sede introduttiva:
una delle più
grandiose sintesi mai
elaborate dal pensiero
greco ed anche
una delle più
affascinanti ipotesi scientifiche.
Il rischio che GIRGENTI (si veda) si
assume è d'altro canto
totale quanto il
suo sistema: o
quest'ultimo si rivela
davvero capace di
spiegare l'intero universo,
o sarebbe crollato
tutto quanto, perché
l'agrigentino non offriva
- né, date le
sue premesse, avrebbe
potuto farlo - alcuna
regola di pensiero
e di metodo
esterna al sistema
ed atta a
modificarlo, a criticarlo,
a renderlo più
comprensivo. La potenza
del genio di GIRGENTI (si veda), in
tutta la sua
ambiguità, si esercitò
sul pensiero greco
ed oltre; e
dinanzi a lui,
osserva Bignone, le prospettive del
mondo greco si
scompongono stranamente: è già
un antico rispetto a
Tucidide, che è
di pochi lustri
più giovane di
lui; ed è, dopo
più secoli, quasi
un contemporaneo rispetto a
Platino e Porfirio.
Subito rifiutato dal
miglior pensiero filosofico-scientifico, d’Anassagora
ad Ippocrate, che
vede nel dogmatismo
dell'esperienza, nel vitalismo
mistico, nel rifiuto di
ogni strumento razionale
di tipo logico-metodologico il più mortale
pericolo per un
libero progresso della
ricerca, il sistema di GIRGENTI
(si veda) apparve tuttavia a
lungo come l'unico
che potesse garantire una
sicura base speculativa
alle scienze nascenti,
dalla biologia alla fisica,
l'unico che ne
assicurasse l'universalità. Così la
dottrina dei quattro
elementi, la concezione
organicistica dell'universo (che
presto significa anche visione
finalistica), il prevalere
della qualità sulla quantità,
finirono per trionfare della
scienza ionica e passarono
in gran parte
al platonismo del Timeo,
all'aristotelismo, alla medicina
I Il sole è
il luogo
dove l'emisfero terrestre,
che agisce come
una lente, riflette
e concentra il
fuoco emesso dall'emisfero
etereo; il mare è il
sudore della terra: sotto l'azione
del calore; la
terra stessa è
stata disseccata dal
calore al pari
di un vaso
d'argilla; e così
via. siciliana di Filistione. Tramite questi
canali, e sia pure
con aggiustamenti progressivi,
tali vedute percorsero
un lunghissimo cammino,
fino ad affacciarsi
al rinascimento e alle soglie
dell'età moderna. Qui tornarono
a scontrarsi con il
meccanicismo di tipo
democriteo, e risultarono
questa volta soccombenti
senza però lasciar
del tutto il passo.
Poco sappiamo della
vita di Filolao:
nato a Crotone
attorno alla metà
del v secolo,
e ivi formatosi in
ambiente pitagorico, egli si
trasferì a Tebe
dove lo troviamo a
capo di una
fiorente scuola pitagorica,
in rapporto con il
gruppo
socratico-platonico ad Atene.
Questa presenza di
Filolao a Tebe, congiuntamente all'esilio
peloponnesiaco di Empedocle,
ci rivela un
rifluire della filosofia
italica nella madrepatria
greca, localizzato non a
caso nelle poleis che
combattevano Atene nella
guerra del Peloponneso:
il pensiero ionico-attico
si trovava così
in qualche modo
circondato non meno
di quanto lo
fosse, in senso
politico-militare, la sua
metropoli. I frammenti di
Filolao sono stati
a lungo contestati
per vari motivi
filologici, alla cui
base stava tuttavia
la constatazione che essi
anticipavano un importante
aspetto del platonismo,
e dunque la
preoccupazione che questo
potesse risultarne sminuito
nella sua originalità.
L'autenticità dei frammenti
è stata per
fortuna rivendicata da MONDOLFO
(si veda) e da
Timpanaro- Cardini; ed è chiaro,
secondo una più
corretta visione storiografica, che
il genio di Platone
risulta tutt'altro che
diminuito dalla consapevolezza che
egli sa fondere in
una sintesi critica
gran parte dei
risultati del pensiero
filosofico-scientifico, pur conferendo
ad essi la
propria originalissima impronta.
D'altra parte, già
questa considerazione impone
di dare alla figura
di Filolao il
posto che gli
compete fra i
protagonisti della filosofia preplatonica.
Il problema centrale
di Filolao è
analogo a quello
di Empedocle, ma i
suoi punti di riferimento
speculativi sono meglio
definiti, e il suo
approccio alla realtà
è più chiaramente
delimitato dall'eredità pitagorica
di cui egli si faceva
portatore. Certo, il pitagorismo
originario era stato
travolto, in campo
matematico, dalla crisi
degli irrazionali, in campo
fisico-filosofico, dalla critica
parmenidea al molteplice
e dalla sua incapacità
a soddisfare i nuovi
requisiti logico-metodici. Vedremo
all'inizio del capitolo
xn come si
svolge fino ad Archita,
il processo ricostruttivo
delle matematiche pitagoriche,
al quale Filolao
stesso da un importante contributo.
Qui ci interessa
piuttosto il suo sforzo di
ricostruzione del pitagorismo
come sistema globale
del mondo, compiuto
innestando sul tronco
di quella tradizione
la più matura
consapevolezza posteleatica. Si
trattava innanzitutto di
salvare entrambi i termini
della diade costitutiva
di uno e
molteplice, di limite
e illimitato, dove il
primo termine assicurava
la verità e l'intelligibilità del
secondo ma dove
il secondo garantiva
l'estensibilità del primo al
mondo del reale, la
sua presa sull'esperienza, conferendogli
quindi una concretezza
e una funzionalità
sepza le quali
esso sarebbe stato
confinato alla sfera
delle aspirazioni etico-religiose. Ma non
bastava più, dopo
Parmenide, con- trapporre la
serie dell'uno e
del limite alla
serie dei molti
e dell'illimitato; giac- ché
su quest'ultima sarebbe
poi gravata la
dichiarazione di assurdità
e di irrealtà, che avrebbe
vanificato la tensione
insita nella diade.
Il problema di
Filolao era dunque
quello di calare
il principio di
unificazione e di verità
profondamente all'interno della
struttura molteplice dell'esperienza, in
modo da garantirne
con ciò stesso
la realtà; è
di trasformare i
termini della diade
in modalità e
struttura intima di
un unico mondo,
di cui essi
potessero dar conto
nella sua to- talità.
La chiave più
ovvia per la
soluzione del problema
era, agli occhi
di Filolao, quella
offerta dal numero.
Generato dall'uno, e governato
da leggi che
sempre all'uno puo riportarsi
senza contraddizione, il
numero era tuttavia
atto a fungere
da limite al
molteplice perché ne
rifletteva in sé
la struttura; ma
la riflet- teva in
modo tale da
renderla omogenea all'«
uno» e alla sua
legge. Si consideri
ad esempio la
decade (il numero
dieci): secondo l'analisi
di Filolao, essa
comprende in sé
tutti i possibili rapporti
aritmo-geometriciche si
originano a partire dall'unità
ed è perciò
stesso atta a comprendere
e ad organizzare
il molteplice. Ma Filolao
non poteva più
arrestarsi alla generica
veduta pitagorica del
nu- mero come natura
delle cose. Occorre
che è davvero
possibile, leggendo il
libro della natura,
scoprirne i caratteri
aritmo-geometrici; da un
punto di vista
complementare, occorre dare
una più precisa
dimensione spaziale al
numero e concretarla
di una sussistenza
corporea. Perciò, partendo
dall'assioma
aritmo-geometrico secondo cui l'unità
rappresenta il punto, il due
la linea, il tre la
superficie, il quattro il solido,
Filolao da un impulso originale e deciso
alla geometria solida,
giungendo a costruire un certo
numero di figure semplici che si
possono agevolmente riportare
alle modalità fondamentali dei
numeri. Queste figure si
assicurano una prima
realizzazione grazie alla
loro applicabilità ai movimenti e alla configurazione degl’astri,
e, tramite l'astrologia pitagorica,
allo stesso assetto
del divino. x
Più efficaci di
ogni spiegazione critica
sono le parole
di Filolao sulla
decade. L'essenza e le
opere del numero devono essere giudicate in rapporto alla
potenza insita nella
decade; grande è
infatti la potenza del
numero e tutto opera
e compie, principio e guida della
vita divina e
celeste e di
quella umana, in
quanto partecipa della
potenza della decade;
senza questa, tutto
sarebbe interminato, incerto
ed oscuro. Conoscitiva
è la natura
del numero, e direttrice
e maestra per ognuno,
in ogni cosa
che gli sia
dubbia o sconosciuta.
Perciò nessuna delle
cose sarebbe chiara
ad alcuno, né
per se stessa,
né in rapporto
alle altre, se
non ci fosse
il numero e la
sua essenza. Ora questo, 74
armonizzando tutte le
cose con la sensazione
nell'interno dell'anima, le
rende conoscibili e
tra loro commensurabili secondo
la natura dello gnomone,
in quanto compone
o scompone i
singoli termini delle
cose, così delle
interminate come delle
terminanti. Né solo
nei fatti demonici
e divini tu
puoi vedere la
natura del numero
e la sua potenza
dominatrice, ma anche
in tutte, e sempre,
le opere e
parole umane, sia
che riguardino le
attività tecniche in
generale, sia propriamente
la musica (trad. Timpanaro-Cardini). Da varie
testimonianze risultano le
ingegnose deduzioni di
natura sia aritmetica
e geometrica, sia
fisica, dalle quali
Filolao traeva conferma
al dominio della
decade. A questo punto
tuttavia Filolao avvertiva
l'esigenza di una
semplificazione del mondo
fisico che è assente nella
tradizione pitagorica, e
riconosceva nel sistema
empedocleo il più potente strumento
in questo senso.
È propriamente nel- l'assunzione che
ne fa Filolao
che le radici
di Empedocle si
trasformarono in elementi,
avulsi ormai dalla
vita del cosmo
ed inseriti su
di una più
fredda struttura numerico-geometrica. Nei
quattro elementi, infatti,
e nello sfero che li
riassume, Filolao vide
il veicolo ideale
per la conquista
del mondo fisico
da parte dei
suoi solidi geometrici. Per via
analogica, il cubo trovò
il suo equivalente
nella terra; il
tetraedro nel fuoco;
l'ottaedro nell'aria; l'icosaedro
nell'acqua; il dodecaedro,
infine, nello sfero. Da
un altro punto
di vista, ciò
equivale a dire
che gli elementi
trovarono il proprio
limite, la propria
forma, la propria
armonia, infine la
propria razionalità nelle
rispettive figure. I
molteplici oggetti dell'esperienza e
le loro mutazioni
si presentavano ormai
come aggregati degli
elementi e dunque come
composizione di forme
geometriche semplici; ma,
imbrigliati dal limite,
armonizzati dalla figura,
il loro variare
nulla più aveva
di misterioso o
di irrazionale, sempre
riconducibile com'era, sia
pure per vie
complesse e non
tutte esplorate, alla
legge del numero.
Filolao giungeva dunque
a modificare così l
'assioma pitagorico che i
numeri sono le
cose. Tutte le cose hanno
un numero; senza
questo, nulla sarebbe
possibile pensare, né
conoscere. Le cose hanno
un numero perché,
come in un
universo cristallografico, hanno
una figura-forma che
le delimita e
che è riconducibile
a rapporti numerici;
1 e perché
sono inserite in
un'armonia cosmica che
ne ritma il
divenire e che
è anch'essa riconducibile
al rapporto (logos)
numerico. Nel frammento
che abbiamo ora
citato Filolao compie
un'altra fondamentale deduzione:
poiché la nostra
conoscenza, se vuol
essere vera, non
può che muoversi
dall'« uno» e seguirne
la legge, poiché il
nostro pensiero non
può che essere
e di fatto,
nella tradizione pitagorica,
è logos mathematikòs,
ecco che il
numero instaura la
sua suprema armonia
fra pensiero e realtà,
fra uomo e
mondo; ecco che
il linguaggio dell'uomo
è identico al
linguaggio di fysis,
e basterà affinarlo nel
medesimo senso per
decifrare fysis tutta
intiera. Così egli
ristrutturava il pitagorismo
in modo da
adeguarlo alle esigenze
posteleatiche e insieme
ne allargava l'orizzonte
fino a includervi
le necessità di spiegazione
naturalistica. Più rigoroso, sebbene meno ricco di quello empedocleo, il suo
sistema si presta a brillanti deduzioni
cosmologiche, ma, posto a confronto con
i problemi del significato e della vita,
è spesso costretto
a sce- I [È interessante
a questo proposito
la figura d’Eurito,
un pitagorico spesso
associato a Filolao.
Eurito famoso fra i suoi
contemporanei perché, assegnato
a qualsiasi oggetto
reale un determinato
numero (non sappiamo
come lo ottene),
egli dimostra in
un modo caratteristico la
necessità naturale del
rapporto fra l'uno
e l'altro: si
provvede di un
pari numero di
sassolini, traccia la figura
dell'oggetto in questione
e incastr11va lungo
il suo perimetro
tali 75 sassolini
(il numero atto
a definire la
figura dell'uomo è per
esempio 250). Variando le
dimensioni dell'oggetto, il
numero di sassolini,
che ne esprimeno i rapporti essenziali, non cambia. In
tal modo Eurito
vuole stabilire visivamente
la relazione, tipica
anche del pensiero
di Filolao, tra
numero e forma
limitante gli enti
reali: il numero,
tradotto in forma, è quindi il principio d’individuazione
e anche d’intelligibilità della
natura.] gliere la via del superamento
mistico alla maniera del pitagorismo;
oscillazione riconoscibile lungo
tutto l'arco della
riflessione naturalistica di
Filolao. L'uno, ipostatizzato fisicamente nel fuoco, sta al centro del
cosmo; dal suo
rapporto con l 'infinito
circostante, un rapporto
paragona bile al processo
dell’inspirazione ed espirazione, si è generato tutto quanto
il cosmo, che consta di
una sintesi inscindibile
d’uno e molti,
di limitante e illimitato.
Rinnovando la meccanica
celeste della tradizione
pitagorica, spinta a
un tempo dall'esigenza
astronomica di spiegare
l’eclissi e da
quella mistica di
assegnare all'uno-fuoco il posto
centrale dell'universo, Filolao
fece audacemente della
Terra un pianeta
eccentrico e mobile
come gli altri,
anticipando così di
secoli la veduta
d’Aristarco. La medesima
ambiguità si riscontra
nell'ipotesi di un
decimo pianeta, l'Antiterra,
in aggiunta ai
nove conosciuti: si
trattava, da un
lato, di costruire
un modello di meccanica celeste atto a spiegare fenomeni
quali la maggior
frequenza, in uno
stesso luogo, delle
eclissi di luna
rispetto a quelle
di sole; e,
dall'altro, di trovare
un 'ulteriore conferma
al valore universale
della decade. Analogamente ad
Empedocle, Filolao riteneva
poi il sole
percepito dai nostri
sensi un semplice
riflesso focalizzato del fuoco centrale. Filolao è anche attento
cultore di biologia
e di medicina: operando
nel solco della
tradizione alcmeonica, egli
accoglie da un
lato alcune posizioni
del sistema vitalistico
di Empedocle, dall'altro,
grazie proprio a
quella tradizione, appariva
più vicino all'empirismo
esprimentesi nella medicina
cnidia; né puo
riuscirgli agevole la
trasposizione dei punti
di vista aritmo-geometrici al
campo della vita. Proprio
per questa complessità
di approccio, appaiono
nel filosofo di
Crotone germi interessanti
di teoria medica;
essi passano in
Platone e in
alcune opere del
Corpus hippocraticum, e per un
altro verso nella
scuola siciliana di
medicina, ma non
troveranno una diretta
continuazione per il progressivo abbandono, da parte del successivo
pitagorismo, delle ricerche più
propriamente naturalistiche. Un
primo movimento analogico
permette a Filolao di
ravvisare nel ritmo
della vita organica
una stretta affinità
cosmogonica. Principio
costitutivo della vita
è lo sperma,
il calore originario;
principio del corpo
è dunque il calore,
così come il fuoco
lo è del
cosmo. D'altra parte
la respirazione introduce
nel corpo l'elemento
freddo necessario ad
equilibrare tale calore,
proprio come l'inalazione
dell'illimitato circostante da
parte dell'uno origina
l'universo. Gli stessi
organi principali del
corpo sono racchiusi
in uno schema
quaternario analogo a
quello degl’elementi, ed
essi sono visti
come rispettivamente egemonici
nelle varie classi
di viventi. Il
cervello, cui corrisponde
il pensiero, è così egemonico
nell'uomo (qui è
chiara l'eredità alcmeonica);
il cuore, cui
corrisponde il principio
della vita sensibile,
è egemonico negli
animali (prevalendo qui
l'ispirazione empedoclea); l'ombelico,
che presiede alla
crescita dell'embrione e alla
vita vegetati va,
contrassegna la classe
delle piante; i
genitali, infine, da
cui proviene il seme
fecondante, individuano tutti
i viventi in
quanto tali. In
senso più propriamente
medico Filolao costruì un'eziologia
in cui i
maggiori agenti patogeni,
di derivazione cnidia,
sono la bile
(vista come siero
delle carni), il
sangue e il flegma
o catarro che
si origina dalle
urine ed è
comunque il prodotto
di una infiammazione. I
fattori scatenanti i processi
morbosi sono poi
ravvisati, alla stregua
della dottrina alcmeonica,
nell'eccesso o nella
scarsità di alimenti,
di esercizio fisico,
dei fattori ambientali
necessari alla vita
dell'uomo. La teoria dell'anima è
in Filolao strettamente
connessa alla concezione
dell'organismo: l'anima rappresenta
infatti da un
lato il respiro
vitale, il principio
di refrigerazione che
tempera il calore
corporeo e dava
luogo alla vita;
dall'altro essa è l'armonia
che scature dalla
tensione degl’opposti elementi
fisici, come dalle corde
di uno strumento
musicale, e li tene
connessi nel miracoloso
equilibrio della vita.
L'anima è dunque la
presenza dell'armonia universale
nel corpo vivente,
e d'altro canto
l'espressione intrinseca dei
diversi fattori che
si componeno armonicamente
a dar luogo
alla vita stessa.
Così strettamente legata
all'equilibrio transeunte
della vita organica,
l'anima individuale non
poteva sopravvivere al
dissolversi nella morte
degli elementi corporei
che essa armonizza;
ancora una volta,
per giustificarne l'immortalità
secondo il dettame
pitagorico, Filolao era
costretto ad un
trascendimento religioso della
propria dottrina. Al
contrario di GIRGENTI (si veda), Filolao viene
così offrendo al
pensiero sia filosofico
sia tecnico-scientifico uno
strumento d'indagine dotato
di una enorme
po- tenzialità: quello cioè
dell'analisi formale e
modale della realtà,
e della sua
traduzione nei termini
della logica aritmo-geometrica. In questo
senso, è fondamentale il suo
apporto allo sviluppo
della matematica, che puo
ormai procedere sulla
via della specializzazione arricchita
della certezza che
qualsiasi sua scoperta
avrebbe comportato oggettivamente
una più vasta e profonda
comprensione della realtà,
avrebbe comunque rivestito
un signi- ficato universale.
E parimenti fondamentale anche se destinato
ad un meno
immediato successo è il suo
contributo alla fisica,
che per la
via della matematizzazione è avviata
ad una intelligibilità, ad
un rigore nuovi; un
rigore persino superiore a
quello della fisica
atomistica, che, come
ha osservato Rey, si
basa sulla meccanica,
una disciplina molto
meno progredita nel pensiero greco
di quanto non lo
è l'aritmo-geometria pitagorica. Se in
epoca moderna matematizzazione e concezione
atomica della fisica
erano destinate a riunirsi, dando luogo al sistema
del mondo proprio della
scienza a partire
dal Seicento, nel
mondo greco pitagorismo
ed atomismo restarono
però a lungo contrapposti. Ciò è
dovuto anche all'ambiguità
che abbiamo visto sottendersi a
tutta la speculazione di Filolao. Il
logos mathematikòs non
era soltanto, e non tanto, un
metodo del pensiero quanto la
struttura essenziale, garantita,
dell'universo; il numero
non era tanto
uno strumento euristico
dell'uomo quanto una
realtà originaria, primale,
che garantiva la validità
della scienza, ma
soprattutto la condizionava
al riconoscimento di
sé, principio dogmatico
del conoscibile prima
che del conoscere.
Già per la
matematica, questa natura
del numero creava
una situazione di
privilegio necessariamente ambigua:
giacché essa veniva
trasvalutata in una
sorta di teologia
razionale, secondo un
processo che sarà
comune a Platone
vecchio e a
tutto il successivo
pitagorismo, sempre più
alieno dalla ricerca
empirica, sempre più
portato a rifiutare
il contatto così
fecondo tra la matematica stessa e le
discipline tecniche e
naturalistiche. Nel senso
di Filolao, assolutizzazione delle matematiche
voleva dire dunque
anche loro isterilimento
sul piano scientifico-tecnico, e contemporaneamente condanna
ad uno status
non scientifico delle
technai di controllo
della natura, dalla
meccanica alla biologia.
L'accentuarsi della natura
mistica del numero che
all'origine aveva anche significato
l~ preoccupazione di una saldatura
tra uomo e
mondo, tra conoscenza
e realtà avrebbe scavato
un solco sempre
più profondo tra il pitagorismo e le tendenze
più vive del
pensiero, conducendo da
ultimo alla fusione
tra un pitagorismo
teologizzante ed un
parimenti infiacchito platonismo.
Filolao, con tutta
la sua ricchezza
di interessi metodici e
scientifici, è certamente
lontanissimo da tali
esiti. Ma la
sua impossibilità di
liberarsi da talune
ambiguità di fondo
lo poneva già,
nono- stante tutto, su
questa via. LEONZIO (si veda)
nacque a Lentini. La tradizione ci
raccontà che e discepolo
vuoi dei pitagorici
vuoi di GIRGENTI (si veda). Senza
dubbio riuscì a
conquistarsi la stima
dei suoi concittadini,
tanto è vero
che è da
essi inviato come
ambasciatore ad Atene
per chiedere aiuto
contro Siracusa. Viaggia
per tutta la
Grecia, facendo ovunque
sfoggio della sua
sottilissima arte dialettica
che è basata
su una tecnica
analoga a quella di
Zenone. Scrive varie
opere, fra le
quali ci limitiamo a ricordare l'Elena e il
trattatello Intorno al non
ente o intorno alla
natura, Perì tou me
ontos é perì Jjseos. Nella
prima viene svolta,
con molta abilità,
la paradossale difesa
della celebre eroina,
scagionata da ogni
colpa per l'abbandono
della casa del
marito, e viene
intessuto l'elogio dell'onnipotenza della
parola, specie quando essa è
guidata dalla retorica. La parola
è un gran
dominatore, che con
piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime
cose sa compiere;
riesce infatti a
calmar la paura,
e a eliminare il
dolore, e a
suscitare la gioia,
e ad aumentare
la pietà. Nell'altra opera LEONZIO
(si veda) espone, una triplice tesi:
nulla è; se
anche qualcosa fosse,
non sarebbe conoscibile;
se poi fosse
conoscibile, non sarebbe
esprimibile, poiché il
mezzo con cui
ci esprimiamo, è
la parola; e
la parola non
è l'oggetto, ciò
che è realmente;
non dunque realtà
esistente noi esprimiamo
al nostro vicino,
ma solo parola
che è altro
dall'oggetto. La critica
della filosofia di Parmenide di VELIA (si veda) è qui
evidente. Essa si fonda
sull'equivocità del termine
essere usato ora
nel senso d’esistere
ora invece nel
senso puramente copulativo.
Ma più ancora
di questa critica
è importante la
chiarezza con cui
si pongono i
problemi della conoscibilità
e dell'esprimibilità (cioè
i problemi se
tutto ciò che
esiste possa, per il
solo fatto di
esistere, venire conosciuto
e venire espresso). Abbiamo parlato,
a proposito sia
di Protagora sia
di LEONZIO (si veda), di
critica all'eleatismo di VELIA
(si veda) Tale critica
investì certamente il
tentativo dell'eleatismo di
stringere in una
rigida unità l'ordine
del pensiero e del linguaggio
con quello della
realtà percepita e vissuta,
e vi contrappose la
relativa autonomia di questi due
momenti. Ciò premesso, la critica moderna tende tuttavia a
non sottovalutarei legami
che connessero i
maggiori sofisti all'eleatismo, e
non solo nel
senso che la
situazione di crisi
creata da quest'ultimo
rappresentò il loro
punto di partenza. Nell'ordine logico,
i sofisti accettarono
infatti i requisiti
di verità imposti
dall'eleatismo di VELIA (si veda),
quali l'identità tautologica
(di cui
la orthoépeia protagorea è una versione
raffinata) e la
pregnanza di significati
esistenziali e copulativi
del verbo essere.
La rivendicata autonomia
dell'esperienza vissuta si
tradurrebbe pertanto in
una sizioni professionali variano da individuo ad individuo, sicché ognuno,
possedendone alcune, è privo delle altre, la capacità di
contribuire a conservare e
perfezionare l'organismo sociale
deve essere considerata
presente in tutti
gli individui normali. rinuncia a controllarla con strumenti logici, e
in un suo abbandono
alla psicologia dell'individuo a
sua volta stratificato
nella convenzione sociale. Questo atteggiamento si traduce,
da un lato,
in una certa
incapacità della sofistica di
comprendere l'originale rapporto
di logica ed
esperienza che si viene
realizzando nella scienza
contemporanea (di qui
la polemica di
Protagora e di LEONZIO (si veda) contro
la geometria, la fisica e,
indirettamente, contro la
medicina); dall'altro, nella
tendenza a considerare
il momento irrazionale
del profitto e della
forza come primario
nell'ordine sociale, trascurandone
le esigenze etico-storiche. Questo
non toglie nulla
alla fecondità dell'atteggiamento critico
della sofistica, ma
certamente sottolinea la
vastità del compito
di ricostruzione scientifica,
filosofica e storico- sociale che
spetterà al pensiero
greco dopo il
fallimento eleatico di VELIA (si
veda), l'esaurimento della
filosofia della natura
e la critica
sofistica. Non sappiamo
se a CROTONE,
quando vi approdò
Callifonte, l'asclepiade di
Cnido, già esiste
una scuola di
medicina o se
la sua fondazione
si deve a questo
scienziato venuto dall'Oriente.
È certo, tuttavia,
che la scuola
conobbe una rapidissima
fioritura. Già il
figlio di Callifonte,
Democede, si guadagna
la fama di miglior
chirurgo del mondo
greco, e, fatto
ritorno alla nativa
costa ionica, impone
alla corte del
re di Persia
la supremazia della
nuova scuola ellenica
su quella tradizionale
d 'Egitto. Tocca al crotoniate ALCMEONE (si veda) di portare
la scuola al
suo massimo livello
scientifico. E soprattutto
toccò ad Alcmeqne che
Wellmann define a buon diritto
pater medicinæ grecæ di
rinnovare profondamente il
pensiero scientifico ellenico,
condizionandone lo svolgimento
lungo tutto il
v secolo. A
contatto attraverso la
sua scuola con
le esperienze maturate
dalla historle ionica,
egli entra d'altro
canto in relazione
con le filosofie
i tali che che
sullo scorcio di
quel secolo si
sviluppavano rapidamente: il
pensiero di Senofane
da un lato, il
pitagorismo dall'altro.
Dalla critica senofanea
al sapere umano,
Alcmeone derivò la
consapevolezza, via via affinatasi,
che l'osservazione empirica
non può immediatamente offrire
la chiave della
conoscenza, che la
verità non si
rivela tutt'intera a
chi si limiti
a descrivere la
natura. Con il pitagorismo,
Alcmeone mantenne rapporti
su di una
base di autonomia,
da scuola a
scuola; insofferente del
carattere settario, dogmatico,
della dottrina e
della prassi pitago- rica,
egli rivolse contro
di esse la sua critica
teorica e la
sua azione politica demo- cratica. Fu
tuttavia profondamente interessato
non solo dai progressi che i pitagorici fanno compiere
alle. scienze naturali,
ma soprattutto dal
loro tentativo di
scoprire leggi dell'esperienza che
fungessero da principio
di organizzazione e
di interpretazione dei
fenomeni osservati. Ecco
dunque che sul
tronco dell'empirismo ionico,
cui per altro
restava solidamente ancorato, Alcmeone viene innestando
una problematica e una consapevolezza nuove,
la cui carenza
aveva sempre frenato,
come s'è visto,
i progressi di
quell'empirismo. Proprio con la
dichiarazione di questa
acquisita consapevolezza si
apre l'opera di
Alcmeone. Delle cose invisibili,
delle cose mortali
gli dei hanno
immediata certezza, ma agl’uomini tocca
procedere per indizi
(tekmdiresthai). Bastava un
tale punto di
vista gnoseologico ad
infrangere l'illusione dell'immediata trasparenza
dell'esperienza, ad aprire la
via ad una
osservazione critica dei
fenomeni e ad un più
attivo intervento dello
scienziato nella loro
interpretazione. Alcmeone si
valeva del principio
così scoperto nel
vivo della propria
ricerca scientifica, e
d'altra parte era
la ricerca stessa,
divenuta criticamente più
vigile, a confermargliene la
validità. Nel campo dei
fenomeni naturali egli
non vedeva più
alcun elemento alcuna coppia di
contrari, alcuna arché
che di per
sé valessero a
spiegare la natura
e la vita.
Da biologo, egli
riconosceva piuttosto
nell'empirico una indefinita molteplicità
di principi attivi
o qualità, vale a
dire di stimoli
capaci di de- terminare
nell'organismo una certa
reazione fisiologica (l'amaro,
il freddo e
così via); di
conseguenza, non v'era
continuità fra organismo
senziente e il
suo ambiente, ma
il rapporto fra
l'uno e l'altro
era quello di
stimolo e reazione
(questo è il
significato della sensazione per
contrari attribuita ad Alcmeone,
in contrasto con
la sensazione per simili che è tipica
di GIRGENTI (si veda)). Parallelamente, Alcmeone
scopriva, grazie alla
pratica coraggiosamente scientifica
della dissezione, che
la funzione del
percepire è nell'uomo
bensì diffusa nei
vari organi di
senso, ma che
essa viene poi
coordinata da un
organo centrale, e
precisamente dal cervello. Con
questa scoperta Alcmeone non
solo compiva un
progresso di fondamentale
importanza per tutta
la biologia greca,
ma trovava altresì
una decisiva conferma
al proprio punto
di vista gnoseologico:
la funzione del
cervello spezzava di
fatto il legame
immediato fra uomo e
mondo, fra conoscenza
e realtà. Ed
Alcmeone rende esplicita
questa con- seguenza dichiarando
che, se la sensibilità è
una proprietà di
tutti gl’organismi viventi, la funzione del comprendere, cioè del
ridurre a sintesi significativa
l'esperienza, e del prender
coscienza della sensibilità stessa
è propria esclusivamente dell'uomo. Il
valore di queste
asserzioni si puo
intendere appieno ove si
ricordi che ancora una
generazione più tardi la
dottrina della centralità
del cuore conduce GIRGENTI (si
veda) a
conclusioni estremamente antitetiche.
In ogni modo,
profondo è il solco
così apertosi fra
l'uomo e la
realtà che egli
vuol comprendere e
trasformare. Il mondo dell'esperienza riacquistava
la sua concretezza,
e l'esperienza stessa
veniva riconosciuta incapace
di dare spontaneamente conto di sé. Così, lo
scienziato riconquista un'autonomia
e una possibilità di
comprensione e di controllo sul
mondo, scoprendo un punto di vista ad esso eterogeneo. Ma Alcmeone si avvide di
una conseguenza decisiva
di questa situazione:
la realtà si
faceva a un
tratto opaca agli
occhi dello scienziato;
la sapienza, intesa
come perfetta trasparenza
di tutto il mondo
all'uomo, restava ormai
solo una proprietà del divino. In
termini di metodo
scientifico, la sapienza
doveva allora venir
sostituita dall'indagine, la rivelazione
dalla congettura, l'osservazione e le
analogie che essa
sembrava offrire dovevano
essere integrate dal
metodo dell'indizio e della
prova. Quando Alcmeone poneva
il tekmdiresthai, il
proceder appunto per
indizi, congetture e prove, come
metodo tipico della
conoscenza umana, egli
conferiva una consapevolezza teorica
alla prassi della
medicina, che dove
interpretare l'esperienza per
ritrovare in essa un
significato, un valore
di sintomo, e
risalire così all'unità
della malattia e
delle sue cause:
una consapevolezza che,
come s'è visto,
fa sempre difetto
ai cnidi. Sulla
base di queste
prospettive teoriche, Alcmeone poté
anche offrire alla
medicina una dottrina
fisio-patologica e un'eziologia
unitaria cui i
cnidi non avevano potuto
pervenire. Le infinite qualità (4Jnàmeis) agenti
nell'organismo, formano nel
loro stato normale
un composto (krasis)
omogeneo ed armonico (isonomia). La malattia
nasce dalla rottura
di tale equilibrio
e dal prevalere
patologico (monarchia) di
uno solo di
questi principi, oltre
che per l'azione
di una molteplicità
di fattori ambientali.
È importante notare,
per l'influenza che
questa veduta ebbe
su Ippocrate, che
Alcmeone lascia indefinito il numero delle
4Jndmeis, senza irrigidirle né
nello schema quaternario
degli elementi proprio
della scuola empedoclea, né in
quello degl’umori sviluppatosi
nella tarda scuola
di Cos. Queste determinazioni negative,
le uniche che
ci restano delle
4Jndmeis alcmeoniche, sono tuttavia
importanti, perché gettano
il seme di
una embrionale chimica
fisiologica, consapevole della
molteplicità degli elementi
e dei composti (come
ribadirà anche Anassagora)
e attenta soprattutto
alla loro sempre
variabile funzionalità nelle sintesi
organiche. D'altra parte, rompendo anche
qui con tutta
la tradizione della bsiologia, Alcmeone
afferma l'irreversibilità dei
processi biologici e
dunque l'impossibilità del
ciclo. Gl’uomini per ciò
periscono, che non
possono congiungere il
principio con la
fine. Troppo innovatrici erano
tuttavia le sue
intuizioni, perché Alcmeone
ne potesse trarre
tutte le conseguenze.
La via del
metodo scientifico era stata indicata,
ma un lungo
cammino doveva essere
ancora percorso perché
quel metodo potesse
essere sviluppato e
consolidato. Il problema
del rapporto fra
pensiero e realtà,
fra teoria ed
esperienza era stato
posto senza che
le strutture di quel rapporto
potessero essere compiutamente analizzate e rese
esplicite. Questa mancanza
di una chiara
elaborazione teorica spiega
come l'eredità alcmeonica
si sia suddivisa
in due filoni
diversi e contrastanti.
D’un lato, infatti,
essa fu riassorbita
dalla fysiologia italica
e siciliana, che
utilizzò alcune delle
sue conquiste scientifiche
contestandone altre e
soprattutto annullandone via
via la carica
innovatrice dal punto
di vista del
metodo. Attraverso GIRGENTI (si
veda), questo filone
dell'eredità alcmeonica passa alla
scuola italica di
medicina. L'altro filone ci
interessa qui più
da vicino: tramite
l'autonoma ricerca medico-biologica, esso
rifluì nell'ambiente
scientifico ionico-attico, e
dunque nel suo crogiuolo
ateniese, destandovi immediatamente l'interesse delle
più vive correnti
di pensiero. Ad
Anassagora la lezione
alcmeonica apportava la
veduta dell'alterità del
conoscere rispetto al
conosciuto,
dell'inesauribile
concretezza del mondo
empirico, del tekmdiresthai
come metodo della
conoscenza; agli scienziati
che si raccoglievano intorno al
filosofo, ai medici come lppocrate, Alcmeone
insegnava l'importanza metodica
del sintomo, la centralità
del cervello, le basi fisiologiche
della patologia; agli
uomini di cultura,
agli storici come
Tucidide, egli trasmette analoghi spunti
metodici, e ancora
il suo rifiuto della
ciclicità, la sua
concezione così suggestivamente trasferibile
alle vicende umane dell'armonia come
salute, della monarchia
come sua rottura
patologica Seguendo questo
secondo filone dell'eredità
alcmeonica, occorre quindi tornare
nell'Atene, dove si
venivano intrecciando i
nodi di tutto il
pensiero scientifico greco e
grazie a ciò si poneno le
premesse per le
sue conquiste più
alte. Nel seguire il filone
alcmeonico che si
svolge attraverso Anassagora
e culmina in
Ippocrate, accennammo anche
al permanere di
una scuola medica in Magna Grecia e in Sicilia, nella
quale l'eredità di
Alcmeone dove però
esser ben presto
sopraffatta dal prepotente
influsso della fysiologia
di GIRGENTI (si veda). Quest'ultima è in
effetti tale da
condizionare sia nelle
premesse sia nei
metodi la ricerca
medico-biologica,
promuovendone a un
tempo lo sviluppo e
indirizzandolo verso esiti
estremamente insidiosi. La concezione
del inondo come
un organismo vivente pare
infatti assicurare la
fondazione più universale e
più valida alle
scienze biologiche; e la
riduzione del mondo
stesso a quattro
elementi primari, o archai,
sembra a sua volta
offrire uno strumento decisivo per la comprensione della
struttura del corpo e
delle sue affezioni. La
metodica da porre in
opera è pure esemplificata da
GIRGENTI (si veda): si
tratta di battere
la via dell'analogia
tra microcosmo e macrocosmo,
di riportare cioè
costantemente i fenomeni
organici alla struttura
di fondo del
corpo e la
struttura del corpo
a quella dell'universo, ritrovando
in quest'ultima una
garanzia di ve- rità
e una premessa
per ulteriori spiegazioni.
Entro tale orizzonte
la scuola italica
si sviluppa, FILISTIONE (si veda)
di Locri
la conduce al
suo definitivo assetto
dottrinale e metodico.
Importante in senso
dottrinale l'elaborazione
della teoria del
pneuma o respiro,
principio vitale che
animava la struttura
elementare sia del
corpo sia del cosmo, e che vale a
spiegare molti fenomeni
patologici quando la
sua circolazione organica
risulta anomala. Ma soprattutto importante,
dal punto di
vista metodico, è la traduzione in
senso biologico degl’elementi
empedoclei, che certamente
Filistione derivava dalla
scuola ma cui
egli conferì una
forma destinata a dominare per
lunghi secoli il
pensiero naturalistico. Non immemore
della lettera almeno
dell'insegnamento alcmeonico, e
impegnato più direttamente
di GIRGENTI (si veda) GERGENTI
nell'osservazione dei fenomeni
organici, Filistione
trasformò gli elementi
in qualità o
principi organici attivi
(c!Jndmeis): così la terra
viene espressa dalla
djnamis secco, l'acqua dall'umido,
il fuoco dal caldo, l'aria
dal freddo: queste c!Jndmeis erano
secondo Filistione la
forma specifica con
la quale la
struttura elementare dell'universo
si manifesta nell'organismo umano;
grazie tuttavia alloro
legame univoco con
gli elementi, esse
non potevano diventare,
come in Anassagora
ed in Ippocrate,
stati relativi e
mutevoli degli oggetti
empirici, bensì restavano
principi stabili e necessari
dell'empirico stesso. Il
processo analogico con
il quale Filistione
giunge alle quattro
qualità era strettamente
affine alla deduzione
empedoclea degli elementi,
e non occorrerà
tornare a descri- verlo; e la
sua critica più
pertinente, dal punto
di vista del
metodo della medicina empirica, è
del resto anticipata
dallo stesso Ippocrate
in Antica medicina.
L'importanza storica della
rielaborazione di Filistione
e la ragione del suo
duraturo successo stanno
da un lato
nell'aver offerto alla
biolo- gia uno strumento
di spiegazione e
di semplificazione dei
fenomeni pur sempre
dogmatico ma tuttavia
assai più riconoscibile
nella concretezza dei
processi or- ganici di
quanto lo fossero
gli elementi empedoclei
(ad esempio il
«calore vitale» e
il suo eccesso
patologico rappresentato dalle
febbri si spiegano
meglio con le
vicende della qualità caldo
che con la
materia fuoco; d'altro lato, togliendo
dalla fysiologia empedoclea
quanto vi era
di materialistico e
in fondo di
meccanicistico, Filistione ne
troncava i pur
possibili legami con
l'atomismo e la rende assai
meglio accetta al
prevalente indirizzo qualitativo
del pensiero platonico
e soprattutto aristotelico. Un'altra importante
evoluzione egli fa poi
subire all'organicismo del
filosofo di Agrigento.
Mentre quest'ultimo non
aveva mai compiuto
esplicita- mente il passo
che portava dalla
concezione vitalistica del
mondo al riconoscimento di
un finalismo in
esso operante, Filistione
trovava, ad esito
delle sue ricerche
anatomiche sull'organismo, proprio
questo grande principio
esplicativo: che la
natura, e soprattutto
la natura vivente,
è organizzata in
funzione di un
sistema di fini,
che questa organizzazione si
ritrova allivello di tutti
gl’organi, e che dunque
l'indagine biologica non
deve vertere tanto
sul che cosa e sul come, quanto sul
perché finale dell'assetto
dei fenomeni studiati. Nel
trattato sul cuore, Perì
kardies, dove tra l'altro,
nonostante la sua
grande dottrina anatomica, egli
rifiuta Alcmeone per
Empedocle e pone
l'intelligenza nel cuore
stesso Filistione concepisce quest'organo
come la costruzione
mirabile di un
buon artefice, che
tutto ha predisposto
affinché la vita potesse aver
luogo nel migliore
dei modi. L'incontro di
queste dottrine con il platonismo,
concretatosi in quello
fra Filistione e
Platone avvenuto in
Sicilia all'inizio del periodo di
elaborazione del Timeo, dove avere
conseguenze incalcolabili per
la scienza della
natura greca. Attraverso Platone,
passarono infatti ad
Aristotele, che le
adottò ancor più
risolutamente del maestro,
e grazie a
lui conquistarono una
egemonia per lungo
tempo quasi incontrastata. Ma prima che tutto questo
avesse luogo, le
posizioni della scuola
italica fa- cevano sentire
la loro pressione
sulla stessa scuola di Cos postippocratica, e
occorre ora seguire
gli estremi tentativi
di quest'ultima di
salvare la techne, l'antica medicina,
da così agguerriti
avversari. Già si parlò
dell'opera di Filolao, Qui
vogliamo ancora accennare
ai progressi compiuti,
nell'ambito della matematica,
dal filosofo e
scienziato Archita, vissuto a
TARANTO (si veda), figura di statista
pitagorico. Egli rende per
lungo tempo la sua
città
incrementandone la prosperità
e la potenza
militare, facendone la
prima della Magna
Grecia. Si ritiene che Archita applica
la propria dottrina
matematica alla meccanica
militare, e, poiché
sappiamo pure che
fa uso di
strumenti meccanici per
risolvere problemi geometrici,
si può dire
che per primo
(e sfortunatamente con
pochi imitatori per
molto tempo) egli intuì la fecondità teorica
e pratica di
una relazione fra
matematica e meccanica.
Profonda è l'impressione che la personalità d’Archita
suscita in Platone
in occasione del
suo soggiorno a
Taranto. In campo
matematico, Archita riprende
il problema di
Delo secondo le linee
tracciate da Ippocrate
di Chio, e lo porta a soluzione
mediante la rappresentazione strumentale
di figure geometriche
in movimento. La
soluzione d’Archita è
troppo complessa per
essere qui riportata:
da essa risulta
comunque che egli era
familiare con i
processi mediante cui si
generano cilindri, coni e altri
solidi di rivoluzione, e che è
il primo ad
usare consapevolmente il concetto
di luogo geometrico. In questo
modo, Archita offriva
il primo esempio
d’applicazione della geometria
dello spazio alla
soluzione dei problemi
di geometria piana,
e insieme dava
inizio alle ricerche che
concluderanno alla teoria delle coniche. Ma quello che va messo in
maggiore rilievo è lo spregiudicato coraggio con il quale TARANTO (vedasi) fa ricorso,
nonostante la polemica dell’ACCADEMIA a tutti i metodi e gli strumenti che permetteno
di far progredire la ricerca. Parimenti ardite le sue impostazioni in arimmetica
e in acustica. Quanto alla prima, egli contribuisce a sviluppare il concetto che
il numero è essenzialmente un rapporto, perciò indipendente dalle condizioni di
commensurabilità e razionalità, e poté quindi tornare a rivendicare la supremazia
dell'arimmetica fra le scienze matematiche. Quanto alla seconda, egli scopre che
il suono è dovuto al movimento e all'urto dei corpi, e che l'aria è un corpo atto
a ricevere la vibrazione e a propagarla. La tradizione che fa di TARANTO
(vedasi) uno dei tutori d’Eudosso, anche se dubbia, vale certamente a simboleggiare
la funzione del tarantino nel passaggio dalla matematica alla grande fioritura che
ha luogo. I filosofi romani, prevalentemente agricoltori e guerrieri, non si
occupano affatto né di problemi speculative. Il loro interesse si concentra
tutto sul problema giuridico, per l'evidente importanza del diritto nella
costruzione di uno stato efficiente. La conquista romana della Macedonia li
porta a contatto immediato colla
filosofia. Questo t tutt'altro che armónico. La penetrazione in Roma della
filosofia infatti costituie un pericolo per lo stato romano, minacciando di alterarne quei caratteri che costituie la base stessa del suo successo
come civilizazione.. Gl’elementi conservatori, come CATONE (si veda), se ne
avvidero immediatamente e cercano di opporre una seria resistenza. Un
senatoconsulto ordina che i filosofi emmigrati a Roma come esuli della
Macedonia, fossero cacciati da Roma.
Atene invia a Roma una missione diplomatica, formata da tre filosofi (Critolao,
rappresentando il LIZIO, Diogene di
Babilonia, il Portico, e
Carneade, l’Accademia). Essi approfittarono di questo soggiorno per
esporre nel Campidoglio le proprie dottrine sullo giusto. Ottennero un enorme
successo, soprattutto Carneade, la cui oratoria, ricca di sottili
argomentazioni dialettiche, riusce a conquistare la parte più intelligente dell’elite romana. Famoso è rimasto il discorso di Carneade sul
contrasto fra il giusto e il vero, dimostrato proprio con l'esempio di Roma,
che fonda la propria potenza sul territorio strappato con la violenza ad altri.
Questa non e l'ultima ragione per cui I filosofi ateniesi, conclusa la loro
missione, furono ordinati a lasciare Roma. È noto che questi due ostacoli non
riuscirono a fermare il processo iniziato. Nel corso di pochi decenni, la
situazione muta radicalmente. I membri delle migliori famiglie romane accorrono
sempre più numerosi a studiare filosofia dagli schiavi che frequentano I
circoli d’influenti personalità politiche.
A Roma e per
oltre un decennio Panezio, rappresentanti del Portico.
Panezio si lega particolarmente al circolo di SCIPIONE (si veda) Emiliano,
detto L’Affricano minore. Questo circolo – il primo circolo filosofico romano
-- comprende oltre allo
storico Polibio, i maggiori rappresentanti della.
cultura romana del
tempo: TERENZIO (si veda),
LUCILIO (si veda), Caio LELIO (si veda), Quinto
Elio TUBERONE (si veda), ecc.
Roma comincia a
diventare un centro
culturale di notevole importanza. E erroneo tuttavia
ritenere che la filosofia,
con i successi
ora ricordati, sia
effettivamente riuscita a imporre
a Roma la
propria stampa. Che non sia stato così ce lo dimostra il fatto
semplicissimo. Mentre il greco si e rapidamente
diffusa in tutto il mondo
mediterraneo orientale (per
esempio in Egitto), tanto da
diventarvi l'unico mezzo
di comunicazione della
cultura, nulla di
simile accadde a Roma.
Nel campo linguistico, la resistenza
del gran CATONE (si veda)
riporta piena vittoria. I romani filosofano in latino,
arricchizzendo il vocabolario. La civiltà mediterranea
finisce a poco a poco
per diventare latina. Nel
campo della filosofia le
qualità più caratteristiche del
temperamento indigeno romano
buone o cattive
che fossero - non andano
sommerse. La ripugnanza per la speculazione astratta (scolastica), l'interesse
volto più alla conclusion pratica che alla premessa, la
spiccata attitudine del filosofo romano all’azione, fanno sentire il peso della loro
influenza. I notevoli riflessi di
questo temperamento
caratteristico dei romani hanno conseguenze nell'ambito della
filosofia romana. Ora può essere
opportuno per dimostrare l'immediata
efficacia che tale
spirito ha sugli stessi
studiosi premettere qualche cenno intorno a filosofi
particolarmente significativi: Polibio e Strabone. Polibio è inviato a
Roma come ostaggio
dalla lega achea
e vi rimase
per oltre sedici
anni, nei quali
ha modo di
assimilare profondamente lo spirito di quel popolo. Scrive in
greco le Storie
sulle imprese di
Roma; opera solitamente considerata come un grande trattato, oltreché di
storia, anche di
geografia descrittiva, per l'enorme ricchezza di notizie riferite sugl’usi
e costumi dei vari popoli presi in esame. Orbene il modocon cui è concepita quest'opera
è una prova evidente che Polibio intende la ricerca scientifica in maniera completamente diversa
dai suoi connazionali. Proprio nulla,
infatti, lo interessano le teorie
generali e tanto
meno le ipotesi
sulle zone lontane
e mal note
del mondo; esse
non meritano la
sua attenzione, perché prive
di immediata utilità. Secondo lui,
ogni indagine seria
deve essere giustificata
da un ben
preciso scopo pratico.
Il compito, per esempio,
che egli si
propone è quello di
istruire i romani
intorno al mondo
mediterraneo in cui hanno svolto
e svolgeranno le
loro conquiste: tutto
ciò, dunque, che
fuoriesce da questo programma non
può che apparirgli
privo di senso
e dannoso allo
sviluppo della ricerca.
Da un punto di
vista metodologico merita di
venire notato che la storiografia di
Polibio presenta alcune
affinità con quella di Tucidide: la ricerca tenace della certezza,
l'analogia da lui resa
esplicita con il metodo della
medicina, la rinuncia
ad ogni abbellimento
retorico. Ancora più
profonde sono tuttavia
le differenze che
lo separano dal
grande ateniese. Polibio
credeva nella diretta
fruibilità della storiografia
come magistra vitae, nella
autonoma significatività delle
informazioni riferite quanto
più possibilfedelmente, e si
ricollegava in tal
modo alle teorie
sia di Isocrate
sia di Teofrasto. Gl’è ignoto
lo sforzo di
compenetrazione tra ragione e fatti
che Tucidide cerca d’attuate nel
suo metodo storiografico, convinto
com'era che solo da
esso potesse scaturire quella
essenziale verità della
storia la cui utilità è certamente meno immediata ma
più fondata e
più generalmente feconda.
In tal senso
la storiografia di
Polibio sta a
quella tucididea esattamente
come la filosofia
ellenistica sta a
quella. Strabone visse un
secolo e mezzo
dopo. Nato ad Amasea nel
Ponto da una famiglia
di sangue misto greco-asiatico, è anch'egli
fortemente influenzato dallo spirito
romano (come ce
lo dimostra la
decisione con cui
sostenne il dominio
politico di Roma).
Compì lunghi viaggi
e scrive una
Geografia (Geografike), ampio
trattato. Ebbene, questo trattato
dimostra, non meno
della storia di
Polibio, il nuovo
tipo di interessi
che anima il
suo autore: brevissima
è la parte
dedicata all'aspetto matematico
della geografia; ricchissime [La filosofia
postaristotelica] e diffuse sono
invece le notizie
sugli usi, le istituzioni,
la storia dei
paesi via via presi
in esame. La
differenza fra l'indagine
di Strabone e quella
compiuta dai geografi
alessandrini di qualche
secolo prima non
potrebbe essere maggiore.
L'oggetto di studio
ha conservato lo
stesso nome, ma
il modo con
cui è condotta
la ricerca dimostra
che il significato
stesso della scienza
è completamente mutato.
L'espressione più caratteristica dell'interesse prevalentemente pratico
del filosofo romano
nell'ambito delle ricerche, è
l'eclettismo. Non che
esso sia nato
per opera del filosofo romano, né
che tutti i
filosofi romani sono direttamente
o indirettamente legati
ad esso. Ma nell'ambiente
culturale di Roma, l’ecclettismo trova le ragioni
del suo successo. Il
suo più illustre sostenitore e CICERONE. Per trovare
un esempio di
filosofo romano che
non ha compiuto
alcuna concessione all'eclettismo, bisogna
riferirsi a LUCREZIO (si veda).
La particolare posizione di LUCREZIO (si veda) non è che la conseguenza logica
della sua adesione a un sistema o dottrina. Già
sappiamo, infatti, che una dottrina puo essere un unico indirizzo d
mantenutosi costantemente fedele
alla propria concezione
teoretica, e. g. del giardino,
senza evoluzioni interne,
e questa sua
stessa staticità esclude
che abbiano potuto
sorgere seri tentativi
di conciliazione fra
esso e gli indirizzi avversari. A parte Lucrezio, però, è difficile
scoprire filosofi romani che non
mostrino qualche venatura
d’eclettismo (forse Catone il minore, il perfetto stoico).
Esplicitamente eclettico è l'amico del
avvocato Cicerone, ma anche del genio militare VARRONE (si veda); atteggiamenti
eclettici caratterizzeranno i grandi
filosofi romani rappresentanti del Portico e del Cinargo, e del LIZIO e
l’Accademia. del periodo del principato.
Un po' di eclettismo,
mescolato con molto
della “Scesi”, puo venire
ritrovato quasi dovunque tra gli uomini più rappresentativi e gli
spiriti più raffinati della filosofia romana,
come per esempio in ORAZIO (si veda), che riusce ad esten- dere la
propria concezione eclettica fino ad includervi anche molte dottrine
filosofiche caratteristiche del GIARDINO
ROMANO. L’eclettismo ha le sue
prime affermazioni nella cosidetta Accademia e nel Portico. Esso
rappresenta un tentativo di soluzione della crisi che la filosofia stav attraversando a Roma, e rispecchiò
una diminuita fiducia da parte di
ciascuna delle sette - nei
propri principi. Da questo punto
di vista possiamo giustamente sostenere
che l’ecceltismo esprime un rilassamento del rigore e la gravitas dello spirito filosofico,
una profonda stanchezza
e una mancanza
di originalità. Esprime
anche, però, la raffinata
consapevolezza dei pericoli cui va
incontro qualsiasisistema filosofico coerente, e la convinzione di
poter trovare, su di un piano
meno rigido che quello dei principi
generali, la via per una comprensione e per una soluzione a un problema
più interessanti per il filosofo romano
concreto. Da studente, CICERONE ascolta con molto interesse le lezioni di
filosofi che, come Filone nell'Accademia e Posidonio nel Portico, sostenneno la
necessità di un'evoluzione
filosofica in senso
eclettico, e si lascia da
essi facilmente convincere
che qualcosa di buono si trova
di fatto
in varie dottrine, specialmente
nei loro precetti
d'ordine pratico, che il
più delle volte coincidono, pur venendo
fatti derivare da principi molto diversi e in
apparenza quasi antitetici.
La adesione del avvocato Cicerone
all'eclettismo fu dunque immediata e totale, sembrandogli che esso dovesse
costituire il frutto più maturo dell'ormai plurisecolare travaglio filosofico.
Proprio questo atteggiamento largamente comprensivo gli consente di studiare
con sincero interesse
tutta la storia
della filosofia romana,
sforzandosi con impegno e intelligenza di renderla accessibile ai
romani. Il suo perfetto possesso della eloquenza latina permitte a Cicerone
in particolare, di trovare espressioni eleganti e sobrie per
le più difficili formulazioni tecniche. La filosofia, dice nelle Tusculanae
disputationes, è rimasta fino ad oggi negletta, e su d’essa le lettere nostre, non ha portato nessuna
luce.Ma io debbo illuminarla ed esaltarla, così che, se io sono stato di
qualche utilità ai miei concittadini romani nelle faccende attive della vita,
puo esserlo anche, se
mi riuscirà, standomene
ozioso. Se CICERONE ha il torto di dimenticare, in queste parole, il
contributo dato alla filosofia romana da LUCREZIO (si veda), egli riesce
tuttavia ad esprimerci molto bene
l'animo con cui si accinge a scrivere questo o quello saggio o dialogo di
filosofia. È un dovere che Cicerone compie per colmare un gravissimo vuoto nelle letttere romane. Cicerone sente
che, se anche non introduce Nessun
concetto originale, il semplice riuscire
a mettere in circolazione, tra I suoi amici, un patrimonio
così serio come
lo e la filosofia costituie un
merito di cui i
concittadini dovranno essergli grati. E di fatto gliene saranno
grati non solo i concittadini, ma tutta la cosidetta civiliazione occidentale
(senza gallilei) anche i posteri,
poiché i suoi
scritti rappresenteranno per
molti secoli una
delle principali fonti per la conoscenza del pensiero filosofico.Tra le principali saggi e dialogi di Cicerone ricordiamo, oltre le Tusculanae (Le
Tusculane), il “Delle
leggi”, “Le deffinizioni del bene e del male, “La natura
degli dei,” “Sui uffizi),
il Sogno di
Scipione e la sua fonte, La repubblica, Ortensio, (un'esortazione alla
filosofia che influenza profondamente
Agostino, e che era un'imi-
tazione del Protrettico di Aristotele), ecc. E
callunniante asseverare che Cicerone si limita a presentare le filosofie altrui
senza apportarvi nulla di suo. Cicerone le ri-pensa dal suo punto di
vista, le espone in modo tale da poterle
utilizzare a favore
della concezione eclettica. Ora utilizza Platone, ora
Aristotele, ora invece
la Scessi o ilPortico e conclude.Qui si accenna al fatto che Cicerone si
accinse a scrivere opere filosofiche solo quando venne escluso dalla vita
politica per l'affermarsi del primo triumvirato e, in seguito, per il trionfo
di GIULIO (si veda) CESARE. Proprio CICERONE (si veda) pubblica il poema
di LUCREZIO (si veda), e
tale dimenticanza è dovuta probabilmente alla posizione dichiaratamente anti-giardino da lui
assunta in sede
filosofica. con un generico probabilismo, che ammette proprio come unico
criterio di verità il consenso dei filosofi (prova evidente - secondo
CICERONE - che esistono delle idee
innate, a tutti comuni). In queste molteplici
discussioni, non prive talvolta
di incoerenze l'una rispetto all'altra, nel difficile ecomplesso lavorio di
selezione e coordinamento delle tesi, una preoccupazione appare costantemente
presente in CICERONE:
quella di rendere ogni romano consapevole dell'immenso
valore della filosofia.
Solo la filosofia, infatti, può farci cogliere il valore esatto di essere umano, delle
nostre conoscenze; solo
la filosofia ci insegna a guardare con effettiva serenità la vita,
mostrandoci con chiarezza ove risiede la
vera felicità . Non v'è
dubbio che, per il senso pratico dei romani, questa capacità della filosofia dialettica costituie la sua
più seria giustificazione: unica
giustificazione – il pro e il contra -- veramente sicura e da
tutti accettabile ANTONINO (si
veda) nasce a Roma . Salì
al trono imperiale alla morte
di Antonino Pio
di cui era
figlio adottivo; E convertito
al portico dalla lettura d’Epitteto.
Scrisse il “ad seipsum,” una
delle più interessan i
opere filosofiche della
sua epoca: Colloqui
con se stesso
(Ta eis heaut6n),
ordinariamente nota col
titolo di Ricordi.
Le note dominanti della sua filosofia nella quale emergono sempre più
chiari i
caratteri del PORTICO ROMANO -
sono un disprezzo ascetico
di tutti i beni esteriori
e una profonda
religiosità. L'essere divino
non è semplice
fato, ma è
soprattutto provvidenza universale.
Il rapporto dell'uomo
con dio è
un rapporto di
effettiva parentela, che
di conseguenza viene
a legare fra
loro tutti gli
uomini. Oltre ai
caratteri ora accennati,
è tuttavia presente
in ANTONINO (si veda) un carattere
nuovo, evidentemente connesso
proprio al tipo
di vita attiva, gravida di responsabilità, che gli tocca in sorte come
capo dello stato. Non a caso - egli pensa l'uomo occupa la propria carica, ma
perché espressamente postovi dalla provvidenza dl divino. L'uomo ha quindi il
dovere di agire con tutta la necessaria energia, di non sottrarsi ai compiti --
per quanto difficili e ingrati affidatigli da tale provvidenza. È la forma
mentis del cittadino romano che si inserisce in quella del filosofo del
portico. Né fra le due sorge alcun contrasto. Anzi, esse riescono a fondersi in
una mirabile armonia, permeate entrambe da un senso di vivissima religiosità.
Neanche il filosofo romano, malgrado il loro indiscusso spirito pratico, sa
sviluppare a fondo la preziosa eredità degl’ingegneri. Essi rivelarono senza
dubbio grandi capacità nella costruzione di strade, di acquedotti, di fastosi
edifici, ma non riuscea a comprendere
l'interesse della vera e propria ingegneria meccanica, né avvertirono
l'importanza pratica di ricerche direttamente o indirettamente rivolte alla
scoperta di nuove fonti di energia. Il fatto appare tanto più singular quando
si pensi che proprio risale la massima invenzione tecnologica dell'antichità:
il mulino idraulico.È un fatto che non sembra spiegabile se non facendo appello
alla difficoltà di comprendere i vantaggi che avrebbero potuto provenire dallo
sfruttamento sistematico delle varie forme di energia naturale, mentre esse
apparivano. Assai più costose dell'energia umana (schiavi) e animale. Per
quanto riguarda lo scarso interesse dimostrato dal filosofo romano verso gl’
artificiosi congegni esposti negli Pneumatikd di Erone, va inoltre osservato
che la via da percorrere, onde giungere ad una lorutilizzazione su vasta scala,
non puo non apparire troppo lunga e difficile al filosofo romano - come appunto
gl’ingegneri romani -- direttamente impegnati nelle realizzazioni pratiche
immediate. L'abbandono di tale atteggiamento richiederà una profonda
trasformazione sociale e culturale, che ha inizio solo parecchi secoli più
tardi. Fra gli filosofi romani che scriveno saggi di ingegneria di qualche pregio, il più
importante è Vitruvio, ingegnere militare di GIULIO (si veda) CESARE e
OTTAVIANO (si veda). Il suo saggio principale, “De architectura",
reca evidenti gl’ultimi sviluppi della
matematica e dell'astronomia e le tracce dell'influenza degl’ingegneri.
Vitruvio ricorda infatti
esplicitamente Ctesibio,
riferendoci parecchie sue invenzioni (la
pompa, una balestra ad aria compressa,
l'argano idraulico, ecc.). Il voluminoso trattato di VITRUVIO s’articola in
libri che esaminano una gamma assai vasta di argomenti: dalla preparazione
filosofica richiesta all'architetto ai
problemi specifici concernenti la costruzione di edifici pubblici e privati,
all'idraulica, alle macchine da guerra. È inoltre ricco di richiami storici, di
indicazioni giuridiche, di massime morali, e costituisce una preziosa fonte per
studiare la cultura tecnologica, e in
generale i costumi dell'epoca. In essa
sono tuttavia riscontrabili alcuni non lievi difetti. Pur sforzandosi di
risultare tecnicamente chiaro e cercando ove necessario d’introdurre nuove
espressioni adatti al linguaggio tecnico,VITRUVIO non può nascondere talune
pretese stilistiche, che spesso rendono oscura la dizione, ove accanto a
volgarismi e plebeismi si trovano espressioni ampollose e ricercate. Inoltre
Vitruvio non è padrone sicuro della materia di cui tratta, onde non solo non
riesce a portare contributi nuovi, ma spesso suscita anzi l'impressie di non
comprendere bene, egli stesso, le ricerche che si sforza di esporre. Gli è che
la vera tecnica non si identifica con la pura e semplice pratica; essa è
scienza applicata, e, come tale, richiede dai suoi cultori una profonda
preparazione scientifica. Ma questa non poteva essere presente in chi aveva
manifestamente studiato troppo
poca matematica. Più
che di ingegneria
la cultura romana si era occupata
di agricoltura, su cui ci sono giunti i trattati di CATONE (si veda), di
VARRONE (si veda) e di COLUMELLA (si veda). È proprio una disciplina
tecnico-scientifica parallela
all'agricoltura ad avere in Roma gli sviluppi più
originali: l 'agrimensura,
detta gromatica dalla
groma, lo strumento
che gli agrimensori
romani usavano nella misurazione dei terreni. Il codice Arceriano ci ha
conservato una parte delle opere degl’agrimensori da cui si possono
ricavare i vari interessi dei agrornatici ed i loro importanti compiti. Ad essi
e ffidato il compito di costruire gl’accampamenti, fondare le città e le colonie,
misurare l’altezze dei monti e le larghezze dei fiumi nelle campagne militari,
far applicare le leggi agrarie e stabilire le confische ed i tributi. Apposite
scuole erano istituite nel principato romano per istruire questi
funzionari imperiali nella geometria, intesa nel suo aspetto pratico, nel
diritto, nell'arte militare e nei rituali religiosi che
accompagnavano le loro opere. Fra i maggiori autori
agromatici possiamo ricordare Balbo, famoso per aver condotto a termine l'opera
di misurazione di tutta l’Italia che era stata iniziata con Cesare, Igino, e
infine Sesto Giulio Frontino, una volta console sotto Vespasiano e Traiano,
autore anche di un'opera di arte militare sugli Stratagemmi e di
un'opera sugl’acquedotti di Roma, “De aquis
urbis Romae”. Grice: “Geymonat,
for some reason, is obsessed with science as we at Oxford are not. Indeed, he
wrote a LOOONG history of “THOUGHT”, which is a word we don’t use at Oxford.
The French and Latin types in general use it – pensée – the idea is something
like science, mathematics, philosophy, you name it. So, his remarks about how
the ignorant Romans started philosophy is interesting. According to Geymonat it
was a generational thing. Catone did not want to do anything with it – for
reasons of ‘state’, Geymonat says, i. e. philosophy would be subversive, as it
indeed is. The odd thing is that it attracted the knock knock it’s the youngest
generation knock knock knocking at the door. The Senate forbade philosophers in
161 and five years later Carneade and two more arrived and that changed things.
Geymonat makes two comments. For one, the best youth – I figli delle migliore
famiglie romane – would have something like the Americans call a Rhosdes – they
would go to Athens as a ‘finishing school’. But what was interesting is that
Scipione Emiliano started a club in his palazzo – more like a villa – where
Polibio Terenzio, Cirilio, Tiburone, Elio, Celio attended --. The third
terribly interesting comment Geymonat makes is twofold. For one, those Greek
slaves who called themselves philosophers (Strabone and Polibio, are the only
two he quotes) did write, respectively, history and geography, but ‘tuned to
the Roman ear’. Geymonat speaks of ‘il temperament romano’ which he
characterizes in a fourtfold way: concretto, interested in the conclusions –
conclusive, rather than the premises – prattico --. So the history by Polibio
is only one that may interest a Roman, a far cry from Thucydides philosophical
prose! And the geography of Strabone has no information on calculus and measures
– only bits about institutions of people the Romans might conquer – nothing
about foreign distant lands! The second most notable remark is then that
Scipione Emiliano paid lip service to the Hellens – Catone’s ‘resistenza’ won
in the end – as is seen by the mere fact that Latin was retained as the lingua
romana – in romano – unlike the Empire of the East where Greek was adopted – So
with the fall of the Eastern Empire, the West became bilingual. The rough
tongue of the Latins survived this fashion for things Hellenic! Geymonat spends
enough time on what Cuoco calls ‘filosofia italica antica’ – it starts with
Crotone and Metoponto – where Pythagoras settled. With his theorem he underwent
a crisis, and philospophy traveled to VELIA with Parmenide and his lover,
Zenone, and Melisso – reductio ad absurdum, and tertium exclusum. Then there
was Girgenti, and that crazy one, Empedocle, who however wrote some witty
things about the four elements (in verse! Like Parmenide). Then there’s
Filolao, educated at Crotone under Pyhathogras but himself from Taranto, and
himself teacher of Archita of Taranto. Then there is the sophistical movement
started with Gorgia of Lentini – and Siracusa – So, ‘philosophy’, as we know
it, had an Italic origin, and is molded in the language of the conquering
Romans! Ludovico Geymonat. Geymonat. Keywords: ragione
-- temperamento romano – concretto – pratico – Catone – il trionfo di Catone
con la lingua latina – la gioventu romana entusiasta con Carneade – I Scipioni
ellenisante – la gioventu delle megliore familie – grand tour a Grecia! -- il
teorema di Picard, il teorema di Caratheodory per le funzione armoniche. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Geymonat” – The Swimming-Pool Library.
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