Luigi Speranza --
Grice e Gennadio: la ragione cnversazionale e il divino -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Marsiglia).
He argues that
the divine is the only incorporeal being, but that souls and angels are
material. Gennadio.
Luigi Spearnza -- Grice e Genovese: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della tribù – scuola di Napoli
– filosofia napoletana – filosofia campanese --filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Grice: “I like Genovese; for one, he has explored the philosophy of
‘vincoli,’ which is all that my theory of communication is about!” Grice:
“Genovese has explored the etymology of ‘tribe,’ as originating with Romolo!”
Gricce: “Genovese has punned on Kant’s silly ‘pure reason,’ surely what Kant
meant was a pure critique of reason – since ‘pure’ is hardly synonymous with
‘theoretical,’ which the treatise is all about! When Kant goes on to write Part
II, he qualifies ‘reason,’ as ‘practical,’ HARDLY impure!” – Studia a Pisa e
Parigi sotto Foucault al Collège de France. Interessato alla teoria dei sistemi, entra in
contatto con Luhmann. La teoria sociologica costituirà da allora una parte
importante della sua riflessione. Membro della Fondazione per la critica
sociale, fa parte della redazione della rivista La società degli individui e
lascia la redazione di Il Ponte per contrasti sulla direzione della
rivista. Formatosi in una prospettiva hegelo-marxista vicina alla Scuola
di Francoforte, se ne allontana progressivamente (come si può osservare già in
“Dell’ideologia inconsapevole. attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno” (Napoli,
Liguori), assumendo sempre più nettamente una postura scettico-relativista con
un’attenzione alle scienze sociali e, in esse, alla funzione, appunto
relativistica, svolta dall’antropologia culturale. Indicativo di questo
passaggio è l’articolo su “Hume e la filosofia antropologica” in “Tra
scetticismo e nichilismo” (Pisa, Ets), in cui nel contempo si nota l’interesse
per la teoria dei sistemi. La forma
compiuta dell’evoluzione della sua filosofia si trova in “La tribù
occidentale”, “Per una nuova teoria critica” (Torino, Boringhieri), e:Un
illuminismo autocritico. La tribù occidentale e il caos planetario” (Torino,
Rosenberg e Sellier), in cui, nella presa di distanze dalla soluzione di
Habermas (v. Speranza, “Grice e Habermas”), si profila una logica
dell’ibridazione e del paradosso come fuoriuscita dalla dialettica di marca
hegeliana. Questa linea è approfondita,
in senso più strettamente politico con il rilancio di un’idea di socialismo,
nel successivo “Convivenza difficile” (Milano, Feltrinelli), “L’Occidente tra declino
e utopia” (Milano, Feltrinelli), e soprattutto, facendo i conti finali con la
teoria dei sistemi, nel “Trattato dei vincoli. Conoscenza, comunicazione,
potere” (Napoli, Cronopio), a tutt’oggi
la sua opera teoricamente più significativa. Si è dedicato in modo particolare
ai temi politici e civili con “Che cos’è il berlusconismo” (Roma, Manifesto); “Il
destino dell’intellettuale” (Roma, Manifesto), “Totalitarismi e populismi”
(Roma, Manifesto) -- tutti pubblicati dalla casa editrice Manifesto di Roma, e
intervenendo regolarmente in rete nel sito “Le parole e le cose” e in quello
della rivista Il Ponte. I suoi interessi estetico-letterari si esprimono
dapprima con “Teoria di Lulu. L’immagine femminile e la scena intersoggettiva”
– keywords: scena intersoggetiva – (Napoli, Liguori), in cui, nel rivisitare il
mitico personaggio teatrale, e poi anche filmico, creato da Wedekind, affronta
il tema della cosiddetta lotta dei sessi, ripreso con un romanzo breve in forma
epistolare (“L’anti-eros”, Firenze, Ponte alle Grazie) in cui sono presenti sia
una chiara vena satirica sia il tentativo di fare filosofia in altro modo, in
una vaga ispirazione kierkegaardiana. Seguono i libri di viaggio, o
apparentemente tali nella miscela di finzione narrativa e saggismo, Falso
diario e Tango italiano (Torino, Bollati Boringhieri); “L’Occidente (“Roma,
Manifestolibri), e ancora quello che probabilmente è il suo libro più sofferto,
insieme documento di una crisi e stravolta autobiografia visionaria, “Ci sono
le fate a Stoccolma. Dal diario dell'esilio mentale” (Reggio Emilia, Diabasis).
Altre saggi: “Modi di attribuzione” (Napoli,
Liguori); “Figure del paradosso” (Napoli, Liguori); “Critica della ragione
impure” (Milano, Bruno Mondadori); “Gli attrezzi del filosofo” (Roma, Manifesto).
“L'idea, o forse dovrei dire il gesto, mi sembra felice: invece di scrivere un
saggio su x (ideologico, politico, storico) scrivere di sé come turista a
disagio che vorrebbe scrivere un libro su x», G. Bollati a G., le Giulio
Bollati. Lo studioso, l'editore, Torino, Bollati Boringhieri, A. Tricomi, La
Repubblica delle Lettere, Macerata, Quodlibet. G. è quasi costretto non
semplicemente ad alternare, ma addirittura a sovrapporre, ad arricchire l'uno
con le peculiarità degli altri, e infine a rendere, più che reversibili,
indistinguibili, registri argomentativi e stilistici tra loro assai diversi. Ci
sono le fate a Stoccolma diventa perciò il libro di un filosofo, senza che mai si possano individuare
luoghi del testo in cui una delle anime che lo ispirano prenda nettamente il
sopravvento. Le due leggende troiana e romulea. Il primo popolo, ossia i Ramni,
i Tizii e i Luceri. La plebe. Dopo la rivoluzione portata nella storia
tradizionale romana da Perizonio, con le sue Animadversiones historicæ, e dal
Beaufort con la sua famosa Dissertation sur l'incertitude des cinq premiers
siècles de l'histoire romaine, saggi che si succedettero alla distanza di mezzo
secolo, la critica, che rimane negletta nell'evo antico e nel medio, perchè
riguardata o inutile o incapace di produrre frutti fecondi, comparve un
elemento necessario nello studio di quella storia tradizionale. E di quei due
critici va detto ciò che in una pubblicazione recentissima. La prima edizione
delle Animadversiones venne in luce ad Amsterdam, e quella della Dissertation
beaufortiana ad Utrecht. Storia di Roma narrate da BONGHI (si veda), Manifesto
di BRIOSCHI (si veda), GIORGINI (si veda), e MINGHETTI (si veda). Questi tre signori
recano il seguente giudizio sulla Storia Romana di NIEBUHR: Amalgama felice di
erudizione e di critica, l'opera di Niebhur (sic) è fatta col sentimento che vi
domina, non tanto per dare una nuova direzione allo studio delle antichità,
quanto per ispirarne l'amore. Questo giudizio dimostra che gl’autori del manifesto
non sono storici. Ma appunto perchè non sono tali, avrebbero potuto astenersi
dal profferire sul fondatore della critica storica moderna un giudizio che di là
dell’alpi fa un'impressione tutt'altro che lusinghiera per noi. Al giudizio degli
scrittori del manifesto, contrapponiamo quello di Savigny e di Schwegler, la cui
competenza insiffatto argomento non èscono sciata da alcuno. Savigny, ne'suoi “Vermischte-Schriften”,
così parla della storia romana di Niebuhr. L'opera di Niebuhr ha impresso alla trattazione
della storia dell'antichità un carattere affatto nuovo (Niebuhrs Werk hat der Behandlung
der Geschichte des Alterthums einen ganz neuen Charakter verliehen. Essa ha
inalzato l’ideale della storiografia e fissato l'indirizzo di ogni ricerca nel
campo. Rivista di Storia Italiana. Origini Romane. I critici: loro scuole:
Niebuhr, Schwegler, Mommsen, BONGHI (si veda). I. ragione, a parer nostro, di Niebuhr; che,
cioè, questi si propone più d'inspirare l'amore allo studio delle antichità romane,
che di dare a quello studio un indirizzo nuovo. L'opera di Niebuhr mira soprattutto
a questo secondo scopo. Quanto all'altro, del destare l'interesse per lo studio
delle antichità, esso rampolla naturalmente dal primo. Mentre la critica di PERIZONIO
e di Beaufort, pel suo carattere negativo, non puo prefiggersi che quest'ultimo
scopo. Sebbene però il concorso della critica è, dopo la comparsa del saggio di
Perizonio, generalmente ammesso, esso non è usato da tutti secondo l'ufficio
suo. E se i più se ne giovarono per rettificare od anche per abbattere del
tutto la tradizione romana, non mancarono anche coloro che se ne servissero in
senso opposto, che è a dire, in difesa di essa tradizione. Fra questi ultimi
vanno segnalati Kobbe (“Römische Geschichte”), Gerlach e Bachhofen (“Geschichte
der Römer), Newmann (“Royal Rome,” ecc.) e Duruy (“Histoire des Romains”). Gl’altri
scrittori, e sono il maggior numero, si divideno in due scuole. All'una vanno
ascritti i seguaci di NIEBUHR, all'altra i suoi correttori. Oggi il campo è
tenuto dai secondi, in mezzo ai quali spiccano le due splendide figure di
Schwegler e di Mommsen. Costoro sono pure campioni di due metodi diversi nel
l'applicazione della critica alla storia tradizionale romana. Il metodo di
Schwegler è severamente ANALITICO. Egli espone prima la tradizione in tutti i
suoi minuti particolari e con le sue varianti. Poi, nel paragrafo successivo,
assoggetta la tradizione ad un rigoroso esame critico, diretto a scovrirne la
genesi, e il carattere degl’elementi che concorsero a crearla. In questa diagnosi
spicca, colla potenza di acume dello scrittore, la sua meravigliosa erudizione.
Dopo di avere ben fermato il concetto della “leggenda” e del “mito”, e fissate
del secondo le categorie diverse (mito etiologico, mito etimologico, ecc.),
egli procede a classificare geneticamente i singoli elementi della tradizione
romana, e ci dice quali debbano ascriversi delle antichità romane -- Schwegler (Röm.
Gesch.) aggiunge, La storia romana di Niebuhr, opera sotto ogni rispetto
classica, non solo da una nuova direzione allo studio dell'antichità fatto
sinora, ma è ancora il punto di partenza e il fondamento a tutte le ricerche
future, alle quali egli segna l'indirizzo e da il più fecondo impulso
(Seinerömische Geschichte, ein grossartiges,
in jeder Beziehung classisches Werk, ist nicht nur der Brennpankt und Abschluss
der bisherigen, sondern auch der Ausganzspunkt und die Grundlage aller spätern
Forschungen, zu denen es den Anstoss und die fruchtbarste Anregung gegeben
hat). alla “leggenda”, quali all'una o all'altra forma del “mito”, e quali
deveno aversi in conto di storici. Non oseremmo asserire che in questa minuta
classificazione Schwegler coglie sempre nel segno. Ma dobbiamo pur dichiarare
che in essa nulla apparisce mai di coscientemente arbitrario; di maniera che si
potrà dissentire da una data sua opinione, perchè faccian difetto gl’argomenti
con cui comprovarla, non già perchè gl’argomenti siano stati usati a
sproposito. Il saggio di Schwegler, comparsa or fanno 30 anni, rimane, a parer
nostro, fino ad oggi insuperata. Il metodo di Mommsen è tutto l'opposto di quello
di Schwegler. Qua il racconto tradizionale è preso in esame capo per capo. Là
di esso non è fatto nemmen parola. In luogo della tradizione, abbiamo un
racconto ricostruito dalla critica, senza però che estrinsecamente apparisca
traccia di siffatto lavoro. Non vi è dubbio che questo metodo presenti maggiori
attrattive dell'altro, perocchè escluda ogni processo dimostrativo. Ma appunto
perciò porta anche maggiore responsabilità a chi lo segue; e offre più largo
campo alle censure. LA STORIA ROMANA di Mommsen ne incontro difatti di vive ed
acerbe, sebbene il valore generale della sua opera è da tutti riconosciuto. La
polemica suscitata da essa torna poi a grande profitto della critica storica, perchè
essa da occasione a Mommsen di lumeggiare alcuni luoghi oscuri della storia
romana, mercè una serie di monografie storico-critiche, che egli raccolge col
titolo di ““Römische Forschungen.” Il metodo di Schwegler trova un am
plificatore fra noi, in BONGHI (si veda), e la sua STORIA DI ROMA comparire in
luce. Il chiarissimo autore premette ad esso una lettera in risposta al
manifesto dei triumviri che aveano promosso la pubblicazione della sua opera. In
questa lettera egli dice, che gli pare strano e VERGOGNOSO che una storia tutta
nostra non ha mai ritrovato in Italia chi dopo gl’antichi hanno intrapreso di
narrarla. Veramente, gli storici nazionali di Roma antica non mancano, come non
mancarono i critici, e da VALLA (si veda) a VANUCCI (si veda) trovasi una
schiera numerosa di dotti che a quello studio applicarono l'ingegno e la
dottrina. In questa schiera spiccano i nomi d’ORIOLI, d’UCCELLI, di ROSSI, di
CANAL, di CANINA, le cui saggi dimostrano, che noi non ci siamo contentati,
come afferma Bonghi, di tradurre prima
Rollin, poi Niebuhr e Mommsen. E se la letteratura nostra mancas pure di
codeste saggi, non bastano le pagine inspirate che sulla storia romana
dettarono MACHIAVELLI e iVICO, per ismentire il basso concetto che Bonghi reca
della storiografia italiana? LA STORIA DI ROMA di Bognhi non contiene
sufficiente materia, perchè si puo dire fin d'ora in quale misura
l'aspettazione dell'opera sia stata soddisfatta. Perché l'autore, amplificando il
metodo di Schwegler, premette alla critica storica la critica letteraria della
tradizione. All'esame di ciò che vi può essere di storico nella tradizione e
della genesi sua, egli manda innanzi la ricerca della sua forma primigenia. Per
ora non abbiamo che la sua dichiarazione di avere scoverto in una selva
selvaggia ed aspra e forte di dissensi, di congetture, di questioni d'ogni
fatta qualche sentiero non ancora battuto; lo che acuisce il desiderio di avere
sott'occhi il saggio che avrebbe dovuto comparire insieme col primo, con la
quale ha comune il subbietto, e della quale è l'anima. L'autore stesso
riconosce che lo scompagnare le due parti, come si è fatto, rende meno facile
ai lettori di comprendere il suo disegno. E così appunto è avvenuto. Ed io devo
confessare che questa difficoltà è nata anche in me, sebbene il lungo esercizio
mi abbia reso in certo modo famigliare questo studio. Dopo il lavoro
diligentissimo di Schwegler, a me è parsa meno necessaria quest'opera di gran
pazienza e fatica, come l’autore stesso chiama e con ragione, l'esame minutissimo
cui sottopose la tradizione. E perchè a ciò solo non si rimane l'opera sua nel saggio
pubblicato, ma qua elà egli è indotto dallo sviluppo della sua analisi, ad
entrare nel merito storico della tradizione, la separazione della seconda parte
dalla prima è ancor più deplorata. Senza di essa noi avremmo, per esempio, chiarito
subito la teorica, con la quale l'autore chiude il suo discorso sulla leggenda di
ROMOLO, e che messa fuoriamo di assioma storico, a noi è parsa mancante della
necessaria chiarezza, per poterci risolvere ad accettarla. Eccola con le parole
stesse dell'autore. Del rimanente, è necessario, dic'egli, tenere ben distinte queste
tre dimande. Prima, se una leggenda contenga elementi storici. Seconda, quale sebbene
pero l'Italia fa il dover suo in questo importante studio, ciò non iscema
l'interesse che desta nei dotti la comparsa di un'opera, dettata d’una mente
che della sua grande potenza da saggi copiosissimi nelle discipline più
svariate. la storia è stata. Terza, come la leggenda è nata. Noi abbiamo
obbligo di rispondere di no alla prima dimanda, se ci si prova che debba essere
negativa, pur quando non abbiam modo - e moltissime volte anche a tempi molto
più vicini ai nostri, che non sono quelli della fondazione di ROMA, non ne abbiamo
il modo — di rispondere nè in tutto nè in parte alla seconda ed alla terza.
Come si vede, questo giudizio riesce al quanto oscuro, particolarmente perché
gli manca una dichiarazione di termini, senza la quale non se ne può misurare
il valore. Che cosa intende BONGHI per “leggenda”? Ciò che noi chiamiamo “leggenda”,
i tedeschi chiamano “sage.” Ma la differenza sta tutta nella forma, mentre un
solo ne è il concetto. Ora il concetto della “leggenda” è questo. Cioè, il ricordo
d’un evento notevole trasmesso oralmente, soprattutto per mezzo di canti
popolari, dall'una all'altra generazione, e colorito dalla fantasia per modo da
imprimere ad esso un carattere prodigioso. Il nucleo della “leggenda” è adunque
storico. Il “MITO,” invece, è tutt'altra cosa. In luogo del FATTO STORICO che
costituisce l'essenza della leggenda, nel “mito” abbiamo come elemento
essenziale e come motivo genetico una data idea, resa concreta e sensibile per
mezzo di un intreccio di fatti immaginarii. ORA, NELLA TRADIZIONE ROMANA,
LEGGENDA E MITO TROVANSI MESCOLATI INSIEME, e il lavoro della critica consiste
in cio appunto, di sceverare l'una dall'altro, e liberare entrambi dagl’involucri
che hanno impresso a ciascuno il carattere proprio. Questo lavoro, che non è
meno improbo, e per la storia è assai più utile di quello fatto da BONGHI nel
primo saggio, e già tentato da molti. Ed è in esso che apparirà nel vero valor
suo l'opera dell'illustre storico. Ed ecco la ragione che BONGHI dà di questa
fermata. Succede, dice BONGHI, non addirittura il primo fatto certo della
storia interna di ROMA, ma quello de'suoi fatti certi più antichi da cui tutta
la sua storia anteriore è spiegata, e tutta la sua storia posteriore, è, se mi
si permette la parola, preformata. L’elezione dei tribuni nei comizii tribute. Per
ciò che riguarda la certezza del fatto accennato, notiamo che esso, tanto
rispetto alla sua cronologia, quanto rispetto al suo stesso contenuto, è
tutt'altro che sicuro. Fatti certi dei primi secoli di Roma non ponno chiamarsi
che quelli i quali sono attestati da documenti autentici. Ed essi sono: la
fondazione del tempio federale di Diana sull'AVENTINO, avvenuta sotto il regno
di Servio Tullio: il trattato federale stipulato da Tarquinio il Juniore
coi Sabini: il primo trattato di navigazione e commercio conchiuso da Roma con
Cartagine subito dopo il bando di quel re. E il patto federale conchiuso da
Roma colle città latine sotto il secondo consolato di Spurio Cassio. Questi
sono i fatti, che si ponno chiamar certi, perchè qualcuno degli storici
maggiori dichiara di AVERE VISTO il documento originale in cui sono consacrati.
Tale qualifica non può essere data alla lex publilia, il cui contenuto forma
ancor oggi obbietto di disputazioni fra i critici. BONGHI (si veda) ci dice fin
d'ora com'egli spiega il tenore di quella legge, ed io sono curioso di sentire
con quali nuovi argomenti egli suffraga una opinione, che oggi è abbandonata
dai più; e cioè, che prima della lex publilia i tribuni della plebe sono eletti
in altra sede fuorchè nei comizii tributi.Nei nostri Saggi critici noi
esprimemmo il nostro avviso sul tenore della lex publilia, e rimandiamo il
lettore a quel nostro saggio, non essendo il caso di ripeter qui ciò che scrivemmo
altrove. Un'ultima osservazione. BONGHI dice, che il fatto è quello dei fatti
certi più antichi di Roma, che spiega tutta la sua storia anteriore. Aspetto di
avere la dimostrazione di questo asserto prima di giudicarlo. Per ora, la mia
opinione, è che al disopra di quel fatto (badisi che qui si parla di fatti
interni) ci stia l'altro della creazione del tribunato della plebe, da cui
tanto la lex publilia, quanto le successive leges tribuniciæ e manarono come
prodotti necessarii di un fattore comune. Il primo problema che si affaccia
alla critica nello studio delle romane origini, è come avvenne l'innesto della
leggenda troiana nella leggenda romulea, perchè è fuor d'ogni dubbio che l'una
e l'altra traessero origine da fonti diverse. E mentre la romulea è creazione
paesana, nata sui luoghi stessi che sono la scena del suo racconto, LA TROIANA
È INDUBBIAMENTE IMPORTAZIONE STRANIERA. Però non tutti gl’elementi di questa
seconda leggenda sono nati di fuori. Dal momento che l'eroe troiano pone piede
nel Lazio, la leggenda lo mette in relazione con le popolazioni indigene, facendogli
imprendere una serie di guerre coi latini, sabini ed etruschi. Ora, se tolgasi
il protagonista che è un personaggio favoloso, il racconto di quelle guerre
racchiude indubbiamente elementi storici, che la sciati inavvertiti da CATONE e
da Dionisio, sono segnalati e lumeggiati dall'autore dell’Eneide. Infatti, mentre
presso i due primi, le lotte combattute d’Enea si presentano come guerre
dinastiche, nelle quali i popoli appariscono come stromento delle ambizioni di questo
o di quel principe. Presso VIRGILIO quelle lotte assumono fin da principio la
proporzione di una guerra di stirpi italiche, in cui sono adombrati gli
sconvolgimenti politico-sociali onde il Lazio è teatro nella età pre-romana.
Quel TURNO (si veda) he negli altri racconti figura come capo dei rutuli, nell’Eneide”
comparisce come duce di una intera confederazione di città italiche e di popoli
di diversa stirpe. Alla sua chiamata accorrono i guerrieri di Laurento, Ardea, Antenne,
Crustumerio, Tiburi, Atina, Preneste, Gabii, Anagnia, e con essi gl’aurunci, i volsci,
i sabini, i falisci. Per tener fronte a tanta oste, Enea, seguendo il consiglio
d’Evandro, rivolgesi ai tirreni, i quali sonosi di recente liberati dal tiranno
Mezenzio, divenuto ora alleato di Turno. E colloro ausilio, conquista Laurento.
Ora, levando da questo racconto la parte leggendaria che è la intromessa d’Enea,
chiaro apparisce il contenuto storico di esso. Ivi troviamo adombrati, da un
lato, i progressi della conquista etrusca nella valle inferiore del Tevere, e
dall'altro, gli sforzi operati dai popoli del Lazio per redimere il paese dalla
servitù straniera. Alla quale impresa i latini trovano ausiliarii non pure
nelle città fini time del Lazio, ma ancora in un popolo di stirpe sabellica che
la primavera sacra ha già portato sulla frontiera latina, e a cui la parte
avuta nella liberazione del Lazio frutta una stanza nel Settimonzio. Così per
mezzo di VIRGILIO noi siamo posti in grado di spiegare la presenza dei sabini
sul quirinale e sul capitolino, completando la tradizione romana, il cui
contenuto storico, purificato da gl’innesti leggendarii, consiste nel
presentarci i due popoli, latino e sabino, viventi già l'uno presso l'altro sul
settimonzio, e riusciti a pacificarsi e ad unirsi insieme dopo di essere stati
lungamente in guerra fra loro. Ancora nei tempi storici, noi troviamo gl’etruschi
imperanti nella Campania; prima di arrivare nella valle del Volturno, essi hanno
dovuto trarre in loro potere la valle inferiore del Tevere, che è a dire, il LAZIO.
Senza l'Eneide non sapremmo come questo paese ricuperata avesse la sua libertà.
L'Eneide ci apprende che ricuperolla per mezzo di una insurrezione popolare
capitanata da un eroe. Quest'eroe è TURNO. Enea gli strappa dal capo il lauro dei
prodi. MA L’ENEA ITALICO È UN MITO; TURNO INVECE È PERSONA RIMASTA VIVA NELLA
TRADIZIONE di un popolo. Ed è singolare, che dal gran cantore d’Enea la critica
storica sia stata messa sulla via di riconoscere in TURNO un EROE ITALICO,
e di rendergli la sua corona. Dopo questa digressione, che non c'è parsa fuori di
luogo, veniamo ora a risolvere il problema della confusione avvenuta di due
leggende, tanto diverse l'una dall'altra, sia perla fonte da cui emanano, sia
pel loro contenuto. La tradizione romana nella sua forma più antica, non --
Ennius dicit Iliam fuisse filiam ÆNEÆA quod si est Aeneas arus est Romuli
Servio, ad Æn.] sa nulla nè dell'una nè dell'altra leggenda. Prima che la boria
destata dalla potenza di Roma, introducesse il troiano Enea nelle romane origini,
a che nascesse il bisogno di spiegare riflessivamente l'origine nomi, di
instituti e di consuetudini di antiche che si trovano esistenti da tempo
immemorabile, senza che è stato riferito ab antiquo come sono nate, la
fondazione di Roma èsi spiegata in quel modo semplice, in cui l'antichità si
figura la origine di tutte le città greco-italiche, vale a dire, per mezzo di
un fondatore eponimo. Una città che nomasi ROMA, dove adunque, secondo il
concetto dell'antichità, avere per fondatore un ROMO, progenie divina al pari
di tutti i fondatori eponimi. Ed a noi è serbata questa tradizione semplice
della origine di Roma, la quale biamente la più antica. Ne dobbiamo è indub la
conoscenza al grammatico FESTO, che la tolsg dallo storico Antigono. Antigonus,
italicæ historiæ scriptor, ait, RHOMUM quemdam nomine, Jove conceptum urbem
condidisse in Palatio, Romæ eique dedisse nomen. Così Festo all'articolo Romam.
La tradizione romulea, nella quale l'eponimo “ROMO” diventa “ROMO-LO” e gli è
dato Remo per fratello, e l'uno e l'altro sono aggregati alla dinastia dei
Silvii che regna ad Alba Lunga e ripete la sua origine d’Enea. Questa
tradizione è dunque ignota all'antichità. Lo stesso ENNIO non la conosce che in
uno stato ancora embrionale, giacchè ENNIO dà alla MADRE di Romolo, ILIA, Enea
per padre. Pero, il concetto inspiratore della leggenda è già nato col poeta
rudiese, come è nato l'intrecciamento delle due leggende Ora come avvenne
questa sovrapposizione della leggenda troiana alla romulea? La ragione
psicologica del fatto è data già da VICO in quella boria delle nazioni, le
quali appena son pervenute leggenda ad un alto grado di potenza, non sdegnano
loro origini oscure, e aspirano a fastose e insigni. VICO accenna anche la
capitale cagione che induce i romani, quando andano in cerca di origini
fastose, a fissare la mente sulla leggenda di Enea. Ei la attribuisce alla fama
strepitosa che ha per lo mondo la guerra di Troia, a cagione del poema d’Omero
e della introduzione dell'Occidente nel ciclo troiano, dovuta alla via che si fa
per correre al reduce Ulisse. Però se la boria nazionale è la causa
inspiratrice della fusione delle due leggende, a questa non mancarono altr’impulsi.
Quando il senato romano, verso la fine della prima guerra punica, intervenne
nella contesa fra gl’etoli e gl’acarnani, e giustifica la sua intromessa in
favore dei secondi, osservando che gl’acarnani sono il solo popolo greco, il
quale non partecipa alla guerra contro I TROIANI PROGENITORE DEI ROMANIi, è
l'orgoglio nazionale che ispira quella dichiarazione. Similmente, quando il senato
accetta l'amicizia offerta dal re Seleuco, ponendovi per condizione che
liberasse i troiani da ogni tributo; e quando Flaminino, nel presentare i donativi
dei Romani ai Dioscuri e ad Apollo, chiama i suoi concittadini col nome di ENEADI,
è sempre l'orgoglio nazionale che inspira la fusione delle due leggende. Ma
allorquando la politica militare di Roma produce in seno altri fattori
vanno considerati. E, soprattutto, la parte che nella propagazione della
leggenda d’Enea in Italia hanno le numerose colonie greche dell'Italia
meridionale, e più specialmente Cuma, che oltre ad essere la più antica e la
più vicina al LAZIO, è di provenienza diretta dall'Asia Minore, e precisamente
dalla Misia, luogo finitimo alla Troade. E come le colonie greco-italiche
divenneno al trettanti centri propagatori del culto di Afrodite Alveias, dea
dei naviganti, con cui la leggenda d’Enea è intimamente collegata, cosi
l'oracolo della Sibilla cumana divenne il centro propagatore dei fausti
vaticinii, onde la religione della dardanica Afrodite conforta nel suo esilio
la famiglia degl’Eneadi. Già nell’Iliade è fatta allusione a quei vaticinii,
dicendosi che la famiglia d’Enea è serbata ad un nuovo e splendido avvenire,
mentre quella di Priamo è stata destinata alla perdizione. Ora, in questa
promessa di un glorioso avvenire serbato alla progenie d’Enea giace il motivo
riflesso dell'amalgama delle due leggende troiana e romulea. Roma costitui se
stessa obbietto dei vaticinii sibillini, e dichiara avvenute in se stessa le
promesse fatte ai discendenti d’Enea. Già ENNIO presenta in questo modo il
fatto, dicendo che Troia è risorta in Roma, e non anda guari che la repubblica
innalza a domma nazionale l'origine troiana della potente metropoli. alla
Repubblica i suoi effetti liberticidi, e la maestà quiritaria che è in bocca a
tutte le nazioni straniere, ed è oggetto di terrore e di riverenza universale,
scomparve dal popolo per riassumersi in un uomo, l'orgoglio nazionale passa in
seconda linea per cedere il primo posto all'interesse dinastico creato d’un
usurpatore. Il grande anello di congiunzione fra la leggenda d’Enea e la
dinastia dei Cesari è quel famoso IVLO, che comparisce nella genealogia degl’eneadi,
or quale figlio, or quale nipote d’Enea. E cosi nell'uno, come nell'altro
grado, semba èvi stato introdotto dai Giulii stessi, dopo che è sorto il giorno
di loro grande fortuna. Infatti, gli scrittori più antichi della leggenda non
conoscono quel nome, sebbene più nomi attribuiscano al presunto figlio d’Enea, chiamandolo
ora Eurileone, ora Ascanio, ora Ilo. Forse quest'ultimo nome, che ricorda
quello della patria ILIO, suggere l'idea della finzione genetica, ed ILO diventa
facilmente IVLO progenitore degl’IVLII. Ciò spiega il fatto del comparir di
quel nome per la prima volta nei filosofi cesarei. Co mun quesia dell'origine
sua, venne un giorno che il popolo romano apprende per bocca di Caio GIULIO
CESARE, ch'esso ha nel suo seno una progenie di celesti, e che dalla morte di
Romolo in poi essa cammina fuori del diritto divino, nel cui sentiero è ora
chiamato a ritornare. Il giorno in cui GIULIO (si veda) Cesare, essendo
questore, recita dalla tribuna del foro il panegirico di Giulia, è decisivo per
le sorti di Roma e del mondo. E là che egli annunzia al popolo stupito, che la sua
famiglia è d’un tempo progenie di dèi edire. AMITÆ MEÆ IVLIÆ MATERNVM GENVS AB
REGIBVS ORTVM PATERNVM CVM DIIS IMMORTALIBVS CONINCTVM EST NAM AB ANCO MARCIO
SUNT MARCII REGES QVO NOMINE FVIT MATER A VENERE IULII CVIVS GENTIS FAMILIA EST
NOSTRA EST ERGO IN GENERE ET SANCTITAS REGVM QVI PLVRIMVM INTER HOMINES POLLENT
ET CÆRIMONIAS DEORVM QVORVM IPSI IN POTESTATE SVNT REGES. Quando GIULIO CESARE recita
questa orazione non fa ancora il suo ingresso nella politica militante,
comecchè ha già coperto parecchie magistrature. Ma l'uomo che osato fare
pubblicamente l'apologia della regia potestà e proclamare la origine divina
della sua famiglia, ha già intuito il futuro e divisato di rivolgerne a suo
profitto il realizzamento. Nel seguente anno, infatti, lo vediamo stretto in
lega con Pompeo, e SVETONIO, Cæs ., avviato a compiere il cammino trionfale che
da Farsaglia lo conduce a Munda, e mette nelle sue mani l'impero del mondo.
Riassumendo per tanto le cose in sinquidette, notamo che se la leggenda romulea
è anteriore alla troiana, all'una e all'altra so vrasta per antichità la
leggenda semplice, riferita da Antigono, che Roma ha per fondatore un eroe
eponimo progenie di celesti, e cioè, che è nata nello stesso modo in cui
l'antichità si figura l'origine di tutte le città greco-italiche: che la
leggenda romulea, sebbene nata sul suolo romano, mostrasi nelle sue parti
essenziali come il prodotto di una invenzione riflessa, avente in mira di
spiegare sistematicamente le origini di nomi, d'instituti e di consuetudini
antiche che si trovano esistenti da tempo immemorabile, senza che è stato
riferito come avessero avuto nascimento: che la leggenda troiana, divulgata in
Occidente per mezzo delle colonie italiche e degli oracoli sibillini, è
introdotta nella leggenda romulea, quando la boria destata nei Romani dalla
loro potenza li obbligo ad andare in cerca di origini fastose da sostituire
alla origine volgare trasmessa loro dai maggiori. E come la discendenza d’Enea è
stata creata per soddisfare l'orgoglio di un popolo conquistatore, cosi essa e
scaltramente usufruita da GIULIO CESARE per legittimare la sua opera
liberticida. Un altro problema non meno interessante della fusione delle due
leggende troiana e romulea, per mezzo della quale si spiega l'origine della
città di Roma, è quello che concerne la formazione del suo primo popolo. La
tradizione romana spiega questa formazione in un modo semplicissimo. Romolo,
dopo che ha per la morte di Tito Tazio raccolta nelle sue mani la sovranità sui
socii sabini del Settimonzio, parti il popolo in TRE TRIBÙ, e pose a ciascuna
il nome del duce che ha la capitanata. Ai suoi pose pertanto il nome di ramnenses;
ai seguaci di Tazio il nome di Titienses, e a quelli di Lucumone, che halo aiutato
nella guerra contro i Sabini, il nome di Lucerenses. Quanto alla nazionalità,
la tradizione ne attribuisce una propria a ciascuna tribù. I Ramnenses di
Romolo sono per lei Latini; i Titienses di Tazio sono Sabini, e i Lucerenses di
Lucumone sono Etruschi. Però, se la tradizione è concorde rispetto alla origine
dei due primi nomi, non lo è rispetto a quella del terzo. Il Lucumone di CICERONE
(si veda) diventa presso Plutarco illucus asyli, e presso Paolo Diacono il
titolo dignitario e il nome topico si trasformano in una persona, in Lucero re
di Ardea. Queste varianti attestano per se stesse la mal ferma base su cui
riposa codesta tradizione. LIVIO (si veda) se la sbriga, dicendo il nome dei luceri
“DI INCERTA ORIGINE.” Ma se lo storico maggiore di Roma qualifica d'in certezza
l'origine dei luceri, LA FILOLOGIA DICHIARA IMPOSSIBILE LA DERIVAZIONE DEI
RAMNI DA ROMOLO, avendo questi due nomi radicali affatto diverse. Pure la
origine dei nomi è cosa di poco interesse, quando ad essi non si annette la
origine della nazionalità. Il Lucumone o il re Lucero da cui si è derivato il
nome della terza tribù romana, si è prodotto come testimonio dell’origine
etrusca di questa tribù, e da ciò si trasse la conclusione, che la nazione
romana usce fuori da tre elementi etnici, il latino, il sabino e l'etrusco, ed
è quindi una nazione mista. Diciamo subito che questa opinione è oggi
abbandonata, e che la critica moderna, dopo di avere impugnato la provenienza
etrusca dei Luceri, non arrestando sia questo resultamento negativo, ha pur
risoluto positivamente la questione, dimostrando che i Luceri devono essere
tenuti in conto di una schiatta latina; onde la nazione romana è stata composta
di due elementi etnici omogenei, il latino e il sabino, ramificazioni entrambi
del gran ceppo italico, che [Prima della pubblicazione della Storia Romana di
SCHWEGLER, l'origine etrusca dei luceri era ammessa dalla maggior parte degli
storici. Tra i fautori di essa vanno ricordati: Feodor Eago, Untergang der
Naturstaaton,WACHSMUTH, Aeltere Geschichte des römischen Staats, GÖTTLING, Geschichte
der römischen Staatsverfassung, USCHOLD, Geschichte des trojanischen Krieges. KORTÜm,
Römische Geschichte, BECKER, Handbuch der römischen alterthümer, WALTER,
Geschichte des römischen Rechts, SCHÖMANN, De Tullo Hostilio, PUCCELLI, Altreviste
sugl’antichi popoli italiani, Cortona, VANNUCCI, Storia dell'Italia antica, Fir.,
L'origine latina, anzi albana, dei Luceri è ammessa da Niebun, Römische Geschichte,
da SCHWEOLER, Römische Geschichte, da NIEMEYER, De equitibus romanis, BREDA, Centurie-Verfassung
des Servius Tullius da KLAUSEN, Aeneas und die Penaten dal Römische Alterthümer,
Mommsen si limita ad osservare, non esseircvhinailcchutns ostacolo ad ammettere
la origine latina dei luceri (Ueber die Herkunft der Lucerer lässtzu erklären),
sagen, als das nichts in Wege steht die gleich den Ramnern für eine
latinischeque Glelmaeidnidaendare in cerca Röm. Gesch. Ihne invece è scettico, e
dice che è fatica sprecata dall'ag del vero su una questione nella quale le
fonti ci lasciano al buio, e che non si gu2a0d.agna nulla giugnere un'opinione
nuova a quella degl’antichi, Röm. Gesch., Leipzig, dal LANGE, parer nostro, che
Ihne non ha bene studiato la quistione, altrimenti troverebbe che si guadagna
qualche cosa da questa aggiunta. Il primo guadagno che si fa è quello di avere
chiarito il significato del nome di questa terza tribù. LVCERE vuol dire
risplendere. Luceri equivarrebbe adunque ad illustres. E questo appellativo ben
si addice alla nobiltà d’Alba, la quale, dopo la distruzione della loro patria,
è trasferita nel Settimonzio ed ha per sua stanza il celio. Cid dimostra, a
immigro in Italia dopo iljapigicoe prima dei raseni. Noi diremo gl’argomenti
coi quali si impugna la origine etrusca dei Luceri. Indi ci faremo a dire
quelli coi quali si dimostra la loro origine latina, e la loro provenienza d’Alba
Longa. Prima di tutto, vuolsi avere presente, che la origine etrusca dei luceri
non è che una mera presunzione, mancante di una tradizione positiva, e desunta
da dati estrinseci ed accidentali, che passati sotto il crogiuolo della
critica, non danno alcun frutto. L'uno di questi dati è somministrato da certa
analogia che si riscontra fra il nome della terza tribù e quello di LUCUMONE,
che è titolo gentilizio e dignitario presso gl’etruschi. E come il nome del
colle celio si è voluto spiegare derivandolo da un duce etrusco per nome CELE Vibenna,
il quale, secondo alcuni (VARRONE (si veda)), altempo di Romolo, secondo altri
(TACITO (Ssi veda)), al tempo di Tarquinio Prisco, èsi stabilito con una grossa
schiera dei suoi connazionali nel Settimonzio. Cosi il nome luceri che portano
gl’abitanti del celio si spiego per mezzo del titolo di Lucumone che porta il
Vibenna. L'altro dato è ancor più arbitrario, in quanto che è desunto dall’ubicazione
geografica di Roma, quasi che il fatto deltrovarsi Roma in mezzo a tre schiatte
diverse, generar dovesse necessariamente l'effetto, che essa compone la sua
cittadinanza con ciascuna delle tre schiatte, per modo che esse vi sono rappresentate
tutte proporzionalmente. A questo concetto subbiettivo si contrappone
vittoriosamente per ciò che riguarda il contingente etrusco, il famoso motto
del trans Tiberim vendere, e del senso latissimo che esso acquisto e mantenne
per lungo volgere di secoli, anche dopo che gli’etruschi sono caduti sotto la
dipendenza di Roma, ed il Tevere cessa di essere un confine politico. In
verità, che se gl’etruschi hanno dato a Roma un contingente proporzionale della
sua cittadinanza, quel motto divenne uno strano enimma. Perchè esso non si
riferisce tanto alla divisione politica dei due stati, romano ed etrusco,
quanto alla DIFFERENZA DI NAZIONALITÀ, avvertita e VIVAMENTE SENTITA NELLA
LINGUA, nell’istituzioni politiche e civili, e nei costumi dei romani. Ma se i
dati estrinseci su cui è eretta l'ipotesi della origine etrusca dei luceri non
giustificano siffatta conghiettura, le prove intrinseche dimostrano addirittura
la sua falsità. Queste prove si de sumono DALLA LINGUA e dalla religione dei
Romani. È ovvio, che se gl’etruschi danno un proprio contributo alla formazione
del popolo romano, in tal caso LA LINGUA LATINA dove somministrare la chiave
per decifrare l’inscrizioni etrusche, ed essa stessado vrebbe contenere tale
copia di voci etrusche da assumere il carattere di una lingua mista, ossia, di
una lingua formata di due diversi organismi. Ma NÈ IL LATINO AIUTA A SPIEGARE
L’ETRUSCO, nè nella costituzione organica della lingua del Lazio apparisce
alcun vestigio di miscele eterogenee; chè, anzi, LA CARATTERISTICA PECULIARE
DELLA LINGUA LATINA È LA STRAORDINARIA UNIFORMITÀ DELLA SUA FORMAZIONE. Lo che
attesta la uniformità della sua formazione. Alla stessa conclusione conduce
l'esame delle istituzioni religiose di Roma. Se i luceri sono stati una tribù
etrusca, la religione romana contene traccie di divinità e di culti etruschi, come
ne presenta di divinità sabine. Imperocchè il pareggiamento successivo della
terza tribù alle due prime dove avere per effetto la mutua comunicazione dei
rispettivi culti, come ciò è avvenuto prima fra i ramni e i Tizii, ossia fra latini
e Sabini. ORA, LA RELIGIONE ROMANA NON PRESENTA UNA SOLA DIVINITÀ E UN SOLO
CULTO CHE VESTA UN CARATTERE ETRUSCO. Anche lo stato d'inferiorità, in che, rispetto
alla tribù dei ramni e dei tizii, trovasi la tribù dei luceri, portato al grado
da tenere costoro fino al tempo di Tarquinio Prisco esclusi dal senato,
contraddice alla ipotesi che i luceri entrassero fin dal l'origine di Roma a
formar parte del primo popolo, e compissero di questo la compagine etnica
recando nel suo seno l'elemento etrusco. Questo stato d'inferiorità si spiega
invece in modo semplice e naturale, quando ammettasi che la tribù dei Luceri
fosse costituita dai nobili d'Alba tramutati a Roma, e che quindi entrasse più
tardi a formar parte del primo popolo. Alla posteriore aggregazione dei luceri
alle due primitive tribù, e allo stato d'inferiorità dei primi rispetto alle
seconde accenna il verso di Properzio. Hinc taties ramnesque viri, luceresque coloni.
Non mancano poi le prove dirette, dimostranti che i luceri, oltre ad
esseretrati posteriormente nel consorzio dei romani e dei tizii, sono pure di
origine albana. LIVIO (si veda), parlando degli stanziamenti condotti dal re
Anco Marcio sul colle Aventino, osserva che egli assegn ai vinti latini per
sede quel colle, perché gli altri quattro -- il PALATINO, il CAPITOLINO, il QUIRINALE
e il CELIO (il Viminale e l'Esquilino sono aggiunti alla città solo dal tempo
di Servio Tullio) sono già popolati. E cioè, il colle palatino dai romani
primitivi, ossia dai ramni. E il capitolino e il quirinale dai sabini, e il celio
dagl’albani. Ora, se questi ultimi hanno per loro stanza il celio, non
saprebbesi davvero dove collocare i luceri, quando non siammettesse che i luceri
e gli’albani sono la stessa cosa. La critica adunque negando la origine etrusca
dei luceri, ha messo in sodo il fatto che la nazione romana venne composta di
due elementi etnici, anzichè di tre, il latino, cioè, e il sabino.Questa
composizione spiega il carattere che distingue la nazione romana dalle altre
nazioni italiche. Questo carattere è il prodotto della fusione di due stirpi
che pareno fatte apposta per completarsi a vicenda. Dall'e lemento sabino il
popolo romano riceve la frugalità, lo spirito religioso, la severità dei
costumi, il principio della patriapotestas lasciata senza freno dalle leggi.
Sono la base di granito e il duro cemento che i sabini apportano all'edifizio
romano. Se nel sabino prevale lo spirito di conservazione, nel latino predomina
lo spirito di sviluppo. Ma come il primo non è inflessibile, così il secondo
non è radicale. E dal contrasto fra la mobilità latina e la stabilità sabina
deriva quel lento, ma pur continuo e sicuro sviluppo della costituzione romana,
che forma di essa la più grande creazione politica della civiltà antica. Ma le
tribù dei ramni, dei tizii e dei luceri non formano tutto il popolo romano.
Accanto a loro comparisce, come parte costitutiva di esso popolo, la plebe, la
quale, dopo di essere rimasta a lungo in uno stato di semi-dipendenza dal primo
popolo, ossia dal PATRIZIATO, fini col prevalere su di esso, ed obbligarlo a
seguire la sua via. Ora, come sorge questo ceto sociale? Ecco il problema che ci proponiamo di risolvere in
questo nostro lavoro. I romani non sono ignari di questo prezioso patrimonio
che hanno ricevuto dai sabini. Ce lo attesta CATONE (si veda) per bocca di SERVIO.
Sabinorum mores populum romanum secutum CANOTE dici SERVIO ad En. Vedi Devaux, Études politiquessur
les principaux événements del'histoire romaine, Paris. La quistione
dell'origine della plebe e studiata particolarmente da STRESSER,Versuch über
die römischen Plebejer der ältesten Zeit, Elberfeld, PELLEGRINO (si veda),
Ueber den ursprünglichen Religionsunterschiedder Patricier und Plebejer, Leipzig,
lune, Forschungen auf dem Gebieteder römischen Verfassungsgeschichte, Frankfurta.
KRUSZYNSKI, Die römische Plebs in ihrer politischen Entwickelung vom Ursprunge bis
zur völligen Gleichstellunng mit den Patriciern, Lemberg, SCHWEGLER, Römische
Geschichte. TOPHOFF, De plebe romana, Essen. WALLINDER, De statu plebejorum
Romanorum ante primam inmontem sacrum secessionem quaestiones, Upsaliae. Lange,
Verbindung der plebs mit dem patricischen Staate nei Römische Alterthümer,
Berlin. Gli storici antichi sono affatto
all'oscuro intorno il fatto della origine del ceto plebeo di Roma. La sola cosa
che essi sapessero è che la plebe èsi trovata sempre in uno stato d'antagonismo
verso il patriziato. Da ciò la definizione negativa che essi dano della plebe,
chiamandola il ceto in cui gentes civium patriciæ non insunt. Per qual via poi l'antagonismo
è nato, o in altri termini, come la plebe ha origine, ciò essi riguardano come
una quistione oziosa, imperocchè a loro paresse assurda l'idea che è mai
esistito uno stato romano senza plebe; onde per loro è un assioma, che
patriziato e plebe sono nati e cresciuti insieme collo stato romano. Contro
questa presunzione sta però il fatto, non considerato, della condizione
giuridica diversa in che trovavansi due ceti sociali all'infuori del
patriziato, la quale attesta che essi non sono nati insieme nè allo stesso
modo. Accanto alla plebe, trovasi, cioè, nei primi tempi dello stato romano, LA
CLIENTELA, caratterizzata e distinta dalla plebe dalla forma speciale della sua
dipendenza. Mentre la dipendenza della plebe ha un carattere impersonale e
comprende il ceto nella sua generalità, quella della clientela impegna
giuridicamente l'individuo come persona e non come consorte, ed appunto perciò
esso nomavasi “cliente” -- da cluere, klúeiv, dipendere -- in quanto che è
ascritto alla gente di un patrono, e da questo dipende. Che se nel giure
politico plebei e clienti trovansi originariamente costituiti nella stessa
condizione negative. Nel giure privato, la condizione loro è assai diversa. Il
cliente nè possede del proprio, nè puo stare in giudizio; mentre il plebeo
possede su questo campo piena personalità giuridica (civitas sine suffragio). Di
guisa che, quando per la costituzione di Servio Tullio, il censo divenne il
fattore del diritto di suffragio, questo diritto i plebei conseguirono, mentre
i clienti ne rimasero orbi come per il passato. Ora, questa differenza
esistente fra i due ceti inferiori non si pud altrimente spiegare fuorché
ritenendo, che l'origine loro è, rispetto al tempo e al modo, diversa. La
clientela deve certamente avere preceduto la plebe, e l'inferiorità della prima
rispetto alla seconda dimostra che la forza, che crea la sottomissione dei due
ceti, esercita sui vinti ridotti in clientela un impero più assoluto che su
quelli ridotti in istato di plebeità. Perchè il cliente conseguire potesse il
IVS SUFFRAGII fa mestieri che il dominium, che egli tene come peculium, gl’è
assegnato come libera proprietà EX IVRE QVIRITIVM. Il quale atto equivale in certo modo ad una manumissio
censu. Ora, se l'istituzione della clientela è più antica che quella della
plebe, è forza cercarne l'origine nella prima conquista che frutto ai Ramni ed ai
Tizii il dominio del Settimonzio. Gl’abitanti primitivi di quella regione
devono avere formato il nucleo della clientela romana, che le ulteriori
conquiste vennero via via ingrossando. Ma tra la prima e le ulteriori
conquiste, corse, rispetto agli effetti sociali, forte differenza. Se la prima
non produce che dei clienti e degli schiavi, le successive produceno
particolarmente dei plebei. Già l'interesse politico consiglia i conquistatori
a temperare verso i nuovi vinti il rigore dell'antico IVS GENTIVM; e noi non
abbiamo memoria della piena applicazione di quel diritto che verso la città di
Collazia. E se alle famiglie imperanti è pur piaciuto di partire i novelli
sudditi fra le genti romane, traducendole sotto la loro clientela, la monarchia
dovea opporsi a questo uso della conquista che ha con pregiudizio della regia
potestà accresciuto in modo esorbitante la potenza dell'aristocrazia. E chi sono
poi questi vinti? SONO LATINI. Apparteneno, cioè, a quella STIRPE che ha coi ramni
formato il nucleo della cittadinanza romana. Sono dunque connazionali dei romani.
Che se costoro hanno pei vinti Albani tale riguardo, d’ammetterli nel loro
consorzio religioso e politico, perchè vorrassi ammettere che verso gl’altri
popoli latini, sottomessi pure colle armi, applicano in tutto il suo rigore il
diritto della guerra? E ove pure si ammettesse che questo rigore è usato, come
ci renderemmo ragione del sorgere di questa plebe e della importanza sociale
che venne improvvisamente acquistando, così da presentarsi come un potente
appoggio della monarchia, e da ricevere da questa servigi e beneficî che
schiuderanno all'avvenir suo il più vasto orizzonte? Non dimentichiamo che
questi plebei son LATINI. La tradizione stessa ci dice quando e per opera di
chi i popoli del LAZIO caddero sotto ladizione diRoma. La distruzione d’Alba Longa,
e il tramutamento dei nobili albani nel Settimonzio, portano per effetto lo
scoppio d’ostilità fra le città latine, erettesi a vindici della loro antica
metropoli, e Roma che pretende, come conquistatrice d’Alba Longa, di essere
riconosciuta anche come erede della sua [Livio ci ha trasmessa la formula
deditionis di Collazio, che egli attinge verisimilmente dai Commentarii
Pontificum. Rex interrogavit. DEDISTIS NE VOS POPVLVMQVE CON LATINVM VRBEM
AGROS AQVAM TERMINOS DELVBRA VTENSILIA DIVINA HVMANAQVE OMNIA IN MEAM POPVLIQVE
ROMANI DICIONEM? Dedimus. LIVIO (si
veda) La domanda del re è rivolta ai deputati di Collazia. Rivista di Storia
Italiana] egemonia sulla confederazione latina. La grossa guerra scoppia sotto ANCO
MARCIO (si veda). Non è dubbio che questi, prima di scendere in campo,
approfittasse delle gelosie esistenti fra l'una e l'altra città latina, e che
sono effetto di ogni confederazione a base ristretta, per rompere il fascio con
promesse e lusinghe date a tempo e a luogo. Senza ciò, non potremmo avere
ragione della sua facile e completa vittoria. Ora che cosa faA ANCO MARCIO (si
veda) di questi nuovi vinti? Gli storici antichi ce lo apprendono in modo
chiaro. ANCO MARCIO (si veda), dice CICERONE, quum Latinos bello devicisset,
adscivit eos in ci vitatem. E LIVIO, completando il racconto di CICERONE, osserva
che Anco segue rispetto ai vinti Latini il costume regum priorum, onde anche
allora parecchie migliaia di Latini sono introdotti nella cittadinanza romana.
Tum quoque multis millibus Latinorum in civitatem acceptis. Non cicuriamo del
racconto tradizionale, che fa materialmente introdurre da Anco in Roma questi vinti,
e assegnare ad essi per sede IL COLLE AVENTINO e LA VALLE MURCIA. In questo
racconto, la prolessi storica è manifesta: che sappiamo in modo in
contestabile, che l'Aventino è disabitato. Ma lasciando da parte questo
particolare, ciò che va considerato nel racconto tradizionale è il fatto della
cittadinanza concessa d’Anco Marcio ai vinti latini. E perchè, nè questa è la
prima guerra combattuta vittoriosamente da Roma contro i latini, e nemmeno è la
prima volta che della vittoria è fatto quest'uso; ne emerge, e LIVIO (si veda) avvalora
l'induzione nostra, che se la conquista d’Anco da il maggior contingente al ceto
plebeo, essa non ne inizio la formazione, come suppone Niebuhr, seguito in cio
da Schwegler, da Lange e d’altri. BONGHI (si veda), per ora si limita a dire,
che non crede che la plebe dove la sua origine ad Anco,e promette, che procura
altrove di esporre donde sia nata l'opinione di una condotta rispetto a'vinti nei
re di Roma, cosi diversa da quella che per molto tempo appare propria della
città nel seguito della sua storia. E perchè insin d'ora egli dichiara esposta
a molti e gravi dubbii cosi larga concessione di cittadinanza, il desiderio di
sapere quale opinione l'insigne storico porti sul gravissimo tema della ori [Lo fa abitare la “les Icilia de Aventino
publicando”. Il tenore di questa legge ci è dato da Dionisio, il quale attesta
di aver letto il testo originale di essa inciso in una colonna di bronzo che
sorgeva nel tempio di Diana sull'Aventino. Drox., DeRep., Liv.] gine della plebe
romana rimane più fortemente sentito. Comunque sia perd dell'opinione di BONGHI
(si veda) su ciò, noi rimaniamo saldi nella nostra, la quale, oltre ad avere il
suffragio delle fonti, ha pure in suo favore la condizione sociale da cui la
romana plebe fu costituita. Il plebeo romano è agricoltore. Egli non è nè
commerciante nè industriale.Queste arti, che nell'antichità sono assai meno
considerate dell'agricoltura, sono professate in Roma peculiarmente dai clientie
dai liberti. Codesta condizione sociale della plebe romana è attestata dalla tradizione
in più modi. Ora, essa ci dice che SERVIO (si veda) Tullio, per poter avere
l'appoggio della plebe alla sua esaltazione al trono, chiama in città i rurali,
e per bocca di CATONE ci dice che gl’agricoltori formano il nerbo della
fanteria romana. Ma un testimonio che serve per tutti, è l'antica istituzione
che l’adunanze plebee, ossia i comizii tributi, non si possono tenere che ne igiorni
di mercato (nundines), e che ogni proposta di legge dove pubblicarsi III giorni
di mercato (tri-nundines) prima di essere messa a partito. Anche la condotta
tenuta dalla plebe nella sua lotta col patriziato conferma questa condizione
sua. Gli storici qualificano siffatta condotta colle parole modestia,
verecundia e patientia. Sono doti codeste che appariscono più proprie di coloro
che attendono alla coltura dei campi, che di coloro che praticano l'industria e
il commercio. E se le contese sociali di Roma non degenerano in [EX AGRICOLIS
VIRI FORTISSIMI ET MILITES STRENUISSIMI GIGNVNTVR -- CATONE, De re rustica,
Praef., MACROBIO TEODOSIO, Saturnalia. Rutilius scribit Romanos instituisse
nundinas, ut VIII quidem diebus in agris rustici opus facerent, nono autem die
intermisso rure ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent, et ut scita
atque consulta frequentiore populo referrentur, quæ tri-nundino die proposito a
singulis atque universis facile poscebantur. Ci sia permesso di riportare su
l'influenza educativa dell'agricoltura un brano di una conferenza che tenemmo
all'esposizione di Milano, col titolo L'industria nei suoi rapporti colla
civilta. Gli economisti, dicevamo, sogliono distinguere due specie di lavoro. Quello
che agisce sulle cose, e quello che agisce sugl’uomini. Questa distinzione non
è esatta. Se tolgasi il lavoro puramente intellettuale, ogni altro agisce ad un
tempo su gl’uomini e sulle cose. Questa duplice azione viene esercitata
sopratutto dall'agricoltura e dall'industria. Dal raffronto fra queste due arti
ritrarremo la ragione psicologica del nesso intimo che esiste fra l'industria e
la libertà. L'agricoltore riguarda la TERRA come fonte unica della ricchezza. Essa
è per lui una provvidenza e un mistero ad un tempo. Perciò noi lo vediamo
affezionato al suo suolo, ivi fissato in istabile sede, ed unito in pacifico
consorzio co'suoi conterranei. Da questo legame contratto dall'uomo colla terra
che lo nutre nacque il primo concetto di PATRIA, come dai consorzii generatid all'agricoltura
hanno origino i primi stati. Ma la terra non è per l'agricoltore solo una
provvidenza, essa è per lui anche un mistero. E questo lato misterioso è una
sorgente feconda di superstizioni, che egli puo facilmente anche nei negozi
civili, o nelle maggiori contingenze della vita pubblica. Quei soldati di Nicia
e Demostene, che una notte ricusarono di levare il campo da Siracusa e rifugiarsia
[Livio, CICERONE, de Rep. Riassumendo pertanto le cose dette intorno la
formazione della plebe romana, diremo, che sebbene la genesi di quel ceto non puo
essere chiarita in tutti i suoi particolari, tuttavia hannosi dati positivi, i quali
rilevano di che elementi è formato, e la ragione politica che induce i
vincitori a trattare i vinti con una generosità di cui non si ha esempio nella
storia dell'antichità. Questi dati ci dimostrano ancora che l’istituzione della
clientela precedet quella della plebe, e ci spiegano il diverso trattamento
avuto dai primi vinti rispetto ai secondi. Catania, perchè quella notte
comparve in cielo un ecclisse lunare, sono agricoltori dell'Attica. E l'essere
essi rimasti in quel luogo porta per effetto lo sterminio della flotta e
dell'esercito ateniese, e la rovina d’Atene. Del resto, non è da meravigliarsi
che l'agricoltore sia superstizioso. Quel grano che egli consegna alla terra
per riceverlo moltiplicato, non gli dice come sia avvenuto il fatto della
moltiplicazione sua mentre questo evento che ogni anno si rinnova gli stordisce
l'intelletto, altri fenomeni del mondo fisico, di natura deleteria, gli riempiono
l'animo disgomento e di terrore. L'uragano che gli devasta il campo; la
grandine che gli distrugge le messi, gl’appariscono mandatarii di forze arcane
che gli fanno la dallo stesso principio che aveva dato nascimento alle
gerarchie ipercosini che hanno origine le gerarchie sociali, trasformate ben
presto in tirannidi. Il despota non è un uomo come un altro. Egli è il
mandatario di un ente superiore che gli affida l'incarico d'imperare in suo
nome. E l'agricoltore subisce rassegnato il suo imperio, e comprende nel suo
culto mandatario e mandante, dai quali altro non impetra che la sua pace. Quanto
diverso è il magistero civile che si consegue dall'industria! Anche
l'industriale ritrae dalla natura fisica la materia del suo lavoro. Ma questa materia
in luogo di essere per lui un mistero, è invece una rivelazione. Essa gli
rivela che egli coll'opera della sua intelligenza non solo può trasformare i
pro dotti della natura e adattarli a'suoi bisogni, ma può anche sorprendere i segreti
di essa e svelarli. Si, l'intelligenza gl'insegna ch'egli può perfino
combattere contro la natura, ora congiungendo mari da lei divisi, ora
atterrando baluardi da lei inalzati fra l'una e l'altra regione, ora
sopprimendo colla vaporiera e coll'elettrico le distanze. Se l'agricoltore può
chiamarsi servo della natura, l'industriale può dirsi suo ribelle. Ed è mai
possibile che quest'uomo, al quale l'impero della natura è troppo grave, possa
rassegnarsi a sopportare l'impero di un suo simile? guerre civili, come
avvenne in tutti gli altri stati dell'antichità conjattura della loro libertà,
cio e particolarmente dovuto al carattere longanime e paziente della plebe romana,
la quale, convinta del suo diritto, lascia che il tempo ne fa maturare la
coscienza anche nei suoi avversarii, e transigette sopra uno scacco patito oggi
per essere più sicura della vittoria domani. guerra, e contro le quali egli non
sa difendersi. Da ciò il suo ricorso ad una tutela che lo educherà alla
sommessione per prepararlo alla servitù. In questi misteri del mondo fisico è
riposta quindi la genesi tanto delle religioni, quanto delle teocrazie. Le due
specie divine, l'una delle quali risiede in cielo in mezzo alla luce, l'altra
negli abissi del tartaro, sono emanazioni antropomorfe delle forze benefiche e
malefiche della na tura. Create le specie, e facile creare una SIMBOLICA, per mezzo
della quale spiegare i diversi fenomeni e momenti della natura fisica. In
questa simbolica vediamo attribuita una importanza affatto speciale al fenomeno
della fecondazione terrestre. I latini simboleggiarono quel fenomeno in una
festa nuziale divina chesirinnovava ognianno nel mese di dicembre, quando la natura
si raccoglie in sè, e serba in istato latente le sue forze per ispiegarle
rigogliose tra poco. Così ebbero origine in Roma i saturnali, la più popolare
delle feste romane, durante la quale era concesso anche agli schiavi di
ricordarsi di essere uomini. La chiesa cristiana sostituì ai Saturnali la
nascita del Cristo, e non poteva collocare in migliore luogo la comparsa
dell'uomo che veniva ad insegnare, essere tutti gli uomini eguali davanti a
Dio. La clientela sorse colla conquista del Settimonzio, ossia, colla for
mazione del primo stato. E clienti diventano i prischi abitatori di quella
contrada. La plebe surse invece col primo sviluppo che con seguì lo stato romano
fuori del Settimonzio, nelle altre contrade del Lazio. Una eccezione fu fatta
cogli Albani, e fu eccezione di privilegio dovuta al primato che Alba Longa
possedeva verso le città della lega latina. Sia la riverenza che tributar si
volle all'antica metropoli; si al'interesse político, che consiglia la larghezza
verso i vinti Albani, per poter più facilmente ridurre le città latine ad
accomodarsi alla nuova padronanza. E l'una e l'altra ragione portano per
effetto, che gl’Albani venissero dai vincitori accolti nel loro consorzio
religioso e politico,e costituiti in una nuova tribù. Questa larghezza non
poteva essere usata verso le altre città la tine, e ciò per più ragioni. Prima
di tutto, va considerato il carattere d'inferiorità che, rispetto alla loro
importanza, si manifesta fra esse città e Roma. Se eccettuisi Alba Longa, che
ha una posizione privilegiata rispetto alle città latine confederate, queste
son tutte sul piede di una piena eguaglianza vicendevole. E però, nessuna di
esse puo invocare dal vincitore un trattamento eccezio nale accampando
privilegi anteriori che non erano stati posseduti. Però, se l’eguaglianza delle
città vinte fra loro non dava luogo a sperare che il iVS GENTIVM non sarebbe
stato applicato verso di esse in tutto il suo rigore, vi sono altre ragioni che
creano questa speranza, la quale ha poi nel fatto sua piena conferma. L'una di
queste ragioni era riposta nella connazionalità esistente tra vinti e
vincitori, Roma, dove la sua origine all'atto geniale di un fondatore, o alla
deliberazione di un'assemblea, non puo dimenticare che dal Lazio sono partiti i
suoi primi fondatori, i Ramni; e che dal Lazio, essa avea tolto i suoi costumi
e le sue primitive istituzioni. Dopo il tramutamento in Roma dei vinti Albani,
la latinità di Roma rafforza il suo contingente, onde avvenne che i rapporti
morali fra lei ed il Lazio si fanno più forti e più sentiti. I quali rapporti
non possono rimanere senza influenza il giorno in cui la vittoria trasse le
città latine sotto la dipendenza di Roma. Anche l'interesse monarchico concorse
a mitigare la sorte dei vinti. Importa ai re di rivolgere a loro profitto
questa novella forza che ora introducevasi nello stato, per potere col mezzo di
essa mettere un freno alle tendenze invaditrici del patriziato. Cosi, pel
concorso di due circostanze, che apparentemente contraddiceansi, i vinti
Latini ebbero pur essi da Roma un trattamento eccezionale. Non sono ascritti
nel consorzio gentilizio come i nobili albani, ma non venneno nemmeno degradati
allo stato di clientela. Diventano invece PLEBE, che vuol dire massa
disorganizzata (da PLEO, PLENVS). Ma non e lontano il giorno, che essa
conseguirà pure un organismo suo; e allora il nome non rappresentando più la
cosa, non le rimane che come ricordo storico. Ed è il giorno, in cui, per opera
di Servio Tullio, al principio teocratico che cinge in nome del diritto divino
di una cerchia di ferro i privilegi del patriziato, si sostituirà il principio
timocratico, che apre quella cerchia per attribuire il privilegio al censo. È
questa la prima breccia aperta nella cittadella del patriziato. Dopo di essa, la
espugnazione della fortezza diventa quistione di arte strategica, che è a dire,
quistione di tempo. Bologna, giugno. Ma se la plebe nel suo nascere non possede
la personalità giuridica che implica il jus commercii, essa non avrebbe potuto
pervenire per mezzo del diritto di proprietà a quello del suf fragio, e la
riforma di Servio Tullio sarebbe rimasta sterile per lei, come sarebbe mancata
la ragione politica di crearla. Rino Genovese. Genovese. Keywords: tribù, attribution,
self-ascription, ascription, labelling, power, language, illuminism, critical
illuminism, critical theory, critica della ragione impura; tribu occidentale; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Genovese” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Genovesi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della logica pei giovanetti – filosofia
campanese – cuola di Salerno -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castiglione del Genovese). Filosofo campanese.
Filosofo Italiano. Castiglione del Genovese, Salerno, Campania. Grice: “I like
Genovesi.” Grice: “Genovesi
is a good’un – he reminds me of Oxford – his treatise on logic he called ‘per
gli giovenetti,’ which is, as Piaget would say, as it would.” Grice: “Genovesi
reminds me of Strawson, or rather of myself teaching logic to Strawson back in
that infamous term of 1938!” – Grice: “I like Genovesi; I don’t think Socrates
taught logic to Alcebiades; he couldn’t teach since the ‘dialogue’ is hardly
the way to do it; and then Socrates did not teach logic to Plato; Plato did not
teach logic to Aristotle, since the dialogue is not the way to go – so it is
possibly Aristotle who first ‘taught’ logic to Alexander – this would indicate
that he felt the need to change the form from silly dialogical exchanges to
actual propositions that Alexander could swallow – “Sign” is what stands for
something – a word is the sign of an idea – the idea is the sign for a thing.” –
and so on. “Some things imply others; others IMPLICATE others.” – Grice:
“Genovesi has an interesting bunch of things to say about logic, but then any
writer of a ‘tractatulus’ in logic would: so he explores the
natural/conventional distinction as applied to signs, and then the affirmation
and negation, and pragmatic concerns with obscurity and ambiguity – and
sophismata – and complex ‘causal’ propositions, -- quite a genius – and if a
palaeo-Griceian, if I may myself say so!” Il padre lo indirizza in tenera età verso gli studi.
E affidato agli insegnamenti di Niccolò G., un congiunto, medico tornato da
Napoli, il quale lo istruì in filosofia peripatetica – del LIZIO -- e quella
cartesiana. Nel corso degli studi filosofici, si innamora di Angela Dragone.
Questo amore non trovò l'approvazione del severissimo genitore il quale
condusse immediatamente il figlio a Buccino, dove abitavano alcuni parenti,
presso il convento dei Padri Agostiniani dove segue gli insegnamenti filosofici
d’Abbamonte, appassionandosi al latino di Catone e Varrone. Insegna retorica a Salerno
dove incontra Doti, dal quale riceve lezioni di perfezionamento nel latino.Si
trasfere a Napoli, dove intraprese dapprima la carriera forense, che lascia
presto. Fonda una scuola privata di metafisica e teologia. A Napoli e in
contatto con VICO e ottenne la cattedra di metafisica. Alcune sue posizione
contenute in “Elementa Metaphysicae” furono dai suoi nemici considerate
eretiche, e dovette servirsi dell'intervento dell'arcivescovo di Taranto Galiani,
e di Benedetto XIV per conservare l'abito talare. In seguito a queste denunce
lascia l'insegnamento della metafisica a Napoli, per passare all'etica,
cattedra tenuta in passato da VICO. L'evoluzione dalla metafisica-
all'etica prosegue con il passaggio all' “economia” quando si compì la
trasformazione 'da metafisico a mercante', come egli stesso ebbe a scrivere
nella sua autobiografia. Insegna'commercio e meccanica, con fondi privati da Intieri,
la prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa, se non
consideriamo cattedre di economia quelle istituite negli anni venti Professorei
n Prussia nell'ambito della tradizione camerale. Il suo lavoro come economista
è stato quello più fecondo, tanto che G. divenne un autore fondamentale. Si
diffondevano in quel tempo i primi accenni di rivolta allo spirito e al costume
della Contro-Riforma: gli spunti di polemica antigesuitica e anticlericale, la
ripresa della lotta in difesa dell'autonomia di un sato laico contro ogni
interferenza del cattolicesimo, ai primi elementi di una teoria delle monarchie
illuminate e del regime paternalistico, nonché, sul piano letterario, l'avvento
di una poetica e di una critica più aperte e coraggiose. In pratica, fu
l'inizio della vera rivoluzione culturale che si attuò nella seconda metà del
Settecento sotto il segno dell'Illuminismo caratterizzata dalla necessità di
trasformare integralmente i cardini dciviltà in tutte le sue manifestazioni. In
questo ambito, la filosofia politica di G.e decisamente di tipo riformatore, un
anglofilo sotto spoglie francesi. Nella sua filosofia, persegue un compromesso
tra idealismo ed empirismo, cercando ad ogni costo di salvare gli essenziali
valori religiosi della filosofia cristiana. Riceve l'influenza del nuovo
panorama culturale italiano, con la voglia di cercare con studi ed esperimenti
il concetto della pubblica felicità, consistente nel far uscire l'uomo dallo
stato d’oscurità (Illuminismo, che in Francia era già in atto: Les Lumières). Prese
coscienza della decadenza culturale, materiale e spirituale dopo il periodo
d'oro del Napoletano e, quindi, si rese conto della necessità di intervenire
per riportare le arti, il commercio e l'agricoltura a nuovi splendori. “Io,
che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad
avere in orrore studi si turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi
ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a
queste materie. Per tale motivo, abbandona la metafisica e si dedica all’economia
affermando tra le altre cose, che l’economia deve servire ai governi per
alimentare la ricchezza e la potenza del stato. Ritiene che per favorire il
benessere “sociale” sia necessario promuovere la cultura e la civiltà, per
questo motivo è il primo cattedratico ad impartire le sue lezioni in italiano.
Docente di economia politica, occupa una cattedra istituita appositamente per lui
di commercio e meccanica a Napoli da Intieri. Soggiorna più volte nel palazzo
proprio di Intieri a Massaquano per lunghi periodi dove si rifugiava per
trovare "la musa ispiratrice" e lì infatti scrisse alcune sue
opere. Sostiene che anche le donne e i contadini abbiano diritti alla
cultura poiché questa è uno strumento fondamentale per realizzare l'ordine e
l'economia nelle famiglie, e di conseguenza nella società, è inoltre importante
anche l'educazione degli uomini e in particolar modo lo sviluppo delle arti e
delle scienze, contrapponendosi all'idea di Rousseau per il quale il progresso
costituisce la fonte di tutti i mali. Denuncia anche la presenza di un numero
eccessivo di persone che vivono esclusivamente di rendita e affronta tematiche
importanti come problemi di debito pubblico, inflazione e circolazione
monetaria. Il suo pensiero economico è espresso in Lezioni di commercio o
sia di economia civile e considerate una
delle prime opere di filosofia economica. Cerca, così, di indicare la via per
alcune riforme fondamentali: dell'istruzione, dell'agricoltura, della proprietà
fondiaria, del protezionismo governativo su commerci e industrie. Tenne
sempre le sue lezioni in italiano grazie alla sua passione per il civile: viene
ricordato per essere stato il primo docente a esprimersi in italiano durante i
suoi corsi e per essere stato tra i primi a scrivere trattati di metafisica e
di logica in italiano. Così operò, anche e soprattutto, per diffondere lo
studio dell'Economia e delle scienze nel popolo: in questo atteggiamento G. è
ancora una volta in piena continuità con gli umanisti, giudicando anche questo
un mezzo di incivilimento. Altri saggi: Lezioni di commercio (Milano,
Fondazione Mansutti), Elementa metaphysicae mathematicum in morem adornata,
Napoli; Elementorum artis logicae-criticae libri quinque Gli elementi dell'arto
logico-critica, Venezia, Meditazioni filosofiche; Lettere filosofiche; Lettere Accademiche; Memorie Autobiografiche;
Lezioni di commercio o sia d'economia civile; Della diceosina o sia della
Filosofia del giusto e dell'onesto; Delle Scienze Metafisiche; Altre opere da
ricordare sono La logica per i giovanetti, Istituzioni di Metafisica per
Principianti e Lettere familiari, che testimoniano l'intensa corrispondenza
epistolare tra l'abate e il letterato dell'epoca Ferrante de Gemmis, uno dei
pochi testimoni dell'illuminismo pugliese. Corpaci, G.; note sul pensiero
politico, Giuffrè, Jones, Reception of Hume in Europe, Continuum, Palatano,
Rosario; G. G.: teoria del commercio, LUISS, G. Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Villari, Il pensiero economico di G.,
Monnier, Chines, Loredana. Su alcuni aspetti linguistici degli scritti di G.,
Pensiero politico, Alessandra, G.: uno dei padri dell'illuminismo meridionale,
su historiaiuris, Bonomelli (a cura di, Quaderni di sicurtà. Documenti di
storia dell'assicurazione, Fondazione Mansutti, schede bibliografiche di
Battista, note critiche di Mansutti. Milano: Electa, Bruni, Voce, G., Il
Pensiero Economico Italiano, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani.
Bruni e Zamagni, Economia civile, Il Mulino, Bologna,. Fusco, G. e il suo
mercantilismo rinnovato, in Fusco, Visite in soffitta. Saggi di storia del
pensiero economico, Napoli, Editoriale Scientifica, Galasso, Il pensiero
religioso di G., Rivista storica italiana, G. Genovese, Contro le
"Penelopi della filosofia". Note sulle Lettere accademiche di G.,
L'acropoli, G. Genovese, Tra Vico e Rousseau: le autobiografie di G.
L'acropoli, D. Ippolito, G. lettore di BECCARIA, Materiali per una storia della
cultura giuridica, C. Passetti, Una fragile armonia: felicità e sapere nel
pensiero di Antonio Genovesi, Rivista storica italiana, Perna, Eluggero Pii e
l'edizione delle opere di G. Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di
Commercio, Il pensiero politico: rivista di storia delle idee politiche e
sociali, A. M. Rao, Etica e commercio: i Dialoghi di G. nell'edizione di Eluggero Pii, Il pensiero
politico: rivista di storia delle idee politiche e sociali, Rother, G., in Rohbeck, Rother: Grundriss der
Geschichte der Philosophie, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, Italien.
Schwabe, Basel, Villari, G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo
sociale, Studi Storici, Zagari, Il metodo, il progetto e il contributo
analitico di G., Studi economici, Gleijeses, Napoli nostra e le sue storie,
Società Editrice Napoletana, Napoli, Signorelli, Treccani, Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Antonio Genovesi, sConferenza Episcopale Italiana. Opere di G. G. (altra versione), su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di G., Bruni, G., Il contributo italiano alla
storia del Pensiero: Economia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ricci, G. in Il contributo italiano alla
storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Barbagallo, G., Estratto da: Rassegna Storica Salernitana. G. non è uno
di quei filosofi, che fanno compiere un passo innanzi al pensiero
filosofico. A paragone del grande Vico, che si gloria di aver avuto
maestro e la cui Scienza Nuova cita nelle sue opere con profondo rispetto,
G. apparisce come uno di quei mille ammiratori, più o meno sinceri, che VICO
ha tra i suoi contemporanei e tra gli uomini più illuminati delle
generazioni successive; i quali ebbero un certo sentore di alcune teorie
di lui, concordanti o no con dottrine congeneri di altri pensatori e da
annoverare tra le parti accessorie del suo sistema, ma pei quali i
problemi originali posti e risoluti dal Vico, si può dire, non ebbero
senso. Se pertanto nella storia del pensiero il Vico rappresenta quello
che egli rappresenta a’ nostri occhi di storici che han penetrato il
significato di quei problemi, G. dopo di lui è un arresto o una deviazione.
Quella vena speculativa altissima nello scolaro discorso tenuto al Teatro
Verdi di Salern, ìn occasione del monumento inaugurato lo stesso giorno a
Castiglione di G.. L’illustre VICO, uno de’ fu miei maestri,
uomo d’immortai fama per la sua Scienza Nuova (Lez. di Comm.,
Napoli, Il nostro VICO nella Scienza Nuova, libro maraviglioso e uno dei
pochi che in queste materie [su Omero] facciano onore all’ Italia (Logica e
Metafisica, Milano, Classici italiani, ALBORI DELLA NUOVA ITALIA è inaridita.
Il pensiero ha cambiato strada, abbandonando gli ardui argomenti con cui
s’era cimentato. Ma il paragone col Vico storicamente non è
giusto. I due pensatori in verità appartengono a due piani storici,
da uno dei quali non si passa all’altro direttamente. Se G. non ebbe
occhi per vedere i problemi del Vico, neanche il Vico, dalla parte sua,
ebbe occhi per vedere quelli di G.. Uomini di tempra diversa, con
diversi interessi spirituali, si può dire che il maestro abbia pensato
sempre al cielo, e lo scolaro alla terra. L’uno non si guarda mai attorno
se non come uomo privato, che, quando dai pensieri ordinari si rivolge
alla sua scienza e alle cure più nobili del suo intelletto, vi si
assorbe tutto, estraniandosi affatto dai pensieri, dalle gioie e dai
dolori della vita quotidiana. Dove non sono in verità gli attori del
dramma che egli ama studiare e nel cui studio concentra infatti le
energie più potenti della sua intelligenza. Passa perciò tra i suoi e tra
i coetanei come l’uomo astratto, il filosofo, l’uomo che non è di questo
mondo. Quantunque il suo animo, propriamente, sia a questo mondo legato così
strettamente come nessun altro mai, e di questo mondo, scrutato con
sguardo penetrante fino al profondo, aspiri appassionatamente a
intendere il significato, e in questo mondo appunto agogni con titanico
sforzo a conquistarsi razionalmente, col pensiero, un suo posto. Ma
questo mondo egli vuol vederlo sub specie aeterni, come mondo che è
sempre lo stesso, in ogni luogo e tempo; e che assume bensì aspetti
sempre diversi, ma per l’interna virtù che lo muove con immutabile
legge. L’altro invece è tutto occhi pel mondo che si agita intorno a
lui, nella scuola e fuori della scuola; nelle città e nelle campagne;
nello Stato e nella Chiesa; a Napoli, per tutta Italia, e di là dall’Alpi.
L’istruzione del popolo e l’educazione dei giovani; l’agricoltura e il commercio;
l’economia del Regno, e i problemi della feudalità e della manomorta; il
problema della moltitudine degli ecclesiastici eccessiva in rapporto alla
popolazione; e poi la questione giurisdizionale e l’ardente lotta
anticurialista in difesa dei diritti dello Stato; e via via tutte le
questioni che erano all’ordine del giorno nella Napoli del tempo, o che
uno spirito alacre ricavava da quelle a cui la pubblica opinione
s’interessava. E poiché i paesi allora alla testa della cultura europea
erano insieme Inghilterra e Francia, e i libri che si pubblicavano in
quelle lingue i più letti, celebrati e discussi, ecco quelle lingue,
insieme con le classiche, a cui Vico si era limitato, studiate e
possedute con animo pronto a seguire il movimento della letteratura straniera
in ogni campo di ricerche filosofiche e sociali. Allargato quindi enormemente
l’orizzonte. Non più quel carattere antiquato e accademico della scienza
tradizionale, nel cui cerchio si muove ancora il Vico, modernissimo per
la sostanza de’ suoi problemi, arcaico per la forma (lingua ed
erudizione) E la modernità segna la fine di quel chiuso provincialismo,
onde lo scrittore napoletano si è sentito sempre cittadino di Napoli. G. guarda
più in là di Garigliano e di Tronto. Egli si sente italiano; e come
italiano, partecipe dell’unica società europea della cultura. Italiano e
moderno, si lascia alle spalle il vecchio mondo tradizionale
dell’accademia fratesca e teologizzante e dell’angusta provincia, e
respira largo, apre le finestre della scuola della letteratura e del
pensiero, e vive nel tempo suo e si sforza d’interessare gli uomini,
tutti, al sapere e al lavoro dell’ intelligenza. Siamo, come
dicevo, in un piano diverso da quello della pura filosofia. Qui si può
dire che la filosofia rinunzii alla sua propria forma, e quasi si annulli
per risorgere in forma più adeguata alle sue esigenze più profonde.
Ciò che è tante volte avvenuto nella storia; e avviene continuamente nella
vita. Il pensiero sale, sale, si purifica, si libera dal rappresentare
fantastico e corpulento, e si libra da ultimo in un’astrazione diafana,
per ridiscendere tosto al concreto della realtà che con quell’astrazione
ha cercato di definire e più perfettamente possedere: alla realtà che è corpo e
fantasma, e passione e sentire, e quell’oscuro misterioso
impeto dell’essere che tende a realizzarsi, scaturigine ascosa di
ogni esistenza e di ogni luce. Il progresso è pur sempre in certo modo
regresso; e se si volesse andare avanti, avanti sempre, si finirebbe col
precipitare nel vuoto. Bisogna a volta a volta rifarsi da capo. Bisogna
toccare la terra per rialzarsi. Toccare la terra, s’intende, come
l’Anteo della favola, da gigante che ha già la forza per rialzarsi: che
ha, in altri termini, un certo grado di coscienza filosofica. Vogliamo
sentire dallo stesso G. qual fosse il suo ideale di cultura ? Basta
leggere un suo Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze,
che pubblicò innanzi a un Ragionamento sopra i mezzi più necessari
per far rifiorire Vagricoltura dell’abate Montelatici, quasi per giustificare
la nuova via per cui egli si metteva, dopo aver anche lui pubblicato i
suoi libri di Logica, di Metafisica e di Teologia in lingua latina. In questi
stessi libri, per altro non è difficile scorgere le tendenze innovatrici
di G. e il carattere dominante del suo pensiero filosofico, del quale ci
proveremo qui appresso a dare un sommario cenno ; ma ancora non è
avvenuta la radicale conversione per cui la mente dello scrittore,
dopo che ebbe trovato negli studi economici e sociali una materia più adatta
al suo genio, raggiunse la sua forma storica, e ritrovò propriamente se
stesso. In questo discorso G. propugna una sorta di filosofia reale,
com’egli dice, e cioè pratica ed applicativa: come dire una filosofia non
propriamente speculativa e filosofica; e prende a partito tutti i più
celebrati filosofi della tradizione e le loro dottrine. Esalta
bensì la ragione come quella che più di tutte le nostre doti ci
rassomiglia a Dio, la sola cosa, per cui l’uomo si solleva sopra tutto
ciò ch’è in terra: la ragione, arte universale governatrice di tutte le
arti e strumenti onde l’uman genere arricchisce la vita e viene ogni dì
perfezionando il sistema dei mezzi diretti ad accrescerne il benessere.
Ma ne addita nelle astratte speculazioni e schernisce i deviamenti già nell’antichità
derivati appunto dall’abuso che l’uomo fa della ragione in questioni
oziose, sottili, astruse e atte nondimeno a suscitare la stima
e l’ammirazione dei semplici e a procacciare una riputazione
fallace. Poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più
stimare quel che meno intendono, i dialettici ed i metafisici. I don
Chisciotti della repubblica delle lettere, combattenti con gli
indistruttibili giganti delle chimere, per la gloria vanissima di
sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed
usurparono il premio doTTito al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale, che
riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli
assai più vicini buona parte dell’Europa. Eppure, la prima e più antica
filosofia era stata una filosofia tutta cose. I più antichi filosofi erano
stati i legislatori, i padri, i sacerdoti delle nazioni, studiosi
di etica, economica, politica; persuasi anch’essi, al pari di tutti
i buoni cittadini, che, « come partecipavano a’ comodi della società,
così dovevano aver parte alle cure e alle fatiche » pel bene pubblico e
domestico. Vennero dopo i tempi di corruzione, in cui prevalse la massima
che l’ozio fosse un nobile e onorato mestiere. E quindi la genia infinita
di coloro che sono «peste del vero sapere e della virtù; i quali si
credettero nati o per garrire inutilmente, o per disputare di cose
inintelligibili, o per mettere empiamente in ridicolo le sante ed utili
cognizioni, le leggi ed i precetti della giustizia e dell’onestà. Vennero
i grammatici (oggi diremmo i critici) « interpreti de’ sogni dei poeti, o
mercanti de’ propri; vennero i metafisici, Penelopi della filosofia,
implicati in disciorre quelle tele, che eransi tessute colle loro mani;
verniero i dialettici, che « tendevano indissolubili lacciuoli alla
ragione istessa per cui andavan fastosi, e come seppie gittavan del
negro, sotto cui il vero e il falso prendesse un sol volto. Socrate, il
gran Socrate, di cui è detto che
richiamò la filosofia dal cielo in terra e a cui infatti gl’uomini devono
di sapere che tutto quello che si vuole intendere essi non lo possono
cercare se non nel pensiero, cioè in se medesimi, — da G. non è ricordato
qui se non come colui che insegnò la più ricca e la più bella
possessione dell’uomo essere l’ozio. Dei suoi scolari non gli giova
menzionare altri che Aristippo e Diogene del CINARGO, corruttori del costume.
Di Pitagora a scherno ricorda la monade e il binario; e l’uno di
Parmenide; e l’omeomeria di Anassagora, e le astratte forme dell’ACCADEMIA
e le entelechie del LIZIO; ed altre cosiffatte «bambole di ragione »
degli altri più celebrati filosofi. Che dire poi della filosofia medievale
? Non si può leggerne la storia senza aver pietà della debolezza
dell’ingegno umano. Poveri scolastici! Vestono corazze di carta, che
stimano del più fino metallo; e combattono con i mulini a vento, come con
i giganti distruttori dell’uman genere. Un estro ignoto gli rapisce fuor del
nostro mondo. Sembra che sieno i maestri di ogni altra cosa, fuor
che di ciò che ci appartiene o c’ interessa. In questa caricatura
della storia della filosofia superfluo avvertire lo strazio che G. fa delle più importanti dottrine dei maggiori
pensatori. Voglio solo riferire in proposito un altro periodo, tipico
documento degli stravolgimenti storici di questa invettiva, e
insieme dello spirito che la moveva: La materia prima, che
Aristotele fantasticò, animata dal fuoco dagl’arabi, fu di sì vivi e
vaghi colori arricchita in mano di Abelardo, e di alcuni altri, che
divenne un divino, la quale poi il più empio e il più freddo de’filosofi
del passato secolo, si studiò di adornare con un sistema geometrico.
Allusione a Spinoza, che pure G. aveva studiato con grande interesse. Alle
quali cose quante volte io penso, conchiude il nostro filosofo, forte mi
meraviglio, come gli agricoltori, i pastori e tutti gli altri coltivatori
delle arti per cui l'uman genere si sostiene, abbian potuto tollerare in
pace una razza di uomini, i quali, lungi di dar loro il menomo
rischiaramento e aiuto nel tempo medesimo che de’frutti della loro
industria godevano, pare che si ridessero delle loro fatighe, o che gli
riguardassero come animali di altra specie, fatti dal divino in forma
umana per servire a’loro piaceri. Lode a Bacone, che proclamò la
necessità di ristaurazione dalle fondamenta tutto il sapere, e dimostrò
che si puo essere filosofo con assai gloria, senza essere peso
inutile agli altri uomini. Lo studio della natura, l’esperienza, « gran
maestra delle utili cognizioni, la geometria nutrice di tutte le arti
vennero in grande onore. L’ Europa cambiò faccia. Ogni nazione ha
il suo Ercole, uccisore dei mostri che la infestano. L'Italia ha GALILEI.
Napoli, sì, rimase lungo tempo chiusa a questa nuova scienza, forse
perché con maggior vigore questa potesse irrompervi a rendere più
glorioso il rin- [Cfr. la sua lettera a Sterlich; dove racconta come
potè studiare 1’Etica di Spinoza: Leti, fam., ed. Napoli, novamento che
il Regno, ristaurato dal primo dei Borboni, doveva promuovere. G. ha qui un
concetto che rammenta l’hegeliano spirito del mondo.Egli è veramente
un certo genio, che discorre per le nazioni, e che in dati intervalli le
anima, e le raccende, quello che o primamente mena, o estinte ravviva le
lettere e le belle arti. Ma questo genio, secondo G., vuol essere
sempre accarezzato, sollecitato e alimentato. Può dirsi che la curiosità, la
più utile molla del- l’animo umano, il dischiuda dal suo guscio, la
gloria l’animi e gli dia della grandezza, l’emulazione l’aguzzi e’l
rinforzi: ma certamente il premio il sostiene e l’alimenta ». Insomma, il
rinnovamento del pensiero richiedeva a Napoli le più propizie condizioni create
dalla nuova vita impressa allo Stato dal nuovo Regno. Grande
infatti il progresso già avvenuto in Napoli, delle arti, delle scienze,
della ragione che le alimenta. Ma « un certo lezzo dell’antica barbarie »
(prisci vestigia ruris) è rimasto tuttavia attaccato agli scrittori.
La ragione non è pervenuta ancora alla sua maturità: è ancora tutta
nell’ intelletto, e deve passare nel cuore e nelle mani. È bella, non è
operatrice; adorna, non utile. Bisogna che diventi pratica e realtà; come
può solamente quando tutta si è così diffusa nel costume e nelle
arti, che noi l’adoperiamo come sovrana regola, quasi senza
accorgercene: come accade alle bestie, in cui la cognizione è tutta uso, perché
è l’arte del divino lavorante su la materia, ed in Dio non ci sono Enti
di ragione»: cioè le astrattezze che si annidano nel cervello dei
filosofi. I dotti napoletani hanno bensì coltivato lo studio delle
leggi; ma vi hanno portato le argutezze dei dialettici: questioni
sottili, speciose, aliene dalla pratica e dalla vita. Tutta una forma di
sapere, in cui, insomma, secondo G., c’è forza bensì e intelligenza; ma non c’è
cuore; e c’è cattivo gusto. Manca, diremmo oggi, il senso scientifico; e
gl'ingegni si credono più grandi quando sono ammirati come
incomprensibili, che quando stimati come utili. La pratica dell'
insegnamento (insegnava già egli da sedici anni) aveva dimostrato a G. che
Napoli era un semenzaio di nobili e glandi ingegni ; ma i migliori
ingoiavano avidamente la nuova filosofia prima di digerir la vecchia. Avvezzi
alle sottigliezze vane e alla ciarleria, troppo ancora se ne compiacevano
per fare il debito onore alle scienze sode, feconde, che avevano
già trasformato la cultura inglese, francese, olandese. Sacrifichiamo
dunque una volta la seduttrice e vana gloria dell’astratta speculazione
al giusto desiderio della parte più grande degli uomini, i quali ci
vogliono men contemplanti e più attivi. Dio ha fatto a tutti il
divin dono della ragione perché intendiamo, che il vero sapere non
è di sì gelosa natura che voglia essere di pochi ». Esso deve giungere al
popolo. Il quale ha bisogno di essere illuminato, e non seguito nella sua
naturale ritrosia alle novità, ancorché utili, e nel suo attaccamento
tenace alla tradizione. Deve essere indotto a profittare delle
osservazioni e delle invenzioni dei dotti. Deve essere ingentilito, rianimato,
spronato ad elevarsi. E si deve quindi operare su di esso non con le
leggi che non cambiano gli uomini, sì con la savia educazione e coltura
di questa sì preziosa derrata dell'uomo, da che egli comincia a
sbucciare dal suo guscio. Curare l'educazione. È uno degli articoli
principali dell’apostolato di G. 1 ; poiché i contemporanei, a suo
giudizio, curavano più i testi di fiori e le piante Sulla educazione e
istruzione popolare vedi Lez. di Comm., e Logica, Senza educazione oltreché non
è possibile, che la popolazione si aumenti ma, pure dove avviene che
cresca, la repubblica si potrà ben dire aumentata di semi-uomini, ma non di
forze (Lez. di Comm., peregrine che avevano per avventura ne’loro
giardini, che non i figli. E raccomandava la massima diligenza nella
scelta dei maestri, poiché molto, a suo giudizio, mancava per questa
parte il Regno di Napoli. Bisogna sentire il ritratto vivo che ce ne ha
lasciato: I maestri di scuola pongono poca cura a studiar l’urbanità e
l’aria nobile, piena di verecondia e de’ tratti d’onore: sovente i loro
moti, gesti, tuono di voce e tutto il lor volto, che suol esser lo
specchio dei ragazzi, spira tutt’altra cosa che gentilezza: la loro
lingua è più frequentemente un gergo corrotto de’vari dialetti del nostro
Regno, che la bella e nobile della pulitissima Italia: finalmente, dirò io che
il lor costume sia sempre il più puro e il più santo ? Inoltre, quasi
tutti si studiano di coltivar assai più la memoria de’ loro allievi che
la ragione e il cuore. Un solecismo o barbarismo in lingua latina è
da loro più severamente punito, che molti a’ gentiluomini
sconvenevoli barbarismi e irragionevolissimi solecismi di ragione e di
costume. Si adirano anche spesso, gridano e fanno dei schiamazzi in testa
a’ loro allievi; gli battono senza misericordia, e gli trattano più da
servi, che da figli: tutte cose più atte a fare o stupidi o villani o
zotici e feroci i ragazzi, che ad allevargli nel sapere, nelle
virtù, nella nobiltà. Questi medesimi difetti trovansi ben anche
spesso ne’ padri o nelle madri di famiglia. Io ho sentito dire a molti di
coloro un proverbio, che fa disonore agli esseri ragionevoli: che i
fanciulli si curan colle mazze. Un filosofo che parla questo linguaggio
umano, familiare, e che pensa come s’è veduto, dei filosofi e dei
loro sistemi, evidentemente non è un filosofo di professione. Sarà un
filosofo che avrà qualche cosa da dire più e meglio dei filosofi di
professione; ma non potrà facilmente an¬ dare d’accordo con questi. Così
poco rispettoso di quelle Si che sono le idee e le maniere per loro
più rispettabili e venerande, con così scarso interesse, anzi con tanto
fastidio verso le questioni che formano il nutrimento e il vanto dei loro
cervelli, certo potrà, per caso, trovarsi in mezzo ad essi: ma vi starà a
disagio, e se ne trarrà fuori, spontaneamente o per necessità, appena se
ne presenti l’occasione. G., nato nella terra di Castiglione 1 ’
Ognissanti, fu avviato quattordicenne agli studi di filosofia da un suo
stretto congiunto, che gli insegnò per due anni filosofia scolastica e
per un terzo anno filosofìa cartesiana (filosofìa di moda allora nel
Napoletano); quindi, poiché il padre lo volle ecclesiastico, obbligato
ad apprendere Canoni e Teologia, e ammesso agli ordini minori,
promosso suddiacono. Chiamato questo anno a insegnar rettorica nel
seminario di Salerno, vi rimane due anni, studiando per suo conto
con gran fervore ; finché è ordinato prete J'e un’eredità allora
conseguita gli consentirà di recarsi l’anno appresso a Napoli, per
appagare in quella Università e nella consuetudine degli illustri
letterati della metropoli la sua sete ardentissima di sapere. A Napoli
frequentò molti corsi; tra gli altri, quello di VICO (si veda); di cui,
ci racconta un anonimo biografo, aveva già da un anno letta la Scienza
Nuova Il perché corse ad ascoltarlo; a cui avendo dedicato la sua
servitù, ebbe l’onore della sua amicizia
Insoddisfatto della filosofìa che s’insegnava, disegnò programmi
suoi, e aprì una sua scuola privata; finché il Cappellano Maggiore
monsignor Galiani, che era l’uomo che poteva intenderlo, gli affidò
l’incarico d’insegnare nell’ Università Metafìsica. Legge Malebranche, Locke,
studiato Spinoza Note di Cutolo alle Memorie autobiogr. di G., in Ardi.
stor. nap. Cutolo, Noie cit. e Leibniz; e detta agl’alunni, come
volevano i regolamenti del tempo, le sue lezioni in latino. Ne nacquero gl’Elementi
di Metafisica in lingua latina, pel metodo geometrico con cui la
dottrina e esposta (metodo, si sussurra, caro ai protestanti), per le
novità che contene, per le concessioni che fa al razionalismo, per quello
scetticismo moderato che vi domina, procura all’autore ire e persecuzioni
dei censori ecclesiastici, aprendo una serie di contestazioni teologiche,
che alienarono sempre più il suo animo dagli studi che rimanevano in
Italia, e sopratutto nel Mezzogiorno, monopolio quasi esclusivo dei
frati. Ma ecco che Galiani gli viene in aiuto passandolo dall’incarico di metafisica
alla cattedra ordinaria d’Etica:insegnamento più conforme all’ingegno di G.,
e da lui infatti tenuto per un decennio con grande efficacia per
l’eloquenza delle sue lezioni, la modernità della dottrina, la ricchezza e
praticità delle questioni trattate. Pure alla Metafìsica s’aggiungeva in
cinque libri un'Arte logico-critica, anch’essa in latino. E queste opere
si ristampavano e si diffondevano in Italia e fuori d’Italia. Nondimeno
l’autore poteva scrivere a un amico. La metafìsica mia fatta pei teologi
e frati, non può piacere ai fìsici e ai matematici, come neppure piace a
me. E con tutto ciò, la logica e la metafìsica s’insegna in molti collegi di
Francia, e in quasi tutte le scuole di Germania. Avevano fortuna;
poiché questi libri rispondevano al bisogno delle scuole, e nel
loro andamento eclettico e largamente informativo ben s’adattavano alla
tendenza media degli studiosi non risolutamente moderni ma neppur ciecamente
chiusi nella tradizione, e disposti quindi a conciliare nova et
vetera 1 Leti, jam.. e farsi una filosofia senza compromettersi; ma,
come si vede, non finivano di contentare l’autore stesso. Anche i
due saggi De iure et officiis eran nati dalla scuola e per la scuola (in
usum tironum) ; e del pari altri due brevi compendii latini di Logica e
di Metafisica. Ma quando a G. è possibile avere una scuola a modo suo,
intorno a materie nuove, indirizzate a pubblica utilità, non contemplate nei
vecchi quadri, egli non scriverà più latino. Che gioia quando fu
istituita per lui, nell’Università, la cattedra di Commercio e
Economia, fondata dal suo vamico, facoltoso e autorevole, il
fiorentino Intieri, studioso di macchine agricole e di questioni
economiche: ingegno pratico alla toscana, avverso a ogni oziosità
speculativa! Allora G. si sente davvero maestro, e veramente
filosofo. Grande l’attesa nel pubblico per il nuovo insegnamento; ma
potente altresì l’estro del nuovo insegnante e l’impeto e il calore della sua
eloquenza. Quando tenne la sua prima lezione, fu un avvenimento nella
vita di G. e nella storia non soltanto della cultura napoletana ma della
scienza europea. Poiché questa di G. èla prima cattedra istituita in
Europa di Economia politica: dovuta, s’intende, non al semplice
intuito d’un privato ma al movimento degli studi che la situazione
economica del Regno di Napoli aveva prodotto. In una lettera dello stesso
mese Genovesi scrive a un amico 1: Nel dì 5 corrente feci il mio discorso
preliminare, o sia l'apertura alla nuova cattedra del commercio con uno
straordinario concorso, tuttoché io non avessi fatto invito. Parlai
un’ora, non solo senza niente aver mandato a memoria, ma senza aver
niente scritto di quello che dissi. Con tutto ciò il discorso è
ricevuto con applauso, e subito diffuso per tutta la città. È
stata Leu. falli. bella! Alcuni volevano copiarselo, e io non ho
potuto lor dire, che dopo averlo letto n’aveva perduto
anche l’originale.Il giorno seguente cominciai a dettare. Grande è la
meraviglia in sentir dettare italiano; sicché, essendomene accorto, nello
incominciare la spiegazione dovetti cominciare dai pregi della lingua
italiana, e urtar di fronte il pregiudizio delle scuole d’Italia. La
scuola è stata sempre piena in guisa che molti non ci hanno trovato
luogo; ma la maggior parte sono uditori di barba, e di vari ceti. Gli
scriventi sono circa cento. Gran moto è nato da queste lezioni nella
città, e tutti i ceti domandavano libri di economia, di commercio, di arti, di
agricoltura ; e questo è buon principio. Da questo corso, che G.
prosegue finché le forze gli bastarono (morì, ma un anno prima per
malattia aveva dovuto lasciare la cattedra), trassero origine le belle Lezioni
di Commercio ossia di Economia civile in due volumi, che rimarranno tra
le opere classiche della nuova scienza: opera riboccante d’ingegno, di
erudizione, di brio e di amore del pubblico interesse, dall’agricoltura
alla pubblica istruzione. Ma uscì prima la traduzione della Storia del
commercio della Gran Bretagna di John Cary con un Ragionamento del Commercio in
universale e lunghe e importanti annotazioni del Genovesi sul commercio del
Regno, e altri scritti minori. In questi stessi anni il laborioso
scrittore riprese bensì in italiano gli argomenti delle sue opere latine.
Sono le sue Meditazioni filosofiche, che arieggiano quelle di Cartesio;
ed ebbero l’ammirazione del Baretti 1; e le Lettere filosofiche; come [Da
leggere l'articolo che gli dedicò nel 20 numero della Frusta Letteraria:
dove Baretti giudica il saggio con questi termini di alto elogio (ed.
Piccioni, Bari, Fra le tante migliaia e migliaia di libri scritti nella nostra
lingua, io non ne conosco assolutamente neppur uno, dopo quelli di Galilei, le
Lettere accademiche. Imprende a scrivere in italiano un Corso di
filosofia. E volle scriverlo per gl’italiani (com’egli stesso fa sapere a un
amico) che son curiosi di sapere se le scienze potessero così
parlare italiano come una volta parlarono greco e latino. Il motivo che
mi muove, è una massima, che può stare che sia falsa, ma 1’ ho nondimeno
per vera, cioè che ogni nazione che non ha molti libri di scienze e di
arti nella sua lingua è barbara. Perciò in Francia nell’età di Luigi
XIV s’è cominciato a scrivere di filosofia in francese. Perciò ha seguito
l'esempio l’Inghilterra. E altrettanto si cominciava a fare in Germania.
Dove non si scrive nella propria lingua, dice G., si accende magari
mi lume grande e brillantissimo, ma questo resterà nondimeno sepolto in que’ lanternoni da
antiquari d’onde non tralucono che pochi tenebrosi raggi. E nelle stesse
Lezioni di Commercio inculcava come che sia tanto pregno di pensamento e
di vera scienza quanto è questo primo tomo di questo nostro ampio,
sublime ed aggiustatissimo filosofo G.. A Baretti non andava lo stile di
G., seguace della scuola toscaneggiante di CAPUA (si veda). Una cosa però
disapprovo in lui assolutamente, e questo è lo stile suo perché troppo a studio
intralciato e rigirato si, che non poche volte abbuia il pensiero. Com'è
possibile, ho detto tra me stesso mille volte leggendo queste sue tanto
stimabili meditazioni, com’è possibile
che un uomo il quale è una aquila quando si tratta di pensare, si mostri
poi un pollo quando si tratta di esprimere i suoi pensieri? Come mai un G.
ha potuto avvilirsi tanto da seguire i meschini voli terra terra di certi
secchi e tisici uccellacci di Toscana ? Eh, G. mio, adopera gli
abbindolati stili del Boccaccio, del Bembo e del Casa quando ti verrà
ghiribizzo di scrivere qualche accademica diceria, qualche cicalata,
qualche insulsa tiritera al modo fiorentino antico e moderno; ma quando
scrivi le tue sublimi Meditazioni, lascia scorrere velocemente la
penna; e lascia nelle Frammette e negli Asolani e ne’Galatei, e in altri
tali spregevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosacché e i perocché....
e tutte quell’altre cacherie e smorfie di lingua, che tanti nostri
muffati gram- maticuzzi vorrebbero tuttavia far credere il non plus ultra
dello scrivere. Cfr. la pref. alla Logica italiana. certissimo assioma politico
che una nazione non sarà mai perfettamente culta nelle scienze, nelle
arti, nelle maniere, « se non abbia le leggi, le scienze, le scuole e
i libri di arti parlanti la propria lingua; perché ella dovrà dipendere
da una lingua forestiera; la quale, non essendo intesa che da una
picciolissima parte del popolo, tutto il resto sarà fuori della sfera del
lume delle lettere. Le lingue sono come vasi, che contengono le nostre
idee e la nostra ragione. Or qual pazzia è pretendere di essere in
un paese uomini, e aver la ragione in un altro ? Finché in un paese le scienze
saranno in un gergo straniero alla maggior parte del popolo, avremo sempre,
dice G., molte scuole inutili, molto tempo perduto, molti cervelli
stupiditi; e mancheremo delle necessarie, né ha possibile di avere delle
buone teste. Con questo ideale di una scienza che penetri il popolo
per svegliarne e metterne in moto tutte le forze morali ed economiche, il
G. voleva scuole e quando furono da Napoli espulsi i Gesuiti e riordinata
la pubblica istruzione ed egli a tal fine invitato a scrivere un
Piano di riforme, non dimentica nelle sue proposte le scuole del
popolo; voleva metodi razionali e semplici perché fossero efficaci gl’
insegnamenti accostati al popolo c ai giovinetti; voleva accademie, che,
abbandonando la vecchia letteratura e le discussioni vane della filosofia
infeconda, si rivolgessero alle ricerche sperimentali e alle arti più
necessarie alla vita; e voleva, come sè visto, libri in italiano,
attraenti e di facile lettura. Ma aveva pure il suo ideale di una
dottrina che, liberando il popolo dalle superstizioni e dai pregiudizi, e
rinvigorendo nelle coscienze i convincimenti morali e la fede religiosa
che ne Per questo Piano, vedi gli appunti che ne pubblico G. M. galanti,
Elogio stor. di A. G., Firenze, è sempre il fondamento, potesse aprire la
strada a quel rinnovamento che egli auspicava: potesse infondere
negli uomini e nelle nazioni la fede nella ragione, di cui egli era
l’apostolo. Tutto il suo sistema riformatore era insomma ispirato a una
filosofia. Della qual filosofia nelle Meditazioni e nei trattati di
Logica e di Metafisica, che, bene accolti dai contemporanei e più volte
ristampati (è almeno da ricordare 1 edizione che della Logica volle curare Romagnosi),
sono entrati a far parte della letteratura filosofica nazionale, si
scorgono i lineamenti anche da chi non ricerchi i ponderosi volumi latini, che
li precedettero e prepararono. G. è un empirista, ma non e un
sensista, e tanto meno un materialista. Combatte le idee innate, ma
cartesianamente mette il pensiero a capo di tutto, e la ragione, che
l’uomo che medita trova in se stesso come attività sovrana, libera,
signoreggiatrice, col suo giudizio, dell’universo, vede conforme a una
ragione creatrice universale, divina L’uomo per essa è immortale. Per
essa destinato a vincere il dolore, a superare ogni difficoltà, a viver
felice. Questa ragione infatti non è fredda astratta intelligenza. Essa è
energia ( energetico, dice G.) perché è anche passione, cuore i.
Non 1 Come empirista, G., pur non ripudiando ogni metafisica,
insiste sempre sulla necessità di limitare le ricerche speculative alle
questioni essenziali per una concezione sana e morale della vita. Insi¬
stenza che ha fatto pensare al criticismo kantiano. Vedi Gentile, Stona
della filos. ital. da G. a Galluppi, Milano, Treves, ’ dov'è particolarmente
studiata la dottrina della conoscenza di G.. Oltre i luoghi ivi citati, e
le frequenti dichiarazioni che ricorrono nelle Lettere familiari circa 1
infecondità delle più astruse ricerche metafisiche e teologiche, vedi
Logica, Notevole in special modo la lett. a Saffiotti. Vedi Meditazioni filosofiche,
Milano, Silvestri, Logica, Vedi Logica, distrugge la passione; una passione
infatti si combatte con un’altra passione. E poiché ogni essere è
ragione, e soffre e aspira a godere, essa, non essendo individuale,
ma comune e universale, stringe in un vincolo di amore gli
uomini. Intuizione ottimistica, che s’inquadra in una concezione
leibnizianamente spiritualistica del mondo. Poiché anche per G. i corpi,
scomposti negli elementi semplici di cui sono formati, si riducono a
sostanze spirituali, attive. E tutte le qualità sensibili dei corpi non
sono altro che fenomeni, nostre sensazioni. Lo spirito è
attività : è quella stessa forza che è in tutte le cose che sono in
natura, e che tende ad espandersi. In noi questa forza si svela nella
ragione, che è prima di tutto coscienza, affermazione di sé. Questa forza
è attiva e tende perciò a svilupparsi, ad estendere il suo dominio,
a trionfare. Il mondo non è, infine, se non questo svolgimento della ragione,
che nel suo progressivo prevalere è cultura sempre più intensa e sempre
più diffusa; è benessere in cui lo spirito viene ritrovando e
procurandosi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo ; è amore degli
altri, insieme coi quali ogni uomo viene adempiendo in comune il destino
della sua natura, la libera vita della ragione. Questa la fede di G..
Questa la sorgente dell’entusiasmo col quale egli attese con ferventissimo zelo
dalla cattedra e cogli scritti, malgrado la sua malferma salute,
infaticabilmente alla sua opera di apostolato. Questo il segreto della
potente azione da lui esercitata sul suo tempo, promovendo nuovi studi,
animando gl’italiani alla lotta contro il vecchio mondo: contro la
feudalità in favore dei lavoratori della terra e della nascente
borghesia; contro la Curia per lo Stato autonomo e laico; contro il
pregiudizio per la critica; contro la superstizione per la religione;
contro tutto ciò che nel pensiero e nelle istituzioni impedisse 0 ostacolasse
il libero sviluppo del lavoro, della civiltà, della ragione. G. non è
un rivoluzionario; ma è un educatore di rivoluzionari, che quando
scoppierà in Francia la grande Rivoluzione, o crederanno di obbedire alla
voce del vecchio maestro accogliendone una scintilla anche a Napoli, e
quindi suscitando il glorioso incendio della repubblica partenopea,
celebrazione di una grande fede idealistica ancorché astrattamente
giacobina, santificata dal martirio 0, uomini di grande accorgimento ed
equilibrio, come GALANTI (si veda) e CUOCO (si veda), con più profonda
intelligenza dell’ insegnamento di G., ne trarranno argomento a una più
realistica concezione politica della libertà necessaria al popolo
napoletano: poiché vedranno come il maestro aveva veduto, che
questa libertà non poteva essere vitale, se non era forte della forza di
uno Stato ben ordinato e potente: di uno Stato infine in cui tutta
l’Italia, prima o poi, doveva unirsi tutta in un corpo solo tra l’Alpi e
il mare. Questa idea di un’ Italia unificata da GALANTI (si veda), il
più fido dei discepoli di G., passa a CUOCO (si veda), e da CUOCO (si
veda), come oggi sappiamo, passa a MAZZINI (si veda). Ma era stata
preconizzata a Napoli da G.. La cui commemorazione io non potrei meglio
concludere che rileggendo una sua pagina, a proposito della sicurezza
necessaria al commercio, e impossibile senza una fiotta militare
adeguata. Impossibile perciò allo stesso Regno di Napoli, che era
tuttavia il maggiore e più potente Stato d’Italia: «Vorrei io», scriveva
nel detto anno G., in questo luogo dire un pensiero, che ho sempre meco
d’intorno all’animo avuto, ed hollo tuttavia; ma io temo ch’egli non sia per
incontrar male 1 Sulla scuola di G. e la sua importanza storica, A.
Simioni, Le origini del Risorgimento politico dell' Italia meridionale,
vMessina, Principato, presso coloro, che niuno amore hanno e niun zelo
nutriscono per l’Italia, come madre nostra. Ma il dirò pure in qualunque
parte sia per prendersi da chi non guarda più in là del proprio
utile. A voler considerare l’Italia nostra, e dalla parte del suo
sito, e da quella degl’ ingegni, e per quello che ha ella altre volte
fatto e fa eziandio, tuttoché divisa e come dilacerata, si converrà di
leggieri, ch'ella tra tutte le nazioni di Europa sia fatta a dominare; perocché
il suo clima non può esser più bello, né più acconcio il suo sito
rispetto alle terre e al mare che la circondano, né più perspicaci e
accorti e destri e capaci di scienze e di arti e duranti di gran fatiche,
e oltre a ciò più amanti della vera gloria, i suoi popoli, di quel
ch’essi sono. Ond’ è dunque, ch’ella sia non solo rimasta tanto addietro
all’altre nazioni in tutto ciò, che par suo proprio, ma divenuta in certo modo
serva di tutte quelle che il vogliono? Ella non è stata di ciò causa la
sola mollezza, che le conquiste de’ Romani v’apportarono; perocché questa
morbidezza, che le ricchezze e la pace v’avevano introdotta, non durò
lungo tempo; ma la vera cagione del suo avvilimento è stata quell’averla i suoi
figli medesimi in tante e sì piccole parti smembrata, ch’ella n’ ha
perduto il suo primo nome e l’antico suo vigore. Gran cagione è
questa della ruma delle nazioni. Pur nondimeno, ella potrebbe meno
nuocerci, se quei tanti principati, deposta ormai la non necessaria
gelosia, la quale hanno spesse volte, e più ch’essi non vorrebbero,
sperimentata e al comune d’Italia e a se medesimi funesta, volessero meglio
considerare i propri e i comuni interessi, e in qualche forma di
concordia e di unità ridursi. Questa sarebbe la sola maniera di veder
rifiorire il vigore degl’Italiani. Potrebbe per questa via aver l’Italia
nostra delle formidabili armate navali, e di tante truppe
terrestri. che la facessero stimare e rispettare non che dalle potenze
d’oltremare, che pure spesso l'infestano, ma dalle più riguardevoli che
sono in Europa. Ella non vorrebbe ambire altro imperio, che quello che la
natura le ha circoscritto: ma ella dovrebbe, e potrebbe difendersi il
suo. Potrebbe veder rinascere in tutti i suoi angoli le arti e le
industrie, dilatarsi il suo commercio, e tutte le sue parti nuovo abito e
la pristina bellezza prendere. Se questi sensi s’ispirassero ai pastori
di tutte le sue parti, forse che non sarebbe questo un voto platonico. E
mi pare che i principati d’Italia non siano sì gli uni degli altri
gelosi, che per massime vecchie che son passate ai posteri più per
costume che per sode ragioni. Non son ora i tempi ch'erano: e quelle
cagioni di reciproci timori, che potevano una volta essere ragionevoli, sono
ora non solo vane, ma nocevoli e al tutto e alle parti, se ben si
considerano. Egli è per lo meno certo, ch’ella non può, come le
cose sono al presente, sperare altronde la sua salute, che dalla
concordia e dall’unione de' suoi principi. Il comune e vero interesse
suol riunire anche i nemici: non avrà egli forza da riunire i gelosi
? Rettor del Cielo, io chieggo Che la pietà che ti condusse
in terra. Ti volga al tuo diletto almo paese. A G. dunque, il
più filosofo dei grandi riformatori italiani, spetta il merito di essere
stato il più italiano di tutti. Egli scosse il petto dei giovani, e
vi infuse una fede nella civiltà che è scienza ed è libertà. Egli indicò
agl’Italiani l’Italia, che non c’era, ma co-1 Carv, Storia del Comm. della Gran
Bretagna, Napoli. Pagina celebre dacché il Carducci l’ebbe inclusa nelle sue
Letture del Risorgimento Italiano.minciava a presentirsi, ed egli
l’annunziò, insegnando come le si potesse preparare la via. E la sua voce
si ripercosse di generazione in generazione, finché l’Italia venne. E
venne per la via che egli aveva aperta: riavvicinando la letteratura alla
vita, la filosofia all'uomo, ammazzando l’accademia e l’ozio ancorché dotto ed
elegante, educando il popolo a credere nella cultura, a servire
l’ideale, andando incontro per esso anche alla morte. Fulgido esempio i
martiri. Stato laico e veramente sovrano, religione tutta rivolta alla
vita dello spirito, libera da ogni cupidigia e pretesa mondana; libera
la ragione, rispettata come cosa sacra la scienza, e la scuola che
la promuove. E di là dal breve confine della provincia, per l’Italiano,
l’Italia grande, laboriosa, armata, consa¬ pevole di una sua missione
civile. Questa la scuola del G.. Perciò gl’ Italiani devono ricordare il
suo nome; perciò devono annoverare G., lui così modesto, così
riservato e chiuso tra la scuola e i libri, tra i padri della patria. E
nella scuola italiana particolar¬ mente deve esser ricordato come esempio
ed ammonimento contro la pseudoscienza astratta dalla vita sempre
rina¬ scente. Poiché i frati, che punzecchiarono in vita G. e sono
perseguitati dalla sua dialettica e dal suo frizzo, hanno cambiato veste,
e non natura. E contro di essi bisogna ancora combattere, ancora
difendersi. Perciò G. è vivo. G. Nasce a Castiglione (ora
Castiglione del Genovesi), piccolo paese dell'Appennino campano a pochi
chilometri da Salerno, primogenito dei quattro figli di Salvatore e di Adriana
Alfenito. La famiglia, un tempo benestante, era decaduta da civile in
basso"stato, e viveva con i modesti proventi del lavoro del padre
calzolaio e di una piccola proprietà. Allo sforzo di recuperare una condizione
economicamente più solida e socialmente più prestigiosa, nonché alle strategie
familiari in uso nella società del tempo e della zona, si deve la precoce
destinazione di G. alla carriera ecclesiastica, realisticamente accettata dal
ragazzo come unica strada percorribile per accedere agli studi superiori e a
una professione intellettuale, per la quale si sentiva particolarmente
tagliato, poi vissuta sempre con autentica adesione a una religiosità
profondamente sentita. Affidato a parenti membri del clero locale, G. compì i
primi studi nel paese natio, praticamente da autodidatta, completando il corso
di lettere latine a tredici anni. Seguirono tre anni dedicati alla filosofia,
dapprima quella scolastica, per la quale maturò un rapido rifiuto, poi quella
cartesiana, sotto la guida di un medico suo parente, Niccolò G., a sua volta
allievo del medico cartesiano napoletano N. Cirillo. Le due autobiografie
redatte dal G. e rimaste incompiute e inedite in vita (la prima, Autobiografia,
in Zambelli, La formazione; la seconda: Vita di G., in Illuministi italiani) ci
trasmettono il ritratto di un adolescente vivace, intelligente e ricettivo,
fortemente motivato allo studio per curiosità intellettuale e desiderio di
primeggiare, ambizioso e abile nella dialettica. Nello stesso tempo fu iniziato
al gusto della letteratura dai consigli di un altro amico del luogo, S.
Parrilli; gliene derivò una passione, che durò tutta la vita, per i poemi
cavallereschi, per Dante e Petrarca, alla quale seguì il nascere di un
altrettanto intenso interesse per la storia. Ma il padre sorveglia
attentamente che il ragazzo non si concede distrazioni. La rigidezza paterna ha
modo di manifestarsi più duramente quando G. si innamora, ricambiato, di una
compaesana. Per impedire che questo amore cambiasse i programmi di vita di G.,
il padre gl’impone il trasferimento a Buccino, sempre non lontano da Salerno,
in casa di parenti, mentre la compaesana è costretta al matrimonio con un
pastore. G., pur profondamente addolorato e deluso, trova conforto nella
maggiore apertura e possibilità di contatti che il nuovo ambiente, sempre
provinciale ma più aperto e animato, gl’offre, e nell'amicizia con l'arciprete
Abbamonte, che migliora la sua preparazione classica e stimola l'interesse per
la teologia e il diritto civile e canonico. Prende gli ordini minori. Nel
frattempo, spinto dalla necessità di rendersi indipendente economicamente, con
l'appoggio dell'arcivescovo di Salerno Capua, che ne aveva apprezzato le doti
esaminandolo per il diaconato, ottenne l'insegnamento di retorica presso il
seminario della città, dove rimase due anni. Ordinato sacerdote, fornito del
modesto capitale di 600 ducati ereditato da uno zio materno, insieme con il
fratello Pietro, destinato alla carriera forense, si trasferì nella capitale
del Regno, dove avrebbe trascorso tutto il resto della vita, allontanandosene
solo per brevi periodi di villeggiatura. Abbandonato rapidamente il progetto di
intraprendere anche la professione forense, che gli parve avere poca conformità
con le massime del puro cristianesimo (Vita), insofferente del formalismo
giuridico e dell'ambiente del foro, scelse definitivamente gli studi
filosofici. Frequentò le lezioni Martino e Vico - di cui già conosce la Scienza
nuova -, conosce DORIA (si veda), si legò di amicizia con BUONAFEDE, che lo
descrive, in quei primi anni napoletani, in un acuto ed efficace profilo
(Ritratti poetici, storici e critici di vari uomini di lettere, Venezia).
Lasciò inattuato il progetto di un'opera ispirata a Platone, La repubblica
divina, per rivolgersi avidamente alla cultura anglo-olandese, ai neoplatonici
di Cambridge, a Clerc, a Newton, a Locke (progettando una traduzione dal
francese del Cristianesimo ragionevole), al giusnaturalismo. Apre una scuola,
in cui insegnare i suoi nuovi piani di filosofia e di teologia, in particolare
il piano di un'etica (Vita), frutto delle riflessioni di quegli anni. Comincia
a maturare in quest'esperienza - che dura tutta la vita - la vocazione
pedagogica che caratterizza tutta l'attività di G. e che si realizza in un
metodo d'insegnamento dinamico, in cui l'ampliarsi dell'orizzonte culturale del
docente sollecitava e promuoveva l'apprendimento in interazione costante con i
giovani. Il carattere innovativo e il successo della scuola gli procurarono
l'amicizia e la protezione di Cusano, di Orlandi e, soprattutto, del cappellano
maggiore Galiani, autentico iniziatore della nuova cultura newtoniana a Napoli,
fondatore dell'accademia delle scienze e promotore della riforma universitaria,
da poco avviata. Attraverso Galiani, G. ottenne il primo incarico
universitario, come professore straordinario di materie metafisiche, e comincia
a insegnare. Era nel frattempo approdato a una visione filosofica fondata su un
"eclettismo programmatico", che tendeva alla serena composizione di
un costante atteggiamento apologetico con la più totale disponibilità verso i
portati della cultura innovatrice, di cui si appropriava con onnivora
curiosità. Ne dette la prima dimostrazione nel manuale degli Elementa
metaphysicae (Napoli), prima tappa dell'ambizioso progetto di un corso completo
di filosofia. Proprio per queste caratteristiche, nonostante la sostanziale
ortodossia e l'approvazione del revisore regio Orlandi, l'opera e duramente
attaccata dagli ambienti ecclesiastici. La protezione di Galiani e la
disponibilità ad accettare di chiarire le proprie posizioni in una Appendix
pubblicata salvarono G. dalla denuncia
al S. Uffizio. La polemica però accrebbe la sua notorietà a Napoli e fuori del
Regno; divenne abituale frequentatore del salotto letterario di Sarno,
bibliotecario del marchese di Montealegre (duca di Salas), primo segretario di stato.
Le tesi esposte nella Metafisica attirarono l'attenzione di Conti, con il quale
G. avvia uno scambio di lettere filosofiche sulla natura delle idee, stampate
(poi in Letterefamiliari, Venezia. Passa alla cattedra di etica, con buon
successo per la rinnovata affluenza di studenti. Nello stesso anno pubblicò, in
collaborazione con Orlandi, cui si devono le note scientifiche, gli Elementa
physicæ di Musschenbroek, ai quali premise una Disputatio physico-historica de
rerum corporearum origine et constitutione, agile e precisa sintesi delle idee
scientifiche dall'antichità al presente. La manifesta adesione al newtonismo si
colloca tuttavia ancora all'interno di una visione spiritualizzante e
ortodossa, che connette la visione del cosmo di Newton al vitalismo di Cardano
e di Campanella e con la platonica anima mundi. L'opera ebbe grande fortuna,
come pure il contemporaneo manuale di logica Elementorum artis logico-criticæ (Napoli),
che gli procura gl’elogi di Muratori, con il quale avvia un carteggio, quasi totalmente
perduto, destinato a durare fino alla morte del modenese. Ma altri e più
pericolosi attacchi si andavano preparando nel clima di scontro determinatosi a
Napoli a causa del tentativo, peraltro fallito, di introdurre il tribunale
dell'Inquisizione, messo in atto dall'arcivescovo cardinale Spinelli. Pubblica
la seconda parte della Metafisica, dedicandola a Benedetto con l'evidente scopo
di garantirsi un'autorevole tutela, e nel contempo portava a compimento la
stesura del manuale di teologia cui attendeva dai primi anni Quaranta: gli
Universae theologiae elementa. Quando si rende vacante la cattedra di tale
disciplina, G. ritenne di avere giusto titolo per concorrervi con buone
probabilità di successo. Ma la sua candidatura provoca violente opposizioni. In
base alla denuncia di un altro concorrente, l'abate Molinari, la curia romana
volle esaminare il manoscritto, mentre la corte di Napoli ne affida la
revisione a Barba. Nonostante i suoi timori, anche questa volta G. riusce a
evitare la denuncia per eresia, soprattutto in virtù dell'appoggio dei gesuiti,
ostili all'arcivescovo Spinelli, della sua personale amicizia con il padre
provinciale della Compagnia e del fatto che, sul piano dottrinale, si define
mezzo molinista in materia di grazia. Ma in questa occasione è assai tiepido
l'appoggio di Galiani, che gl’impone la rinuncia non solo alla cattedra, ma
anche all'insegnamento privato della teologia e alla pubblicazione degli
Universæ theologiæ elementa, provocando la decisione di G. di abbandonare studi
sì turbolenti e spesso sanguinosi (Vita). G. continua a insegnare etica,
mentre proseguiva il completamento della metafisica con un volume dedicato al
giusnaturalismo. Reinterpretando Grozio e soprattutto Pufendorf, G. vede nel
giusnaturalismo le basi per rinnovare un'etica razionalmente e scientificamente
fondabile, in grado di definire il quadro di valori di una società mercantile,
i cui problemi si venivano ormai collocando al centro dei suoi interessi. La
persecuzione di cui è stato oggetto, oltre ad allargare la cerchia delle sue
frequentazioni amichevoli a personaggi come Raimondo di Sangro principe di
Sansevero e Felice, gli aveva offerto infatti l'occasione di entrare a far
parte del cenacolo che in quegli anni si era venuto a creare intorno a INTIERI.
Ormai avanzato nell'età, questo abile e fortunato imprenditore toscano, amico
di C. Galiani e cofondatore dell'Accademia delle scienze, ritiratosi a poco a
poco dalle sue multiformi attività, aveva raccolto intorno a sé vecchi e
soprattutto nuovi esponenti dell'intellettualità napoletana, come RINUCCINI,
ORLANDI, GALIANI, con i quali aveva avviato una fruttuosa consuetudine di
discussione, tesa a stimolare non solo la circolazione delle idee in rapporto
con la cultura internazionale, ma anche l'attività di collaboratori e la loro
concreta azione nel contesto politico e sociale del Regno. Il cenacolo
dell'Intieri fu infatti tra i primi a leggere e commentare l'Esprit des lois di
Montesquieu. Dalle opere e dai carteggi di quegli anni emerge con chiarezza
l'auto-rappresentazione di questo gruppo di intellettuali come forza operante
nel nuovo contesto politico: la ritrovata indipendenza del Regno, che appare
loro come conditio sine qua non per l'avvio di un processo di cambiamento e di
modernizzazione. Vero e proprio manifesto del programma riformatore del
gruppo, incentrato sull'ineludibile nesso teoria-prassi, che ne costituì la
novità immediatamente percepita dai contemporanei, è il Discorso sopra il vero
fine delle lettere e delle scienze, maturato durante la villeggiatura nella
villa intieriana di Massa Equana, e pubblicato all'inizio dell'anno seguente a
Napoli insieme con il Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire
l'agricoltura di U. Montelatici e con la Relazione dell'erba orobanche di P.A.
Micheli. G. operava così la sua scelta di campo, presentandosi come
l'interprete più convinto di quel programma e il più attivamente impegnato
nella sua realizzazione. Requisito indispensabile per il progetto di
riforma era la diffusione di una nuova cultura scientifica, economica,
tecnologica, posta al centro degli interessi di una intellettualità nuova. A
essa, come campo di indagine, ma anche di azione, doveva rivolgersi la
"studiosa gioventù" del Regno, distolta dagli studi forensi e da
speculazioni astratte, e avviata da un lato a una conoscenza cosmopolita di
idee e linguaggi, dall'altro a sviluppare capacità di osservazione e di studio
dei fenomeni naturali e sociali della realtà in cui viveva. A questa
istanza della cultura intieriana corrispose il progetto che meglio ne
rappresentò la realizzazione istituzionale: la costituzione presso l'Università
di Napoli di una cattedra di meccanica e commercio- cioè la prima di economia
politica in Europa -, che Intieri volle finanziare con un lascito di 7500
ducati che garantisse una rendita di 300 ducati annui, a condizione che essa
venisse affidata al G., che l'insegnamento fosse svolto in lingua italiana e
che anche in futuro ne fossero esclusi rappresentanti del clero regolare. La
nuova cattedra e inaugurata con grande affluenza di pubblico. G. presentò il
nuovo corso con una prolusione che avrebbe poi sviluppato nel ragionamento sul
commercio in universale, pubblicato in estratto e poi in apertura della Storia
del commercio della Gran Brettagna scritta da Cary (Napoli). Questo
grosso centone in tre volumi conteneva pure la traduzione dell'Essai sur le
commerce d'Angleterre di V. de Gournay e G.-M. Butel-Dumont (Paris), i quali
avevano a loro volta tradotto e aggiornato l'Essay on the state of England di
J. Cary (Bristol), e la traduzione-rifacimento genovesiana dell'England's
treasure of commerce di T. Mun (London), corredate dalle ampie e ricche
annotazioni dello stesso G. e da altri suoi saggi (Ragionamento filosofico
sulle forze e gl’effetti delle gran ricchezze e Ragionamento sulla fede
pubblica) destinati a ricomparire negli Elementi del commercio e nelle
posteriori Lezioni di commercio o sia di economia civile.
Contemporaneamente G. procedeva alla stesura del suo corso biennale di Elementi
del commercio, che anche nel titolo riecheggiavano gli Eléments du commerce di Véron
de Fortbonnais. Ambedue le opere avevano un palese carattere
propedeutico, non solo per i destinatari, ma in certo modo per lo stesso
autore, che nel suo sforzo di informazione e acquisizione di nuove competenze
sembra lavorare in parallelo con i suoi allievi e lettori. Il discorso
genovesiano assolveva a una duplice funzione: definire contenuti e linguaggi
della nuova cultura economica; tracciare le linee di un programma di politica
economica per il governo, nel quadro dell'assolutismo illuminato, che viene
considerato come la garanzia istituzionale delle riforme. Esso si articola
sulla polarizzazione tra il cosmopolitismo culturale, perseguito con la consueta
ampiezza e tempestività di letture, e il patriottismo, consistente
nell'attenzione alle specifiche condizioni del Regno, su cui misurare
l'effettiva validità degli interventi. Sul primo versante i termini di
confronto scelti da G. sono la Spagna e l'Inghilterra. L'una, studiata
attraverso le opere di G. Uztáriz e B. de Ulloa, per le evidenti analogie con
la situazione del Regno; l'altra, proposta come il modello più avanzato di
economia mercantile, nel quale erano ormai operanti le strutture della moderna
circolazione di merci, monete e idee. Su di essa G. si documentava con ostinata
puntualità, trovando la referenza più significativa nei Political discourses di
D. Hume. L'elemento di mediazione culturale, approdo dei riformatori napoletani
alla koinè illuministica degli anni Sessanta, era costituito dalle opere e dai
dibattiti francesi, da Melon a Fortbonnais, a Plumard de Dangeul. Sull'altro
versante, G. articola una serie di proposte operative per una conoscenza
sperimentalmente e statisticamente fondata delle reali condizioni del Regno
(andamento demografico, natura e produttività dei terreni, configurazione della
proprietà attraverso il catasto, strade e comunicazioni ecc.), cui dovevano
collaborare gentiluomini e parroci, intellettuali e proprietari, creando una
rete di società agrarie e scientifiche diffuse sul territorio e radicate nella
società provinciale. La politica economica di un paese povero di materie prime
e del tutto marginale nel commercio internazionale doveva puntare allo sviluppo
qualitativo e quantitativo della produzione agricola, destinata al mercato reso
libero dai vincoli interni. L'adesione piena del G. alla liberalizzazione
del commercio interno dei grani si manifestò, in concomitanza con la grave
carestia che colpì il Regno, attraverso la pubblicazione dell'Agricoltore
sperimentato di TRINCI (Napoli) e delle Riflessioni sull'economia generale de'
grani (Napoli; traduzione della Police des grains di Herbert, Berlin), da lui
prefati e commentati. La fiducia nella possibilità di realizzare le riforme si
scontrava, tuttavia, con la crescente consapevolezza della natura strutturale
degli ostacoli che vi si opponevano. La concentrazione delle terre nelle mani
di una nobiltà feudale ancora detentrice di poteri giurisdizionali e di un
clero numericamente eccessivo, attaccato ai propri privilegi, impediva la
formazione di una proprietà contadina, che ormai appariva a G. la condizione
necessaria perché si sviluppasse non solo l'iniziativa economica, ma pure
l'auspicata mobilità sociale. Sono quindi i problemi della società civile
quelli cui G. guarda con maggiore attenzione nell'ultimo quinquennio della sua
vita, che rappresenta un'ulteriore scansione della sua attività. Il suo
impegno politico e culturale si caratterizzava per una sempre più accentuata
polivalenza di funzioni, legata alla sua ormai consolidata posizione di maître
à penser. All'insegnamento universitario e privato si aggiunsero infatti le
consulenze per Tanucci e per la giunta degli Abusi, sui problemi più scottanti
del momento: dalla liberalizzazione del commercio dei grani ai trattati di
commercio, dalla monetazione alla redazione dei nuovi piani di studio per le
scuole ex gesuitiche (nel quadro di una vigorosa ripresa della battaglia
giurisdizionalistica per l'abolizione della cattedra delle decretali); per
l'istituzione di nuove cariche in difesa delle prerogative regie, per la lotta
alla manomorta. Si intensificò soprattutto l'attività editoriale, relativa alla
pubblicazione di opere proprie e altrui, che investì tutti gli aspetti della
sua attività di studioso e di insegnante. Ne fa parte un corso completo d’ISTITUZIONI
FILOSOFICHE, in italiano, articolato nella Logica (Napoli), nella Diceosina, osia
della filosofia del giusto e dell'onesto (Napoli), nelle Scienze metafisiche. Contemporaneamente,
G. stende i Dialoghi morali e le note all'Esprit des lois. In questo
contesto si collocano le tre edizioni delle Lezioni di commercio o sia di
economia civile, cui G. lavora direttamente: le due napoletane, e quella
intermedia, promossa a Milano dall'allievo T. Odazi. Alle Lezionifanno da
contrappunto, su un tema specifico carissimo al G., le due edizioni delle
Lettere accademiche sulla questione se sieno più felici gli scienziati o
gl'ignoranti, in cui la ripresa della polemica con Rousseau si amplia a un
riesame critico dello sviluppo delle società umana. I testi che nascono da
questa attività multidisciplinare rappresentano l'espressione più compiuta di
un modusoperandi già sperimentato, fondato su una memoria interna, attraverso
la quale G. riutilizza e riorganizza continuamente i materiali della sua
riflessione, in uno sforzo onnicomprensivo che tende a coagulare in una sintesi
complessa, pur se talvolta ridondante, tutte le tensioni intellettuali e
politiche degli ultimi anni di vita. Le ampie varianti recepiscono anche le
spinte di circostanze esterne: per queste caratteristiche, le Lezioni si
presentano come l'autentica summa del pensiero genovesiano, un vero e proprio
work in progress di letteratura militante. G. colloca le problematiche
dell'economia in un più ampio quadro di considerazioni sulla società, sulle sue
dinamiche, esaminate negli aspetti antropologici e psicologici, secondo una
linea storicizzante alla quale contribuisce con una sua versione della teoria stadiale,
per approdare a un più ampio affresco della situazione del Regno. Il confronto
tra gli Elementi e le tre edizioni delle Lezioni mette in luce l'evoluzione del
suo pensiero sui temi più caratterizzanti, dalla popolazione al lusso alla
tassazione, e l'intensificarsi della polemica antifeudale e anticuriale.
Diventa centrale il problema della comunicazione, elemento caratterizzante
della società e del vivere civile e di conseguenza della lingua, alla quale
dedica anche una riflessione teorica nella Logica, e dei mezzi, delle sedi,
delle modalità attraverso le quali essa può realizzarsi e costituire l'asse
portante della formazione dell'opinione pubblica. La morte lo colge a
Napoli. Negli anni seguenti la sua opera fu oggetto di aspri attacchi e
di appassionate difese, culminate nell'elogio storico dedicatogli dall'allievo
Galanti (Napoli). Larga ma diversificata fu l'eco della sua opera nelle altre
aree d'Italia e di Europa. Nonostante la fortuna dell'edizione milanese delle
Lezioni, sulla quale furono esemplate tutte le successive ristampe, in realtà
l'opera genovesiana non venne apprezzata nella Lombardia asburgica, proiettata
verso la fisiocrazia, perché considerata troppo farraginosa e legata ai
problemi di una società sottosviluppata. In Francia l'annunciato progetto di PINGERON
di tradurre le Lezioni non ebbe seguito. In Germania, invece, vennero tradotti
sia la Storia del commercio (Leipzig), sia le Lezioni, a cura rispettivamente
di Witzmann e di Wichmann. Molto più ampia fu invece la diffusione dell'opera
genovesiana, sia filosofica sia economica, nella penisola iberica. In Spagna,
infatti, apparve una traduzione in castigliano delle Lezioni, a cura di V. de
Villava, mentre nei paesi di lingua portoghese i suoi corsi di filosofia
costituirono la base dell'insegnamento universitario per tutto l'ottocento.
Edizioni: Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F.
Venturi, Milano-Napoli; Autobiografia, lettere e altri scritti, cur. Savarese,
Milano; Della DICEOSINA o sia della filosofia del giusto e dell'onesto, a cura
di F. Arata, Milano; Scritti, cur. Venturi, Torino; Delle lezioni di commercio
o sia di economia civile, Varese rist. anast. dell'ed. Milano; Scritti
economici, cur. Perna, Napoli; Se sieno più felici gl'ignoranti che gli
scienziati. Lettere accademiche, a cura di G. Gaspari, Carnago; Lezioni di
commercio o sia di economia civile con gli "Elementi del commercio",
a cura di M.L. Perna, Napoli; Dialoghi e altri scritti. Intorno alle
"Lezioni di commercio", a cura di E. Pii, Napoli. Fonti e Bibl.: Le
carte genovesiane conservate si trovano a: Napoli, Biblioteca nazionale, ms.
XIII.B. 39; ms. XIII. B. 92; ms. XIV. B. 53; Arch. di Stato di Napoli, Casa
reale antica. Diversi, f. 868; LII, Affari gesuitici, ff. Altamura, Archivio
Biblioteca Museo civico, Fondo Serena, Carte G.; Arch. di Stato di Milano,
Piani di economia pubblica, Autografi; Arch. segr. Vaticano, Nunziatura di
Napoli, Arch. di Stato di Torino, Materie economiche. Zecche e monete. Inoltre,
copie manoscritte della Theologia sono conservate a Bari, Biblioteca nazionale,
ms. III. 16; Biblioteca provinciale De Gemmis, Fondo De Gemmis; Fano,
Biblioteca civica Federiciana, Fondo Collegio Nolfi, ms. 9; Macerata,
Biblioteca comunale Mozzi Borgetti, ms.; Napoli, Biblioteca oratoriana dei
gerolamini, ms. Varie lettere sono conservate a: Firenze, Arch. stor.
dell'Accademia dei Georgofili, Carteggio; Biblioteca nazionale, Autografi
Gonnelli; Forlì, Biblioteca comunale, Autografi Piancastelli; Milano,
Biblioteca Ambrosiana, Mss. Beccaria, B. 231; Modena, Biblioteca Estense,
MC.103. 1; Archivio Muratoriano, filza Autografoteca Campori; Torino,
Biblioteca civica, Collezione Nomis di Cossilla; Vienna, Österreichische
Nationalbibliothek, Mss. Lettere; Racioppi, G., Napoli; Monti, Due grandi
riformatori, G. e Galanti, Firenze; Studi in onore di G., Napoli; Villari, Il
pensiero economico di G., Firenze,Potolicchio, Postille autografe inedite alla
"Logica" di G., in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche
della Società nazionale di scienze, lettere ed arti in Napoli, Corpaci, A. G.
note sul pensiero politico, Milano, Nuccio, Un grande riformatore napoletano.
A. G.: scienza economica e problemi di rinnovamento sociale a Napoli, Roma; M.
Agrimi, G. e l'Illuminismo riformatore del Mezzogiorno, in Belfagor, Badaloni,
Conti, Milano, ad indicem; Luca, Gl’economisti napoletani e la politica di
sviluppo, Napoli, passim; Marcialis, Note sulla Disputatio physico-historica di
G., Annali delle facoltà di lettere, filosofia e magistero dell'Università di
Cagliari, Venturi, Settecento riformatore, I, Torino 1; Luca, Scienza economica
e politica sociale nel pensiero di G., Napoli, Garin, G. storico della scienza, in Id., Dal
Rinascimento all'Illuminismo, Pisa Villari,
G. e la ricerca delle forze motrici dello sviluppo sociale, in Studi storici;
Mas, Montesquieu, G. e le edizioni italiane dello "Spirito delle
leggi", Firenze Addante, A. G. e la polemica antibayliana nella filosofia
del Settecento. Contributo di ricerche storico-filosofiche, Bari 1972; P.
Zambelli, La formazione filosofica di G., Napoli; Economisti italiani Roma
Arata, G.:una proposta di morale illuminista, Padova rec. di G. Imbriglia, in
Boll. del Centro di studi vichiani; Zambelli, G. and empiricism in Italy, in
Journal of the history of philosophy, Piscitelli, Il pensiero degli economisti
italiani sull'agricoltura, la proprietà terriera e la condizione dei contadini,
in Clio, Demarco, Il dibattito settecentesco sulla popolazione in Italia, in La
popolazione italiana nel Settecento. Relazioni presentate al Convegno su: La
ripresa demografica Bologna Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia
civile nel pensiero di G., in Le forme e la storia Ferrone, Scienza, natura,
religione, Napoli, Taranto, Il progetto di G. e l'economia civile di V.E.
Sergio: un modello di sviluppo borghese, in Nuovi Quaderni del Meridione; Marcialis,
G. tra Wolff e Locke. Metafisica ed empirismo nell’Ontosophia genovesiana,
Cagliari, Pii, A. G.: dalla politica economica alla politica
"civile", Firenze, Battista, La storiografia su G. oggi, in Quaderni
di storia dell'economia politica, Bazzoli, Il pensiero politico
dell'assolutismo illuminato, Firenze Garin, A. G. metafisico e storico, in
Giorn. critico della filosofia italiana, Bellamy, Da "metafisico" a
"mercatante". A. G. and the development of a new language of commerce
in eighteenth-century Naples, in The languages of political theory in
early-modern Europe, a cura di Pagden, Cambridge, Battista, Sul popolazionismo
degli economisti meridionali prima di Malthus, in Le teorie della popolazione
prima di Malthus, a cura di G. Gioli, Milano; Fatica, Il lavoro come mediazione
tra l'uomo "civile" e la natura: alcuni problemi di
"police" in G. e nei suoi referenti culturali, in Prospettive
Settanta; Marcialis, Natura e sensibilità nell'opera manualistica di G.,
Cagliari Pennisi, Grammatici, metafisici, mercatanti. Riflessioni linguistiche
sul Settecento meridionale, in Teorie e pratiche linguistiche, a cura di L.
Formigari, Bologna La linguistica dei mercatanti, NapoliFerrone, I profeti
dell'Illuminismo, Bari, Galasso, La filosofia in soccorso de' governi, Napoli, Pagden,
La distruzione della fiducia e le sue conseguenze economiche a Napoli, Le
strategie della fiducia. Indagini sulla razionalità della co-operazione, cur. Gambetta,
Torino; Marcialis, Legge di natura e calcolo della ragione nell'ultimo G., in
Materiali per una storia della cultura giuridica, Robertson, The Enlightenment
above national context: political economy in eighteenth-century Scotland and
Naples, in The Historical Journal, Perna, L'universo comunicativo di A. G., in
Atti del Convegno Editoria e cultura a Napoli, Napoli. Antonio Genovesi.
Genovesi. Keywords: logica per gli giovanetti, critica della ragione economica,
scambio conversazionale --. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Genovesi: critica della ragione economica” -- per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Gentile: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Enea all’inferno – filosofia
taggese – scuola di Taggia – filosofia imperese – filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taggia).
Filosofo taggese. Filosofo imperiese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Taggia,
Imperia, Liguria. Grice: “It seems
every philosopher has a catabasis – as Eneas did!” “Falamonica spends a
‘stagione’ in hell, too!” -- “I do like Falamonica – the way he makes
‘Aristoteil’ rhyme! “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di
tutto quell Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico
Aristotil.” – Grice: Falamonica is interesting: there is Socrates teaching
Alcibiades, and Socrates teaching Plato, and Plato teaching Aristotle, and Aristotle
teaching Alexander!” Venne in contatto
coll’astrologia. Compose i Canti, poema dottrinale in terzine di 42 canti,
chiaramente derivato dalla Commedia di Dante. Grice: “It is a fun philosophical
comedy: “E vidi alfin colui, che fra’ mortali / più degno par di tutto quell
Collegio, / levarsi contra tutti, e batter l’ali; / dico Aristotil.” Opere:
“Canti. Dizionario Biografico degli Italiani. Di antica famiglia genovese, che
negli anni 1460-1480 entrò nell'"albergo" dei Gentile (e da qui è
l'origine del doppio cognome con il quale è conosciuto: cfr. Grendi), nacque a
Genova, nella contrada di S. Pancrazio, intorno al 1450, da Pancrazio e da
Violantina Piccamiglio. Nulla si sa
intorno alla sua formazione ed ai suoi studi. Il primo documento nel quale è
nominato è il testamento del padre. In una data incerta della fine del sec. XV
si trasferì in Spagna, dove svolse attività mercantile. Durante il soggiorno
spagnolo fu tra i protagonisti della rinascita del lullismo, partecipando alle
attività della scuola di Jaume Janer a Valencia. È promotore di iniziative
editoriali, fra le quali la pubblicazione del Liber artis metaphisicalis dello
stesso Janer, una sorta di summa enciclopedica del lullismo, stampata a
Valencia; dalla dedicatoria apprendiamo che F. studia le dottrine di Lullo con
Janer. Da un'altra dedicatoria, quella di Proaza, un altro importante membro
della scuola lulliana di Valencia, alla Disputatio Remondi christiani et
Homerii sarraceni, apprendiamo che F. si era dedicato anche a studi di
astronomia e di medicina, e che sollecitò Proaza a pubblicare testi di Lullo.
F. è inoltre in possesso di manoscritti di Lullo, del quale subì l'influenza
anche nei testi letterari di cui fu autore.
Diciotto sonetti di argomento religioso, appartenenti alla tipica tradizione
poetica catalana e nei quali è anche rilevabile l'influenza delle opere
poetiche di Lullo, sono pubblicati per la prima volta nell'edizione di Valencia
del Cancionero general. Nell'edizione del Cancionero (quella da noi consultata)
sono suddivisi in cinque sonetti "sobre ecce homo", un sonetto
"in dialogo de Dio", un sonetto "de trinitate", un sonetto
"a la verge Maria par les guerres dela sglesia", cinque sonetti en
llor del glorios nom de Iesus e cinque sonetti en llahor del nom dela gloriosa
verge Maria. Non si sa di preciso quando
F. rientrò a Genova, dove muore. Si dedica alla stesura di un poema, che ci è
stato tramandato ed è stato pubblicato con il generico titolo di Canti. In
quarantadue canti in terzine, di cui il primo ha la funzione di proemio, F.
costruisce un poema dottrinale secondo il modello dantesco del viaggio nei
regni oltremondani. Ma la particolarità del testo di F., cui non manca una
certa abilità nella costruzione del discorso in poesia, è data dall'aver scelto
come guida del viaggio proprio Lullo, il filosofo cui aveva dedicato molti dei
suoi studi durante il soggiorno spagnolo. Nei quarantadue canti troviamo
trattati i temi più caratteristici della filosofia lulliana. I primi canti sono
dedicati alla divisione e descrizione dell'universo ("de' cieli, de'
elementi, de' minerali, de' vegetali, degli animali, dell'uomo, de'
morali"), cui seguono canti sulla divinità e sul messaggio cristiano
("pronostico della cristiana religione, della divina essenza, della generazione
e spirazione eterna, della creazione del mondo, della natura angelica, della
incarnazione, della concezione, della passione, de' sacramenti, della
predestinazione"), sull'uomo e i suoi peccati ("del divino e mondano
amore, dell'usura, del giuoco, dello scandalo e della fama"), e, in
ultimo, i canti del vero e proprio viaggio nei regni dell'oltretomba
("dell'inferno, del purgatorio, del final giudizio, del paradiso").
La storia del testo dei Canti è stata piuttosto tormentata: ricordati negli
Annali della Repubblica di Genova di Giustiniani, già Foglietta nei Clarorum
Ligurum Elogia lamenta l'inaccessibilità del testo, che si credette perduto.
Venne data la notizia del ritrovamento del poema, che venne descritto nella
Storia letteraria della Liguria da Spotorno. Dopo alcuni saggi di
pubblicazione, i Canti vennero finalmente editi, in una veste non
particolarmente curata, cur. Gazzino (Genova). In questa edizione i Canti sono
accompagnati da un canto in terzine Alla Vergine e da tre sonetti In nome di
Lei, che fanno parte di quelli già pubblicati nel Cancionero. Soprani, Li
scrittori della Liguria, Genova (reprint, Bologna), (segnalazione in Spotomo,
Storia letteraria della Liguria, II, Genova; Giorn. stor. della letteratura
ital.); Caramella, B. G. F. (contributo alla storia del lullismo nei primordi
del Cinquecento), in Dante e la Liguria. Studi e ricerche, Milano Levi, Un
poeta italo-catalano del Quattrocento, in Estudis Universitaris catalans,
Battlori, El lulismo, en Italia, in Revista de filosofia, McPheeters, The
Italian poet and lullist B. G. in Valencia, in Symposium; Zambelli, Il De
audito cabalistico e la tradizione lulliana nel Rinascimento, Firenze Grillo,
Appendice alla raccolta degl’elogi di liguri illustri, Genova Pereira,
Lavinheta e la diffusione del lullismo a Parigi, in Interpres, Grendi, Profilo
storico degli alberghi genovesi, in Mélanges de l'Ecole Française de Rome,
M.-A., - Temps modernes,CRIT ICA. SOPRA UN POEMA di Bartolommeo Falamonica. Non
sono che pochi anni dacchè si scopri un poema di Bartolomeo G. Falamonica, uomo
ligure, da lui scritto. Giustiniani e qualche altro G e novese aveano parlato
di quell'uomo con assai lode ; m a deploravano la perdita di quella Opera sua,
che andava smarrita. Spatorno nella sua Storia letteraria della Liguria dà
un'analisi di quel Poema, che merita per, ogn irispetto d'essere conosciuto. Il
manoscritto oggi trovasi presso il marchese Negro, patrizio genovese, amatore e
cultore di ogni ottimo studio. Il poema di G. non ha titolo. La materia dice
Giustiniani ė tutta filosofica, con interpretazione di leggi pontificie e
cesaree. Lo stesso attesta Spatorno. L'A. incomincia dal favellare de' Cieli; e
iprimi suoi versi sono questi: Nel tempo che s'inclina ilfiore e l'erba,
TARIETA': WY > Perdar lecarespogliea l'aspra terra, Partendo dalla età dolce
e superba, Lasciando addietro il sessagesim anno Vedea che l'error m 'avea
condotto 39 Aristotil. Intanto gli apparve dalle parti occidentali una gran
Stella in formadiromito, di nome Raimondo Lullo spiega il suo desiderio di
conoscere la verità, e di lasciare alcun vestigio di sè dopo morte; e Raimondo
disse: sta securo. e lo condusse al Sole, acciò lo guidasse ne'Cieli. Per man
mi prese Torna senza onor dalla mia
guerra Con tutte mie speranze sparse al vento, De'miei passati giorni indarno
spesi, Ch'ogni piacere in me resta spento. 2 motor che mi costrinse il senso E
mi conduce in una oscura valle. Ivi il poeta udì prima un suono di guerra; poi
una ltro come di favelle che parlano del Cielo e della Terra. e Nel Il Canto vede Saturno, poi Marte, poi
Giove; e il Sole gli dice: Già presso al fin che tutto il mondo atterra. Allor
mi ritrovai tutto scontento A volgere al mio vero ben le spalle. Ed eccouscir
del Ciel, non sosiofalle Un gran E vidi ch'eran Spirti in quel deserto Qual
dicea in prosa, e qual canta in versi. E conosce tutti esser poeti, e in tanto
numero E vedi alfin colui che fra'mortali Più degno par di tutto quel Collegio,
Levarsi contra tutti e batter l'ali, Questa è la introduzione, e costituisce il
primo Canto del Poema. Nel II Canto si trova in luogo, dal quale si vede sotto
i piedi la Luna e i Pianeti; e sente il movimento delle sfere.Vide il cerchio
delle Stelle fisse e da ciò prende occasione di parlare degl’astronomi, il più
moderno dei quali è Regiomontano, ed afferma non essere possibile l'eternitàdel
mondo. Ma qui conviene omai fermar le piante Ch'ionon potreidituttiinomidirti.
Ne dice però una lunga lista di greci e latini: nd rammenta alcun italiano. Ei
li lasciò tutti per gire a' filosofi, tra i quali dà il primo luogo ad
Aristotele, di cui dice Per quelle strade luminose e terse Ch'io non potea
lasciar la via serena. Il Sole dà al poeta un de'suoi rai, onde possa vedere
gli oggetti terreni. E inquesto Canto, e nel VI parla dell'aria,! della dell? E
la lussuria il buon smeraldo affrena; Vedi l'assenzio, ch'apre e scalda e
sciolve: Che già della bell'arte han fatto vizio. Vacuando i denari, e non gli
umori. Nel Canto IX ragiona della vitasensitiva degli animali e delle proprietà
delle varie specie. E le cicogne d'empietà nemiche ecc. d'onde prende occasione
di parlare della empietà degli uomini, Che gli uomini son fatti fere ed orsi:
Qual strazia, qual uccide, qual graffigna. Cosi servate son le sacre norme. Le
cose accennate formano la prima cantica del poema ; ed incomincia la seconda
parlando dell'uomo. Alzato già del Ciel a tanto lume, acqua e del fuoco. Nel
VII parla de minerali,e delle supposte aque? tempi meravigliose virtù delle
pietre preziose, dicendo terr, Stringe l'acanto e falevenesalde; Tempo è omai
d'entrar nel mio volume: Dove trovai del mondo tanta parte. Finchè io ti mostri
la mia casa propria. Nel Canto IV visita Venere, Mercurio, e la Luna; e fa
molte dimande di fisica, ele risolve colla dottrina peripatetica che allora
corre. Nel canto V parla degli elementi; e vi s'introduce così: Era mia vista
di luce si piena, Son gli ametisti incontro all'ebriopoto, Contra
ilvenenoilgran giacinto è noto. Nel Canto VIII parla della vegetazione, e delle
proprietà vereo immaginarie dellepiante. Torna l'altea la gran durezza in
polve. cec. E contro i Medici. Falcon leale, e ladra la perdiceAdulterate son
le cose sante La gente ritornata si maligna, Come si mostra in le passate carte,
Ch'io vidi in lui siccome linea al punto Quanto Dio crca, e quanto poi
comparte, Ogni mondana ed immortal bellezza. Nel Canto Il parla della
immortalità e libertà dell'anima, e delle idee e degli affetti. Ogni pensier, e
quanto qui s'adopra opra In questa nostra carne per sua forina (l'anima) Il
lume della vita è la scienza. Questa parte filosofica è chiusa con un
pronostico della Religione cristiana. Il Genio del Sole lascia finalmente il
poeta ;e come questi nell'accomiatarsi sentendo una voce terribile, abbraccia
spaventato il suo duce, esso sdegnato Come uomo irato qui fra noi s'incende, si
volge al'Eterno, e lo prega di far sentire l'indigna zionesuaalla Terra piena
di tirannide, disimoniayd'inu gratitudine e di avarizia. Han fatto un altro Dio
tutto mondano; Creato per usanza un'altra legge; E posto in terraallorquando
s'aggiorna O somma vita, dove son
raccolte Ligate qui col tempo, e là disciolte ; Eterno libro, in cui si nota e
scrive E posto già il tuo nome tutto in vano. E commette al poeta di palesare
queste cose a tutto il mondo escriverlealettered'oro; minacciandochese
gliuomini non ritornano buoni, saranno preda dei Maomet tani,che alloraaveano
presa Otranto. Questa seconda Cantica termina coi seguenti versi. Che nulla per
di fuora par si scopra. Nel III Canto espone il difetto delle virtù, e spezialmente
della carità, onde l'anima va dannata. Chiudendo incrudel pianto sua giornata.
1. Canti IV, V e VI trattano di cose morali. Nobil naturà, in cui si trova
giunto Le vitenostrepriache insesienvive, Per l'alme che lassù si fanno dive;
Fammi sentir sìcome dentro s' Mortal non è colui che mai non erra. Che per
ricchezza l'uom non è giocondo : Un fonte di sospetti è signoria.
Seguilipochi,e non lavolgargente. Da poimi vidituttii sensi presi: Con un
gridar che uscia da que'paesi Oh ! mondo pravo, torna, tornia, torna. Ed ecco allor m'apparve quel divino
Miomastroantiquo (Lullo). I Canti I e II trattano della essenza divina secondo
la dottrina e le sottigliezze degli Scolastici. Nel Canto III il poeta si sforza
di mettere in versi la generazione del Verbo, e la spirazione eterna,giusta gli
astrusi concetti delle scuole. Nel IV ragiona della creazione del Mondo; nelV
della natura angelica con tutte ledivisioni gerarchiche. Nel VI e VII tratta
della incarnazione del Verbo. Poi dellaconcezione, seguendo la nota sentenza di
Scoto Più degno, più eccellente, più gentile, Di non veder la sua vision divina
fermazione,dellaEucaristia, dela Penitenza,edelleIna dulgenze. Nel Codice
autografo, dice Spatorno, è Jasciato in bianco ciò che apparteneva agli
altritre Sacra menti. Favella poscia il poeta della predestinazione e del
l'amore divino e mondano. Quest'ultimo lo ispira contro Usura in pravi
volentier s'annida. E cresce questa piaga al mondo ognora. Quanto son pianegià
le vie di morte ! Ne’susseguenti canti inveisce contro il giuoco; indi ragiona
dello scandalo e della fama. La terza parte del Poema ha per soggetto il Mondo
ir. visibile, e comincia dall'Inferno. E più decente ancora all'Infinito. Della
più mite dottrina poi si mostra seguace rispetto ai fanciulli morti senza
battesimo. Che poco curan già di veder Dio Di quanto in sè contien filosofia.
In due Canti espone la passione del Redentore; nè pia. ceranno a tutti le
disperazioni della Vergine a piè della croce. In due altri Canti ragiona del
Battesimo, della Con I La Cantica terza abbraccia la parte teologica ; e comin
cia così. È già fatto si com'uom selvaggio. Non hanno danno alcun, se non quel
bando Giocando insieme tutti e giubilando, Non hanno più sospiro alcun, nè
stento, E sono al lor parer si gloriosi Siccome fanno al mondo i più viziosi. E
li suppone occupati M Busura. Secondo differenzia di peccati. A guardia
de'superbi stanno i leoni, de'lascivi i porci; de'golosi gl’orsi: Viensi poial
Giudizio universale Così montaro in Ciel disquadre in squadre. Il poema si
chiude col Paradiso partito in sei capitoli. Nel I si parla della felicità de'
Giusti. Nel II sono ricordati tutti i più celebri personaggi dell'antica
alleanza; fra quali è taciuto di Saloinone, che secondo l'opinione del b.
Alessandro Sauli si tene per dannato. Nel III si tratta degli Apostoli, dei
Discepoli e degl'Innocenti, Nel IV parlandosi de' Martiri cosi dice di S .
Lorenzo. Felice tu, mia Genoa, che l'onori, Eccelso cavalier di Cristo atleta.
Giorgio chiamato, e vera insegna e duce Di nostra gran Liguria. Flegias,
Cocito, furie d'Acheronte, Aletto con Megera e Tesifone. Lascio la Stige, e
Lete, e Flegetonte, Ed ogni simulacro de Poeti Seguendo solo l'ortodossa fonte.
Ne fu già l'occhio mio cotanto ardito Il Purgatorio del Falamonica ha forma di
anfiteatro; le grotte che rinchiudono le anime, sono disposte sotto gli
scaglioni, e sopra questi stanno demonii in sembianza di animali. La valle
tenebrosa ed ipfelice D'ogni ben priva, e d'ogni male carca E le corone d'uno e
d'altro impero Correr fra l'onde, e naufragar con elle. E come il balenar
seconda il tuono. Ma l'invito del Giudice eterno agli Eletti, dice Spatorno, sa
troppo di quelle licenze dantesche pena si perdonano all'Autore della
incomparabil Commedia. E Roma, ove fursparsi i suoi dolori. E di S.
Giorgio. Che ap Cerbero lascio, Minos e
Plutone, Da riveder qual fosse quello e questo. Cið gli frutterà guerra presso
gli adoratori d'ogni cosa di Dante. Venite a me del nome mio maacipio, Diletti
e benedetti dal mio padre. Che come miei fratelliio vi recipio. Felice ancor la
Spagna, dov'ei nacque, Nel V Canto si
parla ancora de martiri. Nel VI de' dottori, monaci, ronitie confessori, e di
questi l'ul timo è Bernardino di Siena. Di Bernardino parlo, che a l'uscita Di
questa schiera il più moderno parve, Fra tanta moltitudine infinita. E chiama
s.Anna Ava del Figlio, e Socera del Padre Miserere di un cuor che in
tes'adombra! e dichiarando di sottomettere l'Opera sua al giudizio di Santa
Chiesa. G. B. Nostro celeste in Ciel.
Chiude poi ilcapitolo e tutto il poema, volgendosi a Dio, e pregandolo Ch'io la
rimetto a lisuoi santi piedi. Tale è l'analisi che ci ha data del poema del
Falamonica Spatorno. Non poteva questa essere più ampia dovendo costituire
parte di un articolo della sua Opera. Ma egli ha lasciato maggior desiderio del
medesimo, poi chè pare anoi, che altri passi, e forse più felici, dovrebb'esso
contenere, se, come dicegli, questo poema dopo la Commedia di Dante, e prima
dell'Orlando furioso dee tenersi per la migliore composizione poetica che in
quel l'intervallo l'Italia abbia avuta. Noi speriamo che il signor di Negro lo
comunicherà al Pubblico colle stampe. E vidi alfin colui che fra’ mortali più
degno par di tutto quell collegio levarsi contra tutti e batter l’ali. Dico
Aristotil posto in sì gran pregio di lor filosofanti un lume acceso E pur dal
ciel si trova dato in spregio si ch’io restai fra me tutto sospeso con l’alma
or. Falamonica. Bartolomeo Fallamonica Gentile. Gentile. Keywords: Enea
all’inferno, parodies of the Divine Comedy, Raimondo Lullo, Bruno e Lullo, il
libro dell’amante e dell’amato, ars amative. Commedia filosofica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gentile” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Gentile: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura dell’atto conversazionale – filosofia
castelvetranese – scuola di Castelvetrano – filosofia trapanese – filosofia
siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Castelvetrano). Filosofo castelevetranese. Filosofo
trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Castelvetrano, Trapani,
Sicilia. Grice: “Do not
multiply the senses of ‘state’ (normative, prerogative) beyond necessity.” Grice:
“It’s difficult to assess the philosophy of Gentile; he is a Peirceian, like me
–. He ie into ‘conventional sign’ and ‘natural sign’ – and considers
intersubjectivity as a way to suprass the type of Berkeleyan idealism – his
tradition is Plathegel, mine is Ariskant!” Grice: “The roots of Gentile’s
philosophy are in Hegel’s logic, as are Bradley’s, Bosanquet, and
Collingwood’s! – and Croce’s!” -- idealist philosopher. He taught philosophy at
Pisa. Gentile rejects Hegel’s dialectics as the process of an objectified
thought. Gentile’s actualism or actual idealism claims that only the pure act
of thinking or the transcendental subject can undergo a dialectical process.
All reality, such as nature, God, good, and evil, is immanent in the dialectics
of the transcendental subject, which is distinct from the empirical subject. Among his major works are “La teoria generale dello
spirito come atto puro” and “Sistema di logica come teoria del conoscere.” Gentile sees conversation is
a concerted act that overcomes the apparent difficulties of inter-subjectivity
and realizes a unity within two transcendental subjects. Actualism was pretty
influential. With Croce’s historicism, it influenced two Oxonian idealists
discussed by H. P. Grice: Bernard Bosanquet and R. G. Collingwood (vide: H. P.
Grice, “Metaphysics,” in D. F. Pears, The Nature of Metaphysics, London,
Macmillan). Insieme a Croce uno dei maggiori
esponenti del idealismo, nonché un importante protagonista della cultura, fonda
L’Istituto dell'Enciclopedia Italiana e artifice della riforma della pubblica
istruzione (Riforma Gentile). La sua filosofia è detta attualismo.
Inoltre fu figura di spicco del fascismo italiano. In seguito alla sua adesione
alla Repubblica Sociale Italiana, fu assassinato durante la seconda guerra
mondiale da alcuni partigiani comunisti dei GAP. «Era un omone che
ispirava grande simpatia; con la pancia incontenibile, i bei capelli brizzolati
sopra un faccione rosso acceso, di carnale cordialità. Tutto fuorché un
filosofo: così mi apparve, benché fossi pieno di entusiasmo per i suoi Discorsi
di religione, freschi di lettura. Bonario, familiare (paternalista), mi fece
l'impressione di un vigoroso massaro siciliano, che fonda la sua autorità
sull'indiscusso ruolo di patriarca” (Geno Pampaloni, Fedele alle amicizie.
Figlio di Giovanni e Teresa Curti. Frequenta il ginnasio/liceo
"Ximenes" a Trapani. Vince quindi il concorso per posti di interno di
Pisa, dove si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia. A Pisa ha come maestri,
tra gli altri, Ancona, professore di letteratura, legato al metodo storico e al
positivismo e di idee liberali, Crivellucci, professore di storia, e Jaja,
hegeliano seguace di Spaventa, che influirono molto su Gentile. Dopo la laurea,
con massimo dei voti e ottenimento del diritto di pubblicazione della tesi, ed
un corso di perfezionamento a Firenze, ottiene una cattedra in filosofia presso
il convitto nazionale Pagano di Campobasso. Si sposta a Napoli. Sposa
Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso: dal loro matrimonio nasceranno Federico
Gentile, i gemelli Gaetano G. e Giovanni G. junior, Giuseppe G., e Tonino
Gentile. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Ottiene poi la
cattedra a Palermo, dove frequenta il circolo di POJERO (si veda) e fonda
“Nuovi Doveri.” A Pisa e Roma. Insegna a Palermo, Pisa, Roma e Milano. Durante
gli studi a Pisa incontra Croce con cui intratterrà un carteggio continuo. Uniti
dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), contrastarono assieme il
positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Insieme fondano “La
Critica” al rinnovamento della cultura
italiana. L'attualismo ha configurazione sistematica. Divenne membro del
Consiglio superiore della pubblica istruzione. All'inizio della prima guerra
mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, si schiera a favore della guerra
come conclusione del Risorgimento. Rivela a sé stesso la passione politica che
gli stava dentro e assunse una dimensione che non era più soltanto quella del
filosofo che parla “ex cathedra”, ma
quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al pubblico. Partecipa
attivamente al dibattito politico e culturale. E tra i firmatari del manifesto
del “Gruppo Nazionale Liberale”, che, insieme ad altri gruppi nazionalisti e di
ex combattenti forma l' “Alleanza” per le elezioni politiche, il cui programma
politico prevede la rivendicazione di uno stato forte, anche se provvisto di
larghe autonomie regionali e comunali, capace di combattere la metastasi
burocratica, il protezionismo, le aperture democratiche alla Nitti, rivelatosi
«inetto a tutelare i supremi interessi della Nazione, incapace di cogliere e
tanto meno interpretare i sentimenti più schietti e nobili». Fonda il “Giornale
critico della filosofia italiana”. Diviene
consigliere comunale al Municipio di Roma, mentre l'anno successivo viene
nominato anche assessore supplente alla X Ripartizione, A. B.A ., ovvero alle “Antichità”
e alle “Belle Arti”, sempre del Municipio di Roma. Diviene socio dell'Accademia
dei Lincei. G. non mostra particolare interesse nel confronto del
fascismo. Fu solo allora che prese posizione in merito, dichiarando di vedere
in Mussolini un difensore di un “liberalismo” risorgimentale nel quale si
riconosce.“Mi son dovuto persuadere che il ‘liberalismo’, com'io l'intendo e
come lo intendeno gli uomini della gloriosa destra che guida l'Italia del
Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge, e perciò nello stato
forte, e nello stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato
in Italia dai ‘liberali’, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per
l'appunto, da Lei.” (Lettera a Mussolini). All'insediamento del regime viene
nominato ministro della Pubblica Istruzione, attuando La Riforma G., fortemente
innovativa rispetto alla precedente riforma basata sulla legge Casati di più di
sessant'anni prima! Diviene senatore del Regno. Si iscrive al Partito Nazionale
con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Dopo la crisi
Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere
la Commissione dei Quindici per il progetto di riforma dello Statuto Albertino
(poi divenuta dei Diciotto per la riforma dell'ordinamento giuridico dello
stato). Resta FASCISTA e pubblica il “Manifesto degli intellettuali” in
cui vede la filosofia come un possibile motore della rigenerazione degli
italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto
sancisce l'allontanamento di G. da Croce, che gli risponde con un tipico “contro-manifesto”.
Promuove la nascita dell'Istituto di Cultura. Per le numerose cariche, esercita
un forte influsso sulla cultura italiana, specialmente nel settore filosofico. È
imembro dell'Istituto Treccani. A G. si devono in gran parte il livello
culturale e l'ampiezza della visione dell'Enciclopedia Italiana. Invita infatti
a collaborare alla nuova impresa 3.266 filosofi di diverso orientamento, poiché
nell'opera si deve coinvolgere tutta la cultura italiana, compresi molti
studiosi notoriamente anti-fascisti, che ebbero spesso da tale lavoro il loro
unico sostentamento. Riesce in tal modo a mantenere una sostanziale autonomia,
nella redazione dell'Enciclopedia Italiana, dalle interferenze del regime. È
coinvolto nell'istituzione del Giuramento di fedeltà al regime che causerà
l'allontanamento di alcuni dall'Università. Inaugura a Genova l'Istituto
mazziniano. Fonda il Centro nazionale di studi manzoniani. Fonda la Domus
Galilaeana a Pisa. Non mancano comunque i dissensi col regime. In
particolare, la sua filosofia subisce un duro colpo alla firma dei Patti
Lateranensi tra il cattolicesimo e lo stato. Sebbene riconosca il cattolicesimo
come una forma della spiritualità, ritiene di non poter accettare uno stato NON
laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante, è
inoltre contrario all'insegnamento del cattolicesimo nel ginnasio e nel liceo.
Il Sant'Uffizio mette all'”Indice” le sue opere a causa del loro
riconoscimento, nel solco dell'idealismo, del cattolicesimo come una mera
"forma dello spirito” -- totalmente inferiore alla filosofia: ‘theologia
ancilla philosophiae.” “La mia religione, in cui vi sono anche alcune velate
critiche al cattolicesimo e ispirata da Alighieri, Gioberti e Manzoni. Degna di
nota anche la sua difesa di Bruno, il filosofo eretico condannato al rogo
dall'Inquisizione, al quale dedica una apologia, impegnandosi anche presso
Mussolini perché la statua di Bruno in Campo de' Fiori e opera dello scultore
anticlericale Ettore Ferrarinon fosse rimossa, come richiesto da alcuni
cattolici. Comincia una lunga polemica contro Vecchi, che Gentile accusa
di “inquinare la cultura”.“Roma non ebbe mai un'idea che fosse esclusiva e
negatrice.”“Roma accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e
popoli.” “Così poté attuare il suo programma di fare dell'urbe, l'orbe.” “La Roma
antica volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice
intelligenza a ogni persona a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo
alieno da sé che fosse umano.”“Sono i popoli – come i longobardi! -- piccoli e
di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in se stessi in un nazionalismo
schivo e sterile.”In La mia religione dichiara di essere credente nello stato
laico – ‘stato no laico e una contradictio in terminis’ -- Nel Discorso
del Campidoglio esorta all'unità. Si ritira a Troghi, dove filosofa su la “Genesi
e struttura della società” nel nel quale teorizza su la politica
dell’umanesimo. Considera “Genesi e struttura della societa” il coronamento dei
suoi studi speculativi tanto che mostrando il manoscritto, scherzando disse. "I
vostri amici possono uccidermi ora se vogliono.”“Il mia missione nella vita è
compietata.”La caduta di Mussolini non preoccupa particolarmente Gentile che
intese il tutto come un avvicendamento al governo. Inoltre la nomina nel primo
governo Badoglio di alcuni ministri che precedentemente erano stati suoi
collaboratori lo conforta. In particolare la amicizia con Severi spinse Gentile
ad inviargli una lettera di auguri per la nomina e a sottoporgli alcune
questioni rimaste in sospeso con il governo precedente. Severi rispose a
G. lanciandogli un duro e inatteso attacco. Travisandone volontariamente i
contenuti evitando però di renderli noti avvalorò l'idea che Gentile gli si
fosse proposto come consigliere ponendolo quindi in obbligo a respingerne la
proposta. G. replica a Severi e rassegna le dimissioni da Pisa. G. respinse in
un primo tempo la proposta di Biggini di entrare al Governo, dopo un incontro
con MUSSOLINI sul lago di Garda si convinse ad aderire alla Repubblica Sociale
Italiana. Divenne presidente della Reale Accademia d'Italia, con l'obiettivo di
riformare L’Accademia dei Lincei che e assorbita dall'Accademia. Venne qui
tempo fa un amico a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi politici per cui
desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicura che io potevo benissimo
restare in disparate. Ma dovevo fare una visita al mio amico che desidera vedermi
ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare
questa visita non e possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato. Ebbi un
colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio
pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico
aspetto. Credo di aver fatto molto bene all’Italia. Non mi chiese nulla, non mi
fece offerta. Il colloquio fu a quattr'occhi. La nomina fu poi combinata col
ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla
sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita. Sostenne
la chiamata all’armi e la coscrizione militare nell'esercito della RSI,
auspicando il ri-pristino dell'unità nazionale sotto la guida ancora una volta
di Mussolini. Intanto il figlio, Federico G., capitano d'artiglieria del
Regio Esercito, e internato dai tedeschi in un campo di prigionia a Leopoli in
condizioni particolarmente severe. F. G. e l'unico ufficiale italiano del campo
a non ricevere la posta di ritorno. F. G. aveva aderito alla RSI, ma non aveva
accettato l'arruolamento nell'Esercito Nazionale Repubblicano, preferendo tornare
in Italia da civile. G. elogia pubblicamente al condottiero della grande
Germania, e lodando l'alleanza italiana con le Potenze dell'Asse. Pochi giorni
dopo, Federico G., venne trasferito in un campo meno duro. Infine, gli e
permesso il ritorno. Per il suo appoggio dichiarato alla leva per la difesa
della RSI, riceve diverse missive contenenti
minacce di morte. In una in particolare era riportato. Tu sei responsabile
dell'assassinio dei cinque. L'accusa e riferita alla fucilazione di cinque renitenti
alla leva rastrellati dai militi della R. S. I. -- fucilazione orchestrata da Carità,
che detesta G., ricambiato. Ha infatti minacciato di denunciare le eccessive
violenze del suo reparto allo stesso MUSSOLINI. G. non e assolutamente
collegato con tale evento. Il governo repubblicano gli offre quindi una scorta
armata che però G. declina. Non sono così importante, ma poi se hanno delle
accuse da muovermi sono sempre disponibile. Considerato in ambito resistenziale
come il filosofo del regime, apologo della repressione e di un regime ostaggio
di un esercito occupante, è ucciso sulla soglia di Villa di Montalto al
Salviatino, da gappisti di ispirazione comunista. Il commando si apposta circa
nei pressi della villa. Appena giunse in auto, il gappista Fanciullacci si
avvicina, tenendo sotto braccio un saggio di filosofia – “Apperance and
Reality,” di Bradley -- per nascondere la rivoltella e farsi così credere un
filosofo. Abbassa il vetro per prestare ascolto. E subito raggiunto dai colpi della
rivoltella. Fuggito il gappista in bicicletta, l'autista si diresse
all'ospedale Careggi per trasferirvi il filosofo moribondo. G., colpito
direttamente al cuore e in pieno petto, in breve spira. E un episodio che divide
lo stesso fronte di resistenza e che è al centro di polemiche non sopite,
venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola
esclusione del Partito Comunista, che ri-vendica l'esecuzione. E sepolto nella
basilica di Santa Croce, il foscoliano tempio dell'itale glorie. Dopo
l'attentato, le autorità della R. S. I., dopo aver sospettato all'inizio lo stesso
Carità promisero mezzo milione di lire in cambio di informazioni su
Fanciulacci.Venne disposto l'arresto di cinque, indicati da come i mandanti
morali. Grazie al diretto intervento della famiglia, gl’arrestati sono rimessi
in libertà. All'interno di Santa Croce si inaugura un convegno di studi
gentiliani. La filosofia di G. e da lui denominata “attualismo” o idealismo
attuale.L'unica vera realtà è un “atto” puro del «pensiero che pensa», cioè
l'auto-coscienza, in cui si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente.Solo
quello che si realizza tramite lo spirito rappresenta la realtà in cui il
filosofo si riconosce. Il Pensiero è attività perenne in cui all'origine non
c'è distinzione tra “soggetto” e “oggetto” – dunque l’intersoggetivita e un
pseudo-problema. Avversa pertanto ogni dualismo rivendicando il monismo e l'unità
di natura (corpo, materia) e spirito (anima, forma) (monismo).Al'interno, assieme
al primato, la auto-coscienza è vista come “sintesi” della tesi del soggeto e
l’antitesi dell’oggetto. Questo e un atto in cui il primo, la tesi, il
soggetto, pone se stesso e pone il secondo (auto-concetto).In ciò consiste l'”autoctisi”
–Non hanno quindi senso un orientamento solo spiritualista o solo materialista
(naturalista).Non ha senso la divisione netta tra spirito (l’astratto) e
materia (astrazzione) del platonismo, in quanto la realtà è Una. Qui è evidente
l'influsso dell’aristotelismo (hyle-morphe) e il panteismo rinascimentale e
anche dell’ “immanentismo” (contro il transcendentalismo) più che
dell'hegelismo. Di Hegel, a differenza di Croce, che era fautore di uno
storicismo assoluto (o idealismo storicista), per cui tutta la realtà è “storia”
e non “atto” in senso aristotelico (energeia/dunamis – actus – cf. Grice, “What
is actual”), non apprezza tanto l'orizzonte storicista, quanto l'impianto
idealistico relativo alla auto-coscienza.La auto-coscienza è considerata il fondamento
del reale. Anche vi è un errore in Hegel nella formulazione della “dialettica”.
Ma questo non consiste unicamente, come afferma Croce. Croce infatti sostiene che
"tutto è Spirito". La critica di Croce non è sufficiente.Gentile
sostiene che Hegel confunde la dialettica del “implicare” (‘impiegare”) (che ha
individuato correttamente) con la dialettica dell’ “implicatum” ‘empiegato’. Lascia
forti residui della dialettica dell’impiegato,cioè quella del determinato e
delle scienze. Gentile inoltre non accetta la “dialettica dei distinti” (A
distinto da B) che Croce, in base al adagio che "non ogni negazione è
opposizione") introduce posto accanto alla “dialettica degli opposti"
(A opposto B). Infatti G. ritiene la
‘dialettica dei distinti’ un'aggiunta arbitraria, che snatura la dialettica
propria.Questa invece si esplica in un “atto” in cui utilizza la dialettica (A
opposto B, sintesi C) in un atto puro.Questa dialettica si esplica quindi nel
rapporto dell’impiegare e l’impiegato. Recuperando La Dottrina della scienza di
Fichte, G. afferma che lo spirito (anima, forma) è fondante in quanto unità di
autocoscienza, atto; l'atto puro –, è il principio e la forma della realtà
diveniente, non esistente (Gott im Werden – dall’divenire all’essere). La
dialettica dell'atto puro e l’opposizione tra la soggettività (il soggeto)
rappresentata dall'espressione --
intention-based semantics -- (tesi) e l'oggettività (oggeto) – cf.
inter-soggetivo -- rappresentata dal positivism scientism. (antitesi), cui fa
da soluzione nell’atto puro (sintesi). L'atto puro si fonda sull'opposizione
della «logica del pensiero pensante» e la «logica del pensiero pensato” – cfr.
implicans – implicatum. impiegatore – impiegante – impiegato --. La prima è una
dialettica materiale– implicans/impiegante --, la seconda una logica formale –
l’impiegato --. G. dedica la sua attenzione al tema della soggettività
dell'espressione nel vivere del spirito. Se da un lato l'espressione è il
prodotto di un sentimento soggettivo o una intenzione, dall'altro l’espressione
è un atto puro “sintetico” – “composito” -- non analitico – or divisso -- che
coglie tutti i momenti della vita dello spirito, acquistando dunque alcuni
caratteri del questo che Grice chiama il discorso razionale o la conversazione
come cooperazione razionale. Sviluppando fino in fondo la filosofia di
Spaventa, la filosofia dell’atto puro, per il quale la realtà esiste solo
nell'atto puro che pensa la realta.è stato interpretato come un idealismo
soggettivo (una forma di soggettivismo – o intersoggetivismo), sebbene G. tende
a respingere tale definizione, non essendo quell'atto preceduto né dal “soggetto”
né tantomeno dall'”oggetto” -- bensì coincidente con l'Idea stessa, e a
differenza di Fichte, in cui l'Infinito (come aveva già affermato Hegel) è un
"cattivo infinito" è in realtà immanente (non trascendente) all'esperienza,
proprio perché l’atto puro e creatore d una esperienza (datum). Gentile e un
ideologo del regime.La filosofia politica di G. è fortemente attivista e attualista (cioè
trasponte l'attualismo del atto puro nel campo veramente inter-soggetivo dello
scambio sociale.La politica coniughi «prassi e pensiero» (lo pratico e lo
speculative) che sia insieme «una azione a cui è immanente una ‘dottrina’
condivisa.’”Essendo insoddisfatto di fronte alla realtà, in G. troviamo il
primato del futuro, l’utopia, l’ideale regolativo. Ma, allo stesso tempo, un
recupero della concezione romantica illuminsita di una Ragione intesa come
Spirito universale che tutto pervade, avversa al materialismo e alla ragione
meramente strumentale mezzo-fine. In questo, l’analogia con Grice e obvia. Per
G., ad esempio, il «modo generale di concepire la vita» proprio della sua
dottrina è di tipo spiritualistico. La dottrina non è la sola qualificazione
politica che dà dello speculative. G. infatti e un ‘liberale’ -- nonostante
sembri respingere quasi in toto il ‘liberalismo ottocentesco’ ne La dottrina del
regime.Difatti la sua concezione politica riprende la concezione di Hege di un
stato etico o morale -- per cui ‘libero’ (free) non è primariamente l'individuo
o persona atomisticamente e materialisticamente inteso, ma soltanto lo stato stesso
nel suo processo storico. Un individuo e ‘libero’ se esplica la sua moralità nella
forma istituzionale di suo stato libero -- come chiarisce nella 'Enciclopedia
italiana. L'individuo esprime la sua libertà individuale personale solo
all'interno di un stato libero ("libertà nella legge" – lo giuridico
-- ), con ciò a dire in un contesto istituzionale organizzato (positivismo
kelseniano). Un esempio di questa concezione lo si può trovare nella destra
storica, la quale governa l'Unità d'Italia. Impone un governo autoritario (concezione
ereditata poi dalla sinistra storica di Crispi) che riusce a moderare
l'individualità dei singoli, quella che G. definisce come la spinta alla
disgregazione.Questo modello di governo forte è giusto (lo giuridico) in quanto,
per definizione, un stato libero e un stato etico, definito alla Mazzini come
"stato educatore". Se G. voglia uno stato totalitario vero e proprio
è questione invece incerta.Di certo nella sua fase prettamente del regime, G.
fa riferimento a un ‘stato totale", l'organismo che accoglie tutto in sé. Con
il regime si può avere vero "liberalismo" in quanto riporta al valore
primigenio del Risorgimento. G. dimostra un forte approccio storicistico,
secondo il quale il regime trade la sua legittimazione dalla storia, sarebbe
appunto una vera fase storica, non una mera mistica o dottrina o ideologia. Il
Risorgimento non e olo un'operazione politica, ma un "atto di fede".Il
campione di suddetto atto di fede e Mazzini: anti-illuminista e romantico,
anti-francese, spiritualista e nemico dei principi materialistici. Lo stato
giolittiano rappresenta invece un tradimento dei valori risorgimentali.Per
rompere questo “status quo” degenerativo del processo italiano e necessario una
rivoluzione. Porta un nuovo assetto, ma anche statale, perché va a colmare una
lacuna che vige nel sistema del stato. Insiste molto sulla novità di questa
rivoluzione. è un modo nuovo di concepire una nazione, ha una consapevolezza
mistica di ciò che sta compiendo. Un duce viene perciò dipinto come un vero
eroe idealistico. La missione della rivoluzione è quella di creare l'Uomo
nuovo: un uomo di fede, spirituale, anti-materialista, volto a grandi imprese. Questo
nuovo tipo di uomo e anti-tetico al carattere che Giolitti tentò di imprimere a
una nazione e che connota l'Italia come una nazione scettica, mediocre e
furbastra. In quanto ideologo, G. sostiene che la dottrina revoluzionaria si
deve istituzionalizzare: ciò avverrà nei fatti attraverso l'istituzione del Gran
Consiglio. La dottrina si deve inoltre far assorbire dall'italianità (e non il
contrario). Il fine è che nella società italiana non vi siano più contra-dizioni,
nessuna differenza tra cultura italiana e cultura della dottrina. Bisogna
arrivare ad una comunità omogenea e compatta anche in ambito lavorativo. Attraverso l'istituzione della cooperative e la corporazione, la quale deve
sanare la frattura sindacati-datori di lavoro tramite la collaborazione o
cooperazione di classe. Anche qua Gentile riprende le teorie di Mazzini, oltre
che il distributismo. Il corporativismo (di cui le estreme realizzazioni
saranno la democrazia organica e la “socializzazione” dell'economia, progettate
nella R. S. I.) permette di giungere ad uno stato di fatto in cui i problemi
economici si risolveranno all'interno della corporazione stessa, senza
provocare fratture all'interno della società, ed evitando una lotta di classe
(classe bassa, casse media, classe alta) grazie alla “terza via” della
dottrina. Gentile sostenne, opponendosi all'ala estrema e intransigente l'idea
una riconciliazione, la più ampia possibile, di tutti gli italiani.Pur
riconoscendosi nella R. S. I., invita pubblicamente il popolo sano ad ascoltare
la voce della patria, esortandolo alla pacificazione e ad evitare una “lotta
fratricida", di cui comunque non vedrà la fine. Il gentilismo fu una
delle cinque correnti culturali del regime, assieme alla sinistra "rivoluzionario"
di Malaparte, Maccari, Bottai, e Marinetti; la dottrina clericale; la mistica
di Giani, Arnaldo, e Mussolini; e il neo-ghibellinismo pagano di Evola. Per
l'idealista G., a differenza di Croce, che ritene il Marxismo solo
"passione politica", causata da uno sdegno morale a causa delle
ingiustizie sociali, il marxismo è una filosofia della storia derivata da
Hegel. Gentile afferma infatti che la concezione materialistica della storia è
costruita da Marx sostituendo la Materia -- la struttura economica -- allo
Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà, che comprende la
materia (all'interno della Filosofia della natura), come momento del suo
sviluppo. Secondo Marx invece, avendo scambiato il relativo con l'assoluto, si
finisce con l'attribuire a un mero momento (la materia, cioè, il fatto
economico) la funzione dell'Assoluto che per Hegel si sviluppa dialetticamente
ed è determinato a priori rendendo così determinato a priori l'empirico: la
struttura economica. Nonostante che la filosofia della storia marxiana sia pertanto
una errata filosofia della storia hegeliana "rovesciata", però la
filosofia di Marx possiede ugualmente un pregio: è una "filosofia della
prassi". Nelle Tesi su Feuerbach, che G. cura, il "Moro" infatti
critica il materialismo volgare. Questo concepisce metafisicamente l'oggetto
come dato e il soggetto come mero ricettore dell'essenza-oggetto. Nonostante
ciò, secondo G., Marx, attribuisce alla “prassi”, considerata come attività
sensibile umana, la funzione di far derivare a torto il pensiero medesimo.I filosofo
di Treviri infatti considera il pensiero una forma derivata dell'attività
sensitiva e non un atto che ponga l'oggetto. Gentile sostiene invece (contro
Marx e il Marxismo) come sia l'atto del pensiero,come atto puro a porre
l'oggetto, e quindi, in ultima istanza, a crearlo. G. riflette a lungo sulla
funzione pedagogica e unisce la pedagogia con la filosofia, avviando una
rifondazione in senso idealistico della prima, negandone i nessi con la
psicologia e con l'etica. L'educazione deve essere intesa come un attuarsi, uno
svolgersi dello spirito stesso che realizza così la propria autonomia.
L'insegnamento è spirito in atto, di cui non si possono fissare le fasi o
prescrivere il metodo.Il metodo è il maestro o tutore, il quale non deve
attenersi ad alcuna didattica programmata ma affrontare questo compito sulla
scorta delle proprie risorse interiori. Programmare la didattica sarebbe come
cristallizzare il fuoco creatore e diveniente dello spirito che è alla base
dell'educazione. Al maestro o tutore è richiesta una vasta cultura e
null'altro.Il metodo verrà da sé, perché il metodo risiede nella Cultura stessa
che si forma continuamente da sé nel suo processo infinito di creazione e
ri-creazione.Il dualismo scolaro-maestro (tutore/tutee) deve risolversi in
unità – il dialogo socratico -- attraverso la comune partecipazione alla vita
dello spirito che tramite la cultura muove l'educatore (tutore) verso
l'educando (tutee – G. qui usa una forma romana, ‘educando’ – cfr.
‘implicandum’ -- e lo riassorbe nell'universalità dell'atto spirituale. Il
maestro è il sacerdote, l'interprete, il ministro dell'essere divino, dello
spirito». Il maestro incarna lo spirito stesso, l'allievo (l’educando, il
tutee, lo scolareo) deve allora entrare in sintonia nell'ascolto col maestro,
proprio per partecipare anche lui dell'attuarsi dello spirito, per farsi libero
ed autonomo, e in questa relazione arriva ad auto-educarsi (auto-diddatica),
facendo del tutto propri i grandi contenuti presentati. Questi concetti
ispirano la riforma scolastica attuata da G. in veste di ministro della
Pubblica istruzione, anche se solo una parte furono applicati secondo i suoi
desideri. Altri principi della filosofia di Gentile presenti nella riforma
scolastica sono in particolare la concezione della scuola come membro
fondamentale dello stato (viene infatti istituito un esame di stato che
sancisce la fine di ogni ciclo scolastico, anche se gli studi sono effettuati
in un istituto privato) e il predominio delle discipline del gruppo
umanistico-filologico.Gentile fu ministro della pubblica istruzione e mise in
atto la sua riforma scolastica, e definita da Mussolini "la più riformante
delle riforme", in sostituzione della vecchia legge Casati. Essa era
fortemente meritocratica e censitaria; dal punto di vista strutturale Gentile
individua l'organizzazione della scuola secondo un ordinamento gerarchico e
centralistico. Una scuola di tipo piramidale, cioè pensata e dedicata ai
migliori e rigidamente suddivisa a livello secondario in un ramo
classico-umanistico per i dirigenti e in un ramo ‘professionale’ per il popolo.
I gradi più elevati erano riservati agli alunni più meritevoli, o comunque a
quelli appartenenti ai ceti più abbienti. Furono istituite borse di studio
perché gli studenti dotati di famiglia povera potessero proseguire gli studi
(cf. Grice, a “Midlands scholarship boy bound to Corpus!”). La logica e messa
in secondo piano, poiché e una materia priva di valore universale, che ha la sua importanza
solo a livello professionale. Difatti G., a differenza di Croce che sostene
l'assoluta preponderanza sociale delle materie classiche sulla scienza, pur
criticando gli eccessi del positivismo e considerando anch'egli le materie
letterarie come superiori, intrattenne anche rapporti, improntati al dialogo,
con matematici e fisici italiani (come Majorana, collaboratore di Fermi nel
gruppo dei ragazzi di via Panisperna, che divenne anche amico del figlio
Giovanni G. jr., coetaneo di Majorana) e cercò di instaurare un confronto
costruttivo con il scientism. L'obbligo scolastico fu innalzato a 14 anni ed è
istituita la scuola elementare da sei ai dieci anni. L'allievo che termina la
scuola elementare ha la possibilità di scegliere tra il ginnasio/liceo classico
e la scuola scientifica oppure un istituto tecnico.Solo il ginnasio-liceo
permette l'accesso alla faculta di filosofia nella universita di Bologna.In questo
modo però viene mantenuta una profonda divisione tra classi – l’elite, la
classe alta, la classe media, e la classe basssa (questo vincolo fu rimosso completamente).
Ciò anda incontro alla visione patriarcale del Duce. Anche G. nel complesso
mostra posizioni poco ricettive verso il femminismo (il femminismo è morto,
dirà), sebbene più sfumate, sostenendo che i licei dovessero formare i futuri
capi guerrieri. Nel triennio dell'istruzione classica viene poi introdotta, in
sostituzione, LA FILOSOFIA, adatta alla elite o classe dominanti e alla futura
classe dirigente, ma non al popolo minuto. G. è un filosofo della
secolarizzazione e della risoluzione della trascendenza in prassi in ciò
accomunato a Marx -, determinante addirittura per lo stesso comunismo italiano
attraverso la ripresa che ne fa Gramsci. Da sottolineare che già sulla rivista
L'Ordine Nuovo, Gobetti nota sche G. forma la cultura filosofica italiana. Di
tutt'altro avviso Sasso, secondo il quale a dover essere rivalutata non è
affatto la disastrosa prassi politica di Gentile, la cui «passionale» adesione
alla dottrina «fu filosofica, forse, a parole ma nelle cose no». Ciò che merita
ancora di essere studiato, sostiene Sasso, è invece «la filosofia dell'atto in
atto», e tra essa «e la dottrina non c'è, né ci può essere, alcun nesso». La filosofia
di G. e la fascistizzazione dell'attualismo e pertanto una deformazione
dell'idealismo. Al di là della sua appartenenza politica, si attribuisce
comunque a G. un notevole spessore filosofico. G. è fascista e paga con la vita
la sua fedeltà alla dottrina. Ma è anche profondo pensatore. Lo riconobbero,
nel primo dopoguerra, persino Gramsci e Togliatti. Per approfondire gli studi
sull'opera di G. e create l'istituto di studi gentiliani e la fondazione G. a
Roma. La filosofia gentiliana è stimata anche da Severino, che ravvisandovi una
condivisione del sostrato filosofico tecno-scientifico del nostro tempo la
considera uno dei tratti più decisivi della cultura mondiale. G. e certamente
un romantico, forse l'ultima più vigorosa figura del Romanticismo europeo. Gli
venne dedicato un francobollo delle poste italiane, unico tra le personalità di
primo piano del regime ad avere questa celebrazione da parte della Repubblica
Italiana. L'assassinio di G. è una carognata ingiusta e vigliacca. G. non
è fascista. Che gl’anti-fascisti sono dei acasotto perché uccisero un grande e
inerme filosofo mentre non hanno il coraggio di sminare i ponti di Firenze che
i tedeschi minano. Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone dell'ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di gran croce insignito del gran cordone
dell'ordine della Corona d'Italianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di
gran croce insignito del gran cordone dell'ordine della Corona d'Italia, Cavaliere
di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca (Germania nazista) nastrino per
uniforme ordinaria Cavaliere di II classe dell'Ordine dell'Aquila Tedesca
(Germania). “L'atto del pensare come atto puro; La riforma della dialettica hegeliana”
(Firenze, Sansoni); La filosofia della guerra; Teoria generale dello spirito
come atto puro, Firenze, Sansoni); I fondamenti della filosofia del diritto; “Sistema
di logica come teoria del conoscere; Guerra e fede (raccolta di articoli
scritti durante la guerra) Dopo la vittoria (raccolta di articoli scritti
durante la guerra) Discorsi di religione; Il modernismo e i rapporti tra
religione e filosofia; Frammenti di storia della filosofia”; “La filosofia
dell'arte”; “Introduzione alla filosofia”; “Genesi e struttura della società” “L'attualismo
Cicero e con introduzione di Severino, Bompiani, Milano Di carattere storiografico Delle commedie di Grazzini
detto il Lasca”; “Rosmini e Gioberti”; “Marx”; “Dal Genovesi al Galluppi”;
“Telesio; “Studi vichiani” “Le origini della filosofia contemporanea in
Italia”; “Il tramonto della cultura siciliana; Bruno e il pensiero del
Rinascimento; Frammenti di estetica e letteratura; La cultura piemontese; Capponi
e la cultura toscana del secolo XIX; Studi sul Rinascimento; I profeti del
Risorgimento italiano: Mazzini e Gioberti; BSpaventa; Manzoni e Leopardi;
Economia ed etica; G. un filosofo scomodo; L'insegnamento della filosofia nei
licei; Scuola e filosofia; Sommario di pedagogia come scienza filosofica” “I
problemi della scolastica e il pensiero italiano; Il problema scolastico del
dopoguerra; La riforma dell'educazione, Bari, Laterza); Educazione e scuola
laica; La nuova scuola media; La riforma della scuola in Italia; “Manifesto
degli intellettuali”; Che cos'è la cultura? Origini e dottrina”; “La mia
religione”; “Discorso agli Italiani”; “Essenza” la prima parte si trova nella
Civiltà Fascista, Torino U.T.E.T.: la prima e la seconda si trovano in
l’Essenza del Fascismo, Libreria del Littorio, Roma; un'altra opera in cui si
trova questo testo è in Origini e dottrina del fascismo, istituto nazionale
fascista di cultura, Roma; altro testo in cui si trova si intitola Lo stato
etico corporativo). La filosofia del fascismo (Origini e dottrina del fascismo;
si trova in Politica e Cultura, oppure lo si può trovare le libro intitolato
L’Identità” un altro libro in cui si trova si chiama, Italia d’oggi, edizioni
de Il libro italiano del mondo, Roma); Che cosa è il fascismo-discorsi e
polemiche (Firenze, Vallecchi). Fascismo al governo della scuola; G. Scritti
per il Corriere. Note Vi è chi
attribuisce al neoidealismo di Gentile e Croce il motivo che avrebbe posto
l'istruzione scientifica in un ruolo subordinato rispetto a quella filosofico letteraria
(L'Italia della scienza negata, in Il Sole; altri invece respingono questa
interpretazione, ricordando che durante l'egemonia gentiliana nacquero numerosi
enti scientifici (Croce e Gentile amici della scienza, in Corriere della
Sera). Cit. di Pampaloni tratta da
Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano, Rizzoli. Manifesto cit.
in Rienzo, Storia d'Italia e identità nazionale. Dalla Grande Guerra alla
Repubblica, Firenze, Le Lettere, Cfr. Vito de Luca, Un consigliere comunale di
nome Giovanni Gentile. Attività amministrativa a Roma e linguaggio politico, Nuova
Storia contemporanea, Dello stesso autore,cfr. G.. Al di là di destra e
sinistra. Il linguaggio politico del filosofo, dell'assessore e del ministro",
Chieti, Solfanelli, Scheda senatore G. Simoncelli Benedetti, L'Enciclopedia
Italiana Treccani e la sua biblioteca, Biblioteche Oggi, Milano, Testo qui Ripubblicato come Bruno e il pensiero del
Rinascimento, ed. Le Lettere, collana La nuova meridiana. S. saggi cult.
cont. Bruno. LE VICENDE DELLA
STATUA Vecchi, Treccani Paolo
Simoncelli. La scelta di campo, Marco
Bertoncini, Giovanni Gentile, la razza e le bufale, l'Opinione, Mieli, G.
critica in pubblico l'antisemitismo del regime. Uno sforzo vano Simoncelli Simoncelli Perfetti, ASSASSINIO
D’UN FILOSOFO; G., di Turi; G. Il
Contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia”Treccani Francesco Perfetti, Assassinio di un filosofo
Perfetti, Assassinio di un filosofo Perfetti, Assassinio di un filosofo, Canfora,
La sentenza. Marchesi e G., Palermo,
Sellerio, Perfetti, Assassinio di un filosofo.
Vettori, G., Editrice Italiana, Roma, Fiori, dirigere la casa editrice
Sansoni esecondo la testimonianza dell'ex interermania.html Io, italiano
prigioniero in Germania, in La Repubblica, Carioti, Quando G. s'inchina a
Hitler per salvare il figlio, Corriere della Sera, Renzo Baschera, "Chiese
la grazia per molti partigiani ma non riuscì a salvarsi, Historia", Uboldi,
Vigliacchi perché li uccidete?, Storia Illustrata; Arnoldo Mondadori Editore,
Milano. G., sdegnato, minaccia di denunciarlo a Mussolini" Chianesi, Benvenuti non volle mai raccontare
i precisi particolari, dal suo punto di vista. Questa è una cosa che non dirò
mai. Perché potrei fare rovesciare tutte le cose. Perché non è come è stato
detto. Come è andata l’azione dei Gap io non lo voglio dire. Me l’hanno chiesto
in tanti ma non l’ho rivelato mai a nessuno». Vedi un intervento della
Benvenuti anche in Carratù. Paoletti, "IL DELITTO G.: esecutori e
mandanti, Ed. Le Lettere, L'omicidio raccontato da Martini "Paolo"
uno dei due esecutori materiali. Sicuramente (Fanciullacci l'altro esecutore)
gli chiede se è il professore e subito dopo gli sparammo insieme dalla stessa
parte, non attraverso i due finestrini posteriori. Resistenza: Angela, la
ragazza col fiore rosso Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. dove morire,
in Corriere della Sera, Per fare in modo che i gappisti incaricati dell'agguato
potessero riconoscerlo, alcuni giorni prima li accompagnai presso l'Accademia
d'Italia della Rsi, che lui dirigeva. Mentre usciva lo indicai ai partigiani,
poi lui mi scorse e mi salutò. Provai un terribile imbarazzo. Mattei) Canfora, "Giovanni Gentile nella
RSI" in La Repubblica Sociale Italiana Poggio, Annali della Fondazione
Micheletti, Brescia, Antonio Carioti, Sanguinetti venne a dirmi che G. doveva
morire, sul Corriere della Sera,: "L'omicidio di Gentile, anziano e
inerme, suscitò una forte impressione e fu disapprovato dal CLN toscano, con l'astensione
dei comunisti. Tristano Codignola, esponente del Partito d'Azione, scrisse un
articolo per dissociarsi." Maria
Cristina Carratù, E dopo 70 anni nuovi scenari dietro l'esecuzione di Giovanni
Gentile, La Repubblica, 24 aprile Renzo
Baschera, "Chiese la grazia per molti partigiani ma non riuscì a
salvarsi", articolo su "Historia", Ecco le carte che assolvono
l'archeologo Romano. Turi, G. Così Gaetano
G. ricorda il suo intervento presso la prefettura. Quella sera stessa, per
desiderio di mia madre, io mi recai dal capo della Provincia e gli parlai della
voce di rappresaglie diffusasi in città, esprimendogli la ferma e calda
preghiera di mia Madre che quel proposito, se effettivamente esisteva, venisse
abbandonato e anzi gli arrestati rilasciati. Dissi anche, naturalmente, come a
me sembrasse in fondo superfluo dover esprimere tale preghiera proprio in
quella stanza in cui ancora quella mattina la voce di mio Padre si era levata a
deplorare la tragica inutilità di un metodo, dal quale non poteva seguire che
il ripetersi indefinito di una crudele successione di attentati e rappresaglie.
È ovvio poi che, indipendentemente dalla eventuale giustificazione politica o
militare di atti simili, nulla del genere poteva aver luogo in occasione della
morte di mio Padre, alla quale si doveva da parte del Governo e delle autorità
fiorentine questo gesto di rispetto delle sue convinzioni e del suo costante
atteggiamento. Firenze: due consiglieri,
via tomba Giovanni Gentile da Santa Croce, su libero quotidiano. Attualismo»,
Enciclopedia Treccani Fusaro, G.
Sull'importanza della riforma della dialettica idealista di matrice
hegeliana in G., si veda quest'intervista a Sasso. L'intervista è compresa
nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienza Filosofiche. Minozzi, Saggio di
una teoria dell'essere come presenza pura, Il Mulino, G. quindi contestava a
Fichte la trascendenza dell'io assoluto rispetto al non-io, e di restare così
in un dualismo,che non viene mai superato dall'attualità del pensiero, ma solo
da un agire pratico dilatato all'infinito (cattivo infinito), fermo alla
contrapposizione fra teoria e prassi, per la quale Fichte «s'irretisce in un
idealismo soggettivo in cui invano l'Io si sforza di uscire da sé» (Discorsi di
religione, Firenze, Sansoni). G., Mussolini, LA DOTTRINA DEL FASCISMO. Abbagnano,
Ricordi di un filosofo, Staglieno, Nella Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, Luca,
G. e il liberalismo, Mussolini, Volpe, G., Fascismo, Enciclopedia
Italiana. Noce, L'idea del Risorgimento come categoria filosofica in G.,
Giornale critico della filosofia italiana, Belardelli, Il fascismo e
Mazzini G., Manifesto degl’intellettuali fascisti G., "Ricostruire" in Corriere della
Sera, Cfr. Libertà e liberalismo (Conferenza tenuta a Bologna"), in
Scritti Politici, tratti da Politica e Cultura H.A. Cavallera, Firenze, Le
Lettere, Il pensiero pedagogico di G. La riforma Gentile, su pbmstoria. Si
veda anche ne Il fascismo al governo della scuola, in Annali, Milano, Istituto
Giangiacomo Feltrinelli, [Boffi:] Qual è
il criterio su cui si è fondata Vostra Eccellenza nella limitazione delle
iscrizioni? G.: Questa limitazione non c'è nella scuola complementare come non
ci sarà nella scuola d'arte e nelle scuole professionali; essa è propria delle
scuole di cultura e risponde alla necessità di mantenere alto il livello di
dette scuole chiudendole ai deboli e agli incapaci; dipende anche dalla
riduzione del numero degli scolari nelle singole classi fatta per evidenti
ragioni didattiche, quelle stesse che hanno consigliato l'abolizione delle
classi aggiunte; ma soprattutto dalla necessità di consigliare agli italiani un
diverso indirizzo nella loro attività. Noi abbiamo troppi ed inutili,
quando non son valenti, professionisti, ed abbiamo invece molto bisogno di industriali,
di commercianti, di artieri, di minuti professionisti, che portino nella
esplicazione delle loro arti e dei loro mestieri quello spirito fine della
Nazione che finora li ha spinti a disertare le scuole industriali, commerciali
e professionali per seguire la scuola umanistica.» (R.Sandron, Il
fascismo al governo della scuola, iscorsi e interviste, Boffi, Spadafora, G.:
la pedagogia, la scuola: atti del Convegno di pedagogia e altri studi, Armando,
Galavotti, La filosofia italiana e il neo-idealismo di Croce e G.,
Homolaicus. Il mistero di Majorana
Guglielman, Dalla scuola per signorine alla scuola delle padrone: il Liceo
femminile della riforma G. e i suoi precedenti storici, in Da un secolo
all'altro. Contributi per una "storia dell'insegnamento della storia
(Guspini), Roma, Anicia, Una parte del lavoro è stata in precedenza pubblicata,
con alcune varianti, sulla rivista Scuola e Città con il titolo Il liceo
femminile Manacorda D'Amico, Romagnoli, Donne, la Resistenza taciuta.
L'esclusione delle donne nella società fascista
G., La donna nella coscienza moderna, in La donna e il fanciullo. Due
conferenze, Firenze, Sansoni, De Grazia, Le donne nel regime fascista, Ricuperati, La scuola italiana e il fascismo,
Bologna, Consorzio Provinciale Pubblica Lettura, Grazia, Le donne nel regime G.,
La riforma della scuola in Italia, Milano citata in: Manacorda Le omissioni,
qui tra parentesi tonde, sono nel testo di Manacorda. Noce, Gentile. Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, Giovanni Bedeschi, Il ritorno del maestro, sta
in Il Sole 24 ore Domenica, Sasso, Le due Italie di G., Bologna, il Mulino, Beckstein,
G. und die 'Faschistisierung' des Aktualismus. Zur Deformation einer
idealistischen Philosophie, Acta Universitatis Reginaehradecensis, Humanistica,
Filosofia: A Firenze Convegno STUDI GENTILIANI Fondazione Gentile Dipartimento
di Filosofia Roma Liberiamo la filosofia di G. dalla faziosità Severino: Ecco
perché la giovane Italia sta andando in malora, da Il Fatto Quotidiano È G. il profeta del la civiltà tecnica. «I nemici di G.», puntata de Il tempo e la
storia, documentario Rai Severino, dalla
quarta di copertina de L'attualismo, Milano, Giunti, Abbagnano, Ricordi di un filosofo, Nella
Napoli nobilissima, Milano, Rizzoli, "La partigiana Fallaci fa a pezzi
l'antifascismo", pubblicato da Il Giornale. Monografie principali
Carlini, Studi gentiliani, G., la vita e
il pensiero a cura della Fondazione G. per gli Studi filosofici, Firenze,
Sansoni, Aldo Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Bari, Laterza, Sergio Romano,
Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano, Bompiani, Canfora, La
sentenza. Marchesi e G., Palermo, Sellerio, Noce, G.. Per una interpretazione
transpolitica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino, Cavallera,
Immagine e costruzione del reale nel pensiero di G., Roma, Fondazione Spirito, Sasso,
Filosofia e idealismo. G., Napoli, Bibliopolis, Hervé A. Cavallera, Riflessione
e azione formativa: l'attualismo di G., Roma, Fondazione Spirito, Brianese,
Invito al pensiero di G., Milano, Mursia, Sasso, Le due Italie di G., Bologna,
il Mulino, Sasso, La potenza e l'atto. Due saggi su G., Firenze, La Nuova
Italia, Hervé a. Cavallera, G.. L’essere e il divenire, SEAM, Roma, Paolo
Mieli, Una rilettura liberale di Giovanni Gentile, da "Le storie, la
storia", Milano, Rizzoli, Daniela
Coli, Giovanni Gentile, il Mulino, Sergio Romano, Giovanni Gentile, un filosofo
al potere negli anni del regime, Milano, Rizzoli, Francesco Perfetti,
Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze, Le
Lettere, Turi, G.. Una biografia, Torino, POMBA, Cavallera, Ethos, Eros e
Tanathos in G., Pensa Multimedia, Lecce, Hervé A. Cavallera, L’IMMAGINE DEL
FASCISMO in G., Pensa MultiMedia, Lecce, Marcello Mustè, La filosofia
dell'idealismo italiano, Roma, Carocci, Alessandra Tarquini, Il Gentile dei
fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna, il Mulino,
Spanio, G., Roma, Carocci,. Paolo Bettineschi, Critica della prassi assoluta.
Analisi dell'idealismo gentiliano, Napoli, Orthotes,. Paolo Simoncelli, Non
credo neanch'io alla razza. G. e i colleghi ebrei, Firenze, Le Lettere,.
Luciano Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di G., Milano,
Adelphi, A. James Gregor, G.: IL
FILOSOFO DEL FASCISMO, Pensa, Lecce, Pescosolido, Ancora sulla morte di G.. A
proposito di un volume, in Nuova Rivista Storica, Vigna, Studi gentiliani, Orthotes, Napoli-Salerno. Valentina Gaspardo,
G. e la sfida liberale, AM Edizioni, Vigonza (PD). Altri studi Alunni, G. ou l'interminable traduction d'une
politique de la pensée, Paris, Lignes, Michel Surya, Les Extrême-droites en France
et en Europe Alunni, Ansichten auf Italien oder der umstrittene Historismus, in
Streuung und Bindung über Orte und Sprachen der Philosophie, Wolfenbüttel,
Herzog August Bibliothek, Alunni, Heidegger, la piste italienne, Paris, in
Libération, (en collaboration avec Catherine Paoletti pour l'interview de
Ernesto Grassi), Alunni, G. Heidegger. Note sur un point de (non) ‘traduction’,
Paris, Cahier du Collège de Philosophie, Éd. Osiris Charles Alunni,
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Gentile, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. G. su accademici della crusca. org, Accademia della Crusca. H
Questa soluzione della trascendenza è cara, s'intende, ai :filosofi che
per la loro indole amano starsene alla fine stra a godere dello spettacolo che
essi contemplano, ma di cui non hanno la responsabilità (né merito, né
demerito). Nella strada la gente ignara soffre, combatte, muore; alla .lìnestra
il filosofo (che come tale deve essere puro pensiero) imperturbato, spiega, si
rende conto e si frega le mani. L’ideale di LUCREZIO, che è alla base della
eterna leggenda del filosofo che si libera delle passioni e rinunzia all'azione
per chiudersi nel pensiero: Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e
terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari qucmquam'st iucunda
voluptas sed quibus ipse malis careas quia cernere suave'st: suavc ctiam belli
certamiua magna tueri per campos instrncta tua sine parte perieli: sed nil
dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapienlum tempia serena,
despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere
vita.e, certarc ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti
praestante labore ad summas emergere opes rerumqne potiri. O miseras hominum
mentes, o pectora caeca. L'etica come legge. Disciplina. Positivismo ed
empirismo. Legge. Prammatismo. Prassi e teoria. Oggetto del volere. Volontà-
autoctisi. Praticità del conoscere. Unità cli teorico e pratico. L·atto. L'individuo.
Senso realistico e senso idealistico della individualità. Individuo e società.
Comunità immanente ali' individuo come sua legge. La comunità ideale e la
gloria. Vox populi. La concretezza
dell'individuo. La conquista dei valori. li processo d<>IJa
individualità. La particolarità dell'individuo nello spazio e nel tempo. Il carattere.Velleità,
volere, carattere. Il carattere attraverso la condotta empirica. Critica del
concetto della molteplicità degli atti o l'unità del volere. Presente ed
estemporaneo nel carattere. Trascendentalità del carattere.Il coraggio civile.
- i> La socialità origmaria.Società trascendentale o società in interiore
homine. Alte" e socius. Dalla cosa al socio. Il dialogo intemo, o
trascendentale. Il momento dell'alterità. La dialettica pratica. La crisi
dell'Universo. sare più al clovere che ai doveri Il bene e il male. La categoria etica e
l'esperienza. Dialettica dell'Io. li
nulla. -Unicità della categoria logica. La legge dell'uomo: Pett. sa/ Intendere
e amare. Intendere pratico. La categoria etica. Il senso morale e la sua
inattualità. Dovere e doveri. Errore di metodo nell'etica. Necessità cli pen
--Lo Stato. Concetto dello Stato. Nazione e Stato. Diritto. Governo e
governati. Autorità e libertà. Il liberalismo. Etica e politica. Stato etico.
Moralismo, Stato ed econoraia . Economicità dell'uomo e quincù dello Stato.
Umanità dell'operare economico. Operare utilitario o utile? Umano e subumano.
Il corpo e l'anima. Naturalità dell'utile. Le scienze della logica
dell'astratto. Lo schema del naturalismo nella logica dell'astratto. La forma
mate matica dell'economia. - ro. [L'utilitarismo. -L'edonismo. Moralità ed
eudemonia.Natura e Spirito. Economia e politica. Stato e religione. Rapporto
essenziale tra i due termiai. Laicità. Rel-igio 1nstntme111u,n regni. Immanenza
della religione nello Stato. Stato e scienza. Scienza e filosofia; e rapporto
di questa con lo Stato. Necessità cli questo rapporlo. Cultura. Scienze
naturali. L'obbligo di critica della filosofia. Immanenza della filosofia nella
politica dello Stato. Lo Stato e gli Stati. Libertà e infinità dello
Stato. P!ui:alità degli Stati, unità
dello Stato. Critica del punto di vista intellettualistico. Concreto punto di
vista pratico. Il riconoscimento degli
altri Stati e il Diritto internazionale, La guerra. La pace e la collaborazione
umana. -fil Impero e ordine nuovo. LaStoria. La Storia come storia dello Stato.
Storia dell'uomo. Statolatria. Autocritica dello Stato. Rivoluzione. L'Unico. Umansimo
del lavoro. Famiglia. Categorie di lavoratori e rappresentanza politica. La Politica.
Definizione della politica. Etica e politica. Im possioilità cli un'etica
apolitica. Il privato e il pubblico. La teoria dei limiti dello stato. Stato autoritario
e democrazia. L'anarchismo e il Jiberalis1:no. Bellum omnium contra omnes.
Guerra e pace.Ordine. Senti mento politico. Genio politico. La politica del
fanciullo. La politica in ogni forma di attività umana. Politica dell'arte.
Politica della scienza. Politica della lede. Chiesa e proselitismo. La dottrina
della tolleranza. -La politica diritto e dovere. La Società trascendentale, la
morte e l' im mortalità. 11 motivo della fede nell’immortalità. Immortalità e
religione. L'equivoco. Illusioni. Fuga tn01-t1s. - 6. La difficoltà del
problema e la soluzione. La morte. L'immanenza dell'azione. NUOVI INDIZI DI HEGELLOSIGKEIT
ITALIANA Bollami dell' Università di Leida in un suo interessante
opuscolo, qualche anno fa mettev a in, mostra una lunga fdza di evidenti
spropositi commessi da filosofi contemporanei di ogni risma nel parlare di
Hegel. E dopo avere rilevato con 1’Herbart, con l’Alexander, con
Barth. con Taggart, che Hegel non concepì mai la follìa 4 Lde- durre
dal pensiero auro ciò che non è puro pensier o (realtà naturale e realtà
storica), ma volle solo sistemare logicamente, — comunque poi si giudichi
questa sistemazion e e la sua possibilità. — la cognizione
necessariamente empirica della natura e della storia, soggiunge. Intanto
anche Paulsen in vólliger Hcgellosigkeit afferma (nel suo Kant) che Hegel
deduce a priori la stessa natura ».Di questa Hegellosigkeit, che non
saprei davvero come tradurre in italiano, di questo stato d' hegeliana
innocenza, cosi caro tuttavia agli studiosi di filosofia italiani, fu
dato recentemente dal Croce 2 qualche cenno' significativo dove si
mostrò con quanta competenza sia stato spesso giudicato in Italia 1 Hegel da
quelli che volevano passare per 1 Alte I ernunft unii netto I’erstami,
Leiden. Critica. Saggi critici. suoi avversari. Una prova recentissima ne
ha avuta però lo scrivente per aver curata una nuova ristampa degli
Lh- menti di filosofia 1 di Fiorentino secondo la primitiva edizione,
dall’autore più tardi parzialmente rifatta e radicalmente mutata nell’
indirizzo dottrinale. Alcuni (tra i quali uomini dotti nella storia della
filosofia) han rimproverato il nuovo editore di aver voluto dare un
Fiorentino hegeliano, laddove il Fiorentino dagli studi degli ultimi anni
della sua vita era stato costretto ad abbandonare le dottrine di Hegel per
accostarsi al neo-kantismo. E un insegnante di liceo, a chi proponeva il saggio
per testo scolastico, oppone senz'altro ch’egli non poteva adottare un libro
prettamente hegeliano!. Molto probabilmente l’unico fondamento di
quest’asserzione, che io denuncio soltanto per richiamare ancora una
volta l’attenzione sulla comune Hegellosigkeit, è in ciò, che questo
libro è stato ristampato per cura mia, e da me consigliato ai colleghi
dei nostri licei. Ma, tralasciando i motivi che mi hanno indotto ad additare il
manuale di Fiorentino, nella sua forma originaria, come l’unico, fra
quanti ne abbiamo in Italia, degna, ancoraci es ser m esso nelle mani dei
giov ani e tolto a base d’un p j nmp~ìnsegnamento filosofico (motivi che
credo di avere sufficientemente accennati nella mia prefazione alla
detta ristampa), qui voglio solo annunziare, col debito permesso
dei colleglli accusatori, che il libro di Fiorentino nella prima edizione non è
punto hegeliano; e che la differenza tra la prima e la seconda edizione
non è divario tra hegelismo e kantismo, ma tra kantismo ed empirismo
spenceriano. Poiché ne avevo l’occasione, a me parve opportuno togliere di
mano ai giovani, che cominciano a riflettere su cose filosofiche, un
libro, raccomandato al nome di
Fiorentino, per tanti titoli benemerito della cultura filosofica italiana, nel
quale s’insegnava a riflettere su verità di questo genere. Kant intende per
a priori soltanto ciò che non‘è derivato dalla sperienza, ma che
invece è condizione indispensabile, perchè la sperienza 1 Torino,
Paravia, Psicologia e Logica sia possibile. Egli non investiga, se questo
a priori abbia potuto originarsi da una associazione di esperienze
anteriori accumulate, trasmessa poi per eredità; nè poteva ai suoi tempi,
e prima del Darwin, porre il problema in questi nuovi termini. L ’q trio
ri kantiano è una funzione dell o spinto, non già un dato : e questo
ritenghiamo anche noi : ma ciò non toglie, che pure di questa funzione si
possa cercare di spiegare la genesi», un libro, in cui si dichiara che
l’d priori kantiano è una semplice fermata al concetto dell’ attività
preformata a compiere certe funzioni, senza di cui la sperienza non
si farebbe; e che « la filosofia moderna.... domanda: come si è
preformata ? E cerca di trovar la risposta in due fattori: l’associazionè
e l’eredità; la prima che accumula, la seconda che trasmette. Per loro
mezzo, l’a priori dell’individuo sarebbe ciò ch’è posteriori per la
specie. E altrove : Se il fine etico, che è la vita comune, è
stato il risultato di una lunga lotta per l’esistenza, è pur sempre vero
che cotesto primo acquisto viene oggi trasmesso come eredità, che
gl’individui trovano, e non debbono più riacquistare). Proposizioni che si
equivalgono nei due campi della conoscenza e della pratica, e di cui lo
stesso Fiorentino. ci dice la fonte, dove avverte che nella filosofia di
Spencer ogni a priori è sbandito, e tutto è spiegato con l’adattamento, o
con la trasmissione ereditaria ». E tutta la seconda edizione è ispirata a
questo principio della negazione di ogni assoluto a priori: onde si
costruisce nèi primi capitoli una teoria psicologica della conoscenza che
non occorre qui valutare. Quello che non ha bisogno certamente
d’ulteriore schiarimento, è che tale negazione dell'a priori e tale
confusione del problema psicologico con lo gnoseologico, non può a niun patto
accettarsi come integrazione del kantismo. C’era un Fiorentino, che pur
poteva presentarsi agl’italiani, e che io ho rimesso in luce; un Fiorentino che
non s’era lasciato sfuggire il vero punto di questa questione
fondamentale dell'a priori, che è pòi il problema di vita o di morte per
Io spirito, e quindi della scienza e della moralità Nella prima edizione
lo stesso Fiorentino aveva detto Vuoisi avvertire, che l’o priori non si
deve intendere come qualche cosa di preesistente, di preformato.... ma
come una funzione essenziale dello spirito. Aveva discusso, opponendole l’una
all altra, le dottrine di Kant e di Spencer intorno all’apriorità o
aposteriorità della coscienza, e aveva dimostrato che non se ne può dare
nessuna derivazione empirica perchè « la coscienza è un rapporto tale, di
cui nel mondo esterno non si trova il corrispondente; ed è un rapporto
semplice, che non si può dedurre dalla risultante delle nostre
rappresentazioni. L’Io, la coscienza è originaria. 11 fondamento
dell'esperienza non può essere attinto mediante l’esperienza. E questo
fondamento è nella coscienza e nelle sue categorie. Se tutto derivasse
davvero da dati sperimentali, nè l’idea di sostanza, nè quella di causa,
quali noi le concepiamo, sarebbero ammissibili. Questo mi pare puro e
schietto kantismo; e se. il concetto d’una possibile integrazione di Kant per
via delle ricerche psicogenetiche è uno sproposito, che oggi non ha
più bisogno d'essere dimostrato tale, mi pare anche evidente che ricondurre il
manuale di Fiorentino a’ suoi principii fosse dovere imprescindibile d’
ogni nuovo editore, hegeliano o non hegeliano. Perchè, dato e. non concesso che
empiristi si possa essere per proprio conto, certo per nessuno è più
sostenibile una svista di questo genere per cui, appunto a proposito dell
interpretazione di Kant, una questione gnoseologica si scambia con
una questione psicogenetica. Hegel, dunque, non c’è entrato proprio
per nulla, be ci fosse stata di Fiorentino un’edizione hegeliana
anteriore alla kantiana, chi sa!, avrei preferito il Fiorentino hegeliano
al kantiano. Ma gabellare per hegeliano quello che ho dovuto e potuto
scegliere, francamente, mi pare indizio di Hegellosigkeit ! Pur troppo,
anche nella prima redazione del suo manuale Fiorentino rende
omaggio al fantasma della materia opposta all’attività formale
dello spirito; e nell’etica, invece di correggere il timido formalismo
kantiano col formalismo assoluto, crede di compierlo con l’eudemonismo
aristotelico. Non importa: sempre meglio, infinitamente meglio Kant, anche se
non perfezionato, che Spencer! Si sente, per esser sinceri, negl’Elementi
di Fiorentino un’eco lontana dei Principii di filosofia di Spaventa. Ma non più
che un'eco, nel paragrafo sull’auto-coscienza. Ma, se Hegel s'avesse a
rannicchiare in quell'autoctisi della coscienza accordata con
tutto il formalismo astratto accettato e difeso dal Fiorentino, io
ritengo che potrebbero andare a braccetto con lui tutti i kantiani più
scrupolosi del mondo. Genovesi comincia a pubblicare in Napoli i suoi
Elemento, metaphysicae. Vico ha due profonde intuizioni fondamentali: una
intorno alla potenza costruttiva dello spirito, per cui anticipò il
principio di soggettivismo kantiano; P altra intorno al concetto
dell’assoluto come sviluppo nella natura e nel pensiero, per cui
anticipò il principio della nuova metafisica dimostrata dalla Logica di Hegel.
Ne’ 6tioi Elementi di metafisica Genovesi invece si mostra seguace di un
incoerente sincretismo, in cui la monadologia leibniziana s’accoppia
con l’empirismo di Locke. Così la tradizione del grande pensiero di
Vico è spenta sul nascere, e finita con 1’uomo che nella solitaria
meditazione del diritto, anzi di tutto lo spirito come vive nella storia,
aveva attinto una forza speculativa che lo pose al di sopra e fuori
del tempo suo, episodio solenne nella storia del pensiero italiano. Gl’
interpetri del pensiero di Vico non furono nè i suoi coetanei, nè i suoi
immediati successori nella filosofia italiana in genere e napoletana in
ispecie. La vera interpetrazione cominciò in Germania con Jacobi,
1 dopo Kant, e fu compiuta in Italia in quel fervore di pensiero
nuovo, che venne suscitato dall’ hegelismo, da Spaventa. Tra Vico e
Spaventa c’è un’ interruzione nello
sviluppo dell’idealismo iniziato dalle opere di Vico; nella quale il
pensiero napoletano si appropria ed elabora per conto suo la moderna
filosofia europea. Questo movimento può essere designato dai nomi
dei due pensatori che aprono e chiudono tale periodo, Da Genovesi a Galluppi. E
così appunto s’intitola la monografia, nella quale ho cercatq
d’illustrare tutti gli studi speculativi più notevoli di cotesto periodo.
Può recar meraviglia, che la ricerca sia così limitata dentro i brevi
confini di spazio accennati dai nomi stessi di Genovesi e di Galluppi, e
corrispondenti ai confini del reame di Napoli, ila chi ponga mente alle
condizioni d Italia per tutto il tempo del dominio borbonico, alle
piofonde differenze civili e politiche e letterarie, in una paiola,
storiche, tra la parte meridionale e il resto della penisola, troverà
ovvia e storicamente esatta la linea da me tracciata intorno ai pensatori
che ho studiati e Vedi lo scritto Voti den gòtlUchen Lìingen unii ihrer
Offenbarung, in Werke, Leipzig. Sul kantismo vicinano cfr. specialmente
Tocco, Descartes jugé par Vico in Reme de métaphysigue et de morale, e gli
scritti da me citati nel Discorso premesso agli Scritti filosofici di B.
Si’avknta Na- poli, Vedi tfli Scritti Studi di letteratura, storia,
filosofia, pubbi. da B. Crock, voi. I (Napoli, Edizione della Critica). considerati
come formanti una speciale serie storica a sé. Pel carattere
generale della loro filosofia questi pensatori costituiscono una
continuata corrente di empirismo, a cominciare dal Genovesi stesso, in cui
ben presto il principio critico dominante nell’ empirismo lockiano
corrode ogni concetto metafisico, fino ad COLECCHI, filosofo abruzzese
pochissimo noto benché i suoi scritti consacrati all’interpretazione
di Kant, quelli specialmente relativi alla filosofia pratica,
possano ancora esser letti con profitto
il quale, pur combattendo la filosofia dell’esperienza di
Galluppi dal punto ili vista del kantismo, insiste tuttavia su
talune correzioni eh’ ei vorrebbe apportare alla Critica Mia ragion pura
in un senso decisamente empirico-oggettivo. Ma tutti quosti empiristi si
potrebbero dividere in due generazioni: 1 una di ideologi e l’altra di
criiicisti; e tra mezzo a queste un gruppo di seguaci della
filosofia scozzese e di eclettici. Tra gl’ideologi scrittori come DELFICO,
BORRELLI e BOZZELLI meritano certamente di esser posti accanto agl’
ideologi contemporanei francesi, ai Cabanis, ai Destutt de Tracy, coi
quali essi formano quasi una sola famiglia, rispecchiandone spesso il pensiero
pur senza ripeterlo. Anzi Borrelh e Bozzelli stanno, 1’uno per la sua
genealogia del pensiero (com’ei chiama la sua filosofia dello spirito)
e per la sua critica di Kant, e 1’altro pel suo tentativo di morale
intellettualistico-utilitaria, al di sopra dei francesi; di 8 ‘ ba,la a
" a dala di P“*»bUM*lone delle opere di quest! filosofi e al
tempo (leir influenza da essi esercitata; giacché per a nascita due degli
ideologi furono più giovani dei criiicisti. il cui valore nondimeno fu
giustamente rivendicato nella storia della filosofia dall’ ottima
monografia del professore F. Picavet su Les idéologues. Una pari
rivendicazione in prò dei confratelli italiani vuol essere in parte il
mio lavoro, mediante una larga notizia e uno schiarimento delle loro
dottrine. Onde ci son rimasti documenti notevolissimi in libri ed
opuscoli estremamente rari, nelle riviste del tempo e in manoscritti
ancora inediti. In mezzo alle due generazioni alcuni pensatori levano la
voce contro le tendenze materialistiche, palesi o nascoste, proprie
del pensiero speculativo di questi ideologi, traendo autorità e argomenti
dalla filosofia del senso comune del Reid o dall’ eclettico spiritualismo
di Cousin e della sua scuola. Non hanno nessuna originalità di dottrine :
ma con le loro esposizioni e coi loro commenti di molti libri francesi,
eco, per quanto fioea, di celebri filosofie europee, valgono a suscitare
o promuovere un moto di studi e di partecipazione al lavoro filosofico
straniero, onde a poco a poco si ringagliardisce la fibra del pensiero
napoletano, e si prepara una scuola di veramente alto e libero
filosofare: da cui uscirà l’estetica di Sanctis e la metafisica e la
storia della filosofia di BSpaventa. In questa parte la mia monografia
studia scrittori filosofi mediocri, testimoni di cotesta preparazione al
risveglio filosofico posteriore. Nella seconda generazione campeggiano due
figure principali: Galluppi e
Colecchi: due kantiani, di cui si può dire che la vita speculativa
si consumi tutta nella meditazione del criticismo. Ed entrambi
riescono per due vie opposte al medesimo risultato, che è di
accettarlo sostanzialmente e di farne penetrare profondamente lo spirito nella
filosofia del loro paese. Galluppi À combatte sempre, o quasi
sempre, un Kant immaginario con le armi del Kant reale ; e Colecchi
combatte con le armi stesse un immaginario Galluppi, o almeno un
Galluppi che non è il vero, poiché non vede di lui che la dichiarata
opposizione al kantismo, e non scorge mai il valore intrinseco delle
dottrine da lui professate. Dalla curiosa situazione di questi due
pensatori, che genera altre false posizioni nella filosofia italiana
successiva, nascono, com’è agevole pensare, due conseguenze: che la
scuola dei galluppiani continuerà a combattere Kant e tutta la filosofia
tedesca posteriore, sempre meglio conosciuta in grazia dell’influsso
francese già accennato; che la scuola di Colecchi e dei tedescheggianti
continua per un pezzo a disconoscere il vero valore del pensiero del
Galluppi e di quella filosofia italiana, che da lui prende le mosse :
ossia della rosminiana e giobertiana. Se da queste ricerche si sottrae la
parte che concerne Genovesi e Galluppi, si può dire che esse scoprano una
regione presso che sconosciuta nel campo della filosofia moderna. E
poiché anche del Genovesi e del Galluppi questo studio analitico della
serie in cui essi rientrano, pono sotto una luce in parte nuova e
in parte più chiara il significato e il valore, può pure affermarsi, che
l’insieme di queste ricerche colmi una lacuna nella storia della
filosofia italiana, anzi della europea. Vico, infatti, e
l’interpetrazione di Vico, i due termini al cui intervallo coleste
ricerche si riferiscono, non sono due capitoli della storia della
filosofia italiana, ma due capitoli della storia della filosofia europea:
ed è difetto gravissimo quello che può notarsi in proposito in
tutte le recenti storie straniere della filosofia moderna. Genovesi, Delfico, Borrelli, Bozzelli, Galluppi e
Colecchi sono nomi ai quali, una volta conosciuti gli scritti a cui sono
legati, devesi pur rovare un posto, e non degl’ infimi, nel quadro
degli u imi tentativi dell’empirismo naturalistico e materialistico e
delle feconde discussioni suscitate dalle Critiche di Kant in ogni paese
civile. Il trionfo dell’Idea in Italia: Tari e Zio. Spaventa è stato
nominato professore di filosofìa a Napoli; e la sua nomina — scrive a lui
stesso Meis, da Napoli è stata accolta in questa città con una
commovente impazienza dal pubblico. Ma Spaventa chiede ed ottenne di
tornare e restare qualche tempo a BOLOGNA, dove è passato, da Modena, a
insegnare Storia della filosofìa, per farvi almeno il primo corso
semestrale e non mancare al suo dovere verso BOLOGNA. A Napoli, dopo una
rapida corsa, non anda se non negli ultimi mesi dell’anno appresso.
È a Torino, perchè eletto deputato d’Atessa (ma la sua elezione è
annullata per eccedenza del numero legale di deputati professori, quando gli pervenne la seguente [Già
pubblicato nella Critica; ma qui ristampato con molte aggiunte. Vedi
per questi particolari il mio Spaventa, Firenze, Vailecchi] lettera di Zio, che
è un curioso documento delle disposizioni degli animi verso 1’hegelismo
nella gioventù colta di Napoli, da cui lo Spaventa era
atteso: Napoli, Amico carissimo, Mi prendo licenza di
togliervi con questa mia una piccola parte del tempo che cosi
lodevolmente sacrate alla scienza. E per due ragioni. Per
procurarmi il bene di aver vostre novello, e per dirvi poi alcunché sul
trionfo dell’Idea, alla qualo abbiamo data la nostra fede.
Sono pervenute qui in Napoli parecchie copie del nuovo libro di
Vera (V Hégélianisme et la Fhilosophie). T. lavoro scritto con molta
spiritosità, e che non solo porrà a dovere 1’intelletto superficialissimo
degli ecclettici francesi, ma farà pure il suo buon effetto in mezzo al
dilettantismo filosofico de’ nostri dominatici. Si comincia a sentire
come il Pensiero sia P infinita misura e forza, che, battuto ogni
positivismo storico e morale, eleverà ad armonia vivente Essere e Spirito,
Natura ed Umanità. Son persuaso p. es. che Pesame, che tanto ride
dell’Jissere-per-si e della Fila
ridotta a Pensiero da Meis, cesserà di sparlarne così frequeutemeute,
dopo che avrà contemplato il gaio spettacolo che ha dato di sé Jauet. Come
Hegel disse che ai tempi della Rivoluzione francese una nuova vita, un
nuovo sole sorgevano per risplendere in mezzo agl’uomini, noi possiamo dire
che oggi il suo proprio principio filosofico, l’Assoluto Spirito, è la
forza che dove consapevolmente invadere ogni cosa, e chiarificare le creature
tutte quante di un raggio della idealità infinita. Affrettatevi, amico, a
partecipare alla gran vittoria. Felice voi, che siete sì bene
apparecchiato a questa lotta, che chiude nel proprio grembo 1’
adempimento della libertà assoluta dell’ Uomo, e quel regno di giustizia
e di amore, a cui tutte cose corrono come al bacio dell’ Universo, giusta
il bel dotto di Schiller: Diesen Kur der ganzen IVelt ! Il
punto però che nel libro del Vera avrei desiderato più estesamente
sviluppato, è quello della pluralità dei mondi. I,a dottrina di Hegel su
questa materia non può essere difesa che movendo dal principio dell’
Unità della Coscienza di si dello Spirito, unità che, nel presupposto
della pluralità de’ mondi, avrebbe fuori di sè i circoli della vita
siderea oltretellurici ; e cesserebbe d’ essere in conseguenza la pieua
ed una Coscienza di sè. A questa è necessario che tutto 1’essere
sia suo sapere. La dottrina poi dello Spirito assoluto, ne andrebbe, in
quel presupposto, interamente falsata. Noi non conosceremmo pili
l’Assoluto, come vuole Hegel, ma l’Assoluto umano. E, non potendo darsi
ripetizioni nello spirito, si dovrebbero porre, post’ i mondi come
innumerabili, intellezioni intinite, infinitamente diverse, dell’istesso Assoluto.
E dove sarebbe l’idealità, 1’unificamento di esse? Se si risponde: nell’Idea
medesima dell’Assoluto, altri potrebbe osservare che quest’ idea appunto
è quella che deve essere concreta nell’Umanità. L’Unità della Rivelazione
universale dello Spirito sarebbe sempre un postulato. Krause immagina una
sintesi superiore do’ pianeti e delle stelle; ma la comunione
dell’Umanità terrestre colla solare è sempre data da lui come un’
intuizione, come un desiderio! Anche Tari, riconosce nella
sua Lettera la necessità della pluralità de’ mondi. Ma in questa ipotesi
vedo sempre che 1’ indeterminato piglia il Inogo del sistematico, e che
il fantastico si sostituisce alla scienza. Diventa oramai necessario di
approfondire maggiormeute 1’ infinito matematico nel- 1’ influito
filosofico, e sottomettere cosi 1’ astronomia al concetto della finalità assoluta,
lo spirito. La lettera però del Tari appunto perchè, com’ ei
dice, tiene il germe del suo proprio sistema, avrebbe dovuto essere
più lunga e scritta più chiaramente. Vi prego intanto mandarmi una copia
della vostra prolusione alla storia della filosofia italiana, perché n’ ebbi
ili dono nell’anno scorso una copia dal vostro fratello Silvio; ma
quando scesi in Basilicata per 1’insurrezione, la sperdei a Potenza, e
non ho potuto procurarmene un’ altra. Se poi con questa mia preghiera
dovessi riuscire indiscreto, allora usatemi la cortesia dirmi presso chi è
vendibile a Torino, perchè sarà mia cura farla richiedere da librai
napoletani. Quando portate a stampa il vostro libro su Gioberti f
Esso dovrà levar grido straordinario, secondo che mi accennano i
comuni amici, e per quanto ancor io presagisco dal vostro ingegno. Date
presto ; e nel frattempo compiacetevi di tenermi di tanto in tanto consapevole
de’ vostri stndii, e segnatemi quelle opere che possono concorrere all’ aumento
vero della scienza. I miei ossequi a Tari ed all’ egregio De
Sanctis. Se posso attestarvi in alcunché la uiia devozione, comandatemi
liberamente. Vostro amico Flokiano Dei. Zio. AH’
Egregio Spaventa Deputato al Parlamento Italiano in
Torino. II saggio, da cui Zio prende le mosse, è 1 ’ Hé-
gélianisme et la Philosophie (Paris, Detken), che Vera, allora professore di
Storia della filosofia nell’Accademia di Milano, aveva pubblicato poco innanzi
per ribattere le critiche mosse ali* hegelismo da Paul Janet e da
altri scolari del Cousin. Pessima, discepolo di Galluppi, dal Galluppi era
passato al Gioberti e dal Gioberti al Krause; e mormorava contro Hegel e
gli hegeliani 1 . La lettera di Tari, a cui Zio accenna, è un
articolo, uscito appunto nel fascicolo della torinese Rivista contemporanea,
col titolo: De’ rapporti del Kantismo collo stato della filosofia
in Alemagna, Lettera filosofica. Il difetto di chiarezza lamentato in
questo scritto da Zio, e divenuto poi sempre maggiore e sempre più
caratteristico del- P ingegno del Tari,
che ingegno ebbe e una certa bizzarra genialità fa dire a
Spaventa, in una lettera a suo fratello Silvio. Ho letto molti mesi fa un
articolo di Totonno... Un 1 Vedi il mio Spaventa; Spaventa, La fllos.
ital. in relazione con la fllos. europea, e una lettera dello stesso Pessina nella
Critica articolo filosofico, come puoi immaginarti, sopra un punto
di estetica. Mi pare che abbia studiato finora per imparare a non farsi
capire. I tedeschi non sono facili a comprendersi, e la colpa è un po’
anche loro. Ma i più difficili tedeschi sono facilissimi di fronte a
Totonno; il quale mi pare che abbia preso da costoro più i difetti che i
pregi. Ti dico, in confidenza, che sono rimasto trasecolato; e che, dopo tanti
anni e con tanto ozio, mi aspettavo qualcosa di meglio da lui. Dopo tanti
anni! S’erano conosciuti a Cassino, quando Bertrando insegnava a
Montecassino; e il secondo giorno, seduti fraternamente sulla sponda d’
un letto, Bertrando apriva così la conversazione. Dunque, che ne pensate delle
categorie kantiane? Da lui Spaventa apprende i rudimenti del tedesco; e,
col suo aiuto, acquistato familiarità con la letteratura filosofica
tedesca. Nella quale Tari, chiuso nella solitudine di un villaggio
(Terelle, in provincia di Caserta), s’è sprofondato, accumulando una
meravigliosa erudizione. Questa però non valse in verità a rischiarare il
suo pensiero. Il quale dall’assoluto idealismo di Hegel finì
nell’agnosticismo del suo cosidetto Innominabile ; in cui credette si
'lovesse fondere in una unità superiore lo spinozismo e 1’hegelismo; in
quanto il divenire della logica presuppone un principio, che, essendo fuori del
divenire, è fuori della logica; e non si può chiamare Volontà, nè
Monade, nè Inconscio, nè Noumeno, nè altro; poiché ogni nome importerebbe
conoscenza, quindi un movimento di pensiero, quindi il divenire. È un’
essenza p 'ri SPAVBNTA < leU < scruti e (toc., ed. Croce, Cotuono,
Le lettere di A. Tari in diresa dell’ « Innominabile», Iranl, Vecchi, non
battezzata e non battezzatile, l’Innominabile. Anch’io, Bpecie di Lohengrin,
difendo il santo Graal. Sapete qual’ è? La dotta ignoranza, che Hegel
chiama l’ignoranza dotta. Non è questo il luogo di chiarire questo
innominabi- liBmo o limitiamo,
com’ egli anche lo chiama, di
Tari. Giova piuttosto ricordare un aneddoto di Spaventa. Il quale, richiesto di
consiglio da uno scolaro del Tari per una dissertazione di laurea circa
il diritto di punire, gli scriveva: Ti volevo suggerire di chiedere
consiglio al nostro caro Tari. Chi sa, l’Innominabile! Ma come cavare da
lui il diritto di punire? Mi ricordo di aver detto a Tari, quando fu
nominato professore ordinario, che la sua nomina era in contradizione
coll’ esistenza dell’Innominabile, principio, essenza, natura, causa di ogni
cosa e avvenimento. Figurati il diritto di punire! Tari, che di questa
lettera doveva aver notizia dallo scolaro, rispondeva a questo: Parliamo
ora un pò del quesito, con cui mi tenta 1’ amicissimo Spaventa. Eccolo: Come
concilieremo il diritto di punire con la dottrina dell’ Innominabile? Se fossi
profeta, o figlio di profeta, di rimbecco direi : Vade retro, Satana.
Noli tentare Tariiim admiratorem tuum! Ma, non essendo Gesù, nè
gesuita, mi contento di rispondere con un tibi quoque. Ossia: Anche a te,
o pensatore liberissimo, fa intoppo questa pietra di giuridico scandalo?
Anche a te metterebbe conto salvar capra e cavolo ; cioè la capra della
Fenomenalità di ogni fatto umano, ed il cavolo della pretesa V. le mie
Orig. della / Uos. contemp. in Italia COTI’GNO, Leu. cit M Giustizia
Assoluta? Eppure ricordo che, disputando con me di questo brocardico,
uscisti in questa categorica sentenza: — La pena non è che una valvola di
sicu- rezza che la società impiega a garentirsi di chi la insidia 1 . E
di fatto, il voler costruire a priori un manifesto modus rivendi essenziale,
epperò cangevole etno-crono-topograficamente è marcia follia. La Idea
Giustizia Assoluta anzidetto, s’ha a lasciare nel natio concavo
della luna, insieme al cervello dei tanti Astolfì dell’innatismo. Chi ben
pensa, riconosce la deplorevole povertà di siffatte deduzioni... Diritti
e doveri, Pene e ricompense non giacevano in seno a Giove, a mo’ delle
uova dell’aquila esopiana, ad aspettare che lo scarafaggio umano le
facesse rotolare nel basso mondo; ma si formarono, con un quasi stillicidio
psicologico, a poco a poco scavandosi un bucherello nel naturale egoismo.
E tutta la giustificazione delle pene, da quella del taglione e quella
penitenziaria, che è ancora in Werden si riduce a formare la necessità di
salvarsi al bosco dalle belve accoppandole, ed alla città dai birboni
rendendoli incapaci di nuocere. Ora quali sono i birboni? U1 e 11 busil
tis; e qui interviene P Innominabile a comporre la gran lite, illuminando
i legislatori sul da fare in sullo sdrucciolo del dispotismo, dove si
trovano sempre. Il codice penale, non che un bene in sè, è un
necessario male, presso a poco simigliante alla chirurgica estirpazione
di un arto, il quale, se curabile, anche a dilungo, l’operatore rispetta religiosamente...
Un innomi 'n^ 10 Spaventa avrà l )ure " sa[0 '(«està frase. Ma la valvola
per del delino, ! V ? Cbe neCessaria ' c °“>« necessaria era
l'insidia dello s r n e a,,a | S0Cie,A: d ’"',a necf8sUà
Andata su"» natura o spirito, ossia sul concetto concreto del bene.
Il genuino pensiero dello spaventa intorno all'assoluta giustificazione
della pena é ne suoi Principi di dica, ed. Gentile, p. 102
sgg. minabilista può solo affermare, in barba a tutti i dottrinari
criminalisti del mondo, come qualmente il barbaro Kedivè egiziano funzionerà
legalmente, da par suo, fucilando e forse impalando 1’ eroe Arabi pascià,
reo di non aver saputo nascere dove e quando dovea. Ed in- neggerà
al magnanimo Umberto, il quale, facendo grazia all’abietto Passannante,
confondeva molti tirannelli stranieri e mostravasi anche dappiù del Re
Galantuomo suo padre, cioè filantropo e progressista. In Oriente il
palo, in Occidente legislazioni che aboliscono il carnefice (v. ult. lett. di
Hugo): chi ha ragione? Secondo l’illustre prof. Vera ha ragione il
palo!... 1 Insomma, le cose anzidette tumultuariamente, a modo mio,
rispondono su per giù al caro mio tentatore Asmodeo Spaventa. Avviatosi per la
sua striida, Tari, dunque, negava coraggiosamente jT diritto come
diritto. Poeto-1’assoluto di là dal divenire, nel divenire, ch’egli
vedeva indirizzato a un Nirvana iperindividualistico, non poteva trovare
niente d’ assoluto. Per lui il magnifico proemio dello Spaventa ai
Prineipii di etica intorno al rapporto dell’assoluto col relativo, e quindi
al concetto dell’ assoluta relazione (per cui 1’ assoluta giustizia non
solo comporta, ma richiede per la propria realizzazione tutti i modi di
esistema cangevoli etno-cronotopouraficamente), non era stato scritto. E come
in quel concetto è il segreto dell’ hegelismo, era naturale che
egli non riuscisse ad orientarsi e a vedere la nullità del suo
Innominabile in quanto tale, in quanto sostanza, cioè di qua dallo
spirito. Il Tari fu insomma de’ tanti che girarono attorno a 1
A. Vbra pubblica un opuscolo La pena iti morte (risi, nel Sappi
filosofici, Napoli, Morano, dove svolgeva le ragioni del sistema
hegeliano in sostegno della pena di morte. COTUONO, Hegel, ricevendone
magari ispirazione e suggestioni feconde, senza scoprire il principio vero del
suo pensiero. Molti si ritrassero presto sconfortati dall’impresa;
etra questi Zio, che con tanto entusiasmo studia le opere e la
letteratura hegeliana; e ansiosamente aspetta i saggi di Spaventa (la
prolusione letta a Modena sul Carattere e sviluppo della filosofia
italiana e la Filosofia di Gioberti, per fede vaga che indi potesse
venirgli la luce. Zio allora si prepara a un corso di lezioni, sulla
Enciclopedia di Hegel. Al quale infatti proluse alcuni mesi dopo con una
enfatica lettura, la quale, come documento aneli’ essa de’tempi, merita d’essere
ricordata: Prolusione al corso di lezioni sulla Enciclopedia delle
scienze filosofiche di Hegel; letta in privato convegno: scritto pieno di
giovanile entusiasmo e di ardore filosofico. Oltre le opere del Vera, fin
allora pubblicate, l’Autore vi cita ed esalta 1 aurea operetta di Werder
(Logile, als Commentar u. Ergdnzung zu Hegels ÌViss. der Logik, 1 Abili,
Berlino Idèi) restuta incompiuta con grave danno di coloro che s’ iniziano alla
filosofia hegeliana; i Esquisse de logique di Michelet (Paris); e 1
Risi, in Scritti filosofici, ed. Gentile. Pallavicino, a una figliola del quale
lo Spaventa aveva privatamente Impartito qualche lezione, gii scriveva per
questo opuscolo: Amico pregiatissimo, l.a ringrazio della sua
Prolusione un magnifico lavoro il quale rnfiìf. -u- l Sn me . (le ?. l
. ller ‘° di vp| ter presto pubblicata la grande Opera eli Ella sta
meditando. Ammiratore di Gioberti. posso io non ammirare il suo degno
interprete: Spaventa? lo l’ammiro e i amo!
Pallavicino. Napoli, S. Marchese, IMI, di pp. 8-1 In 16». Reca
quest'epigrafe: « Essere, sapersi e volersi come la Personalità eterna
dello Spirito, ecco il line della lilosofla ». di questo le lezioni
Ueber die Persònliehkeit Oottes u. Unsterblichkeit der Seele, oder die
ewige Persònliehkeit des Geistes (Berlin); le quali quando sono
pubblicate, tenevano aspetto di polemica negativa in rapporto a certi donimi
dell’ intelletto; ma 1’avanzato sviluppo della scienza ha tolto loro il
senso irreligioso, che gli avversarti accaniti dell’ hegelianismo
volevano a forza vedervi dentro. E debbono così considerarsi come
la teorica potente della nuova sintesi dall’ umanità: ciò che appare, nota Zio,
dell’opera maggiore di Michelet, Die Epvphanie der ewigen Persònlichkeit
des Geistes. A proposito del problema hegeliano del punto di
partenza fenomenologico e logico della filosofia, l’autore dichiara
di sperare che le difficoltà sarebbero state da lui sciolte più
chiaramente nelle note a una sua traduzione del System der Wissenschaft,
ein philosophisches Eincheiridion (Koenigsberg, 1850) del Rosenkranz :
che avrei di già pubblicata senza la tirannide borbonica, o la guerra
che tutto il mondo ha fatto e fa presso noi al libero pensiero. Un altro
suo lavoro concerneva la filosofia di Krause, la quale, specialmente per
mezzo di Ahrens (il cui Corso di diritto naturale, è molto letto
dagli avvocati di Napoli, ed era stato anche tradotto già due volte in
italiano, da Francesco Trincherà e da Vincenzo De Castro 1 ) poteva dirsi
« in qualche modo popolare nelle nostre province ». « Le sue Lezioni sul
sistema della scienza (Vorlesungen nb. System der Philos., 1828)», dice
il Del Zio, « e 1’ampio sviluppo enciclo- 1 Corso Ul Diruto naturale o
della ftlos. del dir. traci, da Fr. Trincherà, Napoli. e Capolago. Nuova trad. eseguita sulla
quarta ed. dal prof. V. De Castro, 2. voli., Napoli, Stab. Tip. dell'Ancora.
Più tardi la sesta ed. (uscita in ted., Vienna, è trad. in italiano da
Margllieri, Napoli pedico eh’ egli tentò dare a tutto lo scibile rivelano
in classico modo il fermento incommensurabile dal quale era
travagliata 1’intera Allemagna alla vigilia dell’ apparizione d’ Hegel sul
teatro della scienza. Ma in Krause c’è il presentimento della scoperta,
che fu fatta invece da Hegel; e questo giudizio era il risultamento di
una conveniente disamina. A tanto speriamo di adempiere più tardi,
pubblicando un nostro lavoro, che ha per titolo: Studii sul rapporto del
Sistema della scienza di Krause a quello di Hegel . Appunto per quella
certa popolarità che il Krausismo aveva acquistata anche nel
Napoletano, Zio stima opportuno che fosse discussa la sua teorica generale da’
cultori della filosofia. Se non cominciamo a disputare pubblicamente
sulle nostre convinzioni speculative, il trionfo della scienza e il
progresso della nazione non saranno nè liberi nè universali L’opuscolo è dedicato ai napoletani con
parole di questo tono: A voi dedico, o
fratelli, questo piccolo lavoro, il quale non è altro che il
programma dell andamento scientifico, a cui dovrebbe avviarsi, secondo le
mie convinzioni, il nostro paese, per essere in armoniu coll’ indirizzo
generale della scienza in Europa. Se vi parrà vero, Voi, più che me, potrete
condurlo ad atto, perchè 1’ amico vostro, comechè giovane, è già percosso
dai dolori dell’ animo e dalle sofferenze lei corpo che 1’opera
dissolutrice della tirannide seppe in molti generare negli anni scorsi».
Continuava annunziando che, accettato il suo programma, tre fiamme divine
sarebbero venute ad accendere 1’ anima dei napoletani : tre sedendovi d’un
unico sole, il libero Pensiero; le tre fiamme della Filosofia, della
Rivoluzione, dell’Amore. Colla prima darete fine alla
superstizione del Papato, la più maligna fra quelle che ancora corrodono
lo spirito moderno. Colla seconda scrollerete il dritto divino ed ogni
altra specie d’irragionevole imperio. E coll’ ultimo tramuterete le rovine in
creazione eterna di bellezza e di verità ; costituirete I’Italia, e
getterete il fondamento alla fratellanza democratica di tutta
Europa. Svolto brevemente il concetto della Fenomenologia dello
spirilo, per mostrare come lo spirito sia necessariamente condotto dalla sua
interna dialettica al punto di vista del sapere assoluto, il Del Zio
schizza con pochi tratti l ’ideale della scieina, a cui egli
invitava con molto calore: Deliberando di seguirmi fraternamente nel
mondo del sapere, renderete testimonianza dell’ istinto divino che move
lo spirito del nostro tempo, e della vita novella d’Italia resa a sè
stessa ed alla sua naturale grandezza... Il nuovo metodo
dell’insegnamento filosofi co è il metodo della morte e dell’ amore
assoluto, della morte alle cose finite e a se stesso, e dell’ amore per
1’ assoluto, in cui lo spirito deve rinascere. Quindi combatteva le obbiezioni
mosse all’ hegelismo dalla corta vista dell’intelletto 1 o del sentimentalismo
ipocrita della santocchieria. Ai filosofi dell’intelletto, del pensare finito
addebitava la loro incosciente predilezione dello scetticismo e del
nullismo: e dimostra che « non solo il sapere assoluto è possibile, ma
che esso è 1’unicamente possibile; poiché ninna realtà finita, naturale o
spirituale, può dirsi conosciuta fuori del sistema, in cui essa va
concepita. Ai mistici di buona o di mala fede, cercava d’ additare il
carattere intrinsecamente religioso della filosofia hegeliana,
nella quale la verità della religione non è negata, ma trasfigurata e
fatta valere per la ragione, assolutamente. In- 1 Intelletto
(Verstand), nel senso di Hegel. fine, combattendo anche lui il
pregiudizio, allora saldissimo tra i giobertiani di Napoli, del primato
italico- e della filosofia nazionale, sosteneva, a simiglianza di Spaventa,
che la grandezza del nostro spirito non è tanto nel sapersi precursore di
tutto l’incivilimento occidentale, quanto nel prevedere che dev’ esserne
il successore eterno. Si ammira Vico: ma egli travaglia por tutta
la vita per provare che uno spirito solo regge il mondo delle nazioni,
che una è la mente dell’Umanità, e che un piano ideale stringe in armonia
assoluta la totalità de’ fatti politici e le forme svariatissime
del1’intera vita sociale. La storia della filosofia è davvero un’ opera unica,
una sola attività produttrice. Le frutta abbondanti di quei primi pensieri
filosofici, che gl’ italiani destarono nella coscienza umana sono
appunto i grandi sistemi della filosofia moderna... Nutricandoci del supere e
della vita europea, noi vendicheremo lo spirito de’ padri nostri,
celebreremo la festa di commemorazione a quel Risorgimento, che il papato e
l’Impero soffocarono nel sangue di tutta la Penisola: sopra tutto a
Bruno, la cui vita randagia per 1’Europa, ma COMINCIATA IN ITALIA E IN
ITALIA TRAGICAMENTE FINITA, sembra a Zio il simbolo divino del corso storico
della filosofia moderna nel mondo. E col ricordo della vita del Bruno e
un invito a vendicarne la morte facendo tornare in Italia la sua
filosofia arricchita nel suo secolare viaggio, termina questa
prolusione. Cinque giorni dopo legge nell’ Università la prolusione al suo
corso Spaventa, tornando a trattare il tema: Della nazionalità nella
filosofia. Fiorenti Waddingtoìi e Spaventa Affrettando col desiderio la
pubblicazione dell’ importante carteggio della marchesa M. Fiorenti
Waddington tuttavia posseduto dalla famiglia di Francesco Fiorentino,
gioverà spigolare tra le carte dello Spaventa, alcune lettere e ricordi
di questa egregia donna, che non ci paiono inutili alla storia della
fortuna di Hegel in Italia. Quando la Florenzi entrò in relazione con lo
Spaventa aveva passata la sessantina, essendo nata: da Schelling è giunta
fino a Hegel: dall’ammirazione del Mamiani, per la conversazione
frequente con Fiorentino, che da Bologna andava spesso a Perugia ospite
suo, era potuta passare a quella del critico severo della prefazione, che
il Mamiani aveva premessa alla sua traduzione del Bruno di Schelling 1 .
Prefazione desiderata da lei, che ne caròla promessa con un certo imperio
di belletta che. ancor possiede, come ROVERE scrive al suo fratello;*
prefazione piaciuta già allo stesso Schelling. 3 Ma ben presto la
marchesa tedescheggiente e libera pensatrice e il conte italianissimo e
cantore dei santi cattolici, s’ erano accorti di non potersi
intendere. In una lettera Mamiani le rimprove- Vedi Spaventa, Saggi
di critica. Napoli, Gliio. Intorno alla Florenzi v. le mie Origini della,
fllos. contemp. in Italia IMamiani, Leti, dall’ esilio a cura di E.
Viterbo. Roma In una sua lettera a un suo amico, Maraiant scrive: «Quantunque
lo vi discorra della tllosolla tedesca moderna con gran franchezza di
giudicio, lo Schelling non se ne tiene punto mal soddisfatto, e scrivendo
alla traduttrice, che è la march. Florenzi, ha detto di me parole
onorevolissime. Cfr. il Bruno stesso, ed. I.e Monnier, Leti Cfr. la lett.
al fratello rava di ragionare un po’ alla tedesca, e, non avendo alla
mano ragioni ferme ed evidenti, essersi rairolta della nebbia del suo
grande maestro, lo Schelling. L’ anno appresso le scriveva: « ìli congratulo
molto con voi dello studiare indefesso che fate e dello involgervi coraggiosa
tra le tenebre sacre della metafisica di Schelling. È quasi un addio dalla
spiaggia a chi si avventurava per il rischioso viaggio! Sul
principio del 18GB, la Fiorenti pubblica i suoi Filosofemi di Cosmologia
e di Ontologia (Perugia, Bartelli) ; e Fiorentino, che dove scriverne
una recensione, nella Rivista Italiana (o Effemeridi della P. di
Torino), la incita a mandarne un esemplare a Spaventa. Quindi la
seguente lettera: Signore, Se un nostro amicissimo, e
molto suo conoscente, non m’ incoraggiasse a mandarle il mio libretto testé
stampato, io non oserei inviarglielo. Esporlo al giudizio d’uno de’ più
distinti lilosofi è al certo temerità più die grande. Ma io mi
affido più assai all’ indulgenza di cui sono capaci i grandi
uomini, e temo maggiormente i piccoli. Ardisco ancora dimandare il
suo leale, franco giudizio e la sua severa censura; ed ancbo la
disapprovazione mi sarà più cara assai di qualsiasi complimento. È
dunque sotto l’egida del nostro amico che il mio libretto vieue a
cercarla. Mi abbia per iscusata s’io l’incomodo por cosa di sì poco
valore; ma, le ripeto, io riposo nella indulgenza sua. Me le offerisco e
raccomando. Perugia, Obb.ma M. Marianna Florenzi
WAnDiNcroN. Spaventa in ricambio le mandò il suo volume Prolusione
e introduzione alle lezioni di filosofia, starn- 1 Lett. pato1’anno
innanzi ; a cui la Florenzi fece gran festa, diffondendolo nel circolo di
letterati e filosofi, 1 che si raccoglievano intorno a lei. € Dono
prezioso, scrive all’autore, di cui mi valgo per miu istruzione e per
ammirare uno de’più grandi filosofi (o il più grande), che ora dia fama
alla nostra nazione. Da altre lettere della colta gentildonna si
rileva che tra gli ammiratori guadagnati da lei allo Spaventa, desiderosi
di leggere i suoi scritti, v’ erano anche delle donne. Tanto poteva
1’esempio della Florenzi! Questa manda a Spaventa un suo piccolo
discorso sojrra l' Eleroyenia che doveva essere stampato coi Filosofemi. È
instancabile. Quando Spaventa le manda la memoria su Le prime categorie
della logica di Hegel, ella poteva annunziargli un suo nuovo lavoro, che
avrebbe toccato anche quell’argomento (Saggio di psicologia e di logica,
Firenze). Mi preme sempre di leggere le cose sue, e per questo ho
indugiato a dirmene grata e riconoscente. Non ho parole per esprimerle quanto
quella lettura mi abbia soddisfatta. Un ingegno come il suo non
poteva a meno di escogitare fino al fondo l’argomento trattato, ed in vero non
c’ è nessuno che abbia penetrato tanto addentro la dottrina e le
intenzioni di llegel, il più formidabile dei tedeschi filosofi.
Ella ha ragione: chi è mai entrato sì puramente nella scienza del
filosofo? Tanto più piacere mi ha recato il suo scritto in quanto
che io aveva già compiti due capitoli del libro che scrivo ora: Il
divenire e V essere e il non essere, pen- Cfr. la Necrologia che scrisse
di lei il Fiorentino, in Scritti vari, Napoli siero ed essere. Quanta
istruzione io posso ricavare da lei! Dunque, per tutto il piacere e per
tutto 1’ utile ricevuto io ne la ringrazio di cuore ed anima » (Lettera).
In una poscritta d’ una delle sue lettere la Florenzi scriveva allo
Spaventa: «Vi prego di fare il grande sforzo di rispondermi al pili
presto » . Spaventa, infatti, è tardissimo a scrivere, anche se chi
aspettava era una dama così gentile. Il Fiorentino badava a fare le
sue scuse. Così, in una lettera a Spaventa, gli scriveva : Alla marchesa
Florenzi ho parecchie volte detto quale sia la vostra indole,
perciò non ho durato fatica a persuaderla della vostra trascuranzn nello
scrivere. Ella ha sotto i torchi due saggi, uno di logica e 1’ altro di
psicologia, ed aspetta di averli in pronto per rispondervi. Credo che li
avrà prima che il mese finisca. Li ha composti con l’intendimento
di dare due lavoretti elementari, e mi sembrano molto giudiziosi e
precisi e chiari, da qualche capitolo almeno che ho scorso, correggendo
gli stamponi che le venivano quando io ero colà. A proposito di lei, che
cosa avete fatto per l’Accademia, di cui mi parlaste costà? Io non
le ho detto nulla, com’ era vostro desiderio ; e sarebbe cosa ben fatta
se si potesse effettuare, perchè veramente è una donna meravigliosa per
1’ ardore che ha per la scienza. Spaventa aveva pensato di premiare
la nobilissima operosità e il virile animo, onde la Florenzi
proseguiva gli studi filosofici, facendola ascrivere all’Accademia
delle scienze morali e politiche di Napoli. Nomina che la scrittrice
gradì molto, e ne fregiò il frontespizio de’ suoi libri pubblicati dopo.
Primo il Saggio sulla natura (Firenze), che è dedicato appunto allo
Spaventa: non per orgoglio, ma soltanto perla fiducia che gl’ ingegni, quanto
più sono alti, tanto maggiore indulgenza tisano alle persone di buona volontà.
Gliene chiese licenza con una lettera molto modesta, dove sono espressi
gli stessi sentimenti della dedica a stampa, e da cui s’ apprende che il Saggio
era da tre mesi in tipografia. È a Napoli Waddington, marito della
marchesa, ed ebbe dallo Spaventa liete accoglienze. Egli se n’è tornato,
scrive Fiorentino, contento di aver conosciuto un uomo del vostro ingegno
e con quella franca ed ingenua indole, che è segno infallibile. E come a
Napoli si preparava, in occasione d’ una esposizione di cotone, un Congresso
scientifico italiano, la Florenzi contava di venirci anche lei; come
infatti ci venne: «Ebbi la vostra memoria 1 che ho letta con grande attenzione
per raccoglierne quell’ utile che sogliono apportare i vostri scritti.
Evelino fu molto contento di conoscervi e lo sarò pur io fra poco, perchè
ai primi di agosto contiamo di essere costì nuli’ ostante gli eventi del
monito. « Mi faceste dire di fare un qualche piccolo discorso
per 1’ occasione del Congresso; e 1’ ho tracciato alquanto, e per
distenderlo vorrei la certezza se si fa o no codesto Congresso. Io
presumo che no, stante 1’ imminenza della guerra ; nulla di meno vi prego
a scrivercene una riga ; ed ancora più mi preme sapere se vi troverete in
Napoli a quell’epoca, o alla campagna, ed in quale campagna, od in quale città
; infine, mi direte dove dimorerete. La dottrina della conoscema di Bruno,
pubbl. negli Atti dell'Acc. delle Se. mor. e poi. di Napoli; risi. In
Saggi di critica pp. Una lettera ha un certo interesse, per l’accenno che
vi si fa al discorso Della immortalità dell’ anima umana, che la Florenzi
pubblica. Io mi preparo o mi sono già preparata a scrivere un opuscolo
sulla immortalità dell’anima: problema scabroso! ma che voglio sostenere
perchè sento 1’ immortalità dentro di me e voglio essere immortale a
tutti i costi. Sarà dolorosa ai feuerbachiani miei amici 1 la mia
assoluta opposizione». Nè anche gli amici hegeliani, non
feuerbachiani, d’Italia fecero plauso all’ assunto della marchesa. E Spaventa
allude forse, con quell’ ironia che gli era propria, al discorso poco
persuasivo della Florenzi, quando, scrivendo a Meis, la chiama: la
nostra immortale Marchesa, immortale almeno come, socia della Beale
nostra Accademia! L’intimo pensiero di Spaventa sull’
immortalità dell’ anima individuale apparisce dal principio d’una
malinconica lettera da lui scritta a Meis; dove ricorda la sua prima figliuola
morta a tre anni: Napoli, Mio caro Camillo, Spero che la festa
di quel sant’ nomo del De Lellis, tuo omonimo concittadino e la tua, ti
riconoilieranno cogli amici. In particolare io conto sulla reminiscenza,
anche involontaria, di que’ maccheroni al pomidoro; di quella Irittata e
di quelle cocozzelle, oramai divenuti celebri no’ nostri annali
domestici. Via de’ Fiori a San Salvario, n... Il numero non lo ricordo 1
II Ff.ii* *riiach, coni' è noto, nel Gcdanhen iiber Tod und Sterb- li
chhe il sostenne la mortalità dell'anima. J v. scritti filoio/lci. ed.
Gentile San Camillo De I.ellis, di Bucchianico, patria di Meis. Recapito
dello Spaventa a Torino. Il numero era 23. Isabella Scano. moglie di
Spaventa, a lui sopravvissula, morta più, e non ho tempo (li consultare la
signora Isabella, che attende alle faccende di casa. Non lo ricordo; ma
fa lo stesso: ricordo il luogo, il prato, la soala, il piano, le stanze e
il mio tavolino da lavoro, e tutte le miuchionerie che scrivevo :
le cose futili e le serie; il mio chiodo Bolare e i misturi hegeliani svelati ;
e te che venivi ogni giorno, angelo consolatore, e le chiacchiere che facevamo
insieme; e la mia povera prima Mimi e lo sue ultime parole: Papà lavorai
Papà lavora! Io non so so (|uella casa sia rimasta ancora in piedi;
oramai non vedo piti Torino da circa vent’ anni : ma ella sussiste tuttora qui,
come forse non ha mai meglio esistito iu realtà, nel mio cervello, o,
come (licevano una volta, nell’ a- nima mia; o non si dileguerà se non
quando questo cervello (Papà lavora, Papà lavora), non ci sarà piti. E
che ne sarà! Che significa nou esserci pi fi i Diverrà proprio nullaf
Eppure è stato ed è. O ci è proprio uu modo di essere che non è
sussisterei E sussistere cos’ài 1/orgoglio e la balordaggine umana ha
trovato lo consolazione: tutto nasce e perisce, è vero, ma gli atomi
restano, e son sempre quelli, non mutali mai. Bella scoperta! me li fo
fritti gli atomi, io. Troppo serio per la festa di San Camillo ; troppo
malinconico, anzi. Ma va e freua la mia fantasia! Spaventa, non occorre dirlo,
non era materialista. Ma nella concezione hegeliana della natura e dello
spirito non trovava posto per lo spiritualismo astratto, e quindi neppure
per l’immortalità personale. Il primo scolaro (li Spaventa (
Fiorentino). Battaglie carducciane ancddote. Nella nota
polemica con Acri Fiorentino dice di aver conosciuto tardi Spaventa, e
poco prima i suoi saggi. Letti i suoi saggi, intravidi un altro
mondo, e mi parve rinascere. Allora ero professore a Maddaloni, e stavo a
Napoli. Tra i molti che si preparano a combatterlo c’ero io; ma,
lettolo, mi sentii tirare verso lui, e capii che i suoi avversarii
non valevano neppure i suoi calzari. Quale fu la mia maraviglia, quando
dai più sinceri riseppi, ch’ei non avevano lotto nulla di lui, e che lo
combattevano, perchè volevano combatterlo, senza sapere perchè! Allora
infatti egli si presentò allo Spaventa. Ma, quando, sullo scorcio, ANDA A
BOLOGNA professore di Storia della filosofia, non E aveva visto che due
volte o tre. L’ultima di queste ne ebbe consigli e suggerimenti circa gli
studi per cui la Biblioteca Universitaria di BOLOGNA avrebbe potuto
offrirgli E opportunità. Giacché da Spaventa egli è stimolato a
intraprendere quelle ricerche sui nostri filosofi del Risorgimento, da
cui provennero le sue opere più importanti. E quando si divisero, Spaventa dove
annunziargli il saggio, che allora stampa, Prolusione e introduzione alle
lezioni di filosofia, dove Fiorentino trova uno SCHEMA DELLA STORIA
DELLA FILOSOFIA ITALIANA. Glielo inviò poi infatti con una lettera, della
quale possediamo la risposta: Mio carissimo amico, La vostra
lettera e il vostro libro lungamente aspettati mi sono arrivati
carissimi. Mi son messo subito a leggerlo, e posso dirvi di averne scorsa
quasi la metà; se non che intendo rifarmici sopra, come prima avrò
satisfatto l'impaziente desiderio con questa prima lettura. Voi mi
riuscite sempre profondo e stringato ragionatore; oogliete nel
criticare il nodo del sistema, c ne mostrate lo scioglimento cosi
lucidamente che meglio non si può. lo vi ho sempre tenuto, e vi tengo a
ninno secondo nell’arto difficilissima della critica filosofica, eh’ è
quella appuuto, di cui NOI ITALIANI abbiamo La fllos. contemp. in Italia,
Napoli, specialmente bisogno, serondochè voi avete maestrevolmente
notato. Le considerazioni su la lìlosofia nazionale sono esatte, e
l’indole della filosofìa del Risorgimento, che io ho letta fino a Bruno,
è scolpita cou molta fiuezza, e contorni assai rilevati. Le osservazioni
su l’antichissima sapienza degl’italiani di VICO, e ricavate qunuto al fondo
dalla Scienza nuova, sono inappuntabili; ed a rifiutarlo bisognerebbe
disconoscere la teorica della parola dal Vico medesimo adottata. Io mi
rallegro di tutto cuore con voi, mio carissimo amico, ed auguro all’
Italia molti uomini che vi rassomiglino. Negli scrittori, come negli
uomini, a me piace la lealtà del manifestare le proprie convinzioni,
quali che si fossero; la coscienziosa ricerca nel formarsele, ed il saldo
proposito del sostenerle. Ora invece si scrivacchia e si cinguetta a
sproposito, e più ilei nomi e dell’autorità si fa caso, che non della
verità eterna ed immutabile. Voi siete molto opportuno nelle condizioni
poco prospero del nostro paese, e gran bene potrete fare. Esperto come
siete di gran parte delle nostre città, dovete conoscere meglio di me,
che cotesta o nessuna può spingere e continuare il movimento della
italiana filosofìa. Qui se ne ha pochissima cura: alla mia scuola usano
pochi uditori, alle altre della mia facoltà meno che pochi, o nessuno.
Per buona ventura è venuto qua a continuare i suoi studi filosofici un
bravo giovane delle provincia meridionali, un tal JAJA (si veda), quel medesimo
che mi accompagna, quando presi commiato da voi. Ila buon ingegno, e
buona volontà, eh’è ancora più rara no’ nostri. Altri vanno e vengono più
per curiosità che per vaghezza ili studio: sono le comete di tutte le
cattedre. Tra pochi altri giorni vi manderò la Prolusione che lessi
qui, e che ho fatta inserire sul Progresso che si stampa costà. Me no
aspètto vostro giudizio, che quanto so che sia competente, altrettanto voglio
che sia ingenuo e franco. Voi sapete che io non mi sdegno dell’essere
appuntato e corrotto: amo la verità più del mio amor proprio. A SAGGI
FILOSOFICI qui si sta molto male, e sebbene mi sia stato promesso che
qualcheduno dei più necessari si farebbe venire, pure io ci conto molto
poco per la scarsezza dell’assegnamento di cui gode questa Universitaria
Biblioteca. Avrei bisogno di buoni espositori di Platone e d’Aristotile,
perchè questo anno mi occupo della filosofia greca, e intanto,
tranne alcuni commentatori antichi, non si trova altro. Ho fatto venire
«lei mio la esposizione della Logica aristotelica di Barthólemy; ina a far
venire tutto a proprie spese come si riescef ìi questo per me un gran
contrattempo, c, senza le vostre prevenzioni, quasi inaspettato o
iuusputtabile. Chi diamine poteva credere che la dotta Bologna viveva
ancora in pieno Medio Evo pi Pomponazzi ci è il solo libro
dell'Immortalità. I manoscritti di Boccaferrato versano più su la tisica
aristotelica, che su la metafisica: ed oltre a ciò sono poco agevoli a
leggere, e a parer mio ili poco giovamento. Ho trovato pori» Scoto Erigena,
e Patrizzi, che costà non mi era riuscito avere. Oopo che avrò letti
questi, mi metterò a studiare la storia della filosofia indiana del
Colebrooke, che voi mi diceste buona. * 1 Mi dimenticai l’altra volta di
dirvi, che Vittorio Cousin scriveva alla Florenzi una lettera sn quel mio
lavoretto intorno a Bruno, dove sentenziava degl’italiani a modo suo. È
piuttosto una lunga lettera, di cui io ho copia, che vi manderò, se vi
aggrada leggerla. Parla altresì di VERA (si veda). Ecco quante ve no ho dette,
e forse vi avrò annoiato: ma io sentiva il bisogno di trattenermi con
voi, e P ho fatto alla mia usanza, e senza riserva. Io, oltre
all’ammirarvi, vi amo assai, e stimo che questo all’etto che vi porto
renila più scusabili le molte ciarle che faccio nello scrivervi.
Quando avrete tempo scrivetemi, perchò mi è caro comunicare con
qualche spirito privilegiato ed amico in tanta solitudine in cui vivo. Se
potessi in qualche cosa adoperarmi per voi, mi terrei fortunatissimo di
farlo. Addio, adunque, mio carissimo amico, ed amate Di
Bologna. Il tutto vostro Fiorentino. Colebrooke, celebre
indianista, presidente della Società Asiatica londinese, autore degli Kssai/s
on thè Vedas and on thè phtlosophu of thè llindous nel I voi dei
Misccllaneous Essaj/s (London); — e a parte: Essays on thè relii/ion and
phtlos. of thè Hlndous, London Tra la
corrispondenza Inedita del Cousin ci sono lettere di Fiorentino: vedi
Gentile, Albori delta nuova Italia, La prolusione al corso di storia della
filosofia è da Fiorentino pubblicata nel Progresso di Napoli; ma
non venne più ristampata. È infatti ancora un documento della fase giobertiana
del pensiero di Fiorentino, quantunque vi appariscano le prime tracce dei
nuovi studi e delle nuove tendenze dell’ autore. Giova riferirne qualche
brano: Il pensiero, o signori, regola il mondo o lo riempie,
perché esso è la pienezza ed il vigore dell’ essere : è la sua
compenetrazione, e la sua identità. L’ essere senza il pensiero è sparpagliato,
disterminato, e però incompiuto e Unito. Imperocché l’essere compie se
medesimo geminandosi, vale a dire facendosi principio e fine; ed il mezzo, pel
quale esso si pone e conclude, è il pensiero, la relazione, l'identità
suprema. Se non che esso nel mondo inorganico si occulta
inconsapevole, eil in certo modo seppellito, comincia ad agitarsi operoso
nel vegetale, si va sempre pifi disimpacciando dal grave involucro della
materia nella forma dell’animale; e si sveglia libero e padrone di sé
filialmente nella coscienza umana... Il pensiero divino che trasparisce
attraverso tutto il creato, si che ogui cosa, secondo la frase biblica,
appaia piena dello spirito di Dio, non parla poi e non si rivela
ampiamente, se non nella coscienza dell’uomo. Il resto della natura è
parola scritta, rinchiusa, direi quasi cristallizzata: l’uomo solo è
parola viva e palpitante. La dualità di natura e spirito non è insuperabile.
Essa inette capo « nell’ unità cosmica ». E in virtù di questa la natura
tende allo spirito; che comincia bensì aneli’ esso come forza individua
partecipante all’ università del cosmo ; ma esso si generalizza pensandosi. Do
spirito è l’attuazione compiuta dell’unità cosmica, e ciò che questa è in
potenza, ed esso è in atto. Or quando lo spirito si abbia assimilato la
natura e sé stesso per quella serie di sviluppamenti che va spiegata
nella Fenomenologia, egli, a rendere scientifico il suo processo spontaneo
ed incosoio di sé, si rifà sopra il cammino fatto. E può rifarsi in tre
modi. Quando rigira sè in sò, dà luogo a quel ripensamento che si dice
riflessione psicologica; e quando si ripete su la natura, partorisce la
riflessione detta da Gioberti ontologica. Ma sopra eoteste due guise di
riflettere, ve u’ ba una terza, che lo vince di pregio e di amplitudine,
vale a dire la riflessione logica, nella quale lo spirito si rivolgo su
la sua azione medesima, sul proprio pensiero... su la natura e
10 stesso spirito è Dio, ossia l’unità vera, l’unità che non è il
moltiplico, ma lo fa. Se l’unità cosmica fosso tutto, l’ultimo grado del
pensiero sarebbe la riflessione psicologica e l’ontologica, e la logica
non sarebbe possibile. V’è logica, perché v’ha un assoluto perfettamente
uno; v’è la logica, perchè v’è Dio... Da logica è dunque l’unità finale della
cosmologia e della psicologia, come la protologia n’ era stata 1’ unità
primitiva. L’unità assoluta, ’unità cosmica, 1'anima, il concetto; ecco le
quattro gradazioni, per le quali passa il pensiero speculativo,
produceudo una scienza eh’è la prima e la massima, e che comprende la
protologia, la cosmologia, la psicologia e la logica. Venendo alla storia
della filosofia, Fiorentino dichiara che il disegno della storia si deve
modellare su quello della scienza : sicché la storia dev’ essere
essa medesima un sistema. « Una storia che non fosse un sistema ma
un’ imbastitura di fatti racimolati qua e là, non sarebbe meritevole di
tanto nome». Quindi la connessione da preferire tra i vari sistemi è quella
logica. So bene io essersi talvolta tenuto conto o della successione
cronologica, o della continuità etnografica; confesso che queste maniere
contengono qualche parte di vero ; che il tempo maturi ed incalzi le
deduzioni della logicn ; che la scienza alcune volte si sviluppi come un
dramma vivente in una nazione: nondimeno il pensiero, essendo di natura
estemporanea ed eslraspaziale, mal si potrebbe acconciare tra questi
angusti cancelli... Egli è da maravigliaro intanto come fra tanti che
hanno trattato la storia della filosofia quasi uiuno abbia fatto capo
dellu genesi logica dei sistemi, salvo l’Hegel in cui celesta legge si
appalesa inflessibile come il fato; e nelle cni mani la storia si
trasforma in una geometria, dove nulla viene lasciato all’arbitrio del
pensatore. Hegel accorcia e distende i sistemi come il Procuste della
favola, affinché tutti ripetessero costantemente il ritmo prescelto della
tricotomia. Richtor inchina per contrario a sostenere l’autonomia delle scuole
e dei sistemi ; sminuzza, taglia i nervi, e leva di mezzo ogni
addentellato. Nel primo 1’ uniformità ò monotona, nell’altro la varietà
rimaue disordinata ed inorganica. Contemporaro però questi due estremi, badare
alla continuità del pensiero universale, senza disconoscere l'influenza individuale,
è proprio mettersi sul giusto mezzo, ed in postura convenevole, onde si
possa portar giudicio sopra i sistemi. E qnando dico sistemi, io non
guardo alla breccia, ma alla radice: non all’aspetto subbiettivo, o nlla
convinzione del filosofo, ma alla materia, eli’ è stata fondamento
della sua opinione. Voglio vedere non quel ch’egli crede, ma quali
cause lo abbiano sforzato a questa credenza. La storia della filosofia
presuppone un sistema, che sia come il regolo con cui conviene riscontrare
e misurare le dottrine. E dalla maggiore o minore ampiezza del criterio
di una storia, dipende il valore di questa. Hegel ha immedesimato
la storia della filosofia col suo sistema, affermando non essere tutti gli
altri se non momenti del suo, e (singolare ardimento!! egli non si è
peritato di piantare le colonne di Ercole della filosofia ! L’avvenire
giudicherà di lui, provando coi fatti, se dopo la grande
Enciclopedia ancora allo spirito umano qualche cosa rimarrà da fare. Infine
Fiorentino tocca la questione di una FILOSOFIA ITALIANIA contestata dagli
storici stranieri. Mettendo n rassegna le nazioni filosofiche di Europa,
Hegel tripartisce il mondo della filosofia moderna, maiorasco
inalienabile, tra l’Inghilterra la Germania e la Francia... Il Cousin di
poi, n cui non tornava conto una terza nazione, non avendo una
tripartizione a fare, ridusse le partite, e diede luogo a due nazioni
soltanto, alla Germania ed alla Francia. Il professore di Berlino e
quello della Sorbona si trovano peri» d’accordo nel diseredare l’Italia.
E perchè 1 Forse Telesio e Galilei non parlarono mai del metodo
sperimentale? Bruno non mosse dall’unità della sostanza prima ancora
dello stesso Spinoza? Campanella non iniziò la osservazione psicologica? E
Vico non partì dalla conversione del vero col fatto, statuendo il
fondamento più solido cito potesse avere la filosofia? Nulla di tutto
questo, o signori; tre termini bisognarono all’ Hegel, due al Consin, e
per noi non rimase luogo. L’Italia, se diamo retta alle divisioni
di oltremonte non ha fatto mai nulla, non ha pensato mai a nuli», e
sola, spogliata del comune retaggio dell’urnan gonero, ella è costretta a stare
spettatrice stupida od ingloriosa delle maraviglie altrui. Troppo beata,
se il passato della Germania o della Francia potesse diventare il suo
presente; troppo venturosa se, chiamata dalla straniera magnanimità,
le venisse consentito di spigolare nel campo, ove a si larghi
manipoli hanno gli altri mietuto. Mi rincresce, o signori, di dover
prorompere in parole amare verso uomini al cui ingegno porto di cuore
molta rivegenza; me ne rincresce ancora più forte per dover rinfrescare titoli
lunga stagione abusati, quando la gloria dei padri fu chiamata a coprire
la riprovevolissima inerzia de’ figli. No, io protesto, signori, die noi
non vogliamo addormentarci sugli allori dei nostri padri, che noi non
vogliamo farci belli della loro gloria, fragile schermo alle immeritate
rampogne. Fiorentino ricorda la gran sollecitudine che a Napoli egli vede
affaticare gl’ intelletti traendone argomento a bene sperare e ad asserire che
forse la filosofìa era « deputata a maturare i fati della patria.
Fa voti cho quel « desiderio ardentissimo » si diffondesse da Napoli per tutta
Italia ; « lieto di poter proseguire l’impresa, che a BOLOGNA inaugura
il suo illustre predecessore»; cioè Spaventa. Infine, una
patriottica perorazione: Por gli altri, o signori, la scienza può essere
forse un addobbo ed un decoro, por noi italiani è desiderio di riscossa,
è condizione indispensabile di vita. Noi non sapremmo passarcene senza
tralignare dalla nostra antica fierezza, senza disconoscere la missione
nostra nella storia. E poi grandi cose ancora ne avanzano a fare, nè
potremmo meglio allenarci, che fortificandoci la mento di profondi studi.
Nella infanzia dei popoli era la fede che operava prodigi, e remica
possibili le crociate; nella loro virilità non si possono aspettare
altri miracoli, che lineili della scienza. Un pensiero che non
fosse progenitore fecondo di magnanimi fatti, io lo disdegnerei; ma
esso avventurosamente non sarebbe nemmeno da dire pensiero, si bene
fantasma vano, e passeggero capriccio. Io nel filosofo anzi tutto voglio
guardare l’uomo coni’esso è, e voglio trovarcelo vergine, schietto,
maschio e vigoroso. Io batto le mani a Socrate che combatte u Potidca,
sento un cotal orgoglio di coltivare la scienza elio mantenne serena la
fronte di GBruno avanti al rogo: applaudo a Kicbte che lascia la
cattedra di Jena e corre sui campi di Lipsia; e non so rifinire di
ridurmi nella memoria Sl’acteria, Mestre e Curtatouo, ove siete caduti voi,
Santarosa, Poerio e Pilla, valorosi ingegni, valorosissimi cittadini. Sì,
o itali, di profondi veri e di magnanimi fatti noi abbiamo bisogno, e
1’Italia sarà. Addoppiate gli sforzi. Percorriamo di conserva e con alacrità 1'
arduo arringo della scieuza, e siamo certi di cooperare in tal guisa
potentemente al riscatto della patria nostra. La scienza lo iniziò, ed
essa indubitatamente lo coronerà, snebbiando le nienti, aprendo il
cuore a piò candidi alletti ed utlbrzando le braccia della novella ed adulta
generazione. Un ultimo sforzo ancora, e quanto prima il Ponte di Rialto
risuouerà dell’ eco dell’ inno nazionale cantato sulle serve lagune dell’Adriatico,
e le piume dei nostri bersaglieri si agiteranno al vento che spira dai
sette colli. Dagli studi sulla filosofia greca pel corso
universitario annunziato nella lettera, fatti sotto l’ispirazione di
Spaventa, usce il Saggio storico sulla filosofia greca (Firenze,
Monnier), dove GIOBERTI uno di tre anni innanzi, autore dell’ opuscolo 1l Panteismo
e Bruno, si palesava hegeliano e scolaro di Spaventa, di cui infatti
metteva a proposito la memoria su Le prime categorie della Logica di
Hegel. Così Fiorentino si stacca coraggiosamente dagl’amici di Napoli:
onde nella conclusione del Saggio accenna. Devoto alla verità, non mi
terranno del certo impastoiato nè
preoccupazioni, nè codarde paure. Non gli mancarono, infatti,
silenzii sdegnosi e tacite rampogne, seguite da una rottura, che è
la prima origine della polemica scoppiata dodici anni dopo con Acri e Fornari.
Nella seguente lettera ne abbiamo il più antico documento. Mio carissimo
amico, Vi so infinitamente grado di llo coso gentili che mi dito del
mio libro, o non vi nascondo che le vostro parole mi sono valso di sprone
efficacissimo a seguitare. Voi sapete di quanto peso io tenga il vostro
parere? o come lo anteponga ad ogni nitro che potessi avere in Italia, o
anche (V oltremente 5 onde me n’ è venuta allegrezza o buona voglia da
non potersi misurare. Per me la filosofìa è stata sempre un amore, e
perciò mi vi sou messo in buona fede, e senza preoccupazione di partigiano. Non
timido amico del vero, io dirò sempre aperto il mio modo di vedere; ed in
ciò debbo confessare che voi mi siete stato esempio e conforto.
Delle altrui dicerie non mi brigo; conserverò P amicizia a chi me
la continua non ostante il dissidio delle opinioni, coni’ è mio costume;
uon mi dorrà di perdere amici, i quali pretendessero d impormi un treno,
e di vincolarmi con pastoie, che Panimo mio, non che nou comportare, anzi
disdegna. Questo anno mi occuperò «Iella filosofìa tedesca, e epocialmente
di Kant, lo cui opere ho già tutte, oltre ad altre esposizioni, tra le quali
quella del Cousin. Sopra tutto ho in pn.'gio il vostro lavoro su Kant e SERBATI,
dove mi pare vedere il kantismo scolpito con tutP i suoi pregi e le sue
lacune. Mi vo procacciando i nostri filosofi «lei Risorgimento,
per occuparmene in un lavoro che ho in animo di stendere que-
st’anuo medesimo. Ditemi voi se le biblioteche di Torino, dove siete
stato, ne hanno qualcuno, e quale; perchè potrei chiedere al Ministro che
fossero di mano in ninno mandati a questa hibliot«^ca por studiarli...
Vi ricordo e rnccomando da ultimo l’affare della Metafisica G., Storia
della filosofia. Aristotile del Bonghi, avendo egli ora il tempo di
dedicarsi alla continuazione di quella stampa. Add.o, uno carissimo amico, e
ricordate ed amate Di Bologna, Il tutto rostro
£—5S-Svt*-Addio. Dal lavoro su Kant e Rosmini di Spaventa
ossia La filosofia di Kant e la sua relazione con LA FILOSOFIA ITALIANA (Torino,
rist. in Scritti filos.) Fiorentino mostra nel Saggio di avere ben
compreso il valore della categoria kantiana. Ma poco vantaggio potè certo
cavare dalla esposizioneCousifr^Li «fe filosofìa di Kano che è stata pure
tradotta in italiano da Irmctiera eredità, probabilmente, dei primi studi
di Napoli, avan alla conoscenza di Spaventa. Della tradurne
della Metafisica di Aristotele, che Bonghi pubblica a Torino, Fiorentino
insieme con Bonatelli, che allora gli è collega a BOLOGNA procura di
rendere possibile, con una sottoscrizione. resto della stampa, anzi la
pubblicazione completa, con hTristampa della prima parte; ed è a
deplorare che non ‘ S riusci», e che Jop» Bonghi ne .1*» »b.n. donato
il pensiero, quantunque la sua interpretazione non sia senza
difetti. TTT^ale che allora pubblicavano a Napoli Sancti e
Settembrini. Il corso è in effetti consacrato a Kant. Della
prolusione è notizia in quest’altra lettera, dove Fiorentino torna a lagnarsi
del silenzio di Fornari, dando a divedere quanto pur ne soffriva il suo
animo affettuoso: Carissimo amico, Io sono venuto qua a passarvi le
feste, ed ieri, appena, arrivato, vi ho trovato la vostra lettera
rinviatami da BOLOGNA. Aspetto con premura la vostra lunga lettera, ora che le
vacanze ve ne lasciano il tempo. Ho letto a BOLOGNA una prolusione su
Kant, di cui questo anno mi occupo precipuamente. È stampata a Firenze
in un giornale scientifico, elio ha per titolo “La civiltà italiana”,
e eh’è diretto da Gubernatis. Quando ne avrò gl’estratti, ve ne mando uno
subito. Se voi voleste scrivere qualche rosetta, o in qualche modo
valervi di questo giornale, so che Gnbernatis no sarebbe lietissimo, fc
un bravo, che io ho conosciuto, e che vi ammira molto. Sapete voi,
che, avendo mandato il mio saggio ad alcuni a Napoli, non ne ho avuto
neanche risposta! Che voglia dire, non so; ma mi par barbara usanza il
voler imprigionare la mente umana. La mia, non si lascia inceppare, e
rinunzio volentieri ad alcuno amicizie, quando queste non possono conciliarsi
con l’amore della verità. Por la soscrizione ili Bonghi vi rinnovo le
premuro, perchè egli sta aspettando che io gli rimandi i manifesti. So
come si vada incontro ad inconvenienti, ma noi non assumiamo nessun
obbligo personale. Addio, mio carissimo amico, ed amate Di Perugia,
Il vostro afet.mo sempre Fiorentino. La Civiltà italiana pubblica il
discorso di Fiorentino: Kant ed il mondo moderno; come pubblica di lui
stesso il saggio su I dia- 1 Cfr. quello che se ne dice nella
Filos. contemp., Ioghi di Rucellai; le lettere Stilla Scienza Nuova
di VICO (si veda) e il discorso
Dell’armonia del concetto d’ALIGHIERI come filologo, come storico, come
statista: saggi tutti ristampati più tardi, salvo il primo, negli
Scritti vari. Del discorso su Kant dimenticato conviene
riferire qualche pagina, la quale dimostra quanto FIORENTINO avesse
profittato della lettura dei saggi di Spaventa. Ecco, per esempio, come
pone il problema kantiano: jjji sperienzu prima di Kant è stata
smaltita siccome il fondamento più stallilo della scienza, o come le
colonne d’Ercole, di là dalle quali non è dato allo spirito umano
travalicare senza pericolo d’imminente naufragio. Kant riflette, clic la
sperieuza è tiu fatto, e ebe perciò non può essere primitivo; essendo un
risultamento, del quale si può e si deve cercare la guisa e la ragione
del nascimento. Egli adunque propone una domanda nuova nella storia della
tìlosoiìa. coni’è possibile la sperienzat E più generalmente
ancora: coni’ è possibile il conoscerei Con la quale domanda 1 orizzonte
della scienza si trova onninamente cangiato, e i vecchi filosofi
seriamente imbrogliati. Galluppi, che PRIMO IN ITALIA giudica convenevolmente
il movimento kantiano, si accolse di questa novità di problema, e con la
Bolita sua semplicità di linguaggio la espose così. Prima di Kant la
filosofia è dommutio .1 o scettica. Con Kant comincia una nuova forma, la
critica. E prima, difatti, i filosofi o ammettevano la sperienza, o no. Kant
uè l’nmmise, nè la rifiutò; ma dice: come si formai II problema così
mutato non versava più sull’esistenza del fatto, ma sul suo nascimento; e
cotesto è la mutazione più sostanziale che Kant reca in mezzo nella
scienza filosofica. La scolastica mutua or dalla tradizione religiosa, or
dalla storia, or finalmente dalla FILOLOGIA (Grice) il contenuto della
sua scienza: presuppone l’anima, il mondo, Dio, i loro attributi,
la loro origine, e vi attaglia una forma scientifica per palliare l’intrinseco
difetto. Cartesio se ne sdegna, e sopprimendo quel vuoto ingombro, fece capo
alla coscienza, dove credette trovare il punto stabile, sul quale
puntellando la leva onnipotente del pensiero si mettesse in grado di smuovere
il mondo antico, e di sfasciarlo. La filosofia sperimentalo sotterra tagli
ridusse lo spirito a tavola rasa, e vi disegna sopra le prime linee della
scienza nascente. Kant sorpassa l’uno e l’altra, e soffiò su tutto il
sapere precedente, perfino su la coscienza di Cartesio, pertìuo sulla
sperienza di Locke; essendoché entrambe contenevano degli elementi
variabili, ed egli, messo sull'avviso dalle rigide deduzioni di
limile] non vuole più far entrare nella scienza nulla elio avesse
sembianza di mutabilità. Esposte rapidamente la unificazione del
molteplice, onde nell’esperienza kantiana s’intuisce il sensibile e
onde si giudica per mezzo delle categorie le intuizioni, FIORENTINO
dimostra come la vera unificazione ancora non sia compiuta, essendosi
passati dall’ opposizione della materia e della forma dell’intuizione a
quella di intuizione e categoria. Il legame primitivo, ove si
rannoda il multiplo sì della sensibilità, come della intuizione, è
l’unità trascendentale della coscienza. E badiamo che non ci tragga in
inganno il nome medesimo di coscienza, di cui Kant si vale in due
significazioni ben differenti. Questa coscienza trascendentale ò
primitiva ed originaria; producondo gl’opposti, non può ella essere un
opposto. Se no, si andrebbe all’infinito. L’altra coscienza di soconda
muno vien contraseguata con la giunta d’empirica, ed è una fattura di
quella primo, come ogni altro fenomeno. Va costruita con la forma del
tempo, con le categorie di possanza, di causa, di relazione, e via via.
La coscienza empirica, insomma, ò posteriore assai alla coscienza
trascendentale, la quale sola ò unità originaria e feconda. E non è senza
ragione se ho ribadito questa distinzione, essendo capitalissima nel
sistema che stiamo abbozzando, il vero merito di Kant non è di avere
trovato i concetti a priori, ma di avere posto a capo della sintesi
quella eli’ ei chiama energia portentosa, vale a dire la unità sintetica
originaria della coscienza. L’illustre SPAVENTA lia con molto
aocorgimento messo in sodo questo punto, criticando la esposizione che SERBATI fa
di Kant. Non è gii che gli opposti sieno dati, e che lo spirito,
trovandoli, se ne impadronisca e li vada elaborando. Questo processo ci è
prima di Kant, ed egli lo sorpassa, vedendone la insufficienza.
Imperocché quale conoscenza potessi avere, posto che i termini, ond
ella si compone, fossero stati accoppiati per caso e alla rinlusaf
Data da uua parte l’intuizione, dall’altra la categoria, e poi lo spirito
che le sforza ad un’ unione innaturale, o per lo meno arbitraria. Non si
vede che il giudizio sarebbe un’imbastitura come quella che descrive
Orazio, e non già un processo dello spirito, il cui carattere
specialissimo è l’intimità? Se lo spirito adunque unisce gli opposti, è
perchè entrambi scaturiscano da una sorgente comune, e perchè il
riunirli è per lui una scria necessità. Ma Kant non è coerente a questo
concetto della sua energia portentosa. Confusa la coscienza
trascendentale pura con l’empirica, ritenne impossibile la
deduzione logica delle categorie, che ripescò perciò empiricamente
attraverso i giudizi; stralciò il pensiero dall’essere, facendo della sua
attività una forma affatto vuota; e finì nel noumeno inconoscibile.
E la conseguenza è giusta, ogni volta che si ammetti' un pensiero che non
pensa nulla, e, di rincontro, un essere che non può essere pensato. Se
non che lo sbaglio sta appunto in questa concessione. Un pensiero vuoto
non è: un essere non pensato non è. Sono due astratti, ai quali voi
accordate, con soverchia larghezza, forma e persona. Che vuol dir
mai cotesta cosa in sè, che fatalmente sfugge al nostro intelletto?
Cotesto essere oscuro, che brilla per la sua mancanza, e dopo balenato
alla mente, si cela per sempre? Voi diti' di non conoscerlo ed io vi replico
con 1’ Hegel, chi' nulla è più Incile a conoscere di questo punto oscuro.
Esso è l’oggetto del pensiero spogliato di ogni determinazione, vuotato
di ogni contenuto, ridotto alla mingherlina condizione il’ identità puramente
astratta. Or dunque non raffigurate in lui uuu creatura vostra?. Nè le altre
due Critiche riescono a sanare pienamente le conseguenze prodotte da
questa opposizione risorta tra pensiero ed essere nella Critica della
ragion pura. Nella stessa Civiltà italiana Fiorentino inserì una
recensione del primo di quei tanti libri che poi Ruffaele Mariano
venne compilando sui libri altrui : Lassalle e il suo Eraclito, €
saggio di filosofia hegeliana » (Firenze). Recensione benevola verso il giovine
autore, nella quale giova rilevare due osservazioni, che mostrano
ben determinate le due direzioni divergenti degli scolari di VERA (si
veda) da una parte e di quelli di Spaventa dall’ altra. Una è questa : «
Perchè chiamate rivoluzionaria, in senso di... retriva la filosofia di SERBATI?
Perchè dir filastrocca quelln del GIOBERTI? Questo acerbo procedere verso
due illustri italiani, quando anche si fondasse sul vero, non
sarebbe certo modesto consiglio il tenerlo. Nè veggo che l’essere
hegeliano debba di necessità far avere in poco conto le loro dottrine,
perchè la critica imparziale e seria, che l’illustre Spaventa ha fatto
dell’ uno e dell’altro, prova il contrario. L’altra è anche più
notevole. Ammesso come preferibile [a quello di Lassalle] il giudicio di Hegel
sopra Eraclito, non v’ha proprio nulla a ridire, specialmente su la
relazione che Hegel pone tra Eraclito e l’ultimo degl’eleatici? VELIA (si
veda) E forse vero che Eraclito segni un progresso sopra Zenone? Pare
che, Eraclito essendo stato prima di Zenone, la dialettica obbiettiva di
quello è apparsa alla coscienza speculativa prima della dialettica
zenoniana; onde l’andamento storico, per lo meno, sembra essere stato da
Hegel capovolto. Dico ciò, allinchè l’egregio Mariano si tenga in guardia
inverso la eccessiva fiducia nell’autorità di maestri, per grandi
che fossero. Le colonne di Ercole dell’ingegno umano. bisogna tenerle discoste
più che si può ; e se si potesse affondarle nell’oceano, tanto meglio.
Anche Spaventa è di quest’avviso. Fiorentino si accinse al suo lavoro su
Pomponazzi, pur continuando a BOLOGNA i corsi sulla filosofìa tedesca
moderna. E scrive a Spaventa: Mio carissimo amico, È trascorso gran
tempo che manco <li vostre nuovo, non ostante die vi abbia scritto
durante le vacanze, quando il Settembrini mi fece sapere ch’oravate a
diporto nella campagna. Ora che il oholèra si sente a Napoli, io sono
divenuto inquieto per causa di qualche amico elle vi ho, e più d
ogni altro per causa vostra. Levatemi da questa iuquietitudine
scrivendomi due parole che m’informassero della vostra salute. Io sono
tornato qui prima della ri-apertura di BOLOGNA, e vi ho riprese le mie
lozioni. Ho passate le vacanze qualche giorno a Ravenna, un po’ a
Firenze, un po’ a Perugia, e poi il più del tempo in villa.
Sto esponendo la filosofìa tedesca da Kant in qua ; e ciò alla Università.
Sto preparando una biografia ilei Pomponazzi ricavata dalle sue opero
medesime, per leggerla nella Società di Storia Patria, di cui faccio
parte. Se questa prima non dispiacerà, o non parrà inutile, ne farò
qualche altra di qualche pensatore più importante che abbia insegnato a
Bologna. Oltre l’Acbillini, chi altro mi suggerireste voif Forse potrei
farla ancora del Cromonini, che, stato a Ferrara, può dirsi delle stesse
provinole di Emilia: del Zabarella no, eh’è stato soltanto a Padova. Io
poi a queste biografie, elle leggerò nella Deputazione di Storia Patria,
aggiungerò per conto mio la esposizione e la critica del contenuto
filosofico dei loro libri, compiendo di ciascuno una monografia. Che ve
ne pare t ...Col medesimo ordinario vi spedisco un libretto
contenente alcune mie lettere su la Scienza Nuova. Le scrissi per
compiacere a De Gubernatis, che mi chiese qualcosa per la sua Civiltà
italiana. Non sapendo se abbiate o no avuto quel periodico, ve le mando
così radunato, come le feci estrarre; e vi prego di accettarla come
testimonianza della mia sincera stima ed amicizia. Addio
adunque, datemi presto vostre nuove, e ricordate ed amato Di
Bologna. Il vostro afi.mo amico Fiorentino. E questo il primo
disegno di Pomponazzi, la cui biografìa è prima inserita negl’atti della
Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna, e poi
riprodotta in capo al volum. Fiorentino, che diventa sempre più
intrinseco di Spaventa, torna a darne notizia all’amico: Io aspetto la
nuova ristampa della tua memoria su Campanella, perché essendomene
quest’ anno occupato nel corso scolastico, sono desideroso di vedere come
tu l’hai trattato. Ora sono attorno ad una monografia su Pomponazzi,
attorno a cui raggrupperò i più celebri suoi contemporanei. Me lo stampa Monnier.
Me ne dà cinquanta copie e 150 lire pei libri che mi sono occorsi. La
stampa del mio saggio è finita, e sono attorno a scrivere due
parole di conclusione, per le quali ho aspettato di rileggere tutto il saggio,
che non avevo riletto, nè ricopiato, dopo scrittolo. A Firenze, nella
Magliabechiana, trovai di POMPONAZZI (si veda) un manoscritto inedito col
titolo di Quæsliones ammostiate: le chiesi al Napoli. 3 Mi promise di
spedirle subito, ed ancora non le vedo. Ciò mi turba non poco, non potendo
sbrigare subito la stampa. Maledetta fiaccona degl’italiani! III Saggi ili
critica, Napoli, Cfr. Fiorentino, Pomponazzi Napoli, allora segretario generale
del Ministero della I. P. Uscito il saggio, Fiorentino, mandato che l’ha a Spaventa,
ne attendeva con la solita ansietà un giudizio. E giudice, in altro
campo, era stato quell’anno Spaventa a Bologna, tra ire, sospetti e timori, di
cui un’eco risuona anche nella lettera qui appresso riferita del
Fiorentino. È stato con Brioschi e Messedaglia a fare quella ispezione
alla Università, di cui parla Carducci in Ceneri c faville ; e aveva riferito
lui al Ministero. Mio Carissimo amico, Ilo ricevuto i
manoscritti di GATTI (si veda), che ho consegnato subito a Siciliani,
uonchè lo due dispense che mi mancavano, e di cui ti ringrazio vivamente.
Non ho visto incora l>e Meis, ma fari) di tutto per leggere la lettera
di venti pagine: 1 ci dovrà essere una epopea intera. Qui si
fa un grati dir male di te per la famosa relazione: io uon l’ho letta, e se non
la leggerò, non me ne sto al detto di nessuno. Mi si è detto cose, alle
quali, come puoi pensare, non ho potuto dar credito: tra le altre cose
che voi avete dato una patente d’ignoranti a tutta l’università in
massa, e che in difetto di scienza, si va in cerca di popolarità
nello associazioni politiche, lo per me, se fosBe vero il detto,
nou protesterei per l’ignoranza, che sento di averne una grossa
dose in corpo, nm protesterei per la popolarità, perchè non no ho avuto
mai gran voglia ; e se si acquista nei cliilie, ci vorrà un pezzo prima
che me ne tocchi un briciolo. Manco male se si acquistasse dormendo,
perchè allora potrei averci delle pretensioni. Fuori di scherzo, quello
che si bucina qui, e che ha prodotte molte ire, nò senza ragione se fosse
vero, La lettera a Meis che è pubblicala col titolo Paolotttsmo,
positivismo e raslonallsmo, c che é qui appresso citata. Si allude a una
Relazione da Spaventa presentata al Ministero della P. I. in seguito ad
una inchiesta da lui fatta in commissione con Brioschi e con Messedaglia,
a Bologna, iter ragioni d'ordine politico. Un articolo di Carducci su
questa faccenda, pubblicato nell'Amico del popolo, di Bologna, iami.
si può vedere nel volume teneri e faville: Opere, è qnell’aver messo
sotto nini tuie cntegorin, e tutti in un fascio, i professori bolognesi,
lo sono nn mezzo proscritto, perchè sapendomi tuo amico, o si guardano di
me, o mi tempestano a tutta furia. Lasciamo questa miseria.
Ho letto i documenti che Berti lui stampato della vita di Bruno. Il
processo veneto, se non e stato adulterato il contenuto, fa mostra di
poca fermezza, o non so persuadermene. Che cosa ne dici tu! Gli hai
visti! Ho tra le mani pure la seconda edizione delle opere di Comte, e
voglio leggerla tutta, perchè ne ho Ietto soltanto esposizioni, benché
assai larghe. Il mio saggio è finito, almeno le correzioni ultime le
mandai una settimana fa, ma ancora noi vedo. Appena usce, scrivo a
Firenze, che di là stesso te ne mandino mia copia, per far più presto. Tu
poi leggila col tuo comodo, e dimmene il tuo parere, quando potrai.
Capisco che hai molto da fare, o che non puoi tutto quello che
vuoi. Mi prometto di avere qualcosa di tuo pel giornale; qualcosa
del Settembrini, fosse anche tuia pagina. Siciliani spesso me ne fa
premura. Io non solo non ti ammazzo, ma ti ringrazio, e col vecchio adagio ti
ripeto: meglio tardi che inai. Non credo però a quel subito, con cui vuoi
darmi ad intendere che mi scriverai del lavoro di Labriola. Sii
contenterei che fosse tra nn mese. Hai avuto il libro del De Meis!
Dopo il Don Chisciotte non ho letto libro che mi avesse fatto rider tanto.
Le cause del riso sono spesso gravide di grandi pensieri. Mi piace
molto, ma molto. Qui l’hanno con lui tutti, Rossi perchè noi trova
abbastanza filosofo, le donne per essere state chiamate animali domestici,
e portino i bambini per essere stati ingiuriati Fiorentino, esaminali più
lardi gli atti del processo veneto, si confermò Infatti nel sospetto che
fossero adulterati. Vedi un suo scritto nel Oiorn. napol. di fllos. e
teli., Non saprei dire a qual lavoro si alluda. Il Dopo la laurea di Meis
per tignosetti. La contessa Gozzadini gli scrive una lettera, nella quale
si firma: “l’animale domestico di Gozzadini.” Addio,
mio carissimo Spaventa, veglimi bene come te ne voglio io Di
Bologna, 19 maggio ’68. Aff.mo tuo
amico Fiorentino. Spaventa dovette rassicurarlo sul contenuto
della famosa Relazione. Quindi quest’ altra lettera di Fiorentino: Mio
carissimo amico, Ero capacitato anche prima, che tu non potevi aver
detto tutta quella roba da chiodi di questa Università, che altri
diceva, ed i pih credevano, lo perù, come amico, mi tenui in obbligo di
informartene, non per conto mio, ma per tua regola. Tu puoi già pensarti,
che con gli altri ho detto, e gridato, e asseverato, esser impossibile
che tu avessi voluto, e potuto dire quello che non era; e elio la verità
poi non si può, nè si dove tacere. La tua lunga lettera mi ha fatto bene,
perchè mi ha snebbiato adatto la meute: il cuore, già s’intendo, propendeva
sempre a darti ragione, e non ci era bisogno di altri eccitamenti. Io dunque
non solo non ti ammazzo, ma neppure ti muovo un rimprovero, molto meno
poi per mie personali considerazioni, lo sono un misto di stoico,
di cinico, e di scettico, che di questi tre elementi non so quale
prevalga pih. Dal Ministero non voglio nastri, dagli studenti non voglio
applausi; dunque, mi sento in grado di resistere ad ogni tentazione. Ad
una sola cosa non resisto, ed è il bisogno di voler bene agli amici, e di
dir loro franca, ed anche brusca la verità. Tu avrai dovuto ricevere
a quest’ora una copia del mio POMPONAZZI (si veda); perchè io, vedendo il
ritardo di Monnier a spedirmene le copie, commisi ad un mio amico di
spedirne 1 Maria Teresa G., di cui scrive la Vi la 11 marito,
Gozzadini (Bologna, Zanichelli), con pref. di Carducci. V. pure Carducci,
Opere, una copia almeno a te ila Firenze stessa. Fa il tuo commotlo nel
leggerlo, ma poi dammene il piìl severo giudizio die tu possa, perchè da
nessuno me lo aspetto piìi aspro e più istruttivo. Chi mi dica: bravo,
non ini mancherà; ed anzi più me lo dirà chi meno me ne crederà degno, nè
io ho da peccar contro la modestia per accettarli, o per pronunziarmeli
io stesso; ma chi mi mancherà di certo sarà chi mi dica: qui hai
sbagliato, là avresti dovuto pensar meglio: queste pagine avresti dovuto
bruciarle intere intere. Kbbene, voglio che quest’uno non mi manchi, e
dovrai essere tu. Mettiti al naso l’inseparabile occhiale, aggrotta le
ciglia, prendi quel cipiglio mezzo tragico che hai nella fotografìa di
Napoli ; e per dir tutto in una parola, figurati di scrivere una pagina
di quella relazione, per la quale vivrai eterno tra gli archivi del Ministero,
e poi scrivimi un letterone quanto quello che scrivesti a Meis. Più male
parole ci troverò, e più te ne renderò grazie. A proposito, quella
tua lettera, con partito unanime, fu licenziata alla stampa, riseoandone certi
nomi propri, e certe espressioui che ricordavano il Candelaio di Brano. Io
mi occupo in alcuni articoli successivi dei tuoi lavori. Vorrei farne tre
o quattro, o quanti me ne verranno, per far notare lo sviluppo della
filosofia italiana secondo la tua critica, che a me pare una vera
scoperta. Ma aspetto prima di finire le lezioni, perchè tu sai che questa
rivista non è tanto facile. Addio, mio carissimo Spaventa, e veglimi bene come
te no voglio io Di Bologna Ajff.mo tuo
amico Fiorentino. La lettera di Spaventa, stampata nella Rivisiti Bolognese,
che allora Fiorentino pubblica con Albicini, Siciliani e Panzacchi, è quella a Meis,
col titolo Paolottismo, positivismo e razionalismo (rist. in Scritli
filosofici). Gli articoli che Fiorentino ha in animo di scrivere sulla scoperta
dello Spaventa, non furono più scritti. Ma egli se ne occupò
qualche anno più tardi in quello inserito nell’itoh'a dell’
Hillebrand. STORIA DELLA FILOSOFIA E poiché abbiamo accennato alle brighe
universitarie bolognesi del 1868, di cui fu tanta parte il
Carducci, diamo pure un altro curioso brano di lettera di Fiorentino,
diretta allo Spaventa poco dopo la sua partenza da Bologna, dove si serba
il ricordo d’una polemica di Carducci con Meis e con Fiorentino. Io sono
stato poco bene, parte per la stagione che corre, parte ancora per una
certa polemica, nella quale ci siamo trovati Meis ed io, e di cui non so
se ti è pervenuto rumore. Or dunque, hai da sapere, che il
Carducci, credendo dall’articolo di
Meis, intitolato Il sovrano, 1 offesa la dignità del suo partito,
gli scrive contro nell’Amico del popolo parole aspre. Gli da
dell’imbecille, chiama citrullerie le cose dette da Meis. L’ articolo non è
firmato ; ma io sapeva esserne stato autore il Carducci, per aver questi
scritto le stesse cose in una lettera particolare al Siciliani. s Risposi
io, dicendo... potersi combattere le opinioni, senza insultare le
persone. Carducci si rivolse contro di me una prima volta ; ed io lo
avvertii privatamente, che lo avrei jHinto sul vivo. Non si stette a
questo avviso, e ripigliò da capo una tirata contro di De Meis e di me ad
un tempo. Fiorentino replica, ed ha, a quel che sembra, l’ultima
parola. Ma, tutto ciò mi ha irritato, egli scrive nella stessa lettera,
ed il povero Meis n’è rimasto seriamente afflitto: dopo avuta la
rivincita, che TUTTA BOLOGNA approva, si è rinfrancato; ed ora Pubbl.
nella Rivista bolognese. Documenti dell’amicizia di Carducci per Siciliani
sono i giudizi del primo sul Rinnovamento della filosofia positiva in
Italia del Siciliani, In Ceneri e faville, 8. II, Opere, VII, 362-68: e
le affettuose parole Alla bara di P. Siciliani, in Ceneri e faville, s.
Ili, Opere è allegro e sta bene... Eccoti descritta la nostra
battaglia, eh’è finita con nostro decoro». Quegli articoli il
Carducci non li volle pili ristampati. Ma insieme con quelli del
Fiorentino sono stati rintracciati dal Croce, che ha così potuto tessere la
storia di questo aneddoto. 1 In un’altra lettera di due anni
appresso del Fiorentino allo Spaventa si legge ancora: Io sono sul punto
di rientrare in lizza col Carducci, che mi ha provocato con una nuova
lettera insolentissima. Questa nuova contesa, alla quale non ho potuto
sottrarmi, mi fa crescere il desiderio di allontanarmi definitivamente da BOLOGNA.
Fiorentino, infatti, si fa tramutare a NAPOLI. Ma non lascia Bologna quando
comincia a lavorare intorno a Telesio. Ecco infatti che cosa scrive
a Spaventa Mio carissimo amico, Sono passati sei lunglii mesi che uè ti ho
piti visto, nò ho avuto tue nuove, tranne questa che mi diede tuo
fratello, che tu eri stato a villeggiare negl’Abruzzi. Ora è
cominciato un anno nuovo, e voglio ritentare se tu, chi sa, volessi
pure incominciare una vita nuova. Dalla parte mia non voglio
mancare di mandarti i miei augnrii, tra i quali non ultimo quello di
scrivere un poco più frequentemente agli amici. Vedi, che non ho detto di
pensare o di voler bene ad essi, perchè so che per questo riguardo non ci
è bisogno di miglioramenti. Io quest’ anno mi occupo di Leibniz o
di Spinoza principalmente, poi dei seguaci, e, se mi avanzerò il tempo, di
Maebranche. Mi servo, oltre alle opere loro, di varii espositori e
critici, tra i quali della stupenda storia di lCuiio Fischer. Vedi CROCE,
Documenti carducciani: una dimenticata potèmica tra Carducci, Fiorentino e
Mele, nella Critica Avrei intenzione di scrivere quulclie cosa sul
movimento telesiano, ed ho scritto per avere alcuni manoscritti che
riguardano TELESIO, e che si trovano parte costà, parte a Firenze. 1 lo
aspetto sempre il tuo parere sul mio libro; parere, che per essere più
aspettato, e piìì pregiato di tutti, si fa lungamente desiderare. Ma
verràf Lo spero. Hai letto che cosa ne scrisse Franti sul
Centralblatt? Egli stesso mandommi con molta cortesia un numero di quel
giornale, dove ci era la sua rivista sul mio libro. Con De Meis ci
vediamo spesso, ma egli non è in grado di darmi tue nuove, più che io non
sia riguardo a lui. La neve ieri si è fatta vedere la prima volta in
città: tu però quest’anno non verrai a goderne lo spettacolo. Io quasi
quasi sarei tentato di pregare che a qualche professore saltasse in
capo di tribuneggiare per la tassa del macinato, per vederti comparire in
commissione straordinaria. Ma non vorrei poi il danno del prossimo: in
questo sono cristiano. Tra questi giorni scriverò a VERA (si veda) per
invitarlo a scrivere qualche cosa su la nostra rivista.Siciliani, con le
suo velleità ortodosse, n’ò uscito, come saprai, ed io ed Albicini
vorremmo tenerla in piedi, anche uu po’ più decorosamente. Con te non ci
vogliono inviti; ma, lo so purtroppo, non c’è neppure da far grande
assegnamento. Addio, mio carissimo, scrivimi qualche riga, anche per
dire a chi mi doumnda di te, che sei vivo o sano. Di Bologna Aff.mo
tuo amico Fiokentino. L’articolo di Franti sul Pomponazzi usce nel
Centralblait, e ètradotto dal Tocco e pubblicato in Italia, in una difesa
dell’opera del maestro contro gl’attacchi della Civiltà Cattolica (nella
Rivista contemporanea di Torino. Di TELESIO si torna a parlare in
una lettera. Tocco ti ha mandato la prima dispensa 1 Vedi Settembrini,
Epistolario, con pref. e note di Fiorentino, Napoli. delle sue
Lezioni, 1 e so che aspetta il tuo
giudizio. Io ho cominciato a scrivacchiare le prime pagine di un
lavoro sul Telosio, che non so come mi potrà riuscire. Aspetto la tua
memoria completa su P Etica di Hegel. 1 Quanti più ne conosco, tanto più
ti stimo e ti voglio bene. Dimmi ora una cosa; vorrei dedicare a te
ed a De Meis questo mio lavoruccio sul Telesio, quando' sarà
finito: accetteresti tu la dedica? Tra me e te non ci sono timori di
adulazione, o di altri secondi fini : è una pubblica professione di stima
e di amicizia, che mi piacerebbe di fare...». Il primo volume del
Telesio è dedicato, infatti, al Spaventa: non solo come
testimonianza di amicizia, ma come dovere di gratitudine e di giustizia: di
giustizia verso chi aveva scritto i saggi su Bruno e su Campanella ; di
gratitudine per l 'insolita luce che scintillava da essi, e da cui il I
iorentino era rimasto colpito. In questi studi storici sui filosofi
italiani del risorgimento il Fiorentino infatti non fu, come s’è detto,
se non uno scolaro dello Spaventa: da lui avviato e da lui guidato.
Ecco come cou lo Spaventa si consigliava per prepararsi al primo corso di
Filosofia della storia da tenere a Napoli: Camerino.
Mio carissimo amico, Ti Borivo da Camerino, per sapere come stai,
poiché non mi iti dato di rivederti a Bologna, dove sperava poter passare
qualche giornata cou te. Avevo anzi desiderio di discorrere 1 F.
Tocco, Lezioni di filosofia ad uso de’ Licei, Bologna, R. Tipografia, con pref.
di Fiorentino. 1 il proemio a gli Studi sull'mica di Hegel usce nella
Riv. bolognese; ristampalo con gli Studi negli Atti della R. Acc. delle
se. mor. e poi. di Napoli; e il tutto ripubblicato da me col titolo di
Principti di Eitca (Napoli, Pierro). teco seriamente, per sapere che cosa
avresti creduto meglio, ch’io potessi insegnare nel corso dell’unno
venturo in coleste Università. Tu sai meglio di me i bisogni, i
desideri!, ed anche i gusti di costà, lo per me vorrei far poche chiacchiere
sui generali, e, detto quel tanto eli’è indispensabile come introduzione,
entrare a dirittura nel tema, che sarebbe, salvo tuo avviso in contrario,
il mondo grimo. Dol mondo orientale so poco: avrei bisogno di studiare
prima; ed il tempo, per questo anno almeno, mi manca. Della Grecia
conosco qualche cosa, e con questi tre mesi di studio mi preparerei
suffiiiien- temente. Che cosa ne dici tu? Quali saggi mi consigli di
leggere? lo sto rileggendo gli storici greci; e dopo averli riletti
testualmente, uii gioverò di Grote e di Curtius. Per la parte letteraria
ho Milller (Ottofrodo); per le religioni, la Storia di Minirv; PER LA
PARTE FILOSOFICA, ZELLER; per arte greca forse mi gioverebbe il
Winckelmann, a noi so, perchè ancora non lMio lotto. Da tutti questi
potrei attingerò, si sa, i materiali; ma U resto è da fare. Le poche
linee di Hegel nella Filosofia Mia storia mi servirebbero di traccia: sui
tuoi consigli poi faccio largo assegnamento. Intanto comincia dal darmene
qualcuno, e fa presto. Tutto tuo Fiorentino. Aggiungo qui
appresso un altro gruppetto di lettere o frammenti di lettere dello
stesso Fiorentino a Spaventa, di cui trassi copia alcuni anni fa dalla
carte dello Spaventa ora depositate presso la biblioteca della
Società napoletana di storia patria ; poiché anche queste lettere e
frammenti / gettano qualche luce sugli studi, sulle passioni, sulle idee,
che si agitavano in Italia intorno a Spaventa (Pisa). Ieri sera parti di Pisa
Silvio, ed a quest’ora è a Milano, e domani parlerà a Bergamo. Si
trattenne con me la giornata d’ ieri, ed arrivò qni avantier- sera. Sta
benissimo, e me ne sono consolato tanto. Gli dissi elle ti avrei scritto
stamattina ed al solito ti mando questa lettera col liciti. 1 K la
tna lunga lettera? 15 rimasta tra i pii desiderii, di cui è lastricato,
dicono, 1’ inferno. Io ho scritto una risposta all' accademico linceo
Pietro Hucione. Si sta stampando a Napoli, e vorrei che tu ne guardassi
le prove prima di pubblicarsi. Ne ho scritto al Zumbini, perchè te la
mostrasse. Gli ho fatta una lavata di capo delle mie solite.La
presunzione e l’ignoranza in Ferri si bilanciano tanto, che non so a quale delle
due dare la preferenza. Aspetto tua lettera dopo letto questo articolo: mi
preme sapere il tuo giudizio, e ti do piena facoltà di mutare, e di
cancellare anche qualche cosa, die non ti paia conveniente, o
inesatta. (Portici). Ieri tornai da Soma, dove lasciai Silvio che
sta benissimo. Trovo qui una lettera di Zeller, clic mi annunzia la sua
venuta a Napoli. Oggi P ho visto, ed ho insieme saputo da Labriola, che
tu sei a Maddaloni. Vuoi vederlo? Oggi si è parlato di te, ed egli
desidererebbe di conoscerti di persona, come ti conosce di fama. Dimora
questa settimana. (Pisa) Prima che tramonti l’ultimo sole ili questo anno,
e sta già per tramontare, voglio scriverti. Il tuo ostinato silenzio
avrebbe scoraggiato ogni altro, non me, ohe quando si tratta di te, il
peggio che possa pensare è, che il calamaio l'abbi o smarrito, o asciutto
come la sabbia. Kccoci ora intesi : tu taci, io scrivo. Io sto bene,
e tutti di casa pure, salvo la Tuta 3 eh’è un po raffreddata. E tu? E
donna Isabella? E Camillo e la Mimi f 4 Speriamo che stiate bene, ed
auguriamo che stiate meglio. Pisa
0 ’* malenla lico, che insegnava nella Università di lll0R0,
'° Luigi Ferri, cui era sialo tra gli amici dello Spaventa applicato tale
nomignolo dopo elle Vittorio Imbruni nel Olorn Napol. di filo.,, e leu,
aveva rilevato lo strafalcione dal j,, commesso nel trascrivere f.V.
Antologia) l'epitrrafe della tomba del Cusano in S. Pietro In Vincoli
leggendo: Promise* Pelei lìucionts [invece di retri — bucionisj non
fefetut eum HestItuta Trebbi, moglie del Fiorentino. Isabella
Scano moglie di Spaventa; Camillo e Mimi tigli. Ln disfatta del nostro
partito mi ha commosso non por me, che sai quanto io stimi il genere
umano in massa; ma pe miei amici, per tuo fratello specialmente, che non
ha alte vita, si può dire, che la politica. Ne sono stato
costernato, ancora è scemata l’impressione. Nicotor» è dunque 1
arbitro dell’Italia, e tutti, o quasi, gli si curvano, gl. si
prosternano innanzi. Quanta viltà 1 Quanta corruzione! Vaie il pregio
< curarsi del prossimo! E una terribile domanda : piò si conosce
il moudo, e piti si devo disprezzare: Leopardi non aveva torto. Ma... c’
è un ma; ed io ti confesso che non mi “,re “ do - con tutte le ragioni in
contrario. Mi sono chiuso, vivo tra. miei ed i libri, non vedo nessuno,
non conosco e “ conosciuto, e mi sento beato in questo silenzio ed
in questa oscurità. 11 mio Niuarello cresce eh’è una delizia, ad ha
tonto alletto e tanto accorgimento, che mi diverte e mi ristora,
tess’io vederlo giovane fatto come il tuo (.umilio Non Io perchè,
mi sento ora più legato alla vita, come non Cì iTn povero 1
Settembrini f A casa mia ci fu lutto
come se fosse morta persona nostra: lessi la notizia su la Gazze a
dell’Emilia, ed insieme appresi la scondita di bihio. colpi in una volta.
Ma Silvio tornerà alla Camera, e al Ministero, se il senso dell’ onestà non
sarà spento nel nostro nomilo ; il povero Settembrini non tornerà
piu. Penso di scrivere per lui un articolo sul Giornale napoletano;
è la sola cosa ch’io possa fare per lui. Ma lasciamo questo tr Che3
U rfacendo t lo sto scrivendo certe lezioni di filosofia pei Licei: il
Morano mi è stato addosso, e finalmente mi ci sono piegato. È cosa molto
ardua, ed il noti poterti allargare quante vorresti, toglie gran parte
della scioltezza del pensiero, ed anche dello stilo. Farò alla meglio e
quel eli’è peggio, in fretta. 11 Morano commise lo sbaglio di un
f..U, munirò .. «,> fogli, ora con la spada alle reni
ni’...calza per la tonti n u azione. i n settembrini mori
addi 3 . Fiorentino non scrive poi l'articolo di cui parla in
questa lettera; del rimpianto scrisse P°',, u Scriui va .u di tener,
polii, ed atte (Napoli, Morano; e l’Epistolario, premettendo
agl. uni e all'altro belle e affettuose prelazioni. All’ Università
faccio nu corso di Etica, ed lio riletto la tua memoria sull’etica di
Hegel. Hai visto il giudizio portato da Berlini 1 su di te, o di Hegel f
Ci ho avuto molto gusto, perchè la sua autorità non è sospetta, come In
mia, appresso la filosofia italiana. Povero Bortini, spento anche lui
1 Scrivimi, se puoi, e se vuoi: lascio la cosa al tuo arbitrio; non
cosi, il volormi bene che in mezzo a tanti disiugauni mi preme e mi giova
assai. Alla tua famiglia di tanti augurii anche da parte
della mia, e tu credimi sempre, e non a parole. S. Vedi se puoi
sorivere qualche cosa pel Giornale napoletano. (Samhinse). Ed
ora un’altra notizia. L’arciprete Pompa mi perseguita per causa tua: ha
scritto su l' Eburino, giornale che si stampa ad Elicli, una
recensione di un uuovo capolavoro artistico dell’Acri, e dico che io sono
votato a te anima e corpo. Fin qui non erra : ma il reverendo, possessore de’
documenti della storia antidiluviana, non sa farsi capace della mia
polemica contro il vice-gesh, ed il vice- Fornari; cioè contro Fornari, ed
Acri. Quest'ultimo, dopo di aver ponzato altri 14 mesi, è venuto
fuori con un opuscolo su Spinoza ; non so che cosa dica, e come c’entri
coi giudizi su la filosofia italiana, ch’egli doveva convalidare. Non ho
nessuna intenzione di rispondere, qualunque sia il libro, che ancora non
conosco, se non per la receusione dell’arciprete noetico. Su Berlini v.
lo mio Origini della fllos. contemp. in Italia. Il giudizio cui alludo
Fiorentino, é contenuto in una lettera di Berlini a Merlo, pubblicata nel
Giornale napoletano di fllos. e letl., dov’é detto. Vi ringrazio di
avermi mandato il saggio di Spaventa, che io considero corno il più serio
e il più chiaroveggente degl’Hegeliani d'Italia. Volendo lo terminare un
corso di FILOSOFIA elementare ad uso de’ licei mi sono creduto in obbligo
di tener conto delle dottrine di quel valentuomo, tanto più che io sono
sempre in questa persuasione, che II restringere il vocabolo scienza a
significare puramente i risultati dell'esperienza, dell'osservazione e
dell’induzione, come si fa oggidì, negando ogni valore scientifico alle
discipline speculative, sia non solo arbitrario, ma contradittorio.
Quindi io credo che sla salutare un ritorno ad Hegel, o per dir meglio,
al suo metodo, e a quella sua assoluta, e direi quasi eroica fiducia
nelle forze della ragione umana. STORIA DELLA FILOSOFIA (Pisa).
Prima di scordarmi, ae hai portata la Vita di BRUNO, 1 dalla al Betti che me
la porterà: se no, mandala a Domenico Morano, affinchè me la
l'accia pervenire. li Bruno si sta copiando, e dentro questa
settimana comincerò a mandare il manoscritto. Spero che tu hai concertato pei
caratteri, pel formato, per la carta. Se non avessi ancora stabilito
niente, scrivo che aspettino Beuz’altro il tuo ritorno. Il
Peipers mi ha risposto che a Gottinga si conserva soltanto il manoscritto dell’Oratio
coneolatona; ma non mi dice neppure s’è autografo. Quest’orazione io la
trovai a Roma tra la collezione degli opuscoli del Cardinal Valenti, ed
è rarissima. Vale la pena di far veniro il manoscritto? Nota che a
Gottinga, la copia stampata non l’hanno neppure. L’edizione del
Gfrorer ! non si trova in commercio: Zeller uii ha mandato la sua, la quale
però è mancante della quinta dispensa. Ne ho data commissione, ma non so
se mi riuscirà pescarla. Ho scritto per l’edizione del Tugiui, Ve
Umbrie idearum. Ho riscontrato Buhle: non dice nulla di manoscritti:
porta un catalogo delle opere abbastanza esatto. Tovo qualche altra
notizia su Bruno uelPAoidalio. Dopo che tu partisti di Roma, riseppi che
nell’archivio della congregazione di San Giovanni decollato c’è la
notizia del giorno della esecuzione di Bruno, e che questa data non
corrisponde a quella generalmente ritenuta. Mi è stata promessa una copia,
benché quei fratacchioni non vogliano far supero nulla. La notizia
aggiunge, che a nessun patto si volle convertire. Come sai, questa notizia
è un documento autentico, perchè finora non c’ è altro che la lettera di
quel furfante dello Scioppio. I.a Vita scritta da Berti (Torino,
Paravia). Ossia il volume degli Scritti latini di BRUNO, pubblicati (frontespizio) da Kr. Gfrorer a Stoccarda.
Cfr. la pref. dello stesso Fiorentino alle Opere latine di BRUNO, ed. Naz.
Il doc. pubbl. in facsimile nel voi. Ili delle Opere latine del Bruno a
cura di F. Tocco e G. Vitelli (Firenze). Inoltre il cav. Podestà 1
mi disse, che a lui orati venute sott’occhio parecchie carte mauoscritte
concernenti il Bruno: non sapeva però dove. Cercai una giornata intera,
ma ce ne volevano delle dozzine di giornate, ed io avevo fretta di
tornare. Il Podestà mi promise di continuare le ricerche: se no, ci
andrò io per lina settimana. Mi ci sono messo, o voglio
riuscire. Tornato tjiti, trovai Nino ammalato di febbre gastrica:
comparvero lo macchie difteriche; in un giorno si pennellarono tre volte;
due altre volte il giorno appresso: disparvero. Ma come fossi stato io
d’animo, tu puoi pensarlo. I nervi mi ballano ancor», o tra giorni
andremo in campagna, in una villa che ho trovata in iptel di
Lucca. Ilo avuto i titoli di Bàrbera, 5 quelli del Siciliani non
ancora: conosco gli uni e gli altri; ma r/itid agenduml Sono tra
l’incudine e il martello, e non so a qual partito appigliarmi. E tu
dimorerai a Napoli? Ovvero andrai in campagna, e dovei Vorrei saperlo. LABRIOLA
(si veda) mi mandato un suo saggio sulla libertà; e vorrebbe ne dicessi
qualche parola: mi ci trovo imbrogliato. Capisco il Labriola, quando
parla, non lo capisco quando Bcrive. Non ha stabilità di pensiero,
ondeggia in aria, ed ha la pretensione di parere elaborato, come egli mi
scrive. Capisco Herbart, non capisco lui. L’oscurità non è nelle
parole, o nello stile, è dentro la testa. Ilo letto il discorso di
Silvio, e poi Insita sdegnosa lettera all’Opinione, tritai maturità ili
pensiero nel primo, e qual forza di carattere nella seconda! Il discorso
appartiene al mondo moderno, ma la lettera è di altri tempi, ed ora non
tutti possono gustarla. Salutamelo tanto, anche da parte
della mia famiglia, che fa lo stesso con te. 1 11 bibliotecario
Bartolomeo P. <m. noi 1910), allora nella Vltt. Emanuele di
Roma. Bàrbera, che è professore di filosofia morale nella R. Università di
Bologna. Del concetto della libertà, studio psicologico, nell'Archivio di
statìstica (risi, in Labriola, Scritti cori, ed. CROCE (si veda), M’ero
dimenticato di raccomandarti Persiani. È impaurito, perché il relatore 1
non sei tn, ina un lombardo (forse Teneaf), e par che dalla Lombardia non
si riprometta gran che di bene. Son certo però che tn potrai
njutarlo sempre (Pisa). Avantieri ti scrive a Napoli, ed ora avendo
saputo che Betti ò stato chiamato per telegrafo, ti rescrivo da capo, e ti
manderò questa lettera per mezzo suo. Io non gliela posso portare di
persona, perchè sono alquanto infreddato a causa della lezione d’ieri. Tu
che sei la fenice dei presidenti, specialmente quanto a prudenza, vedi se
non entra fra le attribuzioni presidenziali quello che ti chiedo
io. Ho bisogno di venire a Roma, perchè il primo volume è finito, e
per continuare la stampa voglio esser certo che il ministro non adduca
cavilli: nel qual caso pianterei 11 la baracca. Premesso ciò, e visto e
considerato che il Ministero ha premura pel Siciliani, e poca o punta
premura pel concorso di Torino, visto e considerato, che sta alla
chiaroveggente perspicacia del Presidente il decidere se necessiti la
convocazione del concilio: io riproporrei che tu ci convocassi; che,
convocati nell’ interesse del pubblico erario, stimoli i padri ecumenici
di Roma a finir la eterna questione di Torino; e son certo, come ogni
dottor Pangloss, che tutto anda per lo meglio in questo perfettissimo
mondo, tranne il mio raffreddore che sempre piò s’inasprisce. Ed ora
che ti ho detto il mio desiderio, tu con quell’occhio critico che ti
rende (che cosa dico!) che ti rende piuttosto singolare che raro, farai
quel che crederai. Ed orn da capo, ma su di un altro argomento, una
notizia. Nell’ultima puntata (stile mamianico) della Filosofia
delle scuole italiane, il sullodato Conte scrivendo all’amico
Ferri, sai che cosa gli dico f Che in tutta Europa (le pelli rosse e
gli Zulus non ci vanno compresi) a parlare di Platouo e delle idee
non ci sono rimasti altri che loro due. Povero Platone! Chi glielo avrebbe
detto, che dopo tante feste, e tanti conviti, Nel Consiglio Superiore
della P. I., di cui Tenca, come Spaventa, fa parte, e da cui Persiani aspetta
1’abilitazione all' insegnamento. tanti commensali (a 20 franchi
l’uno) che lo ringiovanirono, lo restaurarono, lo rinnovarono, oramai,
finita la digestione del pranzo, ognuno lift preso la sua via e di idee
non ne vuol sapere nessuno più? Chi avrebbe creduto che perfino
quello ragazze, tanto belline, tanto plutoniche, si son buttate
anche loro al materialismo 1 1 Ah ragazzo, ragazze: da voi me lo
aspettavo, che sareste rimaste platoniche lino ad aver trovato un marito,
o un facente funzione; ma Finali, Monabrea, Borgatti, tutta gente massiccia,
chi avrebbe mai creduto ohe avrebbero lasciato nelle peste il Conte ed il
suo illustre oommilitonef Vista la brutta china, direbbe Sella, io
proporrei (il raffreddore mi ha dato un diluvio di proposte) che ROVERE
(si veda) e Ferri siano impagliati, e ben conservati nell’atrio
dell’Accademia de’ Licei con questa memore iscrizione. QUESTI BIPEDI IMPLUMI
ULTIMI DELLA SPECIE ESTINTA RIMASERO platonici, ESSI SOLI IN
EUROPA DOPO IL PRANZO PLATONICO Dopo della qual cerimonia vorrei che
l’Accademia prelodata a voti unanimi incaricasse il poeta pindarico B.
Spaventa perchè ne celebrasse condegnamente l’eroismo. E diamine
1 Alle Termopili sono treceuto finalmente, eppure Simonide s’incarica
di cantarne: qui si tratta di line soli, in Europa, non contro schiere
barbariche, ma contro eserciti di dotti, e non ti paro che ci sia più
materia di canto? Ridettici bene, e poi dimmi il tuo avviso.
Tu duuque hai leggicchiato il mio amico Marino! 5 Beato te, 1
Scolare dell’ Istituto superiore di Magistero, allora fondato a Roma: le
quali — era la prima volta che si vedevano tante signorine in una
Università frequentano alla Sapienza le
lezioni di Berti. Su questo pranzo v. le mie Orig. della fllos. contemp. Una
critica che Marino (che è poi professore di filosofia morale a Catania)
pubblica degl’Elementi di fllosofia di Fiorentino. che hai tanto
tempo da marineggiare. Io l’ho qui il suo libro, ma non mi è avanzato un
briciolo di tempo: ed ho una sua lettera autografa, che impaglierò pure.
Povero! Mi ha scritto con una ingenuità, ohe se mi fosse vicino, lo
abhraccerei. Abbracciarlo sì, ma leggere no. Non gli ho neppure risposto,
ed ho fatto male. Volevo leggere prima e poi scrivere. La bestia che sono
stato! Bisogna fare il rovescio: uè senza un perchè i metodi moderni
fanno precedere la scrittura alla lettura. Berti, p. es., fondatore della
moderna pedagogia prima lm scritto lo suo opere, e solo da qualche mese
iu qua, a quanto mi assicurano, si sta esercitando nella lettura.
A proposito, vorrei venire a Berna per informarmi da lui, perchè
Camoeraceneie, che vuol lire di Cambrai, egli l'ha tradotto della
Sorbona: facendo poi una dottn osservazione, che cioè Bruno or* saltato a
piè pari dentro la rocca dol1’aristotelismo eco. E poi vorrei sapere,
perchè dice che il De immenso, è un libro, uno tA’ tanti in cui è divisa
l’opera De monade, numero et figura; quando il De immenso ole. contiene otto
libri, ed il De monade, che sarebbe il contenente, non contiene nè
otto, nè due, perchè è un libro solo, unico tiglio di madre
vedova. Sono piccoli nèi, lo so, ma che dimostrano una piccolissima
cosa: il precetto pedagogico che testò avevo 1’onore di dirti, cioè
ch’egli prima scrisse, poi lesse ; o forse scrisse, e poi spese, nello
stampare, il tempo che doveva impiegare nella lettura. Barzelletti 1
però assicura eh’è il gran capolavoro della critica italiana : così mi
han dotto, perchè io, al solito, non 1’ ho visto; e poiché 1’articolo è
tradotto certamente dnll’inglese nella lingua degli Zulus, io mi tiguro la
festa che faranno quegli eruditi di laggiù. A furia di scrivere, mi
sono snebbiato un poco il capo, ina temo forte di averlo annebbiato a te;
legge di compensazione. Quando io mi trovavo a discorrere di FILOSOFIA con
Berti, rimanevo muto: tu sei più fortunato di me, hai il pretesto di
andare a fumare. Io che ho abborrito sempre il [Nell’ art. sulla FILOSOFIA
IN ITALIA pubbl. in una rivista inglese, e poi tradotto nella Muova
Antologia] tabacco, »e tornassi deputato, per non dovermi ingoiare quelle
forti dosi di FILOSOFIA scientifica, che mi somministra il nostro BERTI
(si veda), m’imparerei a fumare. Meglio lo stomaco sconvolto, elle il
cervello come un mulino. Spero bene però che non sono costretto a nessuno
di questi tormenti. Non mi dicesti se Morano ti da o no la prima
parte del Manuale ili moria della FILOSOFIA. Fattelo ilare, e
leggicchialo: invece di Marino, potresti dure un’occhiata al saggio mio. Vorrei
sapere se quel tanto è sullìciente per la coltura generale, o s'ò dippiit,
o di meno. Mi servirebbe di norma per le altre duo parti (Portici). Ha
lettera da Zeller, che ancora ò a Roma, e seppi del viaggio che faceste
insieme felicemente. M’incarica pure di dirti tante cose per la lettera
che poi gli scrivesti da Napoli. Egli è in giro dalla mattina nlla sera,
e crede che noi ci vediamo quotidianamente, e non che siamo a due poli
opposti. Ha la ricetta: si è fatta la bobba, ma non li’ è venuta
fuori la storia delle prove dell’esistenza di Uio. Per un concorso a una
cattedra universitaria, della cui commissione fa parte Fiorentino ed è
presidente io SPAVENTA, questi lo prega di raccogliere gl’appunti per una
relazione sulla voluminosa Storia delle prove dell’esistenza di Dio di Bobba. Fiorentino,
da Pisa gli risponde. Letto il tuo, piò volte espresso, desiderio, ho posto
mano alla lettura del Itobbu. Un corto estro maccaronico mi invase
alla prima pagina; ma ho lasciato il poema lutino ai primi due versi e
mezzo. Eccoteli: Iufainem, liertrunde, iubes supportare laborem, Insipidimi
scilicet putidumqiie ingoiare bobatam; Obediain tamen etc. Esto
prendendo appunti; ma che diavolo vuoi appuntaret Finirà prima la pazienza
mia, che le sue sciocchezze. È un pover’ uomo, e noi uccideremo un
morto. (Pisa. — E poi c’è il secondo libro della Legge morale di Crescenzio: il titolo è Francesco
Fiorentino. Te lo saresti sognato eh’ io dovessi diventare nn secondo
libro della legge morale! Neppure per idea: la Puglia fa
miracoli. Ma la cosa non Unisce qui: il terzo libro sarai tu. 1 u in
persona! con gli occhiali, con gli stivali alla prussiana, tu sarai un
libro di un’opera. Non so se l’opera avrà molti altri libri: a
congetturare dall’opera de intellectn dello stesso autore, ch’era divisa
in 100 libri, par checi debbano entrare il mellifluo D’Èrcole,
il veronese Bertinaria, ed il truculento Ferri, con parecchi altri
personaggi minori. Ogni libro costa 20 centesimi: ed io per ora sono venduto
a questo prozzo : tu iorse salirai a cinque soldi ; o calerai a tre,
secondo che P opera seguirà il processo ascensivo o il
discensivo. Il bello consiste ne' documenti. Nella copertina 1 autore
dimostra che io sono causa di parecchie depredazioni e grassazioni nei pressi di
Casale. La mia influenza venefica s è esercitata, per non so quale
selezione, su la provincia di Ales¬ sandria: e la tua! Probabilmente
verso Girgenti, o in quei pressi. Che non ci sii stato non preme, l’etica
hegeliana è come la filossera, si estende per salti di 70 chilometri la
volta. Delle stroncature, come oggi si direbbe, dei Crescenzio ormai chi
se ne ricorda più ? Ma c’ è sempre qualche De Crescenzio in giro, pronto
a dimostrare, come quattro e quattro fanno otto, che il tal filosofo
o il tal altro sovverte la legge morale, il buon senso, o le leggi
fondamentali della logica ecc. Ma il filosofo può accogliere siffatte
dimostrazioni con lo stesso buon umore del Fiorentino. Intorno al
Fiorentino v. le mie Origini della filosofia contemporanea in Italia. Giovanni Gentile. Keywords:
Reale Accademia d’Italia, what does ‘fascista’ applies to – philosophically? To
‘state’ – how is it defined philosophically? Opera complete frammenti di storia
di filosofia 3 volls -- - Refs.: Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice – Luigi Speranza, “Grice e Gentile: implicatura conversazionale” --
Conversation and inter-subjectivity. – The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza. Gentile.
Luigi Speranza -- Grice e Gentile: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Trieste – filosofia
triestina – filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo triestino. Filosofo friulese. Filosofo
italiano. Trieste, Friuli Venezia Giulia. Grice: “I love Gentile; like me, he is interested in
Aristotle’s immotum motor, and the idea of number in Plato – but he extends his
views to all the rest of philosophy of language; if Vitters wrote a ‘trattato,’
so did Gentile!” – Si laurea a Pisa sotto Carlini. Insegna a Mantova, Vigevano, Padova e Trieste. Fonda
il Bollettino filosofico. Considerato il fondatore della "scuola
padovana" di metafisica neo-aristotelica.
Altre opera: “La dottrina platonica delle idee numeri e Aristotele” (Pisa:
Tip. Pacini-Mariotti); “I fondamenti metafisici della morale di Seneca” (Milano:
Vita e pensiero); “La metafisica presofistica; con un'appendice su Il valore
classico della metafisica antica, Padova: MILANI); “La politica di Platone,
Padova: MILANI); Institutio: sommario storico di filosofia dell'educazione,
Verona: La Scaligera); “Umanesimo e tecnica, Verona: Arti grafiche Chiamenti);
“Bacone, Brescia: La Scuola); “Didattica: testo ad uso degli istituti
magistrali e dei giovani maestri, Milano: Marzorati); “Filosofia e umanesimo,
Brescia: La scuola); “Il problema della filosofia moderna, Brescia: La scuola);
“Come si pone il problema metafisico, Padova: Liviana); I grandi moralisti,
Torino: Edizioni Radio Italiana); “La riforma silenziosa della scuola: il
completamento dell'istruzione primaria ma inferiore, Bologna: G. Malipiero); “Se
e come è possibile la storia della filosofia, Padova: Liviana); “Storia della
filosofia -- Periodo antico e medioevale -- Dal Rinascimento fino a Kant -- La filosofia
contemporanea -- Padova: RADAR); Saggi di una nuova storia della filosofia,
Padova: MILANI); Breve trattato di filosofia, Padova: MILANI). Dizionario biografico
degli italiani. G. occupa sicuramente un posto importante nella storia della
filosofia del secolo scorso, ma – se fin dall’inizio non vogliamo avanzare
discorsi di carattere celebrativo o commemorativo, quanto innanzitutto
teoretico – forse dovremmo dire, più correttamente e semplicemente, che egli
occupa un posto importante nella storia della filosofia. Il senso di questa
affermazione, e la ragione per cui vale la pena di rinnovare, anche in questa
sede, la riflessione sul maestro patavino, è che egli ci rimette davanti alla
struttura essenziale del filosofare. La sua concezione della filosofia come
problematicità pura si di-mostra infatti quale dice di essere, veramente
classica, in quanto, evidenziando in tale problematicità quella che non può non
essere con-siderata la caratteristica fondamentale e imprescindibile del
filosofare, mostra di possedere essa stessa un valore permanente ed
attuale.Ricordato come fondatore della scuola padovana della metafisica
classica, G., proprio in virtù del riconoscimento dell’attitudine problematica
del filosofare, poté affrancarsi dalla sua formazione idealisti-co-attualista e
aderire alla scoperta aristotelica dell’Atto puro quale princi-pio divino
trascendente l’esperienza. Egli sviluppò così una posizione originale che,
giunta a maturità speculativa negli scritti padovani del secondo dopoguerra, si
distingueva, oltre che dalla corrente neoidealista, ancora attiva soprattutto
nel pensiero di Spirito, anche dalle due filosofie di ispirazione cristiana
allora prevalenti, la filosofia neotomistica, nelle sue va-rie declinazioni
(Vanni Rovighi, Fabro, Giacon), e la filosofia neoclassica di Bontadini. Le sue
opere più significative, in particolare Come si pone il problema
metafisico (Padova), Breve trattato di filosofia (Padova)
e Trattato di filosofia (Napoli), non sono tuttavia solo innovative
per l’epoca in cui sono state concepite, ma, come si accennava, restano a
tutt’oggi testi vivi e parlanti, che, nella radicalità del domandare su cui si
fondano, appaiono in grado di raccordare la prospettiva metafisica anche alla
sensibilità esigente e inquieta del nostro tempo. La fecondità della
problematicità pura non è peraltro esaurita dai suoi esiti metafisici: il
“domandare tutto che è un tutto domandare” è ben più che una formula
descrittiva della natura della filosofia, è un vero e proprio “metodo”, che il
maestro patavino dispiega nei più diversi ambiti del suo impegno teoretico. E
che anche nel nuovo millennio merita attenzione. Di questo domandare filosofico
vogliamo dunque continuare a va-gliare la profondità speculativa, a cominciare
dai “saggi” qui raccolti, che intendono sviluppare i motivi di interesse
riscontrati nel pensiero di G. da alcuni studiosi che lo hanno, direttamente o
indiretta-mente, conosciuto. Questa stessa problematicità può del resto essere
assunta anche come chiave di lettura dei contributi che presentiamo, essendo
ravvi-sabile quale principio animatore, ora espressamente tematizzato, ora
silenziosamente sottostante l’opportuno ripensamento dei vari aspetti
dell’opera filosofica del nostro Autore. Il nesso risulta subito evidente
nell’articolo di BERTI (si veda), uno dei primi e forse il principale tra gli
allievi, che in un saggio denso di ricordi, si sofferma su uno scritto
apparentemente secondario tra gli ultimi pubblicati dal Maestro, forse
l’ultimo, dedicato alla possibilità di pregare il Motore immoto. Si tratta
infatti sicuramente di un’occasione per ripercorrere nei suoi tratti essenziali
l’interpretazione gentiliana della metafisica aristotelica, per ripensare le due
caratteristiche fondamentali del “Dio” dello Stagirita, la trascendenza e
l’intelligenza, ma anche – ci sembra di poter aggiungere – per ritrovare in
quel pregare l’espressione estrema, e forse più autentica, del “domandare
tutto-tutto domanda-re”, che, di fronte alla causa suprema ordinatrice del
cosmo, poteva, e forse doveva, assumere connotazioni affettive e oranti. Il
tema del domandare puro e integrale è ancor più pienamente al centro del saggio
di Bartolomei, che di tale domandare indaga le potenzialità, sia come
ineludibile punto di partenza di ogni ricerca filosofica, sia come fulcro di
“fruttuosi collegamenti” con alcu-ni pensatori contemporanei, evidenziandone,
pur nella distanza e divergenza delle posizioni, la comunicabilità e
l’inaspettata consonanza su punti fondamentali. È quanto si verifica con Adorno,
a proposito della legittimità della problematica metafisica e delle
caratteristiche di apertura e processualità che connotano la conoscenza dei
suoi oggetti, i concetti; con Badiou, per la specifica intenzione di verità che
distin-gue la filosofia dagli altri saperi; con Weischedel, sotto il profilo della
necessaria radicalità dell’interrogare filosofico, che, anche laddove non giunga
ad esiti metafisici o teologici, non può non avvertire la realtàdel mistero che
lo sollecita. In tutti questi casi – conclude l’Autrice – la posizione di G.,
interloquendo costruttivamente con linee di pensiero profondamente differenti
da quella propria della metafisica classica, dimostra una inesausta vitalità
filosofica.Il terzo saggio, redatto da Gabriele De Anna, affronta il problema del
valore morale dell’azione cercandone la soluzione nelle pagine del TRATTATO
DI FILOSOFIA, e rinvenendola nel ricorso all’uso pratico dell’intelli-genza che
coglie il principio nell’esperienza, e quindi una normatività nel reale. In
questa lettura l’importanza della problematicità gentiliana emerge specialmente
nel farci intendere come il manifestarsi del principio, e quindi del valore,
sia inseparabile dall’esperienza, intesa come atto che precede e trascende
continuamente la distinzione soggetto-oggetto nella sua costitutiva tensione al
sapere. Ma essa ci fa anche meglio compren-dere la prospettiva metafisica di G.,
che si presenta come ripresa della concezione aristotelica, ma allo stesso
tempo accoglie dal pensiero moderno l’attenzione al ruolo del soggetto, si dice
classica, ma non è per questo oggettivista, come altre, più note, versioni
della stessa. Una particolare declinazione dell’azione morale è costituita
dalla pratica pedagogica, un altro dei grandi temi della riflessione filosofica
gen-tiliana, cui è dedicato il quarto e ultimo saggio, frutto della riflessione
comune di Xodo e Benetton. La pedagogia di G. è una pedagogia umanista, poiché
l’umanesimo – egli scrive – che è ricerca di classicità, si attua come
paideia, cioè come sforzo di realizzare nelle più diverse situazioni
storiche l’essenza dell’uomo», e pertanto non è un si-stema compiuto, ma una
sollecitazione a riprendere instancabilmente la ricerca speculativa sulla
verità della persona, ulteriore espressione di quel domandare radicale in cui
si traduce ogni serio impegno filosofico. Le Autrici sottolineano come in questa
prospettiva, considerando l’essere umano nella sua integralità, l’umanesimo,
anziché contrapporsi, si possa intrecciare fecondamente, anche in ambito
scolastico, con la scienza, la tecnica, e le attività professionali, persino
manuali. L’indicazione è di preziosa attualità e ci fornisce un’altra conferma
della potenza del domandare filosofico, che percorre tutti questi testi. In essi
possiamo infatti vedere tale domandare vigorosamente rinno-varsi tramite la
voce di Gentile. D’altra parte, a sua volta, lo stesso Gentile, in un
necessario scambio di ruoli, tramite questo domandare, persiste a interrogare e
a interrogarci. Ci auguriamo che possa profi-cuamente interrogare anche l’attento
lettore. Marino Gentile. Gentile. Keywords: storia della filosofia period
antico – filosofia romana, la preghiera, segno dei romani – italici antici –
pre-sofistica – pre-Georgia –l’uso di ‘classico’ in latino classico ---- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gentile” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Gentili: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia romana arcaica scuola
di Roma – la scuola di Valmontone -- scuola romana – filosofia romana –
filosofia lazia – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Valmontone). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano.
Valmontone, Roma, Lazio. Grice: “I love Gentile, and Austin and Ryle do too –
he is a classicist – from central Italy therefore he FEELS Roman – he has
explored the beginnings of philosophical thinking in Lazio, as opposed to the
old schools of Velia, Crotone, and Agrigento --.” Si laurea a
Roma sotto Mercati e Perrotta. Isegna a Urbino. Fonda Il Centro di studi sulla
metrica latina. Figlio di Attilio e Giuseppina Cicciarelli. Frequent il Liceo
Classico "Ovidio" di Sulmona. Studia a Roma sotto Romagnoli, laureandosi
sotto Mercati con “Un Studio critico intorno alla storia di Agatia e alla sua
tradizione manoscritta”. Insegna a Roma, al Liceo Classico "Virgilio"
di Roma. Quando Perrotta si avvicendò a Romagnoli a Roma, G. ne fu subito
conquistato e Perrotta lo volle come assistente. Dal suo maestro Gentili apprese l'arte della
filologia e la passione per la metrica latina (“Metrica e ritmica”). Influenza significativamente
gli allora giovani della filologica latina capitolina, tra cui Rossi e Privitera
che ricorda come quelle "lezioni non avevano il tono pacato delle lezioni
ex cathedra. Come docente, Gentili era bifronte. Si può, anzi, dire che
bifronte fosse sempre; secondo i casi poteva essere flessibile o intransigente,
giocoso o severo". Le sue erano esercitazioni, erano seminari. Bbasava
l'insegnamento sulle sue ricerche. Gli
anni non sono facili, sono anni di studio intensi e febbrili per lo studioso
che culmineranno, insieme ai volumi sulla metrica, con una serie di lavori sui
lirici: oltre alla già ricordata antologia Polinnia, il saggio Bacchilide.
Studi e l'edizione di Ancreonte, Insegna a Lecce dove ebbe modo di frequentare Prato
insieme al quale divenne coautore della teubneriana edizione dei Poetae
elegiaci.La svolta decisiva, tuttavia, fu rappresentata dalla chiamata a Urbino
dove nello stesso anno venne inaugurata la Facoltà di Lettere grazie
all'impegno di Bo. Cura la Medea di Seneca (Istituto Nazionale del Dramma
Antico, Mazara del Vallo). Altre opere: “Lo spettacolo nel mondo antico, Roma,
Bulzoni); “Storia e biografia nel pensiero antico” Bari-Roma, Laterza. Cfr. G.,
Eric R. Dodds mentitore? “La idea della comunicazione nella tradizione
classica" Treccani. La cultura e l’opinione pubblica: anche nel mondo
romano il rapporto è stato difficile, spesso conflittuale. Le origini della
filosofia a Roma lo testimoniano, e non solo in un dato momento storico. L’arco
di tempo della difficoltà dei rapporti e non solo. Tensioni, incomprensioni e
scontri non mancarono anche in epoche successive. Basta pensare alle poche voci
di dissenso da NERONE, che sono le voci dei filosofi stoici, in contrasto anche
con ciò che la mentalità comune pensa dell’imperatore: ma qui la nostra analisi
si limita alla fase iniziale di questo rapporto. La filosofia per prima trova
resistenze nella CONCRETEZZA tradizionale dei Romani. L’astrazione filosofica
suscita sospetti diffusi, come se si tratta di un imbroglio, un raggiro. Non
mancarono le espulsioni dei filosofi a partire almeno dal 190-180 a.C. Celebre
la cacciata di Carneade, Critolao e Diogene., perché giudicati pericolosi per
la società romana. Soprattutto tale appare quel Carneade sul quale si interroga
don Abbondio nella notte degl’imbrogli. Ma insieme alla filosofia venne colpita
la retorica, cioè la tecnica del parlare bene, che pure e d’importazione greca.
Svetonio ci racconta delle difficoltà iniziali per questa disciplina e sappiamo
che nel 161 a.C. un decreto del Senato bandisce dalla città insieme retori e
filosofi non-romani. Ma la novità culturale non si arresta per decreto: e la
tecnica retorica riprese fiato, poi un po’ di vigore, progressivamente
apprezzata anche dai Romani, purché fosse rigorosamente controllata
dall’aristocrazia. E così accadde che nel 93 a.C. venne aperta la prima scuola
di retorica a Roma, per iniziativa di un personaggio non molto famoso: PLOZIO
GALLO. E. la scuola dei rhetores Latini, della quale parla anche CICERONE, per
testimoniarci dei successo che essa riscontrava presso i allievi di allora e
del suo rammarico per non potervi accedere: Arpinate e infatti trattenuto da
altri maestri, che lo indirizzavano allo studio della retorica SOLO IN GRECO,
come una volta si fa. Ma per quali motivi questo allontamento dalla scuola di PLIOZIO
GALLO? Oggi sappiamo dare una risposta alla domanda e possiamo affermare che i
consiglieri di CICERONE agivano in tal senso per motivi non solo o non tanto
didattici, quanto politici. La scuola dei retori latini rischia agl’occhi loro,
e agl’occhi di altri benpensanti romani, di trasformarsi in un pericoloso
centro di democratizzazione del sapere, e, quindi delle vie di accesso al
potere sociale e politico. Sappiamo infatti dell’amicizia del maestro, cioè di PLOZIO
GALLO col popolare MARIO, in anni di contrasti fortissimi in Roma, culminati
nella guerra per il diritto di cittadinanza degli Italici. È sempre CICERONE a
informarci, nel trattato intitolato “De oratore”, dell’esistenza di questi
maestri e del loro insegnamento, e lo fa per bocca di LUCIO LICINIO CRASSO che,
allora censore, li aveva colpiti con un editto di chiusura della scuola. E una
scuola di impudenza e di perdita di tempo, agl’occhi di Crasso e dei suoi amici.
Essi andano ripetendo che la mente divene ottusa e si rafforza la loro
pericolosa sfacciatagggine, mentre i retori si proponeno esattamente il
contrario: aprire la mente degli alunni, farli ragionare, spiegare il perché
delle cose e dei problemi. Il genere di insegnamento consiste sostanzialmente
in una sintesi di filosofia, in vista della formazione di un uomo di cultura
completa. Si dove trattare quindi del superamento di una preparazione
esclusivamente tecnica e precettistica, a vantaggio di una formazione globale
dell’oratore. Questi divenne così il depositario di una cultura in grado di
fargli reggere con competenza il timone della repubblica romana. È in questo
contesto culturale e sociale pieno di fermenti e di stimoli nuovi che si forma
CICERONE. E. Badi?n, nella recensione al volume Gli storiografi latini
tra mandati in frammenti, Atti del Convegno, Urbino, a cura di Boldrini,
Lanciotti, Questa, Raffaelli (Studi Urb. n.s. B ), pubblicata in Am. Journ.
Philol., una recensione per altro biliosa e insieme presuntuosa, nella
stragrande maggioranza dei contributi, dedica al saggio 'Storiografia romana
arcaica' appena due parole: "the long essay in unoriginal mediocrity, e.g.
a potted survey by G.": un giudizio drasticamente negativo, non sorretto
da un'ombra di argomentazione; diverso evidentemente il parre di Musti, che ne
ha inserito un lungo brano nel reading, da lui curato, La storiografia greca.
Guida storica e critica, Bari. Certamente ognuno, nel recensire un saggio, ha
il diritto di giudicare come crede il saggio che recensisce. Ma ha il dovere di
motivare con una qualche analisi il proprio punto di vista, se non altro per
mettere in grado il lettore di comprendere il senso critico del discorso. Se il
Badi?n si fosse soltanto limitato ad esprimere il suo dissenso o il suo
scetticismo sulle mie tesi, non avrei ritenuto necessario que quale liquida
molto perentoriamente la sto l’intervento. Ma quando egli definisce sic et
simpliciter "non ad una "rassegna raffazzonata", il suo giudizio
in uno stato originale" il mio discorso, debbo pensare che egli d'ira,
provocato forse dal fatto che io non ho citato il suo saggio riducendolo abbia
espresso 'The Early Historians', in Latin Historians, ed. Dorey, London, che,
esso si, ? realmente una rassegna, certo ben informata e corretta ma senza
alcuna pretesa di originalita. Egli stesso del resto lo presenta come
un'esposizione panoramica intesa a riproporre alla storiografia una tem?tica da
essa obliterata. Faccio notare, d'altra parte, che questo suo saggio stato da
me citato, a proposito della cronaca pontificale, nel volume che ho scritto in
collaborazione scorso storico nel pensiero greco e G. con Cerri, Le teorie del
di Roma, ricerche la storiografia, e che rappresenta l’edizione arcaica, delle
dettato infon certa ricon "prag definir? Dunque, giudizio dato mente dotta
m?tica" "non sull’argomento. solo un risentimento che, prima ancora
che a gl’effettivi contenuti di questo ingiusto, del mio tipo appare un
rispetto sa che la studio. alla tecnica di tipo Come quella da nel soleo ? me
allora ed tucidideo-polibiano. una nuova tesi, l’opera storiografia
'isocratea'? possibile proposta illustrata, indico come originale che riconduce
di Che cosa io intenda quella che con questa storiografia degl’Annales di FABBIO
PITTORE Pontificum di Fabio chiarito in un precedente saggio, sulla rivista II
Verri, al quale di proposito avevo rinviato all’inizio dell’intervento nel
Convegno di Urbino ora ripubblicato in Communication Arts in the Ancient World,
ed. Havelock e Hershbell, New York. E avevo esaustivamente pubblicato frammento
delle varie ancora: puo dirmi programmatico di il Badi?n se la mia Sempronio
Asellione interpretazione del con una nuova A questo punto sarebbe doveroso da
parte del Badi?n tornare sull’argomento per dimostrare, se ? in grado di farlo,
che l’impostazione del mio discorso ? effettivamente priva di qualsiasi
originalit? e non ? altro che una rassegna rabberciata di idee altrui.
Universita di Urbino Letteratura: addio al insigne studioso di metrica. Accademico
dei Lincei e professore emerito ad Urbino Roma,
(Adnkronos). G., insigne studioso della letteratura classica e in
particolare della metrica, è morto a Roma. L'annuncio della scomparsa è stato
dato dall'Accademia dei Lincei di cui è socio. Nato a Valmontone (Roma). Professore
a Urbino, dove ha insegnato i classici, nella facolta' di Lettere che insieme
al rettore Bo ha contribuito a istituire. Fondatore della rivista ''Quaderni
urbinati di cultura classica', di cui e' stato a lungo direttore. Filologo
rigoroso, G. si dedica allo studio della lirica e della metrica arcaica,
curando anche edizioni critiche di testi di diversi poeti. Tra i suoi saggi
''L'Iliuperside nelle figurazioni anteriori a VIRGILIO (si veda)'', ''Metrica
greca arcaica'', ''La metrica dei greci, l'edizione critica di Anacreonte,
''Bacchilide. Studi', ''Aspetti del rapporto poeta, committente, uditorio nella
lirica corale greca''; l'antologia ''Polinnia. Poesia greca arcaica'' (in
collaborazione con Perrotta). La vasta bibliografia di G. comprende anche
''Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la STORIOGRAFIA ROMANA
ARCAICA' (in collaborazione con Cerri), ''Storia del mondo romano'' (in
collaborazione con Pasoli e Simonetti),
''Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro ROMANO arcaico',
''Storia e biografia nella FILOSOFIA antica (in collab. con Cerri) e ''Poesia e
pubblico nella antichita”, che che e' valsa all'autore il Premio
Viareggio-saggistica (Sin-Pam/Ct/Adnkronos) CLASSICITÀ E CONTEMPORANEITÀ: G.
NEGLI STUDI CLASSICI ITALIANI. Kein Volk der Geschichte, auch das begabteste
nicht, läßt sich isoliert betrachten. Ein jedes wird durch äußere Anstöße aus
zuständlichem Dasein in geschichtliches Leben übergeführt. Weder seine äußere
noch seine innere Geschichte kann verstanden werden, ohne die Fäden zu
verfolgen, die es mit außen verbinden. (Usener). Il senso vero di una vita
piena è quello che essa imprime di più anche sulla quotidianità: la ricerca.
Ricerca. Ricerca. Ricerca. Il possesso che noi abbiamo di certi principi (che a
loro modo sono verità) è labile e sfuggente – e non appena noi ci illudiamo di
stringerlo, ecco scom-pare. (Anceschi). G. ha visto comparire vari ampi e impegnati
ricordi ad opera di alcuni tra i colleghi e allievi più vicini. Con attenzione
e devozione vi sono evocati i momenti e i contributi più significativi nella
carriera scientifica del grande classicista; nel riper-correrla si dà davvero
la possibilità di posare lo sguardo sulla storia della filologia classica, via
via italiana europea. A tutti comune è il riconoscimento del forte valore
innovativo nell’incessante attività critica e filologica di G., con la
fondazione dei Quaderni Urbinati di Cultura Classica, vera e propria officina
intellettuale dove su impulso del fondatore e direttore la filologia classica,
senza mai smarrire la dimensione tecnica e specialistica, si apre al confronto
serrato non solo con l’archeologia, la storia e l’ermeneutica, ma anche con
discipline emergenti quali l’antropologia, la semiotica, la linguistica e la
sociologia della letteratura. A tale sensibilità può ben connettersi la visione
che G. elabora della traduzione, nella
ricerca e nell’asserzione di una teorica eminentemente pragmatica -- Così
Catenacci -- e quindi una poetica non astratta, non prefigurata su schemi di
modelli già esperiti, così sempre tendendo a «una poetica aperta che si
costrui- sca gli strumenti adeguati ad una maggiore portata di comunicazione»:
il problema del tradurre è così definito nei termini «di quell’idea cui aspira
l’antropologia contemporanea della traduzione come comunicabilità fra culture,
visioni del mondo, strutture linguistiche e sistemi grammaticali diversi e
distanti nel tempo. Una prospettiva che nello studio e nella traduzione
dall’antico (e dell’antico) a G. certo si schiuse in relazione e risposta alle
sfide prodotte dai grandi mutamenti culturali e sociali, di rilievo
antropologico appunto: una prospettiva d’apertura nell’analisi e negli
strumenti applicati all’interpretazione dei testi antichi, e in particolare
della Grecia di età ar-caica, che mi è sembrato potesse essere bene espressa
dalla prima citazio-ne in esergo, di un altro grande innovatore degli studi classici
al volgere di un secolo, Usener. Il passo proviene da un discorso rettorale
bonnense riproposto in occasione del Congresso inter-nazionale della FIEC
tenutosi a Bonn, e richiamato da Gentili nel famoso saggio L’arte
della filologia. A differenza della fortunata citazione nietzschiana d’incipit
(«filologia è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una
cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire lento»), il rimando a Usener è
passato piuttosto inosservato. G. si rifà alla Rede bonnense,
dal titolo Philologie und Geschichts- wissenschaft 4,
discutendo della prevalente natura ‘storica’ o ‘scientifica’ della filologia
classica e rinvenendo «una impostazione sostanzialmente corretta del problema»
nella distinzione attribuita a Usener, «che delimitò i due campi specifici
della ricerca, riservando alla filologia la critica e la ricostruzione del
testo e all’indagine storica l’interpretazione globale del mondo antico» La
prolusione di Usener si apre con un panorama della storia degli studi classici
sin dal XVI secolo francese e ugonotto, subito poi riservando G., dalla
relazione presentata al convegno La traduzione dei testi
classici. Teoria prassi storia (Palermo), nei cui Atti poi comparve
(G.). All’interno della Festschrift per il
convegno curata da Schmidt; al congresso bonnense G. presenta il fondamentale
intervento L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella
dimensione del nostro tempo. Sin-cronia e diacronia nello studio di una cultura
orale (G.). 4 U. G. Che la riflessione sulla storia della filologia
classica sia strettamente connessa ai temi trattati nella prolusione rettorale
è ben chiarito nella postilla che la intro-duce: «Die Geschichte einer
Wissenschaft verzeichnet nicht bloß Leistungen. In ihrer Geschichte entfaltet
sich ihr Begriff, der nicht unberührt bleiben kann von dem Wandel der
Generationen. Die wissenschaftliche Arbeit bedarf der Selbstbe-sinnung, will
sie nicht ziellos in der Unendlichkeit des Einzelnen umhertreiben." grande
rilievo al genio di Bentley (zur Grundlegung einer Wissenschaft die Wege dazu
hat erst das Genie Rich. Bentleys gebahnt), pur riconoscendo solo alla cultura
tedesca, nel fatale trapasso, la decisiva spinta perché lo studio
dell’antichità classica si costituisse «zu einer geschlossenen philologischen
Wissenschaft. Grazie soprattutto all’impegno di dotti come Melantone e
Camerarius, la centralità della Parola proclamata dalla Riforma si era rivelata
determinante per assicurare la presenza dell’insegnamento del greco nelle nuove
scuole volte primaria- mente alla formazione dei pastori evangelici, finché nei
rifondatori della letteratura tedesca (Klopstock, Lessing, Hamann, Herder) «der
gottergebene idealistische Sinn des norddeutschen Protestantismus», laicizzandosi,
risultò fecondo per la rinascita della cultura e della scienza tedesca grazie a
figure come Winckelmann, Reiske, Heyne. L’organica sistematizzazione delle
varie discipline volte al fine della Rekonstruktion des
Altertums secondo l’intuizione dei grandi edificatori e teorizzatori
dell’Altertumswissenschaft, Wolf e soprattutto Boeckh si fa altresì modello per
le nuove filologie applicate alle varie letterature d’Europa, come pure per le
discipline storico-filologiche volte allo studio del ben più antico patrimonio
di cultura e civiltà delle lingue mesopotamiche, semitiche e arie. A fronte
dell’enorme ampliarsi delle conoscenze non solo all’interno
dell’Altertumswissenschaft, con diretto riferimento al mondo classico nelle sue
varie epoche e aspetti, ma soprattutto all’esterno, negli orizzonti aperti
dalle antiche civiltà del Vicino Oriente rivelate dall’archeologia, Usener
riconosce l’impossibilità di isolare la civiltà greca dall’attenta
considerazione di quegli influssi, certo determinanti nella genesi almeno
dell’arte greca: heute zeigen die Reste Babylons und Ninivehs verglichen mit
den griechischen und italischen Gräberfunden jedem, der Augen hat zu
sehen, von wo jene hellenische Kunst ihre Anstöße und auf lange hin
nachwirkenden Vorbilder empfangen hat». In realtà a Usener preme soprattutto
mettere in rilievo che il concetto stesso di storia si è enormemente ampliato,
al di là della tradizionale identificazio- ne nella «pragmatische Entwicklung
der Haupt-und Staats-aktionen von Fürsten und Völkern», ormai annettendo
territori ignoti, nati dall’indagine delle origini delle lingue, dei credi, dei
costumi, dei miti (die unbegrenzte Ferne einer vorgeschichtlichen Geschichte.
In tale condizione appare al professore bonnense ormai impossibile aderire a
una costruzione della filologia quale quella boeckhiana. La filologia, egli
afferma, non può più essere intesa come scienza storica, perché radicalmente
mutata è la visione stessa della storia propria del tardo XIX secolo 8 . La
filologia è piuttosto da Onde se la moderna POESIA ITALIANA e francese è
figlia degli studi umanistici, la letteratura tedesca è invece legata alla
nostra filologia in uno stretto rapporto di sorellanza» (Usener). 8
Usener è in proposito molto chiaro: Es bleibt also dabei: eine geschichtliche considerarsi
ein Studienkreis, un insieme di discipline che vertendo sulla parola scritta, e
così assolvendo alla funzione di arte o metodo di decisivo valore nel fissare i
contenuti della conoscenza storica, costituisce «die letzte Voraussetzung aller
geschichtlichen Forschung: una filologia come tecnica dell’interpretazione che,
potenziata dalla prospettiva comparatista, assunse forse agli occhi di Usener i
tratti di «una sorta di antropologia. Ho indugiato sul saggio di Usener perché
l’insieme della sua opera, spesso poco apprezzata dal mondo filologico tedesco
contemporaneo, gode da anni di crescente attenzione, anche in ragione degli
interessi ‘trasversali’, comparativi e religionsgeschichtlich che
l’attraversano e innervano, non privi di influssi sullo sviluppo della teologia
dapprima protestante e poi cattolica nella Germania, e forse anche sulle
origini degli studi novecenteschi italiani di storia delle religioni e di
storia del cristianesimo. Notevole è, nelle pagine di Gentili sull’arte della
filologia, il suo rifarsi a Usener. Sin dal titolo, a Nietzsche esse intendono
forse associare proprio il filologo bonnense, quasi provocatorio in una
prolusione rettorale nel definire Kunst l’essenza dell’attività
filologica, pri- Wissenschaft ist die Philologie nicht. Sie konnte und mußte
als solche erschei-nen zu der Zeit, als die Geschichtswissenschaft in ihrem
heutigen Begriff noch nicht vorhanden war. Es war die Zeit, wo die moderne Geschichtswissenschaft
zuerst ihre Blüten trieb. Alles hat seine Zeit». 9 «Wenn es also wahr
ist, daß der Boden aller geschichtlichen Wissenschaft das geschriebene Wort
ist, so folgt, daß die Kunst, welche dasselbe feststellt und deutet mittels
ihres grammatischen Vermögens, die letzte Voraussetzung aller geschicht-lichen
Forschung ist. Diese Kunst haben wir in der Philologie
erkannt» (Usener). Così Momigliano A partire soprattutto dal seminario a Pisa
coordinato da Momigliano e subito pubblicato come Aspetti di Hermann
Usener filologo della religione (Arrighetti). Sono apparse negli ultimi
anni edizioni italiane di varie opere di Usener, tra le quali Usener; Usener;
Usener. ssai notevole e davvero anticipatrice, nonché oggi di particolare
attualità, è la lettera al teologo bavarese I. von Doellinger, nella quale
Usener afferma che «lo scopo ultimo ed inespresso dei miei sforzi è quello di
aiutare a preparare l’unità della Chiesa della nostra nazione», passo su cui
attira l’attenzione Momigliano. È opportuno ricordare l’attenta, e assai poco
nota, presentazione che del Le-benswerk di Usener, grande
maestro che l’Italia colta quasi ignora, da Pestalozza, sulla rivista del
modernismo cattolico milanese «Il Rinnovamento» cessata quello stesso anno: su
Pestalozza, in quegli anni presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano
primo libero docente e poi primo do-cente in Italia di Storia delle religioni,
vd. i riferimenti in Benedetto Non sorprende il dissenso, rispettoso ma chiaro,
che subito espresse il trenta-quattrenne Wilamowitz circa la visione della
filologia presente nella Rektoratsre-de, prospettandone una ben diversa:
«Die alte Poesie (und natürlich ebenso Rechtmariamente volta a fondare
l’affidabilità della parola scritta. La centralità del testo, oggi
preferiamo dire: quel testo visto da G. come struttura complessa di materiali
linguistici, d’IMPLICAZIONI (IMPLICATURE) metrico-ritmiche, referenziali e
pragmatiche nel cui processo interpretativo «una pluralità di discipline» è
coinvolta (uno Studienkreis, appunto) 16 . Senza qui proporsi di passare
in rassegna l’ampia, varia, settantennale attività scientifica di G., si
cercherà piuttosto di soffermarsi su alcuni aspetti, quali soprattutto il
rapporto con la figura di Perrotta e in genere con gli studi italiani di
filologia classica nella prima metà del Novecento, la produzione e la serie di
saggi di portata fondativa scritti da G., nei quali evidente è una svolta per
gli studi sulla lirica greca, e notevole l’interesse verso temi e problemi
della traduzione dall’antico. L’esordio di G. si ha e nel pieno della Seconda
guerra mondiale con un articolo nato dalla tesi di laurea con MERCATI (si veda),
dedicato soprattutto a passare in rassegna quattro inesplorati codici
delle Storie di Agazia conservati in biblioteche italiane (tre
Vaticani e un Marciano) . In quegli anni drammatici il giovane studioso li
collazionò in parte, avendo in animo di preparare una nuova edizione critica
dell’opera, in vista della quale non tace anzi l’intenzione di provvedere a «un
nuova collazione accurata» di un manoscritto Vulcaniano conservato nell’allora
inaccessibile Leida. Il netto cambiamento di interessi e una decisa virata ver-
und Glaube und Geschichte) ist tot: unsere Aufgabe ist, sie zu beleben […]
dann empfinde ich, daß Philologie doch etwas für sich ist, oder wenigstens
ihr τέλος hat (lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder), e
cfr. Sassi. G. Philologie in dieser
Auffassung ist nicht eine Wissenschaft, sondern ein Stu-dienkreis (Usener). Sin
d’ora rimando alle molte informazioni e osservazioni desumibili dal
Ri-cordo di G. di Angeli Bernardini; Catenacci; Cerri; Lomiento; G. A.
Privitera, commemorazione lincea lincei.it/ files/documenti/ Privitera_commemorazione_G.
.pdf ; Tedeschi. Cerri. Non si tratterà di Gentili editore e critico del
testo, tema che di per sé richiederebbe apposita discussione. Gentili. Come
chiaramente lascia intendere la chiusa dell’articolo: «Da quanto abbia-mo detto
appare chiaro che la sola finora ad avere almeno l’aspetto di edizione cri-tica
ed anche il metodo è quella del Niebuhr, in quanto si fonda sul valore
effettivo di una parte della tradizione. Ma l’uso di tutto il materiale
manoscritto, secondo gli intendimenti che ho esposto, trae con sé la necessità
di una recensione del testo di Agatia, che si fondi su basi più complete e
quindi più solide. E questo compito, se le forze non mi verranno meno, spero di
poter assolvere». Vd. in particolare ccorrerebbe perciò una nuova
collazione accurata [so la poesia greca arcaica si legano all’incontro
con Perrotta, sulla cattedra romana di greco come successore di Romagnoli e
impegnato nel rinnovamento su modello crociano dello studio della lirica greca
(Saffo e Pindaro. Due saggi critici uscì presso Laterza), ma
attento altresì all’esegesi puntuale di frammenti e ritrovamenti papiracei, in
particolare con interventi accolti nei pasqualiani STUDI ITALIANI DI FILOLOGIA
CLASSICA nota è in particolare la polemica intorno al poeta degli epodi di
Strasburgo. Un’importante rassegna ad opera di Perrotta su La
filologia classica nell’ultimo ventennio, apparsa per il Natale di Roma in un
volu-me promosso dal Ministero dell’Educazione Nazionale (Perrotta), se è priva
non solo di elogi ma si può dire di qualsiasi menzione del morente Regime, è
peraltro chiarissima sin dalle prime righe nell’affermare che il «vero
progresso segnato nel precedente ventennio dalla filologia classi-ca in Italia
è spiegabile perché essa «ha sentito profondamente l’influsso dell’estetica
moderna, anzi di tutto il pensiero moderno», con sicuro ri-ferimento al
crocianesimo e in genere agli orientamenti antipositivistici: «superate le
polemiche del periodo precedente, la filologia classica ha preso un nuovo
indirizzo vivificata dalle correnti nuove della cultura moderna, è divenuta
meno arida e pedantesca», e finanche «abbondano i saggi critici, che una volta
avrebbero destato scandalo». Dopo un rapido ma attento ragguaglio di commenti,
edizioni critiche ed edizioni di papiri pubblicati nel periodo considerato,
l’articolo si conclude appunto notando che mentre «in qualunque campo la
filologia classica italiana può sostene-re dignitosamente il confronto con
quella delle altre Nazioni», proprio «nel campo della critica letteraria, essa
supera di gran lunga la FILOLOGIA CLASSICA di qualunque altro Paese del mondo.
Cinque anni dopo, nell’Italia e nell’Europa, presentando ai let-tori insieme al
condirettore Funaioli la nuova rivista «Maia» («nome caro a due grandi poeti, a
Gabriele d’Annunzio e a John Keats»), in sostan-ziale continuità e coerenza con
se stesso Perrotta indicherà la via della ripresa dello «studio della civiltà
antica, per noi moderni» in un «rinnovato umanesimo», fondato sull’incontro tra
l’eredità del classicismo europeo del manoscritto, che mi propongo di
fare quanto prima»; si tratta del Cod. Vulc. 54, usato da Bonaventura Vulcanius
per l’ editio princeps del testo greco del De impe-rio et
rebus gestis Iustiniani imperatoris libri quinque, uscita a Leida (cfr.
Dewitte). Vulcanius (Smet), e professore nella nuovissima università di Leida.
Lomiento Su circostanze e contesto della successione illuminanti scorci in
Canfora Sulla quale, e sulla persuasiva identificazione in Ipponatte sostenuta
da Per-rotta, vd. Gamberale; Sisti; Morelli. Perrotta degli ultimi due secoli (la
tradizione gloriosa di Goethe e di Humboldt, di Winckelmann e di Schlegel, di
Shelley e di Keats, di Hölderlin e di Nietzsche, di FOSCOLO e di LEOPARDI, di CARDUCCI
(si veda) e di PASCOLI) e una pratica filologica che, nutrita di adeguata
consapevolezza critica e storica, trascendesse le mai del tutto sopite
conseguenze delle polemiche, e dei connessi schieramenti, che avevano lacerato
gli studi classici italiani d’inizio secolo: Il nostro ideale è il filologo che
abbia l’abnegazione d’un grammatico alessandrino e l’entusiasmo d’un umanista
del Quattrocento, la tecnica filologica e il senso storico dei grandi filologi
dell’Ottocento, il senso artistico e la coscienza critica dei migliori critici
letterari dell’età nostra. L’ideale della nostra rivista è la storia senza lo
storicismo, la filologia senza il filologismo, la critica estetica senza
l’estetismo e il vacuo filosofismo. Non manca subito di séguito una citazione
da Nietzsche, dalla qua-le risulta la filologia nel suo senso più elevato
rappresentata, come me- glio non si potrebbe, con alta fantasia poetica. Né
manca un richiamo a Nietzsche, in quella stessa prima annata di «Maia»,
nell’ampia e intensa commemorazione che Perrotta dedicò nel decennale della
morte a Ettore Romagnoli 28, accostato a Nietzsche nell’accesa e immaginifica vita
di filologo, quindi rievocato come professore universitario a Catania
Funaioli – Perrotta. Che punto nodale del «discorso sulla filologia» sia «la
divisione o meno delle competenze tra filologia e critica letteraria in senso
lato» rimarrà, con altra prospettiva, costante elemento di riflessione per
Gentili: cfr. G.. L’ammirazione di Perrotta per Nietzsche filologo è messa in
rilievo da Gigante, il quale anche suggerisce che mediatore per il filologo
italiano della conoscenza di Nietzsche possa essere stato Croce; un’emendazione
del giovane Nietzsche («oltre a giudicare il carme nel suo insieme con la
finezza e la profondità ch’erano proprie del suo genio») è lodata e accolta in
Perrotta. Un certo paradossale irrigidimento di Perrotta «negli ultimi tempi in
cui poté ancora esercitare un sensibile influsso negli ambienti culturali, onde
egli afferma sempre più polemicamente e rigidamente la sua fedeltà al verbo
crociano commemora entusiasticamente il Romagnoli, proclama ripetutamente la
indipendenza dei supremi valori poetici da ogni condizionamento ambientale e
culturale» noterà Paratore (appunto a intendere «quella sopravvalutazione della
critica let-teraria che è sembrata così singolare in un uomo di così severa
formazione filolo-gica» è dedicata la commemorazione lincea di Paratore 1963a,
in gran parte rifusa nel profilo Perrotta in Grana). È utile citare
il passo: «Federico Ritschl soleva dire che Nietzsche giovinetto concepiva una
dissertazione filologica come un romanzo. Il grande filologo non intendeva
certo, con queste parole, spregiare l’attività filologica di Nietzsche giovane,
del quale egli presagì il genio. Ma un intuito profondo gli fa coprire in
Nietzsche qualche cosa di singolare, di acceso e di appassionato, che non
faceva assomigliare le sue dissertazioni, pur dottissime e condotte con metodo
impeccabile, a quelle degli altri. Poichè un uomo dotato di molta
immaginazione(attraverso la testimonianza del fraccaroliano e romagnoliano
Guglielmino), in particolare quando leggeva con predilezione i lirici
greci, e, traducendoli, comunicava agli uditori con la scelta felice delle
parole e delle espressioni, che potessero rendere con maggiore adesione il
pensiero e il sentimento dell’antico poeta, e anche con l’inflessione della
voce, quello che egli stesso sentiva. Il commento era sobrio, scevro
d’in-gombrante erudizione: accennava a questioni controverse dibattute dai
filologi solo quando avevano importanza innegabile per la retta interpretazione
di un passo dub-bio, e in tal caso riduceva la questione all’essenziale. È
anche quando, a cura di Perrotta e del suo as-sistente G., usce
Polinnia, antologia della lirica greca ad uso dei licei destinata a
grande fortuna nella scuola italiana della seconda metà del Novecento, sino
alla recente e rinnovata terza edizione. Non fu la prima antologia dei lirici
greci destinata alla scuola e impostata con rigore scientifico. Dopo che i
programmi, con LA RIFORMA GENTILE, più decisamente aprirono ai lirici le porte
dei licei, si diffusero antologie scolastiche nate in un periodo di estetica
esasperata, di olimpico dispregio per tutto quello che si chiama (e la parola è
oltraggio) FILOLOGIA, come vollero osservare prefando i loro Lirici
greci scelti e commentati Ugolini e
Setti che a quell’andazzo con efficacia e serietà reagirono, avendo per
modello essenzialmente Aglaia, la nuova an-tologia della
lirica greca da Callino a Bacchilide pubblicata da Lavagnini. In sede di
valutazione storica è giusto rilevare che ad Aglaia si sono
ispirate tutte le antologie successive che si finirà sempre per mettere,
anche senza averne affatto il proposito, perfino in una dissertazione
filologica, un po’ della sua immaginazione. Questo avveniva spesso a Romagnoli
(Perrotta). Le pagine di Perrotta sono in parte ripro-dotte nella sezione su
Romagnoli in Grana Nel Profilo di Bruno Gentili premesso da
Carlo Bo al I volume dei ricchissimi Scritti in onore di Bruno Gentili,
Romagnoli ricorre accanto a Perrotta come pre-senza utile a comprendere in
Gentili l’«uomo dotato di spirito creativo, quale ge-neralmente posseggono
soltanto gli scrittori e in modo più specifico i poeti. La sua straordinaria
perizia filologica è strettamente collegata al suo gusto e alle sue doti di
creatore. Tutte cose che si possono riscontrare nella storia della sua
formazione, perché accanto a uno dei suoi primi maestri, Ettore Romagnoli, a un
certo punto si è accostato uno studioso come Gennaro Perrotta» (in
Pretagostini Nella
Prefazione a Ugolini – Setti 1940 due sono «tra i lavori
scolastici» quelli citati dai curatori perché risultati utili «per il loro
carattere più spiccatamente scientifico»: oltre all’antologia di Lavagnini si
fa cenno a un’opera di A. Taccone, in cui è da ravvisarsi l’ Antologia
della melica greca pubblicata con pre-fazione del maestro Fraccaroli,
attenta e informatissima ma ormai invecchiata a fronte delle scoperte papiracee
accumulatesi nei decenni successivi. Del libro di Ugolini e Setti dopo usce
un’edizione ampliata e rinnovata, in seguito ristampata: Ugolini – Setti
possono definire serie, a cominciare da Polinnia » 32, senza
dimenticare che in pieni anni Trenta la volontà di chiarire agli alunni di
liceo l’«enigma psicologico» di Saffo e della sua passione dettò all’antologia
di Lavagnini toni ben più diretti 33 di quanto dieci anni dopo accadrà a
Perrotta (cui si deve la sezione su Saffo in Polinnia ), e più in
linea con le posizioni cui Gentili espressamente approderà negli anni Sessanta.
I cenni di Perrotta alle «gioie leggere del tiaso di Saffo» insieme a un certo
riemergere delle preoccupazioni per la difesa della poetessa dalle accuse di
immoralità tor-nano a riflettere ambagi e premure proprie peraltro
dei più noti studiosi di Saffo da Welcker a Valgimigli: impostazione da
Perrotta stesso a suo tempo esplicitamente confutata in Saffo e Pindaro
Così Degani. Nell’introduzione alla sezione su Saffo in Lavagnini, si dice che
«Saffo visse facendo della sua casa un centro di culto ad Afrodite, alle Muse,
e alle Cariti. Le più nobili e le più belle fanciulle di Lesbo e dell’Asia
vicina venivano a lei per essere ammaestrate nella poesia e nel canto, ed essa
vive tutta in questa compagnia di fanciulle. Anzi l’affetto per le scolare
assume un trasporto così im-petuoso e sa trovare accenti così caldi da prendere
i colori della passione di sesso, sicché la Lesbia resta ancora, almeno in
parte, un enigma psicologico per noi, che siamo così lontani da quel suo mondo.
Ivi è inoltre il rimando alla trattazione che del tema Lavagnini aveva dato
nella sua precedente Nuova antologia dei frammenti della lirica
greca (Lavagnini), dall’ incipit e dalle tesi assai esplicite, e
con esplicito rifarsi a Freud nell’individuare in Saffo «una invertita :
essa trasferì sopra creature del medesimo sesso il potenziale affettivo (
libido secondo la termi-nologia di Freud) che avrebbe dovuto normalmente
rivolgere su persone del sesso opposto. Al di là dell’interpretazione di Saffo,
le pagine di Lavagnini meritano di essere particolarmente segnalate in
relazione alla prima (s)fortuna italiana della psicanalisi, quando si pensi che
la RIVISTA ITALIANA DI PSICOANALISI, diretta da Weiss, è fondata e soppressa
due anni dopo: ricco di informazioni in proposito, benché talora disorganico e
confuso, Zapperi Per più ampi riferimenti su molti dei temi qui e di seguito
trattati rimando a Benedetto Cfr. Perrotta, in pagine non prive di sarcasmo e oggi
dimenticate: «Infine, non giovano a nulla le discussioni, interminate e
interminabili, sull’amo-re e sulla purezza di Saffo. I Welcker e i Wilamowitz
hanno difeso la poetessa nobilmente, ma non si sono accorti che nel loro zelo
appassionato essi stessi non erano troppo lontani dai grammatici dell’età
romana, da quel Didimo che disser-tava dottamente an Sappho publica
fuerit In realtà, Saffo non ha bisogno di essere giustificata: essa che, se
potesse udire i suoi accusatori e i suoi difensori, non intenderebbe neppure i
termini della questione. La soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz non risolve
nulla Quando per spiegare il tiaso amoroso di Saffo, si parla di un convento,
di un pensionato di fanciulle, di un conservatorio di musica e di declamazione,
e perfino d’un salotto letterario, e perfino d’un club estetico di
donne, non si spiega nulla; e per giunta non si mostra né senso storico, né
gusto irre-prensibile […]. E, ancora peggio, si è costretti a ridurre ad
elemento secondario, ad ammettere a mala pena, facendo di tutto per togliergli
ogni importanza, l’amore di Saffo per le amiche; ma per Saffo l’amore era tutto.
Significativo il pieno consen [La parte curata da G. comprende tra gli
altri Alceo, Anacreonte e Bacchilide, i tre autori di cui più egli si occupa.
Nella difesa che G. fa (come già Coppola e Perrotta) dell’allegoricità del
famoso frammento alcaico ora V. citato da Eraclito stoico («nella nave è
rappresentato lo Stato, cioè la città di Mitilene, minacciata dalla rovina, tra
affinità e differenze piace scorgere lo spunto delle future pagine sulla
pragmatica dell’allegoria della nave. Superando i vincoli ancora operanti
in Polinnia connessi al tradizionale confronto ‘estetico’ con
Orazio, tramite l’approccio pragmatico-espressivo Gentili giungerà lì a
riconoscere nell’allegoria lo strumento co-municativo strategicamente più
idoneo e perciò scelto in varie occasioni da Alceo poeta e politico al fine di
«trasmettere il messaggio in un linguaggio velato e allusivo
comprensibile solo dall’uditorio dei compagni. Crocianamente priva di
introduzione sia generale, sia ai singoli poeti, Polinnia riserva
particolare attenzione alle presentazioni dei singoli carmi. Spiccano lo spazio
e il ruolo assegnati all’esposizione della metrica, «quelle sequenze di lunghe
e di brevi, che avevano pari dignità grafica rispetto ai caratteri del testo, e
apparivano ben in evidenza, non erano nascoste a fondo pagina, magari in una
nota», sì da divenire per un liceale il primo impatto reale con la metrica
greca. Ciò appunto dovettero prefiggersi i curatori, con quella passione per
gli studi metrici che la scarna premessa Ai lettori rivela:
Riteniamo che l’accurata interpretazione metrica sarà accolta con favore. Essa
ha per suo fine principale la lettura metrica, senza la quale non è possibile
sentire e gustare un poeta greco. La metrica greca non è, come purtroppo credono
ancora molti, né una scienza inesistente, né una scienza che permetta ad ognuno
d’interpretare i versi come vuole, ma una scienza che è facile imparare, purché
sia studiata sul serio. Per agevolare la lettura metrica, ci siamo presa la
libertà di segnare gli ictus dei piedi, benché agli
ictus non crediamo: certo i Greci non avevano l’accento dinamico, ma L’ACCENTO
(cf. GRICE) musicale. Poiché la lettura metrica è indispensabile: coloro che
traggono, dalla giusta constatazione che la nostra lettura con gli
ictus non corri-so riservato in nota alle posizioni esegetiche di
Lavagnini: «Una pagina coraggiosa scrive, invece, nel senso contrario, il
Lavagnini, col quale consento in tutto, benché abbia meno fiducia di lui nella
psicanalisi. Perrotta – G. . Sulle Allegorie omeriche del non
altrimenti noto Eraclito nell’àmbito dell’esegesi antica di Alceo, e in
particolare sul tema delle immagini marittime e il loro uso con significato
politico da parte del poeta di Mitilene, rimando alla messa a punto di Porro in
G. G. Si ricordi per confronto la collana laterziana degli Scrittori
d’Italia, priva d’introduzione e di qualsiasi apparato interpretativo. Senza
introduzione generale e ai singoli poeti sarà anche la successiva edizione del
1965: Perrotta – G. Sono parole dalle pagine molto belle, di tono e sapore
memorialistico, che alla metrica di Polinnia dedica Di
Benedetto 2001, 141 sggsponde alla lettura degli antichi, la pessima
conclusione dell’inutilità di ogni lettura metrica, fanno un’imperdonabile
rinunzia, che generalmente tende a nascondere la pigrizia o l’ignoranza. Non
diverse considerazioni, e non diversa passione didattica, animano la prefazione
a La metrica dei Greci, il saggio che rappresenta lo sdoganamento»
di tale disciplina nella scuola e, più in generale, negli STUDI CLASSICI
ITALIANI. Val la pena rileggere l’inizio di quella prefazione: È sentita IN
ITALIA la mancanza di un MANUALE DI METRICA ad uso dei non iniziati. Tale
mancanza ha nociuto sino ad oggi all’insegnamento di questa disciplina
soprattutto nelle scuole medie, poiché spesso i docenti, mossi da uno strano
scetticismo considerano di scarso interesse la conoscenza della metrica greca,
talora ritenendola del tutto estrinseca alla poesia, pura invenzione di alcuni
studiosi moderni anche perché già vi si rinvengono temi e motivi che
ispireranno per decen-ni l’indefessa indagine metrica di G.: In realtà la
metrica non è né estrinseca alla poesia, né invenzione dei moderni. Come ho già
dimostrato nella mia Metrica greca arcaica, alcune teorie metriche
dei moderni, quelle più attendibili, sono già contenute nella migliore
tradizione dei metricologi antichi. La metrica è necessaria, non solo ai fini
della critica testuale, ma anche ad una più compiuta intelligenza del testo
poetico. Poiché metrica e poe-sia furono nell’antica Grecia intimamente
connesse, in funzione reciproca. È un errore avvicinarsi allo studio delle
forme metriche con pregiudizi scolastici. Soltanto dimenticando gli schemi e
seguendo i metri nel loro sviluppo storico, si può davvero intendere il valore
e la necessità dello studio di questa disciplina. Notevoli sono il precoce
apprezzamento per il valore dei metricisti antichi e la visione non ancillare
degli studi metrici, da intendersi non Catenacci G. Circa venticinque anni
dopo, tra le cause dell’isolamento in Italia dello studio della metrica greca
«nel ghetto degli specialisti e guardato al pari di una disciplina esoterica
con sospetto e diffidenza», G. tornerà a cita-re l’idea largamente diffusa
«della impossibilità di costruire per la versificazione greca una teoria
coerente ed univoca», inoltre aggiungendo l’influsso avuto dalla nostra cultura
degli anni Trenta «che aveva reciso alla radice ogni altro impulso all’indagine
critica che non procedesse nel solco della teoria estetica dell’arte»: cfr. G. Sensibilità
critica in cui Cerri, ravvisa l’indizio di una attitudine ‘an-tropologica’ già
allora in qualche modo operante nella filologia di Gentili: «Contro
l’orientamento che era invalso tra i metricisti di allora, non solo rivaluta le
teorie e le analisi dei metricisti antichi, ma basa costantemente su di esse la
propria trat-tazione è del tutto evidente che ciò avviene non solo e non tanto
perché le ritenga ipotesi scientifiche acute e azzeccate, ma soprattutto perché
le assume come testimonianza diretta di una sensibilità ritmico-musicale
diversa dalla nostra, di un linguaggio fonico-gestuale specifico di quella
civiltà e di quell’orizzonte mentalecome meramente funzionali o subordinati
alla critica del testo, ma in-dispensabili innanzitutto per una piena
comprensione dell’antica poesia, nella convinzione «che la metrica non sia un
fatto esteriore, ma in funzio- ne della poesia stessa», come è poi ribadito
all’inizio dell’ Introduzione . Lì è anche subito affermata l’unità
ritmica del verso antico, la sua strutturale unione con la musica, onde «posta
l’unità del verso greco, non sarà più legittimo parlare di piedi, ma soltanto
di cola. Rievocando di recente le lezioni di metrica tenute da Gentili
alla Sapienza nell’immediato dopoguerra, Privitera ha colto nella «prospetti-va
storica» l’aspetto che in quelle esercitazioni più colpiva, quando «a
differenza dei trattatisti, che nei manuali si limitano ad esporre le loro
interpretazioni, Gentili citava anche le opinioni dei metricisti antichi e dei
metricisti moderni: come con ampiezza appunto avviene in Me-trica
greca arcaica, il volume dedicato a Perrotta, anch’esso aperto dalla
rivendicazione della metrica come «una scienza al pari delle altre discipline
classiche», tutta «nella migliore tradizione della filologia ellenistica» 46 .
Conoscenze ampie sugli studi metrici degli ultimi centocinquant’anni attestano
i primi due capitoli del libro, dove dapprima (Studi metrici: brevi cenni) G. delinea
con ricchezza di esempi e osservazioni lo svolgersi delle principali analisi e
teorie me- triche da Hermann (con cui «la scienza metrica nacque nel secolo
scor-so» sulle orme di Bentley e di Porson) a Westphal, a Usener, a Wila-
Privitera, commemorazione lincea. G. Ho consultato la copia conservata
presso la biblioteca del Centro di papirologia Vogliano’ (Dipartimento di studi
letterari, filologici e linguistici dell’Università degli Studi di Milano,
con ex libris dello stesso Voglia-no (segn. Vgl.II.B.61), in quegli
ultimi anni di vita alle prese con lo studio rimasto incompiuto La
lirica eolica e Pindaro nella critica di Hermann. La cui «Entdeckung
eines indogermanischen Urverses già è lodata in Usener Di Usener è rammentato
con interesse il trattato Altgriechischer Versbau: ein Versuch
vergleichender Metrik (Usener), con la sua «analisi comparativa
del-la metrica greca con la metrica germanica». I capitoli IV e V dell’opera di
Usener consistono di una rassegna, desultoria ma affascinante, volta a dimostrare
la predi-lezione dei popoli indoeuropei per una struttura metrica base in otto
sillabe ancor ravvisabile nei testi sanscriti, avestici, nelle più antiche
ricostruibili forme metriche greche e latine, nei canti popolari germanici,
slavi settentrionali e meridionali, li-tuani: nota è l’icastica reazione
negativa di Wilamowitz alla lettura del libro («In metrischen Dingen vermag ich
nicht in kurzem meine Differenz auszudrücken, weil sie zu tief geht. Ich kann
überhaupt das einheitliche griechische Volk nirgends finden, also auch keine
urgriechische Sprache und keinen urgriechischen Vers und keine urgriechische
Religion», lett. in Dieterich – Hiller von Gaertringen – Calder). Dal punto di
vista della linguistica storica e della metrica comparativa indoeuropea severo giudizio
sul lavoro di Use-ner dà Campanile, cfr. anche Morelli mowitz, a Schroeder, a
Maas 49 . Il successivo capitolo ( Metrica e musica ), prendendo spunto
dai lavori di R. Westphal volti a «applicare le leggi dell’isocronia musicale
ai metri greci», tentativo fallito ma assai noto in Italia per l’applicazione
che ne diede Romagnoli nei suoi Poeti lirici, si segnala per la
riflessione sulla centralità del rapporto metrica-musi-ca, cioè poesia e
musica, e sulla necessità di considerarlo storicamen-te, alla luce delle svolte
nella storia della cultura greca dall’arcaismo sino a Timoteo e poi all’età
ellenistica, quando «il distacco della musica dalla poesia è definitivo; questa
sarà destinata quasi sempre alla lettu-ra» 51 . Noti sono i meriti di Perrotta
nella rinascita degli studi italiani di metrica antica, nei quali «egli
raggiunse una competenza che lo pose in una condizione di assoluto predominio
in Italia. Così Paratore all’indomani della morte del collega grecista
nell’ateneo romano, rimarcandone la visione della metrica quale «premessa
indispensabile per l’intelligenza di un altissimo testo poetico» e osservando
la pro-fonda coerenza della «esemplare e severa scienza metrica del Perrotta»
con l’intera sua concezione degli studi classici (nella metrologia di Perrotta
veramente filologia e critica si dànno la mano in una sintesi tra le più
feconde : nel timbro certo ‘romano’ ma già storiografica- [Cui già allora
Gentili imputa gravi limiti metodologici, per la sopravvalutazione
empirica’dell’observatio metrorum e il connesso profondo scetticismo per
tutti i problemi metrici di Urgeschichte »: G. Particolarmente il secondo
volume (I Poeti Lirici. Terpandro, Alceo, Saffo, Bologna) è costellato di
«traduzioni in segnatura moderna della realizzazione sonora», cioè vere e
proprie trascrizioni per musica dei frammenti dei tre antichi autori; almeno da
un punto di vista storico non a torto Stella indica come merito di Romagnoli
quello di avere richiamato l’attenzione fin dai primi anni del Novecento sul
binomio poesia-musica, in stretta interdipendenza di nota e parola,
nei poeti greci fino all’età ellenistica ROMANA, e di aver così dato avvio ad
una compren-sione profonda e meno letteraria di Saffo e di Pindaro, di Eschilo
e Aristofane: indicava nuove strade per future ricerche». Le indagini sulla
musica greca anche in età ellenistica cono-scono oggi nuovo impulso: vd.
Martinelli Messi in rilievo da Albini, il quale anche ricorda che «quando la
morte lo sorprese, Perrotta stava ultimando un libro sul saturnio», sul
contenuto del quale vd. la ricostruzione di Morelli. Resta il paradosso,
segnalato da Morelli sin dall’inizio del suo studio, che «nella produzione di
Perrotta, anche tenendo conto delle notazioni occasionali e delle scansioni
fornite in Polinnia, i contributi di carattere metrico risultano
nel complesso piuttosto scarsi ed esigui, specie se rapportati all’importanza
che egli annetteva notoriamente alla materia e agli anni spesi nelle relative
ricerche fin dall’adolescenza. Paratore. È visione che si ritrova bene espressa
anche nell’esordio del I capitolo di Metrica greca arcaica: Critica
testuale, metrica, interpretazione estetica sono problemi che devono essere
affrontati contemporaneamente dal filologo classico; essi rappresentano una
unità indissolubile, inscindibile. È merito grandissimo dei grammatici
alessandrini se essi, unitamente all’esame critico delmente atteggiato della
valutazione di Paratore, la più grande scuola di metrologia classica fiorente
in Italia», derivata da Perrotta, si ricapitola e si identifica nel nome di G.
L’esperienza di Perrotta metricista non può disgiungersi dal magistero
pasqualiano. Con il ricordo di conversazioni avute con Pasquali «su problemi
importanti di metrica greca» Gentili scelse di aprire il suo contributo su
Pasquali e la metrica nell’àmbito del convegno Pasquali e la FILOLOGIA CLASSICA:
Ricordo con perfetta lucidità l’esame metrico cui fui sottoposto al nostro
primo incontro: mi chiese se ero in grado di scandire un carme di Bacchilide o
di Pindaro; risposi affermativamente. Non ne fu del tutto convinto; mi porse il
testo di Bacchi-lide e mi invitò a leggere metricamente il quinto epinicio,
chiedendomi prima in quale metro fosse composto. Risposi: «Dattilo-epitriti» e
lessi tutta intera la prima triade strofica. Ne fu sorpreso, forse perché
dubitava che un giovane non formatosi alla sua scuola fosse in grado di
superare questa difficile prova. I colloqui con Pasquali, avvenuti a Firenze
nell’immediato dopoguerra, si incentrarono (continua Gentili) quasi
esclusivamente su un problema che particolarmente angustiava il grande
filologo, quello cioè «delle re-sponsioni impure nei lirici corali e nei
cantica della tragedia e della com-media del quinto secolo», in relazione
soprattutto alla soluzione data da P. Maas in due articoli dove «egli crede di
poter negare le responsioni impure in Bacchilide e in Pindaro, correggendo
ar-bitrariamente il testo nei luoghi dove esse appaiono». Ciò che qui conta
mettere in rilievo è la persuasione che Gentili trasse da quegli incontri
dell’esigenza, in Pasquali riconoscibile, di affrontare il tanto discusso
problema delle libere responsioni fra strofe e antistrofe non più nella
pro-spettiva astratta e schematica indicata da Paul Maas ma in una prospettiva
più attenta alla fenomenologia del rapporto metro-ritmo melodico: che cioè, più
in generale, Pasquali già avesse testo, curarono nelle loro edizioni
critiche la divisione in strofe, in στίχοι e in κῶλα dei cori lirici,
tragici e comici. Se oggi il filologo dissente da essi nell’interpretazione,
non potrà certo dissentire nel metodo. Conoscere, dunque, la metrica di un
poeta significa poter intendere più profondamente la sua stessa poe-sia,
significa poter penetrare nell’intima armonia e musicalità del verso.
Tratto ereditato da Pasquali» lo dice Gamberale G. Per la centralità nella
ricerca metrica di Gentili dell’inter-pretazione dei dattilo-epitriti, «così
denominati nel secolo scorso da Westphal», nella dialettica tra individuazione
di cola unitari e sistematizzazione metrica otto-centesca di
origine boeckhiana vd. e. g. G. – Giannini Così Gentili 1950, 21,
in un passo e in un contesto che sembrano conservare qualche traccia delle
conversazioni con Pasquali di quegli anni (la prefazione reca la data, ma
Gentili informa il lettore che la prima parte del libro era già in bozze). Si
ricordino le polemiche degli anni seguenti con Maas circa luoghi bacchi
Sent from the all new AOL app for iOSnetta e chiara l’idea che la poesia
lirica sia essa monodica o corale e la musica erano i mezzi di comunicazione di
una cultura che, attraverso il linguaggio poetico, i ritmi e le melodie,
trasmetteva oralmente i suoi messaggi in pubbliche audizioni. In parte
riguardante l’àmbito delle responsioni, e in polemica con Maas, fu l’intervento
di Gentili compreso nella raccolta di contributi in memoria del maestro Maia alcuni
problemi qui discussi», è detto in apertura, «furono non di rado il tema
preferito da Gennaro Perrotta nelle conversazioni con i suoi allievi, i
μετρικώτατοι. L’articolo è interessante anche per l’attenzione che di-mostra,
pur con vari dubbi, verso la colometria antica quale attestata dai pa-piri di
Anacreonte e di Bacchilide, già in qualche modo preludendo a quel- lo che
diverrà, soprattutto dagli anni Ottanta, uno degli àmbiti di studio più cari a
Gentili e alla sua scuola 60 .3. Come per l’Italia e il mondo, così per Bruno
Gentili gli anni Sessanta videro prepararsi e poi compiersi svolte decisive.
Poco dopo la precoce scomparsa di Perrotta, G. divenne all’Università di Urbino
ordinario di Letteratura greca, insegnamento tenuto per incarico da alcuni
anni, sin dall’istituzione della locale Facoltà di Lettere di cui è subito
figura cardine. La prolusione urbinate, pubblicatacon il titolo Aspetti
del rapporto poeta, commit- lidei in cui la presunta corruttela del metro, per
la responsione non perfetta» aveva condotto il filologo tedesco a ritenere
corrotto il testo, difeso ammettendo la responsione impura in G. Il racconto di
G. va naturalmente letto tenendo presente la frattura tra Pasquali e Perrotta
su cui vd. Morelli, su sollecitazione di Pasquali, erano ripresi i rapporti
epistolari con il filologo tedesco: cfr. Bossina G. (poi nei monumentali
Studi in onore di Perrotta ). Nella stessa Gedenkschrift non
manca un breve contributo di Maas, una nota metrica di argomento ‘moderno’
datata Oxford: Maas. Anche per Maas metricologo molto si potrà trarre dall’esame
delle carte segnalate in Lehnus e LehnusUna quindicina d’anni dopo Gentili
osserverà: «Si ritiene che la dottrina me-trica degli antichi sia di scarso
valore e di nessuna utilità per noi. Ma, ch’io sappia, nessuno sino ad oggi ha
realmente dimostrato la validità di questa asser-zione. Il disprezzo e il
totale rifiuto delle teorie antiche è una moda invalsa negli studi metrici del
Novecento (G.). Dello sviluppo degli studi sulla colometria antica guidati da
Gentili negli anni successivi sono testimonianza molti contributi nei «Quaderni
Urbinati di Cultura Classica»: come sguardo d’assieme vd. Pretagostini, Gentili
– Perusino e più di recente la Tavola rotonda; breve consuntivo del
dibattito in corso in García Novo Sugli studi classici a Urbino dapprima nella
Facoltà di Magistero poi in quella di Lettere e Filosofia vd. il profilo di
Colantonio – Bravi 2006tente, uditorio nella lirica corale greca, presenta un
chiaro carattere pro-grammatico 62 e introduce quell’insieme di temi che
«nel tempo si rivelerà più produttivo e tipicamente gentiliano. Fin dalle prime
righe del sag-gio è messo in evidenza il valore di strumento di conoscenza del
reale proprio della produzione poetica nella cultura greca del tardo arcaismo,
il suo farsi «guida orientativa nell’evoluzione della società greca, nelle
forme del linguaggio e dell’arte del poetare» per motivi non estrinseci ma
stret-tamente connessi alla centralità del rapporto diretto tra il committente
e il poeta che particolarmente connota la poesia corale. La funzione del mito,
e dunque il tessuto dei contenuti stessi del carme, si svela quando ci si
rifaccia al professionismo del poeta e alla funzione celebrativa
costitutiva-mente propria della sua attività, volta a «scegliere una leggenda
appropriata all’occasione», a trovare cioè e rendere intelligibile all’uditorio
la relazione tra racconto e celebrando, cosicché «il mito avesse un reale
significato e un valore esemplare». Solo in tale contesto, a un tempo
storicamente determinato e aperto alla necessità dell’interpretazione, possono
corretta-mente configurarsi il rapporto mito-attualità e il rapporto mito-gnome,
e può considerarsi superato «il problema dell’unità dell’epinicio e in genere
del carme corale sul quale per più di un secolo da Boeckh in poi la critica si
è tormentata nella disperata ricerca di un’unità logica o estetica». Era,
quello dell’unità dell’epinicio, il problema centrale della critica pindarica
quale intuíto e sviscerato dalla grande filologia tedesca, e che Perrotta aveva
posto tematicamente al centro della sezione pindarica in Saffo e Pindaro,
dedicandovi una rilettura di oltre cento pagine attraverso l’intera produzione
del poeta di Tebe, frammenti compresi, infi-ne giungendo alla constatazione
dell’assenza di unità sia estetica sia logica nelle odi pindariche.
Sostanzialmente riprendendo la visione romagnolia-na di Pindaro come «poeta del
mito, l’interpretazione di quel «poeta puro, più che poeta-moralista o
poeta-filosofo» 65 è infine da Perrotta per intero riportata all’interno
della dicotomia crociana poesia/non poesia, senza arretrare dinanzi alle
necessarie conseguenze di quella scelta critica: Non poeta dei giuochi, nè
della gnome; non poeta dell’etica e della politica dorica; non poeta della
saggezza di Apollo delfico. Ma poeta grandissimo del mito sentito
religiosamente come miracoloso eroismo e miracoloso prodigio. Questa defini-zione
dell’arte pindarica costringe a ripudiare come non poesia buona parte dei versi
del poeta. Questo forse dispiacerà; e si dirà che Pindaro è ridotto ad essere,
a questo modo, un poeta frammentario, e si deplorerà ch’egli è stato
rimpicciolito e diminuito. Ma una più serena considerazione convincerà, che,
anzi, il poeta è [Una specie di manifesto per la Scuola urbinate lo
definisce ABernardini Catenacci La cui derivazione da Burckhardt sottolinea
Paratore Perrotta stato accresciuto, perchè l’unico modo di onorare un
poeta è quello di esaltare la sua poesia. Isolare le parti impoetiche, non che
fargli torto, è un servigio reso al poeta stesso 66 . Non a caso subito
Perrotta richiama per confronto il caso della poesia dantesca («naturalmente
continueranno ad esistere gli ammiratori dell’architettura, dell’unità,
dell’armonia dell’epinicio pindarico, proprio come non mancano gli ammiratori
dell’architettura, della struttura, della concezione del mondo dantesco), a
proposito della quale con maggior valenza paradigmatica Croce aveva teorizzato
e applicato la necessaria dis-tinzione – valida per ogni autore e opera
letteraria – tra la dimensione pro-priamente ‘poetica’ e quella ‘allotria’,
attinente una varia INTERPRETAZIONE FILOSOFICA e pratica» 68 .Trent’anni dopo,
nel 1965, disegnando il percorso per un profondo rinnovamento degli studi
italiani su Pindaro e i lirici che definitivamente li sottraesse alle ipoteche
critiche della prima metà del secolo, G. in certo modo proietterà all’esterno
il tema dell’unità dell’epinicio, rinvenen-dolo nel mondo dei valori che il
poeta in rapporto al suo pubblico e alla funzione sociale della poesia era
portato a interpretare. Discernere nella orazione urbinate i fili di una
nascosta dialettica con Perrotta è operazio-ne non priva di giustificazioni,
quando si pensi che il saggio Aspetti del rapporto poeta, committente,
uditorio nella lirica corale greca, nato da quella prolusione e poi pubblicato
in più sedi, per la prima volta comparve nel volume di Studi Urbinati contenente
gli Scritti in onore di Genna-ro Perrotta 70 aperti da una pagina
di presentazione di G. stesso, alla quale segue un inedito perrottiano, una
nota critico-testuale a un passo di Lucano, in duello con una atetesi di
Housman nel pasqualiano baluginare di «due varianti antiche. Significative le
parole introduttive di Gentili, che indicano nel maestro un modello di «vivo
impegno a dare un senso di attualità ai nostri studi», mentre pur non si può
tacere l’esigenza di porre nuove domande alla grecità arcaica e classica:
Perrotta E così prosegue: «gli uni e gli altri si riterranno i soli capaci
d’intendere i poeti, pur essendo incapacissimi d’intendere qualunque poesia,
perchè per poesia intendono l’allegoria, oppure la così detta poesia d’idee,
oppure perfino una rac-colta di massime belle e utili». 68 Mi limito a
rimandare in proposito, come testo esemplare, all’ Introduzione di
CROCE (si veda), che cito da una ristampa laterziana sostanzialmente immutata. Saranno
poi i temi fondamentali di molte, famose pagine di Poesia e
pubblico nella Grecia antica, Poeta-committente-pubblico, ovvero la norma
del polipo . G. Perrotta 1Chi gli fu vicino e poté, anche fuori della scuola,
ascoltarlo nella conversazione abi-tuale, sempre viva e piena d’intelligenza
umana, apprese, oltre che il rigore scien-tifico della ricerca, il vivo impegno
a dare un senso di attualità ai nostri studi, oggi, nelle prospettive del
nostro tempo, diremo l’impegno a comprendere nell’inesauri-bile mondo della
grecità arcaica e classica la problematicità dei rapporti di valore culturali e
civili, quali uomo-scienza, uomo-natura, uomo-società, che sono alla base della
nostra inquietudine e per i quali sentiamo l’urgenza di una soluzione se
dobbiamo, tra i rottami inutilizzabili del vecchio umanesimo e tra gli automi
della odierna civiltà industriale, riproporre una nuova dimensione dell’uomo,
dell’uomo non come strumento ma come fine
. La seconda parte del saggio discute un buon numero di passi, perlopiù
di Pindaro, anticipando traduzioni destinate all’antologia Lirica corale
greca. Pindaro Bacchilide Simonide, che uscì per Guanda; il saggio originato
dalla prolusione urbinate sarà lì riproposto in versione sostanzialmente
immutata, a mo’ di introduzione dal titolo Poeta e com-mittente .
Nuovo è però l’avvio (ripreso nel retrocopertina), che intercetta le curiosità
‘d’avanguardia’ di quegli anni di profondi mutamenti, un po’ provocatoriamente
invitandoli a una nuova lettura dei poeti della lirica corale greca: In un
momento di crisi, oggi, della poesia, tra sperimentalismi d’avanguardia,
giu-stificati, entro certi limiti, dalla buona intenzione di trovare linguaggi
più idonei ad interpretare la realtà presente, ha forse un senso riproporre una
nuova lettura dei poeti della lirica corale greca, Pindaro, Simonide,
Bacchilide. La scelta non è casuale, ma ha un suo significato che sarebbe stato
eluso se ci si fosse limitati a ripresentare i poeti della lirica monodica,
troppo consunti dalla tradizione ermetica. Premeva invece offrire, nei limiti
consentiti dall’indole della collana, un panorama delle op-poste tendenze
ideologiche e artistiche che animarono la poesia del tardo arcaismo greco, cioè
di un’epoca culturale caratterizzata da una profonda crisi evolutiva nella
quale la poesia, come solo rare volte nella storia della cultura occidentale,
divenne strumento di conoscenza del reale. Si tratta dunque di una affermazione
di ‘contemporaneità’ della lirica greca ancorata a solide e rinnovate basi
filologiche e storiche, proposta in un’epoca di crisi e trasformazione tra le
più incisive e impetuose, come oggi sappiamo. Se può forse anche rimandare
qualche eco dei [Parole che in parte torneranno trent’anni dopo
nell’introduzione premessa da G. alle Giornate di studio su Perrotta . Si
può aggiungere che nella premessa agli Scritti urbinati in onore del maestro, G.
segnala che alcuni di essi costituivano i primi contributi di collaboratori del
neocostituito «Centro di studi sulla lirica greca e sulla metrica greca e
latina» presso l’Università di Urbino. G. Ho consultato presso la Biblioteca
centrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano una copia
appartenuta a Luigi Alfonsi, con dedica manoscritta di G. datata Urbino Con
l’ultimo periodo si apre il saggio in Studi Urbinati clamori suscitati
dalla beat generation di A. Ginsberg, il cenno iniziale agli
sperimentalismi d’avanguardia nell’àmbito della poesia contempora-nea, ai loro
eccessi e alle loro ragioni, essenzialmente rinvia alla neoavan-guardia
italiana di quegli anni, la cui fase preparatoria si suole riconoscere nel
dibattito culturale sviluppato sulla rivista milanese Il Verri: sin dall’inizio
diretta d’Anceschi, se n’era avviata una seconda serie presso l’editore
Feltrinelli, sedendo nel comitato di redazione letterati poeti e studiosi destinati
a fama e fortuna nei successivi decenni (Nanni Balestrini, Renato Barilli, Eco,
Giuliani, Guglielmi, Porta, Sanguineti). I nomi appunto intorno a cui si è
aggregata l’antologia poetica I Novissimi: poesie per gli anni
Sessanta (con testi di Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Porta,
Sanguineti), con il successivo passaggio al Gruppo 63, più eterogenea e
conflittuale formazione: intorno alla metà degli anni Sessanta poli entrambi di
definizione e diffusione della neoa-vanguardia italiana, poetae novi
avversi contemporaneamente a ermetismo e neorealismo, volti (i più) alla
destrutturazione sperimentale di lingua e forma come unica modalità di
espressione di/in una realtà svuotata di sen-so e accettata come tale 76 .
Presentando il primo numero della nuova serie de «Il Verri, Anceschi saluta il
determinarsi di un evidente mutamento nel panorama della poesia italiana
contemporanea. A una maniera «che fu giustamente detta anacoretica,
o ermetica, o chiusa, non senza certe tentazioni di involuzione neoclassica»
e che intendeva la poesia «come fuga o rifugio; come estrema voce del soggetto
nascosto e introverso come sintesi illuminante, pregnante, e veloce nel rigore
calcolato, coltivatissimo, e raro della parola», si sostituiva ora il diverso
atteggiamento e sentimento «di una poesia dissacrata, estroversa, che si
ritrova in un mondo di oggetti reali, affidata talora alla casualità del
sin-tagma, talora ad un ritaglio significante dell’effimero, di modi analitici,
a struttura complessa e multipolare, tale che può farsi capace di una critica
di vita, di un’azione per la trasformazione dell’uomo»: egli avver-tiva insomma
il farsi avanti di una poesia, e di una stagione di poesia, come
accrescimento della vitalità, e nuove tecniche, e volontà di forme aperte, e
speranze di una maggior portata di comunicazione. Il saggio già apparso in
Studi Urbinati è da G. subito ripubblicato [Nonché «uniti e avvinti (per
impulso d’Anceschi) nel programma di approfit-tare della prima congiuntura
economica favorevole dopo secoli – il famoso boom »: così Alberto
Arbasino in Anceschi – Campagna – Colombo Sganciato il linguaggio da intenti
determinati e da precise responsabilità semantiche, lo scrittore appare
attirato non tanto dalla mancanza di senso quanto piuttosto da ciò che sembra
lecito chiamare il possibile verbale, ossia l’estrema libertà di invenzione
linguistica. La parola comunica non dei significati, ma le pro-prie avventure e
peripezie, percorre lo spazio senza fine del desiderio, del gioco e del
godimento, come efficacemente sintetizza Curi appunto su «Il Verri, all’interno
di un numero monografico Classicità e contemporaneità contenente
contributi anche di altri studiosi del mon-do antico. Il fascicolo è introdotto
da un intervento di Anceschi, da sempre attento a «scoprire in modi non
fortuiti una zona antica e nuova della classicità, qui volto a riflessioni di
singolare lucidità e preveggen-za, oggi certo più inoppugnabilmente attuali di
cinquant’anni fa: Le infinite maniere con cui nel secolo son stati sentiti i
classici testimoniano già esse di un continuo vivere dei classici al di fuori
della astrazione, ormai incredibile, di eterne, immobili esemplarità. Che senso
avrà la lettura dei classici in un mondo in cui l’Europa non sia più il
“cervello del mondo” ma solo, se sarà possibile, una delle sue
fibre, una delle voci di una cultura che si è aperta, aperta al
riconoscimento delle ragioni di tutti i popoli, di tutte le tradizioni? La
cultura europea in certi suoi esponenti della metà del secolo scorso sembra
aver intuito la possibilità del determinarsi di una situazione di questo genere.
Questa è la situazione in cui siamo, qui dobbiamo vivere, e in questo ordine
recuperare i nostri antichi. Particolarmente appropriati, nel contesto del
numero de Il Verri, ri-sultano dunque sin dall’inizio del saggio di G. i
rilievi sulla ‘lontanan-za’ dal gusto moderno specialmente della lirica corale,
tra le varie forme della poesia greca arcaica, e sull’almeno apparente maggiore
accessibilità dei grandi poeti della lirica monodica (Saffo, Alceo, Anacreonte)
anche se il loro volto è apparso spesso da noi alterato da un certo estetismo
deca-dentistico che ha ancor più accentuato, a suo modo, quell’idea astratta e
astorica della lirica greca che abbiamo ereditato dalla nostra cultura
classicistica. Il culto della poesia pura idoleggiò in essi quella che fu
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o
addirittura la “poesia del frammento” conden-sata in un’immagine di pochi versi
superstiti. Il riferimento è qui alla importante, benché spesso indiretta
presenza dei maggiori lirici monodici nella letteratura italiana dalla seconda
metà [Anceschi G. Grande ( Grecità ); DIANO (si veda) (Ritorno a
Plutarco); Pasoli ( Per una lettura dell’epistola d’ORAZIO (si veda) a
Giulio FLORO (si veda)); Giardina (Note per l’esegesi d’ORAZIO (si veda) lirico
); Mele ( Orazio e il significato
culturale del classicismo latino ). 80 Cit. in Nisticò Anceschi.
Quanto una ben diversa visione della Grecia come antica madre comune» è IN
AMBITO FILOSOFICO ITALIANO ancora viva pochi anni prima testimonia ad esempio
il volume di Barié – Sini, dove a fronte del senso della crisi dei valori oggi
tanto diffuso nella coscienza dei contemporanei, che nessuna generazione del
passato potrebbe probabilmente reggerne il paragone, si propugna un ritorno
alla Grecia, che vagheggiata dall’Umanesimo al Romanticismo come il felice e
radioso mattino della nostra storia, sembra non avere mai deluso chi ricerchi
in essa i germi del modo occidentale di considerare e vivere la vita
(dell’Ottocento, non solo e non primariamente nelle traduzioni. Carducci in
particolare, e per vari aspetti già a Foscolo, si deve «la riscoper-ta, nelle
immagini e nei metri, dei lirici greci, di Alceo e Saffo, già di leo-pardiana
memoria, e poi di Alcmane come modelli di poesia pura, all’origine di un ricco
e complesso processo di ricezione, ancora non ade-guatamente studiato, che
attraverso Pascoli 85 e D’Annunzio conduce sino ai Lirici
greci tradotti da Quasimodo, usciti a Milano, introdotti da un saggio critico del
ventinovenne Anceschi. A Milano ANCHESI (si veda) si è formato con BANFI (si
veda), subito segnalandosi con il volume Autonomia ed ete-ronomia
dell’arte, radicale presa di distanza dall’intuizionismo estetico crociano e
dalla sua incapacità di comprendere le poetiche. Come Bo per la corrente ‘fio- Tra le quali
per più ragioni merita ricordare quella che Cavallotti, allora già famoso
deputato dell’Estrema, dedicò a Canti e frammenti di Tirteo. Versione
letterale e poetica con testo e note preceduta da un’ode a Gio-suè Carducci,
Milano, con prefazione, interessante per il rifiuto della metrica barbara (il
tentativo che non data da oggi di ricondurre la poesia italiana alla
esteriorità dei metri greci e LATINI, mal saprebbe giudicarsi alla stregua di
alcune splendide ispirazioni di Enotrio), e per l’attenzione alla fortuna di
Tirteo anche fuori d’Italia, in particolare nel mondo tedesco (lingua che
Cavallotti aveva appreso nell’ancor asburgico liceo milanese di Porta Nuova),
finanche citando la versione olandese in versi di Bilderdijk: ma nella
costituzione del testo adottando «per base la volgata di Stefano che ancora
oggi fra tutti i distillamenti di cervello della critica germanica rimane la
guida del testo più fida e più sicura. Del Foscolo si ricordi almeno la visione
dei versi della Coma catulliano-callimachea come poesia
lirica sin dalla dedica a Niccolini (non credo che l’antichità ci abbia
mandata poesia lirica che li sorpassi, e niuna abbiano le età nostre che li
pareggi») della traduzione e commento de La Chioma di Berenice
poema di Callimaco tradotto da CATULLO (si veda): ivi il Discorso
quarto. Della ragione poetica di Callimaco si chiude nel nome di
Pindaro dopo aver esaltato Alceo e Saffo nei superstiti rari
vestigi a fronte d’ORAZIO (si veda) e di CATULLO (si veda). Sul
pindarismo foscoliano dal commento alla Chioma di Berenice
attraverso i Sepolcri sino alle Grazie come riflessione
sul nesso che lega lirica antica e moderna vd. Benedetto Nava; qualche utile
elemento si trae da Tomasin Fondamentali soprattutto i Poemi
Conviviali (la prima edizione in volume) sin dal liminare Solon, su
cui vd. le considerazioni introduttive e il dettagliato commento in Treves Un àmbito di particolare interesse è quello
della sperimentazione pascoliana ispirata ai metri della lirica greca, cfr.
Giannini e ora Capone – Giannini Lo stesso anno de La poetica del
decadentismo di W. Binni, per il cui influs-so sugli studi pindarici
degli anni Quaranta di M. Untersteiner vd. Lehnus Sui fondamenti filosofici e
critici del precocissimo anticrocianesimo di An-ceschi vd. Lisa (La nuova fenomenologia e la nozione di
poetica); su Anceschi, la critica di ispirazione fenomenologica e la sua
connessione con la neoavanguardia (come già con l’ermetismo critico) utile
profilo in Orvieto] rentina’ dell’ermetismo, sul versante milanese Anceschi fu
figura di spicco tra i giovani critici che si fecero interpreti e banditori
della singolare intensità della parola nella poesia di Quasimodo: poetica della
parola sulla cui centralità Anceschi torna nell’introduzione ai Lirici greci,
dicendola erede dell’«esperienza complessa della poesia dopo Hölderlin, Poe,
Baudelaire, e, per noi in special modo, LEOPARDI (si veda) e, soprattutto,
scorgendone l’antecedente nella pura e libera voce dei lirici greci. Anceschi
si mostra consapevole del fecondo lavoro filologico svoltosi per secoli intorno
a quegli antichi poeti, ma del pari afferma che nella cultura europea non ci fu
mai la felice e piena stagione dei lirici greci. Quella stagione ora è giunta,
cosicché «nella ricerca di una poesia veramente nuova e
contemporanea » e soprattutto «nella aspirazione al raggiungimento di una
rigorosa purezza lirical’ermetico Quasimodo può pienamente espri-mere se
stesso traducendo Saffo Alceo Archiloco e Alcmane, ritrovando cioè la purezza
di quell’antica sensibilità in una condizione di linguaggio attuale della
poesia. Senza sentimentalismi – va detto – ma nutrito di una chiara percezione
della terribile crisi della civiltà europea, risuona l’appello alla lirica
greca come depositaria dell’assolutezza della parola, paradossalmente
assicurata dalla condizione frammentaria di quella tra-dizione testuale: Questa
aspirazione di purezza in un riconoscimento della relativa «brevità» di ogni
composizione poetica, che, per raggiungere il suo scopo, deve presentarsi alla
no-stra coscienza come un tutto è, appunto, la lirica – per la prima
volta nata all’u-manità nella Grecia. Di essa solo la parola
(qualche parola altissima, e interrotta) ci resta, là dove era anche danza e
musica: parola, danza, musica in un’invisibile armonia unitaria di ritmi. E
solo l’immaginazione più libera può darci un’approssi-mazione felice a quel
segreto. Se pregevole appare la sottolineatura del concorrere di parola, danza
e musica nel definire la particolare natura della lirica greca, è indubbio che
il suggerire compatibilità o addirittura sovrapponibilità tra ‘poetica della
parola’ cara agli ermetici novecenteschi e scarni testi dei lirici
greci conservati per fragmina («qualche parola altissima, e
interrotta») si risolve in una forzatura critica a danno del concetto e della
realtà di ‘frammento’ propri della filologia classica: all’indomani della
guerra pubblicamente lo segnala Valgimigli, peraltro con Quasimodo e
Consapevolezza che ad esempio si esprime nel richiamo a un’illuminante frase di
Valéry: une civilisation a la même fragilité qu’une vie. Les cir-constances qui
enverraient les oeuvres de Keats et celles de Baudelaire rejoindre les oeuvres
de Ménandre ne sont plus du tout inconcevables: elles sont dans les
journaux. Valgimigli. Dopo aver ricordato che dei
lirici greci «per tra-dizione medioevale diretta, oltre la silloge teognidea e
quella pseudofocilidea, e oltre i quattro libri degli Epinici di Pindaro tutto
il resto lo abbiamo o per ciAnceschi in rapporti epistolari già in quel 1940, e
da subito ben disposto verso l’impresa traduttoria del poeta ermetico e i suoi
risultati. Quando G., nel saggio pubblicato su «Studi Urbinati» e su «Il
Verri», polemicamente allude a quell’impresa nei termini su citati (il culto
della poesia pura idoleggia nei grandi poeti della lirica monodica quella che è
ritenuta l’espressione essenziale, irripetibile, poetica per eccellenza, o
addirittura la poesia del frammento condensata in un’immagine di pochi versi
superstiti), i Lirici greci di Quasimodo erano nel pieno
della loro fortuna: mentre proprio nel 1965 era definita la for-ma ne
varietur delle versioni dai lirici nell’edizione mondadoriana degli
Opera omnia del poeta, tra vivaci polemiche di recente laureato dal
Premio Nobel, quelli sono gl’anni in cui se ne radica e diffonde la presenza
nelle scuole italiane, particolarmente dopo l’istituzione della scuola media
unica. Si può dire che in Italia nella percezione comune, anche genericamente
colta, la lirica greca coincise con i Lirici greci di Quasimodo,
opera anzi che già all’indomani della morte del poeta si prese a riconoscere
come la sua migliore. La stessa scelta da parte di G. di tazioni
indirette, oppure, dove siamo stati più fortunati, per ritrovamenti papiracei;
a ogni modo, per frammenti» e che in realtà anche la lirica era «tutta
intessuta e ragionata nel mito», Valgimigli pienamente riconosce le ragioni
storico-culturali di quell’equivoco, il ‘fascino singolare’ esercitato sui
‘lirici nuovi’ dagli antichi poeti in frammenti: ora, se io penso a quelle che
furono ai principi del Novecento le teoriche dell’intuizionismo, del futurismo,
del frammentismo, non credo peccare di temerità né di irriverenza se tra le
cause di questo incontro di poesia greca e poeti nuovi oso porre anche questa
umile e strana combinazione, cioè del casuale stato frammentario e quindi, in
certo senso, alogico, anticontenutista, antisintattico, e, vorrei aggiungere,
anticantato di certa poesia lirica greca. Quanto sopravvive dei carteggi
Quasimodo-Valgimigli e Anceschi-Valgimi-gli è ora raccolto nel volume Benedetto
– Greggi – Nuti. Val la pena qui trascrivere almeno la breve missiva (da
Padova, su carta intestata R. Università di Padova, Seminario di Filologia
Classica») con cui Valgimigli ringrazia il poeta per l’invio di una copia degli
appena pubblicati Lirici greci : Caro Quasimodo, Ho avuto il libro.
Grazie. Certi versi mi hanno ridato la consolazione di un nuovo cantare. Sopra
tutto, come già Le scrissi, c’è quel pudore schietto, quel pudore senza
inganni, quella limpidezza liquida, che erano e sono qualità insolite e ignote.
Di alcuni punti e modi, di alcuni suoni di parole, assai mi piacerebbe par-lare
con Lei. Anche mi piacerebbe scrivere di questo suo libro. Ma dove, in questi
giorni feroci? Addio, caro Quasimodo. E auguriamoci bene. E auguriamo bene al
nostro paese e alla nostra civiltà. / M. Valgimigli» (in Benedetto – Greggi –
Nuti). Così per primo Sanguineti, uno dei protagonisti della neoavanguardia,
che in chiusura dell’ Introduzione alla sua importante antologia
einaudiana Poesia italiana accomuna in iconoclastico dileggio
antiermetico le versioni quasimodee al famoso saggio di Bo
Letteratura come vita ; appunto perché gli antichi lirici risultano
volgarizzati, mediante il Quasimo- [antologizzare e tradurre per Guanda i poeti
della lirica corale (Pindaro, Bacchilide, Simonide) è con ogni evidenza
determinata dal fatto che si tratta appunto degli autori non presenti tra
i Lirici di Quasimodo perché non compatibili con l’idea di lirica
sottesavi, come peraltro Anceschi ave-va a suo tempo esplicitamente affermato:
Entro i limiti di una pura (attuale e antica) idea della
poesia perciò fu osservata la scelta dei testi. Naturalmente è ben
definito il senso anche delle esclusioni di poeti disposti a mettere a servizio
della «celebrazione» la magnificenza di uno stile espertissimo, come Pindaro;
o, come Bacchilide, abile e colto in una dolcezza di analisi descrittive. E
sempre, poi, un rigore senza concessioni ha voluto la esclu-sione, o, almeno,
la limitazione nella presenza di poeti semi-lirici (giambici o elegiaci,
gnomici, FILOSOFICI, o politici) troppo disposti alla sentenza,
all’esortazione o alla narrazione : a indubbie condizioni di prosa.
Dopo la comparsa dei Lirici greci prefati da Anceschi, G. propugna
e realizza il rovesciamento di quella prospettiva critica; ci si può quindi
chiedere perché il grecista urbinate abbia scelto pro-prio la rivista diretta
da Anceschi per ripubblicare e più ampiamente divulgare il saggio Aspetti
del rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Quanto si
è prima accennato circa i convincimenti da Anceschi rende chiara la risposta:
nemico di ogni posizione cristallizzata, Anceschi soprattutto con Il Verri
individuò come primario compi-to del critico «quello di risolvere la situazione
in cui si trova, e di cui sente l’ansia e l’instabilità. Non solo sin dai primi
anni del dopoguerra egli si do, con i tratti deformanti della poetica
ermetica», su quindici poesie antologizzate da Sanguineti tredici sono tratte
dai Lirici greci, definiti «il suo più vero contribu-to originale
alla poesia del nostro secolo» e «uno dei documenti più significativi
dell’intiera stagione ermetica». Anceschi, Introduzione in
Quasimodo Con espressioni che sembrano anche direttamente rispondere a quelle
di Anceschi: per questa via era difficile accostarsi ai lirici corali del tardo
ar-caismo greco, particolarmente a Simonide, Pindaro e Bacchilide, più
elaborati, più consapevoli delle loro possibilità espressive, più ricchi nei
contenuti etici, politici e artistici, indissolubilmente legati a un
particolare ambiente e ad una determinata occasione che stimolarono e
condizionarono il loro canto (G. ). Anceschi – Campagna – Colombo Anceschi – si
sa – era nemico di ogni posizione cristallizzata. Non sconfessava l’ermetismo,
in cui si era riconosciuto e che lo aveva visto nascere come critico militante,
ma non intendeva lasciarsi rinchiudere in esso. E magistrale è la sua capacità
di muoversi in territori ambigui, d’incerta definizione, non ancora
riconosciuti, e di porsi come punto di riferimento per chi cercava la sua
strada. Anceschi, saggio con cui si apre il primo numero de Il Verri,
riproposto nella nuova serie de «il verri»; sulla condizione della letteratura
italiana dopo la metà degli anni ’50, chiusa tra le ultimeera convinto (come
Quasimodo del resto) dell’esaurimento della stagione ermetica, ma tornò ad
affrontare i Lirici greci e la sua stessa introduzione dieci
anni dopo, riscrivendola per una nuova edizione mondado-riana. Molte qui sono
le novità, sin dall’avvio. Anceschi lascia intendere di essere all’origine
dell’incontro di Quasimodo con la lirica greca (come peraltro già le
pagine lasciavano sospettare), prende
atto del de-finitivo isterilirsi dell’ermetismo, contestualizza la traduzione
quasimodea nel suo valore e nei suoi limiti storicamente determinati: Ma che
cosa si son fatti i lirici greci nella lettura di Quasimodo? Essi furon letti,
è evidente, nel gusto particolare di una certa tendenza alla poesia del tempo.
Era un momento in cui la verità della poesia ci sembrava tutta compresa nella
veloce intensità della lirica in una estrema lucidità di contatti tra oggetti
lontanissimi e lon-tanissimi tempi della memoria; e gli antichi
frammenti (la giustificazione della vali-dità del frammento è sempre
la prova di resistenza delle estetiche) ci confermavano con la loro forza che
la poesia non sta nella struttura, non sta nella
«musica esterio-re», non sta nel «contenuto morale» o nella
«narrazione» e nel «discorso»…: tutto ciò può andar perduto, eppure una
bellezza intensa e veloce resta, e ci commuove. 4. Importante novità rispetto
all’introduzione è il richiamo al saggio «incompiuto e bellissimo» di Renato
Serra Intorno al modo di leggere i greci, pubblicato postumo da Valgimigli su
«La Critica». Ispirate dalle contradditorie reazioni che il primo volu-me della
traduzione commentata dei Lirici greci del Fraccaroli gli
suscitano, le pagine di Serra sono soprattutto una riflessione sulla fine del
vecchio classicismo («il calco in gesso dell’Ellade serena, dell’Ellade
perfetta, che aveva fatto le delizie di tante generazioni, dagli umanisti fino
al Carducci, è andato in frantumi»), sul nuovo «desiderio di realtà» suscitato
dall’incessante lavoro di filologi e archeologi, sulla inquie-
manifestazioni dell’ermetismo e il dogmatismo neo-realista, e sulla risposta
libera-toria che la rivista trovò in una ‘fenomenologica’ concezione della
letteratura «che rinnova continuamente la propria consapevolezza in rapporto al
concreto mutare delle situazioni» torna ad esempio Anceschi Non dimenticherò
certo facilmente il giorno – davvero molto lontano, or-mai – in cui, parlando
con Quasimodo, mi venne fatto di associare, secondo certe ragioni, due idee familiari
e carissime, che, in quel momento, sollecitavano in modo singolare la mia
mente; voglio dire: l’idea della prima lirica greca, e quella della poesia
italiana contemporanea. È, credo, un giorno dell’autunno: l’introdu-zione
anceschiana è ristampata in Quasimodo. Ho
davanti a me i Lirici di Fraccaroli. Che cosa è dunque l’interesse di questo
libro? L’intendimento nuovo di mettere sotto gli occhi dei lettori comuni
questi avanzi venerabili della lirica greca, sì che ognuno possa vedere e
giudicare senza scrupoli quel che sono sostanzialmente e quel che valgono. Con
questo animo l’au-tore ha dato e il pubblico ha ricevuto, molto lietamente,
come sapete, il libro. Per-ché dunque invece di partecipare a questa lietezza
io resto malinconico e dubitoso ad ascoltare l’eco beffardo di una ironia
lontanissima. ὁρᾶς τὸν πόδα τοῦτον;» Sent from the all new AOL app for
iOSta grecità da loro rivelata, consentanea al gusto fin de siècle
(«coi prefidi-aci, con la civiltà micenea e con la cretese, con le fasce delle
mummie e con gli ostraka dei monticoli egiziani, e insomma con l’insistenza su
tutto ciò che la Grecia può dare di più crudo, barbaro, romantico, positivo,
con-trastante col vecchio ideale gelato»), e soprattutto sulle opportunità
svelate da questo diverso, modernissimo ‘bisogno di antico’: Realtà, come
dicevo, di cose, e non di parole. Questa è la differenza profonda fra la nostra
generazione e quelle che l’han preceduta. Le statue, le fotografie, le
immagini, i processi, i costumi, in somma la vita nella sua indifferente nudità
ha preso il posto degli aoristi del maestro di seminario e delle figure di
Longino. Una cosa è chiara, direi quasi a priori ; che con tanta voglia
di appropriarsi solo il grosso e l’essenziale della grecità, i pensieri e i
motivi e le immaginazioni piuttosto che le frasi e le formalità, quest’ora
dev’essere propizia per i traduttori. I passi ora citati del saggio di Serra
provengono dal fascicolo de Il Verri dedicato a Classicità e
contemporaneità, che si apre con estratti da Intorno al modo di
leggere i greci . Sugli appunti di Serra si sofferma il liminare
Intervento di Anceschi. Nel giovane critico cesenate caduto sul
Podgora, Anceschi indica colui che «intuì una crisi del modo di sentire e
vivere i classici, in cui noi ancora siamo», la crisi di chi ha compreso «che
non ha più alcuna utilità per noi una lettura assoluta dei
classici», ma che esistono ancora molti modi, altri modi, con cui i classici ci
possono rispon-dere, molti e diversi piani su cui essi vivono ancora per noi, e
che molti e diversi possono essere i gesti del nostro rapporto con loro. E su
questa fenomenologia va forse ormai posato l’accento. Sono evidenti le
consonanze tra un così attento bisogno di fondare una diversa presenza dei
classici in un futuro avvertito come totalmente ‘altro’, e l’attività di G. in
quegli anni come filologo e come docente. Ne è conferma la scelta di continuare
a pubblicare su Il Verri gli articoli di maggior impegno teorico e
programmatico già apparsi nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica: in
particolare i due saggi L’interpretazione dei lirici greci arcaici nella
dimensione del nostro tempo e Prospettive critiche
nell’interpretazione della cultura greca dell’età dei lirici . Il primo (G. pienamente
si presenta al lettore ‘nella dimensione del nostro tempo’, subito prospettando
l’ineludibile «grosso problema di fon-do che è il problema stesso della
sopravvivenza del mondo classico nella nostra cultura», letto all’interno del
più radicale tema della ‘morte della storia’ nelle società a tecnologia
avanzata e pervasiva. Serra Già in QUCC, con il sottotitolo Sincronia e
diacronia nello studio di una cultura orale: G. . Dopo, sono riflessioni che
colpiscono per lungimiranza, e per estraneità agli ideologismi allora correnti
come a qualsivoglia ‘umanistica’ retorica consolatoria o deprecatoria: In
concreto, quale senso può avere la grecità arcaica nell’odierna civiltà
tecnolo-gica che rifiuta la storia e s’impone come civiltà nuova, integrata e
alienata come è definita dai sociologi, perché ha tolto al mondo,
irrevocabilmente, le sue proprie dimensioni storiche? Il risultato di questa
situazione irreversibile è a tutti noto: la grande crisi dei valori etici,
politici, espressivi. Se volgiamo per un attimo lo sguardo alla cultura contemporanea
e agli ultimi movimenti delle neoavanguardie europee, lo stato di crisi
dell’espressione ha forse toccato i suoi limiti. L’articolo enuclea e propone
con chiarezza i principali elementi caratte-rizzanti il rinnovamento a livello
internazionale degli studi sulla lirica greca arcaica, sulla spinta soprattutto
dei lavori di Havelock, muovendo dal riconoscere che dato comune alla lirica
greca, e in generale alla poesia greca sino alla fine del V sec. fu il tipo di
comunicazione cui fu affidata, comunicazione non scritta ma orale», e che una
poesia orale «comporta modi di espressione e atteggiamenti mentali diversi
dalla poesia di comu-nicazione scritta». Si è di fronte a una ‘tecnologia di
scrittura’ rinvenibile «in contesti poetici di altre culture orali»,
solita affidarsi a periodi brevi e figurazioni paratattiche, estranea all’«uso
dell’io idiosincratico», cioè appunto all’‘io lirico’ della poesia latina e poi
moderna, connessa invece a una «psicologia della performance
poetica che mira a pubblicizzare il personale e il soggettivo per renderlo
immediatamente percepibile e coin-volgere emozionalmente l’uditorio attraverso
la ricca serie di immagini e metafore proprie del linguaggio della lirica
arcaica. La presenza del mito ne riflette la funzione, «tessuto connettivo
della cultura orale e strumento sociale di interazione tra passato e presente,
fra tradizione e attualità, tra poeta e uditorio», sì da delineare un tipo di
poesia prammatica per la sua funzione e i suoi scopi parenetici, didattici e celebrativi,
sollecitata nella scelta dei temi dalle vicende della vita militare e politica,
dalle reali situazioni della vita sociale, dei simposi, delle feste religiose e
degli agoni atletici, vincolata alle richieste di un committente o a un
uditorio di amiche e di amici di un thiaso di ragazze o di una consorteria
politica di identico rango sociale. Si trovano qui compendiate e illustrate con
efficace consapevolezza critica le linee guida che per mezzo secolo ispireranno
l’amplissimo lavoro di G. e della sua scuola sulla lirica greca arcaica. È
opportu-no sottolineare la volontà di G. di legare l’interpretazione dei lirici
greci, così rinnovata, a una prospettiva particolarmente ampia e ambizio- sa,
protesa sul futuro e infatti più volte ribadita nei decenni successivi, [Esemplare
l’esposizione in G. Sent from the all new AOL app for iOSl’idea cioè cui aspira
l’antropologia contemporanea, dell’interpretazione come comunicabilità fra
culture diverse e distanti nel tempo». Il rifiuto, all’inizio dell’articolo,
sia della «interpretazione umanistica tradizionale della poesia greca come
eterna storia naturale del gusto e dell’arte sia del neo-umanesimo etico, e in
definitiva la presa d’atto della «crisi profon-da dell’umanesimo tradizionale»
in un contesto culturale dominato dalle nuove scienze dell’uomo, mira
all’affermazione di un diverso paradigma (identificabile nei nomi diversi ma
variamente concordanti di Dodds e di Finley, di Vernant e di Havelock) con «lo
sforzo di capire in concreto la mentalità dell’uomo greco arcaico», secondo una
linea critica attenta all’oggi e al domani: nella quale cioè «convergono le
domande, le cate-gorie e gli strumenti delle moderne scienze dell’uomo: dalla
lessicologia semantica alla psicologia sociale e alla psicologia della storia,
dalla sociologia all’antropologia», e il vero tema risulta infine il problema
concreto dell’uomo nella sua vita individuale e sociale. Allo scopo
evidentemente di segnalare nell’attività critica ed esegetica la necessità di
una costante riflessione concernente passato dell’oggetto e presente
dell’interprete, «contro il pericolo di arbitrari travestimenti, il saggio si
chiude con una breve citazione da Eliot, cara a G., che la ripeterà in futuro.
Si tratta di un passo proveniente da un saggio (Euripides and Murray ),
violento attacco dello scrittore contro le traduzioni euripidee approntate per
la scena dal famoso grecista, accusato di adottare per le proprie versioni un
obsoleto stile tardo-otto-centesco incapace di trasmettere la sostanza del
testo greco e di renderlo comprensibile nel presente (opinione ben espressa
dalla devastante frase finale: «è per il fatto che il Murray non ha istinto
creativo che lascia Euripide lì, proprio morto»): è giusto aggiungere che,
quali siano stati moventi e intenti della stroncatura di Eliot, le traduzioni
di Murray proposte on the stage furono grandemente popolari per
decenni, e anzi it is largely due to Murray that Greek tragedy establishes
itself as a permanent feature of the theatrical landscape. L’intervento è
incluso [Sul significato di fondo dell’opera di Gentili da individuarsi
nella «applica-zione alla filologia testuale dell’antropologia culturale», al
fine di porre «la spiega-zione dei testi, della loro struttura e dei singoli
passi, nel quadro illuminante della cultura complessiva cui furono funzionali»
vd. soprattutto le osservazioni di Cerri. Con riferimento a quanto sembra alle
interpretazioni idealistiche e estetiz-zanti della lirica greca contro cui più
polemizza Gentili. 103 «Abbiamo bisogno di un occhio che possa vedere il
passato al suo posto con le sue definite differenze dal presente e tuttavia in
modo così vivo che esso sia tanto presente a noi come il presente. Cfr.
Garland. Su Euripides and Murray vd. ora i rilievi di
Morwood; sui ben noti, profondi interessi di Eliot per le letterature classiche
e soprattutto per Virgilio, e sull’importanza nella costru-zione e
nell’autorappresentazione del poema The Waste Land del
concetto Sent from the all new AOL app for iOSda Eliot nella
raccolta IL BOSCO SACRO, rivelata alla cultura italiana dalla
traduzione di Anceschi, che premise una lunga introduzione dove non manca di
essere menzionato Euripides and Murray, da Anceschi accostato al saggio
«incompiuto e bellissimo di Serra Intorno al modo di leggere i
Greci per la comune avversione verso «quel tipo ambiguo di
traduttore-poeta-filologo-professore che fu di moda nei primi anni del secolo e
che non soddisfò né le ragioni pure della filologia, né tanto meno quelle,
certo più rigorose, dell’arte. Bersaglio di Anceschi, subito dichiarato, è «il
prof. Romagnoli», esempio più noto della «filologia poetica di fine secolo»,
appunto quella « filologia poetica, che è riuscita a ridurre i liri-ci
greci ad una farsa domenicale» a suo tempo già attaccata dallo stesso Anceschi
(direttamente coinvolgendo Romagnoli, da poco scomparso) nell’introduzione
ai Lirici greci, priva invece di riferimenti al certo in Italia
ancora ignoto intervento di Eliot contro Murray traduttore: lo si troverà poi
citato, in chiusura, nella rielaborata, quasi palinodica pre-fazione
anceschiana. Il terzo ampio e importante contributo che Gentili in quegli anni
ripropose sulla rivista di Anceschi (Prospettive critiche nell’interpretazione
della cultura greca dell’età dei lirici : G.) è per intero dedicato a discutere
i radicali mutamenti intervenuti tra la prima e la seconda metà del Novecento
nel definire l’orizzonte della critica sui lirici greci». Il saggio prima di
tutto registra con soddisfazione il venir meno «dei miti e dei luoghi comuni
della vecchia critica idealistica e delle sue estreme frange estetizzanti»,
particolarmente forti in Italia «per oltre un trentennio» proprio nell’àmbito
degli studi sui lirici, e nelle tradu-zioni. Come traccia dell’estremo
persistere della «critica del gusto» e in di fragment
(«these fragments have I shored against my ruins») vd. il profilo di
Martindale. Anceschi Anceschi Anceschi, Introduzione in
Quasimodo. Questo il passo. Quasimodo sembra perciò essere veramente il più
adatto – oggi – per una impresa così ardua – necessariamente – difficile in
reazione a certa filologia poetica, che è riuscita a ridurre i
lirici greci ad una farsa domenicale (e si veda Romagnoli da un frammento
bellissimo: Tramontata è già Selene / e le Pleiadi: il ciel tiene /
Mezzanotte: l’ora vola; io son qui sopita e sola, dove il riferimento è
natural-mente al famoso frammento saffico. In Quasimodo, dove Eliot nel saggio
su Euripide è menzionato accanto a pensieri sul tradurre di LEOPARDI (si veda)
e di Pound. Pochi mesi prima della comparsa in italiano de Il bosco
sacro, il richiamo a Murray di Eliot a proposito delle traduzioni dai lirici
greci prodotte in Italia da certi filologhi non so come invasati dal dio è già
in Anceschi, Presentazione in Anceschi – Porzio dove come
traduttore di poeti antichi oltre a C. Sbarbaro, da Sofocle, compare in realtà
il solo S. Quasimodo, con testi da Omero, Saffo, Alceo, Erinna, Eschilo, VIRGILIO
(si veda), OVIDIO (si veda), CATULLO (si veda)] generale di quel gusto del
lirismo che domina la cultura italiana è indicata l’ancora presente tendenza a
ricondurre il testo originale al gusto del lettore e non viceversa a guidare il
lettore verso il testo originale, così procedendo a un’operazione che annulla
le categorie del tempo e dello spazio in vista di una contemporaneità falsa ed
artificiale». A rinforzo dell’osservazione e come monito «contro il pericolo di
arbitrari travestimenti» in cui possano cadere le traduzioni, G. torna a
menzionare il passo di Eliot contra Murray già citato al termine
dell’articolo di due anni prima ( L’interpretazione dei lirici greci
arcaici nella dimensione del nostro tempo. È interessante notarlo,
inte-ressante e paradossale. Originario intento del brano, e in genere
di Euripides and Murray, è l’accusa dello scrittore Eliot al grecista
Murray di essere privo dell’‘occhio creativo capace di render vivo Euri-pide
con una traduzione inglese adeguata ai tempi e alla perduta centralità
dell’educazione classica. Anceschi nel presentare la traduzione italiana
ravvisò in Murray l’equivalente inglese di Romagnoli, cioè dell’esponente più illustre
di quella ‘filologia poetica fine di secolo a lungo di voga in Italia,
colpevole di aver travestito gli antichi poeti nelle forme di un
linguaggio che non sappiamo collocare né storicizzare: un inafferrabile
linguaggio di Utopia che ci ha sempre meravigliato con certi moti di umore, e
oggi ancor più ci meraviglia e diverte; solo in qualche caso si potrà parlare
di uno sfatto e maldestro residuo di discepolato carducciano. È opportuno
citare per intero nel contesto originario il brano, con cui il sag-gio di Eliot
si conclude: Abbiamo bisogno di una digestione che assimili insieme Omero e
Flaubert; abbiamo bisogno (come ha incominciato Pound) di uno studio accurato
degli umanisti e dei traduttori del Rinascimento. Abbiamo bisogno di un occhio
che possa vedere il passato al suo posto con le sue definite differenze dal
presente, e, tuttavia in modo così vivo, che esso sia tanto presente a noi come
il presente. Questo è l’occhio creativo; ed è per il fatto che il professor
Murray non ha istinto creativo che lascia Euripide lì, proprio morto. Eliot: I
classici han perduto il loro posto di pilastri del sistema politico-sociale. Se
i classici devono sopravvivere e giustificare se stessi, come letteratura, come
elementi del pensiero europeo, come fondamento per la letteratura che speriamo
di creare, sono proprio sfortunati per il bisogno che hanno di persone capaci
di chiarirli. Se del LIZIO d’Aristotele si può dire che è stato un pilota
morale dell’Europa, noi abbiamo bisogno di qualcuno che ci spieghi come sia
materia vitale per noi il rinunciare o no a tale pilota. E abbiamo bisogno di
un gruppo di poeti colti che abbiano, almeno, opinioni sul dramma greco, e se
esso sia o no di qualche utilità per noi. Si deve dire che iMurray non è l’uomo
adatto per ciò. I poeti greci non avranno il più insignificante effetto di
sollecitazione per la poesia inglese, se appariranno solamente travestiti in un
volgare avvilimento dell’idioma troppo risentitamente personale di Swinburne.
Anceschi discorso che, Anceschi tiene a precisare, «non si rife-risce ad un
letterato di bella educazione e di civilissimo spirito, come Valgimigli Per
l’Anceschi come per quello e parimenti
(e poi sempre), la risposta alle illeggibili e a tratti grottesche
traduzioni di Fraccaroli e di Romagnoli venne dai Lirici
greci di Quasimodo, frutto d’acuto, inatteso, e ormai da molti anni
pressoché desueto contatto tra l’antico e il contemporaneo, fonte di poesia
nuova e antica a un tempo: proprio l’opera cioè implicito (e di lì a poco
esplicito) obiettivo polemi-co di Gentili, in quanto espressione più nota e
fortunata di quel ‘lirismo novecentesco’ che indebitamente assimilò alle
proprie categorie critiche ed estetiche la realtà incommensurabilmente altra
della lirica greca, pie-gandola alle attese e ai gusti del moderno lettore.
Riscoperto da Anceschi a sostegno di una resa dei classici antichi affine a
quella operata da Quasimodo con i lirici greci, Euripides and
Professor Murray è invece evocato da Gentili come alleato contro gl’arbitrari
travestimenti realizzati da traduzioni quale quella di Quasimodo. Lo si nota
non per ossessione fontistica o gusto della minuzia paradossale, ma come
indizio – insieme a tanti altri più rilevanti – del ruolo che nei decenni
centrali del Novecento la versione quasimodea dei Lirici ha,
come presenza immanente e come termine di confronto positivo o negativo, non
solo nel mondo letterario italiano, ma anche in quello filologico e accademico.
Nel caso di G. una tale presenza e un tale confronto dovettero sin da giovane
caricarsi di più intense risonanze, quando si pensi che la prima (e pressoché
unica) re-censione dei Lirici greci di Quasimodo ad opera di
un grecista accademico fu di Perrotta. Dimenticata dopo la guerra in [Ottime
in proposito le osservazioni di Albini, Prefazione, in Perrotta –
Albini, V: Le due traduzioni dei lirici greci che hanno contrassegnato la
prima parte del Novecento sono opera di G. Fraccaroli ed Romagnoli, due
studiosi di seria dottrina, impegnati nello sforzo di rievocare la bellezza e
la grandezza dei classici antichi. Si voleva spalancare una grande finestra sul
mondo antico, offrire le chiavi di un mondo paradigmatico, richiamare al
passato come premessa e garanzia per l’avvenire. Se le riprendiamo in mano
oggi, tali versioni si rivelano sconfortantemente indecifrabili. Lessico,
movenze, stilemi ci sono estranei, ignoti, quasi. Dall’introduzione di Anceschi
ora in Quasimodo Pare certo che G. sia giunto al saggio di Eliot attraverso
Anceschi, che lo propose al pubblico italiano, e di cui nel saggio poche righe
più avanti è del resto citata l’introduzione all’edizione dei Lirici
greci. Ancora nella postuma Premessa di Anceschi,
Brevi parole, su un modo del tradurre a Mariotti, le versioni di
Mariotti sono lodate come «ben lontane dalle effusioni floreali del prof.
Murray, non meno che da quelle di certi nostri professori-poeti», e si ha un
interessante ricordo personale delle «traduzioni dai Frammenti dei
tragici greci che legge ai tempi del liceo LIZIO, lontane ormai, ma non
dimenticate, di Mario Untersteiner, un traduttore che rimase esente dalle
rumorose, eccitate, e un poco illusionistiche euforie degli esuberanti
traduttori liberty del suo tempo. Anche in questo senso non è fuori
luogo osservare, come più volte fece Marcello Gigante, che «la traduzione
dei Lirici greci ha conquistato un posto ben definito nella storia
degli studi classici ragione della sede in cui è pubblicata, la recensione
di Perrotta non si limitò a rilevare errori e spropositi della traduzione
(Bella cosa, se Quasimodo sapesse un po’ meglio il greco!), ma soprattutto
seppe cogliere nell’impresa di Quasimodo quella di «un poeta, un modernissimo
poeta che vuol tradurre i lirici greci modernamente, e riesce così a conservare
ad essi la semplicità antica»: da contemporaneo Perrotta comprese cioè il
novecentismo dei Lirici greci, la loro pertinenza (come Anceschi dirà del
classicismo post-simbolista di Eliot) a una zona di dignità anticamente
moderna, di classiche aspirazioni, che è movimento proprio a gran parte
dell’Europa civile Sono osservazioni utili, credo, a contestualizzare e meglio
valutare l’attenzione, pur critica, che Gentili spesso manifestò verso i
Lirici greci quasimodei nonché verso significato e influsso nella
cultura italiana del Novecento di quella modalità di accesso alla poesia greca.
Nel saggio di G. compreso nell’annata de «Il Verri» alle versioni di Quasimo-do
dai lirici è accostato il Pindaro di Leone Traverso, cioè la
traduzione delle odi e di una scelta di frammenti che il grecista e germanista
L. Tra-verso pubblica per Sansoni. Va ricordato che sede originaria di
Prospettive critiche nell’interpretazione della cul-tura greca dell’età
dei lirici fu l’imponente numero in due tomi di Studi Urbinati per intero
dedicato a ospitare Studi in onore di Traverso, con
Dedica di Bo, di cui è
altresì presente il saggio La cultura europea in Firenze. Vi si
rievoca il clima degli anni di formazione fiorentina di Traverso, poi
professore di Lingua e letteratura tedesca nell’Ateneo urbinate, tra i giovani
poeti e scrittori (Bo, Bigongiari, Luzi, Macrí) che raccolti intorno a «Il
Frontespizio» e a «Letteratura» diedero vita all’esperienza dell’ermetismo,
prima di tutto come esigenza di apertura a una cultura di carattere europeo e
organicamente volta perciò alla traduzione: «anni dove la poesia è una sorta di
religio- [Si tratta de «Il Bargello. Foglio d’ordini della Federazione
fiorentina dei Fasci di combattimento», periodico cui collaborarono molti
giovani intellettuali anche vicini all’ermetismo. La recensione ai
Lirici greci è comunque segnalata nelle bibliografie di Perrotta
in Studi Perrotta e in Perrotta; sul tema vd. Benedetto. Anceschi;
ricordo in proposito il recente, ricco catalogo Mazzocca Traverso – Grassi G. Cfr.
Bo (in origine conferenza pronunciata a
Firenze); nel I tomo è l’ampio saggio di Macrí, dove particolare attenzione è riservata
alla rigorosa formazione filologica classica di Traverso («addetto, nella
distribuzione dei nostri compiti generazionali, alla specula
ellenico-germanica»), alla sua ammi-razione per Perrotta e alla intrinsichezza
con Pasquali, alla lunga consuetudine con Pindaro, letto e tradotto «non con un
rifacimento o rimpasto contemporaneizzante di tipo idealistico
pseudostoricistico (poesia e non poesia, ciò che è vivo e ciò chene e la
critica sposava le stesse passioni e le stesse ricerche dei poeti. Già coinvolto
in una polemichetta con Quasimodo (duce Lavagnini) ancor prima
dell’uscita dei Lirici greci, intorno all’interpretazione di ὤρα
come giovinezza nel famoso fr. Diehl di Saffo (Tramontata è la luna
), Traverso fu uno dei primi recensori dell’opera, su «Primato» dell’1 luglio
1940. Pur notando qualche arbitrio e difetto nella resa del greco, sin dall’
incipit egli aderisce alla scelta effettuata sui lirici («perfettamente
adeguata al gusto del nostro tempo), alla sua modalità e ispirazione: Tralasciati
i pezzi gnomici e oratorii o comunque ristretti al giro d’una polemica
occasionale (Callino, Tirteo, Focilide,Teognide, Solone, Senofane, ecc.) e
insieme le manifestazioni illustri – a prima vista un po’ estranee al nostro
spirito – di poeti considerati, ma non sempre a ragione, come ufficiali quali
Pindaro e Bacchilide – egli isola di quella poesia una zona che più
evidente offre il carattere di una «pu-rezza» rarissima in tutte le civiltà
letterarie. (E l’ha aiutato efficacemente in questa selezione anzitutto lo
stato in cui più di frequente furono tramandate quelle reliquie –
naturalmente per ragioni diversissime dalle sue: frammentario) Forse memore di
quei lontani trascorsi, e certamente del retroterra erme-tico di Traverso, G.
assimila Lirici greci di Quasimodo e
Pindaro di Traverso come «prove più rappresentative di
un’esperienza letteraria intesa come problema d’immagini, d’invenzione
linguistica, di ricerca di stile. Mentre in Quasimodo la vera fedeltà di
traduttore è nella libertà del movimento linguistico e ritmico» con il
conseguente scarso valore attribuito al reale rapporto originale-traduzione,
l’assai più ricca è morto, ecc.) ma di colpo, al centro e al cuore
dell’assoluto e del sublime pindari-co, che fu operazione tipica della critica
ermetica nel contatto con l’opera d’arte»: notandosi inoltre che «non diverso
(pur computata la diversità della preparazione filologica) fu il possesso della
lirica greca da parte di Quasimodo». In una vivace intervista Macrí ha a
ricordare Traverso all’inizio degli anni Trenta come parte «del primissimo
gruppo pre-ermetico al caffè San Marco infusi del demone delle letterature
straniere», insieme naturalmente a Bo, che «venne alla Facoltà di Lettere
fiorentina per seguire gli studi classici, poi ci ripensò e divertì sulla
letteratura francese, maestro Foscolo Benedetto, anche di Luzi (Tabanelli Sono
parole a proposito di Quasimodo e degli anni Trenta da un articolo di Bo,
Ma dove va la poesia?, apparso sul Corriere della Sera, ora in Bo I testi
della disputa, avvenuta su «Corrente di vita sono ora disponibili in Benedetto
– Greggi – Nuti Traverso; la recensione è ora ripubblicata in Benedetto –
Greggi – Nuti. Di fronte alle versioni di Quasimodo anche a Traverso, come a
tutti i primi recensori, «preme anzitutto riconoscere la validità di poesia
italiana, indipendente, che ne risulta. E quindi, come da molti è stato
osservato, «il tradurre diviene un momento essenziale del poetare
Sent from the all new AOL app for iOStrama letteraria e filologica
sottesa, nonché l’influsso di Hölderlin traduttore di Pindaro e di Sofocle, ha
come effetto in Traverso un maggiore rispetto «per gli usi della lingua greca
che per lo spirito della propria lingua», con il paradossale scivolare «in una
sorta di ermetismo di scrittura che rende inintelligibile il senso e in un
preziosismo linguistico che tradisce l’impegno della trasparenza anche se il
calco raggiunga in qualche caso la fedeltà auspicata. Pur tra loro sotto molti
aspetti differenti, le versioni di Quasimodo e di Traverso sono agli occhi di G.
accomunate dall’inadeguatezza a riproporre «la totalità umana e artistica dei
lirici greci», vittime della loro stessa ricerca di una «fedeltà emotiva»
incapace di rendere l’attuale lettore consapevole della distanza che lo separa
da quegli antichi e frammenta-ri testi. Allora e per i successivi decenni della
sua intensissima attività scientifica, di filologo e di traduttore, la risposta
scelta da G. fu ri-nunciare a soffermarsi sul «problema teorico, e in un certo
senso ozioso, della traducibilità o intraducibilità in assoluto», e invece, per
così dire fenomenologicamente, investire sul piano prammatico il problema
del-la traducibilità. Si tratta di pagine di grande rilievo, dove sono
indi-viduate priorità e finalità concernenti «il discorso della traducibilità
dei lirici, dei modi e delle tecniche del tradurre», nel rifiuto
dell’assunzione a modelli di specifiche poetiche del tradurre, affermando
l’impossibilità di «prescindere dalle reali situazioni di cultura del mondo
contemporaneo e dalle richieste che al traduttore pone il lettore moderno», e
definendo esigenze di vasto e pur rigoroso valore comunicativo, destinate (come
già si è visto) a essere ribadite e di continuo inverate nel lavoro di G. dei
decenni a venire: Una poetica non astratta e irreale, non prefigurata su schemi
di modelli già espe-riti, ma una poetica aperta del tradurre che si costruisca
gli strumenti adeguati a una maggiore portata di comunicazione e riproponga il
problema del tradurre dai G. Le considerazioni a proposito di Traverso, e
delle tra-duzioni di Hölderlin come «esempi mostruosi» di fedeltà
all’originale, torneranno in B. G., Introduzione, a G. Bernardini –
Cingano Giannini G. richiama in nota il pregevolissimo saggio di
Mattioli, com-preso nel numero speciale Classicità e contemporaneità,
dove anche si aveva la fondamentale prolusione urbinate Aspetti del
rapporto poeta, committente, uditorio nella lirica corale greca . Il saggio di
Mattioli si conclude con alcune considera-zioni di tipo teorico, a partire
dalla convinzione che la soluzione univoca (traducibilità assoluta o
intraducibilità assoluta che sia) nega il concreto del vissuto», e che perciò
risposta sul piano teorico non si può dare ma «il problema si risolve soltanto
in un contesto prammatico, cioè sul piano delle molteplici risposte della
storia. Alla tradizionale domanda ‘si può tradurre?’ Mattioli propone di
sostituire domande quali come si traduce? e CHE SENSO HA IL TRADURRE?, cioè
«sostituire alla domanda di tipo metafisico la domanda di tipo
fenomenologico greci non nei limiti dei vecchi modelli privilegiati della
traduzione letteraria e della traduzione poetica, ma nella prospettiva più
ampia di quella idea cui aspira l’etnografia contemporanea della traduzione come
comunicabilità fra culture, visioni del mondo, strutture linguistiche, sistemi
grammaticali diversi e distanti nel tempo. Poiché fedeltà alla poesia o fedeltà
alla qualità letteraria è un problema che investe la comprensione totale del
testo, non soltanto di tutte le sue connotazioni, dei suoi registri linguistici
e metrici ma anche di tutta la realtà extralinguistica e situazionale
dell’enunciato poetico. Senza passare dettagliatamente in rassegna l’intero
saggio, bastino al-cuni richiami a temi che in futuro variamente continueranno
ad occupa-re G.. Così l’interrogarsi su una versificazione italiana adeguata
alla complessa struttura metrica delle strofe di Pindaro e di Bacchilide
conduce Gentili a sostenere la preferibilità del verso libero delle grandi odi
dannunziane, finanche segnalando le possibilità aperte dal verso dinamico e
“atonale” della poesia dei Novissimi», e in effetti nell’antologia
Lirica corale greca dello stesso G. tenta di risolvere il movimento
dei metri simonidei con le tecniche metriche della poesia contem-poranea dei
Novissimi: va detto che un profondo interesse per le strut-ture metriche della
poesia italiana soprattutto ottocentesca e novecentesca sin dall’inizio
caratterizza i «Quaderni Urbinati di Cultura Classica . La G. [Sono affermazioni
che ritorneranno, insieme a parte dell’intero saggio, nell’ Appendice II.
La traduzione dai lirici. Alcune osservazioni sul problema del tradurre
in G., Si ricordi la scelta del verso libero per la traduzione delle
Pitiche, con l’os-servazione che «le grandi odi delle
Laudi del D’Annunzio, particolarmente il verso libero della
Laus vitae, scandito da strofe di 21 versi, offrono sotto il profilo
tecnico un modello esemplare di versificazione per l’esuberante dovizia delle
forme ritmi-che, tali da riecheggiare i molteplici schemi della metrica
pindarica» (G., Introduzione, a G. – Angeli Bernardini – Cingano –
Giannini); e si ricordi altresì la lunga citazione da Maia, con
l’apparizione del «monarca de-gli Inni», al principio dell’
Introduzione alla postrema fatica G. – Catenacci – Giannini –
Lomiento Lo rileva Bernardini [In àmbito diverso ma non estraneo si tenga
presente, dello stesso G., l’importante e innovativo lavoro Cultura
dell’im- provviso. Poesia orale colta nel Settecento italiano e poesia greca
dell’età arcaica e classica (G.), poi riproposto in altre sedi: nella
conclusione si esprime vivo interesse per esperienze contemporanee quali
«l’affermarsi, in America, di un’avanguardia poetica, che si definisce
“postmoderna” e trae il suo alimento dai contributi sulla poesia orale forniti,
in questi ultimi decenni, non solo dall’antropo-logia culturale, ma anche e
soprattutto dalla più autorevole filologia classica ameri-cana, rappresentata
dagli studi del Parry, del Lord e dell’Havelock» poi in G. Già nel primo numero
si ha l’articolo di Pinchera, che si apre lamentando l’effetto negativo sulle
«indagini critiche relative alla storia delle forme metriche» prodotto dalla
«dittatura culturale esercitata per vari decenni in Italia da Benedetto
Croce».riflessione sull’eclissarsi nel secondo dopoguerra del neoumanesimo di
W. Jaeger è occasione per evocare il contemporaneo «crollo dell’esperienza
critica crociana», la cui presenza più autorevole nel settore della classicità
e più coerente con l’orientamento crociano è riconosciuta in G. Perrotta,
particolarmente per Saffo e Pindaro. Circa la più generale posi-zione
critica del maestro, G. tiene a mettere in rilievo che «pur ade-rendo senza
riserve al canone dell’interpretazione estetica dei lirici, aveva tuttavia
saldissime basi filologiche e storiche, non era in altri termini una critica
del gusto», giacché il crocianesimo operava in lui come una sorta di
sovrastruttura, sul tronco più vi-tale di quella viva metodologia critica
introdotta in Italia da Giorgio Pasquali, che portava in sé già latenti i
fermenti di un approccio linguistico, psicologico e antro-pologico alla cultura
classica: la ricerca filologica costituiva soltanto il momento preliminare e
necessario di un’indagine il cui fine era l’intelligenza del mondo an-tico
nella viva concretezza della sua cultura. Nel prosieguo del contributo, Gentili
brevemente si sofferma sull’innova- tivo apporto soprattutto degli indirizzi di
Dodds e di Vernant allo studio della cultura greca arcaica, infine indicando il
problema cardine della ricerca sulla cultura e la poesia di quell’età «nel
corretto rapporto tra livello sincronico e livello diacronico della ricerca»,
il che è stimolo per accennare alle note riserve verso gli studi pindarici di
Bundy, e poi di Young. Ad essi G. rimprovera un’analisi limitata ai soli
aspetti sincronici delle strutture linguistiche e formali, tale da precludere
«la possibilità di comprendere gli aspetti situazionali ed extralinguistici
della performance della lirica pindarica». Alcuni anni dopo,
più ampia- mente e duramente Gentili assocerà a questa nuova critica «il
fastidio che suscita inevitabilmente un’analisi soltanto formale, intesa a
repe-rire le costanti intertestuali, senza riguardo all’articolazione dei
singoli contesti ed alla impostazione ideologica dei diversi autori: è per noi
interessante il confronto lì istituito con «quella critica estetica che ebbe in
Italia come suo massimo esponente G. Perrotta», a tutto vantaggio [In nota
è menzionato il contemporaneo saggio su Saffo di Valgimigli, «da noi la prova
più rilevante di una critica del gusto permeata di evoca-zioni e suggestioni
letterarie della cultura italiana fra i due secoli». Significativo è, nella
stessa nota, il richiamo invece favorevole all’intonazione anticlassicistica
dei frammenti dal saggio di Serra Intorno al modo di leggere i
Greci pubblicati da E. Raimondi nel numero de «Il Verri» su
Classicità e contemporaneità ; si consi-deri anche che in occasione del
cinquantenario della morte, è il saggio di Bo La religione di Serra, poi
accolto nel volume La religione di Serra e altre note di lettura,
Firenze Su crocianesimo e Pasquali in Perrotta, analoghe espressio-ni vent’anni
dopo in G.. Su questi temi vd. poi almeno G., dell’approccio del maestro, «una
critica estetica che non è puro estetismo impressionistico ed intuizionistico,
ma una critica del gusto corroborata da un’acuta sensibilità storica..
L’articolo si chiude confer-mandosi come «proposta di una diversa lettura dei
lirici, che recuperi nella storicità delle relazioni fra poeta e uditorio il
significato originario del loro messaggio». Una proposta di cui si tiene a
sottolineare il caratte-re antidogmatico, inteso a rispondere alle esigenze
critiche del presente: «Ma, di là da una falsa pretesa di un equivoco
oggettivismo metasto-rico, essa non presume di essere definitiva. Al contrario,
consapevole del divenire storico della critica, si affianca alle precedenti
proposte, già esperite, in una modalità di lettura più coerente con l’orizzonte
culturale del nostro tempo. Assai più dei due precedenti interventi accolti su
«Il Verri», Prospettive critiche nell’interpretazione della cultura greca
dell’età dei lirici è attento al tema della traduzione, e alle ricadute
delle varie correnti critiche del Novecento su teoria e prassi delle traduzioni
dai lirici greci. Al ‘piano prammatico’ e all’impostazione ‘aperta’ della
traduzione, di taglio antropologico, Gentili rimarrà fedele, ulteriormente
approfondendo la riflessione negli anni, sì da scorgere nel traduttore «uno
“sciamano” che non conosce confini sino al punto da divenire un altro da sé e
di cogliere il momento puntuale in cui significante e significato si
compenetrano» 136, nella fedeltà alla «norma dannunziana di avvicinare il
lettore all’opera e non viceversa» 137 . La presenza di contributi di G. G.;
sul conflitto tra gli indirizzi di Bundy e della SCUOLA URBINATE di G., le
considerazioni di Lehnus. Ampia analisi delle posizioni di Bundy e di Young,
con frequenti richiami a Perrotta e in nome (come noto) della riproposizione di
una ‘lettura estetica’ degli epinici, è nel lavoro di Bonelli, con ricca
bibliografia. G.. Analogamente, e fenomenologicamente, si concludeva il già
citato Mattioli: Altre risposte (traduzioni e idee del tradurre) segui-ranno in
futuro per le quali sarebbe arbitrario stabilir regole o far previsioni come lo
sarebbe per l’arte del futuro», e perciò «a questo punto si può fermare il
discorso, non solo perché si presenta come abbozzo di una futura ricerca, ma
anche perché i discorsi conclusi in questo àmbito di studi sono
palesemente insensati». Si veda già Mattioliper l a proposta di «una
impostazione fenomenologica della ricerca, considerata particolarmente
necessaria e opportuna nel campo dell’antichità classica proprio in ragione
dello «scacco che ha ricevuto il tentativo, compiuto in Italia, di trasportare
sic et simpliciter l’estetica crociana nella interpretazione delle letterature
classiche. G., Introduzione, a Gentili – Angeli Bernardini –
Cingano – Giannini Così in G., dove anche è ricordato il giudizio di Perrotta,
per il quale ANNUNZIO (si veda) è non solo il traduttore ideale di Pindaro, ma
il poeta italiano che meglio di tutti ha saputo riecheggiarne l’arte,
intendendola pienamente. Più positivo si fa nel citato articolo il giudizio
sulla traduzione pindarica di L. Traversosu «Il Verri» non andrà oltre i primi
anni ’70 138, ma sino alla vigilia del-la morte di Anceschi (maggio 1995)
durarono i rapporti epistolari, come oggi sappiamo grazie alla pubblicazione
dei diari riferiti agli ultimi anni del professore bolognese, che molte volte
sino agli estremi suoi giorni continuò a tornare con il pensiero alla
traduzione di Quasimodo dei Lirici greci e al suo significato
storico e culturale. A quella stessa seconda metà degli anni ‘60 fecondissima
di idee e di propositi appartiene il numero d’avvio dei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica», come espressione del Centro di studi sulla lirica
greca e sulla metrica latina diretto da G. e connesso al CNR. Un
effettivo riesame dell’attività scientifica di Gentili comportereb-be una
sistematica rilettura non solo dei contributi e degli interventi del direttore
dei Quaderni ma più in generale delle principali linee di ricerca
espresse dalla rivista, del loro permanere, mutare ed evolvere nel corso di
cinquant’anni. Mi limiterò a richiamare due contributi di Gentili su Saffo
ospitati nei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» a distanza di oltre
quarant’anni l’uno dall’altro, per così dire ai due poli cronologici dei
Quaderni di G.. Il primo è La veneranda Saffo, che [Sino
a G. Cerri: sull’importanza dell’articolo per successivi saggi di G. sulla
storiografia antica vd. Bernardini Oltre a un cenno in un’annotazione
(«Eccellente scritto di G. sulla “Repubblica”. Lo riporto integralmente. Ancora
una volta acu-te considerazioni sulla oralità – e sulla situazione degli studi
umanistici», cfr. Anceschi), si veda soprattutto quella d («Lettera
molto lusinghiera di G.. Conosco l’ironia, ed è tale da non accettare
ambiguità. Ecco un uomo che dice quello che pensa», cfr. Diari
Anceschi). Nell’Archivio Anceschi presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di
Bologna sono conservate lettere di G.: cfr. Campagna; si tratta della presenza
più ampia per un filologo classico, insieme a M. Barchiesi (parimenti lettere),
del quale sulla rivista anceschiana vd. Plauto e il “metateatro”
antico (Barchiesi), con la premessa: «sulla tentazione erudita […]
prevalse l’idea di tenere aperto, in perfetta modestia, il discorso su quello
che è più che mai il nostro tema cruciale, e che può designarsi con la formula
stessa del “Verri”, classicità e contemporaneità. Così: Con Quasimodo ho avuto
una frequentazione amichevole molto prolungata e, mi pare, serena aperta ai
problemi con vivi impulsi di collaborazione e di conoscenza. Certo sono passati
tanti anni; per altro, l’affetto del ricordo non diminuisce. Quale che sia la
forza della mia vita letteraria, per me si è trattato di un risvolto capitale.
La traduzione dei Lirici Greci fu una esperienza radicale alle
origini, che ci portò a rivivere il proble-ma del tradurre come un problema
fondamentale della poesia. Da quel momento la discussione è aperta, e mi pare
con qualche frutto, mi pare anche che in questo senso l’impulso continui. Penso
che questa esperienza nel mettere in rilievo tanti motivi della relazione
complessa tra traduzione e poesia – sia, o almeno sia per quel che mi riguarda,
costitutiva di un modo di vedere che continua ad operare» ( Diari
Anceschi G. confluito in forma abbreviata in G. prende spunto dal famoso fr.
384 V. (verosimilmente) di Alceo ἰόπλοκ’ ἄγνα μελλιχόμειδε Σάπφοι, forse (si è
supposto) «l’ incipit di un car-me dedicato all’illustre
concittadina» 142 . Era il frammento cui s’era volto Perrotta dopo aver
espresso il proprio rifiuto verso «la soluzione dei Welcker e dei Wilamowitz» a
difesa della ‘purezza’ di Saffo: Molto meglio, per chi voglia davvero intendere
e onorare Saffo, ricordare il fram-mento di Alceo che dice: «affo pura, dal
dolce sorriso, dal crine di viola. L’omaggio devoto dell’insolente cavaliere di
Lesbo basta a farci sicuri che né bia-simi né malignità aduggiarono mai la vita
mortale di Saffo. Altro non è da ricercare: non si può pretendere di giudicare
con le nostre idee moderne, né giudicare una donna di Lesbo con i pregiudizi di
un Ateniese. Ognuno vede quanto sarebbe ingiusto rimproverare alla poetessa i
suoi amori per le amiche, mentre nessuno rimprovererà al suo compatriota e
contemporaneo Alceo gli amori per Lico. Ma più importa questo: Saffo è
soprattutto una poetessa, anzi è soltanto una poetessa per noi; soltanto la sua
poesia noi dobbiamo giudicare, e soltanto in essa noi possiamo trovare la sua
immagine. Ora, alla sua poesia possiamo accostarci con animo puro: essa è pura,
perché poesia, e altissima poesia. Al passo, per molti aspetti paradigmatico
dell’interpretazione perrottia-na di Saffo, Gentili non fa diretto riferimento,
rifacendosi invece all’ultimo articolo di Ferrari, allievo di Pasquali inviato
come assistente di Perrotta a Roma. Se merito dell’intervento di Ferrari era
stato sottrarre l’interpretazione dell’epiteto ἄγνα all’àmbito della
«castità profana», caro a «tutte le mitiche specula-zioni sulla purezza degli
amori di Saffo» e a tutte le «moderne idealizzazioni della sua poesia,
dimostrandone invece il senso arcaico «limitato esclu-sivamente alla sfera del
sacro», d’altra parte – rileva G. – l’indagine di Ferrari sfociava in una
idealizzazione di Saffo sostanzialmente coerente «con l’orientamento critico di
stretta osservanza crociana prevalente in quei tempi», rappresentato al meglio
dal Saffo e Pindaro di Perrotta, scritto appena cinque anni prima .
Nel varare la fortunata avventura dei «Quaderni Urbinati di Cultura Classica,
dalla ‘purezza’ di Saffo G. decide Degani – Burzacchini Perrotta.
Canfora L’articolo di Ferrari era
ricordato a proposito del «significato di ἀγνός» anche nella I edizione
di Polinnia. Questo verso famoso, che sarà da attribuire ad Alceo,
è innocentemente responsabile di tutte le mitiche speculazioni (soprattutto da
noi) sulla personalità di Saffo che poeti, critici e filologi ci hanno
somministrato a partire dalla Saffo “dal riso morbido, dall’ondeggiante | crin
di viola” del Carducci sino alla casta Saffo del Valgimigli»: così Gentili
l’anno prima, in occasione del rifacimento della sezione su Alceo per
l’edizione di Polinnia del 1965, 224 (anche in Gentili –
Catenacci). 147 Gentili di prendere le mosse: da quello stesso frammento,
si può aggiungere, scelto ad introdurre la sezione su Saffo nei Lirici
greci di Quasimodo (o coronata di viole, divina dolce ridente Saffo). In
conformità ai principî deli-neati nel saggio dell’anno precedente
Aspetti del rapporto poeta, commit-tente, uditorio nella lirica corale
greca, dove si poneva in primo piano la necessità per il moderno lettore di
comprendere la funzione e il fine proprio del carme lirico, il senso
dell’apostrofe è rintracciato attenendosi al senso reale del contesto alcaico,
così leggendo nel saluto di Alceo «un reverente omaggio alla dignità sacrale
della poetessa quale ministra d’Afrodite», con precisa allusione «alla funzione
religioso-sociale nell’ambito del tiaso. L’inveterato tema degli amori di Saffo
è radicalmente riesaminato alla luce di carattere, aspetti, scopi del tiaso
saffico «nelle sue giuste proporzioni storiche e sociali anche mediante
l’apporto di analoghe esperienze di altre culture». Il riconoscimento
dell’esistenza nella dinamica del tiaso di pre-cise unioni per così dire
ufficiali fra le ragazze tali da non escludere «probabilmente un rapporto di
tipo matrimoniale» è posto da Gentili in relazione a una testimonianza di
Simone de Beauvoir circa la presenza a Singapore e a Canton ancora in anni
recenti «di molte comunità femminili che nelle convenzioni e nelle pratiche di
culto sembrano ripetere antichi modelli culturali molto simili a quelli delle
comunità della Lesbo arcaica», e cioè «des lesbiennes reconnues e marient entre
elles et adoptent des enfants». G. offre qui un geniale esempio di
«interpretazione dei lirici greci arcaici nella dimensione del nostro tempo»,
come suonerà il ti-tolo dell’intervento al congresso di Bonn: al di là di
eventuali dubbi circa la sostenibilità del confronto, comunque verosimile,
conta mettere in luce l’efficacissima reazione ermeneutica che lega antico e
contemporaneo illuminando entrambi. Né manca l’apertura sul futuro, quando si
pensi in che misura a distanza di pochi decenni in molti Paesi oc-cidentali
quegli antichi modelli culturali si siano concretizzati nella rifles-sione
giuridica, nella legislazione e nella prassi sociale. Esempio forse tra i più
chiari di quanto i classici, e il rinnovamento della loro interpretazione,
abbiano contribuito a porre lontane, e meno lontane, basi della (post)moderna
sexual revolution, con tutte le forzature e gli arbitrî propri di tali ardui e
complessi intrecci di tempi e di culture. Dell’attenzione di Gen- [G. Importanti
in quest’àmbito anche i numerosi contributi ospitati nei «Quaderni Urbinati di
Cultura Classica» a proposito di significato e contesto del partenio di
Alcmane, a partire soprattutto da G. (poi rifuso in Le vie di Eros nella poesia dei
tiasi femminili e dei simposi in G.); sul più ampio tema delle
iniziazioni femminili l’assai più recente volume G. – Perusino In luogo di
rifarmi alla sovrabbondante bibliografia anglosassone in proposi-to, spesso
ideologicamente determinata, ricordo il capitolo Klassieken en
seksuele vrijheid nel bel libro di Veenman: con particolare riferimento a
una cultura, quale quella dei Paesi Bassi, cui in differenti epoche, sino alle
più recentitili a questi temi e alle loro ricadute e implicazioni, è infine
testimonianza Saffo ‘politicamente corretta’, l’articolo (in collaborazione con Catenacci) dove la
ribadita posizione critica che ammette la presenza nei carmi saffici di
elementi avvaloranti la pratica dell’omoerotismo in àmbito iniziatico e
paideutico è volta a contrastare «una nutrita serie di lavori ispirati ai
gender studies » di recente diffusisi soprattutto negli (e dagli) Stati Uniti,
e intesi a sostenere che «Saffo non si rivolgeva a giovinette, ma a sue
coetanee in una forma di libera attrazione omosessuale, e non svolgeva nessun
ruolo né paideutico né religioso all’interno del gruppo. Un coraggioso intervento,
di grande valore metodologico e rilevanza storiografica, per il quale una tale
Saffo politically correct va respinta, al pari della
Saffo otto-novecentesca votata alla purezza, giacché «rappresentazione astorica
e forgiata su istanze manifestamente attualizzanti. Nel quadro del crescente
interesse nei Quaderni Urbinati di Cultura Classica dell’ultimo ventennio per
questioni di storia e metodologia degli studi classici, alcuni anni fa apparve
un articolo di Miralles, dal titolo The use of classics today, aperto
dall’indubbia constatazione «the huma-nities are losing ground and classical
studies are in retreat. Al di là dei suggerimenti proposti, e dell’enorme
differenza di tempi e condizioni, torna in mente «il vigile e costante impegno
a dare un senso di attualità ai nostri studi» caro a Perrotta, da G. più volte
ricordato nelle com-memorazioni del maestro. Nel salutare la recente rinnovata
edizione di Polinnia è stato giustamente e autorevolmente
rilevato che «in tanto rin-novamento, Gentili e la sua scuola non hanno
dimenticato né che la poesia greca si può avvicinare solo attraverso la storia
e la filologia, né che essa ha comunque uno straordinario valore estetico. G.
non ha rinnegato le sue radici, semplicemente da esse è nato un albero capace
di produrre fiori non prevedibili all’inizio – se Perrotta sarebbe contento di
lui? Difficile dirlo» 153 . Forse, e per molti motivi, si può azzardare una
risposta positiva. Benedetto si devono determinanti apporti nell’elaborazione
di teoria e prassi della moderna sessualità liberata, Veenman mostra quanto
soprattutto negli ultimi due secoli i classici hanno aiutato a capire e
denominare l’omosessualità -- de klassieken hielpen homoseksualiteit te
begrijpen en te benoemen. – Catenacci 2007b; circa la storia della fortuna e
della ricezione di Saffo mi limito a rinviare alle incisive osservazioni di
Most. Va detto che in generale la critica più recente sembra avvertire una
quantità crescente di aporie circa il significato del contesto comunitario, il
gruppo ristretto e omogeneo tradizionalmente attribuito a Saffo, il ‘tiaso’, e
torna ad osservare che «mentre nel caso di Alceo la dimensione di gruppo
ristretto è evidente e spiega ade-guatamente gran parte – se non la totalità –
della sua poesia, nel caso di Saffo è più difficile da delineare senza
rischiare attualizzazioni indebite (Michelazzo). Miralles Bettini
Albini, Perrotta, «nomon Anceschi, Primo tempo estetico di
Eliot, in T. S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi di poesia e di critica,
con uno studio di L. Ance-schi, Milano 1Anceschi, Critica e immaginazione,
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poetica scelta e annotata da Treves, Firenze Ugolini, Lirici greci,
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Lirici greci e poeti ellenistici, antologia a cura d’Ugolini, Setti, Firenze
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LA PSICO-ANALISI IN ITALIA DURANTE IL REGIME FASCISTA, Milano. Grice: “I know Gentili’s type
– once in love with Greek, you cannot be a honest Latinist. So he found that
everything Roman had to be Hellenistic, -- see his notes on the Saturnio – this
of course irrirtates and rightly so Latinists – there are Roman ways which are
not Hellenistic ways. Geymonat has analysed this in social-class terms in his
history: Athens remained the finishing school for the ‘figli’ of the ‘migliore
famiglie romane’ – and the circle of Scipione Emiliano was pro-hellenic, but
Cato won: Latin remained the lingo!” Grice: “It also shows the unfairness of
academia for the poor – only the poor learn at Oxford, and I was fortunate
enough to have Hardie – but imagine you are born near Urbino and decide to
study classics at Urbino and you have Bruno Gentili as your teacher in “Latin
literature” and all he teaches you is how Hellenistic it all is! I hope you are
not poor and that you don’t have to LEARN at Urbino!” -- Bruno Gentili. Gentili. Keywords: implicature, il rettore latino –
la chiasura della scuola di rettorica a Roma di Crasso e Plozio – Cicerone – una perdita di tempo che chiude
le teste dei Romani. G.: Apri!, la rettorica a roma: i primi e gl’ultimi
semestri – Plozio – la guerra di Mario per l’apertura della cittadanza
agl’italici --- la chiasura di la scuola di rettorica di Crasso. -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gentili” – The Swimming-Pool Library.
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