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Monday, February 3, 2025

LUIGI SPERANZA -- "GRICE E GALIMBERTI"

 

Luigi Speranza -- Grice e Galimberti: la ragione conversazionale, l’implicatura converszionale, e l’imaginario sessuale – filosofia monzese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo monzese. Filosofo Lombardo. Filosofo Italiano.  Monza, Lombardia. Grice: “I like Galimberti: he has philosophised on amore, amicus, amicizia – all topics of my interest – while I am into vyse, he is into the seven capital vyses! He also has spoken about speech: the ‘parole nomade,’ and the ‘equivoci’ of the ‘anima.’ – In general his philosophy is about nihilism and the idea of man in the age of ‘techne’ (ars).” Il suo maggior contributo riguarda lo studio del inconscio e il simbolo (contractio), inteso come la base primeva e più autentica dell’uomo – ‘logica simbolica’. Nasce a Monza, la mamma maestra di elementari e il padre deceduto. Le necessità della famiglia l’obbligano a lavorare. Frequenta le scuole superiori in seminario. Terminati gli studi liceali classici, si iscrive  al corso di laurea in Filosofia a Milano. Si laurea quindi con Emanuele Severino con lode, con “La logica di Jaspers”. Fra i suoi maestri, anche Bontadini. Studia fenomenologia del corpo con Borgna a Novara. Insegna a Monza e Venezia. Studia con Trevi.“E se "filo-sofo" non volesse dire "amante del sagio" ma "saagio dell'amore", così come "teo-logo" vuol dire dotto *su* Dio e non ‘parola di Dio’, o come "metro-logo" vuol dire scienzato delle misure e non misura della scienza?” “Perché per la forma greca ‘filo-sofo’ questa *inversione* della morfologia nella implicatura? Perché il filosofo greco si struttura come un logico che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nell’academia, dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo quesso che lo face un ‘sagio,” e che non ha nessun impatto sull'esistenza e sul modo di condurla. E per questo cheda Socrate, che indica come la sua condotta "l'esercizio di morte", ad Heidegger, che tanto insiste sull' “essere-per-la-morte”, il filosofo si e innamorato più del saper morire che del saper vivere. Al centro della sua riflessione sta il corpori degli uomini, che, in un mondo sempre più dominato dalla tecnica, si sentono un "mezzo" nell'"universo dei mezzi", riuscendogli sempre più difficile trovare e dare un senso alla sua vita, alla sua esistenza. Si deve trovare un senso al radicale disagio, alla tragicità del suo esistere, anche attraverso il recupero dell'ideale antico greco-romano, evitando mitologie.  Il suo maggior contributo consiste nel porre la dimensione del simbolo (coniactum – the idea is that you throw two things together so that the recipient may compare them, one becomes the ‘symbol’ – coniactum – of the other – cf. Grice on Peirce on symbol) alla base primordiale della ragione conversazionale, che ha inteso ordinare il simbolo (mito, no logos) – dunque l’ambilavenza delle cose ma non l’equivalenza generale di significati. Il simbolo (coniactum) è il sustratto pre-razionale. Rappresenta un caos originario che ragione tenta di arginare. Siamo razionali (apolineo) per difenderci dal simbolo dionisiaco. Il concetto fondamentale del simbolo non è l’equi-valenza generale, ma l’ambi-valenza. Riprende Freud e Jung, fondendone con Nietzsche, Severino e Heidegger. Importante è stato il costante riferimento a Husserl e Jaspers. Il filosofo cerca la “comprensione” (verstaendnis – cf.. Grice on ‘understand’ – ‘understanding,’ literally, slang for a leg) e non la spiegazione (verklaerung) del comportamento umano. La psicologia filosofica o rationale (l’anima di Aristotele) non può operare una trasposizione tout-court dei metodi e dei modelli concettuali delle scienze naturali perché, così facendo, l'uomo verrebbe ridotto a mero evento naturale, fisico, come ha luogo, per esempio, in psichiatria.  Contrario, poi, al dualismo di Cartesio, Galimberti ha anche fatto riferimento al metodo fenomenologico e al funzionalismo per consentire altresì, alla psicologia filosofica o rationale, la comprensione e la descrizione fenomenologica di quelle strette relazioni che intercedono fra nostri corpori assieme al significato che queste relazioni comportano. E e tutto ciò lo porterà ad abolire, di conseguenza, ogni distinzione concettuale fra ”salute“ e ”malattia.” Insiste sull'inconsistenza della contrapposizione tutta occidentale fra scienza e fede – fiducia -- individuando come questa seconda – la fiducia, cf. English ‘trust,’ truth’ -- sia in realtà l'elemento fondativo dell'intera coscienza occidentale, all'interno anche della scienza e della tecnica. Scienza e fede non dovrebbero mai confliggere, è importante che nessuna delle due invada il campo dell'altra. Tematizza innanzitutto il passo della Genesi in cui Adamo è definito "dominatore della Terra, sui pesci dei mari e sugli uccelli del cielo", collocando l'uomo in una posizione privilegiata rispetto agli animali e la Natura in sé e legittimandolo a operare su di essi per alimentare la propria esistenza. In quanto il progresso è l'affermazione di questo primato umano, la tecnica (Greco techne, Latino, ars) è indubbiamente l'ipostasi che sigilla costantemente quest'affermazione sull'indifferenza naturale. La coscienza della techne (Latin ‘ars’) tecnica è formulata come una risposta alle fatiche naturali, si appellerebbe, dunque, a una condizione strutturale di eminenza consegnata da Dio e propugnata dalla persistenza di un animale sui generis.  Riconosce la cristianità come il carattere di una scansione temporale che identifica il passato come spazio del peccato, il presente dell'espiazione, il futuro della redenzione e salvezza. Questo semplice modello triadico ha una ricorrenza quasi ossessiva nelle forme occidentali, fra le quali la medicina (malattia, diagnosi, cura), psicoanalisi (disturbo, terapia, guarigione), scienza (ignoranza, sperimentazione, scoperta). La triade è il "coefficiente a-storico" necessario a profilare la possibilità di un progresso, che si esercita eminentemente nello scenario tecnico. Qui, l'uomo che soccombe alle fatiche naturali della sopravvivenza, del parto e del lavoro (così come minacciato nella Bibbia) ha modo di riscattare la propria difficoltà attraverso mezzi che ne purificano endemicamente l'opera, al costo di un esaurimento delle risorse naturali. Ma, in fondo, la loro esistenza è preposta a questo.  Non si definisce né "credente" (in senso cattolico) né "non-credente", ma "greco-romano", nel senso di colui che vuole recuperare la visione del mondo della civiltà greco-romana, in modo nietzschiano e heideggeriano (si veda anche Il detto di Anassimandro, un noto saggio di Heidegger sul pensiero greco arcaico), fondendola però con la pur antitetica visione cristiana: la morte e la vita vanno pertanto prese sul serio, e non minimizzate pensando a un'altra vita ultraterrena. La ragione è importante perché, come nel detto "Conosci te stesso", fornisce all'uomo il senso del proprio limite.  Approfondisce molto la tematica del concetto di tempo e del suo rapporto con l'uomo. La sua indagine evidenzia come nell'età degli antichi – eta greco-romana, eta classica -- non si pensasse al tempo come lineare ed escatologico, tanto meno vi era associata l'idea di progresso. Essi concepivano l'essere come kyklos (tempo ciclico, l’eterno ritorno di Nietzsche), come un ciclo in cui ogni evento è destinato a ripetersi. Nella filosofia greco-romana antica era impensabile che l'uomo potesse esercitare un controllo sul cosmo, o di imporre su di esso i propri fini. La dimensione dell'uomo era inserita armonicamente all'interno dei cicli naturali che si susseguivano necessariamente e senza alcuno scopo. Nel ciclo infatti il fine (in greco telos) viene a coincidere con la fine e la forza propulsiva (in greco energheia, actus) porta all'attuazione dell’ergon, l'opera, ciò che è compiuto.   Il ciclo si manifesta dunque con l'esplicitarsi dell'implicito.Il seme diventerà frutto solo alla fine del ciclo di crescita e maturazione stagionale, e il frutto coinciderà con il fine del seme, con il dispiegarsi completo dell'energia e delle potenzialità implicitamente contenute in esso. Nel ciclo, in cui tutto si ripete, non si dà progresso: di conseguenza divengono fondamentali la memoria dei cicli passati e quindi la parola dei vecchi, deposito di esperienza, e l'educazione, come trasmissione della memoria e dell'esperienza passata. Tuttavia, l'uomo è da sempre tentato di conciliare il tempo ciclico della natura con il tempo umano, che è un tempo “scopico” (dal greco skopein, che indica un guardare mirato). Con questa operazione l'uomo vuole reintrodurre scopi umani nel tempo naturale, naturalmente privo di scopi. Emerge qui dunque la necessità propriamente umana di progettarsi, cioè di gettarsi-fuori di sé verso un obiettivo, cercando di dotare di senso la propria esistenza. Questa tendenza tuttavia, può armonizzarsi con il “kyklos” solo se l'uomo vive con la consapevolezza tragica di non poter oltrepassare i limiti posti dalla natura, primo tra tutti la sua mortalità. In caso contrario, egli si macchierà di hybris (superbia), la tracotanza, l'unico vero peccato riconosciuto dalla saggezza greco-romana.In termini esemplificativi, il cacciatore esercita il suo guardare mirato nel bosco (skopos) e solo in questo tempo progettuale e nella compresenza di mezzi e fini, il suo arco diventa strumento e la lepre l'obiettivo. Si tratta di un tempo lineare che si muove tra due estremi: i mezzi e i fini (la ragione come phronesis or prudentia).V'è tuttavia un elemento che si inserisce tra questi termini, impossibile da controllare, ovvero il kairos, il tempo opportuno, che è anche imprevedibilità, e che può determinare o meno l'incontro tra mezzi e fini. Non è dunque nelle possibilità dell'uomo il tessere il proprio destino. Egli deve saper cogliere il kairos, la circostanza favorevole, e in essa espandere sé stesso.  Questo equilibrio tra tempo naturale, umano e del kairos è stato sconvolto dall'uomo nell'età della tecnica: obiettivo di quest'ultima è infatti quello di ridurre fino ad annullare la distanza tra mezzi e scopi (in cui si inseriva il kairos, l'imprevedibile) per realizzare così un controllo e un dominio assoluti sul mondo, che da cosmo a cui accordarsi è divenuto natura da dominare, e per portare a compimento una tirannia completa del tempo umano. Con l'età della tecnica abbiamo scatenato il Prometeo che gli dèi avevano incatenato, determinando il trionfo del potere della techne sulla necessità (in greco ananke) della natura, fino alla paradossale situazione in cui la tecnica non è più strumento nelle mani dell'uomo ma è l'uomo a trovarsi nella condizione di mero ingranaggio, funzionario inconsapevole dell'apparato tecnico.  Riflettendo sulle modalità in cui l'uomo abita il mondo, approfondisce il concetto di ‘corpori.’ Studiando genealogicamente il concetto di corpo dal periodo romano antico – quale e la etimologia di corpo? Quella di Platone e terribile: soma sema --  mette in contrasto le diverse modalità in cui esso è stato osservato. I corpori – corpus romano, pl. corpora – corpore -- sono visto come organismi da sanare per la scienza, come forza lavoro da impiegare per l'economia (body-abled man), come carne da redimere per la religione, come inconscio (id) da liberare per la psicoanalisi, come supporto di segni (semiotica corporale – la semiotica dei corpi) -- da trasmettere per la sociologia – un segno e un medio fisico – l’immagine e percipita per un corpo – un corpo mittente – un corpo che recive il messagio – semiotica fisica. L'uomo e capace di cappire significatum ambi-valente (uno senso Fregeiano e una implicatura – “He is a fine friend +> He is a scoundrel). Questo significatum ambivalente e fluttuante e quello che il corpo ha da sempre assunto. Questa ambivalenza del segno fra corpo 1 e corpo 2 nasce dal suo sottrarsi all'uni-vocità (or aequi-vocita – or aequi-segno) di una teoria psicologica categorizzante, concedendosi invece una “con-fusione” de un codex di senso fregiano e un codex di implicatura, con i quali i corpori sono costituito. Per salvarsi di un panico creato da questa ambivalenza (significatum fregeano, significatum griceianum), si sigue il principio d'identità, collocando i corpori di volta in volta sotto un equi-valente generico che gli garantisse uni-vocità o aequi-vocita (quando l’implicatura e cancellata). Cogliendo lo sfondo in cui i corpori si mostrano, si evidenzia la legge fondamentale che lo governa, ovvero lo “scambio” (o ‘con-versazione’) simbolica – il simbolo e il significatum griceiano -- in cui tutto è re-versibile e non vi è demarcazione tra significati – questo che Grice chiama la ‘indeterminazione disgiontiva infinita: il corpo significa che p1 o p2 o p3 o … L'ambivalenza del segno è una legge inclusiva per cui ciò che è, è sì sé stesso (principio d’identita), ma anche altro da sé (principio della negazione – diaphoron).  In questo modo i corpori conservano la sua oscillazione simbolica tra vita e morte: oscillazione che non posse eliminarsi tracciando una violenta disgiunzione tra vita e morte, tra ciò che è (l’ente, il ‘being’ di Grice) e ciò che non è (vide Grice, “Negazione e privazione).Proposito conclusive è quello non tanto di emancipare o liberare i corpori dalla restrizione impostagli dal senso apolineo fregeiano (che non avrebbe altro effetto che confermare i limiti in cui i due corpori sono reclusi), bensì quello di restituire i corpori alla sua originaria innocenza.  Si è sempre schierato su posizioni fortemente anticapitaliste, esprimendosi e professandosi inequivocabilmente comunista. è stato ufficialmente richiamato da Venezia a volersi attenere alle corrette regole di citazione degli scritti di altri autori. Questo per aver riportato alcuni brani di altri autori senza citarli in. Tutto ha avuto inizio quando in seguito a un articolo de Il Giornale è emerso che aveva copiato "una decina di brani" di Sissa per un saggio. Ha ammesso di aver violato il diritto d'autore riservandosi di riparare al danno. Ciò non ha comunque soddisfatto Sissa perché “quello non chiedere scusa, piuttosto un cercare delle scuse, un patetico arrampicarsi sugli specchi. Con il passare del tempo sono emersi altri precedenti analoghi. Infatti anche per il saggio su Heidegger, copia Zingari. I due arrivarono a un accordo che prevedeva l'ammissione da parte di G. dell'indebita appropriazione intellettuale nelle successive edizioni del libro e da parte di Zingari l'impegno "a non tornare più sulla questione". Oltre a Sissa e Zingari sono stati copiati testi di Cresti, Natoli e Bradatan. Per difendersi, dice che "in ogni ri-elaborazione però, c'è uno scatto di novità".  L'inchiesta giornalistica de Il Giornale ha accertato che due dei saggi, presentati al concorso a Venezia erano stati copiati da altri autori. La commissione giudicante composta all'epoca non si accorse del fatto. Il rettore ha detto che "non ho, ora come ora, estremi per sollecitare il ministero, deve essere un professore del raggruppamento a farlo. Di mio posso dire che in ambito umanistico si producono troppi testi e che questo è uno dei fattori che causano l'impossibilità di fare controlli accurati. Nello specifico, secondo me dovrebbe essere G., nel suo interesse, a chiedere la convocazione di un giurì o comunque a rispondere e a specificare le sue posizioni.”Nel giugno  la rivista L'indice dei libri del mese ha pubblicato nel proprio sito un lungo articolo su altri copia-incolla. In particolare il saggio sul mito è stato indicato come costituito al 75% da un "riciclaggio" di suoi scritti precedenti, per il restante 25%, una ristesura di intere frasi e paragrafi, presi da altri autori, quasi identici agli originali. Le accuse mosse a G.i sono poi diventate un saggio, “La mistificazione intellettuale (Coniglio Editore, ), in Bucci, elenca i nomi dei pensatori da cui avrebbe tratto parti di testi senza citare la fonte. Vattimo ha dichiarato al Corriere della Sera: «si scrive anche a distanza d'anni dalla lettura; la spiegazione è plausibile. Lui cita l'autore la prima volta; poi ci mette quelle frasi che ricorda anche senza virgolettarle. Il sapere umanistico è retorico. Noi si lavora su altri testi, si commenta. Platone e Aristotele sono stati saccheggiati da tutti. Nella filosofia è tutto un glossare. C'è chi copia dagli altri e chi da sé stesso».Altre opere: ROMA SERMO ROMANVM -- Milano, Mursia). Agire (Milano, Apogeo);  Amore. Assisi, Cittadella Editrice,.Tra il dire e il fare. – dire e una forma di fare --  Il viandante della filosofia, con Marco Alloni, Roma, Aliberti,.Parole d'ordine, Milano, Apogeo,.  Amore. Milano, AlboVersorio. Amante, amato, amico --” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,.  “Il bello” Napoli-Nocera Inferiore (SA), Orthotes,. Eros e follia, Mariapia Greco, Lecce, Milella Editore. Fenomenologia del corpo, Milano, Feltrinelli – cf. Grice on ‘body’ – in “Personal Identity” “I fell from the stairs” -- Dall'inconscio al simbolo, Milano, Feltrinelli, 2“Equivoci” (Milano, Feltrinelli); Parole nomadi, Milano, Feltrinelli; I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli. Amore, Milano, Feltrinelli. Treccani. G., nato a Monza, è stato professore incaricato di  Antropologia Culturale e professore associato di Filosofia della Storia. Professore ordinario all'università Ca' Foscari di Venezia, titolare della cattedra di Filosofia della Storia. Titolo opera: Le cose dell'amore. Il libro è di: saggistica, cioè appartiene al genere letterario dei saggi. Sommario: Riassunto per capitoli: “Amore e trascendenza”: La metafora di Dio è sempre stata collegata alla  metafora dell'amore, nel senso che senza la presenza della trascendenza, cioè che è al di là dei limiti di ogni conoscenza possibile e quindi superiore alla ragione umana, l'amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il mondo. Rimane un enigma dove l'amore vede in Dio la sua trascendenza, e Dio vede nell'amore la sua natura,e questo intreccio non presenta sentimentalismi ma solo il nesso tra amore e trascendenza. I “Amore e sacralità”: La sacralità è dovuta dal desiderio dell'uomo di  immortalità e quindi dal desiderio di conservare la sopravvivenza dell'individuo e della totalità dell'essere. Oltre al sacrificio, un altro modo di sperimentare la morte della propria individualità è l'orgasmo, l'apice della vita sessuale, durante il quale l'Io e il Tu  si dissolvono, e ciò è reso possibile dalla fiducia reciproca.  “Amore e sessualità”: Il sesso non è qualcosa di cui l'Io dispone, ma è qualcosa che dispone l'Io,  aprendolo così alla crisi. Nella sessualità, la meta non è il godimento dell'Io, ma il suo perdersi negli abissi dell'anima, i quali si pensa siano rimasti disabitati, e che invece possono riapparire durante quel rinnovamento della vita a cui l'Io cede ogni volta che ha un rapporto sessuale e quindi nesso con l'altra parte di sé. “Amore e perversione”: La perversione è sempre stata giudicata negativamente, perché concepita  come sinonimo di devianza, degrado, ribrezzo e ripugnanza. Il perverso non cerca la trasgressione, ma la sua aspirazione è di raggiungere uno stato dove è soppressa ogni nozione di organizzazione, struttura, separazione e dl'universo di differenze da cui prende avvio ogni principio d'ordine. Il godimento del perverso non deriva dalla sessualità, ma dalla sessualità portata a quel limite oltre il quale c'è l'incontro con la  morte. “Amore e solitudine”: La mitologia greca aveva divinizzato la  masturbazione, perché era espressione di autosufficienza e indipendenza dagli altri. Ma questo atto venne condannato, nell'età dei Lumi, dalla scienza medica e dall'economia: la prima sosteneva che essa provocava malattie, mentre la seconda affermava che era uno spreco. Osservando invece il fenomeno della masturbazione da un'ottica diversa da queste due discipline, questo "vizio dell'adolescente" non appare come un qualcosa da combattere, ma un qualcosa su cui fare leva per integrare gradualmente la sessualità.  "Amore e denaro": La prostituzione è uno scambio di sesso e denaro che caratterizza il regime sessuale della nostra società, e che viene alimentato da un desiderio di rapido miglioramento delle proprie condizioni economiche. Infatti, di fronte al denaro tutto diventa merce: quando un uomo paga una donna, non le riconosce alcuna interiorità sua propria, arrivando a considerarla più come un "genere" che come "individuo".  "Amore e desiderio": L'amore è un'illusione di stabilità emotiva. Questo sentimento necessita novità, mistero e pericolo, ma deve saper combattere il tempo, la quotidianità e la familiarità. infatti, la ricerca della  sicurezza e della stabilità porta l'amore al suo degrado, perché così facendo essa non prevede l'avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. "Amore e idealizzazione": La percezione della realtà è una costruzione attiva, dove l'immaginazione, la fantasia, il desiderio, di cui l'idealizzazione amorosa è una figura, intervengono a trasfigurare i dati della realtà. Da ciò si deduce che l'oggettività è un'ideale impossibile, e infatti la convinzione di conoscere l'altro in modo oggettivo è una delle tante illusioni create dalla passione per evitare la delusione.  "Amore e seduzione": Nella vita quotidiana, la trasparenza riesce ad allargare l'orizzonte e lo scenario dischiuso dall'immaginazione. Infatti il desiderio si trova in ogni fessura della realtà che lascia trasparire un'ulteriore senso: quello dell'irreale e de-reale. Il corpo dell'altro diviene così uno specchio che riflette il nostro desiderio, e questo corpo non deve essere mai nudo, perché la seduzione si esprime attraverso le vesti, gli accessori, i gesti, la musica.  "Amore e pudore": L'amore prevede che ad amare e ad essere amato sia il nostro Io, una delle due soggettività presenti in ogni individuo e che, contro la sessualità generica, impone la  barriera del pudore. Essa però non limita la sessualità ma la individua, sottraendola a quella genericità in cui si celebra il piacere senza riconoscere l'individualità. E' importante sottolineare che il pudore non è un sentimento esclusivamente sessuale, ma ha anche una valenza sociale che si pone alla difesa dell'individuo contro la pubblicizzazione del privato.  "Amore e gelosia": Nella nostra società, dove la sussistenza dipende sempre meno dalla solidità dei vincoli familiari, la gelosia è  vista come un sentimento arretrato che ostacola la libertà e la sincerità dei singoli. Essa, cha affonda le sue radici nell'infanzia non per la progressiva rinuncia da parte del  bambino al possesso esclusivo del padre o della madre, ma perché durante questo periodo chiunque ha provato sentimenti come la solitudine e la paura di essere abbandonati, altera la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero e il comportamento. Per avere controllo su questo potente stato d'animo, bisogna separare progressivamente l'amore dalla ossessività, cioè civilizzarla. "Amore e tradimento": Il tradimento risiede nella fiducia originaria, dove non c'è traccia neppure del sospetto, perché non sorgono ne l'interrogazione ne il dubbio. Ma la scoperta di quest'ultimo segna la nascita della coscienza, e questo atto è indicato dal tradimento. Sono presenti diverse reazioni al tradimento: la vendetta, che non emancipa l'anima ma la irrigidisce; la negazione, in cui l'individuo che ha subito una delusione tenta di negare il valore dell'altro; il cinismo, che fa credere che l'amore sia sempre una delusione; il tradimento di sé, che porta a tradire sé stessi e le proprie esperienze emotive; la scelta paranoide, un atteggiamento legato più alla sfera del potere che a quella dell'amore.  "Amore e odio": L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, e la sopravvivenza di questo sentimento amoroso non dipende tanto dalla capacità di evitare l'aggressività, che è il riflesso dello stato di pericolo in cui si trova la persona che ama, quanto dalla capacità di viverla e oltrepassarla. In amore, l'individuo può accettare la dipendenza verso la persona amata, oppure per riscattarla trasforma la passione amorosa in passione aggressiva, carica di odio, dove il messaggio finale è che non si può fare a meno di questa persona.  "Amore e passione": A differenza dell'amore, la passione non segue le regole, ignora il governo di sé, non conosce il limite e non dipende da progetti. Per questo è possibile dire che l'amore è cristiano, mentre la passione è pagana. La passione cerca rassicurazione, ma nello stesso tempo vuole essere smentita, rifiutata e delusa, perché attribuisce all'affetto, alla domesticità, all'amare e all'essere amato poca importanza. Questo perché la passione conosce il destino e non lo scambio, in quanto l'altro è considerato solo come materia per la sua creazione, ovvero la fantasia, la quale si alimenta del dubbio e dell'incertezza. "Amore e immedesimazione": L'alienazione nell'altro per amore di sé approda o nell'assimilazione con la persona amata, che porta alla perdita della propria identità, o nel possesso della persona amata, con la tendenza ad escluderla dal mondo. Gl’amanti chiamano amore questa reciproca immedesimazione, e questa rinuncia di sé e della propria libertà non esprime solo un rapporto di dipendenza, ma una vera e propria condizione di alienazione. Il mantenimento in amore della propria autonomia non solo evita l'identificazione con la persona amata, ma consente il recupero di se stesso.  "Amore e possesso": La passione, quando non approda nell'immedesimazione con la persona amata, si indirizza verso il possesso, che riduce le relazioni della persona amata, e in cui l'amante non ama propriamente l'altro, ma solo il potere che esercita sull'altro. Dunque, chi ama per possesso non si accontenta del possesso del corpo e del godimento sessuale che ne deriva, ma pretende che la persona amata lasci per lui tutto il suo mondo, e che lo ami non solo per la sua evidente identità, ma per le sue qualità nascoste. Solo a questo punto il suo desiderio di possesso è soddisfatto ma, con la sua soddisfazione, anche la sua passione si estingue, perché non era amore per l'altro, ma era perverso amore di sé. "Amore e matrimonio": La nostra società è caratterizzata dall'individualismo, in cui l'individuo  vive in base alla sua personale idea di felicità, senza più subire l'influenza delle norme tradizionali. Attualmente, l'amore è slegato da ogni riferimento sociale, giuridico e religioso, e si sta diffondendo la figura de "l'uomo della passione", che attende dall'amore qualche rivelazione su se stesso o sulla vita in generale. Da una parte quindi l'amore-passione, che rappresenta l'evasione dal mondo per raggiungere in sogno la felicità assoluta, dall'altra l'amoreazione che fonda il matrimonio, che non evade dal mondo ma assume in esso il proprio impegno. "Amore e linguaggio": L'amore utilizza le parole per dare espressione a ciò che la logica non sa cogliere. Infatti, i paradossi del linguaggio dell'amore cercano di infrangerla, perché la logica include la normalità e la quotidianità, mentre l'amore vuole esprimere l'eccesso, l'insolito, e non può farlo se rispetta le regole della ragionevolezza. Questo eccesso concede all'amore nuove libertà di cui ha bisogno, perché essa nasce quando è totalizzante, e infatti il linguaggio dell'eccesso pretende la totalità, dove odio e amore possono confluire e passare l'uno nell'altro. "Amore e follia": L'amore è quasi sempre stato considerato come un qualcosa posseduto dall'Io. Freud smentisce ciò sostenendo che non esiste una ragione onnipotente che guida la volontà che governa le ragioni, in quanto la psiche umana non è razionale. Fu Platone il primo ad interessarsi alle regole della ragione e agli abissi della follia. Egli con il termine follia indica un'esperienza dell'anima che sfugge a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarla e disporla in successione. B) Tesi dell'autore:  L'amore non può esistere senza un raggio di trascendenza. C'è una profonda affinità tra il sacrificio e l'atto d'amore. L'amore non rinnega il sesso e l'erotica. L'amore deve sapere accettare anche la perversione.  La masturbazione è segno di solitudine. Con la prostituzione ciò che si  vuole comprare non è il sesso ma il potere su un altro essere umano. E' importante saper conciliare il bisogno di sicurezza (l'amore) e il desiderio di avventura (la passione). L'idealizzazione amorosa influenza la nostra percezione della realtà.  La vera seduzione è possibile solo quando il corpo non si riduce a quel significato univoco che è il sesso.  Il pudore è quel sentimento che difende l'individuo dall'angoscia di perdersi nella genericità animale. La gelosia è il rovescio della passione, dell'intimità e della dedizione che caratterizzano l'amore.  Il tradimento è il lato oscuro dell'amore, che però è ciò che gli conferisce il suo significato e che lo rende possibile.  L'odio è il compagno inevitabile dell'amore, perché esso è la risposta a quella minaccia che è l'amore. A differenza dell'amore, la passione non conosce limite e regole.  L'amore non prevede la rinuncia di sé.  L'amore come passione è il desiderio di potenza assoluta su di una persona. Il matrimonio non è supportato da alcuna buona ragione, perché nelle cose dell'amore la ragione non ha gran voce in capitolo. L'amore si affida al linguaggio per esprimere l'intreccio della nostra anima.  L'amore è un cedimento dell'Io per liberare in parte la follia che lo abita. C) Impressioni riportate nella lettura: A mio parere, il libro "Le cose dell'amore" è stato molto coinvolgente per i temi trattati: l'autore, grazie alla sua esperienza di vita e alla sua abilità di scrivere che non è da sottovalutare in uno scrittore, riesce a descrivere tutte le sfumature dell'amore senza cadere nella banalità e nella monotonia, tendendo sempre accesa nel lettore la voglia di proseguire la lettura. Ciò è favorito anche dal fatto che molti dei temi affrontati si riscontrano nella vita quotidiana di ognuno di noi, cioè ci riguardano da vicino perché fanno parte della società in cui viviamo: l'amore legato al denaro, e quindi al fenomeno della prostituzione, che è un problema diffuso in Italia; l'amore legato al pudore, un aspetto necessario per vivere in comunità, che quindi ha una valenza sociale; l'amore legato alla gelosia, la quale è vista come un sentimento che, in una società in cui sta avvenendo l'emancipazione dell'individuo, ostacola la libertà e la sincerità dei singoli; l'amore slegato dal matrimonio, in quanto nella nostra società si sta diffondendo l'individualismo. Difficoltà incontrate nella lettura: Durante la lettura del libro "Le cose dell'amore", ho riscontrato delle difficoltà nella comprensione di alcune frasi o parole. In qualsiasi lettura è fondamentale capire e interiorizzare tutto ciò che sta scorrendo sotto i nostri occhi, e porsi delle domande per essere certi di aver appreso tutto in maniera corretta. Se si tralascia anche un solo particolare perché non lo si riesce a comprendere fino in fondo, andando avanti nella lettura si svilupperanno sempre più problemi di condiscendenza. In questo libro ho riscontrato più di una frase, o semplicemente delle parole, che hanno sollevato delle difficoltà nella comprensione dei concetti-chiave. Ad esempio, prima di continuare lalettura mi sono dovuta soffermare su parole di cui non conoscevo il significato e che ostacolavano la mia interpretazione di questo testo, alcune delle quali sono: ambivalenza, assedio, avvedutezza, dissoluzione, ineffabilità, millanteria, parossismo, prevaricazione. In particolare, ho dovuto cercare informazioni relative al significato di due parole, trascendenza e alienazione, perché entrambe sono temi importanti affrontati. Era dunque necessario approfondire il concetto contenuto in queste due espressioni per raggiungere l'obiettivo di questa lettura: accrescere le nostre conoscenze. Inoltre ho avuto modo di riflettere in modo più attento e accurato sul termine "immedesimazione", che era già stato per me oggetto di studio in alcune discipline, ma non era mai stato così legato alla quotidianità, così vicino al nostro ambiente di vita. In conclusione, questo libro mi ha dato l'opportunità di ampliare il mio sapere, e soprattutto mi ha dato l'occasione di approfondire il concetto di alcune parole, elencate precedentemente, prima a me estranee. Scheda del libro  Introduzione: L’uomo, troppo spesso, tende a definire l’amore legandolo a significati  che, in realtà,  non gli appartengono completamente. G., attraverso un’attenta analisi, s’introduce all’interno del sentimento più incomprensibile ed equivocato di tutti i tempi. Egli non definisce l’amore, ma associa a questo i tanti falsi sinonimi che  gli vengono attribuiti, cercando di dimostrare che i termini non sono equivalenti ma  solo in relazione. Graficamente, dunque, l’amore e i falsi sinonimi potrebbero essere rappresentati da due insiemi, con un’ampia parte compenetrata, ma non sovrapposti. Il  risultato  evidente risulta essere un passaggio dalla amore è… ad una più ricca ed attenta osservazione di amore e… definizione abituale di Amore e... L’amore viene  analizzato in tutte i suoi aspetti, dalla trascendenza, sacralità alla perversione, seduzione, denaro,  dal pudore al tradimento, dall’immedesimazione, possesso al  matrimonio, dal linguaggio alla follia. Il sentimento più oscuro sembra nascere da un incantesimo della fantasia che fa idealizzare in un essere la persona amata e cessare con il tempo che, favorendo la realtà, finisce col produrre una disillusione delle aspettative, trasformando la passione, l'idealizzazione, iniziale in un affetto privo di partecipazione e trasporto. Le conseguenze, talvolta, possono essere anche molto gravi tanto da tramutare la passione in una patologia e sostituire ai poeti d'amore degli psicologi. La vicenda divina è legata anche all'atto sessuale in cui l'uomo trasgredisce, eccede, cadendo sotto il peso della passione che non rappresenta solo uno smarrimento del desiderio e di se stesso ma anche un vero e proprio patire. "il desiderio, per quel che ancora le parole significano, rimanda alle stelle: de-sidera" (Le cose dell'amore, 1) Come scrive l'autore, l'amore e la trascendenza vanno di pari passo e dal momento che il significato della parola desiderio rimanda alle stelle, quando esso con il tempo si estingue, non c'è più elevazione dell'anima che è in grado, trascendendosi, di lasciarsi superare. L'amore e la trascendenza, dunque, sono legati non da un rapporto reciproco, ma dal sentimento che viene sviluppato per le cose che non è possibile possedere. Il saggio risulta essere molto interessante nelle tematiche e negli accostamenti tra gli argomenti e permette, attraverso l'uso di un linguaggio comune di poter essere compreso da diversi tipi di lettore, trattando,infatti, un tema senza età e senza la necessità di particolari conoscenze umane o scientifiche permette a tutti di immedesimarsi, interrogarsi ed interagire conil testo ed è proprio questa compenetrazione del lettore che crea una polisemia di significati e sempre diverse chiavi di lettura sia da altre persone sia dal tempo che muta le circostanze della vita. L'autore riesce a non abbandonarsi mai in trattati banali o superficiali finendo in discorsi pesanti ed inconsistenti ma inserisce diverse tonalità che mantengono viva la curiosità e la voglia di proseguire la lettura. La contemporaneità in cui vive gli permette di rapportare al testo l'esperienza personale, permettendo che venga identificata o differenziata da quella altrui. Le tematiche attuali, lo stile concreto e il narratore in cui è possibile identificarsi mostrano, dunque, l'ottima riuscita del libro. "Amore non è solo  vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza, di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta." (Le cose dell'amore). conseguenza si tende ad innamorarsi solo delle persone che la fantasia porta a sognare ed idealizzare e a cadere in depressione o nel deprezzamento di se stessi se il sentimento non è ricambiato, poiché, senza l'immaginazione, che influenza la percezione ed esalta la realtà il desiderio di sicurezza potrebbe far cessare sul nascere l'amore per la paura di non essere corrisposti. L'amore, tuttavia, nelle sue molteplici identificazioni ha anche un lato oscuro, riconosciuto nel tradimento. Esso rappresenta sia il dolore per fine della fiducia, che l'inizio dello sviluppo della coscienza, infatti, solo chi si concede senza avere la sicurezza di non essere tradito può provare il vero amore. La coscienza può, emancipandosi, portare al perdono e decidere di passare oltre oppure può svilupparsi in vendetta, cinismo, svalutazione o malattia, e dal momento che questa è la strada più percorsa generalmente è bene che non si realizzi come pratica insincera ma come reciproco riconoscimento, dove chi ha tradito non cerca scuse e chi ha subito prende atto ed eventualmente accetta il cambiamento poiché tradire qualcuno, qualsiasi sia il rapporto che lega, è già una possessione che inizia il processo di arresto della propria crescita. L'amore e l'odio, invece, coesistono perfettamente, poiché solo chi ama davvero sa odiare e solo chi odia veramente è, in realtà, in grado di amare. Essi rivelando che, per vivere bene, non si può fare a meno d'altre persone, sono i soli, unici e veri sentimenti. "Amore, come Socrate ce lo ha descritto, non è tanto un rapporto con l'altro, quanto una relazione con l'altra parte di noi stessi" l'amore e le caratteristiche che gli vengono associate mettono in relazione l'uomo con la parte folle del proprio essere da cui si era discostato nel tempo. " Ora che vi ho detto tutto sull'amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L'unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?" (M. Chebel "Il libro delle seduzioni") Galimberti conclude la sua opera con questa breve citazione, in essa è racchiuso, infatti, tutto il significato dell'amore. Un sentimento inspiegabile che non è possibile conoscere né completamente né in modo uguale o simile ad altre persone, una sensazione che gratifica i bambini, poiché nella loro innocenza la vivono senza tormenti e ansietà pur conoscendola come gli adulti. AMORE È... "l'amore è un fiore delizioso, ma bisogna avere il coraggio di andarlo a cogliere sull'orlo di un abisso spaventoso" (le cose dell'amore, 116 Ivi, 120) L'amore è il più importante tra tutti i sentimenti, dal momento che è possibile associarlo a tutti gli altri. Esso è difficile da trovare e spesso viene confuso con altri molto simili ma mai uguali. Solo chi ha il coraggio di lottare, di sfidare, di mettersi in gioco, di rischiare può ottenere il vero sentimento ricercato o in ogni caso non vivere nell'illusione, riconoscendo i falsi sentimenti che cercano continuamente di insidiare un posto che non appartiene a loro. La fatica di condurre il "gioco" attraverso la strada se pur più reale, più complicata porta ad una felicità certa e vera che permette di non patire grandi sofferenze ma solo piccole illusioni riconoscendo che il male apparente non è in realtà vero male così come ciò che si definisce generalmente come bene non sempre è il vero bene.  Nella Introduzione al suo celebre libro del 1983 Il corpo(Feltrinelli, Milano, pp. 11-16), Umberto Galimberti così si esprimeva:  È forse tempo che la psicologia incominci a pensarsi contro se stesse a comprendersi al di là della sua nominazione idealistica che la propone come «discorso sulla psiche, quindi su quell'unità ideale del soggetto che la grecità ha promosso col termine ????, e a cui la psicologia non s'è ancora sottratta neppure nella sua più moderna espressione scientifica.  Ma pensare contro non significa pensare l'opposto, mantenendosi su quel medesimo terreno d opposizione in cui il conflitto, così come si genera, si riassorbe. Pensare contro significa pensare fino in fondo, quindi andare alle radici, scavando il fondo su cui si impianta il radicamento.  Questa operazione che rimuove la solidità delle radici, disloca la psicologia dal luogo che s'è data, quindi la dis-orienta, la sottrae al suo oriente, alla sua origine storica.  Quest'origine è rintracciabile nella cultura greca e precisamente in quel momento in cui la specificità dell'uomo è sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee per essere riassunta in quell'unità ideale, la psyche, che da Platone in poi, per tutto l'Occidente, sarà il luogo del riconoscimento dell'unità del soggetto, della sua identità. Ma questo luogo di identificazione contiene già il principio della separazioneperché, come coscienza di sé, la psyche incomincia a pensare per sé, e quindi a separarsi dalla propria corporeità. La prima operazione metafisica è stata un'operazione psicologica.  Nata con un significato semplicemente classificatorio per designare quei libri aristotelici che erano collocati dopo (µ?ta) i libri di fisica (t? f?s???), la «metafisica» ha guadagnato ben presto e coerentemente un significato topico che designa un al di là della natura, quindi una scienza dell'ultrasensibile che si differenzia dal mondo dei corpi perché, contro il loro divenire e mutare,  rappresenta l'immutabile e l'eterno. L'idea platonica è il modello di questa separazione e contrapposizione, e la psyche, essendo «amica delle idee, incomincerà a considerare il corpo come suo carcere e sua tomba.  Una volta che la verità è posta come idea, l'opposizione tra ideale e sensibile, tra anima e corpo, diventa l'opposizione tra vero e falso, tra bene e male. Valori logici e valori morali nascono da questa contrapposizione che la metafisica ha creato e la scienza moderna ha mantenuto, rivelando così la sua profonda radice metafisica se è vero, come dice Nietzsche, che «la credenza fondamentale dei metafisici è la credenza nelle antitesi dei valori».  A questo punto per la psicologia, pensarsi contro se stessa, pensarsi fino in fondo, fino al fondo della sua origine storica, significa pensarsi contro questa antitesi di valori che non la realtà, ma lo sguardo metafisico, con cui la psicologia ha generato se stessa, ha instaurato. È uno sguardo che ancora ospita la psicologia come residuato di quell'idealismo che, a partire da Socrate e Platone, ha percorso l'Occidente come suo lungo errore.  Da questo errore la filosofia si è emancipata con Nietzsche che ha denunciato quel retro-mondo, quell'«al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua», ma non la psicologia, che così rimane la più occidentale delle scienze e quindi la più metafisica, se per metafisica intendiamo il pensiero  della separazione, il puro d?a ß???e??, da cui nascono quelle antitesi denunciate da Nietzsche e fedelmente riportate dal discorso psicologico sulla norma, dove si disgiungono ragione e follia.  Fattasi carico della logica della separazione inaugurata dalla disgiunzione platonica tra corporeo e ideale, la psicologia, se vuol essere coerente a se stessa, non può parlare del corpo se non impropriamente, se non per un'infedeltà al suo statuto scientifico, a meno che per corpo non intenda l'idea di corpo che come scienza s'è data. Ma se il corpo anatomico, a cui questa idea si riduce dopo che lo psichico è stato separato e autonomizzato, non è luogo in cui la psicologia si riconosce, allora del corpo la psicologia potrà parlare propriamente solo se si pronuncia contro se stessa, contro lo statuto della separazione, che è poi quell'origine metafisica da cui la psicologia è nata,  ha fondato se stessa come scienza, e ancora si conserva. Come luogo della revisione psicologica, il corpo parla simbolicamente, non nel senso in cui la psicoanalisi parla dei simboli per ribadire un'altra separazione, quella tra conscio e inconscio, dove nell'inconscio si ritrova il rovescio dell'iperuranio platonico, il 'vero' significato di ciò che si manifesta, ma nel senso di abolire la barra che ha separato l'anima dal corpo inaugurando la 'psico-logia'. Abolire la barra significa mettere assieme, s?µ-ß???e??. Proponendosi come simbolo, il corpo abolisce la psicologia come storicamente s'è  pensata in Occidente, la sradica dalle sue radici storiche, che sono poi quelle metafisiche e idealistiche, e così la costringe a pensarsi contro se stessa.  Questo pensiero che è contro, perché pensa fino in fondo, fino alle radici, incontra la corporeità che, nel suo sorgere immotivato e nel suo ambivalente apparire, dice di essere questo, ma anche quello. L'ambivalenza così dischiusa non è ambiguità, ma è quell'apertura di senso a partire dalla quale anche la ragione può fissare l'opposizione dei suoi significati,e quindi quell'antitesi dei valori in cui si articola la sua logica disgiuntiva quando divide il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto, Dio dal mondo, lo spirito dalla materia, l'anima dal corpo.  Queste opposizioni sopprimono l'ambivalenza (?µf?) con cui la realtà corporea originariamente appare nel suo duplice aspetto, come un Giano bifronte, per instaurare quella bivalenza (bis) dove il positivo e il negativo si rispecchiano producendo quella realtà immaginaria da cui traggono origine tutte le «speculazioni». Diciamo immaginaria perché la realtà non può mai di per sé essere negativa se non per effetto di una valutazione. Ma se il negativo è da interpretare semplicemente come il «valutato negativamente», allora la negatività attiene essenzialmente al giudizio di valore. Proponendosi come questo, ma anche quello, il corpo, come significato fluttuante, che si concede a tutti i giudizi di valore, ma anche si sottrae, con la sua ambivalenza li fa tutti oscillare. Luogo e non-luogo del discorso, esso opera quel taglio geologico nella storia che ne rivela tutte le stratificazioni. Da centro di irradiazione simbolica nella comunità primitiva, il corpo, infatti, è diventato in Occidente «il negativo di ogni valore» che il gioco dialettico delle opposizioni è andato accumulando. Dalla «follia» del corpo di Platone alla «maledizione della carne» nella religione biblica, dalla «lacerazione» cartesiana della sua unità alla sua «anatomia» ad opera della scienza, il corpo vede proseguire la sua storia con la sua riduzione a «forza-lavoro» nell'economia dove più evidente è l'accumulo del valore nel segno dell'equivalenza generale, ma dove anche più aperta diventa la sfida del corpo sul registro dell'ambivalenza.  Qui «sfida» non significa che il corpo si oppone a qualcosa o a qualcuno, ma semplicemente che non si affida a una pienezza di senso e di valore, non perché abbia obiezioni o riserve che qualsiasi discorso sarebbe in grado di recuperare o di assorbire, ma perché quella pienezza di senso e di valore è cresciuta sulla sua negazione che, se da un lato ha lasciato il corpo senza senso, senza nome, senza identità, dall'altro gli ha dato la possibilità di diventare il contro-senso, colui che dissolve il Nome e risolve l'identità nelle sue adiacenze: A enon A, perché questo è il gioco dell'ambivalenza simbolica, e insieme la strada con cui il corpo può recuperarsi dalle divisioni disgiuntive in cui la struttura metafisica del sapere psicologico l'ha confinato.  Questo recupero è possibile perché il gioco dell'ambivalenza è aperto prima che il sapere metafisico fissi le regole del gioco, ma proprio perché le regole vengono dopo, questo gioco è imprevedibile, perché nessuna determinazione posta in gioco conosce la sua destinazione. L'unica certezza è quella che non ci si può sottrarre alla necessità del gioco, non si può dire l'ultima parola sul gioco e fermarlo per sempre.  Per la sua natura ambivalente, infatti, il corpo è una riserva infinita di segni, entro cui lo stesso sapere psicologico, che ha individuato nella psyche lo specifico dell'uomo, diventa a sua volta un segno, una modalità di ricognizione che non può pretendere di dire qual è il senso ultimo del corpo. Qui il corpo si cela non perché nasconde se stesso, ma perché in esso i segni sovrabbondano sulle capacità che il sapere psicologico ha di ordinarli. Il volume di senso indotto dai segni del copro prevale infatti sulla costituzione dei significati istituiti dalla rappresentazione che il sapere psicologico s'è fatto. Si tratta allora di demolire la semplicità della rappresentazione psicologica dissolvendola nella pluralità di senso che la sovrabbondanza dei segni produce.  Se ciò non accade, se la psicologia non si pensa contro la rappresentazione che si è data a partire da quell'alba greca in cui ha preso avvio l'autonomizzazione della psyche, la psicologia non giungerà mai alla comprensione dell'espressività originaria del corpo, ma sarà costretta ad errare, perché ignora l'errore che è alla base della sua fondazione epistemica, della sua nascita come scienza.  Si tratta di un errore che non investe solo il sapere psicologico ma ogni sapere razionale quando, sottraendosi alla polisemia della realtà corporea, si afferma come asserzione incontrovertibile su di essa. In questo passaggio dalla verità come ambivalenza alla verità come decisione del vero sul falso, il sapere razionale dimentica di essere una procedura interpretativa tra le molte possibili per porsi come assoluto principio, dimentica di essere un inganno necessario per dirimere l'enigma dell'ambivalenza, e in questa dimenticanza diviene un inganno perverso.  Contro questo inganno il corpo rimette in giuoco la sua natura polisemica rifiutandosi di offrirsi all'economia politica esclusivamente come forza-lavoro, all'economia libidica esclusivamente come fonte di piacere, all'economia medica come organismo da sanare, all'economia religiosa come carne da redimere, all'economia dei segni come supporto di significazioni. In questo rifiuto il corpo sottrae a tutti i saperi il loro referente, e alle economie, che su queste codificazioni hanno accumulato il loro valore, sottrae il loro senso. Ciò è possibile perché, nonostante le iscrizioni, nel loro immaginario, abbiano cercato di dividere il corpo in quei settori in cui era possibile ricondurlo all'equivalente generale in cui si esprime di volta in volta l'economia di un sapere, il corpo è ambivalente, è cioè una cosa, ma anche l'altra, per cui: o la decisione del sapere sulla divisione del corpo, o l'ambivalenza del corpo sulla frammentazione dei saperi, con conseguente dissolvimento del loro valore accumulato.  Per sfuggire a questa alternativa, che è inevitabile dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso, occorre riguadagnare il terreno su cui il sapere occidentale è cresciuto. Questa consapevole riappropriazione non è una regressione, non è l'abbandono del solido terreno del sapere, al contrario, è la ricostruzione genealogica del suo significato.  Riproporre l'ambivalenza del corpo non significa quindi rifiutare il sapere razionale, né tanto meno accettarne la resa, ma significa andare alle radici di questo sapere e scoprirlo per ciò che esso è: nulla di più che un tentativo per far fronte all'ambivalenza della realtà corporea che, così riscoperta, è ciò che dà ragionedelle molteplici ragioni.  Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche. Si tratta di un senso che sta prima di ogni significato, e che nessun significato promosso dalla decisione scientifica può abolire, perché è prima di ogni inizio e continua oltre ogni conclusione.  Ne consegue che alla metafisica dell'equivalenza produttrice di quei significati con cui in Occidente si sono fatti circolare i corpi secondo quel preciso registro di iscrizioni che di volta in volta li de-terminavano, e sulle cui determinazioni sino nati i vari campi del sapere, il corpo sostituisce il gioco dell'ambivalenza, ossia di quell'apertura di senso che, venendo prima della decisione dei significati, li può mettere tutti in gioco col corredo delle loro iscrizioni in quell'operazione simbolica in cui il sapere perde la sua presa, perché la delimitazione dei campi in cui da sempre si è esercitato si è simbolicamente con-fusa.  Questa è la sfida del corpo, una sfida che è già iniziata se c'è da dar credito a quella «crisi delle scienze europee» denunciata da Husserl. Niente di più benefico. Sono i primi effetti di quella violenza simbolica rispetto a cui quella razionalistica è in ritardo di una generazione, perché ancora crede in una controparte, e quindi non sa che ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere.  Ma quando la realtà immaginaria, prodotta dalle opposizioni polari in cui si articola ogni sapere razionale, non riesce più a farsi passare per realtà vera, in quel gioco di specchi che si frantumano a contatto con la polisemia della realtà corporea, allora si è più vicini all'ambivalenza, non per una contrapposizione dialettica o per un'opposizione organizzata, ma perché là dove tutte le maschere sono cadute, compresa quella della bivalenza codificata, ogni termine che ruota su se stesso si s-termina. Questo è l'esito simbolico che attende l'ordine strutturale di ogni sapere. E già se ne vedono le tracce. Seguendole, il corpo consegna ogni ontologia e ogni deontologia alla geo-grafia, alla grafia della terra, la più dicente, la più descrittiva, quella che non accorda privilegi metafisici, perché non conosce la mono-tonia del discorso, ma l'ambi-valena della cosa.     Fra tutte le numerose pubblicazioni di G., questa è, forse, quella che maggiormente gli ha dato visibilità e lo ha designato quale uno dei più popolari maitres-à-penser della filosofia italiana contemporanea.  È anche un'opera caratteristica, perché in essa G., curatore di rubriche di psicologia su svariate riviste illustrate, si fa campione di una rivolta della psicologia contro se stessa e cerca di scalzarne le basi storiche e ideologiche, in nome di un «pensarsi fino in fondo» che equivarrebbe, nelle intenzioni dell'autore, a un completo rovesciamento della sua prospettiva e delle sue stesse finalità.  Il punto da cui muove Galimberti per sferrare il suo attacco alla psicologia è che quest'ultima, «la più occidentale delle scienze, e quindi la più metafisica», è nata sull'idea della separazione di corpo e psyche che, partendo da Platone, percorre come un filo rosso tutta la storia del pensiero occidentale. Secondo l'Autore, la specificità dell'uomo è stata sottratta all'ambivalenza delle sue espressioni corporee in nome dell'unità ideale, quella - appunto - della psyche, divenuta l'elemento fondamentale della sua identità.  Ma il corpo, per G., è portatore di un messaggio ambivalente (non equivoco, ci tiene a precisare), secondo il quale mostra di essere questo, ma anche quello. Egli non si prende il disturbo di precisare meglio questi concetti, considerandoli - evidentemente - di per sé chiari. Afferma invece che l'ambivalenza suggerita dal corpo realizza una «apertura di senso» (bella espressione, ma altrettanto vaga del questo e quello), grazie alla quale la ragione ha la possibilità di fissare l'opposizione dei suoi significati, ossia l'aborrita «antitesi dei valori», che ha l'imperdonabile impudenza di voler distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, il buono dal cattivo.  Tale antitesi dei valori è, per G., la somma di tutti i vizi della filosofia; riprendendo il concetto da Nietzsche, egli la ritiene responsabile della lacerazione e della schizofrenia del pensiero occidentale, del quale traccia una veloce panoramica per mostrare - con accenti severiniani - che esso è stato un lungo, deplorevole errore, in quanto basato sulla metafisica e, quindi, sul dualismo. E il dualismo, si capisce, è un male, perché crea arbitrariamente un al di là, dal quale poter meglio calunniare l'al di qua; ovvero, per dirla in termini più razionali, perché si basa su una logica disgiuntiva che sa, vagamente, di sulfureo (d?a-ß???e??, la separazione, etimologicamente fonda il nome del Diavolo, «colui» che separa).  Questo, dunque, è un punto centrale della argomentazione di G.: il pensiero che separa è malvagio ed erroneo; dunque, tutto il pensiero dell'Occidente, essendo dominato dall'idealismo e dalla metafisica, è un pensiero erroneo e foriero di tristi conseguenze.  La ricetta per uscire da questo vicolo cieco non è, come si potrebbe pensare, la logica unitiva, bensì il pensiero dell'ambiguità, dove le cose sono queste e anche quelle, allo stesso tempo; ossia, dove rinviano a una polisemia che può essere interpretata, volta a volta, in un senso come nell'altro. Anche la psicoanalisi è una scienza metafisica, anzi, la più metafisica di tutte, perché reintroduce, attraverso la contrapposizione di conscio e inconscio, la lacerazione platonica e cristiana tra anima e corpo, tra spirito e materia; e fornisce una immagine distorta dell'uomo.  È a partire da questo punto che il ragionamento di G. si fa propriamente filosofico, oltrepassando il campo ristretto della psicologia.  Invece di accettare l'ambivalenza del corpo, la logica disgiuntiva (dell'economia, della medicina, della religione e della psicanalisi) instaura la sua «bivalenza», dove il positivo e il negativo si rispecchiano in un gioco di riflessi che rimanda sempre a una rigida contrapposizione, a una polarità di «interpretazioni della realtà». Ma perché interpretazioni? Perché, per G., non esistono il positivo e il negativo, bensì la valutazione positiva e la valutazione negativa di fatti e situazioni che potrebbero essere anche i medesimi, guardati però da differenti punti di vista.  Eccoci arrivati, dunque, nel castello del mago Atlante, dove le cose non sono quelle che sono, ma quelle che vorremmo (o che temiamo) che esse siano. Come in  un labirinto di specchi, a metà fra Borgés e PIRANDELLO (si veda), noi nulla sappiamo delle cose che vediamo e con le quali ci confrontiamo, bensì emettiamo giudizi di valore che ce le fanno percepire in un modo piuttosto che in un altro. Rashomon di Kurosawa o Sei personaggi in cerca d'autore: sia come sia, la negatività è un giudizio di valore; e il corpo, da Platone in poi, è il negativo: dunque, la negatività del corpo è frutto di un giudizio di valore.  Anche se sostiene di non indulgere a una modalità di pensiero irrazionalistica, G. sostiene che ogni ragione si serve di una logica disgiuntiva allo scopo di affermare se stessa, ossia il proprio sapere. Così, la psicologia afferma la separazione della psyche dal corpo, per poter affermare il proprio sapere su di essa; esattamente come l'economia politica afferma la separazione della forza-lavoro dalla totalità della persona, per poter affermare il suo controllo sulla prima (e a danno della seconda).  Senonché, le opposizioni su cui si articola ogni sapere razionale sono, in realtà, «immaginarie»: non attengono alla dimensione della realtà, ma a quella dell'alienazione dalla realtà. Ci si potrebbe chiedere in che cosa questa realtà ulteriore, questa realtà vera che sta dietro la facciata della realtà (immaginaria), sia più reale di quella; su che cosa fondi la sua pretesa di non essere vittima dell'alienazione metafisica; in base a quali criteri la si possa considerare più concreta, più effettuale della deprecata «antitesi dei valori».  G. non affronta esplicitamente la questione, ma sembra intuire la possibile critica e anticipa eventuali obiezioni affermando che, quando il pensiero è capace di accettare l'ambivalenza (e non la bi-valenza, che è tutt'altro) delle cose, allora cadono tutte le maschere e si è più vicini alla loro realtà. O meglio, egli non adopera l'imbarazzante espressione «realtà»; glorifica l'ambivalenza in se stessa, come concetto del tutto auto-evidente; gli basta impedire che il pensiero duale, oppositivo, bivalente, non riesca a farsi passare per la «realtà vera».  Ma questa «realtà vera», in ultima analisi, esiste o non esiste? G. non risponde, l'abbiamo già detto; si limita ad osservare, con ironia un po' pesante, che coloro i quali si attardano nel pensiero oppositivo - che, dice, è di per sé violento - non sanno di essere in ritardo rispetto alle lancette della storia: perché credono ancora in una controparte, e non sanno che «ogni parte e ogni controparte altro non sono che l'effetto di quell'operazione disgiuntiva che ogni ragione mette in atto per affermare il proprio sapere».  Vi sono echi minacciosi in questa affermazione (il trotzkiano «cestino della spazzatura della storia» ove precipitano i non rivoluzionari, in tempi di rivoluzione), ma anche un po' patetici (l'ultimo soldato giapponese che continua a combattere nella giungla per una guerra che è vane questioni, senza rendersi conto di appartenere a una razza che si è estinta.  Si tratta di una posizione quanto mai radicale, poiché equivale alla condanna senza appello di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi; anzi di ogni sapere, «dal momento che ogni sapere è un'assunzione di prospettiva, quindi una selezionedella visione che diviene condizione preventiva per la delimitazione del vero e del falso».   Ma il vero e il falso, in se stessi, non esistono; così come non esistono le verità di principio, ma solo le verità di fatto. Non esistono verità, dunque non esistono saperi che possano presentarsi come portatori di verità: i saperi sono sempre strumentali, parziali, relativi.  È incredibile: siamo in piena sofistica, che Socrate aveva già brillantemente confutato circa ventitré  secoli fa; ma G. ci presenta le sue conclusioni come se fossero qualcosa di staordinariamente nuovo, riconoscendosi - casomai - un continuatore radicale dell'opera di Nietzsche. Queste ragioni che i saperi tendono a soddisfare - afferma G. con la massima disinvoltura -non possono più proporsi con assoluta verità, perché ormai si è scoperto che la verità non è nella lotta tra l'asserzione vera e quella falsa, ma l'apertura nell'universo del senso che l'ambivalenza della realtà corporea custodisce come luogo da cui partono tutte le decisioni scientifiche». E aggiunge che «si tratta di un senso che sta prima di ogni significato»; ma, di novo, non ci spiega in che modo egli arguisca l'esistenza di questo «senso originario», dato che tutti i sensi che noi diamo alle cose forzano la loro vera essenza. Arrivati a questo punto, possiamo fare alcune osservazioni conclusive. Punto primo: che il pensiero idealistico sia stato tutto un lungo errore, forse bisognava sforzarsi di dimostrarlo e non darlo per scontato al principio di un libro interamente dedicato alla discussione degli effetti negativi di un tale errore. Punto secondo: che non esista alcun criterio di verità, è posizione filosoficamente rozza e semplicistica. Altro è affermare che la verità è difficilmente accessibile, altro è affermare che ogni verità è una forma di violenza che i saperi cercano di imporre per fondare se stessi. LA FILOSOFIA è frutto di sottili distinzioni, di una particolare sensibilità per le sfumature; ma qui, sulla scorta di Nietzsche, si fa filosofia veramente a colpi di martello (e non è un complimento).  Punto terzo: che il corpo sia il luogo privilegiato in cui la realtà ci svela il suo volto ambivalente, aiutandoci a liberarci dalle pastoie alienanti del pensiero disgiuntivo, è - ancora una volta - posto ma non discusso, e tanto meno dimostrato.  Eppure è fin troppo facile osservare che, se l'introduzione della psyche ha relegato il corpo al ruolo di negativo, l'esaltazione del corpo che fa G. sembra ribaltare la prospettiva, senza modificarla «alle radici» (come egli sostiene di voler fare). Ossia, a questo punto è la psyche che rischia di diventare il negativo o, quanto meno, il luogo dell'errore, dell'illusione, della disgiunzione. Ma sarebbe perfettamente  inutile muovere una simile obiezione a G.: egli vi risponderebbe, come ha fatto in più occasioni, che la psyche non è altro dal corpo, che è corpo anch'essa, perché tutto è corpo.  La sua intera filosofia non è che una assolutizzazione della corporeità; e, pur di sostenere questa tesi, egli arriva a sostenere, senza batter ciglio, che l'anima è una «invenzione» dei cristiani, avvenuta nel IV secolo dopo Cristo (cfr. il nostro precedente articolo G. e la morale, Arianna.  Ma davvero basta dire che tutto è corpo, per eliminare l'antitesi dei valori e restaurare l'età dell'oro del pensiero (del pensiero?) ambivalente, dove le cose sono finalmente se stesse e non quello che noi giudichiamo che esse siano? Ora, è verissimo che la vita, nel suo livello immediato e quotidiano, procede per giudizi di valore che sono spesso affrettati, imprecisi, immotivati e, soprattutto, soggettivi. Da ciò, tuttavia, non discende che il rimedio consista nel proclamare la relatività di tutti i valori e l’inesistenza di ogni criterio di verità. Questo sarebbe quel che si dice curare il mal di testa con le decapitazioni.  Esistono altri livelli di esistenza - non solo di tipo razionale, su questo siamo d'accordo con G. -, ai quali è possibile accedere, e nei quali si può intravedere, pur senza possederlo interamente, un criterio di verità capace di sottrarre le cose al gioco degli specchi della loro incessante mutevolezza.  Se non credessimo a questo, dovremmo non solo sospendere ogni giudizio di valore, ma rinunciare a ogni possibilità di avvicinarci al vero, al bello e al buono; in altre parole, dovremmo ritirare un rigo su ogni possibilità di fare non solo psicologia, ma anche filosofia. Queste, e non altre, sono le conclusioni coerenti del ragionamento di G.: per cui, ad essere rigoroso, egli dovrebbe dichiarare non la riforma della psicologia, ma la sua soppressione radicale; e, quanto alla filosofia, la sua estinzione irreversibile. Come è possibile continuare a ragionare in termini filosofici, se dobbiamo prendere atto che non esistono controparti, ma solo ambivalenze che è possibile tirare ora in qua e ora in là, secondo il nostro umore del momento?  Si badi: quello che propone G. non è un pensiero complementare, come lo è - ad esempio - il taoismo, il quale, giustamente, ci ricorda che non esiste luce senza buio, caldo senza freddo, gioia senza dolore. No, si tratta qui di un relativismo puro e semplice: io dico che questa cosa è calda, tu dice che è fredda; forse lo dirò anch'io, domani, se me ne verrà la voglia; per intanto, abbiamo ragione tutti e due. Io ho la mia verità, tu la tua; e sappiamo che entrambe sono vere, o che entrambe possono esserlo, o che entrambe lo sono state o lo saranno.  Il relativismo  è una cattiva filosofia, anzi è l'impossibilità di fare filosofia.  Eppure, questi sono gli applauditissimi maitres-à-penser della cultura odierna.Umberto Galimberti. Galimberti. Keywords: il sessuale, l’immaginario sessuale, sesso, Why did the Romans need to distinguish between ‘amatus’ and ‘amicus’? -- amore, follia, jung, simbolo, sole-fallo, simbolo, simboli di jung, I corpi d’amore, I corpi d’amore sessuale – immaginario sessuale, immaginario collettivo sessuale, cose dell’amore, platone, il convito, I corpi, I gesti – I gesti dei corpi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Galimberti” – The Swimming-Pool Library.

 

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