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Monday, February 3, 2025

LUIGI SPERANZA -- GRICE ITALO A-Z G GAR

 

Luigi Speranza -- Grice e Garbo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la fisiologia dell’amore – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a Renaissance man – I’m one!” Grice: “Garbo is extremely interesting at a time when physis did mean ‘nature’ – the physicist and the physician were the natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy was created against Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest comment on “Love unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti – Boccaccio loved the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and ‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il consiglio del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno dei più importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che Garbo diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve period. Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna e Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90 fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo commento su una parte del libro del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra (anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”.  A causa dell'invidia dei suoi colleghi di Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di Torrigiani.  Le lezioni riscuotevano molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Ascoli ne fece scherno con i suoi allievi, e G. e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe potuto prendere i suoi scritti.  L'episodio, probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso G. a Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova, che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con G.. Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma dove hai imparato quest'arte?", e G. rispose: "A casa tua".  Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione embryonis" di Tommaso Del G., suo figlio, e la "Expositio in Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di G. mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per Tiraboschi e Colle, G. non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice che ad Avignone  avrebbe incontrato Ascoli. Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo, trattato che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e d'odio contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico dal duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. G. muore poco dopo l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di vendetta lanciato da Ascoli.  Altre opere: La figura di G. campeggia se non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta, nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con i suoi difetti.  Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci sono ricettari, commenti e trattati.  Tra i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani.  Altre opere invece non sono state stampate: "De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica)  "Recolectiones super cirurgia Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl. della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a “Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico, come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”, esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti. Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina. Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose, ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce (nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere) quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e l’effetto dell’amore? La  morte che impedisce le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII) Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per G., l'amore è una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova nella casa di Venere.  Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia, quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara, André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur (Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena, Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.  Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The enigmatic, indeed disturbing figure of  Cavalcanti exercised the imagination of his contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante talks about Guido in his youthful work, the Vita nuova, telling us that Cavalcanti was the “primo de li miei amici” (VN III), and that he was one of those who replied poetically to Dante’s first sonnet. Dante also refers to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN). The whole of Dante’s treatise, as a specifi- cally vernacular composition, is dedicated to this first friend (VN). Amongst Dante’s Rime, also, there is a companionship sonnet addressed to Cavalcanti, “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet responded in verse. The most memorable mention by Dante occurs in canto X of Inferno, where Guido is the “grand absent,” asked after by his damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti. The accent in the exchange is on Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared with Dante, and his disdain for some- thing — unspecified — which Dante by now was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in Purgatorio XI.97–99, where, in an object lesson in humility, literary primacy is passed through the Guidos, presumably from Guinizelli through Cavalcanti, and on to (perhaps) Dante himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet, “Onde si move e donde nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply, the doctrinal canzone “Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico, i’ saccio ben che sa’ limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his consid- erable intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia, however, in “Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an accusation of plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is more appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco Stabili), in whose astrological apology the Acerba, he seemingly takes Guido to task, in detail, for an erroneous analysis of love’s [heliotropia.org/02-01/usher.pdf 1  Heliotropia heliotropia.org workings (particularly the function of the irascible appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too, were fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for street-fighting, and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his failed attempt on the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an assassination plot against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as “cortese e ardito, ma sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Villani, writing con- siderably later, draws attention to the prickly nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo, virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a description of the philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s description of Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti would include Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small child (Trecentonovelle), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio novella (Decameron). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of the Comedy, in particular as a response to the pilgrim’s discussion with Cavalcante de’ Ca- valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos in Purgatorio. He also figures to some extent in elucidations of the two lonely, anon- ymous Florentine “giusti” in Inferno. Commenting upon Inferno X, Guido da PISA (si veda) says of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus, sed tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in derisum” [This Guido was great in knowledge and celebrated in character, but nevertheless somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised the poetic discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s “disdegno” (Inferno) as essentially poetical will be influential amongst subsequent commentators. The Ottimo commentary points to Guido’s common intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia dire.’” The Selmiano, commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth of Guido Cavalcanti comes from Boccaccio, who views the poet essentially through the distorting prism of heliotropia.org/02-01/usher.pdf 2  Heliotropia heliotropia.org Dante and the early Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in his more mature years, by claiming that such a trait was shared with Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in Decameron where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a “lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about G., the famous Florentine physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio, will subsequently pass into the Dante commentary tradition when Benvenuto da Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio. The Decameron tale has been frequently discussed and minutely ana- lysed: what concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait of the poet: oltre a quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale, si fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. (Decameron) Creatively interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi- cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo morta fanno” (Inferno). A very similar portrait of the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as: uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore [scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni) The phrase “ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators, initiated by Guido da Pisa as we have seen, that heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3  Heliotropiaheliotropia.org disdain was for poetry, not theology. It is this Boccaccian portrait, with a distinctly Dante colouring, which will inform Filippo Villani’s much later biography of Cavalcanti in the Liber de origine civitatis Florentie [Book of the Origin of the City of Florence]. As we have seen, the anecdote in Decameron had been previously used by Petrarch, who places Dino del Garbo as its protagonist. Dino was, in addition to being a notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at Bologna), a lecturer on materia medica at various universities. He had a number of commentaries to his credit, including a reading of the third and fourth fen of the fourth book of Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new area for medicine, traditionally hostile to the knife). He also wrote a general handbook, based on book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice medicinalis scientie [Clarification of the Whole Practice of Medical Knowledge]. According to Giovanni Villani, G. was very touchy about his academic standing, and took a mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a lecturer on the astronomy of Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who publicly accused him of having plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s commentary on Galen. Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in the passing of the death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l fece per invidia” (Cronica). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling death, very shortly after the astrologer’s execution, was the result of a posthumous necromantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to have an interest in Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” G. writes a detailed Latin commentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and the LICEO, which was partially imitated and adapted in a vernacular version unconvincingly attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest in Cavalcanti’s canzone would continue into the Renaissance, with Ficino, amongst others, clearly in debt to it. G.’s commentary is certainly known to Boccaccio. Indeed, it has been convincingly argued by Quaglio (“Prima fortuna della glossa garbiana a ‘Donna me prega’ di Cavalcanti,” in GSLI) that the unique surviving manuscript of the commentum (an insert in Vatican Chigiano) is a Boccaccian autograph. This particular transcription, one of the later documents reinserted into the manuscript – cf. Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio, Milan-Naples: Ricciardi. The entire MS is reproduced phototypically in colour by Domenico heliotropia.org 02-01/usher.pdf 4  Heliotropia 2.1 heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. autografo di Boccaccio, Rome-Florence: Alinari). However, already in the Teseida, Boccaccio shows some fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known and corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman law in Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary, entitled Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the Canzone of Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by Favati (Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi). A sectionalised summary translation and secondary commentary can be found in Bird, “The Canzone d’Amore of Cavalcanti According to the Com- mentary of G.” (Mediaeval Studies). There is a fine translation and commentary of the glosses by Fenzi (La canzone d’amore di Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genoa: Il Melangolo. In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long authorial gloss, part of which is on the nature of love itself. In keeping with Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody else, he refers to himself in the third person as the “author” and reserves the first person for the fictive commentator. The gloss labours on through the various symbolic, almost personified qualities (à la Roman de la Rose) propitious to erotic passion till it reaches the figure of Cupid, or desire: Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopra- dette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare, non è il mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi disidera di vederlo, legga la canzone di Cavalcanti Donna me priega, etc., e le chiose che sopra vi fa G.. (Teseida, gloss) What is important here is that, for Boccaccio, the poet’s canzone and the physician’s glosses were already intimately linked, presumably in a single document (as would be the case in the much later Chigian MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then continues, after this parenthesis, with further enumeration of the “author’s” selection of symbolic qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s darts. But the heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf 5  Heliotropia heliotropia.org first sentence of this continuation shows that Boccaccio was still thinking in terms of technical definitions of love borrowed from other sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata nell’anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about fervent desire, in this definition, is reminiscent of a remark in G.’s commentary: est passio quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam amat, ut scilicet coniungatur rei amate. (Favati) [it is a certain passion in which there is appetite along with fervent desire concerning the thing which it loves, so that it may join with the thing be- loved] But the presence in Boccaccio’s gloss of the adjective “nata” (even though it could be construed here as meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older source, namely the opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi: Amor est passio quedam innata procedens ex visione et immoderata co- gitatione formae alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alte- rius potiri amplexibus et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri. (De amore) [Love is a certain inborn passion arising from the beholding of and un- controlled thinking about the beauty of the other sex, on account of which the person desires above all else to enjoy the embraces of the other person and, by common desire, fulfil all the commandments of love in this embrace] Andreas uses the term “innata” to describe erotic passion twice more, in quick succession, clearly wanting his readers to understand that its endo- genesis is an important part of his theory of love. “Innata” in the De amore is clearly adjectival in function, as shown by the following participle “pro- cedens”: but “nata” in the Teseida may be more in the nature of a past participle. The lexical fragment survives, however, despite its possible change of status, as a tell-tale sign of Boccaccio’s prior reading. For Boccaccio, conflating the two sources was tempting, because G. is clearly indebted, for substantial elements of his treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the characteristic initial combination “passio quedam” already demonstrates. Boccaccio was not reading Cavalcanti and G. as an inno- cent, then, but rather as somebody who had already come across authori- tative, if somewhat obsolescent definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is that the two definitions do not match. Andreas heliotropia.org/02-01/usher.pdf 6  Heliotropia heliotropia.org believed that love was intrinsic (“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al cor gentil,” whereas G., following Ca- valcanti, declares that this passion was definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res extrinseca” (Favati). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates. One might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it. But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian terms, though present in the De amore, are simply not used as technicisms in Andreas) imply that he has a good idea of the philosophical slant of G.’s vocabulary. Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the Filostrato and Rime, textual traces of Cavalcanti in Boccaccio’s fictional and creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible (and hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in hisedition of Cavalcanti (Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, esp. index). Branca furnishes more detailed examples (Rime; Teseida) in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron (Florence: Sansoni). One could add to this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a “cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo, for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile accidente. It could be, however, that this particular use of “accidente” (generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN). Another possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which generates the gloss which mentions “Donna me prega” and G.’s glosses. In octave 53 of the seventh book, Boccaccio describes the musical and visual environment of Venus’ garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it visits the bower: ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta. Though “spiritus” was a technical term in medicine, referring to the transmission of vital and animal forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a characteristic Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of fragmented consciousness characteristic of the “anima heliotropia.org /02-01/usher Heliotropia heliotropia.org sbigottita.” Guido even parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito sottile.” More persuasive again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early Rime: Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di spavento, cupido e ritroso, Though Branca does not expressly say so in his commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori), this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the remainder. All in all, though, compared with the massive early presence of Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176 transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for G.’s commentary, rather than as a composition in its own right. G.’s commentary became more useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie and the Esposizioni. By this time, his appreciation of the question of substance and accident, and of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved, though his interest is still anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in the biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus. Cupid had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention of G.’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitudinem. Volunt namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem phylocaptionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8  Heliotropia heliotropia.org transmictitur, et inde ad memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam virtutis speciem transportatur, que inter virtutes apprehensivas nobilior est, id est ad intellectum possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in libro De anima testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per voluntatem patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam approbata retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam amor seu cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis agentibus causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie) Rather than provide a translation into English here, we can go straight to Esposizioni V litt., which is an outstanding example of Boccaccio’s self-volgarizzamento. The passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on the episode of Paolo and Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende” (Inferno). Whereas in the Teseida Boccaccio indulges in a long account of Cupid’s iconography and dismisses (“per ciò che troppa sarebbe lunga la storia”) the aetiology of love with a curt reference to Cavalcanti and G., here in the Dante commentary he inverts the process, omitting the lengthy account of details Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga storia”) so as to concentrate on the explanation of love’s workings. The passage is prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s tripartite distinction of the kinds of love (Nicomachean Ethics), of which more later. Only the very last periods suffer any change from the content of the earlier Genealogie text. The corresponding passage in the Esposizioni, the volgarizzamento of the Gene- alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia apartiene, dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori e, per li sensi corporei portata in essa, è poi aprovata dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla rice- vere. Per ciò che, secondo che gli astrologi vogliono, e così affermava il mio venerabile precettore Andalò, quando avviene che, nella natività d’alcuno, Marte si truovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi esser significatore della natività di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella natività d’alcuno Venere insieme con Marte parti- cipa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una heliotropia.org/02-01/ usher. pdf 9  Heliotropia heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse, questa passione non si genererebbe. The translation diverges only at the end. Out goes the Ovidian reference to a love-struck Jupiter preparing to ravish Europa (Metamorphoses), clearly inappropriate for a commentary to a Christian poem, and in comes a limp and vague reference to shameful behaviour. Similarly, the very last concessionary formula of the Genealogie passage, conceding at least the indirect operation of Mars and Venus, is removed in its entirety, leaving the earlier categorical denial of astral influence intact. But what of the content? The making of such contentious horoscopes, predicting a libidinous disposition, could be dangerous. Villani intimates that one of the reasons for Cecco d’Ascoli’s misfortune at the stake was his disconcertingly accurate prognosis for his patron, the duke of Calabria, that his daughter Giovanna, the grand-daughter of Robert the Wise and future queen of Naples, would be subject to scandalous erotic excesses on account of her birth under the sign of Mars in the house of Venus. Though at first sight, Boccaccio is implying that his source in both pas- sages is the Genoese astronomer Andalò del Negro (almost certainly dressed up as Calmeta in Filocolo) and that he is quoting from Ptol- emy’s commentator Haly Abbas and from Aristotle’s De anima, a large section of this treatment, including the reference to these auctoritates, is in fact lifted from various, almost contiguous places in G.’s glosses. The heliotropia.org /02-01/usher.pdf 10  Heliotropia heliotropia.org opening sentence is an extremely reductive paraphrase of a section of Dino’s commentary where the physician indicates the role of the stars in creating the dispositions of the soul. Dino writes: Alia res concurrit ad causandum aliquam passionem, que est res ex- trinseca que suam ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad quam cognitionem vel apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in quo appetitu iste passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que est res generans istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis corporis que reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat; secundo ostendit que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in appetitu passio amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel posset incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio naturalis, per quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam passionem, ex principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter ista principia nativitatis alicuius, precipua et principalia sunt corpora celestia: nam, ut dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol; et in De Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura existens proportionalis ordinationi astrorum. (Favati) [Something else is involved in causing any passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So the author, in order completely to show what is the thing which generates this passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon- strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition, by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris- totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Generation of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally to the ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor, Andalò del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific passage in Dino. The Garbian passage, commenting on the canzone, reads: Hoc autem ostendit in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”: nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore luxuriosum, fornicatorem et omnibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam sapiens qui dicitur Aly, heliotropia. org/02-01/usher. pdf 11  Heliotropiain “Comento Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate alicuius Venus participat cum Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu- riam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur auctor in hac cantilena. (Favati) [He shows this, however, in that word he placed before when he said “La quale da Marte viene et fa dimora”: for this passion is said to proceed from Mars in this way. Astrologers claim that, whenever, at the birth of somebody, Mars is in the house of Venus, as in Taurus or in Libra, and there is a person to do the child’s horoscope, he will signify that the child will be lustful, a fornicator, and wicked in all venereal excesses. Whence a certain sage called Haly in his commentary to the Quadripartitum says that, when at the birth of somebody Venus participates with Mars, it grants enamourment, fornication, lust and such like, which all are con- cerned with the passion of love which the author talks about in this can- zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather disingenuous, if the evidence of the Calmeta episode of the Filocolo is to be believed. For there the empha- sis in that passage is almost entirely astronomical, with no hint of judicial astrology, and the authorities consulted are almost certainly limited to Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own Introductorium, rather than the simi- larly titled work by Alcabitius, and to the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to the Ptolemaic Quadripartitum there is not a trace. Boccac- cio’s early astrological culture, under the sway of Andalò, has been examined in an important study by Quaglio (Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana) and its narrative consequences (possibly more tending towards judicial astrology) in the Filocolo have been investigated by Smarr and Grossvogel. The adventitious references to Haly in the love definition in the Genealogie and Esposizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging his youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing G.’s quotes and mentions, rather than referring to material he knew and remembered intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely the sequence of inter- iorisation, comes from G.’s gloss to the line. G.’s ordering of the inner processes is, according to Bird, untypical, yet Boccaccio accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana, sicut declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad sensus exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum, deinde ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus possibilis. (Favati) [For this is the sequence in human apprehension, just as it is declared in natural science. First of all the species of the thing reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste or smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties, and this is the possible faculty] G. then provides a brief explanation of the difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning function of individuation and universals, and the passive or possible intellect, merely concerned with the processing of species resulting from sensibles. The discussion is not otiose, for G. is aware of Cavalcanti’s dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such technicalities, and moves on to a matter of much greater concern, namely the question of the relationship between love and will. The relevant passage from G. glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio characteristically leaves out G.’s proessionally inspired mention of the difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the sensitive faculties, in the heart or in the head. G. writes: Et nota quod istum appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut ostenderet quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam quis inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex proposito et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et liberi arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic, sicut etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis, licet sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et simili modo etiam de amore. (Favati) [And note that he calls this appetite the will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to show that, although love can happen to somebody through a natural disposition whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will, which is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And it is the same here, just as it is with the other passions, like anger, for instance. For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry easily, nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he can even indulge in it; and it is the same with love. For Dino, the question is one of classification: given the working of erotic passion specifically in the sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the operations of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording changes the emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer an ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is therefore responsible for his own actions in this field as in any other. Love, as a phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area, he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further on in the commentary, for G. refers to the will obliquely later on, drawing on Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic nature of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam formarum et figurarum que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety, similar to melancholy, in which a man actually brings upon himself the rousing of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are within him.] A fragment of this reading of G. can be found in the Decameron, when Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa, as she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important in the Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit incitationem.” And later again, G. will return to the topic, to explain why nobles have a greater propensity for erotic pas- sion than those whose existence is marred by the struggle for economic survival: Secunda causa est quia, licet in amore, quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo est servus et ducitur secundum impetum huius passionis, tamen in principio, quando incipit hec passio in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita ut possit amare et possit desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis incipit multotiens ex proposito. (Favati) [The second cause is because, though in love for instance the appetite, when it is much pressed, is not free, indeed it is enslaved and is led by the impetus of this passion, nevertheless in the beginning, when this passion starts in the appetite, at that point the appetite is almost free, so that it can love or desist from love. And so the beginning of this passion frequently starts from choice.] heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf Heliotropia heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the question of free will served no particular purpose, and was not set within a moralising context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial. Boccaccio has a precise task, for he is explaining the sin of those who “la ragion sommettono al talento” (Inferno). Boccaccio’s own prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni V litt. 46) Boccaccio, never very consistent when adopting others’ philosophical sys- tems or terminology, seems to see no difference here between “will” and “desire.” He seems to have no real understanding of the complexities of appetition. Perhaps he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova, where the poet admits to a struggle between appetite (“cuore”) and reason (“anima”). Maybe he is using “volontà” to stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca uses when he writes “e qual sommette a voglia operazione” (Contini, Poeti del Duecento, Milan-Naples: Ricciardi). It is no surprise, therefore, to find that Boccaccio now moves straight from his paraphrase of G. on love and will to a discussion of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt.) was obliged to fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo is ‘flessibile,’ in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies to Dante’s amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello: “inchinevole molto a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but when it comes to the famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona” (Inferno), the moralist suddenly swings into action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore, non avviene di questa spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto (Esposizioni V litt. 169) Here Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,” where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much earlier. Now he claims that Francesca’s declaration of the inevitable reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only happen with “amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in Purgatorio (where Statius’ love for Virgil causes a corresponding affection in the older poet). But the lovers of Inferno V are seekers of pleasure only, not seekers of goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But why did Boccaccio, between the Genealogie and the Esposizioni accounts, suddenly introduce the Aristotelian distinction? What does it have to do with G.’s commentary? Once again, Boccaccio has been searching around in the glosses, and has found that the next argument G. engages in is concerned with is the dual nature of love. One is the common definition: uno modo comuniter et large, secundum quod est quedam passio per quam inclinatur et movetur appetitus in aliquam rem que videtur sibi bona propter complacentiam eius, ratione cuiuscumque actus illius rei: et isto modo non accipitur hic: nam amor est circa multa, de quo amore non est presens intentio. Et de omnibus amicis ad invicem est hoc modo amor: quia amici amant se ad invicem, et tamen non amant se amore de quo est hec presens intentio; et potest etiam esse amore in uno respectu alterius, et tamen non erit amicitia inter eos: omnis enim qui est amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui amat aliquem amatur ab illo; et ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non tamen omnis amor est cum amicitia. (Favati) [one way commonly and widely defined, according to which it is a certain passion by which the appetite is inclined and moved towards something which seems good to it on account of its pleasurability, by reason of whatever agency of that thing: and it is not accepted in this way here: for love concerns many things, about which love it is not Guido’s present intention to speak. Concerning all mutual friends, love is of this kind: for friends love each other reciprocally, and yet they do not love each other with the kind of love which is the topic here; and it can be a question of love in one regarding the other, and yet there will not be friendship between them: for everybody who is a friend to somebody is loved by that other person, but not everybody who loves somebody is loved by that person, and so, even if every friendship is with love, not every love is with friendship.] In his round-about way Dino is dealing here with the distinction between love “per concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for friendship’s sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone, whereas the second is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore onesto.” Dino’s purpose is to go on to define the pathology of the illness that derives from amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by Massimo Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome: Bulzoni, 1976) and before that by John Livingston heliotropia.org /02-01/ usher  Heliotropia heliotropia.org Lowes (“The Loveres Maladye of Hereos,” Modern Philology). Boccaccio, uninterested in the minutiae of such medical matters (though he refers to them in his Valerius Maximus inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of Antwerp (Decameron), retains the distinction but uses it for a moral purpose. Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as theirs was an “amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves of the free- dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to their damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he re- turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com- mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has another go at defining the relative roles of astrological disposition and free use of the rational faculty of choice: L’origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse da questo scusare, se data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel quale è podestà di seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode and shaped, selectively, by G.’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran- cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V. Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s “priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and “niega”). Troiolo then indicates how love took over: Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano, d’un piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto lontano ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato) This is a clear echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende e ’l modo ancor m’offende” (Inferno). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four, Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a jealous lover should be more pitied. The queen passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his reward, for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently coerced by mutual delight. Florio clearly considers that such a situation is universal, and affects not only mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo) But perhaps the most memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of France lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza di mio marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron) Though the power of love is emphasised, a subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission that an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we come to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with Guiscardo by her jealous father (Decameron), we see the same refined con- cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.” Ghismonda, at various points, then outlines the sheer power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during love in Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”. But then the speech gets down to detail. It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now enforced celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet, here again, we can see that Boccaccio clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of rational choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are predisposed to “incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio having read Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is quite strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might imagine, with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its availability as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno V. What changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino, starting from an opportunistic level, where the distinction between Capel- lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which consciously develops the potential in Dino’s understanding of the role of the will. The moment of transition, however timid, seems to take place in the years of the Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon destroying it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best thing is to leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s inability to understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy. But in philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido, Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” --  Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo – spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare, sentire, il patico – fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti --. de militia complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele, passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love, amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza, “Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Gargani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia – filosofia genovese – la scuola di Genova -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “I like Gargani; many of his essays are pretty interesting: he’s written on the ‘sense’ of ‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which according to Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a communicational impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto assai più cose di quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno eretto nella forma di costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se fossero separate dal caso e dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno fatto della propria vita.” Si laurea a PISA sotto BARONE (si veda). Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness. È stato il massimo studioso italiano di Vitters, e ha contribuito alla diffusione della filosofia di D. F. Pears. I suoi ambiti di studio sono stati prevalentemente la filosofia del linguaggio, l'estetica, l'epistemologia, e la psicoanalisi. Di particolare interesse è anche il suo tentativo di una scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e destino” (Laterza, Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il testo del tempo” (Laterza, Roma-Bari).  Altre opere: “Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi, Torino); “Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi, Torino ); “Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida, Napoli); “Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari);  “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli, Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica” (Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità” (Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto, sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione (Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2. jpg Eurialo e Niso di Roman, Louvre SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus Epitetoinsigne per bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide (patronimico di Niso) 1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa (Eurialo)  Sessomaschi Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso) Eurialo e Niso (in latino Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell'Eneide di Virgilio. Guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua opera.  Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini Cidone e Clizio.  Il mito Appresentossi in prima Eurïalo con Niso. Un giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e casto amico.»  (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428) Eurialo Eurialo (figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché lontano parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore degli altri.  Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi funebri per Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e riesce a vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per lui.  Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani, approfittando dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici. L'inesperienza di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento nemico diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio quei trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il riflesso dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni, dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco vicino all'accampamento rutulo.  In quel momento Virgilio richiama alla mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa il capo durante la pioggia.  NisoModifica Niso appartiene a una famiglia illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo, chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori. Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno stratagemma.  Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea, ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato poi da Eurialo.  Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta.  Quinto libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco, vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della celebrazione dei giochi.  A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra.  Di conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara.  Irritato per la vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico, commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il giovinetto.  Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da Didimaone, e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di diritto, ossia un cavallo con borchie.  Nono libro - La sortita notturna e la morte dei due giovaniNella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi guerrieri.  L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere ancora una lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni riguardo alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro missione. Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze e cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa.  I due amici penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione, aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo giovinetto Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte. Questi sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di Niso. Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso esorta il compagno a cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico. Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo (un alleato italico dei Rutuli, che non è tra le vittime).  Proprio per la vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento maturi cavalieri rutuli guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che incominciano allora a inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel bosco.  Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.  Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato, scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo mortalmente.  (LA)  «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit: purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente il colpo  già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse. E già morendo  Eurïalo cadea, di sangue asperso  le belle membra, e rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina. -- Trad. Caro. Niso allora grida disperato e si scaglia con tutta la sua violenza contro Volcente, conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta sull'amico e si dà finalmente pace. At Nisus ruit in medios solumque per omnis Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac rotat ensem fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque ibi demum morte quievit. In mezzo de lo stuol Niso si scaglia  solo a Volscente, solo contra lui  pon la sua mira. I cavalier che intorno  stavano a sua difesa, or quinci or quindi  lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre  addosso a lui la sua fulminea spada  rotava a cerco. E si fe' largo in tanto  ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava,  cacciogli il ferro ne la strozza, e spinse.  Così non morse, che si vide avanti  morto il nimico. Indi da cento lance  trafitto addosso a lui, per cui moriva,  gittossi; e sopra lui contento giacque.»  (Caro) Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte di Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due amici un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti:  Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.  Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate davanti al presidio troiano con grande clamore.  In seguito la Fama avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il suo corpo.  La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo.  Vittime di Eurialo e Niso Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo dei Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione:  Abari Erbeso Fado Reto (l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi in scontro aperto:  Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante, cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno:  Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso «armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis, da alcuni tradotto sopprime l'auriga ed armigero di Remo è da intendersi per altri come sopprime lo scudiero di Remo e l'auriga, quindi il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12 a 13. In ogni caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più nemici nel poema; e tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben quattro quelli che subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e Serrano.  Virgilio mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel sonno, ma solo nella sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti studiosi il punto in questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione definitiva dell'opera: e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa che il poeta abbia scritto erroneamente "Numa" in luogo di "Lamo" o "Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome Numa ritorna, insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto padre di quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto uccide, in mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di Volcente, Camerte, biondo signore di Amyclae.  Raffronto con l'IliadeModifica Nel compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal poeta a un leone vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi pecore; la similitudine proviene dal modello omerico con la strage dei Traci. La pagina del massacro compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però soprattutto per la presenza di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che vomita la sua anima intrisa del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso (Diomede riserva questo trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il giovane eroe tuttavia si astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue vittime, divergendo in questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille nell'Iliade; Turno e lo stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo morente, col giovinetto che piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata dall'Iliade, ma richiama un altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno dei figli di Priamo, ucciso in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema. Il testo virgiliano contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure Ramnete, amante del fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e l'uccisione del bizzarro auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi stessi cavalli).  Benché l'episodio della sortita notturna sia modellato su quella compiuta da Odisseo e Diomede, i troiani presentano tratti che rimandano più ad Achille e Patroclo per il rapporto che li unisce, ovvero quello di due guerrieri-amanti. In Niso peraltro si può riscontrare una personalità molto simile a quella di suo fratello Asio nell'Iliade, caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto anche Asio soccombe dopo aver tentato di vendicare un commilitone caduto, Otrioneo, al quale però non è sentimentalmente legato, così come non risulterebbe avere un coinvolgimento erotico col proprio auriga, destinato a perire subito dopo di lui. [1].  Interpretazione dell'episodio Affiora in questi versi lo sgomento di Virgilio di fronte agli orrori della guerra, che miete lutti su lutti. La guerra non è tra buoni e cattivi: i troiani cercano una nuova patria, gli italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non ci sono solo Eurialo e Niso, dato che i guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno sono più o meno loro coetanei: in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie per l'assedio 1.400 giovani («bis septem Rutuli muros qui milite servent / delecti, ast illos centeni quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal poeta in un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo doppio potere è uno degli italici che Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e soldati di estrazione non nobile come Eurialo e Serrano.  Fortuna dell'episodio Nell'Orlando furioso di Ariosto i due soldati saraceni Cloridano e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei cristiani per cercare il cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in battaglia, e vi uccidono diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la conclusione, che vede soccombere il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a essere salvato dalla bella Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al ritrovamento dei guerrieri uccisi nella strage.  Eredità culturaleModifica A Eurialo e Niso sono stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di Saturno. Massimo Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una sua canzone scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis, intitolata Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi della coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi gli amici. Fonti VIRGILIO (si veda) Eneide. Asio è invece molto più legato al principe troiano Deifobo, che subito dopo la sua morte decide di vendicarlo Iliade (Monti) Voci correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe Asio (figlio di Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano Medoro (Orlando furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo Reto Cidone e Clizio Decapitazione Reso. Eurialo e Niso   Portale Letteratura   Portale Mitologia Scienza e filosofia della complessità. Studi in memoria di G. A cura di Marinucci, Salvia, Bellotti Collana “I Tempi e le Forme” (Carocci) G.: la filosofia come analisi delle possibilità di Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e Stefano Salvia 1. Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre corpi da Newton a Poincaré di Salvia Genesi e sviluppo di un problema scientifico/La prima formulazione esplicita del problema Dalla geometria analitica all’analisi algebrica/La controversia intorno a 1 r2 Il problema dei tre corpi ristretto Il Sistema solare è stabile? Dall’analisi algebrica alla meccanica analitica La meccanica razionale e l’analisi classica Il teorema di Poincaré: limite invalicabile o nuovo spazio di possibilità? Il problema della previsione in un sistema deterministico classico di Cintio Il problema dello studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il problema delle previsioni delle evoluzioni/ Evoluzioni caotiche/Dalle singole orbite alle famiglie di sistemi Il problema della previsione e la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di Fronzoni Introduzione La riscoperta del caos Le biforcazioni Coerenza e autorganizzazione La turbolenza Stati coerenti localizzati: i solitoni La sincronizzazione Coerenza e disordine nella meccanica quantistica Entropia e complessità  Network Conclusioni Su Turing, gli algoritmi, le macchine, la prevedibilità di Bellotti Turing: una brevissima biografia Una digressione: Penrose contro Turing Algoritmi Macchine di Turing Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari nei sistemi viventi di Longo Introduzione Storia e dipendenza dal cammino in fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante storicizzato/Gli osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive Verso il futuro: sapere e imprevedibilità/ Tracce invarianti di una storia/Spazi relazionali costruttivi e invarianza Conoscenza del presente e invenzione del futuro/Il ruolo della diversità e degli eventi rari Conclusione Possibilità e realtà tra fisica e biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica La meccanica quantistica La biologia Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria di G., a cura di: Marinucci, Salvia, Bellotti, Carocci, Roma, Il volume raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al convegno Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e filosofia della complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di G.. Del filosofo sono ben noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica moderna e in altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di possibilità che vanno, irriducibilmente, al di là della determinazione. Aldo Giorgio Gargani. Gargani.  Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa – communicazione – implicatura come condivisa – empatia – d. f. pears --. Mcguinness, Gargani on Grice – ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gargani” – The Swimming-Pool Library. Gargani.

 

Luigi Speranza -- Grice e Garin: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del rinascimento – scuola di Rieti – filosofia rietesi – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rieti). Filosofo rietese. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Rieti, Lazio. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the longitudinal, rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever there is one!” --  Italian philosopher, author of a very rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo italiano” Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale c'è GUZZO (si veda), una figura che costituirà un punto di riferimento per G. quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di matrice spiritualista e cattolica come Lavelle,  Senne, Castelli Gattinara di ZUBIENA (si veda), SCIACCA (si veda) e lo stesso GUZZO (si vedea). Iscritto al Partito Nazionale, pronuncia al liceo di Firenze una commemorazione a GENTILE (si veda). Una svolta nelle prospettiva politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana, fortemente sollecitato da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo. È tuttavia considerabile tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasfere a PISA a causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca, di cui non condivide le modalità di lotta e che considera espressione di astratto rivoluzionarismo. La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo rende consigliere prezioso. I lincei gli confere il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Altre opere: “Pico: vita e dottrina”; “Gl’illuministi inglesi. I Moralisti; “Il rinascimento ITALIANO”; “L'Umanesimo ITALIANO”; “Medioevo e Rinascimento”; “Cronache di FILOSOFIA ITALIANA”; “L'educazione in Europa”; “La filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento ITALIANO”; “La cultura ITALIANA”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento ITALIANO”; “Storia della FILOSOFIA ITALIANA”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo”  “FILOSOFI ITALIANI”; “ Rinascite e rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo del Rinascimento”; “Gli editori ITALIANI”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò non toglie che l'importanza della interpretazione del Rinascimento che G. ci dà nei suoi scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime traduzioni di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico, letterario) possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della evocazione del Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi, Milano, su lincei. Fondo G., Il percorso storiografico di un maestro, Firenze, Le Lettere, Biondi, Dopo il diluvio. G., l'ombra di Gentile e i bilanci della filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. Ciliberto, G.. Un intellettuale nel Novecento, Roma, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in "Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi, Milano, "Il Gramsci di G., in Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di G., Milano, FrancoAngeli, Treccani Enciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Eugenio Garin, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di G.. Quando con ritrosia è portato a farne un sobrio bilancio, G. insiste a dire di essere stato soprattutto un insegnante. Ho sempre insegnato, ripete. E insegnante lo  è stato alla scuola di  avviamento al lavoro di Fucecchio, dei ragazzi di buona famiglia delle  Mantellate di Firenze, alle quali fa lezione sorvegliato da una severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Cannizzaro di Palermo, poi di quelli del Liceo Vinci di Firenze, mentre sostituiva  uno dei suoi maestri, SARLO (si veda), nell’insegnamento universitario di filosofia. Insomma,  sempre insegna e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università  in giù. Non saprei dire di G. insegnante di liceo. Vorrei dire solo qualosa di G. docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e  con ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo G.. Non già  perché egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo  volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire  a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria formazione, con  è scomparso G.. Al maestro fiorentino e alla sua  opera la Biblioteca Roncioniana aveva dedicato un convegno (cfr. Giornata di studi,  omaggio a G., Bollettino Roncioniano; del convegno sono poi  usciti gli atti: G.. Il percorso storiografico di un maestro, cur. Audisio  e Savorelli, Firenze, Le Lettere. Pubblichiamo qui un ricordo di G., che Tonini legge nela cerimonia svoltasi in Palazzo vecchio, aha quale sono intervenuti il Sindaco di Firenze, Domenici, Cacciali, Ciliberto, Luzi e Rossi. Il testo è apparso nella brochure Per G., Napoli,  Bibliopoli, edita a cura di Tonini e Franco, che si ringraziano  per averne acconsentito la ristampa in questa sede. Tonini le proprie attese. In altre parole egli non intende plasmare l’ascoltatore, ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno doveva e poteva rispondere a suo modo, liberamente.Non che il suo insegnamento è univoco, uguale dappertutto e per tutti. È un insegnante troppo navigato per  sapere che una cosa è far lezione al pupillo di filosofia assieme, un’altra ai soli filosofi, come ci chiama, un’altra cosa ancora ai laureati e laureandi. Sa bene che è diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno di  studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti, ai cittadini, come spesso gli è capitato proprio qui nel palazzo vecchio della sua  Firenze. Cambiano i contenuti, mutano i toni, mai il carattere, l’alta  professionalità, medesima sempre la passione. G. non spezzetta mai il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare  o da insegnare, lo sconosciuto pupillo che si presenta all’esame, l’amico e collega, lo studioso straniero, il laureato, tutti meritano  sempre la stessa attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua produzione letteraria le conferenze lincee e le lezioni al Collège de France  stanno insieme agli scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne  colga, se non con l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e  la loro destinazione. Niente gli è più alieno, fisicamente e metaforicamente, dell’espressione prendere per mano. G. non prende per mano nessuno. Apre un libro, i cui capitoli anda narrando di volta in volta. Un libro sempre nuovo. Per chi sa apprezzarlo, quel libro conduce a altri libri,  poi a una collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somigliante a quello di un autore a lui carissimo, Sterne, La vita e le opinioni di Shandy [LIFE AND OPINIONS – GRICE], fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di  vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso fino  a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è necessario  per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un libro ciascuno,  per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se volete, la propria  strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con un libro, ciascuno instaura con lui un rapporto individuale: per quanto paradossale, la  sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna possibilità di dispense, alcuna versione ufficiale. Considera la cultura, lo ha scritto, la conquista di una più profonda coscienza di sé. E l’università è cultura. In questo senso il suo non è  mai stato un insegnamento demagogicamente democratico, né si è mai  considerato un missionario, né ha considerato il proprio lavoro una missione. Piuttosto un funzionario, come amò talora definirsi, civettando  con il motivo del trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava un viaggio su un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto,  ma che, al pari di un capotreno, non era, e non si considerava, poi responsabile se i viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e prendevano altre direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto nelle scelte altrui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur avendone le doti, a essere il  pifferaio fascinatore di candide giovinette e di timidi giovinotti. Lo  considera un tradimento, un traviamento del suo compito, che  è appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di insegnare a capirne  la storia, di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da portare su  una strada che non fosse già in qualche modo segnata, e segnata individualmente, in chi lo ascolta. Un pescatore anche, ma un pescatore che getta reti larghe e profonde nelle quali si aspettava che i pesci entrassero spontaneamente, mai  che venissero catturati. I suoi pesci erano e dovevano essere pupillo non venivano infatti da un esame che ne aveva certificato proprio la maturità? che egli considerava suoi pari, almeno per quel che riguarda il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più diffusa e più equamente  distribuita tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e noi riguardava, galileianamente, l’estensione del sapere, non la capacità di comprendere. Il  severo, severissimo G., che tanto spaventa le matricole, è un benevolo confessore dell’ignoranza del suo pupillo. E quelli più maturi  imparavano subito che la migliore risposta alle domande che fioccavano  in aula era quella di confessarla subito quella ignoranza, anche quando si  era quasi sicuri della risposta -- ma chi è sicuro di fronte a G.?.  Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera, una differenza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera quantitativa, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una differenza di  età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si trasformava in paternalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava nella generosa disponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare non  solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli gruppi  alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri colleghi che  ci risultassero particolarmente difficili. Il grande intellettuale non dimentica in nessuna occasione la sua professione: non solo nel rigido adempimento dei suoi obblighi di docente, nella proverbiale puntualità, nella  scrupolosa preparazione dei corsi (i ‘bauli’ di libri che partivano anzitempo per la montagna), nella paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli  delle tesi di laurea, nella curiosità con cui ogni anno rinnovava l’incontro  con i suoi giovani interlocutori. Aveva trasformato una precoce vocazione in una professione, in un affetto per il proprio lavoro, prima ancora  che per chi dovesse usufruirne, in una disciplina che scherzosamente at- [G. La lezione di un maestro  tribuiva alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per cogliere la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo  intervento. G. non è mai stato altro cheun insegnante: poche, modeste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergeno un’insofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore, altrettanto rare  quelle istituzionali o editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera  scolastica, nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che ha, come sa, una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola,  per la sua città, per il suo paese. Credo che nulla gli è apparso più  estraneo e spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un istituto, una rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una  scuola di G., ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono  laureati con lui, che lavorano con lui, che condivideno aspetti  e momenti del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti, invidiamo gl’allievi di PRA, che il maestro  raduna a S. Margherita o sul lago di Garda, cui apre la Rivista critica  di storia della filosofia, la collana del centro milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che si ritrovano su aut aut,  che si incontrano nelle edizioni del Saggiatore, ricordiamo e riconoscemo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che attendeno a imponenti opere collettive, e tanti altri che andano sorgendo vicino e lontano. G. non ha nulla. Non ha mai diretto opere collettive, non ha mai organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai collane editoriali. Quando ciò è avvenuto con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il Giornale critico della filosofia italiana, tutto si è potuto e si può dire, fuori che fossero espressioni di una  scuola o di un gruppo che in lui si riconoscesse o che in lui fosse riconoscibile. Neanche quando a PISA gli si è offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e entusiasta messe  di studiosi, è venuto meno il carattere del suo insegnamento. Lì,  come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha mancato di offrire  opportunità, un’occasione irripetibile, anzi, generosamente resa disponibile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di coglierla e di realizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà di decidere, di  interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il severo G. non  rimprovera mai. Non gli è mai venuto in mente di riprenderci, come capita al suo amico e collega CANTIMORI o a RAGIONIERI,  se mancamo a una seduta di seminario e veniamo sorpresi in biblioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli è venuto in mente di TONINI portarci nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capita  spesso con Cantimori e occasionalmente con Ragionieri. Non vuole essere né un padre, né un maestro di vita. Non credo  neppure che volesse additarci un modello. È piuttosto una lezione di  maturità, di piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso rispetto dei ruoli, quella a cui ci chiama, e che per molti è anche la prima.  Il suo dovere è quello di insegnare, del nostro doviamo rispondere  noi. Scende dalla cattedra per aiutarci a leggere un testo, per offrirci  un’indicazione, per mostrarci un passo di un libro, sede tra noi a discutere di Cartesio o di Platone, e la lezione puo proseguire nella biblioteca di facoltà, o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma  senza mai abdicare alla sua funzione. Non è mai sceso a discutere  con noi il corso, la sua organizzazione, le sue modalità. A ciascuno il suo. Non discute le nostre scelte di vita, i propositi di  lavoro, le carriere. Li considera su un altro piano, nel quale l’insegnante  non dove né puo intromettersi: li accetta. Al massimo inarcava le  ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e continuamo a  sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis segnala i dubbi e gl’errori di sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lascia tutte,  fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula. Ë facile sapere come la pensa, lo leggemo su Paese sera, sull’Unità, su Rinascita, lo seguimo nelle Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai innescata, con lui, una forma qualsiasi di intesa, di complicità, oserei dire, che  prescindesse da quella unica e prevalente di insegnante e studente. G. ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato  come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI a Cartesio, da CITTADINI a PICO. Ha ricostruito squarci del nostro passato culturale e civile, da CROCE a GENTILE, da GRAMSCI a LABRIOLA, da CAPPONI a VILLARI, ci ha dato testi  e momenti del nostro passato FILOSOFICO che hanno costituito e costituiscono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno che voglia fare una  professione simile alla sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più importante: la sua lezione. Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola, un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella quale molti di noi si  trovano ora, sia migliore o peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di potervi incontrare ancora un insegnante come G. L'insidia implicita nel concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare la prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica dell’umanesimo. Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui tutta l'attivita  spirituale e impegnata a costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile, trova la sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico e di tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita, ma si difende e si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca, le piu profondamente  espressive, dovra  rivolgersi,  non  gia  a testi per  tradizione  considerati  monumenti  letterari,  ma  alle opere in cui veramente si manifest6  tutto 1'impegno  umano  della nuova civilta. Cosi,  mentre  chi prenda a  scorrere  novelle  umanistiche  non  potra  non  uscir  deluso  da  talune,  piu  che  imitazioni,  traduzioni,  o  meglio  raffazzonamenti,  di  modelli  boccacceschi,  quali  troviamo, tanto per esemplificare, in Fazio, pagine  di insospettata bellezza, capaci  di  colpire  ogni  piu  raffinata  sensibilita, ci  si  fanno  incontro  nei  trattati  e  nei  dialoghi  di Bracciolini,  e perfino  nelle opere d’un  filosofo di  professione, dall’andamento  talora  scolasticizzante,  qual  e  Ficino.  E  proprio  Ficino  nella Theologia  platonica,  presentando  gl’uomini  travagliati  dalla  malinconia  della  vita  e  desiderosi  che  tutto  sia un  sogno  (wforsitan  non  sunt  vera  quae  nunc  nobis  apparent,  forsitan  in  præsentia  somniamus),  defmisce  nei  suoi  particolari  espressivi  un  tema  di  larghissima  risonanza  in  tutta  la letteratura europea. Sempre FICINO, nel Liber de Sole, pur  parafrasando  talora l’orazione  famosa  dell'imperatore GIULIANO, fissa i  momenti  di  quella lalda  del  sole che,  attraverso VINCI (si veda),  arriva  fino all’inno ispirato di Campanella. VINCI (si veda)  rimanda  esplicitamente  all'apertura  del  terzo  libro  degli  Inni  naturali  del  Marullo;  ma  chi  veramente,  ancora  una  volta,  in  una  prosa  di  grandissimo  impegno, ci offre tutti i temi di quella si. L'omo nato nobile e in citta libera- come  diii  PICCOLOMINI.  FICINO,  Opera,  Basilea,  Petri.  (Theol  plat.). lenne  preghiera  di  ringraziamento  alia  fonte  di  ogni  vita  e  di  ogni  luce,  e  proprio  Ficino. Del  quale  e la non  dimenticabile  raffigurazione  di  una  tenebra  totale,  ove  e  spento  ogni  astro,  che  fascia  lungamente  i  viventi,  finche  di  colpo  il  cielo  si  apre  per  mo-  strare  colui  che  e  sola  forma  visibile  del  Dio  verace.  E  ficiniana e 1'opposizione del carcere  oscuro e della luce di vita, della tenebra  di  morte  e dei  germi  rinnovellati  dalla  luce  e  dal  calore  solare,  in  cui  si  articolera il  metro  barbaro  di  Campanella. Ma per rimanere  agli  scritti  d’un  medesimo  autore,  ALBERTI,  non  grande  imitatore  del  BOCCACCIO,  raggiunge  invece  la  sua  piena  efficacia  quando  costruisce  i  suoi  dialoghi,  e  sa  essere  perfettamente  originale  pur  intessendoli  di  reminiscenze  classiche.  Perfino  la  tanto  celebrata  Historia  de  Eurialo et Lucretia di Enea Silvio perde tutto il suo colore innanzi alle pagine dei Commentarii'*e sono piu facili a dimenticarsi i casi  di Lucrezia che non le stanze delle antiche regine divenute nidi di serpi, o le porpore  dei  magistrati  romani  rievocate  fra  Tedera  che  copre  le  pietre  rose  dal  tempo,  o  i  topi che corrono la notte nei sotterranei di un convento e il papa che caccia sdegnato i monaci negligenti. Per non dire di quella feroce presentazione dei cardinali, fissati in ritratti nitidissimi con rapide Imee  mentre  per  complottare  trasferiscono nelle  latrine  la  solennita  del  conclave.  Poggio  consegna  a  trattati  di  morale  narrazioni  scintillanti  di  arguzia,  spesso  molto  piu  facete  di  tutte  le  sue  Facezie.  I  mari  di  Grecia  percorsi  sognando  d’Ulisse,  il fasto  delle  corti  d'Oriente,  le  belve  africane,  i  fiumi  immensi, et  per  Nilum  horrifici  illi  anguigeni  crocodiliw,  si  alternano  a  discussioni  erudite  sulle  iscrizioni  delle piramidi  nelle  lettere  agli  amici  e  nel  taccuino  di  viaggio  di  quel  bizzarro  e  geniale  archeologo  che  fu  Ciriaco dej  Pizzicolli  d'Ancona.  E  forse  il grande Poliziano  ha  scritto  le  sue  pagine  piu  belle  nella  prolusione  al  corso  sugli  Analitici  primi  d' Aristotele  e  nella  lettera  alPAntiquario  sulla  morte  del  magnifico Lorenzo.  Lettere  dialoghi  e  trattati,  orazioni  e  note  autobiografiche,  sono  i  monumenti  piu  alti  della  letteratura  del  Quattro  cento, e tanto piu efficaci quanto meno 1'autore si chiude nelle  i. «La  novella  era  un  genere  troppo  definite,  troppo  condizionato  nelle  sue  linee  essenziali  da  una  tradizione  ormai  piu  che  secolare,  perche  PICCOLOMINI (si veda) puo  eluderne  il  colorito  e  gli  schemi»  (PAPARELLI,  Piccolomini, Bari, Laterza).  forme  tradizionali,  quanto  piii  si  impegna  nel  problema  concrete  che  lo  preoccupa,1  o  si  accende di  passione  politica  nel  discorso  e  nell'invettiva,  o  si  dimentica  nella  confessione  e  nella  lettera.   Poliziano,  che  della  produzione  letteraria  del  suo  tempo  fu  il  critico  piu  accorto  e  consapevole,  e  che  ha  dichiarato  con  grande  precisione  i  suoi  princlpi  dottrinali  nella  prefazione  ai  Miscellanea,  nella  lettera  al  Cortese  e,  soprattutto,  nella  grande  prolusione  a  STAZIO (si veda)  e  Quintiliano,  ha  visto  molto  bene  come  all’umanesimo  sono  intrinsiche  particolari  maniere  espressive. Proprio  nelle  prime  lezioni  del  suo  corso  sulle  Selve  di  STAZIO (si veda),  con  la  cura  minuta  che  gli  era  propria,  si  sofferma  a  dissertare  abbastanza  a  lungo  intorno  a  due  forme  letterarie  tipiche,  Fepistola  e  IL DIALOGO, accennando  insieme  al  genere  oratorio,  da  cui  gli  altri  due  si  distaccano  pur  non  senza  svelare  un'intima  parentela.  L'epistola egli  dice e  il  colloquio  con  gl’assenti,  siano  essi  lontani  da  noi  nello  spazio  oppure  nel  tempo:  e  vi  sono  due  specie  di  lettere,  scherzose  le  une,  gravi  e  dottrinali  le  altre  -- altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera. Ma  1'epistola  deve  essere  sempre  i.  In  una  compilazione  erudita  come  i  Dies  geniales  di  Alessandro  d'Alessandro la discussione filologica si inserisce con eleganza fra il ritratto e il ricordo senza togliere a questi  alcuna grazia, cosi che la discussione di un testo classico si colloca nella descrizione d’un compleanno del  Pontano o d’una  cena di  Barbaro,  o fa  seguito  a  una  lezione  romana  di Filelfo  (cfr.  CROCE,  Varieta  di  storia letteraria e civile,  Bari, Laterza. A  proposito del DIALOGO e  dell'epistola  come  forme  caratteristiche  dell'umanesimo e  da  vedere  quanto  dice RttEGG, Cicero und der Humanismus, Formate Untersuchungen  über Petrarca und Erasmus,  Zurich,  Rhein-Verlag,  anche  se  a  proposito  della  sua  tendenza  a  ricondurre  tutto  a CICERONE e da tener  presente  la  nota  che  CROCE  stese  appunto  sull'opera del Rxiegg  (Mommsen  e  CICERONE, in Varieta).  II commento  del  Poliziano  e nel  ms. Magliab.  vn, (Bibl.  Naz.  Firenze). II  testo  in questione e  a  c.  4V-5V  (est  ergo  proprie  epistola,  id  quod  ex  Ciceronis (CICERONE (si veda)) verbis  colligimus, scriptionis genus quo certiores facimus absentes si quid est quod aut ipsorum aut nostra interesse  arbitremur. Eiusque tamen  et  aliæ  sunt  species  atque  multiplices,  sed  duæ  præcipuae  altera  ociosa,  gravis  et  severa  altera. Atqui  neque omnis  materia  epistolis  accommodata  est. Brevem  autem  concisamque  esse  oportet simplicis ipsius rei expositionem, eamque simplicibus verbis. Multas epistolæ inesse convenit  festivitates, amoris significationes, multa proverbia, ut quæ communia sunt atque ipsi multitudini accommodata.  Qui vero sententias venatur  quique  adhortationibus  utitur  nimiis,  iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium. Epistola velut pars altera dialogi. maiore  quadam  concinnatione  epistola  indiget  quam  dialogus imitatur  enim  hie  extemporaliter  loquentem at  epistola  scribitur.] breve  e  concisa,  semplice,  con  semplici  espressioni,  ricca di brio, di  affettuosita, di motti,  di  proverbi  (amulta  proverbia,  ut  quae  communia  sunt  atque  ipsi  multitudini  accommodata). Nella  lettera  deve  prendere  un  tono  troppo  sentenzioso  e  ammonitorio,  altrimenti  non si ha piu una lettera ma una elaborata  orazione  -- iam  non  epistolam,  sed  artificium  oratorium.  L'epistola  e come la battuta singola,  e  die  rimane  quasi  sospesa, di un  dialogo (velut  pars  altera  dialogi),  anche  se  deve essere formalmente  piu  curata  del  dialogo,  che  per  essere  schietto  deve  imitare  IL DISCORSO IMPROVISATO,  mentre l’epistola e per  sua  natura  discorso meditato e scritto. In tal modo un carteggio viene ad essere un dialogo compiuto e vario; e non va dimenticato  come proprio il curioso epistolario di Poliziano  ci  offra  un  esempio  caratteristico  di  simili  colloqui. Non a caso, con la  sua  grande sensibilita  critica,  Poliziano  batte  proprio  su  queste  forme:  ad esse  infatti  si  puo  ricondurre  quasi  tutta la  piu significativa produzione  latina in prosa,  poiche anche il  diario,  il taccuino di  viaggio,  si  configura  di  continue  come  lettera  ad  un  amico. Cosi,  per  ricordare  ancora l’Itinerarium  di  Ciriaco  d'Ancona,  noi  vi  troviamo  riportati  di  peso  i  temi  e  le  espressioni  medesime  delle  epistole.]  stato  detto,  ma  non  del  tutto  giustamente,  che  l’umanesimo è una  rivoluzione  formale. In verita la profonda  novita  formale adere esattamente a una rivoluzione sostanziale che facendo centro nella CONVERSAZIONE CIVILE,  nella vita civile,  po- [Itinerarium:  ego quidem interea magno visendi orbis studio,  ut  ea  quæ  iamdiu  mihi  maximæ  curæ fuere antiquarum rerum monumenta undique terris diffusa vestigare perficiam. Hinc ego rei nostrae gratia et magno utique et innato visendi orbis desiderio. Epist.  Boruele  Grimaldo  (ins.  Targioni, Bibl.  Naz.  Firenze): cum  et  a  teneris  annis  summus  ille  visendi  orbis  amor  innatus  esset. Del  resto  tutta  l’opera  di  Ciriaco e una serie di variazioni di questo appassionato motivo: summus ille visendi orbis amor,antiquarum  rerum  monumenta vestigare, quæ in dies longi temporis labe collabuntur litteris mandare. La sete di conoscere il  mondo,  il bisogno di vincere spazio  e  tempo,  di  riconquistare  ogni  piu  lontano  frammento  d'umanita  e  di  sottrarlo  alia  morte,  e  insieme  questo  senso  concrete  del  passato  trovano  in  lui  una  espressione  singolare.  Nella  medesima  epistola  a Bruni abbiarno in sieme notizia di  un'iscrizione  inviata  da  Atene ex me nuper Athenis e della difesa di Cesare contro Bracciolini spedita dall'Epiro ex  Epyro  hisce  nuper  diebus. Cosl,  appunto,  il  Riiegg, (der  Humanismus  ist  eine  formale,  nicht  eine  dogmatische  Revolution).  neva  IL COLLOQUIO COME FORMA ESPRESSIVA ESEMPLARE (GRICE, CONVERSAZIONE). E se la lettera deve  essere  considerata  velut  pars  altera  DIALOGI,  l’attenzione  si  polarizza  sul  DIALOGO:  ed  IN FORMA DI DIALOGO e  in  genere  il  trattato,  di  argomento  morale o politico o filosofico IN SENSO LATO, che  rispecchia  la vita d’una umana  respublica e traduce perfettamente questa collaborazione voita a formare uomini ccnobili e  liberi, che costituisce 1'essenza stessa della humanitas rinascimentale. La quale celebrandosi  nella  societa  umana  tende  a  persuadere,  a  far  culminare  ogni  incontro  in  una  trasformazione  degli  altri  attraverso  una  riforma  interiore  raggiunta  per  mezzo  della  politia  litteraria. Limiti  e  prolungamenti  del  colloquio  ci  appaiono  da  un  lato  la  notazione  autobiogranca,  dall’altro  il  pubblico  discorso,  1'orazione,  che  attraverso  la  polemica  arriva  all'invettiva.  I  cancellieri fiorentini, Salutati e Bruni, ci offrono esempi  insigni di questo intrinsecarsi  di  filosofia  e  politica, di questa prosa che dell’efficacia e potenza espressiva si fa un'arma  piu valida delle schiere combattenti.  La lode  famosa di  Pio  II  alla saggezza di Firenze, e ai suoi dotti cancellieri le cui epistole  spaventano Visconti piu di  corazzate truppe di cavalleria, non e che la proclamazione del valore di una propaganda fatta su un piano  superiore  di cultura in una societa educata ad accogliere e  a rispettare la superiorita  della cultura.  L'incontro di politica  e  cultura a Firenze e a Venezia ritrova la valutazione  della retorica di un Poliziano e  di  un  Barbaro, e  giova a  definire  un'epoca che  cerca  i  suoi  titoli  di  nobilta  al  di fuori dei diritti  del  sangue. La VIRTÙ,  che  non  e  certamente  un bene ereditato,  e sempre intelligenza, humanitas, e cioe consapevolezza e  cultura. Anche  quando, nelle discussioni  non  infrequenti  sull’argomento,  si  riconosce  il  valore  della milizia,  s’intende  una  sottile dottrina, ove il valore  personale  del  capo e intessuto  di  sapienza.  Montefeltro  e  poco  ci  importa  se il ritratto è fedele e  profondamente  addottrinato, e sa che  i filosofi  descrivendo  le  battaglie  possono  divenire anch'essi maestri dell’arte  della  guerra. Alfonso  il  Magnanimo reca  seco  al  campo  una  piccola  biblioteca, e pensa sempre  a  filosofi,  e  sa che la parola bene adoprata,  ossia  veramente espressiva,  e  piu  potente d’ogni esercito.  C'è  appena  bisogno  di  ricordare  che  si  tratta  dei  titoli  delle  opere  di  Palmieri  e  di Guazzo. E  ancora il  titolo  di  un'opera  significativa,  quella  di  Decembrio  in  cui  si  rispecchia  la  scuola  di Guarino. II suo motto, racconta Vespasiano  da  Bisticci, è  che un re non letterato e un asino coronato. II  che non significa, si  badi, che  ser  Coluccio è un  vuoto  retore,  o  Alfonso  un  re  da  sermone,  ma  che  la  cultura è,  essa, viva  ed  efficace  e  umana,  e perfetta  espressione  di  una  societa  capace  d'accoglierla.   L'uomo  che  nel  linguaggio  celebra veramente  se  stesso -- l'uomo  si  manifesta  uomo  essenzialmente  nella  parola, come  si costituisce  in  pienezza  definendosi  attraverso  la  cultura  (le  litteræ  che  formano  la  humanitas), cosi raggiunge ogni sua  efficacia  mondana  mediante  la  parola  persuasiva,  mediante  la  retorica  intesa  nel  suo significato  profondo  di medicina  dell'anima,  signora  delle  passioni,  educatrice  vera  dell'uomo,  costruttrice  e  distruttrice  delle  citta. Tutto  e, veramente,  retorica,  sol  che  si  ricordi  ch,  d'altra  parte, retorica e  umanita,  ossia  spiritualita,  consapevolezza,  ragione,  DISCORSO di  uomini;  perche',  veramente,  l’umanesimo,  in  cui  tutto  è  inteso  sub  specie  humanitatis,  e humanitas  e UMANO COLLOQUIO,  ossia  tutto  il  regno  delle  muse figlie di Mnemosine che e il piu vero e il  piu bello dei  miti. Con  semplicita  francescana  frate  Bernardino  da  Siena,  che  vede in  ser  Coluccio  un  maestro  e  in  Bruni  un  amico,  scrive  cristianamente  le  medesime  cose. Non  aresti  tu  gran  piacere se tu vedessi o udissi predicare Gesu Cristo, san  Paulo,  GREGORIO (si veda),  santo  Geronimo  o  santo  Ambruogio?  Orsu  va,  leggi  i  loro  libri,  qual  piu  ti  piace  e  parlerai  con  loro,  ed  eglino  parleranno  teco;  udiranno te e tu udirai loro. E, come  dice  altrove,  le  lettere  ti  faranno  signore.  II  grande Valla  parlera  di  un  sacramentum il modesto Bartolomeo della  Fonte  dira  di  un  divinwn  mimen: quel nume  che  da  agl’uomini  anozze e  tribunali  ed  are. Per  questo le  litteræ  sono  una  cosa  terribilmente  seria,  e  la  responsabilita  di  un  termine bene  usato  e  gravissima,  e  non  v'e  posto per  Fozio. Per questo la poesia in senso vichiano e  da  cercarsi  la dove  si  traducono  e  si  consegnano  i  discorsi  essenziali  per  la  vita  dell’uomo. Cosi FLORA,  Umanesimo, Letterature  moderne, Ecco   secondo  Fonzio  quello  che  ottiene  la  parola:  fidem  inter  se  homines  colere,  matrimonia inire,  seque  in  una  mœnia  cogere  viribus  eloquentiæ  compulit.  Per tal modo  quella  poesia  che  talora e  lontana  dai  versi  e  dalle  novelle,  e  presente  ed  altissima  nella  pagina  di  un  filosofo  o  nell'appassionata  invettiva  di  un  politico. La  dolcezza  del  dire  (dulcedo et sonoritas  verborum),  la luce  della  forma (lux  orationis),  che  si  invoca  per  ogni  espressione  di  vera  umanita,  vuol  far  poesia  d’ogni  UMANO DISCORSO;  e  nel  momento  in  cui  riesce  a  tanto  toglie  ogni  privilegiato  dominio  alle  dettere  oziose. Perfino un  oscuro  erudito  come CASSI d'Arezzo  sa  dirci  che  in  tal  modo  nell'eloquenza si unificano  tutte le umane attivita,  e tutto in essa si umanizza  davero,  e  non  perche come  taluno  ha  fantasticato,  si  celebri  solo  il  letterato  ozioso,  ma  al  contrario  perche  1'uomo  e  presente  in  ogni  momento  dell'agire:  perche,  faccia  egli il matematico,  il  medico,  il  soldato  o  il  sacerdote,  sempre  e innanzitutto e uomo, e il suo sigillo  umano  imprime  ad  ogni  sua  opera  umanamente  esprimendola,  ossia  rivestendola  della  lux  orationis.   Di  qui  l’importanza  centrale che vengono ad  assumere le TRATTAZIONI SULLA LINGUA,  sulla  sua  storia,  sulla  eleganza?  ove  LA DISCUSSIONE GRAMMATICALE si  trasforma  di  continuo  in  discorso  finissimo  d’estetica:  e  quel  trapassare  dal  vocabolario,  e  magari  dal  repertorio  ortografico  basti  pensare  a Perotto  o  a  Tortelli nell’analisi  critica  e  nella  dissertazione  storica.  Mentre, contemporaneamente, la  storia,  che  intende  farsi  vivo  specchio  della  a  vita  civile)),  e  per  eccellenza  eloquente  discorso,  ossia  prosa  politica  e  trattato  pedagogico-morale. Bellissima  cosa e infatti come  afferma  Bruni raccontare 1'origine  prima e il  progresso della propria citta,  e conoscere  le imprese  dei  popoli  liberi (est enim decorum cum propriæ gentis originem  et  progressus,  turn  libe- i. Quasi  unum  in  corpus  convenerunt  scientiæ omnes, et rursus temporibus nostris eloquentiæ studiis studia sapientiæ coniuncta sunt (d’una  lettera  di  Cassi  a  Tortelli,  contenuta  nel  Vat.  lat.  e  pubblicata  da GAMURRINI, Arezzo  e  r Umanesimo, Arezzo, Cristelli, miscellanea in onore di Petrarca dell'Accademia Petrarca). A proposito  dell’eleganze di Valla  scrive  Cortesi, De hominibus doctis, ed. Galletti, Florentiæ, Mazzoni, conabatur Valla vim verborum  exprimere  et  quasi vias ad structuram orationis. rorum  populorum res gestas  cognoscere. Cortesi,  in quel felice  dialogo  De  hominibus  doctis,  che e una vera propria storia critica della letteratura,  appunto discorrendo delle  storie di Bruni, batte su questo incontro della verita con 1'eleganza, che e tutt'uno con quell’armonia di sapienza ed  eloquenza che Accolti celebra quale dote precipua dei fiorentini e dei veneziani del suo tempo nel dialogo De præstantia virorum  sui  aevi. Per  la  stessa  ragione  per  cui  tutto  sembra  divenir  DIALOGO, tutto  anche  e libro di storia; e storia e, ancora, colloquio con le eta antiche, con i grandi spiriti del passato.Bruni  nell'introduzione ai commentarii  confessa  che  la  grande  filosofia classica fa si che i tempi lontani ci siano piu vicini e piu noti dei tempi nostri (mihi quidem Ciceronis  Demosthenisque tempera  multo  magis  nota  videntur  quam ilia  quae  fuerunt  iam  annis  sexaginta),  e  dichiara che e  compito della storia  immettere  nella  nostra  vita e nel nostro colloquio il passato, farlo vivo con  noi, quasi  picturam  quondam viventem  adhuc  spirantemque. Palmieri  innanzi  alia  vita  di  ACCIAUOLI ci  insegna  che  la storia  e una  specie  di  immortalita  terrena  di quanto in  noi  e,  appunto,  vita  mondanala  storia e culto  e  salvezza  di  quella  parte  mortale che le lettere  redimono  da  morte  dilatando  la  società  umana oltre i limiti del tempo e salvandola  dall’oblio  e  dal  destino. Si  aprono  qui,  tuttavia,  a  proposito  della  prosa  latina,  due  questioni  fra  loro  strettamente  connesse e  che  sembrano  in  qualche  modo,  gia  nella  loro  impostazione,  venir  contrastando  con  quei Cosi  nel De studiis et litteris in BARON, BRUNI Aretino humanistisch-philosophische Schriften,  Leipzig.  Una giusta  valutazione  dell’opera  storica  di BRUNI presenta  Ullman, BRUNI and  humanistic  historiography, Medievalia  et  Humanistica e,  per quanto si e sopra osservato su retorica, politica e storia, son  da  vedere i tre  saggi  di  BARON,  Das  Erwachen  des  historischen  Denkens  im  Humanismus,  Hist.  Zeitschrift;  di RUBINSTEIN, The  Beginnings  of  Political  Thought  in  Florence: A Study in Mediaeval  Historiography, Journal  Warburg  Inst.; di CANTIMORI, Rhetoric  and  Politics in Italian  Humanism, Journ. Warburg  Inst.; Corpoream  vero  partem non  omnino  negligendam  ducunt,  sed  tamquam  suam  in  terra  recolendam,  ideoque  desiderant  illam oblivioni et fato præripere  caratteri  stessi che  si sono  voluti  definire. Come, infatti,  parlare  della’umanità d’una produzione che si serve di UNA LINGUA CHE NESSUNO ORMAI USA e che, dunque, gia nel mezzo espressivo pone come suo canone l’imitazione. In che modo  una  FILOSOFIA MIMETICA, RICALCATA SU MODELLI CICERONIANI,  puo oltrepassare  i  limiti  della  erudizione?  Ma i  due  gravi  problemi, del LATINO umanistico e dell’imitazione classica, gia tanto dibattuti, hanno oramai offerto  anche 1'avvio a una soluzione. Quanto infatti si obbietta intorno all’uso del latino, in luogo del volgare, e ad una  presunta  frattura  che  si  opera  rispetto  alla  tradizione,  deve  essere  corretto  coll’osservazione  che  i generi di prosa a cui ci  riferiamo,  orazioni,  trattati,  epistole  politiche,  DIALOGHI dottrinali, hanno  sempre  fatto uso  del  latino. Non e quindi esatto  dire  che da un presunto uso del volgare si torna al latino. È  vero invece che al LATINO MEDIEVALE definite  BARBARICO, e  cioe  GOTO O PARIGINO (dai franci, non gallii),  si  oppone  un  *altro*  latino  che  si  determina  e  si  definisce  rispetto  ai  modelli  classici.  II  quale  latino,  che  si  dichiara — come dice esplicitamente PLATINA —  integrate da tutta la più feconda tradizione post-ciceroniana,  ivi  compresi  i Padri della Chiesa, intende rivendicare i diritti d’una lingua nazionale romana contro l’universalita d’un GERGO scolastico (lo stile PARIGINO della Sorbonna, non di Bologna), ed  innanzi  tutto  nel campo di una produzione costantemente  espressa in latino.  Giustamente  SANCTIS (si veda) sottoline la frase del VALLA che proclama lingua nostra il latino vero, che si contrappone al LATINO GOTICO dell’uso medievale. La quale nostra lingua romana degl’umanisti, che SI PRECISA CON CARATTERI PROPRI COSI RISPETTO AL LATINO CLASSICO COME A QUELLO BARBARO DEI BARBARI FRANCI,  va  vista  per  quello  che  essa  veramente  e,  anche  rispetto  al  volgare: un nuovo  latino,  in  cui  la  complessita  antica  cede  il  posto  alia  scioltezza  moderna. Il latino degl’umanisti, lingua veramente viva che aderisce in pieno a una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che  si  colloca chiaramente  nel  tempo  defiendo  i  propri rapporti cosl col mondo antico come con il medioevo. Il latino  dei grandi  umanisti, lungi  dal  rappresentare  una  battuta  d'arresto o un  momento  di  invo-  [Cosi  nella  prefazione  alle  Vite,  che  riportiamo  per  intero. Rilievi utili in proposito ha  Sabbadini sia nella Storia del ciceronianismo CICERONE (si veda) (Torino,  Loescher),  come  nel  Metodo  degl’umanisti  (Firenze,  Monnier). luzione,  si  colloca  nella  storia  stessa  del  volgare. Il latino insegna al volgare l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime ne’filosofi umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei  suoi  trapassi intuitivi, della sua eloquenza  interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto  si  traduce  quasi  materialmente  nel  fatto  che  gl’autori  spesso  scrivono  1'opera  loro  in  latino  e  in  italiano. Non  sempre  si e posto mente al fatto che  da MANETTI (si veda) a  FICINO gli stessi trattatisti, siano pur filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni. E come il loro latino e  davvero  una lingua  low.,  cosi  il  volgare  che  adoperano  non  e  per  nulla  oppresso  da  una  imitazione  artificiosa  di  modelli  classici. Giungiamo  cosi  a  quello  che  forse  e  il  punto  piu  delicato  ad  intendersi  dell'atteggiamento  di questi:  l’imitazione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti rispetto  agl’autori  classici  sia  alimentata da  una  preoccupazione  storica  e  critica; che  essi sono dei  filologi  desiderosi innanzitutto  di  comprendere  gl’autori  del  passato  nelle  loro  reali  dimensioni e nella loro situazione concreta: e cosa ormai in complesso pacifica. Ora gia questo  definisce il  senso  di  quella  imitazione che indica un atteggiamento molto caratteristico. ACCOLIT  dichiara  nettamente  la  parita  di  valore  fra  i  nuovi  autori  e  i  classici.  POLIZIANO (si veda)  nella  polemica  col CORTESI,  che  e  un  testo  capitale,  confuta  tutte  le  istanze  del  ciceronianismo,  e  proclama il  valore di  un'intera  tradizione  afferrata nel suo sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus quod  diversion  sit).  Ma  dice  soprattutto  1'enorme  distanza  fra  una  poesia  che  fiorisce  come  libera  creazione  su  una cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas facit, haec simias. SPONGANO, Un capitolo di storia della  nostra  prosa  d'arte,  Firenze,  Sansoni,  E  cosi  sono  spesso  notevoli  le  version!  di  scrittori  celebri  come  latinisti:  TAurispa  che  traduce  Buonaccorso  da  Montemagno,  Donate  ACCIAIUOLI che  volgarizza  BRUNI,  e  cosi  via. interessante  ritrovare,  distesi  e  volgarizzati,  i  concetti  di  un  Valla  e  di  un  Poliziano  nei filosofi  francesi.  Per  esempio  Bellay,  scrivendo  dopo  aver  tratto  da  Valla il concetto che Roma è grande per la lingua imposta  all'Europa  non  meno che  per l’impero  (la  gloire  du  peuple Romain n'est  moindre, comme a dit quelqu'unen l’amplifacation L'Umanesimo e in questa singolare imitazione-creazione, come la chiama RUSSO: l'umanita fatta consapevole attraverso il rapporto stabilito con gl’altri uomini nell'operoso  sforzo  di raggiungere una sempre pifc alta forma di vita. Di qui, appunto, il particolare carattere delle sue piu felici espressioni letterarie. de son langage que de ses limites) eccolo riprendere POLIZIANO: immitant  les  meilleurs  aucteurs,  se  transformant  en  eux,  les  devorant,  et  apres  les  avoir  bien  digerez,  les  convertissant  en  sang  et  nouriture. Solo cosi l’imitazione e giovevole allo scrittore. Autrement son immitation ressembleroit celle du singe. Cfr. WEINBERG, Critical  prefaces  of  the  French  Renaissance, Northwestern,  Evanston,  Illinois, Russo,  Problemi  di  metodo  critico,  Bari,  Laterza. G. Antonio  Nasce a Rieti, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli. Il nonno, intendente di Finanza, si è trasferito dalla SAVOIA in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre è originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre – allievo di Vitelli, in rapporti amichevoli con Pasquali, che scrive il suo necrologio su Atene e Roma – è un valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura e quasi improvvisa ne stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad assumersi, precocemente, pesanti responsabilità.  G. ha, anche per questo, un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e tormentate, che hanno un peso nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti di  particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli toccò di vivere e di lavorare.   Fin da quegli anni – duri e mai dimenticati – comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e in uno studio assiduo e disperatissimo, la bussola con cui avrebbe costruito, con tenacia, la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse alla facoltà di filosofia a Firenze e si laurea col massimo dei voti in filosofia con una tesi su Butler [cf. GRICE, SELF-LOVE, OTHER-LOVE], preparata sotto la guida di LIMENTANI (si veda). A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi, frequentando il Liceo Galilei, nel quale insegna il padre e dove incontra Maria Soro, nata a Sassari, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito civile. G è nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia; ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì rapporti con personalità come PASQUALI (si veda), e conosce compagni di studi ai quali resta legato tutta la vita, italiani e non italiani: Teicher, Rubinstein, LUPORINI (si veda), il quale, rievocando gli anni della sua formazione (Qualcosa di me stesso, in Luporini, a cura di Moneti, Il ponte), ricorda come G. eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per maturità e sapere. In quegli stessi anni, G. conosce due maestri che incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e scientifica: SARLO (si veda) e, soprattutto, LIMENTANI (si veda), che lo avviò agli studi sull'Illuminismo inglese, confluiti nel volume L'Illuminismo inglese. I moralisti (Milano). Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle Mantellate, G., ottenuta l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo tredicesimo nella graduatoria generale, fa il concorso per l'insegnamento di filosofia e storia nei licei per sedi determinate, e lo vince, dopo essere stato esaminato da una commissione presieduta da GUZZO (si veda). Prende servizio come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo Cannizzaro di Palermo, dove rimane fino a quando – dopo molti tentativi giustificati da motivi sia familiari sia filosofici – è trasferito a Firenze per insegnare, come professore ordinario, filosofia e storia al Liceo Vinci.  Gli anni palermitani sono assai importanti e fecondi per G.: per gli incontri umani e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse, preparando l'importante volume PICO (si veda) Vita e dottrina, pubblicato a Firenze, ma già pronto a Palermo. È a Palermo che scrive in gran parte il suo primo saggio di argomento umanistico, servendosi dell’eccellenti biblioteche pubbliche della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale, col suo singolare fondatore e direttore, POJERO (si veda), l'amico di GENTILE (si veda) e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro filosof' noto dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto (Una collaborazione lunga una vita, in Belfagor).  A spostare G. dagli studi iniziali sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e rinascimentali contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e il magistero, di Limentani, che in quegli stessi anni studia  il BRUNO 'inglese' sulla scia della importante monografia su La morale di Bruno. Ma alla base di quello spostamento ci furono due altri motivi, forse più rilevanti: la centralità assunta a quella data dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella ricerca filosofica europea intorno a problemi decisivi come la libertà, e la dignità, dell'uomo; il rapporto tra uomo, mondo, Dio; il carattere e il significato dell'esperienza umana. È stato, peraltro, G., in un testo degli anni Settanta (lettera a Chemotti, la cui minuta è conservata presso il Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa), a segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia del mondo.  È in questo contesto che si inseriscono sia il saggio su PICO sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica (in La Rinascita)  in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo esemplare, con un netto primato della problematica di tipo religioso – anzi esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un consapevole distacco dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle risalenti a Gentile. Come testimoniano anche i molteplici richiami alla interpretazione  Burdach – messa in circolazione in Italia, anche da Cantimori –, a quella data G. era su un'onda assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò molto i suoi lavori su Pico, invitandolo a collaborare al GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA, sul quale aveva cominciato a pubblicare con un saggio su L’etica di Butler.  Non si trattava solo di una distanza di ordine storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni G. comincia ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che avrebbe continuato, sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi ultimi anni -- il saggio su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla storia del pensiero umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente modificato, uscì originariamente in La Rinascita. Al fondo, rispetto a Gentile, c'era una forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai principali riferimenti filosofici di G. in questi anni: Senne, Marcel, Gilson, Lavelle, forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più vicino.   Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana, convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di . sul Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Pico). Mancano, invece – con l'importante eccezione di Cassirer, presente già nel saggio– riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare da Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di altri importanti esponenti della generazione di G., come Luporini, suo amico fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico.  È una mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese fu una componente centrale della formazione di G., e che essa – insieme al pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gl’enciclopedisti.  Il primato della cultura di matrice francese era, del resto, un tratto diffuso della generazione di G. e, in modo particolare, dell'ambiente culturale fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il Gabinetto Vieusseux – di cui è bibliotecario e direttore Montale –, e LA BIBLIOTECA FILOSOFICA di Levasti e Marrucchi, una personalità notevole, alla quale G. rimane sempre legato e che ricorda in pagine molto intense, rievocando quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui vive il ricordo di una figura come Michelstaedter, alla quale anche G. dedica, a più riprese, molta attenzione. Tornato a Firenze, ha un incarico di filosofia teoretica presso la facoltà di lettere e filosofia. Ottenne, poi, la libera docenza in storia della filosofia. Quando per effetto delle leggi razziali LIMENTANI (si veda) lascia la cattedra di filosofia morale, la facoltà decide di NON chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a G., discepolo – pupillo -- di LIMENTANI (si veda).  Nei modi possibili in quei tempi difficili, G. espressa pubblicamente la sua fedeltà al maestro e tutore con cui si è formato, tenendo una conferenza presso la BIBLIOTECA FILOSOFICA Biblioteca di Firenze in cui attacca a fondo ogni forma di storicismo  identificato con il relativismo rivendicando, da un lato, il valore della lotta, e dell'ostacolo, sulla scia di Senne. Ribadendo, dall'altro, e con massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra perseguitato e persecutore, che nessuna provvidenza storica avrebbe mai potuto, in alcun modo, risarcire. Dopo la morte di LIMENTANI (si veda), ne redatta un commosso necrologio, pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi scritti (Limentani, Firenze). Comincia, intanto, a partecipare a concorsi per ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere quando risulta primo ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della filosofia a Cagliari -- la commissione èformata da Aliotta, presidente, Lamanna, segretario, Abbagnano, Banfi, e Spirito. Precedentemente partecipa, venendo dichiarato maturo, a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente, da Messina e da Napoli -- quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a causa di un ricorso, dei risultati della prima.  Difficili sul piano accademico e anche personale, quegli anni sono però fertilissimi dal punto di vista filosofico. Oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in genere, su La Rinascita diretta da Papini, con il quale ha, allora, un rapporto intenso, G. pubblica due importanti antologie: Il Rinascimento italiano, Milano, commissionatagli da VOLPE (si veda) e stampata nella collana dell'ISPI; e Filosofi italiani, Firenze, uscita come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali, destinate a lasciare una orma profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con attenzione – e tenendo conto della inclinazione dissimulatoria tipica dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero gli atteggiamenti filosofici e politici di G. in quel momento: una posizione nettamente antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del tiranno; un profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi rinascimentali della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente dispiegato nella lunga Introduzione ai Filosofi italiani, a cominciare dalle pagine scritte sulla morte, discorrendo di Salutati. Sono temi nei quali la nota religiosa risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo. Pubblica per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia di testi tolstoiani, Ultime parole,  nei quali è affermato con nettezza il primato della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo economico e sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso G. ricordare che anni prima, nel pieno della guerra, attraversa una vera e propria crisi di tipo religioso, subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul terreno filosofico è una inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del linguaggio, nel forte ruolo assegnato a SAVONAROLA (si veda), un autore che gli è sempre carissimo, ma che arriva ad affiancare al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento di Firenze. Spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione dei testi fondamentali di PICO (si veda): De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, Firenze; Disputationes adversus astrologiam divinatricem -- un'impresa imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della interpretazione generale che G. propone ne “Der italienische Humanismus, pubblicato nella collana diretta da GRASSI (si veda) per l'editore Francke di Berna, ristampato poi nel testo originale presso Laterza. Sono saggi resi possibili anche dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante di quanto in genere si pensi, della cultura italiana: CASTELLI ZUBIENA (si veda), il quale – oltre a pubblicare le traduzioni di PICO (si veda) nell'ambito dell’edizione nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal REGIO ISTITUTO DI STUDI FILOSOFICI da lui presieduto e del quale G. è anche segretario della sezione toscana, si impegna con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli, per fargli ottenere un distacco dal Liceo Vinci che gli consentisse di svolgere con maggiore tranquillità il suo lavoro. G. sottolinea più volte che non c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica, precisando, per esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita sul piano sia intellettuale sia politico. Dopo un periodo connotato dalla vicinanza a posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro dagli articoli che pubblica sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia pur progressivamente, al Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a esso, ma diventandone, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei principali intellettuali di riferimento.  Alla base di questo netto spostamento di campo ci furono motivazioni di ordine intellettuale e di natura politica.   Sul primo punto, è decisivo l'incontro con le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, divenne redattore – cioè, in effetti,  direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di Laterza ma preparate dagli articoli su Leonardo e sul GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA fondato da GENTILE (si veda) e diretto da SPIRITO (si veda). Dal punto di vista strettamente politico, per quanto possa apparire paradossale, in quella scelta agì il profondo, e mai venuto meno, interesse religioso di G.: e infatti profondamente LAICO, NON LAICISTA. Ritene necessario distinguere con chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, anzi pensa che dalla confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una degenerazione di entrambi. Il partito della Democrazia cristiana gli apparve come la realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo, contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere morale degl’italiani. Perciò considera negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini, religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella valutazione dell'articolo 7, G. vide in esso la forza più intransigentemente schierata a favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della vita, contro il riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza religiosa.  I due piani – quello culturale e quello politico – si intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro, sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati da Vallardi. Si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi: uno de suoi libri più belli, più vivaci, più liberi.  Le Cronache di filosofia italiana  erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo decennio del secolo – la stessa di Bobbio, nato anch'egli, come G., e autore di Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista diversi e con strumenti differenti. In G., assai più che in BOBBIO (si veda), e infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La filosofia come sapere storico (Bari) si conclude con un lungo saggio su Gramsci, nato come relazione al Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di uomini e cose, come Togliatti rileva nella sua recensione a Cronache di filosofia italiana (Rinascita).  Non solo: la lezione di Gramsci, in forme assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che G. dedica al Rinascimento. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e G. fossero, proprio nel merito, profondamente differenti. L’UMANESIMO CIVILE, IL TRAMONTO DI UN MONDO  Quando si parla di G. si pensa, in genere, alla sua interpretazione del Rinascimento come 'umanesimo civile'. È giusto, ma riduttivo per due ordini di motivi. In primo luogo, essa svolge funzioni e ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici. In secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta G. riformula in modo profondo la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali, Roma-Bari: uno dei suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni, nel quale spicca in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Salutati a Scala, pubblicato originariamente  in Rivista storica italiana. All'interpretazione del Rinascimento come Umanesimo civile G. lavorava, in effetti in convergenza con le ricerche di Baron, del quale fa pubblicare su La Rinascita un importante saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto ai motivi ermetici che G. tendeva maggiormente a valorizzare, anche in relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva. Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro muta in modo deciso, e  l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del Quattrocento (Milano). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò due saggi fondamentali; ma essi ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –, dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e 'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini come SALUTATI (si veda) e BRUNI (si veda). Ne scaturì una nuova immagine del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come LA RETORICA, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo. Su questo sfondo, G. si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna, sforzandosi di mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue origini alla vita delle città italiane debba considerarsi una delle premesse del rinnovamento scientifico moderno (come scriveva nella Premessa al volume Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, pubblicato con Laterza: una linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi, anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico, coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico). In questa accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di GRAMSCI (si veda), che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che G. dedica alla filosofia contemporanea, specie a quella ITALIANA. Sono importanti, da questo punto di vista, sia La cultura italiana (Bari); sia, e soprattutto, quello sugli Intellettuali italiani  (Roma), che costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza, di G. nella cultura, e anche nella politica, italiane.   Se si considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono proprio quelli gli anni in cui G. riuscì a stabilire, nel complesso, un rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università, in Italia e all’estero. E diventato professore ordinario di storia della filosofia medievale a Firenze, insegnamento che tenne per incarico. È poi subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia presso la stessa Università.   Riconoscimenti, e onori, altrettanto importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', ne era anche segretario generale; eletto socio corrispondente dei lincei, diventandone socio nazionale. Riceve dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gl’ultimi italiani che l'avevano ottenuta – scrive, con orgoglio, al direttore della Scuola Normale comunicandogli la notizia – sono Longhi e Bandinelli.  Al fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, G. è, a suo modo, un animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Riusce a esserlo come non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di Roma  pubblicandola poi in volume, La cultura nella società italiana, Torino. La situazione muta profondamente. Quell'equilibrio, sempre fragile e precario, si incrina e G. si distacca, progressivamente, fino a contrapporsi, dai movimenti culturali e politici che comincia a scuotere il paese fin dalle fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera e propria rottura, si produce quando – si legge in una lettera al preside della facoltà di lettere, Sestan -- minuta nel Fondo G. della Scuola Normale Superiore – e costretto a interrompere la lezione per il contegno oltraggioso e provocatorio di uno studente. È una scelta assai meditata, anche se amara, quella di lasciare Firenze, che è stata la sua alma aater, trasferendosi alla scuola normale superiore di PISA come professore e anche questa scelta è significativa di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrive al direttore della scuola, Bernardini, sarebbe stata quella la conclusione migliore, certo la più onorevole, di un lungo insegnamento (minuta).  Questo non significa che da quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare da quella italiana. Anzi: pubblica, con l'editore barese Donato, un saggio importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia, riprendendo in forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia, nelle sue varie diramazioni. Ma il saggio non ebbe un successo paragonabile a quello tributato al volume sugli Intellettuali italiani. Nel giro di pochi anni, la situazione era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante, avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo stato italiano fin dalle fondamenta. Effettivamente, un intero mondo sta cominciando a finire.  Tanto più colpisce, in questa situazione, il saggio  che in controtendenza, G. dedica a Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986 era diventato professore emerito della Scuola Normale. Lascia anche la presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. E dunque diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confronta con Gentile nella lunghissima introduzione che premise ai testi, spiegando il senso della sua scelta.  Non è un'impresa facile. I rapporti di G. con Gentile e con Croce sono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a Gentile. Basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia, e accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come dimostrano le cronache, il suo giudizio sull’idealismo si approfondì col tempo e divenne assai più ricco e articolato. Ma la distanza di G. dalla 'filosofia dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale, allora e poi, della sua posizione. Alle origini, le ragioni di quella scelta stano precisamente qui. Sul piano filosofico GENTILE (si veda) appartene a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui G. riconosce il carattere principale della filosofia e anche le proprie radici filosofiche. Filosofia della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Sono i motivi che erano presenti anche in Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare GRAMSCI (si veda), sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume, sottolineò anche in GENTILE (si veda), vedendo anzi nella sua lettura di Marx la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della praxis, dell'azione, della volontà.  È per queste stesse ragioni – strutturali, non contingenti – che G. fu, invece, in sostanza, lontano da CROCE (si veda), pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile, tragicità della vita; rifiuta la dissoluzione dell'individuo empirico, che invece per lui era fondamentale. Certo, con il tempo maturò un giudizio assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi in cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale non vennero mai completamente meno. In occasione del centenario della nascita di Croce, scrive un bel saggio sui suoi rapporti con Serra (SERRA (si veda) e Croce, in Belfagor) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ha esitazione a schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Iniziò una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari modi, nel mondo storiografico, compreso quello di G., che operò mutamenti profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel Ritratto di Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi, altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari), che raccoglieva quattro lezioni tenute al Collège de France. Fin dall'inizio della sua attività G. da rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole, poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla base di questo c'era, come sempre in G., un convincimento di ordine teorico.   A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse stata presente, e dominante, quella che egli chiama la 'linea PICO (si veda)-Sartre', secondo cui l'uomo non ha una natura (una specie, una forma), ma è un atto che si sceglie, per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Amoroso minuta nel Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa. È un convincimento coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, filosofi come POMPONAZZI (si veda) e, soprattutto, ALBERTI (si veda), sostenitori, l'uno e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita, ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavora G., e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. ALBERTI e s infatti sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da POMPONAZZI (si veda). Sono precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che fa di alcune Intercenali inedite di Alberti, pubblicate su Rinascimentonel), che attrassero G. quando si convinse che la linea PICO (si veda)-Sartre si era infranta ed èstata sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta sta travagliando il mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo.   In un intreccio profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo G. sono solcate da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa – nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di vivere, per quasi un secolo.  Quando muore, a Firenze  non ha smesso di pensare all'utopia di un mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza. G. Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio, Prato, Biblioteca Roncioniana a cura di Audisio - A. Savorelli, Firenze (si vedano in particolare i saggi di Cesa, Momenti della formazione di uno storico della filosofia e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. Su Pico; G. e il Novecento, numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana; Ciliberto, G. Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari; G. Dal Rinascimento all’Illuminismo, Atti del Convegno, Firenze, a cura di Catanorchi - Lepri, con Premessa di Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento di G., Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, a cura di Ricci - Vacca, Roma. Grice: “Don’t expect philosophical insight from Garin. He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are into minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his many compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s is just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’ (‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers people who we should not!” Eugenio Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come umanista – umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e il ritorno dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del rinascimento – il ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e garin -- le griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo sapiens sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano, umanesimo – filosofia romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano, troppo umano – The Swimming-Pool Library. 

 

Luigi Speranza -- Grice e Garroni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Pinocchio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo Italiano. Garroni. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly: on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica, grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte.  Insegna a Roma. Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia Einaudi.Cura Benedetto, Bottari,  Melis, Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale" il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche ("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso” (il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo stato empirico delle scienze  e vivono operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli. (L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico” (Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari, Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma, Bulzoni); “Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano, Garzanti); “Sul mentare e il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi di estetica” (Roma-Bari, Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti a Emilio Garroni” (Pietro Montani, Parma, Pratiche Editrice); "Interpretare", in Il testo letterario. Istruzioni per l'uso, Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio” (Torino, Einaudi); “Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul cinema: pubblicati dalla rivista "Filmcritica"; Bruno e Cervini, Torino, Aragno, Creatività, introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano, Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali, o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone, Storia della Radio e della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata, tratta da Rai Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui G. parla del Bauhaus e intervista Zevi e Gropius  Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica; Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche.  Treccani L'Enciclopedia italiana". Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi di estetica, Bologna.  LORENZINI, Carlo (Collodi). Nasce a Firenze, primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi). Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo, Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito.  È probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove risulta ospitato dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Decise di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a Firenze. Terminato il corso trovò subito un impiego nella libreria Piatti di Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere agli studi.  La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore dell'impresa ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato tutta la vita. Aiazzi avviò il L., che ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove  apparve il primo articolo firmato del L., L'arpa.  L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti, proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione e descrizione.  In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione di cui fu tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto" (G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi collodiani).  Con il ritorno dei Lorena nel Granducato, L. dapprima rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico milanese l'Italia musicale, per il quale compì un lungo giro tra Emilia e Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi impegni giornalistici) e quando perdette definitivamente il suo impiego.  Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e letteraria (tra cu una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G. Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi) incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Contemporaneamente, fondò e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni (Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick.  Ormai dedito a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi (nell'articolo Coda al programma della Lente).   Il L. coltivava anche ambizioni di scrittore teatrale e compose il dramma in due atti Gli amici di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano di farlo rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté pubblicarlo (Firenze), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Pubblica Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere), il genere "popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia.  Confortato dal buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume, intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue (I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali.  Durante la stesura di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio, facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa la sua attività di segretario della Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del periodico L'Italia musicale.  Nella capitale sabauda si arruolò nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come "cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A. D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del 1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei Toscani.  Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione del quotidiano umoristico Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (mentre il fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione del giornale interrotto, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo annessionistico.  A questa amara e disillusa evoluzione politica corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi, nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté chiese e ottenne di essere collocato a riposo.   Le non onerose incombenze del suo impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante.  Nel 1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso (probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze. L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo ("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Ne Il Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata con il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime consenso ricevette la vivacità linguistica del testo.  Al teatro il L. continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio (fa parte della Società d'incoraggiamento teatrale e nella Gazzetta d'Italia apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia) sia come critico e in qualità di autore. Pubblica a Firenze la commedia in tre atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini, rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; risale inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi, rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo. Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a puntate nel Fanfulla con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero" che si prefiggeva L., più che quello del naturalismo letterario, era quello nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della contemporanea pittura toscana.  Del resto, anche nell'intensa attività giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità, in particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e nel Fanfulla, la sua attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M. Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.  A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato, in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di orizzonti.  In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante subentrò una fase in cui L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache) nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano 1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze). In esse riunì, senza alcuna revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature e tagli narrativi" (Asor Rosa) a formare un antinaturalistico ritratto "alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei "profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).   Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo ènominato dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso contributo. L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo", dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della superficie" delle cose (Asor Rosa), dal quale prendevano le mosse i due diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella svolta fu offerta al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione, condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate e le illustrazioni di E. Mazzanti.  Da allora, pur riprendendo la collaborazione al Fanfulla e continuando la sua attività di critico teatrale, il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri di lettura Giannettino, che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini, e Minuzzolo: entrambi erano storie di bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo della Firenze contemporanea).   Ormai accreditato tra i più ricercati autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e ricevette da Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino: Italia superiore, seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di Giannettino; L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino; fino a La lanterna magica di Giannettino. Con la loro formula innovativa questi testi costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica Istruzione (cfr. Raicich): le diverse discipline, infatti, erano esposte in forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale".  Al centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e che era stato fondato da Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura infantile italiana. L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino (dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino. Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia, il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La pubblicazione proseguì a ritmo irregolare. Velocissima è la pubblicazione in volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite, una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui Amicis pubblica Cuore), una terza di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad et figlio concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato da refusi e banalizzazioni.  Se ci si limita alle sole circostanze esterne della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P. Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della "bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del giornalismo della seconda metà dell'Ottocento.   In realtà, nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la celebre fiaba è narrata.  Di tutto ciò non si accorsero né i contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita e la carriera del suo autore.  Negli anni della composizione e pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla e assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di cui divenne direttore e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi.  L'anno prima era morta la madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se stesso e isolandosi nel suo lavoro. L. muore a Firenze improvvisamente.  Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze) gran parte delle prose sparse del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote]). Le non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito, alla Biblioteca nazionale di Firenze.  Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. Minicucci, Tra l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti del I Convegno internazionale, Pescia. Altri documenti sono presso l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze; Pinocchio e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini - M. Zangheri, Firenze).  Tra le testimonianze biografiche contemporanee, i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica e nella Domenica fiorentina; i profili premessi dai curatori a due successive edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze; a cura di I. Cortona, Lorenzini); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi, in La Lettura, Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze; inoltre Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano, Traversetti, Introduzione a Collodi, Roma-Bari; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze); la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori (narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica della Grammatica di Giannettino, a cura di Geymonat, Firenze.  De Le avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori, Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad, l'ultima rivista dall'autore -, ma corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate a Milano), corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari; infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di Marcheschi, con ampio corredo di note. Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano) con introd. di P. Italia e prefaz. di V. Cerami. Per il resto si rinvia (anche per la letteratura critica) alla Bibliografia Collodiana di L. Volpicelli (Pescia), da integrare con la citata Bibliografia di D. Marcheschi, aggiornata,, alla consultazione del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi di Pescia.  La storia degli studi critici sul L. in gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di Collodi, cur. Viola e Rovigatti, Roma; Pinocchio. Breve storia della critica collodiana di Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno, Roma-Pescia Roma. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine en Italie, in Revue des deux mondes, Pancrazi, Elogio di Pinocchio, in Id., Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze Croce, Pinocchio, in Id., La letteratura della Nuova Italia, V, Bari; Bargellini, La verità di Pinocchio, Brescia Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano Fazio Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze; Baldini, La ragion politica di "Pinocchio, in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e minori, Firenze; Pancrazi, Capolavoro scritto per caso, in Id., Scrittori d'oggi, Segni del tempo. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani. Atti del Convegno Pescia; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico, Pescia-Collodi, C'era una volta un pezzo di legno. Atti del Convegno La simbologia di Pinocchio", Pescia Milano; Folkloristi italiani del tempo del Collodi(, Pescia, cur. Clemente - M. Fresta, Montepulciano; Pinocchio fra i burattini. Atti del Convegno internazionale, cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale, a cura di G. Flores d'Arcais, Firenze; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia cur. Bernacchi, Firenze; Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda, Lucca.  Per il centenario della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C. Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L. Comencini e Suso Cecchi D'Amico, Firenze e le citate pubblicazioni dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel centenario.  Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma; G. Cives, Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura. Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa, Giachery, Tre compari intorno a un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma, Gómez del Manzano - G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci; A. Asor Rosa, Le avventure di Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel tempo, Torino, Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti di donne, Milano, Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due fortune molto diverse, in Scuola e città, Farnetti, I notturni di Pinocchio, in Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino; Tempesti, Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Spinazzola, Pinocchio et C., Milano Toesca, La filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di burattino, in Forum Italicum, Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio" alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, Randaccio, La "Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv. italiana di onomastica, Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova Antologia, Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi cattolici; Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di Pinocchio", Lucca; Sterne e Collodi, Lucca, testi di R. Bertacchini, D. Marcheschi, F. Tempesti, Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine, Iermano, Da Parravicini a Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, Carosi, Pinocchio. Un messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma; A. Gnocchi - M. Palmaro, Ipotesi su Pinocchio, Milano; Moret, Pinocchio e le pinocchiate in Francia, in Levia gravia, Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi piemontesi, Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo, Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti,  Geymonat, Una grammatica di buon senso, in Collodi, La grammatica di Giannettino, cur. Geymonat, Firenze; Marello, La dubbia efficacia del paternalismo induttivo, i Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia, Roma, ad ind.; Il giro di Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa. Proietti. Ho intervistato G. presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso, insieme al mio relatore Amoroso, di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G., molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi. G., nei suoi testi c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica, in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima di estetica che di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA, l’interesse non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e questa. Perché mi sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel vortice della MODA della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per farlo. Provengo dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano, dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più. Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e quasi nient’altro. Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Zevi, nella musica da parte d’altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché resta pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto meno si puo sapere, come pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera d’arte e veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte. Appunto questo intuizionismo mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa intervista nasce dunque come appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA in G, Pisa. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a Volpe, citato già nel mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE insomma l’opera si presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI SEMANTICHE, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali analisi semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche. L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro struttura COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli come SEGNI  (per esempio, nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si dimostra anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua costituzione. Non pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono accorto che quel lavoro puo forse essere interessante come mero esperimento, ma non porta a niente. In realtà non porta a niente né la semiotica materiale di tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica, che è una dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più decisa, anche se già più che affiorante nei saggi precedenti, verso altri orientamenti. Una precisazione importante. Mi sono distaccato dagli studi di semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE, nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte codificata, fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano. G., Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della filosofia di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in particolare della terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di lezioni. E via via che ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. Come reputa di inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più significativo è SCAVARELLI. Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della terza Critica, mettendo in evidenza cose che non sono mai state viste, e che invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO, che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho, e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che, come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo, soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del Giudizio, poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr. Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del Giudizio, Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di Mathieu, Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, Studi di estetica] proficuo non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto. Per esempio, ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e abbiamo parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca, che mi interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo, chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente: Critica della capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei ricordare alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani, Catucci, Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di Kant, recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per me leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio stesso della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da quello. Il caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI, che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’ complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è uscito un suo saggio, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione, che a lui sta bene, al contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma, con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed estetica in Kant, Physis.  Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes, Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica, Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo. Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni, Griffero, Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani,  Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco, Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg. H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio, a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza, Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia;  Desideri, Il passaggio estetico. Saggi kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici, rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei propria. Come ritiene quindi fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una STORIA DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a minor, has!”), né mi è mai venuto in mente di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei saggi, somiglianze, identità parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica, dove sono usciti alcuni ottimi saggi, per esempio quello di Angelo sull’estetica della natura e dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un saggio di Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente interessante, perché riesce a chiarirla senza mai dimenticare che la LA FILOSOFIA ANTICA non possiede una vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma perché i suoi [G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G., Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana Biblioteca di cultura moderna; Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano alquanto diversi. Ebbene, in quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio saggio, l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione. Nei suoi più recenti saggi, Lei lamenta il fatto che l'arte non riesca più ad essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte propensioni opposte a questa tendenza generale? Sull’arte ho poco da dire, ho poco da dire perché... Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte, occupandomi dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni, compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono avvicinato di più all’arte che si sta facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi interessavano. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo. Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido. Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente, attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni, per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps, e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- [Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G., L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista, G.mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il suo ultimo saggio: G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari. Cfr. G., Relazione interna, relazione esterna e combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo scambio delle arti, Venezia, poi in: G., L’arte e l’altro dall’arte, cit.; G., Senso e non-senso, conferenza letta a Coloquio Latino-americano de Estética y de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo, poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari; G., Crispolti, Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma; G., Arte mito e utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma; G., Il mito negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno: 6 acqueforti, presentate da G., Il Torcoliere, Roma; Benedetto, Galleria d’arte internazionale Due Mondi, Roma] levisore, quasi che si volesse richiamare l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto, ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti, ma piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti, ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza. Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma soprattutto per alcuni Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese, Che cos’è la filosofia?, Rivista di Filosofia; Per le critiche alla semiotica, cfr. BRANDI (si veda), SEGNO e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo schematismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi, l’Architettura barocca, Duccio, eccetera eccetera, per rendersene conto.  Da sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei lettori, come dire?, convinti. Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni, cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi. Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole nel sottotitolo del libretto Racconti morali: lontananza e vicinanza. Ebbene i miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma; Brandi, Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino Brandi, Celso o della Poesia, Einaudi, Torino Brandi, La prima architettura barocca: Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, Brandi, Duccio, Vallecchi, Firenze G., La macchia gialla, Lerici, Milano G., I tasmaniani, Bucciarelli, Ancona, G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma G., Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma; G., Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma G. si dedica non solo alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo il guardare-attraverso. E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una sorta di postfazione, ai testi filosofici. G. non è stato soltanto uno dei filosofi italiani più importanti, ma anche una figura di intellettuale complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di questo focus di Syzetesis dedicato ad alcuni Momenti di FILOSOFIA ITALIANA sui suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come filosofici, quali quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica), l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani, settimanali o cataloghi, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fare solo qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo, ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione dominante di G., e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La bibliografia più completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo- nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” G. e Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma 2005.  3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?, testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, Borla, Roma; G. poi rielabora questo testo in La mente, il corpo, le cose, in Carignani e Romano, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Angeli, Milano; Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia – è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza” che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo” dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per G. il senso dell’esperienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima- mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso. Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la sua seconda parte, l’estetica come filosofia non speciale), è bene ricordare che per G. l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con un proprio oggetto epistemico o materiale, ma riguarda le condizioni di possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte, semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare. Per G., infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piuttosto il compito di guardare-attraverso le esperienze determinate, per Cfr. G., Sul dover essere del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti, Milano (seconda ed., Castelvecchi, Roma, con un’introduzione di Velotti, testo presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane (Siena).  Cfr. G., Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari G. usa il termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90 delle Philosophische Untersuchungen, ed. Anscombe e Rhees, Blackwell, Oxford, Trad. it. di Piovesan e Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi. È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni, die Erscheinungen durchschauen: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla possibilità dei fenomeni. Velotti   risalire alle loro condizioni di possibilità intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica, come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come questo guardare- attraverso i fenomeni per comprenderli, cogliendone le condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che G. ammirava e le cui tutoriale frequenta da pupilo alla Sapienza – è infatti per G. un problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. Vorrei partire, però, da qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di quella passione per il capire stesso, che G. non considera affatto un’esigenza contingente. G. lavora per diversi programmi televisivi della RAI, in parte dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (si ricorda, per esempio, un bel documentario su AOlivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista. Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora fosse culturalmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi che potrei citare a cui G. lavora: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scienze, Le tre arti, e soprattutto L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione di Seroni e Piccioni, diventato programma televisivo come settimanale di lettere e arti, più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettuali dell’epoca (Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti, a cui bisognerebbe aggiungere altri col- laboratori di spicco), per non menzionare, nella RAI, la presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo Emilio G., Senso e paradosso Cfr. Dolfi e Papini, L’Approdo: storia di un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan et Levi, Monza Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale Gadda (o, più tardi, di CAMILLERI (si veda), coetaneo di G., o ancora di ECO (si veda), che di G. è un costante interlocutore. G. dà conto della sua attività televisiva in un’interessante intervista da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibilmente volto al capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti – dice lì G. – deve essere certamente colto, ma c’è di più: deve essere, nel campo della letteratura, delle arti figurative, della musica, oltre che colto, anche intelligente. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire. Deve insomma essere qualcuno, precisa però subito G. che sia capace di far vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto. Emerge qui quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto costante di G., che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa, controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica che oggi seduce molti, anche i filosofi: occupare una casella nell’esistente, dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente – di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo compito – inteso da G. come un compito intellettua- le, culturale ed etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica come filosofia non speciale, cioè come filosofia tout-court [“LA FILOSOFIA, COME LA VIRTU, E ENTIERA – GRICE], benché spesso praticata in una sua forma obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati, rispettivamente, il lungo sodalizio con FERRARI (si veda) e la duratura e profonda amicizia con MAURO (si veda). Ma anche l’attività giornalistica e nelle modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative le stesse pratiche pittorica e narrativa. G. esordisce con una raccolta di racconti L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino Velotti  a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera singolare, La macchia gialla, titolo ripreso da un’incisione di Dürer, riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice. Là dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore, direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo autoritratto di G., un autoritratto verbale dell’autore, a cui seguirà venti anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto su cui torna in chiusura. I curatori della collana Narratori dell’editore milanese Lerici sono due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, BILENCHI (si veda) e LUZI (si veda),  i quali presentarono giustamente questa notizia biografica, o autoritratto semi-ironico dell’autore da quasi-giovane, come segnato d’acume e humour. Ne riporto qualche riga, che suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la passione domi- nante di G.. È nato a Roma in un ambiente abbastanza sciatto e approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia, tanto più che certa piccola borghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue tenerezze. Si è accorto che anche la sua formazione culturale è caratterizzata dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso tempo lacunosa e assai provinciale. Si è LAUREATO IN FILOSOFIA presso la Facoltà di filosofia a Roma, G., La macchia gialla, Lerici, Milano Il testo, con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito dell’associazione “CiEG - Cattedra internazionale G.  12 Ma, come ha scritto Ammando all’interno di un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di G. (Il circolo estetico e il guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di G. – Roma”), a cui rimando anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, si puo affermare, in proposito, che crisi, al pari d’oriz-zonte e senso, è una parola cara al pensiero di G., almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo statuto quanto mai incerto e problematico. Il senso dell’esperienza:  G. e l’estetica come filosofia non speciale  con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Pubblica saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del suo lavoro dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla mancanza di tempo. Da molti anni collabora infatti alla televisione dove fa un po’ di tutto dedicandomi prevalentemente in questi ultimi tempi alla redazione e presentazione di rubriche d’arte, con intenti, dice, nobilmente divulgativi. A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte su richiesta del Manifesto, che aveva invitato ventisei personalità della cultura a raccontare la propria esperienza personale di una visita a un museo. G. scelse la Galleria nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile– con la CULTURA LICEALE imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa, volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di livello assai modesto che un museo o una galleria d’arte potessero essere immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano sono perlopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse strettamente tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. È in balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta borghesia romana cui essa apparteneva, ed ècondotto più volte da certi suoi zii, che si riteneno intenditori d’arte, alla galleria nazionale d’arte moderna. Vuole solo dire che quella galleria è, nil luogo della mia diseducazione. Il fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo, non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. Così che la galleria nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante dei miei zii, di farmi capire G., La macchia gialla, cit., risvolto di copertina. Velotti come non si guarda un quadro. Che è un’abilità indimenticabile, come andare in bicicletta. Abbandono ora queste incursioni biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in cui G. si situa nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività filosofica per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e interessi anche eterogenei. Ha ricordato CARABELLESE (si veda) – che, al di là degli esiti del suo ontologismo critico, G. considera uno dei pochi insegnanti che ho avuto all’università che fosse anche un grande filosofo perché è probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per il suo pensiero, insieme a SCARAVELLI (si veda) per l’inter- pretazione di Kant – e poi, su un altro piano, a BRANDI (si veda). È stato infatti proprio CARABELLESE (si veda) ad aver criticato sia GENTILE (si veda), sia CROCE (si veda) (come poi farà anche con SPIRITO (si veda) e CALOGERO (si veda) per non aver colto il problema interno della filosofia, la domanda, cioè, con cui la filosofia diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità, le sue pretese. In una postilla Carabellese spiega così l’incomprensione da parte di Croce e di CALOGERO (si veda) del problema da lui sollevato: Il vero è che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a porre il problema della filosofia come problema del suo oggetto, cioè non pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello. Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente, come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storicismo) d’accordo fanno, non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure, ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure, che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra. G., Il piccolo Ottocento italiano”, in MELIS (si veda), La scoperta del museo. Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Carabellese, L’ontologismo critico,saggi, Che cos’è la filosofia, Signorelli, Roma Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   Il problema della riflessione sul senso, per Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama il paradosso della filosofia nel suo saggio intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale. È forse il libro più impegnativo che G. scrive, e certamente uno snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì G. cita Carabellese e il suo saggio, e la replica di Croce, sostenendo che entrambi facciano valere un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, intendevano rifiutare l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della parzialità e complementarità delle loro posizioni, che se rettamente intese si compongono in quello che G. chiamerà appunto il paradosso fondante della filosofia. Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigura una antinomia non risolta, formulata da G. in questo modo: Un problema interno della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da Carabellese; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabellese insignificante. G. fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo problema interno, come una sorta di meta-linguaggio che si esercita su un linguaggio oggetto già compattamente costituito (una metafisica, o un sistema, quale era per lo stesso Carabellese il suo ontologismo critico), perdendo di vista proprio quel paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di CARABELLESE (si veda) e di CROCE (si veda) è invece comprendere la filosofia come risalimento, o come quel guardare- attraverso che risale dalla concretezza dei fenomeni, dall’interno dell’esperienza concreta in cui stiamo, alle loro condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia da qualche parte, e senza G., Senso e paradosso Velotti   però neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso» deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty [“whom Austin hated” – Grice – “but then why do you go to Royaumont in the first place?”], G. riassume così la sua posizione. Una filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo. Questa stranezza, questo paradosso fondante, era presentato da G. come una posizione fedele alla tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Rorty e il suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo specchio della natura era stato presentato da VATTIMO (si veda) e Marconi, che aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse esplicitamente come epocale), G. vi scorgeva una delle due prospettive metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno “veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari – come Putnam (“He had the cheek to say I was too formal! – GRICE) – per confutarlo: per G., porlo e comunicarlo è già confutarlo; immaginarlo o escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato. Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e complementare, apparentemente demistificante, di chi, come il neopragmatista Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano pretese universali, e dovremmo conside- [G. e Fasoli, Il mestiere di capire, Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Trad. di Millone e Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   rare piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. G. replica: Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affermarlo. È questo quel taciuto guardare-attraverso – negato in teoria, e quindi fatto valere metafisicamente come un ritorno del rimosso a cui alludeva G. nel passo citato poco sopra dell’intervista con FASOLI (si veda), cioè la pretesa di stare sempre alle determinatezze dell’esperienza, di sbarazzarsi di ogni riferimento alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in volta di esperienze solo con- tingenti e determinate. Per G., infatti, non si tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta, saremmo cose tra le cose. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza nella sua totalità indeterminabile. È questo movimento che G. ravvisa in Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger sulla scorta dei quali la filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma che includono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere. Questo paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più schematico, Kant formula in questo modo. Tesi: il giudizio di gusto non si fonda su concetti, ché altrimenti se ne potrebbe disputare (decidere mediante prove. Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da G. nell’Estetica. Uno sguardo-attraverso, anche in relazione ad alcuni autori classici e a diversi autori contemporanei. Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga (per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli esseri umani proprio come cose tra le cose G., Senso e paradosso Velotti Antitesi: il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altrimenti, malgrado le differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio. L’antinomia può irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere composta (non eliminata, ma compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora, la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa a quella che G. fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio, il motivo per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confuta. Un saggio dedicato a MAURO (si veda), L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che G. propone poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo individuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È qualcosa di più, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro esclusività – fanno valere «un’esigenza che non può neppure essere lasciata cadere. E infatti poco dopo G. riprende anche la forma stessa dell’antinomia kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte: Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole, prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Id. Werke in zehn Bänden, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmastad Trad. it. di E. G. e H. Hohenegger, Critica della facoltà di giudizio, Einaudi, Torino G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e di critica, Laterza, Bari. Il saggio era già stato pubblicato nel volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Bari. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale la sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci. L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo nella sua totalità possibile indeterminata o, detto ancora altrimenti, per un verso il linguaggio richiede come una sua propria condizione l’indeterminatezza e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue determinazioni: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità indeterminata che le rende possibili e che esse negano in quanto, appunto, determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il linguaggio o la percezione [cf. GRICE e WARNOCK on SEEING – VEDERE], l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che per questo motivo mi permetto di citare diffusamente. Ma l’analogia tra questa antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni concetto determinato/ concetto indeterminato e determinazione/indeterminatezza del linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e tuttavia sono altrettanto indispensabili Velotti   alla conoscenza empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì, intellettualmente e sensibilmente determinata procede, per quanto le è dato, mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto leggi più potenti, non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili conoscenze determinate – Kant scrive d’una conoscenza di oggetti dati in genere, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile. Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in genere della prima Critica, che ci dà appunto solo una tessitura analitica, ma nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una conoscenza di esperienza. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono- sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn, senso o sentimento comune, che abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale delle rappresentazioni e delle conoscenze, il quale esibisce sensibilmente e indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità, viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè mediante il sentire esteticamente dunque l’interna indeterminatezza del determinato. Sentire l’interna INDETERMINATEZZA [GRICE INDETERMINACY OF IMPLICATURE] del determinato è uno dei modi per capire in che modo il paradosso fondante della filosofia fa della filosofia, come estetica non speciale, una riflessione sul senso dell’esperienza. Se vogliamo restare sul piano linguistico, possiamo dire infatti che dare significato ai concetti è determinarli, per esempio mediante uno schema empirico o trascendentale, sempre a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza, che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in Rorty), proprio in virtù di un SURRETTIZIO riferirvisi. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale. Il gioco delle parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da G. in molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza, poi pubblicata in appendice al volume, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso che rende possibile e traspare in ogni SIGNIFICATO DETERMINATO, non rischiamo infatti di parificare tutti i significati nel loro essere varianti di sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’ nel loro proprio far senso? Come se la filosofia critica, spinta fino a questo punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso condiziona. Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi, convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo problema, G. lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia in relazione all’etnocentrismo: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole “serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà. Ma era proprio questo ciò su cui si interroga G.: non tanto la questione delle culture altre, ma della nostra stessa cultura. E conclude così. Le considerazioni appena svolte non hanno una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del paradosso G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Cfr. G., Senso e paradosso. Si potrebbe sostenere che questo imperialismo della sensatezza sia stato proclamato e poi smentito da Fukuyama nel suo The End of History and the Last Man, mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro serietà, e tuttavia prenderle così seriamente da negargli una dimensione comune di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order. Le due posizioni, insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica, Studi di estetica Velotti   in cui consiste la filosofia, vale a dire: che il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso, in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo – come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del senso e le radici etiche del dover-essere. Il problema del prevalere della sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte, della questione, cioè, se l’arte non ha progressivamente ceduto a un’aderenza sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua ottusità, il suo darsi di fatto, come mero accompagnamento del senso, avendo per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella regola che non si può addurre di cui parla Kant nella terza Critica; una regola indeterminata che, non potendosi addurre, formulare o esplicitare. può essere, appunto, solo esemplificata in un esempio singolare, inassimilabile a un esempio inteso come membro di una classe. Nel denso saggio di G. Immagine Linguaggio Figura troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso affrontare in modo minimamente adeguato. Ricordo solo che il perno intorno a cui ruota è la nozione d’immagine interna che ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo” kantiano, e che non è confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa della percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella testa. Distinte dalle figure che nell’uso comune chiamiamo immagini, ma che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni dell’immagini interne, l’immagini interne sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni obiezione legata alla presuppo- [G. Estetica. Uno sguardo-attraverso, G., Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Bari G., Immagine linguaggio figura. Il senso dell’esperienza:  G. e l’estetica come filosofia non speciale   sizione indebita e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche temi antichi come quello, centrale, della metaoperatività, un concetto già introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica. È l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il titolo di metarappresentazioni, ma che in G. si estende già all’intero ambito dell’operare umano un operare che è senso-motorio, pragmatico e corporeo, percettivo e cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un linguaggio di primo livello G. introduce la nozione di metaoperatività come interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo “stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’operazione determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno schema operativo. In Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle sensazioni come precedenti di un’immagine, sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte «immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, [G., Ricognizione della semiotica, Officina, Roma Cfr. per esempio Sperber, Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, Oxford. Una formulazione molto simile dei rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione all’interno di una prospettiva enattiva sulla percezione, a cui credo sia riconducibile per molti versi anche quella proposta da G. è possibile riscontrarla nei saggi di NOË (si veda). Per un confronto, su questi temi, tra G. e NOË (si veda), cfr. S. Velotti, Tecnica, in Ferrario, Estetica dell’arte contemporanea, Meltemi, Milano. G., Immagine linguaggio figura Velotti dunque distinte dall’immagine-SEGNO materialmente intesa, la figura, appunto, e che è invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur sempre capo a figure per quanto possano essere mobili, processuali, evanescenti, eventuali è considerata da G. come il venire in primo piano di questa dimensione metaoperativa una rielaborazione della kantiana conformità a scopi senza scopo interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo «ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano vengono in primo piano questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza, come quella d’aggregato. Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto anche il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito solo percettivamente da un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Né la funzione dell’aggregato si esaurisce all’interno della prima infanzia, o nelle ipotesi relative a una infanzia dell’umanità o in forme di pensiero magico, se, come nota G., Ancora oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di Winnicot in Senso e paradosso, G., Immagine linguaggio figura Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari, che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più risalibile. Basta pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi, e così via. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di G., molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con «acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua importante eco. È un polittico dipinto da G. sulla soglia dei sessant’anni – dopo aver subito una seria operazione chirurgica, composto da 13 comparti, che formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata Velotti Alcuni comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vissuti come oggetti estranei e familiari a un tempo. Figurano anche strumenti di studio e di affezione dalla Critica del giudizio a Tempo e racconto di Ricoeur, cose amate, come il Dissonanzen Quartett di Mozart che dà anche il titolo a un suo romanzo-saggio. Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione. Quando dicevo che la passione dominante di G. è quella di capire, di comprendere, pensavo anche a questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su cosa si prova ad essere un homo sapiens. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di G.  un’occasione per elaborare, anche operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è possibile, nota G. in alcune notevoli pagine del suo saggio, mirare a cogliere l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il determinato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo aggrovigliato. Forse vedremmo, per così dire, solo l’indeterminato e ci sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di oggetti? Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di patologie gravi, quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno perfino il senso della nostra identità ma parimenti dovremmo escludere il caso estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti, il riconoscimento non G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma Una densa e attenta interpretazione di quest’opera è stata avanzata da Olivetti, dice. Primi appunti su un Autoritratto di G., pubblicato nel catalogo della mostra G. Un Autoritratto, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del Comune di Roma. G., Immagine linguaggio figura, Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale   viene meno neanche nel caso di un risveglio depresso e confuso. Si tratta piuttosto di una sensazione di estraneità degli oggetti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo è il nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito, languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato di G., tendente piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si lascia andare anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del ventennio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a cambiare i parametri della vita pubblica, la mente dei cittadini): Ormai si è istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte, di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche, l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la mente dei cittadini, di cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo politico di trista attualità ho messo termine a questo saggio. La facoltà dell’immagine di G. e il suo contributo alla ricerca sulla percezione, i contenuti non concettuali e l’immaginazione . Il saggio di  G.,  Immagine Linguaggio Figura, è in parte  una ripresa e un ripensamento di alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in  Ricognizione della semiotica Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo  volume, e grazie a un’assidua  interpretazione e rielaborazione del pensiero kantiano, G. arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni irriducibili della sensibilità e  dell’intelletto   in termini di facoltà dell’immagine, da un lato, e  di linguaggio e concetti, dall’altro. Nonostante  Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma kantianamente irriducibili  dell’esperienza umana, lo statuto del linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva  all’interno di tale esperie nza, ma  solo in relazione all’«immagine interna», che deve essere considerata «la premessa e  la garanzia della realtà del significato delle parole del linguaggio. Naturalmente, Relazione tenuta al convegno di studi “G.: determinazioni e dissonanze, Chieti,  G.,  Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Roma-Bari, Laterza Ricognizione della semiotica. Roma, Officina.  Immagine Linguaggio Figura, dove G. precisa. Chiamo complessivamente immagine interna sia il precedente d’un’immagine, sensazione, sia l’immagine in quanto  attualmente prodotta, percezione, sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata, rielaborata, immaginazione, per distinguerle complessivamente dalla figura esteriorizzata, per esempio, mediante un disegno. Perciò mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è responsabi le facoltà dell’immagine, tale da riunire in sé sensazione, percezione, immaginazione. Immagine Linguaggio Figura. non bisogna cadere nell’errore di considerare l’immagini interne come figure (Bilder,  pictures) che avremmo nella mente. G. conosce bene la critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi, si potrebbe considerare la teoria dell’immagine interna come una lunga  e meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente l’articolo che G. dedica a   Minisemantica  di  MAURO (si veda), caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza semantica,  una questione liminare. Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia su quello  del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti  in quest’articolo  quella correlazione di determinato e indeterminato che è forse il nodo teorico che G. ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici articolazioni: il paradosso fondante della filosofia, ma a nche dell’esperienza comune di cui G. parla prima nella voce i  paradossi  dell’esperienza   scritta per  l’enciclopedia Einaudi, e poi in  Senso e paradosso non è altro  che un’antinomia inevitabile, modellata  sull’antinomia della facoltà di giudizio della terza Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e indeterminatezza è  al centro sia della trattazione della facoltà dell’immagine, sia  della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto  nell’ultimo libro certi problemi già impostati in  Ricognizione della semiotica creando  MAURO [si veda], Minisemantica, Roma-Bari, Laterza; G.,  L’indeterminatezza semantica, una  questione liminare, in Ai limiti del linguaggio, cur. LEONI, GAMBARARA, GENSINI, PIPARO, SIMONE, Bari, Laterza, poi in G.,  L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica e   di critica, Bari, Laterza.  G.,  I paradossi dell’esperienza,  in Enciclopedia Einaudi, Sistematica, Einaudi, Torino;  Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non  speciale, Bari, Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in  Immagine Linguaggio Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con qualche riferimento anche all ’ambito  della psicologia cognitiva e discipline affini. Con il corrodersi della filosofia linguistica, infatti, o, se si vuole, con l’apertura della  linguistic turn al non linguistico quest’area di ricerca permette di riscoprire il problema della percezione e dell’immaginazione, creando  ambiti disciplinari anche molto specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della natura della  mental imagery a quello dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione in cui un ruolo di rilievo assume anche la percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente da G.; da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico  all’immaginazione. A  lungo considerata in area analitica come una “facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa parte l’immaginazione è al centro di  molte aree di ricerca: se ne parla i n relazione ai giochi di far finta games of make believe sia nel campo delle arti che in quello più generale dell’esperienza comune  9   Cfr. l’ampio  contributo di THOMAS, Mental Imagery, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, cur. ZALTA plato. stanford. edu/ archives/ win2011/ entries/ mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che proprio allo schematismo kantiano Thomas dedica uno spazio molto ridotto, e limitato alla schematismo trascendentale dell’intelletto della prima Critica:  aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo cui lo schematismo è un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare  alla natura per esibirlo patentemente dinanzi agl’occhi, Thomas mette da parte il problema concludendo che Kant, -- in attempting to grapple with problems about the nature of mental representation that the empiricists had failed to solve, leaves the process of image formation, and the nature of image itself, deeply misterious. Cfr. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of Representational Arts, Harvard, (trad. it. di NANI, Mimesi come far finta, Milano, Mimesis, alle ricerche sull’autismo considerato da alcuni come una patologia dell’immaginazione, a quelle sull’EMPATIA  e sulla simulazione, ai cosiddetti  paradossi della finzione, della suspense o della resistenza immaginativa, e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: un’immaginazione pr oposizionale e non proposizionale, una ricostruttiva e una creativa, e così via 11.  Immagine Linguaggio Figura   è stato scritto senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche contemporanee. Ma  è tutt’altro che un  libro estemporaneo o isolato. Anzi, G. lo ha potuto scrivere liberamente,  quasi di getto, solo perché sono almeno trent’anni che anda elaborando quei  pensieri. Abituati ormai a pensare, come è d’uso nella filosofia analitica,  sotto  l’ombrello di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di fondo  nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi nel caso della  mental imagery, per esempio, il primo discrimine che troviamo è quello fotografato dall’annoso e  fuorviante dibattito tra sostenitori delle  teorie analogiche e delle teorie PROPOSIZIONALI, la riflessione di G. sembra condotta in isolamento, e risulta  difficile da collocare sotto un’etichetta  univoca. Mentre non credo che le etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di G. e quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di G. in quel dibattito che nel bene e nel male è sempre più ristretto, specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono contemplate -, potremmo  orientarci verso l’ambito delle teorie enattive, enactive, della percezione e delle  Per il nuovo interesse suscitato dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni,  e le relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI,  La filosofia e le arti. Sentire,  pensare, immaginare, Roma-Bari, Laterza, in particolare il cap. 3immagini mentali, che costituiscono una terza via non computazionale rispetto a quelle analogiche e a quelle PROPOSIZIONALI (cf. Grice, CONTENUTO PROPOSIZIONALE).  Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti, il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie della percezione,  delle immagini mentali, dell’immaginazione   nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico, artistico  è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in relazione al problema dei cosiddetti contenuti non concettuali della percezione, cominciando però dallo sviluppo  interno al pensiero di G. stesso, e in particolare dall’insoddisfazione per  la  semiotica denuncia. Alla domanda se la semiotica è sufficiente a se stessa, G.  rispondeva di no, perché la semiotica non poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un qualcosa diviene SEGNO. Lì G. invoca la costruzione di una semantica trascendentale come metateoria di una semantica empirica e di una semantica logica, e indica il suo oggetto  specifico nei significati trascendentali, cioè negli schemi dell’immaginazione, affrontati in sede di schematismo trascendentale nella  Kritik der reinen Vernunft. G., d’altra parte, avverte avendo pubblicato Estetica ed epistemologia  l’insufficienza dello schematismo trascendentale della prima  Critica,  valido solo per le condizioni de)la conoscenza in genere überhaupt, ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata, e rimanda al principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo indagato da Kant nella terza  Critica. Nella Premessa a  Immagine Linguaggio Figura si dice che l’enigma dell’immagine interna, G.,  Ricognizione. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla  CRITICA DEL GIUDIZIO di Kant, Roma, Bulzoni, nuova ed. con una nuova premessa, Milano, Unicopli. G., Ricognizione, vero e proprio tema centrale del saggio, ha preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano. Dunque, una continuità  con l’opera, ma certamente anche un’importante discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a venire in primo piano  sono lo schematismo empirico - quello cioè che permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla percezione, che Kant nella terza Critica chiama esempio - e lo schematismo simbolico, quello che funziona per analogia, in relazione a concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle  cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro linguaggio. Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla distinzione - disponibile solo a partire dalla terza  Critica tra uno schematismo oggettivo e un libero schematismo, si intrecciano sempre nella produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere distinti a livello analitico. Nella  Ricognizione della semiotica G. mette in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si dice. Il referente non è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle e  configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’operazione a sua volta è questo stesso  concreto manipolare, che non può essere disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le  nostre manipolazioni delle cose, cioè dal nostro prendere le distanze dagli stimoli immediati, e  che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e parlarne Immagine Linguaggio Figura, Cfr. KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO, ed. it. cur. G.  e HOHENEGGER, Torino, Einaudi, in particolare l’introduzione dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI, L’inferenze del giudizio riflettente in Kant:  l’induzione e l’analogia, Studi kantiani, G., Ricognizione. È evidente, mi pare, che l’operazione  di cui si parla include anche la nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema della costituzione, della natura e della funzione delle immagini interne. Distinte dalle figure che non possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti,  o di queste percezioni riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da  escludere quindi ogni obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un  HOMUNCULUS (cf. CUMMINS ON GRICE) homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di figure nella testa. Figure nella  testa non ce ne sono. È invece questa operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare  una  spiegazione, in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca qui la nozione di  metaoperatività  introdotta in  Ricognizione della semiotica e poi ripresa, anche terminologicamente, in tutta la sua  importanza, solo trent’anni  anni dopo. È interessante come, anche in questo caso, G. anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto il t itolo di meta-rappresentazioni, ma che in G. si es tende già all’intero ambito dell’operare umano, un operare che è pragmatico e corporeo, percettivo, cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione metalinguistica che per G. è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione che può essere solo interna al linguaggio di primo livello  G. introduce la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del G., Ricognizione, Cfr. Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, cur. SPERBER, Oxford genere STIMOLO-RISPOSTA da un’operazione che include  già dentro di sé una generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione  determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma  come operazione umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno schema operativo:  piantare questo ch iodo, per l’uomo, suppone piantare i chiodi in generale, cioè un comportamento operativo metaoperativo rispetto a quello volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di variabili operative; e il piantare chiodi in generale suppone ul teriormente l’operare in generale in vista d i possibili variabili operative, cioè un comportamento specificamente metaoperativo. Persino l’operare per prova ed errore tipico del comportamento animale non umano -  suppone nell’uomo un piano, una consapevolezza di operare  per prova ed errore. Sappiamo che proprio l’attività artistica è considerata da G. come l’esemplificarsi di questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione  metaoperativa non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza scopo. La terza parte di ricognizione della semiotica   è tutta incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che LINGUAGGI PROPRIAMENTE NON SONO, non solo in  quanto PRIVI DI UN CODICE, ma in quanto strettamente condizionati da un’operatività  e da una meta-operatività irriducibili a linguaggio. Tutte le arti di cui G. lì parla dall’architettura alla musica, dalla poesia alla narrativa alla pittura sono indagate a partire dal modo in cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti umani, e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di stile viene riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una condizione  G.,  Ricognizione nozioni diverse, quali gli oggetti che Winnicott ha chiamato «transizionali, di quelli che Dummett ha chiamato proto-pensieri, che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi   a partire da Evans chiamano contenuti non concettuali della percezione (c ontraddicendo, dunque,  l’idea  fatta valere da FERRARIS (si veda) secondo cui la tradizione kantiana decreta l’equivalenza tra epistemologia e ontologia, cioè l’assimilazione di tutto il  reale, di quel che c’è, a quel che possiamo conoscerne grazie ai nostri schemi concettuali, gettando così le premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo  nietszscheano secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, e di qui del postmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui niente è fuori dal testo, e così via .  affidata a un principio estet ico che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme un’anticipazione distanziante di questa. Già in  Senso e paradosso, G.  s’è riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni  oggettuali, obbedienti a quel principio di confusività che violerebbe appunto il principio aristotelico di non contraddizione accostandoli da un lato all’ Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica una sua manifetsazione esemplare. Non c’è esperienza ben determinata, apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si legittima anche la creatività che viene esemplar mente e più tipicamente esibita  oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica, da ciò che chiamiamo arte ed esperienza estetica DUMMET, Origins of Analytical Philosophy, Harvard, ed. cur. PICARDI, Origini della filosofia analitica, Torino, Einaudi. Il  proto-pensiero si distingue dal pensiero vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e circostanze presenti non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della nostra capacità di base d’apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando il livello dei proto-pensieri. EVANS,  The Varieties of Reference, Oxford. FERRARIS, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da ultimo il manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza. Per una discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come unità costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in dichiarata corrispondenza a quell’unità  estetica delle rappresentazioni di cui si occupa Kant nella  Kritik der Urteilskraft. A questo punto abbandono il saggio per vedere come queste  problematiche vengano riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel saggio. Il nuovo strumento teorico che G. mette a punto, al di là del riferimento al principio di una conformità a scopi senza scopo quale senso e sentimento comune, il  Gemeinsinn   kantiano, è la nozione d’immagine interna, proprio a partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza  Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo, ma viene reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama complessivamente facoltà  dell’immagine, che è responsabile sia delle sensazioni (come precedenti di  un’immagine), sia delle percezioni (le immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in  quanto riprodotte o ricordate- rielaborate. Quella che veniva chiamata per lo più operazione è qui inn anzitutto l’attività di questa facoltà dell’immagine, dal livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur sempre  all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra. Sensazione,  percezione e immaginazione sono tutte immagini interne costitutivamente  dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale, e abitate da qualcosa di non  sensibile, dunque distinte dall’immagine SEGNO materialmente intesa, che G. chiama figura [ETIMOLOGIA INTERESANTE], e che è invece sostanzialmente statica.  G. Ricognizione, G. Immagine Linguaggio Figura Una delle nozioni di maggior interesse che emerge subito assente, direi, negli scritti precedenti è quella di aggregato. Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi. Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe che presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di note concettuali. Un aggregato è invece costituito solo percettivamente – GRICE, POTCHING, NOT COTCHING -- e costituisce un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito  da oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma  solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile  intellettualmente di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar conto, con una  rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una sintesi dell’apprensione,  ancora priva di un’unità conc ettuale, della comune radice di  G., Immagine Linguaggio Figura. Ma G.  segnala una revisione  tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un livello  molto più radicale e produttivo, già da  Senso e paradosso. Con la riflessione estetica della  Critica del Giudizio, il problema dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo lo schematismo libero, senza concetti,   dell’immaginazione come capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a ridimensionarsi notevolmente la primitiva estetica trascendentale, nonché la stessa logica trascendentale, della  Critica della ragion pura. Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello spazio e del tempo non è che  un  aspetto, forse non il più originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua  elab orazione nell’immaginazione non più soltanto produttiva e riproduttiva, ma anche creatrice, non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali rispetto a una materia sensibile. Il centro della questione, di fronte a quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla relazione tra aggregato e oggetto (GRICE OBBLE) transizionale, mi sembra che uno degl’esempi portati in  Immagine Linguaggio Figura non lasci adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., prima che il linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione di  un’intelligenza prev  alentemente senso-motoria, si può ipotizzare che si producano,  nel la manipolazione degli oggetti, riconoscimenti, usi e aggregati di oggetti in essi variamenti  disposti. Un burattino può essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un   vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o un lenzuolino possono  essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero  della madre, il suo abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non ancora propriamente conosciuto  e dominato; e così via. In questi casi l’aggregato è lontanissimo  dalla formazione di una futura tassonomia intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non fosse preceduta da quello. Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e riconoscimento sono  però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e all’organizzazione  concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili anche senza questa teleologia  evolutiva e se non siano per caso da pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani. A questi, infatti, G. riconosce non una vera percezione interpretante come quella umana, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente distinto da un mondo come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von Uexküll. Forse la distinzione vale per  l’ambiente sensoriale della zecca, ma sarebbe diff  icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi scimmie.  tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI,  Storia filosofica dell’ignoranza, Roma-Bari, Laterza. G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine Linguaggio Figura. Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche  agli animali non-umani. Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento, in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta immagine del mondo. Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione infantile e degli animali non-umani perché è diventato  forse l’argomento più forte  portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della percezione. Questo confronto tra le  posizioni di G. e quelle dei sostenitori dei contenuti non concettuali (un’espressione che Garroni non usa mai)  richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione  tra l’ aggregato e i proto -pensieri di Dummett, una nozione elaborata proprio per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio, proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo che sia necessario, anche per Dummett [WRIGLEY TO GRICE: MY THESIS WILL BE ON DUMMETT’S FREGE – PHILOSOPHY OF LANGUAGE. HAVE YOU READ IT? GRICE: NO, AND I HOPE I WON’T], distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare pensieri, o vocati a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla irriducibilità della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di G. sta al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo interesse. Il fatto è che G. mette in luce  spesso senza portare fino in fondo i  dettagli dell’analisi aspetti, implicazioni e dimensioni del problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse, ma di confronti concreti G.,  Immagine Linguaggio Figura Non solo in EVANS, cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C. A. B. PEACOCKE, Does perception have a nonconceptual content? Journal of Philosophy, e Phenomenology and nonconceptual content, in “Philosophy and Phenomenological Research”, e già anche in DRETSKE,    Naturalizing the Mind, MIT che potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda proprio  i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece l’indeterminatezza delle  immagini mentali  A. È indubbio che le principali ragioni che hanno portato la filosofia della  linguistic turn   a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonost-ante la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti della questione che una riflessione filosofica come quella di G. aiuta a scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non concettuali sono svariate. La possibilità, riconosciuta da G. con la nozione di’aggregato, di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da un punto di vista proposizionale e concettuale [SPERANZA MISE-EN-ABYME E GRICE:  l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la l’illusione della cascata di Crane,  ma l’aggregato di  G., come abbiamo visto rapidamente, coglie questa possibilità percettiva  innanzitutto al livello dell’immagine interna, e nella sua  necessità non solo come fatto accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura. Un secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale sostene che il contenuto della percezione è unit-free: percepisco una distanza  CRANE,  The Waterfall Illusion, Analysis, Cfr. Immagine Linguaggio Figura, in cui G. analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di alcune   figure, e il ruolo primario nei riguardi della varia interpretabilità del percepibile giocato dall’indeterminatezza percettiva propria delle  immagini interne in relazione al mondo reale. PEACOCKE,   Analogue content, Proceedings of the Aristotelian Society, determinata tra me e un oggetto senza per questo dover  usare un’unità di misura. E  queste rappresentazioni sono irriducibilmente nonconcettuali. G., di nuovo appoggiandosi qui implicitamente a Kant, usa  un’argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione fornisce valori oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere   poi   esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori  oggettivi   è  nostro  [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia] e, tanto più, la  nostra misurazione   non sta  nelle cose, ma dipende  da un’unità di misura da noi stabilita idonea per l’esplicitazione  concettuale di quei rapporti. L’avvertimento dei valori quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non concettuale estetica, direbbe  G. con Kant di ogni misurazione oggettiva e concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è la maggiore finezza di grana della percezione rispetto alla grana dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a G. nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato una copiosa e inesplicita materia [Stoff] all’intelletto, che questo,  nel suo concetto, non prendeva in considerazione ). E l’analisi,  centralissima, che G. dedica al libero schematismo, non si limita a un riferimento alle ope re d’arte che sono, per Kant, espressioni  di idee estetiche, ma KANT, Critica della facoltà di giudizio, G.,  Immagine Linguaggio Figura . KANT,   Critica della facoltà di giudizio  si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti empirici. G. precisa infatti che  lo stesso schema lo schema empirico, l’immagine schema o, nel linguaggio della terza  Critica    kantiana, l’esempio è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici  percepibili di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c onfusi nell’indet erminatezza della totalità.  Non si tratta, è vero, di una percezione non relazionata ai concetti (dato  il rapporto dell’immaginazione con l’intelletto), ma è anche vero che qui nessun concetto determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o concettualmente  classificati. Nella prospettiva di G., la maggiore “finezza di grana” della  percezione verrebbe vista in un quadro più ampio di quello analitico e cognitivista,  che ha conseguenze antropologiche, semantiche, di teoria dell’arte, mentre  probabilmente potrebbe guadagnare a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da  Ayers, e riguarda la possibilità di acquisire e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti), oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La  G., Immagine Linguaggio Figura, C. A. B. PEACOCKE, A study of concepts, MIT, e Does perception..., cit.; AYERS, Sense experience, concepts, and content: objections to Davidson and  McDowell, in SCHUMACHER, Perception and Reality: from Descartes to the Present, Paderborn, Mentis, 2ripresa da parte di G. delle considerazioni svolte da ECO (si veda) nel suo  Kant e L’ORNITORINCO (che a sua volta si riferiva a G.) fornisce un modello per la formazione dei concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune. Veniamo al secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia dalle figure (pictures) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco correlarsi di determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa argomentazione è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo indeterminate, sono più simili  a descrizioni che a figure. L’argomento di Dennett è abbastanza noto, e rig  uarda il numero delle strisce del manto di una tigre:  in un’immagine mentale il numero delle  strisce di una tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle strisce  può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle figure. Un’autorità sulla  mental imagery   come Thomas insieme a molti altri sostiene che questo argomento  non è valido, perché un’immagine mentale di una tig  re potrebbe avere un numero determinato di strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché  l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una figura  di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto sfocata o sommaria, e  G.,  Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri, DENNETT,  Content and Consciousness, London, Routledge et Kegan Paul; PYLYSHIN,  What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of mental  imagery, “Psychological Bullettin”; tra i critici di questa argomentazione, TYE,  The Imagery Debate, MIT, anche una tigre reale   –   presente alla percezione attuale e non immaginata -, data la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione, ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da G. tra determinatezza e indeterminatezza dell’immagini interne e il loro rapporto con le figure. L’indeterminatezza dell’immagine interna così come viene pensata da G. - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è  un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva, mnemonica,  affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente. È piuttosto un’operazione nativa e  attiva, che, nel caso della percezione visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai  movimenti saccadici e di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente  e selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo di un contesto oggettivo e soggettivo che si allarga da quello visibile a quello non  visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti (associazioni con altri oggetti e memorie percettive). Il problema dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine  interna non è tanto se possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si  45  THOMAS,   Mental Imagery, 1illuda di poterla considerare  come l’immagine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti, dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della  totalità dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire modellini della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che nota G. nel già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la percezione e i percettologi, come  suggerisce l’ultimo esempio che ho portato: Si mette in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti o puri percettologi, potremmo dire. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi, se l’antinomia che essi  inevitabilmente incontrano e si sforzano di comporre è sempre presente esteticamente in  loro e in tutti noi, linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso, del  linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse addirittura possibile sostenere che la cosiddetta filosofia si inscrive necessariamente in ciò che abbiamo detto coscienza implicita del linguaggio. È infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del linguaggio, consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande  maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di una  comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria.  Ciò comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne, di  filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in negativo, nell’esclusione che principi e  metodi possano essere qualcosa di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere più nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio non è solo un  uso particolare ma contiene una componente di indeterminatezza che lo fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio come quell’uso determinato, nello stesso uso effettivo, in tutti i sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante, da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? G., L’indeterminatezza [cf. GRICE, INDETERMINACY OF IMPLICATURE] semantica. Emilio Garroni. Garroni. Keywords: l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” – Do not multiply senses --  mentire/mentare/meinen/mean -- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente, mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to ‘out’ --  ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.  

 

Luigi Speranza -- Grice e Gartida: laragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, G. Succeeds Boulagoras as head of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and returned to the city that had been badly damaged as a result of a feud between the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he found that he is said to have died of a broken heart. Gartida.

 

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