Luigi Speranza -- Grice e Garbo: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale e la fisiologia dell’amore – scuola
di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I
like Garbo; for one I like Firenze, for another I like a Renaissance man – I’m
one!” Grice: “Garbo is
extremely interesting at a time when physis did mean ‘nature’ – the physicist
and the physician were the natural philosophers! At Oxford Transnatural philosophy
was created against Natural Philosophy,” – Grice: “Garbo made the greatest
comment on “Love unrequited” by G&S – by focusing on a ditty by Cavalcanti
– Boccaccio loved the pretentious prose by Garbo on ‘eros,’ ‘amore,’ and
‘cupidus.’ –“ Studia sotto Alderotti a Bologna. Figlio di Bono, medico e chirurgo. Sotto il consiglio
del padre, fu allievo a Bologna di Alderotti, suo cognato, poi uno dei più
importanti rappresentanti di un riorientamento della filosofia, all che Garbo
diede un contributo importante. Studia sotto Alderotti per un breve period.
Torna presso la casa paterna a Firenze a seguito della guerra tra Bologna e
Ferrara e fu iscritto, a fianco del padre, nella gilda di Firenze di medici e
farmacisti. Le condizioni politiche migliorate gli consentirono di riprendere i
suoi studi e si laurea, successivamente si sposta a Bologna, dove insegna. Quando
Orsini scomunicò Bologna e, quindi, escluse i cittadini bolognesi dal
frequentare lo studio generale, fu, ancora una volta, costretto a lasciare
Bologna. Si transferice a Siena, con l'insolitamente alto stipendio di 90
fiorini d'oro come "dotore del chomune di Siena". Saltuariamente si
recasse a Bologna nonostante la scomunica. E fu a Bologna che completa il suo
commento su una parte del libro del Canon di Avicenna, tanto da guadagnare il
soprannome di "espositore.” Torna a Bologna, inizia la sua “Dilucidatorium
totius pratice scientie” un commento sul Libro I del Canon. Insegna a Padova, a
causa del "propter malum statum civitatis Paduae" (come afferma nel
suo commento ad Avicenna), riprese a peregrinare tra un'università e l'altra
(anche se è un percorso poco chiaro, a causa delle scarse informazioni fornite
dai biografi e dell'assenza dei documenti). Torna a Firenze e completa
Dilucidarium. Sulla scia dell'esodo della Facoltà di Filosofia da Bologna a
Siena, venne nuovamente nominato dal Comune di Siena, questa volta con uno
stipendio annuo esorbitante di 350 fiorini d'oro, più 100 fiorini, perché teneva
letture a casa sua, la sera. Lavora al suo commento al trattamento con piante
medicinali nel libro II di Avicenna, Canon, cioè "l'Expositio super
canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae", che complete dopo il ritorno a Firenze. Commenta sul “Donna mi
prega” di Cavalcanti. Questo commento è conservato in un manoscritto di
Boccaccio ed è stata tradotta in una versione in lingua “volgare”. A causa dell'invidia dei suoi colleghi di
Bologna, fu accusato di essersi appropriato del commento a Galeno di
Torrigiani. Le lezioni riscuotevano
molto successo, allora i suoi colleghi, invidiosi, dettero il compito a un
allievo che viveva con il medico di spiarlo; quest'ultimo scoprì che prepara le
sue lezioni basandosi sul comment a Galeno di Torrigiani, che conserva
segretamente. Il plagio e reso pubblico, addiruttura Ascoli ne fece scherno con
i suoi allievi, e G. e costretto a allontanarsi da Bologna. Sia Tiraboschi che Colle
notarono delle incongruenze cronologiche della vicenda. Torrigiani e co-etaneo
e collega del medico alla scuola di Aldreotti, e successivamente si fece
certosino in tarda età e solo da quel momento, o dopo la sua morte, avrebbe
potuto prendere i suoi scritti. L'episodio,
probabilmente, indica l'atmosfera ostile – tossica -- in cui era immerso G. a
Bologna, per questo è plausibile che decidesse di accettare l'offerta di Padova,
che dopo la crisi causata dalla guerra contro Enrico VII, cerca insegnanti di
fama. Tornato a Firenze, incontra Mussato in preda a un malanno, che
probabilmente aveva conosciuto in precedenza a Padova e che era a Firenze in
veste di ambasciatore di Padova. A Firenze, la sua stima di filosofo si riprese
dai colpi bassi inflitti dai bolognesi; mostra un ritratto cordiale, sapiente
ma non scontroso, con un atteggiamento affidabile e umano, che cercava di
capire i segreti della natura e molto disponibile, questa era la maniera in cui
appariva ai fiorentini. Descritto come una persona arguta in episodi riportati
da Petrarca, che non conosceva direttamente, ma che aveva avuto contatti con G..
Pesso un cimitero, rispose a dei vecchi che lo volevano schernire con queste
parole. La disputa è ingiusta, qui: infatti voi siete più coraggiosi perché
siete a casa vostra. (Rerum memorandum libri, risposta simile a quella di Cavalcanti
nel Decameròn. Un altro episodio, invece, fu la volta in cui un uomo prende in
giro il suo piccolo cavallo dicendogli: "e gli insegni a camminare, ma
dove hai imparato quest'arte?", e G. rispose: "A casa
tua". Quanto torna scrisse le "Recollectiones in Hippocratem de
natura foetus" (Venezia), con la "Expositio super capitula de generatione
embryonis" di Tommaso Del G., suo figlio, e la "Expositio in
Avicennae capitulum de generatione embrionis" di Torre. Il trattato di G.
mostra quanto fosse dipendente dall'astrologia araba. Distingue l'anatomia
dalla fisiologia. Indaga la causa delle malattie ereditarie, dicendo che
dipendono da un vizio organico del cuore, dal quale ha origine lo spirito che
il seme del padre trasmette al nascituro. Tratta anche di argomenti molto
discussi dai filosofi del secolo, come la trasmissione dell'intelligenza tra
generazioni, dell'origine del calore animale e della nascita di piante e
animali per “fermentazione.” Dice nell'Expositio che torna a Firenze non per la
crisi di Siena, ma per altri motivi di cui non si hanno documentazioni. Per
Tiraboschi e Colle, G. non sarebbe mai uscito dall'Italia, mentre De Sade dice
che ad Avignone avrebbe incontrato Ascoli.
Quest'ultimo è il motivo della grave colpa di cui Garbo, insieme al figlio, fu
macchiato dopo il plagio già nominato. Ascoli venne allontanato da Bologna e
sospeso dall'insegnamento poiché accusato di eresia, successivamente giunse a
Firenze con la fama di mago e negromante, al servizio del duca Carlo di
Calabria. Ascoli scrisse "Commentarii in Sphaeram Mundi Ioannis de
Sacrobosco", che si ritiene fosse trattato che egli porta sul rogo, trattato
che fu aspramente criticato da Garbo che gravemente accesi di rabbia e d'odio
contro di lui, perché invidiosi che d'Ascoli fosse preferito come medico dal
duca Carlo. I. Garbo accusa Ascoli di fronte al vescovo d'Aversa e
successivamente lo denuncia all'inquisizione. Questo spinse il duca di Calabria
ad allontanare Ascoli dalla sua corte e dopo fu arrestato dall'inquisitore
Bonfantini. L’accusa era di essere "alieno dal vero dogma della
fede". Ascoli fu bruciato sul rogo. E evidente la responsabilità di Garbo
in questa condanna, per invidia e non per motivi religiosi. G. muore poco dopo
l'esecuzione d’Ascoli. Questo, dice Grice, e causato da un incantesimo di
vendetta lanciato da Ascoli. Altre opere: La figura di G. campeggia se
non come il più grande filosofo di Firenze, sicuramente come quello più
nominato, sia nel bene che nel male, a prescindere dal valore che possono avere
le sue opere a livello della storia della filosofia, infatti rappresenta,
nell'opinione comune, il tipo ideale di filosofo, sia con i suoi pregi, che con
i suoi difetti. Tra le opere che sicuramente possiamo attribuirgli ci
sono ricettari, commenti e trattati. Tra
i vari, ci sono i "Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima
commentaria, quae Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis
scientiae noncupatur" (Venezia), dedicati agli studenti bolognesi che
l'avevano seguito a Siena; "Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus
et mensuris nec non de emplastris et unguentis" (Ferrara) insieme ad un
trattato sulla lebbra di Gentile da Foligno e uno sulle giunture ossee di
Gentile da Firenze, ampio commento ad Avicenna, Abū l-Qāsim az-Zahrāwī e
ar-Rāzī. In questo e in altri testi, rileva molte inesattezze di Avicenna e
parla con tono di ammirazione dei antichi greco-romani. Altre opere invece non sono state stampate:
"De militia complexionis diversae"; una "quaestio" sulla
flebotomia secondo Ugo da Siena (Bergamo, Biblioteca civica) "Recolectiones super cirurgia
Avicennae" (Modena, Bibl. Estense); Tractatus podagre (San Candido, Bibl.
della Collegiata). E non va dimenticato il commento alla canzone "Donna mi
prega" di Cavalcanti: "Scriptum super cantilena Guidonis de
Cavalcantibus" ("De natura et motu amoris venereis cantio cum
enarratione Dini de Garbo", Venezia, introvabile). Il commento riguardo a
“Donna mi prega” considera l'amore (eros) da un punto di vista strittamente patologico,
come passione, e anche se a volte tende a sovrapporsi a “Donna mi prega”,
esponendo le idee sull'amore di se stesso (“amore proprio”) che quelle di
Cavalcanti, resta un importante document. Suddivide il testo in tre parti.
Nella prima parte, Garbo dimostra quante e che sono le cose, che dello amore si
dicono. Nella seconda parte, Garbo filosofa di quelle, che esser ne determina.
Nella terza parte, la chiusa, Garbo dimostra la sufficienza di quelle cose,
ch'egli ha dette. Nella seconda parte, la più importante, si segue la
dimostrazione sulle *otto* caratteristiche dell'amore: I) dove si produce
(nell’appetito sensitivo); II) chi lo genera? la disposizione naturale del
corpo dell’amante – per non fare menzione digli influssi di Marte su Venere)
quale virtù ha l’amore, dato che è passione d'appetito? Nulla. IV) Quale e
l’effetto dell’amore? La morte che impedisce
le operazioni della virtù vegetativa) quale e l’essenza dell’amore? E una
passione naturale). Che alterazione provoca? Infermità, malinconia, morte. VII)
Che spinge a filosofare sull’amore, dato che non si può celare la passione? Lo
spirito platonico) Se l'amore (o strittamente, l’amare) si dimostri via il
sentire? Si. È evidente che parli come filosofo aristotelico. Per G., l'amore è
una malattia, una passione dell'appetito sensitivo, che può causare a sua volta
molte altre malattie, e per questo va curata, con la dimenticanza e
l'allontanamento, l'"accidente fero" di Cavalcanti è il maligno
influsso di Marte, in congiunzione col Toro e la Bilancia, quando si trova
nella casa di Venere. Altre opere: “Dynus super quarta Fen primi cum
tabula” (Venezia: Lucas Antonius Giunta Florentinus); “Expositio super tertia,
quarta, et parte quintae fen IV. libri Avicennae” (Venezia: Johann Hamann für Andreas
Torresanus); “Dilucidatorium totius pratice medicinalis scientie Expositio
super canones generales de virtutibus medicamentorum simplicium secundi canonis
Avicennae (Venezia); “Recollectiones in Hippocratem de natura foetus; “Dilucidatorium
Avicennae (Ferrara) Expositio super parte quintae Fen quarti Canonis Avicennae (Ferrara,
André Beaufort); “Super IV Fen primi Avicennae praeclarissima commentaria, quae
Dilucidatorium totius practicae generalis medicinalis scientiae noncupatur
(Venezia); Chirurgia cum tractatu eiusdem de ponderibus et mensuris nec non de
emplastris et unguentis (Ferrariae); “De militia complexionis diversae; di cui
un saggio è pubblicato da Puccinotti; Recolectiones super cirurgia Avicennae (Modena,
Bibl. Estense); De generatione embrionis; Dizionario biografico degli italiani.
Boccaccio, Cavalcanti’s Canzone “Donna me prega” and Dino’s Glosses The
enigmatic, indeed disturbing figure of Cavalcanti exercised the imagination of his
contemporaries, especially of his fellow poets. Without naming him once, Dante talks about Guido in
his youthful work, the Vita nuova, telling us that Cavalcanti was the “primo de
li miei amici” (VN III), and that he was one of those who replied poetically to
Dante’s first sonnet. Dante also refers
to Guido’s senhal, Gio- vanna/Primavera (VN). The whole of Dante’s treatise, as a specifi- cally
vernacular composition, is dedicated to this first friend (VN). Amongst Dante’s
Rime, also, there is a companionship sonnet addressed to Cavalcanti, “Guido, i’
vorrei che tu e Lapo ed io,” to which the older poet responded in verse. The
most memorable mention by Dante occurs in canto X of Inferno, where Guido is the
“grand absent,” asked after by his damned father, Ca- valcante de’ Cavalcanti.
The accent in the exchange is on Guido’s implied “altezza d’ingegno,” shared
with Dante, and his disdain for some- thing — unspecified — which Dante by now
was pursuing (poetry? theol- ogy?). The poet later resurfaces as an allusion in
Purgatorio XI.97–99, where, in an object lesson in humility, literary primacy
is passed through the Guidos, presumably from Guinizelli through Cavalcanti,
and on to (perhaps) Dante himself. Guido Orlandi, who wrote the enquiry sonnet,
“Onde si move e donde nasce Amore?” which occasioned Cavalcanti’s famous reply,
the doctrinal canzone “Donna me prega,” paints a picture of the poet in “Amico,
i’ saccio ben che sa’ limare,” stressing Guido’s verbal prowess, but also his
consid- erable intellectual ambition, verging on vanity. Cino da Pistoia,
however, in “Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo?” reacts angrily to an
accusation of plagiarism coming from Guido, and hints that his own humility is
more appropriate than Cavalcanti’s self-importance. Amongst the other, almost
contemporary poets who mention Cavalcanti is Cecco d’Ascoli (Francesco
Stabili), in whose astrological apology the Acerba, he seemingly takes Guido to
task, in detail, for an erroneous analysis of love’s [heliotropia.org/02-01/usher.pdf
1 Heliotropia heliotropia.org workings (particularly the function of the
irascible appetite, Mars) con- tained in “Donna me prega.” Chroniclers, too,
were fascinated by him, but as much for his propen- sity to engage in partisan
violence as for his intellectual eminence. His contemporary Dino Compagni
refers repeatedly to the powerful Cavalcanti clan’s readiness for
street-fighting, and refers specifically to Guido’s ex- ploits, including his
failed attempt on the life of Corso Donati, who had re- portedly organised an
assassination plot against the poet on the pilgrimage route to Compostela. Dino characterises Guido as “cortese e ardito, ma
sdegnoso e solitario e intento allo studio.” Villani, writing con- siderably later, draws attention
to the prickly nature of Guido’s intelli- gence: “era, come filosofo,
virtudioso uomo in più cose, se non ch’era troppo tenero e stizzoso,” a
description of the philosopher-poet which al- most exactly parallels Giovanni’s
description of Dante himself. Amongst the later novella writers, Sacchetti
would include Cavalcanti as the butt (literally) of a practical joke by a small
child (Trecentonovelle), a jape which in turn is reminiscent of a Boccaccio
novella (Decameron). Cavalcanti figures in the early commentary tradition of
the Comedy, in particular as a response to the pilgrim’s discussion with
Cavalcante de’ Ca- valcanti in Inferno X, and the reference to the two Guidos
in Purgatorio. He also figures to some extent in elucidations of the two
lonely, anon- ymous Florentine “giusti” in Inferno. Commenting upon Inferno X, Guido da PISA (si veda) says
of Cavalcanti “Fuit enim iste Guido scientia magnus et moribus insignitus, sed
tamen in suo sensu aliqualiter inflatus. Habebat enim scientias poeticas in derisum” [This
Guido was great in knowledge and celebrated in character, but nevertheless
somewhat puffed up as to his opinion of himself. For he despised the poetic
discipline]. Guido da Pisa’s interpretation of Cavalcanti’s “disdegno”
(Inferno) as essentially poetical will be influential amongst subsequent
commentators. The Ottimo commentary points to Guido’s
common intellectual in- terests with Dante (“similitudine d’abito
scientifico”). Later, when discus- sing the two Guidos passage in Purgatorio
XI, the commentator opines: “E Guido Cavalcanti si può dire, che fossi il
primo, che [le] sue canzoni fortifi- casse con filosofi[ch]e pruove, come si
mostra in quella sua canzona, che comincia: ‘Donna mi prega, perch’io deggia
dire.’” The Selmiano, commenting upon Inferno X, again points to Cavalcanti’s
intellectual im- pact: “Guido fu tenuto del maggiore ingegno e più alto che
allora fosse uomo di Firenze.” The greatest contribution to the myth of Guido Cavalcanti comes from
Boccaccio, who views the poet essentially through the distorting prism of
heliotropia.org/02-01/usher.pdf 2 Heliotropia heliotropia.org Dante and
the early Dante commentators. In the “Introduzione alla quarta giornata” of the
Decameron, Boccaccio justifies his own persistence with amorousness, even in
his more mature years, by claiming that such a trait was shared with
Cavalcanti, Dante and Cino da Pistoia in their old age. He even suggests that
he could supply the biographical justifications to prove it (“istorie in
mezzo”). The most consistent account of Cavalcanti, however, occurs in
Decameron where Boccaccio applies to Guido a widespread anecdote, with a
“lethal” punch-line, which Petrarch, amongst others, had used some ten years
previously in the Rerum Memorandarum (II, 60) about G., the famous Florentine
physician. The tale, now firmly attached to Cavalcanti, thanks to Boccaccio,
will subsequently pass into the Dante commentary tradition when Benvenuto da
Imola glos- ses the two Guidos passage in Purgatorio. The Decameron tale has been frequently discussed and
minutely ana- lysed: what concerns us here is Boccaccio’s preliminary portrait
of the poet: oltre a quello che egli fu un de’ migliori loici che avesse il
mondo e ottimo filosofo naturale, si fu egli leggiadrissimo e costumato e
parlante uom molto e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente seppe
meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua
sa- peva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. [...] Guido alcuna
volta speculando molto abstratto dagli uomini divenia; e per ciò che egli
alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tralla gente volgare
che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che
Iddio non fosse. (Decameron)
Creatively interpreting Dante, in order to give the punch-line extra signifi-
cance, Boccaccio deliberately confuses (or rather suggests that the vulgar
throng confuses) Guido with his father, Cavalcante de’ Cavalcanti, for it is
effectively the latter who is amongst the “Epicureans” who “l’anima col corpo
morta fanno” (Inferno). A very similar
portrait of the poet is given in the Esposizioni, where Guido is described as:
uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno, e seppe molte leggiadre cose fare
meglio che alcun altro nostro cittadino: e oltre a ciò, fu nel suo tempo
reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore
[scil. Dante], sì come esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon
dicitore in rima; ma, per ciò che la filosofia gli pareva, sì come ella è, da
molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. (Esposizioni) The phrase
“ebbe a sdegno” clearly shows Boccaccio’s debt to Inferno X.63: “Forse cui
Guido vostro ebbe a disdegno,” and to the view amongst early commentators,
initiated by Guido da Pisa as we have seen, that
heliotropia.org/02-01/usher.pdf 3 Heliotropiaheliotropia.org disdain was
for poetry, not theology. It is this Boccaccian portrait, with a distinctly
Dante colouring, which will inform Filippo Villani’s much later biography of
Cavalcanti in the Liber de origine civitatis Florentie [Book of the Origin of
the City of Florence]. As we have seen, the anecdote in Decameron had been
previously used by Petrarch, who places Dino del Garbo as its protagonist. Dino
was, in addition to being a notable physician (a pupil of Taddeo Alderotti at
Bologna), a lecturer on materia medica at various universities. He had a number
of commentaries to his credit, including a reading of the third and fourth fen
of the fourth book of Avicenna’s Canon, dealing with surgery (a relatively new
area for medicine, traditionally hostile to the knife). He also wrote a general
handbook, based on book one of Avicenna, the Dilucidato- rium totius pratice
medicinalis scientie [Clarification of the Whole Practice of Medical
Knowledge]. According to Giovanni Villani, G. was very touchy about his
academic standing, and took a mortal dislike to Cecco d’Ascoli, at the time a
lecturer on the astronomy of Sacrobosco and Alca- bitius at Bologna, who
publicly accused him of having plagiarised a dead colleague, Torrigiano de’ Torrigiani’s
commentary on Galen. Indeed, Vil- lani suggests that Dino was instrumental in
the passing of the death sen- tence on the astrologer: “molti dissono che ’l
fece per invidia” (Cronica). Popular opinion had it that Dino’s own puzzling
death, very shortly after the astrologer’s execution, was the result of a
posthumous necromantic revenge on Cecco’s part. Cecco wasn’t the only one to
have an interest in Cavalcanti’s canzone “Donna me prega.” G. writes a detailed
Latin commentary on the poem, heavily indebted to Avicenna, Haly Abbas and the
LICEO, which was partially imitated and adapted in a vernacular version unconvincingly
attributed to Egidio Romano. Medical and philosophical interest in Cavalcanti’s
canzone would continue into the Renaissance, with Ficino, amongst others,
clearly in debt to it. G.’s commentary is certainly known to Boccaccio. Indeed,
it has been convincingly argued by Quaglio (“Prima fortuna della glossa
garbiana a ‘Donna me prega’ di Cavalcanti,” in GSLI) that the unique surviving
manuscript of the commentum (an insert in Vatican Chigiano) is a Boccaccian
autograph. This particular transcription, one of the later documents reinserted
into the manuscript – cf. Ricci (Studi sulla vita e le opere del Boccaccio,
Milan-Naples: Ricciardi. The entire MS is reproduced phototypically in colour
by Domenico heliotropia.org 02-01/usher.pdf 4 Heliotropia 2.1
heliotropia.org de Robertis (Il codice Chigiano L. V. autografo di Boccaccio,
Rome-Florence: Alinari). However, already in the Teseida, Boccaccio shows some
fa- miliarity with the commentary. Perhaps he had obtained the glosses from
Dino’s close acquaintance, the poet and jurist Cino da Pistoia, who had known
and corresponded poetically with Cavalcanti, and who had been teaching Roman
law in Naples whilst Boccaccio was a student canonist there. The commentary,
entitled Scriptum super cantilena Guidonis de Cavalcantibus [Writing on the
Canzone of Guido Cavalcanti] has been ed- ited and published as an appendix by
Favati (Cavalcanti, Rime, Milan-Naples: Ricciardi). A sectionalised summary
translation and secondary commentary can be found in Bird, “The Canzone d’Amore
of Cavalcanti According to the Com- mentary of G.” (Mediaeval Studies). There is a fine translation and
commentary of the glosses by Fenzi (La canzone d’amore di Cavalcanti e i suoi
antichi commenti, Genoa: Il Melangolo. In the Teseida, Boccaccio furnishes substantial
ecphrases of the abodes of Mars and Venus, the tutelary deities of the two
rivals for the hand of Emilia, Arcita and Palemone. The description of the
temple of Venus in book VII, octaves 50 ff., prompts an immensely long
authorial gloss, part of which is on the nature of love itself. In keeping with
Boccaccio’s implied fiction that the glosses are by somebody else, he refers to
himself in the third person as the “author” and reserves the first person for
the fictive commentator. The
gloss labours on through the various symbolic, almost personified qualities (à
la Roman de la Rose) propitious to erotic passion till it reaches the figure of
Cupid, or desire: Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per
le sopra- dette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo
Amore. Il quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si ge- neri
in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di di- chiarare,
non è il mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia:
chi disidera di vederlo, legga la canzone di Cavalcanti Donna me priega, etc.,
e le chiose che sopra vi fa G.. (Teseida, gloss) What is important here is that, for Boccaccio, the
poet’s canzone and the physician’s glosses were already intimately linked,
presumably in a single document (as would be the case in the much later Chigian
MS transcribed by Boccaccio himself). The Teseida self-commentary then
continues, after this parenthesis, with further enumeration of the “author’s”
selection of symbolic qualities, beginning with an elucidation of Cupid’s
darts. But the heliotropia.org/ 02-01/usher.pdf 5 Heliotropia
heliotropia.org first sentence of this continuation shows that Boccaccio was
still thinking in terms of technical definitions of love borrowed from other
sources: Dice sommariamente che questo amore è una passione nata nell’anima per
alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla
detta cosa piaciuta e di poterla avere. The phrasing about fervent desire, in
this definition, is reminiscent of a remark in G.’s commentary: est passio
quedam in qua appetitus est cum vehementi desiderio circa rem quam amat, ut
scilicet coniungatur rei amate. (Favati) [it is a certain passion in which
there is appetite along with fervent desire concerning the thing which it loves,
so that it may join with the thing be- loved] But the presence in Boccaccio’s
gloss of the adjective “nata” (even though it could be construed here as
meaning merely “arising”) almost certainly betrays an older source, namely the
opening definition in Andreas Capel- lanus’ De arte honeste amandi: Amor est
passio quedam innata procedens ex visione et immoderata co- gitatione formae
alterius sexus, ob quam aliquis super omnia cupit alte- rius potiri amplexibus
et omnia de utriusque voluntate in ipsius amplexu amoris praecepta compleri.
(De amore) [Love is a certain inborn passion arising from the beholding of and
un- controlled thinking about the beauty of the other sex, on account of which
the person desires above all else to enjoy the embraces of the other person
and, by common desire, fulfil all the commandments of love in this embrace]
Andreas uses the term “innata” to describe erotic passion twice more, in quick
succession, clearly wanting his readers to understand that its endo- genesis is
an important part of his theory of love. “Innata” in the De amore is clearly
adjectival in function, as shown by the following participle “pro- cedens”: but
“nata” in the Teseida may be more in the nature of a past participle. The
lexical fragment survives, however, despite its possible change of status, as a
tell-tale sign of Boccaccio’s prior reading. For Boccaccio, conflating the two
sources was tempting, because G. is clearly indebted, for substantial elements
of his treatise, to the chaplain’s opening remarks on love, as the
characteristic initial combination “passio quedam” already demonstrates.
Boccaccio was not reading Cavalcanti and G. as an inno- cent, then, but rather
as somebody who had already come across authori- tative, if somewhat
obsolescent definitions. The problem for the compiler of the Teseida glosses is
that the two definitions do not match. Andreas heliotropia.org/02-01/usher.pdf
6 Heliotropia heliotropia.org believed that love was intrinsic
(“innata”), the line which Guinizzelli would famously take in his canzone “Al
cor gentil,” whereas G., following Ca- valcanti, declares that this passion was
definitely exterior in origin “cau- sans ipsum principaliter est res
extrinseca” (Favati). Boccaccio at the time of his writing of the Amazon epic
seems totally unaware of the in- consistency between these auctoritates. One
might doubt that Boccaccio had anything more than circumstantial knowledge of
the existence of Dino’s commentary. In other words possibly he hadn’t read it.
But certain of the key words (“appetito” and “generare,” markedly Aristotelian
terms, though present in the De amore, are simply not used as technicisms in
Andreas) imply that he has a good idea of the philosophical slant of G.’s
vocabulary. Unlike Cino da Pistoia, who is quoted unambiguously in the
Filostrato and Rime, textual traces of Cavalcanti in Boccaccio’s fictional and
creative works are rare and tantalising. The meagre harvest of possible (and
hardly provable) intertextuality has been traced by Letterio Cassata, passim in
hisedition of Cavalcanti (Cavalcanti, Rime, Anzio: De Rubeis, esp. index). Branca furnishes more detailed examples (Rime;
Teseida) in Boccaccio medioevale e nuovi studi sul Decameron (Florence:
Sansoni). One could add to
this list, tentatively, perhaps. There is possibly a hint that Boccaccio had a
“cultural memory” of the opening of “Donna me prega” when writing the Filocolo,
for Florio’s love is there de- scribed by an experienced Ascalion as “sì nobile
accidente. It could be, however, that this particular use of “accidente”
(generically a very common term in the early Boccaccio) derives from a reading
of Dante’s Vita nuova, where the distinction between substance and accident in
love theory, probably as an echo of Cavalcanti, is also made (VN). Another
possible reprise of Cavalcanti occurs in the Teseida sequence which generates
the gloss which mentions “Donna me prega” and G.’s glosses. In octave 53 of the
seventh book, Boccaccio describes the musical and visual environment of Venus’
garden, indicating Palemon’s soul in prayer as it visits the bower: ripieno il
vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta. Though
“spiritus” was a technical term in medicine, referring to the transmission of
vital and animal forces through the body, the diminutive “spiritelli” is a
characteristic Cavalcantian usage, denoting the hypostatic emanations of
fragmented consciousness characteristic of the “anima heliotropia.org /02-01/usher
Heliotropia heliotropia.org sbigottita.” Guido
even parodied this verbal tic in a sonnet, “Pegli occhi fere un spirito
sottile.” More persuasive
again, in terms of intertextuality with Cavalcanti, is one of Boccaccio’s early
Rime: Biasiman molti spiacevoli Amore e dicon lui accidente noioso, pien di
spavento, cupido e ritroso, Though Branca does not expressly say so in his
commented edition of the Rime in volume V of Tutte le opere (Milan: Mondadori),
this sonnet seems to parodically contrast a pessimistically Cavalcantian view
of love in the first quatrain with a more Guinizellian, positive stance in the
remainder. All in all, though, compared with the massive early presence of
Dante, and later of Petrarch, the verse of Cavalcanti seems to have had little
prac- tical impact on Boccaccio. He seems to have been much more interested (as
the layout of the glosses and the title of the autograph Chigiano LV 176
transcription shows) in “Donna me prega” as a vehicle for G.’s commentary,
rather than as a composition in its own right. G.’s commentary became more
useful to Boccaccio when he came to write the Genealogie and the Esposizioni.
By this time, his appreciation of the question of substance and accident, and
of intrinsic and extrinsic causality, had markedly improved, though his interest
is still anything but scientific. The Genealo- gie passage occurs in the
biography of Cupid, begotten from the illicit cou- pling of Mars and Venus.
Cupid had been the figure, as we have seen, who had given rise to the mention
of G.’s glosses on “Donna me prega” in the Teseida. This time, though used much
more ex- tensively, the Garbian source is not explicitly acknowledged. Est
igitur hic, quem Cupidinem dicimus, mentis quedam passio ab exte- rioribus
illata, et per sensus corporeos introducta et intrinsecarum vir- tutum
approbata, prestantibus ad hoc supercelestibus corporibus aptitudinem. Volunt
namque astrologi, ut meus asserebat venerabilis Andalo, quod, quando contingat
Martem in nativitate alicuius in domo Veneris, in Tauro scilicet vel in Libra
reperiri, et significationem nativitatis esse, pretendere hunc, qui tunc
nascitur, futurum luxuriosum, fornicatorem, et venereorum omnium abusivum, et
scelestum circa talia hominem. Et ob id a phylosopho quodam, cui nomen fuit
Aly, in Commento quadri- partito, dictum est quod, quandoque in nativitate
alicuius Venus una cum Marte participat, habet nascenti concedere dispositionem
phylocaptionibus, fornicationibus atque luxuriis aptam. Que quidem aptitudo
agit ut, quam cito talis videt mulierem aliquam, que a sensibus exterioribus
commendatur, confestim ad virtutes sensitivas interiores defertur, quod
placuit; et id primo devenit ad fantasiam, ab hac autem ad cogitativam
heliotropia.org/02-01/usher.pdf 8 Heliotropia heliotropia.org
transmictitur, et inde ad memorativam; ab istis autem sensitivis ad eam
virtutis speciem transportatur, que inter virtutes apprehensivas nobilior est,
id est ad intellectum possibilem. Hic autem receptaculum est specie- rum, ut in
libro De anima testatur Aristoteles. Ibi autem cognita et intel- lecta, si per
voluntatem patientis fit (in qua libertas eiciendi et retinendi est) ut tanquam
approbata retineatur, tunc firmata in memoria hec rei approbate passio (que iam
amor seu cupido dicitur) in appetitu sensitivo ponit sedem, et ibidem, variis
agentibus causis, aliquando adeo grandis et potens efficitur, ut Iovem Olympum
relinquere, et tauri formam su- mere cogat. Aliquando autem minus probata seu
firmata labitur et adni- chilatur; et sic ex Marte et Venere non generatur
passio, sed, secundum quod supra dictum est, homines apti ad passionem
suscipiendam secun- dum corpoream dispositionem producuntur; quibus non
existentibus, passio non generaretur, et sic large sumendo a Marte et Venere
tanquam a remotiori paululum causa Cupido generatur. (Genealogie) Rather than
provide a translation into English here, we can go straight to Esposizioni V
litt., which is an outstanding example of Boccaccio’s self-volgarizzamento. The
passage occurs in Boccaccio’s literal commen- tary on the episode of Paolo and
Francesca, and is occasioned by Dante’s famous line “Amor ch’al cor gentil
ratto s’apprende” (Inferno). Whereas in the Teseida Boccaccio indulges in a
long account of Cupid’s iconography and dismisses (“per ciò che troppa sarebbe
lunga la storia”) the aetiology of love with a curt reference to Cavalcanti and
G., here in the Dante commentary he inverts the process, omitting the lengthy
account of details Cupid’s portrait (“alle quali voler recitare sarebbe troppo
lunga storia”) so as to concentrate on the explanation of love’s workings. The
passage is prefaced with an apparently perfunctory explanation of Aristotle’s
tripartite distinction of the kinds of love (Nicomachean Ethics), of which more
later. Only the very last periods suffer any change from the content of the
earlier Genealogie text. The
corresponding passage in the Esposizioni, the volgarizzamento of the Gene-
alogie text, reads: Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia apartiene,
dico che questo Cupidine, o Amore che noi vogliam dire, è una passion di mente
delle cose esteriori e, per li sensi corporei portata in essa, è poi aprovata
dalle virtù intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla rice-
vere. Per ciò che, secondo che gli astrologi vogliono, e così affermava il mio
venerabile precettore Andalò, quando avviene che, nella natività d’alcuno,
Marte si truovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e truovisi
esser significatore della natività di quel cotale che allora nasce, ha a
dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo.
E di questo dice Alì nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella
natività d’alcuno Venere insieme con Marte parti- cipa, avere questa cotale
participazione a concedere a colui che nasce una heliotropia.org/02-01/ usher. pdf
9 Heliotropia heliotropia.org disposizione atta agl’inamoramenti e alle
fornicazioni. La quale attitu- dine ha ad aoperare che, così tosto come questo
cotal vede alcuna femina, la quale da’ sensi esteriori sia commendata,
incontanente quello, che di questa femina piace, è portato alle virtù sensitive
interiori e questo pri- mieramente diviene alla fantasia e da questa è mandato
alla virtù cogita- tiva e da quella alla memorativa; e poi da queste virtù
sensitive è tra- sportato a quella spezie di virtù, la quale è più nobile intra
le virtù apren- sive, cioè allo ’ntelletto possibile, per ciò che questo è il
recettaculo delle spezie, sì come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi,
cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di
sopra è detto, portato v’è se egli avviene che per volontà di colui nel quale è
que- sta passione, con ciò sia cosa che in essa volontà sia libertà di ritenere
dentro questa cotal cosa piaciuta e di mandarla fuori, questa cotal cosa
piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di
questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore, o vero Cupido. E pone
questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nell’appetito sen- sitivo e
quivi in varie cose adoperanti divien sì grande e fassi sì potente che egli
fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse
volte il costrigne; e alcuna volta, essendo meno aprovata questa cotal cosa
piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E così non è da Marte e da
Venere generata questa passione, come alcuni stimano, ma, secondo che di sopra
è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le
disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse, questa passione non
si genererebbe. The translation
diverges only at the end. Out goes the Ovidian reference to a love-struck
Jupiter preparing to ravish Europa (Metamorphoses), clearly inappropriate for a
commentary to a Christian poem, and in comes a limp and vague reference to
shameful behaviour. Similarly, the very last concessionary formula of the
Genealogie passage, conceding at least the indirect operation of Mars and
Venus, is removed in its entirety, leaving the earlier categorical denial of
astral influence intact. But what of the content? The making of such
contentious horoscopes, predicting a libidinous disposition, could be
dangerous. Villani intimates that one of the reasons for Cecco d’Ascoli’s
misfortune at the stake was his disconcertingly accurate prognosis for his
patron, the duke of Calabria, that his daughter Giovanna, the grand-daughter of
Robert the Wise and future queen of Naples, would be subject to scandalous
erotic excesses on account of her birth under the sign of Mars in the house of
Venus. Though at first sight, Boccaccio is implying that his source in both
pas- sages is the Genoese astronomer Andalò del Negro (almost certainly dressed
up as Calmeta in Filocolo) and that he is quoting from Ptol- emy’s commentator
Haly Abbas and from Aristotle’s De anima, a large section of this treatment,
including the reference to these auctoritates, is in fact lifted from various,
almost contiguous places in G.’s glosses. The heliotropia.org /02-01/usher.pdf
10 Heliotropia heliotropia.org opening sentence is an extremely reductive
paraphrase of a section of Dino’s commentary where the physician indicates the
role of the stars in creating the dispositions of the soul. Dino writes: Alia res
concurrit ad causandum aliquam passionem, que est res ex- trinseca que suam
ymaginem vel speciem causat in virtute sensitiva, ad quam cognitionem vel
apprehensionem consequitur appetitus talis vel talis, in quo appetitu iste
passiones fundantur. Ideo auctor, ut complete ostenderet que est res generans
istam passionem, primo ostendit que est dispositio naturalis corporis que
reddit hominem aptum ut faciliter istam passionem incurrat; secundo ostendit
que est res extrinseca ex cuius ap- prehensione consequitur in appetitu passio
amoris. Secunda ibi: “Vien da veduta forma”; vel
posset incipere ibi: “D’alma costume.” In prima parte quod dispositio
naturalis, per quam aliquis inclinatur ad incurrendum faciliter in aliquam
passionem, ex principiis proprie nati- vitatis hominis contraitur et, inter
ista principia nativitatis alicuius, precipua et principalia sunt corpora
celestia: nam, ut dicit Philosophus in Phisicis, homo hominem generat et sol;
et in De Generatione Animalium dicit quod in spiritu genitivo est natura
existens proportionalis ordinationi astrorum. (Favati) [Something else is involved in causing any
passion, and that is an exte- rior thing causing its image or “species” in the
sensitive faculty, upon the cognition or apprehension of which there follows an
appetite for this or that, in which appetite these passions are established. So
the author, in order completely to show what is the thing which generates this
passion, first demonstrates what is the natural disposition of the body which
makes man suitable for incurring this passion easily; secondly he demon-
strates what is the external thing from whose apprehension the passion of love
follows in the appetite. The second starts “Vien da veduta forma”; or can start
at “D’alma costume.” In the first part he shows that the natural disposition,
by which some- body is inclined to incur some passion, is contracted from the
principles of a person’s own birth, and, amongst these principles of a person’s
birth, the foremost and most important are the heavenly bodies: for, as Aris-
totle says in the Physics, man and the sun generate man; and in The Generation
of Animals, in the generative spirit a nature exists proportion- ally to the
ordering of the stars] Boccaccio’s reference to his astrological mentor, Andalò
del Negro, is an opportunistic amplification of a far less specific passage in
Dino. The Garbian passage, commenting on the canzone, reads: Hoc autem ostendit
in verbo illo quod premisit cum dixit “La quale da Marte viene et fa dimora”:
nam ista passio dicitur procedere a Marte isto modo, quoniam astrologi ponunt
quod, quando in nativitate alicuius Mars fuerit in domo Veneris, ut in Tauro
vel in Libra, et fuerit significator nativitatis eius, significabit natum fore
luxuriosum, fornicatorem et omnibus venereis abusivis scieleratum; unde quidam
sapiens qui dicitur Aly, heliotropia. org/02-01/usher. pdf 11
Heliotropiain “Comento Quadripartiti,” dicit quod, quando in nativitate
alicuius Venus participat cum Marte, dat inamoramentum, fornicationem, luxu-
riam et talia similia, que omnia pertinent ad passionem amoris de quo loquitur
auctor in hac cantilena. (Favati) [He shows this, however, in that word he
placed before when he said “La quale da Marte viene et fa dimora”: for this
passion is said to proceed from Mars in this way. Astrologers claim that,
whenever, at the birth of somebody, Mars is in the house of Venus, as in Taurus
or in Libra, and there is a person to do the child’s horoscope, he will signify
that the child will be lustful, a fornicator, and wicked in all venereal
excesses. Whence a certain sage called Haly in his commentary to the
Quadripartitum says that, when at the birth of somebody Venus participates with
Mars, it grants enamourment, fornication, lust and such like, which all are
con- cerned with the passion of love which the author talks about in this can-
zone.] Boccaccio’s reference to Andalò is rather disingenuous, if the evidence
of the Calmeta episode of the Filocolo is to be believed. For there the empha-
sis in that passage is almost entirely astronomical, with no hint of judicial
astrology, and the authorities consulted are almost certainly limited to
Ptolemy’s Almagest, Andalò’s own Introductorium, rather than the simi- larly
titled work by Alcabitius, and to the Alfonsine Tables. Of Haly’s commentary to
the Ptolemaic Quadripartitum there is not a trace. Boccac- cio’s early
astrological culture, under the sway of Andalò, has been examined in an
important study by Quaglio (Scienza e mito nel Boccaccio, Padua: Liviana) and
its narrative consequences (possibly more tending towards judicial astrology)
in the Filocolo have been investigated by Smarr and Grossvogel. The
adventitious references to Haly in the love definition in the Genealogie and
Esposizioni are a sure sign that the late Boccaccio, whilst acknowledging his
youthful enthusiasms, was now passively accepting and reproducing G.’s quotes
and mentions, rather than referring to material he knew and remembered
intimately and at first hand. What then follows in Boccaccio’s account, namely
the sequence of inter- iorisation, comes from G.’s gloss to the line. G.’s
ordering of the inner processes is, according to Bird, untypical, yet Boccaccio
accepts it without demur: Hic autem est ordo in apprehensione humana, sicut
declaratum est in scientia naturali: quod primo species rei pervenit ad sensus
exteriores, ut ad visum vel auditum vel tactum vel gustum vel olphatum, deinde
ab illis pervenit ad virtutes sensitivas interiores, sicut pervenit ad
fantasiam primo, deinde pervenit ad cogitativam et ultimo ad memorialem. Ab
istis autem virtutibus procedit postea ista species ad virtutem nobiliorem, que
virtus in homine est altissima inter virtutes adprensivas, et ista est virtus
possibilis. (Favati) [For this is the sequence in human apprehension, just as
it is declared in natural science. First of all the species of the thing
reaches the exterior senses, for instance sight or hearing, touch, taste or
smell, thence from these it reaches to the inner sensitive faculties, so it
comes to fantasy first, then comes to the cogitative and lastly to the
memorative faculty. From these faculties this “species” reaches to the nobler
faculty, which in mankind is the highest amongst the apprehensive faculties,
and this is the possible faculty] G. then provides a brief explanation of the
difference between the intel- lectus agens [active intellect], the reasoning
function of individuation and universals, and the passive or possible
intellect, merely concerned with the processing of species resulting from
sensibles. The discussion is not otiose, for G. is aware of Cavalcanti’s
dramatic positioning of love right at the crucial borderline between rational
and sensitive activity. Boccaccio is not at all interested in such
technicalities, and moves on to a matter of much greater concern, namely the
question of the relationship between love and will. The relevant passage from G.
glosses Guido’s assertion that love is “di cor volontate,” but Boccaccio
characteristically leaves out G.’s proessionally inspired mention of the
difference of opinion between Aristotle and Galen concerning the seat of the
sensitive faculties, in the heart or in the head. G. writes: Et nota quod istum
appetitum vocavit voluntatem, que videtur intellectui attinere, ut ostenderet
quod, licet amor fiat in aliquo ex dispositione na- turali per quam quis
inclinatur ad incurrendum faciliter hanc passionem, tamen fit etiam ex proposito
et per electionem, quod pertinet ad volun- tatem, que est libera et liberi
arbitrii, cum se habeat indifferenter ad op- posita; et est simile hic, sicut
etiam est in aliis passionibus ut, verbi gra- tia, de ira. Nam aliquis, licet
sit dispositus ex natura ad faciliter incurren- dum in iram, tamen per
voluntatem potest se retrahere ab ea, et potest etiam in eam incurrere; et
simili modo etiam de amore. (Favati) [And note that he calls this appetite the
will, because the latter is seen to appertain to the intellect, in order to
show that, although love can happen to somebody through a natural disposition
whereby that person is in- clined easily to incur this passion, that person
does so nevertheless on purpose and by choice, and so that is a case of will, which
is free and by free choice, when it is faced equally with opposites. And it is
the same here, just as it is with the other passions, like anger, for instance.
For somebody, even though he may be disposed by nature to get angry easily,
nevertheless through his will he can draw himself back from it, and he can even
indulge in it; and it is the same with love. For Dino, the question is one of
classification: given the working of erotic passion specifically in the
sensitive appetite, it follows that engaging in or disengaging from love is
necessarily a voluntary act, and therefore in part subject also to the
operations of the rational soul, where choices are made. Boccaccio’s rewording
changes the emphasis substantially towards moral philosophy: love is no longer
an ineluctable force, and the potential lover, being free to choose, is
therefore responsible for his own actions in this field as in any other. Love,
as a phenomenon of the soul, is consequent on an initial act of the will, by
accepting or refusing to be drawn further into passion. Though Boccaccio’s
direct quotations from the Garbian glosses are all located in a compact area,
he may have been encouraged to under- line this aspect by his reading further
on in the commentary, for G. refers to the will obliquely later on, drawing on
Haly’s Pantechne, to state more clearly than elsewhere the voluntaristic nature
of passion: amor est sollicitudo melanconica, similis melanconie, in qua homo
iam sibi inducit incitationem cogitationis super pulcritudinem quarundam
formarum et figurarum que insunt ei. (Favati) [love is a melancholic anxiety,
similar to melancholy, in which a man actually brings upon himself the rousing
of cogitation upon the beauty of certain forms and figures which are within
him.] A fragment of this reading of G. can be found in the Decameron, when
Boccaccio describes the aegritudo amoris of the pharmacist’s daughter Lisa, as
she struggles with cumulative “malinconia.” What is more important in the
Garbian gloss is the accent on the will. The lover “sibi inducit incitationem.”
And later again, G. will return to the topic, to explain why nobles have a
greater propensity for erotic pas- sion than those whose existence is marred by
the struggle for economic survival: Secunda causa est quia, licet in amore,
quando est multum impressus, appetitus non sit liber, imo est servus et ducitur
secundum impetum huius passionis, tamen in principio, quando incipit hec passio
in appe- titu, adhuc appetitus est quasi liber, ita ut possit amare et possit
desistere ab amore. Et ideo initium huius passionis incipit multotiens ex
proposito. (Favati) [The second cause is because, though in love for instance
the appetite, when it is much pressed, is not free, indeed it is enslaved and
is led by the impetus of this passion, nevertheless in the beginning, when this
passion starts in the appetite, at that point the appetite is almost free, so
that it can love or desist from love. And so the beginning of this passion
frequently starts from choice.] heliotropia.org/
02-01/usher.pdf Heliotropia
heliotropia.org Whereas in the Genealogie the highlighting of the question of
free will served no particular purpose, and was not set within a moralising
context, in the Esposizioni the moral discussion is crucial. Boccaccio has a
precise task, for he is explaining the sin of those who “la ragion sommettono
al talento” (Inferno). Boccaccio’s own
prior interpretation of this line is rather odd: Eran dannati i peccator
carnali, Che la ragion sommettono al talento, cioè alla volontà. E come che questo
si possa dire d’ogni peccatore inten- dere, per ciò che alcun peccatore non è
che non sottometta, peccando, la ragione alla volontà, vuol nondimeno l’autore
che per quel vocabolo “carnali” s’intenda singularmente per i lussuriosi. (Esposizioni V litt. 46)
Boccaccio, never very consistent when adopting others’ philosophical sys- tems
or terminology, seems to see no difference here between “will” and “desire.” He
seems to have no real understanding of the complexities of appetition. Perhaps
he was thinking of the passage in Dante’s Vita Nuova, where the poet admits to
a struggle between appetite (“cuore”) and reason (“anima”). Maybe he is using
“volontà” to stand for “voglia,” the term Meo Abbracciavacca uses when he
writes “e qual sommette a voglia operazione” (Contini, Poeti del Duecento,
Milan-Naples: Ricciardi). It is no surprise, therefore, to find that Boccaccio
now moves straight from his paraphrase of G. on love and will to a discussion
of whether Paolo, “atto nato ad amare” (Espo- sizioni V litt.) was obliged to
fall in love with Francesca. Boccaccio freely admits that Paolo is ‘flessibile,’
in other words easily swayed, be- cause of his complexion. It is the same concept Boccaccio applies to Dante’s
amorous disposition in the Chigi version of the Trattatello: “inchinevole molto
a questo accidente” (again a fairly Garbian formula), but when it comes to the
famous line: “Amor, ch’a nullo amato amar per- dona” (Inferno), the moralist
suddenly swings into action: Questo, salva sempre la reverenzia dell’autore,
non avviene di questa spezie di amore, ma avvien bene dello amore onesto
(Esposizioni V litt. 169) Here
Boccaccio is returning to the Aristotelian distinction between the three
varieties of love (Nicomachean Ethics VIII.3) with which he had prefaced his
discussion in the Esposizioni. There, he had indicated that the sensual love
indulged in by Paolo and Francesca is the morally inferior “amore dilettevole,”
where the pleasure principle is foremost. It is a defi- nition totally missing
from the Genealogie account of Cupid, even though it had been promised much
earlier. Now he claims that Francesca’s declaration of the inevitable
reciprocity of love is misplaced, for such reciprocity can only happen with
“amore onesto.” He backs this up with the definition to be found in Purgatorio
(where Statius’ love for Virgil causes a corresponding affection in the older
poet). But the lovers of Inferno V are seekers of pleasure only, not seekers of
goodness (the “amore onesto” of Aristotle). But why did Boccaccio, between the
Genealogie and the Esposizioni accounts, suddenly introduce the Aristotelian
distinction? What does it have to do with G.’s commentary? Once again,
Boccaccio has been searching around in the glosses, and has found that the next
argument G. engages in is concerned with is the dual nature of love. One is the
common definition: uno modo comuniter et large, secundum quod est quedam passio
per quam inclinatur et movetur appetitus in aliquam rem que videtur sibi bona
propter complacentiam eius, ratione cuiuscumque actus illius rei: et isto modo
non accipitur hic: nam amor est circa multa, de quo amore non est presens
intentio. Et de omnibus amicis ad invicem est hoc modo amor: quia amici amant
se ad invicem, et tamen non amant se amore de quo est hec presens intentio; et
potest etiam esse amore in uno respectu alterius, et tamen non erit amicitia
inter eos: omnis enim qui est amicus alicui amatur ab illo, sed non omnis qui
amat aliquem amatur ab illo; et ideo, licet omnis amicitia sit cum amore, non
tamen omnis amor est cum amicitia. (Favati) [one way commonly and widely
defined, according to which it is a certain passion by which the appetite is
inclined and moved towards something which seems good to it on account of its
pleasurability, by reason of whatever agency of that thing: and it is not
accepted in this way here: for love concerns many things, about which love it
is not Guido’s present intention to speak. Concerning all mutual friends, love
is of this kind: for friends love each other reciprocally, and yet they do not
love each other with the kind of love which is the topic here; and it can be a
question of love in one regarding the other, and yet there will not be
friendship between them: for everybody who is a friend to somebody is loved by
that other person, but not everybody who loves somebody is loved by that
person, and so, even if every friendship is with love, not every love is with
friendship.] In his round-about way Dino is dealing here with the distinction
between love “per concupiscentiam” [for desire’s sake] and “per amicitiam” [for
friendship’s sake]. The first is properly the subject of Guido’s canzone,
whereas the second is Aristotle’s true friendship, what Boccaccio calls “amore
onesto.” Dino’s purpose is to go on to define the pathology of the illness that
derives from amorous excess, the so-called “ereos,” richly in- vestigated by
Massimo Ciavolella (La “Malattia d’Amore” dall’Antichità al Medioevo, Rome:
Bulzoni, 1976) and before that by John Livingston heliotropia.org /02-01/ usher
Heliotropia heliotropia.org Lowes (“The
Loveres Maladye of Hereos,” Modern Philology). Boccaccio, uninterested in the
minutiae of such medical matters (though he refers to them in his Valerius
Maximus inspired episode of Giacchetto Lamiens in the novella of the Count of
Antwerp (Decameron), retains the distinction but uses it for a moral purpose.
Paolo and Francesca were free to retreat from their passions, as theirs was an
“amor dilettevole.” Their obstinate refusal to avail themselves of the free-
dom of choice inherent in the birth of such sensual passion led to their
damnation. This issue of free will clearly exercised Boccaccio, for he re-
turns to it belatedly in the allegorical exposition to the canto. The com-
mentator has been explaining why carnal sinners, guilty of excess in what is
otherwise a natural process, are punished more lightly than the other damned
souls, in a circle further from the pit of hell and nearer to God. He then has another go at defining the relative roles
of astrological disposition and free use of the rational faculty of choice:
L’origine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia
nell’attitudine a questa colpa datane da’ cieli; la quale parrebbe ne do- vesse
da questo scusare, se data non ci fosse la ragione, la quale ne dimo- stra quel
che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero albi- trio, nel
quale è podestà di seguire qual più gli piace. (Esposizioni V all. 78) But this moralistic view of
erotic passion, prompted by a public reading of the Paolo and Francesca episode
and shaped, selectively, by G.’s glosses to Cavalcanti’s canzone, represents a
very late position, beginning with the first redaction of the Genealogie, and
perhaps impli- citly coeval with some of the thinking behind the remedia amoris
of the Corbaccio. Boccaccio’s earlier allusions to the Inferno V episode seem
to show, instead, that the involuntary nature of love, propounded by Fran-
cesca, prevails. In the Filostrato, for instance, after much sighing and
tearful pillow-soaking, Troiolo finally admits to his friend Pandaro the cause
of his melancholy: he has fallen in love. Boccaccio’s writing at this point is
saturated with reminiscences of the Paolo and Francesca passage from Inferno V.
Troiolo is grateful that Pandaro is inclined to hear of his “martiro,” rhymed
with “sospiro” (Dante: “sospiri” and “martiri”) and is responding to Pandaro’s
“priego” since he is incapable of opposing a “nie- go” (Dante: “priega” and
“niega”). Troiolo then indicates how love took
over: Amore, incontro al qual chi si difende più tosto pere ed adopera in vano,
d’un piacer vago tanto il cor m’accende, ch’io n’ho per quel da me fatto
lontano ciascheduno altro, e questo sì m’offende, (Filostrato) This is a clear
echo of Francesca speaking of how love “al cor gentil ratto s’apprende e ’l
modo ancor m’offende” (Inferno). Boccaccio in paraphrasing “Amor, ch’a nullo amato amar
perdona” here, further em- phasises the involuntary nature of such passion. The
same emphasis can be seen in the Filocolo: in the “court of love” in book four,
Clonico has asked the queen for a judgment on whether an unrequited or a
jealous lover should be more pitied. The
queen passes sentence, saying that the unrequited lover will finally get his
reward, for true love induces inevitable reciprocity in the beloved: ché, ben
che ella si mostri verso voi acerba al presente, e’ non può essere ch’ella non
vi ami, però che amore mai non perdonò l’amare a niuno amato. (Filocolo IV.38.11) The same
concept lies behind that other enamourment clearly inspired by Dante’s Paolo
and Francesca, the Ovid-inspired passion of Florio and Biancifiore in Filocolo
II: their love, too, is caused by Cupid’s agency, they too are apparently
coerced by mutual delight. Florio
clearly considers that such a situation is universal, and affects not only
mortals but gods: Padre mio, sì come voi sapete, né il sommo Giove né il
risplendente Apollo, da voi ora davanti ricordato, né alcuno altro iddio ebbe
all’amorevole passione resistenza; né tra’ nostri predecessori fu alcuno tanto di
virile forza armato, che da simile passione non fosse oppresso. (Filocolo) But perhaps the
most memorable examples of such love apologies come in the Decameron. In the novella of the count of Antwerp, the queen of
France lays bare her passion for the count: Egli è vero che, per la lontananza
di mio marito non potendo io agli sti- moli della carne né alla forza d’amor
contrastare, le quali sono di tanta potenza, che i fortissimi uomini non che le
tenere donne hanno già molte volte vinti e vincono tutto il giorno, essendo io
negli agi e negli ozii ne’ quali voi mi vedete, a secondare li piaceri d’amore
e divenire innamorata mi sono lasciata correre. (Decameron) Though the power of love is emphasised, a
subtle change has now taken place. We now get at least a fleeting admission
that an element of volition was involved (“mi sono lasciata correre”). When we
come to look at the famous justification of Ghismonda, caught in flagrante with
Guiscardo by her jealous father (Decameron), we see the same refined con-
cession. Her speech begins with a reminiscence of the Paolo and Francesca
episode, audible in the pairing “né a negare né a pregare sono disposta.” Ghismonda, at various points, then outlines the sheer
power and durabil- ity of the passion which has overtaken her: Egli è il vero
che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amer e se
appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo. (Decameron) Though the
wording has been altered, the influence of Francesca’s per- during love in
Inferno V is clear: “ancor non m’abbandona” and “che mai da me non fia diviso”.
But then the speech gets down to detail.
It is Ghismonda’s youthful appetite, whetted by previous marriage and now
enforced celibacy, which causes her to cede to her desires: Sono adunque, sí
come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che an- cor son giovane, e per
l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disi- dero, al quale
maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stato maritata,
conosciuto qual piacer sia a così fatto desidero dar com- pimento. Alle quali
forze non potendo io resistere, a seguir quello che elle mi tiravano, sí come
giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. (Decameron) Yet, here again, we can see that Boccaccio
clearly imagines there to be a moment of decision, an instance of rational
choosing, even if the flesh (and the sensitive faculties) are predisposed to
“incur such passion.” To sum up then, the evidence for Boccaccio having read
Dino del Garbo early on in his career, earlier than the Teseida, is quite
strong. The gloss on “Donna me prega” is not associated, as one might imagine,
with an interest in Cavalcanti’s vernacular verse, but rather with its
availability as a con- venient manual, accessible to a non medical scholar, on
the “maladye of hereos.” For this reason, perhaps, it became associated with
Boccaccio’s constant re-reading of the Paolo and Francesca episode from Inferno
V. What changed over time was the quality of Boccaccio’s reading of Dino,
starting from an opportunistic level, where the distinction between Capel-
lanus and Del Garbo is hardly felt, and ending with an interpretation which
consciously develops the potential in Dino’s understanding of the role of the
will. The moment of transition, however timid, seems to take place in the years
of the Decameron. Grice: “So here is charming Cavalcanti writing a charaming
love lyrics (Donna mi preigha) and Garbo in his worst Aristotelian jargon
destroying it. I dealt with Blake (“love that never told can be”) and the best
thing is to leave poetry to poets (cf. Austin rebuffing Nowell-Smith’s
inability to understand Donne). The physiology of love is beyond philosophy. But
in philosophy, unlike any other discipline, we respect history, and the
longitudinal history of philosophy ensures that every philosopher will be
familiar with the idiocies Plato makes Socrates says in Convitto about Cupido,
Cupidine, Amore, Eros, Erote, Anterote, and Mars, qua symbol of maleness. In
Italy they were concerned about astrology. Since the future queen of Naples had
been born under the House of Mars, she will possibly be a whore!” -- Aldrobrandino Del Garbo. Garbo. Keywords: appetitus, appetitus sensitivo –
spiegatura dell’amore in termine aristotelichi – amare, sentire, il patico –
fornicazione – latino/volgare – Boccaccio – Petrarca – Alighieri – Cavalcanti
--. de militia complexionis diversae, eros, amore, malattia, Aristotele,
passione, ragione, appetite sensitive, amore, sentire – re-cognosenza da parte
dell’amato dell’amore dell’amante – via senso? Marte – self-love, other-love,
amore proprio, amore a se stesso, amore all’altro. Refs.: Luigi Speranza,
“Garbo e Grice: amore, passione, implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Gargani: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo e Niso; ovvero,
dell’empatia – filosofia genovese – la scuola di Genova -- filosofia ligure -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Genova).
Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice:
“I like Gargani; many of his essays are pretty interesting: he’s written on the
‘sense’ of ‘true,’ and on the ‘endless phrase,’ – la frasse infinita – which
according to Griceian principles, must rely on implicature, since it involves a
communicational impossibility!” -- «È un fatto che gli uomini hanno prodotto
assai più cose di quanto siano propensi ad ammettere; ma ciò che essi hanno
eretto nella forma di costruzioni concettuali elevate e sublimi, come se
fossero separate dal caso e dal disordine, corrisponde ad un uso che essi hanno
fatto della propria vita.” Si laurea a PISA sotto BARONE (si veda).
Collaborando con Lepschy, allora professore all'University College di Londra, e
conducendo le sue ricerche al Queen's sotto la guida di Geordie McGuinness. È
stato il massimo studioso italiano di Vitters, e ha contribuito alla diffusione
della filosofia di D. F. Pears. I suoi ambiti di studio sono stati
prevalentemente la filosofia del linguaggio, l'estetica, l'epistemologia, e la
psicoanalisi. Di particolare interesse è anche il suo tentativo di una
scrittura filosofica narrativa, come in Sguardo e destino” (Laterza,
Roma-Bari); “L'altra storia” (il Saggiatore, Milano); Il testo del tempo”
(Laterza, Roma-Bari). Altre opere:
“Esperienza in Vitters” (Le Monnier, Firenze); “Hobbes” (Einaudi, Torino);
“Vitters” (Laterza, Roma-Bari); “Il sapere senza fondamenti. La condotta
intellettuale come strutturazione dell'esperienza commune” (Einaudi, Torino );
“Vitters a Cambridge” (Stampatori Editore, Torino); “Kafka” (Guida, Napoli);
“Lo stupore e il caso” (Laterza, Roma-Bari); “La frase infinita” (Laterza, Roma-Bari); “Il
coraggio di essere” (Laterza, Roma-Bari); “Stili di analisi” (Feltrinelli,
Milano); “L'organizzazione condivisa. Comunicazione, invenzione, etica”
(Guerini, Milano); “Il pensiero raccontato” (Laterza, Roma-Bari); “Una donna a
Milano” (Marsilio, Venezia); “Il filtro creative” (Laterza, Roma-Bari); “Dalla
verità al senso della verità” (Plus, Pisa); “Mondi intermedi e complessità”
(Ets, Pisa); “Il gesto” (Cortina, Milano); “La filosofia della cura” (ASMEPA
Edizioni, Bentivoglio); “L'arte di esistere contro i fatti” (Lamantica
Edizioni, Brescia); “Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere
e attività umane” (Einaudi, Torino). Altri contributi Relazione d'aiuto,
sintonia comunicativa e organizzazione sociale, in Il vaso di Pandora, Dialoghi
in psichiatria e scienze umane, Fondazionalismo e antifondazionalismo, Relativismo
e nuovi paradigmi filosofici, Inquietudine, empatia, identità e narrazione
(Pordenone). Eurialo e Niso coppia di amici, guerrieri troiani nella mitologia
greca e nell'Eneide di Virgilio Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sugli argomenti mitologia romana e personaggi immaginari
non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Eurialo e
Niso Nisos Euryalos Louvre LL450 n2. jpg Eurialo e Niso di Roman, Louvre
SagaCiclo Troiano ed Eneide Nome orig.Euryalus e Nisus Epitetoinsigne per
bellezza (Eurialo), fortissimo in armi (Niso), Irtacide (patronimico di Niso)
1ª app. inEneide di Virgilio, I secolo a.C. circa (Eurialo) Sessomaschi
Luogo di nascitaTroia (Eurialo), monte Ida (Niso) Eurialo e Niso (in latino
Euryalus e Nisus) sono due personaggi che compaiono in due episodi dell'Eneide di
Virgilio. Guerrieri profughi di Troia, costituiscono un grande esempio di
amicizia e di valori che Virgilio teneva a riportare in vita con la sua
opera. Il particolare rapporto che li lega è definito dall'autore
"amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena
manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità
omoerotica. Non è l'unico caso nel poema: anche tra gli italici nemici dei
troiani vi è una coppia siffatta, quella costituita dai due giovani latini
Cidone e Clizio. Il mito Appresentossi in prima Eurïalo con Niso. Un
giovinetto di singolar bellezza Eurïalo era; e Niso un di lui fido e casto
amico.» (Virgilio, Eneide, traduzione di A. Caro, V, 425-428) Eurialo Eurialo
(figlio di Ofelte, un troiano morto durante la guerra di Troia nonché lontano
parente di Priamo) è il più giovane dei due amici, poco più che un fanciullo, e
con la sua grande bellezza riesce sempre a ottenere il favore degli
altri. Partecipa alla gara di corsa a piedi durante i giochi funebri per
Anchise, nel quinto libro dell'Eneide, a fianco dell'amico Niso e riesce a
vincerla grazie all'aiuto del compagno. Nonostante le proteste di Salio, un
altro corridore, che è inciampato a causa di Niso, Eurialo sfrutta le sue
lacrime e il suo bell'aspetto per far sì che gli spettatori parteggino per
lui. Nel nono libro affianca nuovamente Niso nel tentativo di raggiungere
Enea, passando per l'accampamento dei Rutuli addormentati. I due giovani, approfittando
dell'occasione favorevole, compiono un'ingente strage di nemici. L'inesperienza
di Eurialo si dimostra quando il giovinetto ruba nell'accampamento nemico
diversi oggetti di valore, tra cui uno splendido elmo. Saranno proprio quei
trofei a mettere a repentaglio la vita di Eurialo; da una parte il riflesso
dell'elmo attirerà l'attenzione del nemico Volcente sui due compagni,
dall'altra il peso del bottino ostacolerà il giovane in fuga dai soldati
nemici. Eurialo muore trafitto dalla spada dello stesso Volcente in un bosco
vicino all'accampamento rutulo. In quel momento Virgilio richiama alla
mente un altro paragone con il candido corpo esanime di Eurialo, ossia
l'immagine di un fiore purpureo reciso da un aratro o un papavero che abbassa
il capo durante la pioggia. NisoModifica Niso appartiene a una famiglia
illustre: è infatti figlio - al pari di Ippocoonte e dell'omerico Asio - del
nobile troiano Irtaco che aveva sposato Arisbe, la moglie ripudiata da Priamo,
chiamata anche Ida. Egli è, rispetto a Eurialo, più maturo ed esperto, avendo
combattuto insieme ai fratelli nella guerra di Troia. Nel poema è ricordata tra
l'altro la sua passione per la caccia, trasmessagli da entrambi i genitori.
Compare per la prima volta nel quinto libro al fianco di Eurialo nella gara di
corsa, in cui scivola, ma aiuta il compagno a vincere grazie a uno
stratagemma. Successivamente, nel nono libro, Niso si fa avanti per
uscire dall'accampamento dei troiani assediati dai Rutuli e raggiungere Enea,
ma Eurialo vuole seguirlo. Dapprima Niso non acconsente ritenendo il ragazzo
non ancora pronto per affrontare un'impresa tanto rischiosa, ma, data la sua
insistenza, parte con lui. Entrato nel campo nemico, Niso vi uccide parecchi
giovani italici sopraffatti dal sonno, dal vino e dall'inesperienza, imitato
poi da Eurialo. Tenterà invano di salvare l'amico fatto prigioniero dai
cavalieri di Volcente. Il suo affetto per il giovinetto lo spinge a vendicarne
la morte; egli riuscirà nell'intento cadendo però a sua volta. Quinto
libro - La gara di corsaModifica La prima apparizione di Eurialo e Niso risale
al quinto libro dell'Eneide, durante la gara di corsa a piedi svoltasi a Erice
nei giochi in onore di Anchise, il defunto padre di Enea. L'episodio è peraltro
tratto dalla gara avvenuta nell'Iliade fra Odisseo, Aiace d'Oileo e Antiloco,
vinta da Odisseo. Niso si porta in testa, ma scivola inavvertitamente su una
pozza di sangue sacrificale, probabilmente sparso da Eneaprima della
celebrazione dei giochi. A quel punto Salio, un altro partecipante, tenta
di correre per il primo posto, ma Niso, mosso da un profondo affetto per
l'amico, fa uno sgambetto all'avversario che finisce a terra. Di
conseguenza Eurialo sorpassa Salio e vince la gara. Irritato per la
vittoria ingiusta di Eurialo, Salio si lamenta da Enea, ma il pubblico,
commosso dal pianto e dal bell'aspetto di Eurialo, parteggia per il
giovinetto. Enea consegna comunque un premio di consolazione a Salio e a
Niso, rispettivamente una pelle di leone africano e uno scudo forgiato da Didimaone,
e offre al giovane vincitore il premio che gli sarebbe spettato di diritto,
ossia un cavallo con borchie. Nono libro - La sortita notturna e la morte
dei due giovaniNella sortita notturna del nono libro, Virgilio s'ispira a
quella di Diomede e Ulisse nel decimo libro dell'Iliade, dove i due achei
sorprendono nel sonno il giovane re trace Reso e dodici suoi guerrieri.
L'esercito di Turno sta cingendo d'assedio la cittadella dei Troiani sbarcati
nel Lazio; Enea, alla ricerca di alleati, si è recato tra gli Etruschi. Niso si
propone di uscire per andare a raggiungere Enea e avvertirlo del pericolo
imminente, ma Eurialo vuole rimanere al suo fianco, pur sapendo di essere
ancora molto giovane per un'impresa così rischiosa e di poter avere ancora una
lunga vita davanti a sé. Dopo aver ricevuto il consenso dei compagni riguardo
alla loro proposta, Eurialo e Niso si preparano a partire per la loro missione.
Ascanio, il figlio di Enea, promette loro grandi premi, tra cui tazze e
cucchiai d'argento, cavalli, armature, donne e schiavi, mentre gli altri
troiani li equipaggiano con armi adatte all'impresa. I due amici
penetrano nel campo dei Rutuli addormentati. Niso mette al corrente Eurialo
della sua intenzione di farne strage e passa immediatamente all'azione,
aggredendo un amico intimo di Turno, il borioso re e augure Ramnete, che stava
russando nella sua tenda su un cumulo di sontuose stuoie, e con la spada lo
colpisce alla gola; introdottosi quindi negli alloggiamenti di Remo, altro
importante condottiero italico, sgozza l'auriga disteso sotto i cavalli per poi
staccare la testa al suo signore coricato nel letto e ancora al bellissimo
giovinetto Serrano riverso a terra nel suo sonno di ubriaco dopo aver dedicato
al gioco dei dadi buona parte di quella che sarebbe stata la sua ultima notte.
Questi sono i più noti tra i numerosi guerrieri che finiscono vittime di
Niso. Anche Eurialo non resiste alla tentazione di uccidere qualche
italico; un certo Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di nascondersi
dietro un cratere, ma viene ucciso proprio da Eurialo. A questo punto Niso
esorta il compagno a cessare la strage; i due troiani escono dal campo nemico.
Eurialo porta via con sé alcuni oggetti di valore, tra cui l'elmo di Messapo
(un alleato italico dei Rutuli, che non è tra le vittime). Proprio per la
vanità di Eurialo i due amici vengono avvistati da un drappello di trecento
maturi cavalieri rutuli guidato da Volcente; accade infatti che i bagliori
dell'elmo e il suo vistoso pennacchio attirino l'attenzione dei nemici, che
incominciano allora a inseguire la coppia di troiani, rifugiatasi nel
bosco. Gli uomini di Volcente si sparpagliano quindi attraverso passaggi
sconosciuti a Eurialo e Niso, che cercano una via di fuga.
Improvvisamente Niso si ritrova da solo e, correndo a ritroso per cercare
l'amico, lo vede circondato da soldati italici. A quel punto, disperato,
scaglia le sue armi contro i nemici e riesce a uccidere Sulmone e Tago, due
cavalieri di Volcente, il quale, non capendo chi possa essere l'autore di
quelle uccisioni, si scaglia su Eurialo con la spada, trafiggendolo
mortalmente. (LA) «Talia dicta dabat; sed viribus ensis adactus
transabiit costas et candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto,
pulchrosque per artus it cruor, inque umeros cervix conlapsa recumbit:
purpureus veluti cum flos succisus aratro languescit moriens lassove papavera
collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. Mentre così dicea, Volscente
il colpo già con gran forza spinto, il bianco petto del giovine trafisse.
E già morendo Eurïalo cadea, di sangue asperso le belle membra, e
rovesciato il collo, qual reciso dal vomero languisce purpureo fiore, o di
rugiada pregno papavero ch'a terra il capo inchina. -- Trad. Caro. Niso allora
grida disperato e si scaglia con tutta la sua violenza contro Volcente,
conficcandogli quindi la spada nella bocca spalancata e uccidendolo. Il giovane
viene però attaccato dagli altri soldati presenti e, morendo, si getta
sull'amico e si dà finalmente pace. At Nisus ruit in medios solumque per
omnis Volcentem petit in solo Volcente moratur. Quem circum glomerati hostes
hinc comminus atque hinc proturbant. Instat non setius ac rotat ensem
fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam
abstulit hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque
ibi demum morte quievit. In mezzo de lo stuol Niso si scaglia solo a
Volscente, solo contra lui pon la sua mira. I cavalier che intorno
stavano a sua difesa, or quinci or quindi lo tenevano a dietro. Ed ei pur
sempre addosso a lui la sua fulminea spada rotava a cerco. E si fe'
largo in tanto ch'al fin lo giunse; e mentre che gridava, cacciogli
il ferro ne la strozza, e spinse. Così non morse, che si vide
avanti morto il nimico. Indi da cento lance trafitto addosso a lui,
per cui moriva, gittossi; e sopra lui contento giacque.» (Caro)
Conseguenze della morte di Eurialo e NisoModifica Sùbito dopo la morte di
Eurialo e Niso, Virgilio interviene nella narrazione, assicurando ai due amici
un eterno ricordo da eroi tragicamente sconfitti: Fortunati ambo! Siquid
mea carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit. Fortunati
ambidue! Se i versi miei tanto han di forza, né per morte mai, né per tempo
sarà che 'l valor vostro glorïoso non sia, finché la stirpe d'Enea possederà
del Campidoglio l'immobil sasso, e finché impero e lingua avrà l'invitta e
fortunata Roma. (Caro) I corpi esanimi di Eurialo e Niso vengono portati
all'interno dell'accampamento rutulo, e quivi sottoposti a decapitazione.
Le teste recise dei due giovani vengono quindi conficcate su lance e portate
davanti al presidio troiano con grande clamore. In seguito la Fama
avverte la madre di Eurialo della morte del figlio. Ella, sconvolta dalla
notizia, corre fuori di casa strappandosi i capelli e urlando. Ha così inizio
un commovente discorso in cui sembra rimproverare il figlio per non averla
nemmeno salutata per l'ultima volta prima di partire per la sua pericolosa
missione, e rimpiange di non aver potuto guidare le sue esequie e rivedere il
suo corpo. La donna sembra non aver più nemmeno la forza di vivere e
implora di essere uccisa dai Rutuli, trafitta dalle loro frecce. L'ultima
memoria a Eurialo e Niso è offerta dai troiani che li rimpiangono con gemiti e
lacrime e riportano in casa la madre di Eurialo. Vittime di Eurialo e
Niso Vittime di Eurialo Le vittime di Eurialo, tutte uccise nel campo dei
Rutuli, sono perlopiù anonime; fanno eccezione: Abari Erbeso Fado Reto
(l'unico che non viene ucciso nel sonno). Colpito di spada al petto, muore
vomitando l'anima insieme al vino e al sangue. Vittime di Niso Cavalieri uccisi
in scontro aperto: Sulmone, colpito mortalmente da un dardo al petto
Tago, ucciso con un dardo che gli trapassa le tempie Volcente, il comandante,
cui Niso conficca la spada nella bocca spalancata Guerrieri sorpresi nel sonno:
Ramnete, augure e re italico Remo, condottiero rutulo Lamiro e Lamo, guerrieri
rutuli al seguito di Remo Serrano, giovanissimo guerriero rutulo famoso per la
sua bellezza, anch'egli al seguito di Remo In questo elenco vanno aggiunti i
tre servi di Ramnete e l'auriga di Remo: ma il verso «armigerumque Remi premit
aurigamque sub ipsis, da alcuni tradotto sopprime l'auriga ed armigero di Remo
è da intendersi per altri come sopprime lo scudiero di Remo e l'auriga, quindi
il numero complessivo delle vittime di Niso può variare da 12 a 13. In ogni
caso Niso è, dopo Enea e Turno, il guerriero che uccide più nemici nel poema; e
tra gli italici che egli sorprende nel sonno sono ben quattro quelli che
subiscono la decapitazione, ovvero Remo, Lamiro, Lamo e Serrano. Virgilio
mette anche un certo Numa tra gli italici uccisi nel sonno, ma solo nella
sequenza che descrive la scoperta della strage. Per molti studiosi il punto in
questione sarebbe uno dei tanti sfuggiti alla revisione definitiva dell'opera:
e poiché Numa viene citato insieme a Serrano, si pensa che il poeta abbia
scritto erroneamente "Numa" in luogo di "Lamo" o
"Remo". Peraltro in un passo del libro X il nome Numa ritorna,
insieme a quelli di Volcente e Sulmone: quest'ultimo viene detto padre di
quattro giovani guerrieri catturati da Enea, che poco dopo appunto uccide, in
mezzo ad altri nemici, un guerriero chiamato Numa, e il figlio di Volcente,
Camerte, biondo signore di Amyclae. Raffronto con l'IliadeModifica Nel
compiere la strage, i due giovani vengono paragonati dal poeta a un leone
vorace che entrato in un ovile affonda i denti sulle inermi pecore; la similitudine
proviene dal modello omerico con la strage dei Traci. La pagina del massacro
compiuto dalla coppia troiana si caratterizza però soprattutto per la presenza
di particolari cruenti, come l'immagine di Reto che vomita la sua anima intrisa
del vino bevuto, e le decapitazioni operate da Niso (Diomede riserva questo
trattamento a Dolone e non ai Traci addormentati); il giovane eroe tuttavia si
astiene dall'incrudelire sulle teste recise delle sue vittime, divergendo in
questo da altre figure epiche (Agamennone e Achille nell'Iliade; Turno e lo
stesso Enea nell'Eneide). L'immagine di Eurialo morente, col giovinetto che
piega il capo come un papavero, è anch'essa mutuata dall'Iliade, ma richiama un
altro passo, quello dell'agonia di Gorgitione, uno dei figli di Priamo, ucciso
in battaglia da Teucro nell'ottavo libro del poema. Il testo virgiliano
contiene anche alcuni tratti di comicità nera (l'augure Ramnete, amante del
fasto, che non riesce a prevedere la propria morte; e l'uccisione del bizzarro
auriga di Remo, sorpreso mentre giace tra i suoi stessi cavalli). Benché
l'episodio della sortita notturna sia modellato su quella compiuta da Odisseo e
Diomede, i troiani presentano tratti che rimandano più ad Achille e Patroclo
per il rapporto che li unisce, ovvero quello di due guerrieri-amanti. In Niso
peraltro si può riscontrare una personalità molto simile a quella di suo
fratello Asio nell'Iliade, caratterizzata da audacia e irruenza; oltretutto
anche Asio soccombe dopo aver tentato di vendicare un commilitone caduto,
Otrioneo, al quale però non è sentimentalmente legato, così come non
risulterebbe avere un coinvolgimento erotico col proprio auriga, destinato a
perire subito dopo di lui. [1]. Interpretazione dell'episodio Affiora in
questi versi lo sgomento di Virgilio di fronte agli orrori della guerra, che
miete lutti su lutti. La guerra non è tra buoni e cattivi: i troiani cercano
una nuova patria, gli italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del
poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi
due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio
vanno incontro a morte prematura, non ci sono solo Eurialo e Niso, dato che i
guerrieri che i due troiani uccidono nel sonno sono più o meno loro coetanei:
in IX, 161-63 si dice infatti che Turno sceglie per l'assedio 1.400 giovani
(«bis septem Rutuli muros qui milite servent / delecti, ast illos centeni
quemque sequuntur /purpurei cristis iuvenes auroque corusci»). Gioventù che va
di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un
elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire
giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo
provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti:
guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete (che pur bollato dal poeta in
un primo tempo come superbus per l'ostentazione del suo doppio potere è uno
degli italici che Virgilio metterà tra le vittime maggiormente rimpiante
dall'esercito italico, essendo indiscutibile la sua amicizia per Turno), e
soldati di estrazione non nobile come Eurialo e Serrano. Fortuna
dell'episodio Nell'Orlando furioso di Ariosto i due soldati saraceni Cloridano
e Medoro compiono una sortita notturna nel campo dei cristiani per cercare il
cadavere di Dardinello, il loro signore caduto in battaglia, e vi uccidono
diversi nemici sorpresi nel sonno. Fin qui Ariosto segue Virgilio: diversa è la
conclusione, che vede soccombere il solo Cloridano, mentre Medoro è destinato a
essere salvato dalla bella Angelica; inoltre mancano descrizioni relative al
ritrovamento dei guerrieri uccisi nella strage. Eredità culturaleModifica
A Eurialo e Niso sono stati dedicati due crateri di Dione, uno dei satelliti di
Saturno. Massimo Bubola ha preso ispirazione dall'episodio virgiliano per una
sua canzone scritta in collaborazione con i Gang e da questi incisa in primis,
intitolata Eurialo e Niso, in cui si narra di due giovani partigiani - omonimi
della coppia di personaggi virgiliani - autori di una sortita notturna contro i
nazisti. Anche in questo caso la vicenda si conclude con la morte di entrambi
gli amici. Fonti VIRGILIO (si veda) Eneide. Asio è invece molto più legato al
principe troiano Deifobo, che subito dopo la sua morte decide di vendicarlo
Iliade (Monti) Voci correlateModifica Temi LGBT nella mitologia Irtaco Arisbe
Asio (figlio di Irtaco) Ippocoonte (figlio di Irtaco) Salio Volcente Cloridano
Medoro (Orlando furioso) Ramnete Remo (Eneide) Serrano (Eneide) Lamiro e Lamo
Reto Cidone e Clizio Decapitazione Reso. Eurialo e Niso Portale
Letteratura Portale Mitologia Scienza e filosofia della
complessità. Studi in memoria di G. A cura di Marinucci, Salvia, Bellotti
Collana “I Tempi e le Forme” (Carocci) G.: la filosofia come analisi delle
possibilità di Alfonso Maurizio Iacono Introduzione di Angelo Marinucci e
Stefano Salvia 1. Determinismo, linearità, prevedibilità. Il problema dei tre
corpi da Newton a Poincaré di Salvia Genesi e sviluppo di un problema
scientifico/La prima formulazione esplicita del problema Dalla geometria
analitica all’analisi algebrica/La controversia intorno a 1 r2 Il problema dei
tre corpi ristretto Il Sistema solare è stabile? Dall’analisi algebrica alla
meccanica analitica La meccanica razionale e l’analisi classica Il teorema di
Poincaré: limite invalicabile o nuovo spazio di possibilità? Il problema della
previsione in un sistema deterministico classico di Cintio Il problema dello
studio delle evoluzioni temporali/Sistema dinamico/Il determinismo e il
problema delle previsioni delle evoluzioni/ Evoluzioni caotiche/Dalle singole
orbite alle famiglie di sistemi Il problema della previsione e la dipendenza
sensibile dalle condizioni iniziali 3. Ordine e caos nella scienza moderna di
Fronzoni Introduzione La riscoperta del caos Le biforcazioni Coerenza e
autorganizzazione La turbolenza Stati coerenti localizzati: i solitoni La
sincronizzazione Coerenza e disordine nella meccanica quantistica Entropia e
complessità Network Conclusioni Su
Turing, gli algoritmi, le macchine, la prevedibilità di Bellotti Turing: una
brevissima biografia Una digressione: Penrose contro Turing Algoritmi Macchine
di Turing Un’osservazione finale: sulla prevedibilità del comportamento delle
macchine di Turing 5. Come il futuro dipende dal passato e dagli eventi rari
nei sistemi viventi di Longo Introduzione Storia e dipendenza dal cammino in
fisica: qualche confronto/La memoria: un esempio d’invariante storicizzato/Gli
osservabili biologici e le loro dinamiche evolutive Verso il futuro: sapere e
imprevedibilità/ Tracce invarianti di una storia/Spazi relazionali costruttivi
e invarianza Conoscenza del presente e invenzione del futuro/Il ruolo della
diversità e degli eventi rari Conclusione Possibilità e realtà tra fisica e
biologia di Angelo Marinucci Introduzione/Fisica classica La meccanica
quantistica La biologia Scienza e filosofia della complessità: Studi in memoria
di G., a cura di: Marinucci, Salvia, Bellotti, Carocci, Roma, Il volume
raccoglie i contributi, ampiamente elaborati, presentati al convegno
Possibilità al di là della determinazione. Matematica, fisica e filosofia della
complessità, tenutosi all’Università di Pisa in memoria di G.. Del filosofo
sono ben noti gli interessi filosofici per la questione, nata nella fisica
moderna e in altri saperi, dell’emergere – in sistemi complessi – di
possibilità che vanno, irriducibilmente, al di là della determinazione. Aldo
Giorgio Gargani. Gargani. Keywords:
Eurialo e Niso; ovvero, dell’empatia, scambio, organisazzione condivisa –
communicazione – implicatura come condivisa – empatia – d. f. pears --.
Mcguinness, Gargani on Grice – ragione – Treccani -- -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Gargani” – The Swimming-Pool Library. Gargani.
Luigi Speranza -- Grice e Garin: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del rinascimento – scuola di
Rieti – filosofia rietesi – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Rieti). Filosofo rietese. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Rieti,
Lazio. Grice: “Garin is a serious student of what we may call the longitudinal,
rather than latitudinal, unity of Italian philosophy! If ever there is one!” --
Italian philosopher, author of a very
rich, “La cultura filosofica del rinascimento italiano.” And “L’umanesimo
italiano” Grice was Lit. Hum. Oxon, so he knew. Linceo. Studia sotto Limentani. Frequenta il Liceo
classico Galileo. Si laurea sotto Limentani. Vari studi sull'Illuminismo che confluiranno
nel volume sui moralisti inglesi. Subito dopo la laurea sostenne e vinse il
concorso per insegnare nei licei, cosa che continuò a fare fino a quando vinse
la cattedra da ordinario all'università. Tra i commissari del concorso liceale
c'è GUZZO (si veda), una figura che costituirà un punto di riferimento per G.
quanto meno fino ai primi anni del dopoguerra. I suoi riferimenti culturali non
erano costituiti da intellettuali e politici come Gramsci, ma da filosofi di
matrice spiritualista e cattolica come Lavelle,
Senne, Castelli Gattinara di ZUBIENA (si veda), SCIACCA (si veda) e lo
stesso GUZZO (si vedea). Iscritto al Partito Nazionale, pronuncia al liceo di
Firenze una commemorazione a GENTILE (si veda). Una svolta nelle prospettiva
politica, filosofica e storiografica (le tre cose non vanno separate) si ha con
l'uscita dei Quaderni del carcere di Gramsci, che hanno fortemente influenzato
la sua filosofia nel costante riferimento alla concretezza del pensiero, e con
la pubblicazione delle Cronache di filosofia italiana, fortemente sollecitato
da Laterza. Storico della filosofia molto legato al rigore filologico e al
lavoro sui testi, rifiuta la definizione di filosofo. È tuttavia considerabile
tale proprio in virtù delle sue polemiche anti-speculative e come influente
teorico della storiografia filosofica. Insegna a Firenze. Si ttrasfere a PISA a
causa dei perduranti disordini della rivolta studentesca, di cui non condivide
le modalità di lotta e che considera espressione di astratto
rivoluzionarismo. La sua infaticabile avidità di letture filosofiche lo rende
consigliere prezioso. I lincei gli confere il Premio Feltrinelli per la
Filosofia. Altre opere: “Pico: vita e dottrina”; “Gl’illuministi inglesi. I
Moralisti; “Il rinascimento ITALIANO”; “L'Umanesimo ITALIANO”; “Medioevo e
Rinascimento”; “Cronache di FILOSOFIA ITALIANA”; “L'educazione in Europa”; “La
filosofia come sapere storico”; “La filosofia nel Rinascimento ITALIANO”; “La
cultura ITALIANA”; “Scienza e vita civile nel Rinascimento ITALIANO”; “Storia
della FILOSOFIA ITALIANA”; “Dal Rinascimento all'Illuminismo” “FILOSOFI ITALIANI”; “ Rinascite e
rivoluzioni”; “Lo zodiaco della vita”; “Tra due secoli”; “Cartesio”; “L’Ermetismo
del Rinascimento”; “Gli editori ITALIANI”; “La cultura del Rinascimento”. Ciò
non toglie che l'importanza della interpretazione del Rinascimento che G. ci dà
nei suoi scritti e ci documenta nelle sue edizioni, pubblicazioni, finissime
traduzioni di testi umanistici di ogni tipo (filosofico, politico, critico,
letterario) possa essere, senza iperbole, confrontata con l'importanza della
evocazione del Burckhardt» in Cantimori, Studi di storia, Torino, Einaudi, la
Repubblica, Mecacci L., La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile, Adelphi,
Milano, su lincei. Fondo G., Il percorso storiografico di un maestro, Firenze,
Le Lettere, Biondi, Dopo il diluvio. G., l'ombra di Gentile e i bilanci della
filosofia, in Un secolo fiorentino, Arezzo, Helicon,,Olivia Catanorchi e Valentina
Lepri, Dal Rinascimento all'Illuminismo (Atti del convegno Firenze), Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura,. Ciliberto, G.. Un intellettuale nel
Novecento, Roma, Laterza,. Raffaele Liucci, Quelle ombre sul delitto Gentile in
"Treccani Magazine", La Ghirlanda fiorentina e la morte di Gentile,
Adelphi, Milano, "Il Gramsci di G., in Archetipi del Novecento. Filosofia
della prassi e filosofia della realtà, Napoli, Bibliopolis, Umanesimo e
umanesimi. Saggio introduttivo alla storiografia di G., Milano, FrancoAngeli, Treccani
Enciclopedie Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Eugenio Garin, su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di G.. Quando con ritrosia è portato a
farne un sobrio bilancio, G. insiste a dire di essere stato soprattutto un
insegnante. Ho sempre insegnato, ripete. E insegnante lo è stato alla scuola
di avviamento al lavoro di Fucecchio, dei ragazzi di buona famiglia
delle Mantellate di Firenze, alle quali fa lezione sorvegliato da una
severa suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Cannizzaro di Palermo, poi di
quelli del Liceo Vinci di Firenze, mentre sostituiva uno dei suoi
maestri, SARLO (si veda), nell’insegnamento universitario di filosofia. Insomma,
sempre insegna e, come si dice, in ogni ordine di scuola dall’università
in giù. Non saprei dire di G. insegnante di liceo. Vorrei dire solo qualosa di
G. docente universitario. Credo che ognuno possa sostenere, e con
ragione, di aver conosciuto e di aver avuto un suo G.. Non già perché
egli avesse la facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo
volesse ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire
a quell’incontro con il proprio carattere, con la propria formazione, con
è scomparso G.. Al maestro fiorentino e alla sua opera la Biblioteca
Roncioniana aveva dedicato un convegno (cfr. Giornata di studi, omaggio a
G., Bollettino Roncioniano; del convegno sono poi usciti gli atti: G.. Il
percorso storiografico di un maestro, cur. Audisio e Savorelli, Firenze,
Le Lettere. Pubblichiamo qui un ricordo di G., che Tonini legge nela cerimonia
svoltasi in Palazzo vecchio, aha quale sono intervenuti il Sindaco di Firenze,
Domenici, Cacciali, Ciliberto, Luzi e Rossi. Il testo è apparso nella brochure
Per G., Napoli, Bibliopoli, edita a cura di Tonini e Franco, che si
ringraziano per averne acconsentito la ristampa in questa
sede. Tonini le proprie attese. In altre parole egli non intende
plasmare l’ascoltatore, ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno
doveva e poteva rispondere a suo modo, liberamente.Non che il suo insegnamento è
univoco, uguale dappertutto e per tutti. È un insegnante troppo navigato
per sapere che una cosa è far lezione al pupillo di filosofia assieme,
un’altra ai soli filosofi, come ci chiama, un’altra cosa ancora ai laureati e
laureandi. Sa bene che è diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno
di studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti,
ai cittadini, come spesso gli è capitato proprio qui nel palazzo vecchio della
sua Firenze. Cambiano i contenuti, mutano i toni, mai il carattere,
l’alta professionalità, medesima sempre la passione. G. non spezzetta mai
il pane della cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare o da
insegnare, lo sconosciuto pupillo che si presenta all’esame, l’amico e collega,
lo studioso straniero, il laureato, tutti meritano sempre la stessa
attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua produzione letteraria le
conferenze lincee e le lezioni al Collège de France stanno insieme agli
scritti, diciamo, d’occasione, senza che il lettore ne colga, se non con
l’aiuto di riferimenti bibliografici, la loro provenienza e la loro
destinazione. Niente gli è più alieno, fisicamente e metaforicamente,
dell’espressione prendere per mano. G. non prende per mano nessuno. Apre un
libro, i cui capitoli anda narrando di volta in volta. Un libro sempre nuovo.
Per chi sa apprezzarlo, quel libro conduce a altri libri, poi a una
collana, infine a una biblioteca, spesso la sua. Un libro somigliante a quello
di un autore a lui carissimo, Sterne, La vita e le opinioni di Shandy
[LIFE AND OPINIONS – GRICE], fatto di parentesi, di divagazioni apparenti,
di vie traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso
fino a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è
necessario per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un
libro ciascuno, per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi, se
volete, la propria strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E come con
un libro, ciascuno instaura con lui un rapporto individuale: per quanto
paradossale, la sua lezione non consentiva alcuna lettura corale, alcuna
possibilità di dispense, alcuna versione ufficiale. Considera la cultura,
lo ha scritto, la conquista di una più profonda coscienza di sé. E l’università
è cultura. In questo senso il suo non è mai stato un insegnamento
demagogicamente democratico, né si è mai considerato un missionario, né
ha considerato il proprio lavoro una missione. Piuttosto un funzionario, come
amò talora definirsi, civettando con il motivo del trasferimento della
sua famiglia a Firenze, che assicurava un viaggio su un treno sicuro,
tecnicamente aggiornato, ben condotto, ma che, al pari di un capotreno,
non era, e non si considerava, poi responsabile se i viaggiatori scendevano
alle stazioni intermedie e prendevano altre direzioni. Non credo si sia mai
sentito coinvolto nelle scelte altrui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur
avendone le doti, a essere il pifferaio fascinatore di candide giovinette
e di timidi giovinotti. Lo considera un tradimento, un traviamento del
suo compito, che è appunto, e solo, quello di insegnare la filosofia, di
insegnare a capirne la storia, di fare cultura, ma sempre altro da
convincere o da portare su una strada che non fosse già in qualche modo
segnata, e segnata individualmente, in chi lo ascolta. Un pescatore anche,
ma un pescatore che getta reti larghe e profonde nelle quali si aspettava che i
pesci entrassero spontaneamente, mai che venissero catturati. I suoi
pesci erano e dovevano essere pupillo non venivano infatti da un esame che ne
aveva certificato proprio la maturità? che egli considerava suoi pari,
almeno per quel che riguarda il cartesiano bori sens, la bona mens, la cosa più
diffusa e più equamente distribuita tra gli uomini, sì che la differenza
tra lui e noi riguardava, galileianamente, l’estensione del sapere, non la
capacità di comprendere. Il severo, severissimo G., che tanto spaventa le
matricole, è un benevolo confessore dell’ignoranza del suo pupillo. E quelli
più maturi imparavano subito che la migliore risposta alle domande che
fioccavano in aula era quella di confessarla subito quella ignoranza,
anche quando si era quasi sicuri della risposta -- ma chi è sicuro di
fronte a G.?. Certo, quell’estensione del sapere costituiva una barriera,
una differenza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una barriera
quantitativa, ci faceva credere, scalabile e riducibile, quasi come una
differenza di età, mai come un’inattingibile diversità, che mai si
trasformava in paternalistica condiscendenza. Quella barriera si sgretolava
nella generosa disponibilità a fornire indicazioni e libri, al reiterato
prestarsi a spiegare non solo le tematiche del proprio corso, ma a offrirsi
di guidare piccoli gruppi alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl)
dei corsi di altri colleghi che ci risultassero particolarmente
difficili. Il grande intellettuale non dimentica in nessuna occasione la sua
professione: non solo nel rigido adempimento dei suoi obblighi di docente,
nella proverbiale puntualità, nella scrupolosa preparazione dei corsi (i
‘bauli’ di libri che partivano anzitempo per la montagna), nella paziente e
tanto prodiga lettura dei capitoli delle tesi di laurea, nella curiosità
con cui ogni anno rinnovava l’incontro con i suoi giovani interlocutori.
Aveva trasformato una precoce vocazione in una professione, in un affetto per
il proprio lavoro, prima ancora che per chi dovesse usufruirne, in una
disciplina che scherzosamente at- [G. La lezione di un maestro
tribuiva alle lontane origini savoiarde, ma che forse è la chiave per cogliere
la sua straordinaria e mai dismessa operosità, la freschezza di ogni suo
intervento. G. non è mai stato altro cheun insegnante: poche, modeste e
occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergeno un’insofferenza e una
scontrosità imprevedibili nel professore, altrettanto rare quelle
istituzionali o editoriali e solo al termine, o quasi, della sua carriera
scolastica, nessuna, ovviamente, carica politica, in un uomo che ha, come
sa, una grande e perdurante passione civile, per la sua scuola, per la
sua città, per il suo paese. Credo che nulla gli è apparso più estraneo e
spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse un istituto, una
rivista o una cordata accademica. Di fatto non c’è mai stata una scuola
di G., ci sono stati, e ci sono, tanti che hanno studiato e si sono
laureati con lui, che lavorano con lui, che condivideno aspetti e momenti
del suo lavoro, che si sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti,
invidiamo gl’allievi di PRA, che il maestro raduna a S. Margherita o sul
lago di Garda, cui apre la Rivista critica di storia della filosofia, la
collana del centro milanese di storia della filosofia. O quelli di Paci, che si
ritrovano su aut aut, che si incontrano nelle edizioni del Saggiatore,
ricordiamo e riconoscemo quelli di Banfi o quelli emergenti di Geymonat, che
attendeno a imponenti opere collettive, e tanti altri che andano sorgendo
vicino e lontano. G. non ha nulla. Non ha mai diretto opere collettive, non ha
mai organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai collane editoriali.
Quando ciò è avvenuto con l’ISTITUTO NAZIONALE DEL RINASCIMENTO o con il
Giornale critico della filosofia italiana, tutto si è potuto e si può dire,
fuori che fossero espressioni di una scuola o di un gruppo che in lui si
riconoscesse o che in lui fosse riconoscibile. Neanche quando a PISA gli si è
offerta l’opportunità di cogliere ancora una volta una straordinaria e
entusiasta messe di studiosi, è venuto meno il carattere del suo
insegnamento. Lì, come in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha
mancato di offrire opportunità, un’occasione irripetibile, anzi,
generosamente resa disponibile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di
coglierla e di realizzarne le potenzialità, ma lasciando a ciascuno la libertà
di decidere, di interpretare quell’incontro, di farne ciò che voleva. Il
severo G. non rimprovera mai. Non gli è mai venuto in mente di
riprenderci, come capita al suo amico e collega CANTIMORI o a RAGIONIERI, se mancamo a una seduta di seminario e veniamo
sorpresi in biblioteca o, peggio, al bar. Ma neppure gli è venuto in mente
di TONINI portarci nello stesso bar a prendere un aperitivo o un caffè,
come capita spesso con Cantimori e occasionalmente con
Ragionieri. Non vuole essere né un padre, né un maestro di vita. Non
credo neppure che volesse additarci un modello. È piuttosto una lezione
di maturità, di piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso
rispetto dei ruoli, quella a cui ci chiama, e che per molti è anche la
prima. Il suo dovere è quello di insegnare, del nostro doviamo
rispondere noi. Scende dalla cattedra per aiutarci a leggere un testo,
per offrirci un’indicazione, per mostrarci un passo di un libro, sede tra
noi a discutere di Cartesio o di Platone, e la lezione puo proseguire nella biblioteca
di facoltà, o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber,
ma senza mai abdicare alla sua funzione. Non è mai sceso a
discutere con noi il corso, la sua organizzazione, le sue modalità. A
ciascuno il suo. Non discute le nostre scelte di vita, i propositi di
lavoro, le carriere. Li considera su un altro piano, nel quale
l’insegnante non dove né puo intromettersi: li accetta. Al massimo
inarcava le ciglia, come nei lavori che gli sottoponevamo, e continuamo
a sottoporgli, quando un impercettibile segno di lapis segnala i dubbi
e gl’errori di sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lascia
tutte, fuorché quella di insegnare, fuori dall’aula. Ë facile sapere come
la pensa, lo leggemo su Paese sera, sull’Unità, su Rinascita, lo seguimo nelle
Case del popolo, al Circolo di cultura, ma non si è mai innescata, con lui, una
forma qualsiasi di intesa, di complicità, oserei dire, che prescindesse
da quella unica e prevalente di insegnante e studente. G. ci ha lasciato
centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha insegnato come ricostruire
figure di pensatori grandi e piccoli, da ASTORINI a Cartesio, da CITTADINI
a PICO. Ha ricostruito squarci del nostro passato culturale e civile, da CROCE
a GENTILE, da GRAMSCI a LABRIOLA, da CAPPONI a VILLARI, ci ha dato
testi e momenti del nostro passato FILOSOFICO che hanno costituito e
costituiscono un’eredità operante, viva e vitale per ognuno che voglia fare
una professione simile alla sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è
purtroppo destinato a perdersi, quello che gli pareva più importante: la sua
lezione. Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola,
un’università che non c’è più. Non saprei dire se l’attuale, nella quale molti
di noi si trovano ora, sia migliore o
peggiore di quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di
potervi incontrare ancora un insegnante come G. L'insidia implicita nel
concetto stesso di genere letterario ha non di rado contribuito a falsare la
prospettiva necessaria a ben collocare la produzione filosofica dell’umanesimo.
Eta in cui vennero predominando preoccupazioni critiche, in cui tutta
l'attivita spirituale e impegnata a
costruire una respublica terrena, degna pienamente dell'uomo nobile, trova la
sua espressione piu alta in opere di contenuto in largo senso moralistico e di
tono retorico, in cui non solo si consegna un modo di concepire la vita, ma si
difende e si giustifica polemicamente un atteggiamento originale in ogni suo
tratto. Per questo chi voglia andar cercando le pagine esemplari dell’epoca, le
piu profondamente espressive, dovra rivolgersi,
non gia a testi per
tradizione considerati monumenti
letterari, ma alle opere in cui veramente si manifest6 tutto 1'impegno umano
della nuova civilta. Cosi, mentre chi prenda a
scorrere novelle umanistiche
non potra non
uscir deluso da
talune, piu che
imitazioni, traduzioni, o
meglio raffazzonamenti, di
modelli boccacceschi, quali
troviamo, tanto per esemplificare, in Fazio, pagine di insospettata bellezza, capaci di
colpire ogni piu
raffinata sensibilita, ci si
fanno incontro nei
trattati e nei
dialoghi di Bracciolini, e perfino
nelle opere d’un filosofo di professione, dall’andamento talora
scolasticizzante, qual e
Ficino. E proprio
Ficino nella Theologia platonica,
presentando gl’uomini travagliati
dalla malinconia della
vita e desiderosi
che tutto sia un
sogno (wforsitan non
sunt vera quae
nunc nobis apparent,
forsitan in præsentia
somniamus), defmisce nei
suoi particolari espressivi
un tema di
larghissima risonanza in
tutta la letteratura europea.
Sempre FICINO, nel Liber de Sole, pur
parafrasando talora
l’orazione famosa dell'imperatore GIULIANO, fissa i momenti
di quella lalda del
sole che, attraverso VINCI (si
veda), arriva fino all’inno ispirato di Campanella. VINCI
(si veda) rimanda esplicitamente all'apertura
del terzo libro
degli Inni naturali
del Marullo; ma
chi veramente, ancora
una volta, in
una prosa di
grandissimo impegno, ci offre
tutti i temi di quella si. L'omo nato nobile e in citta libera- come diii
PICCOLOMINI. FICINO, Opera,
Basilea, Petri. (Theol
plat.). lenne preghiera di
ringraziamento alia fonte
di ogni vita
e di ogni
luce, e proprio
Ficino. Del quale e la non
dimenticabile raffigurazione di
una tenebra totale,
ove e spento
ogni astro, che
fascia lungamente i
viventi, finche di
colpo il cielo
si apre per
mo- strare colui
che e sola
forma visibile del
Dio verace. E
ficiniana e 1'opposizione del carcere
oscuro e della luce di vita, della tenebra di
morte e dei germi
rinnovellati dalla luce
e dal calore
solare, in cui
si articolera il metro
barbaro di Campanella. Ma per rimanere agli
scritti d’un medesimo
autore, ALBERTI, non
grande imitatore del
BOCCACCIO, raggiunge invece
la sua piena
efficacia quando costruisce
i suoi dialoghi,
e sa essere
perfettamente originale pur
intessendoli di reminiscenze
classiche. Perfino la
tanto celebrata Historia
de Eurialo et Lucretia di Enea
Silvio perde tutto il suo colore innanzi alle pagine dei Commentarii'*e sono
piu facili a dimenticarsi i casi di
Lucrezia che non le stanze delle antiche regine divenute nidi di serpi, o le porpore dei
magistrati romani rievocate
fra Tedera che
copre le pietre
rose dal tempo,
o i topi che corrono la notte nei sotterranei di
un convento e il papa che caccia sdegnato i monaci negligenti. Per non dire di
quella feroce presentazione dei cardinali, fissati in ritratti nitidissimi con
rapide Imee mentre per
complottare trasferiscono
nelle latrine la
solennita del conclave.
Poggio consegna a
trattati di morale
narrazioni scintillanti di
arguzia, spesso molto
piu facete di
tutte le sue
Facezie. I mari
di Grecia percorsi
sognando d’Ulisse, il fasto
delle corti d'Oriente,
le belve africane,
i fiumi immensi, et
per Nilum horrifici
illi anguigeni crocodiliw,
si alternano a
discussioni erudite sulle
iscrizioni delle piramidi nelle
lettere agli amici
e nel taccuino
di viaggio di
quel bizzarro e
geniale archeologo che
fu Ciriaco dej Pizzicolli
d'Ancona. E forse
il grande Poliziano ha scritto
le sue pagine
piu belle nella
prolusione al corso
sugli Analitici primi
d' Aristotele e nella
lettera alPAntiquario sulla
morte del magnifico Lorenzo. Lettere
dialoghi e trattati,
orazioni e note
autobiografiche, sono i
monumenti piu alti
della letteratura del
Quattro cento, e tanto piu
efficaci quanto meno 1'autore si chiude nelle
i. «La novella era
un genere troppo
definite, troppo condizionato
nelle sue linee
essenziali da una
tradizione ormai piu
che secolare, perche
PICCOLOMINI (si veda) puo
eluderne il colorito
e gli schemi»
(PAPARELLI, Piccolomini, Bari,
Laterza). forme tradizionali,
quanto piii si
impegna nel problema
concrete che lo
preoccupa,1 o si
accende di passione politica
nel discorso e
nell'invettiva, o si
dimentica nella confessione
e nella lettera.
Poliziano, che della
produzione letteraria del
suo tempo fu
il critico piu
accorto e consapevole,
e che ha
dichiarato con grande
precisione i suoi
princlpi dottrinali nella
prefazione ai Miscellanea,
nella lettera al
Cortese e, soprattutto,
nella grande prolusione
a STAZIO (si veda) e
Quintiliano, ha visto
molto bene come
all’umanesimo sono intrinsiche
particolari maniere espressive. Proprio nelle
prime lezioni del
suo corso sulle
Selve di STAZIO (si veda), con
la cura minuta
che gli era
propria, si sofferma
a dissertare abbastanza
a lungo intorno
a due forme
letterarie tipiche, Fepistola
e IL DIALOGO, accennando insieme
al genere oratorio,
da cui gli
altri due si
distaccano pur non
senza svelare un'intima
parentela. L'epistola egli dice e
il colloquio con gl’assenti, siano
essi lontani da
noi nello spazio
oppure nel tempo:
e vi sono
due specie di
lettere, scherzose le
une, gravi e
dottrinali le altre --
altera ociosa, gravis
et severa altera. Ma
1'epistola deve essere
sempre i. In
una compilazione erudita
come i Dies
geniales di Alessandro
d'Alessandro la discussione filologica si inserisce con eleganza fra il
ritratto e il ricordo senza togliere a questi
alcuna grazia, cosi che la discussione di un testo classico si colloca
nella descrizione d’un compleanno del
Pontano o d’una cena di Barbaro,
o fa seguito a
una lezione romana
di Filelfo (cfr. CROCE,
Varieta di storia letteraria e civile, Bari, Laterza. A proposito del DIALOGO e dell'epistola
come forme caratteristiche dell'umanesimo e da
vedere quanto dice RttEGG, Cicero und der Humanismus,
Formate Untersuchungen über Petrarca und
Erasmus, Zurich, Rhein-Verlag,
anche se a
proposito della sua
tendenza a ricondurre
tutto a CICERONE e da tener presente
la nota che
CROCE stese appunto
sull'opera del Rxiegg
(Mommsen e CICERONE, in Varieta). II commento
del Poliziano e nel
ms. Magliab. vn, (Bibl. Naz.
Firenze). II testo in questione e a
c. 4V-5V (est
ergo proprie epistola,
id quod ex
Ciceronis (CICERONE (si veda)) verbis
colligimus, scriptionis genus quo certiores facimus absentes si quid est
quod aut ipsorum aut nostra interesse
arbitremur. Eiusque tamen et aliæ
sunt species atque
multiplices, sed duæ præcipuae altera
ociosa, gravis et
severa altera. Atqui neque omnis
materia epistolis accommodata
est. Brevem autem concisamque
esse oportet simplicis ipsius rei
expositionem, eamque simplicibus verbis. Multas epistolæ inesse convenit festivitates, amoris significationes, multa
proverbia, ut quæ communia sunt atque ipsi multitudini accommodata. Qui vero sententias venatur quique
adhortationibus utitur nimiis,
iam non epistolam,
sed artificium oratorium. Epistola velut pars altera
dialogi. maiore quadam concinnatione
epistola indiget quam
dialogus imitatur enim hie
extemporaliter loquentem at epistola
scribitur.] breve e concisa,
semplice, con semplici
espressioni, ricca di brio,
di affettuosita, di motti, di proverbi (amulta
proverbia, ut quae
communia sunt atque
ipsi multitudini accommodata). Nella lettera
deve prendere un
tono troppo sentenzioso
e ammonitorio, altrimenti
non si ha piu una lettera ma una elaborata orazione
-- iam non epistolam,
sed artificium oratorium.
L'epistola e come la battuta
singola, e die
rimane quasi sospesa, di un dialogo (velut pars
altera dialogi), anche
se deve essere formalmente piu
curata del dialogo,
che per essere
schietto deve imitare
IL DISCORSO IMPROVISATO, mentre l’epistola
e per sua natura
discorso meditato e scritto. In tal modo un carteggio viene ad essere un
dialogo compiuto e vario; e non va dimenticato
come proprio il curioso epistolario di Poliziano ci
offra un esempio caratteristico
di simili colloqui. Non a caso, con la sua
grande sensibilita critica, Poliziano
batte proprio su
queste forme: ad esse
infatti si puo
ricondurre quasi tutta la
piu significativa produzione latina
in prosa, poiche anche il diario,
il taccuino di viaggio, si
configura di continue
come lettera ad
un amico. Cosi, per
ricordare ancora
l’Itinerarium di Ciriaco
d'Ancona, noi vi
troviamo riportati di
peso i temi
e le espressioni
medesime delle epistole.]
stato detto, ma
non del tutto
giustamente, che l’umanesimo è una rivoluzione
formale. In verita la profonda
novita formale adere esattamente
a una rivoluzione sostanziale che facendo centro nella CONVERSAZIONE
CIVILE, nella vita civile, po- [Itinerarium: ego quidem interea magno visendi orbis
studio, ut ea quæ iamdiu
mihi maximæ curæ fuere antiquarum rerum monumenta undique
terris diffusa vestigare perficiam. Hinc ego rei nostrae gratia et magno utique
et innato visendi orbis desiderio. Epist.
Boruele Grimaldo (ins.
Targioni, Bibl. Naz. Firenze): cum
et a teneris
annis summus ille
visendi orbis amor
innatus esset. Del resto
tutta l’opera di
Ciriaco e una serie di variazioni di questo appassionato motivo: summus
ille visendi orbis amor,antiquarum
rerum monumenta vestigare, quæ in
dies longi temporis labe collabuntur litteris mandare. La sete di conoscere
il mondo, il bisogno di vincere spazio e
tempo, di riconquistare
ogni piu lontano
frammento d'umanita e
di sottrarlo alia
morte, e insieme
questo senso concrete
del passato trovano
in lui una
espressione singolare. Nella
medesima epistola a Bruni abbiarno in sieme notizia di un'iscrizione
inviata da Atene ex me nuper Athenis e della difesa di
Cesare contro Bracciolini spedita dall'Epiro ex
Epyro hisce nuper
diebus. Cosl, appunto, il
Riiegg, (der Humanismus ist
eine formale, nicht
eine dogmatische Revolution).
neva IL COLLOQUIO COME FORMA
ESPRESSIVA ESEMPLARE (GRICE, CONVERSAZIONE). E se la lettera deve essere
considerata velut pars
altera DIALOGI, l’attenzione
si polarizza sul
DIALOGO: ed IN FORMA DI DIALOGO e in
genere il trattato,
di argomento morale o politico o filosofico IN SENSO LATO,
che rispecchia la vita d’una umana respublica e traduce perfettamente questa
collaborazione voita a formare uomini ccnobili e liberi, che costituisce 1'essenza stessa
della humanitas rinascimentale. La quale celebrandosi nella
societa umana tende
a persuadere, a
far culminare ogni
incontro in una
trasformazione degli altri
attraverso una riforma
interiore raggiunta per
mezzo della politia
litteraria. Limiti e prolungamenti
del colloquio ci
appaiono da un
lato la notazione
autobiogranca, dall’altro il
pubblico discorso, 1'orazione,
che attraverso la
polemica arriva all'invettiva. I
cancellieri fiorentini, Salutati e Bruni, ci offrono esempi insigni di questo intrinsecarsi di
filosofia e politica, di questa prosa che dell’efficacia
e potenza espressiva si fa un'arma piu
valida delle schiere combattenti. La
lode famosa di Pio
II alla saggezza di Firenze, e ai
suoi dotti cancellieri le cui epistole
spaventano Visconti piu di
corazzate truppe di cavalleria, non e che la proclamazione del valore di
una propaganda fatta su un piano
superiore di cultura in una
societa educata ad accogliere e a
rispettare la superiorita della cultura. L'incontro di politica e
cultura a Firenze e a Venezia ritrova la valutazione della retorica di un Poliziano e di
un Barbaro, e giova a
definire un'epoca che cerca
i suoi titoli
di nobilta al di
fuori dei diritti del sangue. La VIRTÙ, che
non e certamente
un bene ereditato, e sempre
intelligenza, humanitas, e cioe consapevolezza e cultura. Anche quando, nelle discussioni non
infrequenti sull’argomento, si
riconosce il valore
della milizia, s’intende una
sottile dottrina, ove il valore
personale del capo e intessuto di
sapienza. Montefeltro e
poco ci importa
se il ritratto è fedele e
profondamente addottrinato, e sa
che i filosofi descrivendo
le battaglie possono
divenire anch'essi maestri dell’arte
della guerra. Alfonso il
Magnanimo reca seco al
campo una piccola
biblioteca, e pensa sempre a filosofi,
e sa che la parola bene
adoprata, ossia veramente espressiva, e
piu potente d’ogni esercito. C'è
appena bisogno di
ricordare che si
tratta dei titoli
delle opere di
Palmieri e di Guazzo. E
ancora il titolo di
un'opera significativa, quella
di Decembrio in
cui si rispecchia
la scuola di Guarino. II suo motto, racconta
Vespasiano da Bisticci, è
che un re non letterato e un asino coronato. II che non significa, si badi, che
ser Coluccio è un vuoto
retore, o Alfonso
un re da
sermone, ma che la cultura è,
essa, viva ed efficace
e umana, e perfetta
espressione di una
societa capace d'accoglierla. L'uomo
che nel linguaggio
celebra veramente se stesso -- l'uomo si
manifesta uomo essenzialmente nella
parola, come si costituisce in
pienezza definendosi attraverso
la cultura (le
litteræ che formano
la humanitas), cosi raggiunge
ogni sua efficacia mondana
mediante la parola
persuasiva, mediante la
retorica intesa nel
suo significato profondo di medicina
dell'anima, signora delle
passioni, educatrice vera
dell'uomo, costruttrice e
distruttrice delle citta. Tutto
e, veramente, retorica, sol
che si ricordi
ch, d'altra parte, retorica e umanita,
ossia spiritualita, consapevolezza, ragione,
DISCORSO di uomini; perche',
veramente, l’umanesimo, in
cui tutto è
inteso sub specie
humanitatis, e humanitas e UMANO COLLOQUIO, ossia
tutto il regno
delle muse figlie di Mnemosine
che e il piu vero e il piu bello
dei miti. Con semplicita
francescana frate Bernardino
da Siena, che
vede in ser Coluccio
un maestro e
in Bruni un
amico, scrive cristianamente le
medesime cose. Non aresti
tu gran piacere se tu vedessi o udissi predicare Gesu
Cristo, san Paulo, GREGORIO (si veda), santo
Geronimo o santo
Ambruogio? Orsu va,
leggi i loro
libri, qual piu
ti piace e
parlerai con loro,
ed eglino parleranno
teco; udiranno te e tu udirai
loro. E, come dice altrove,
le lettere ti
faranno signore. II
grande Valla parlera di
un sacramentum il modesto
Bartolomeo della Fonte dira
di un divinwn
mimen: quel nume che da
agl’uomini anozze e tribunali
ed are. Per questo le
litteræ sono una
cosa terribilmente seria,
e la responsabilita di
un termine bene usato
e gravissima, e non v'e
posto per Fozio. Per questo la
poesia in senso vichiano e da cercarsi
la dove si traducono
e si consegnano
i discorsi essenziali
per la vita
dell’uomo. Cosi FLORA, Umanesimo,
Letterature moderne, Ecco secondo
Fonzio quello che
ottiene la parola:
fidem inter se
homines colere, matrimonia inire, seque
in una mœnia
cogere viribus eloquentiæ
compulit. Per tal modo quella
poesia che talora e
lontana dai versi
e dalle novelle,
e presente ed
altissima nella pagina
di un filosofo
o nell'appassionata invettiva
di un politico. La
dolcezza del dire
(dulcedo et sonoritas
verborum), la luce della
forma (lux orationis), che
si invoca per
ogni espressione di
vera umanita, vuol
far poesia d’ogni
UMANO DISCORSO; e nel
momento in cui
riesce a tanto
toglie ogni privilegiato
dominio alle dettere
oziose. Perfino un oscuro erudito
come CASSI d'Arezzo sa dirci
che in tal
modo nell'eloquenza si
unificano tutte le umane attivita, e tutto in essa si umanizza davero,
e non perche come
taluno ha fantasticato,
si celebri solo
il letterato ozioso,
ma al contrario
perche 1'uomo e
presente in ogni
momento dell'agire: perche,
faccia egli il matematico, il
medico, il soldato
o il sacerdote,
sempre e innanzitutto e uomo, e
il suo sigillo umano imprime
ad ogni sua
opera umanamente esprimendola,
ossia rivestendola della
lux orationis. Di
qui l’importanza centrale che vengono ad assumere le TRATTAZIONI SULLA LINGUA, sulla
sua storia, sulla
eleganza? ove LA DISCUSSIONE GRAMMATICALE si trasforma
di continuo in
discorso finissimo d’estetica:
e quel trapassare
dal vocabolario, e
magari dal repertorio
ortografico basti pensare
a Perotto o a
Tortelli nell’analisi
critica e nella
dissertazione storica. Mentre, contemporaneamente, la storia,
che intende farsi
vivo specchio della
a vita civile)),
e per eccellenza
eloquente discorso, ossia
prosa politica e trattato
pedagogico-morale. Bellissima
cosa e infatti come afferma Bruni raccontare 1'origine prima e il
progresso della propria citta, e
conoscere le imprese dei
popoli liberi (est enim decorum
cum propriæ gentis originem et progressus,
turn libe- i. Quasi unum
in corpus convenerunt
scientiæ omnes, et rursus temporibus nostris eloquentiæ studiis studia
sapientiæ coniuncta sunt (d’una
lettera di Cassi
a Tortelli, contenuta
nel Vat. lat.
e pubblicata da GAMURRINI, Arezzo e r
Umanesimo, Arezzo, Cristelli, miscellanea in onore di Petrarca dell'Accademia
Petrarca). A proposito dell’eleganze di
Valla scrive Cortesi, De hominibus doctis, ed. Galletti,
Florentiæ, Mazzoni, conabatur Valla vim verborum exprimere
et quasi vias ad structuram
orationis. rorum populorum res
gestas cognoscere. Cortesi, in quel felice dialogo
De hominibus doctis,
che e una vera propria storia critica della letteratura, appunto discorrendo delle storie di Bruni, batte su questo incontro
della verita con 1'eleganza, che e tutt'uno con quell’armonia di sapienza
ed eloquenza che Accolti celebra quale
dote precipua dei fiorentini e dei veneziani del suo tempo nel dialogo De
præstantia virorum sui aevi. Per
la stessa ragione
per cui tutto
sembra divenir DIALOGO, tutto anche
e libro di storia; e storia e, ancora, colloquio con le eta antiche, con
i grandi spiriti del passato.Bruni
nell'introduzione ai commentarii
confessa che la
grande filosofia classica fa si
che i tempi lontani ci siano piu vicini e piu noti dei tempi nostri (mihi
quidem Ciceronis Demosthenisque
tempera multo magis
nota videntur quam ilia
quae fuerunt iam
annis sexaginta), e
dichiara che e compito della
storia immettere nella
nostra vita e nel nostro
colloquio il passato, farlo vivo con
noi, quasi picturam quondam viventem adhuc
spirantemque. Palmieri
innanzi alia vita
di ACCIAUOLI ci insegna
che la storia e una
specie di immortalita
terrena di quanto in noi
e, appunto, vita
mondanala storia e culto e
salvezza di quella
parte mortale che le lettere redimono
da morte dilatando
la società umana oltre i limiti del tempo e
salvandola dall’oblio e
dal destino. Si aprono
qui, tuttavia, a
proposito della prosa
latina, due questioni
fra loro strettamente
connesse e che sembrano
in qualche modo,
gia nella loro
impostazione, venir contrastando
con quei Cosi nel De studiis et litteris in BARON, BRUNI
Aretino humanistisch-philosophische Schriften,
Leipzig. Una giusta valutazione
dell’opera storica di BRUNI presenta Ullman, BRUNI and humanistic
historiography, Medievalia
et Humanistica e, per quanto si e sopra osservato su retorica,
politica e storia, son da vedere i tre
saggi di BARON,
Das Erwachen des
historischen Denkens im
Humanismus, Hist. Zeitschrift; di
RUBINSTEIN, The Beginnings of
Political Thought in
Florence: A Study in Mediaeval
Historiography, Journal Warburg Inst.; di CANTIMORI, Rhetoric and Politics
in Italian Humanism, Journ. Warburg Inst.;
Corpoream vero partem non
omnino negligendam ducunt,
sed tamquam suam
in terra recolendam,
ideoque desiderant illam oblivioni et fato præripere caratteri
stessi che si sono voluti
definire. Come, infatti,
parlare della’umanità d’una
produzione che si serve di UNA LINGUA CHE NESSUNO ORMAI USA e che, dunque, gia
nel mezzo espressivo pone come suo canone l’imitazione. In che modo una
FILOSOFIA MIMETICA, RICALCATA SU MODELLI CICERONIANI, puo oltrepassare i
limiti della erudizione?
Ma i due gravi
problemi, del LATINO umanistico e dell’imitazione classica, gia tanto
dibattuti, hanno oramai offerto anche 1'avvio
a una soluzione. Quanto infatti si obbietta intorno all’uso del latino, in
luogo del volgare, e ad una
presunta frattura che
si opera rispetto
alla tradizione, deve
essere corretto coll’osservazione che i
generi di prosa a cui ci riferiamo, orazioni,
trattati, epistole politiche,
DIALOGHI dottrinali, hanno
sempre fatto uso del
latino. Non e quindi esatto
dire che da un presunto uso del
volgare si torna al latino. È vero
invece che al LATINO MEDIEVALE definite
BARBARICO, e cioe GOTO O PARIGINO (dai franci, non
gallii), si oppone
un *altro* latino
che si determina
e si definisce
rispetto ai modelli
classici. II quale
latino, che si
dichiara — come dice esplicitamente PLATINA — integrate da tutta la più feconda tradizione
post-ciceroniana, ivi compresi
i Padri della Chiesa, intende rivendicare i diritti d’una lingua nazionale
romana contro l’universalita d’un GERGO scolastico (lo stile PARIGINO della
Sorbonna, non di Bologna), ed
innanzi tutto nel campo di una produzione
costantemente espressa in latino. Giustamente
SANCTIS (si veda) sottoline la frase del VALLA che proclama lingua
nostra il latino vero, che si contrappone al LATINO GOTICO dell’uso medievale.
La quale nostra lingua romana degl’umanisti, che SI PRECISA CON CARATTERI
PROPRI COSI RISPETTO AL LATINO CLASSICO COME A QUELLO BARBARO DEI BARBARI
FRANCI, va vista
per quello che
essa veramente e,
anche rispetto al
volgare: un nuovo latino, in
cui la complessita
antica cede il
posto alia scioltezza
moderna. Il latino degl’umanisti, lingua veramente viva che aderisce in
pieno a una cultura affermatasi attraverso una consapevolezza critica che si
colloca chiaramente nel tempo
defiendo i propri rapporti cosl col mondo antico come
con il medioevo. Il latino dei
grandi umanisti, lungi dal
rappresentare una battuta
d'arresto o un momento di
invo- [Cosi nella
prefazione alle Vite,
che riportiamo per intero. Rilievi utili in proposito ha Sabbadini sia nella Storia del ciceronianismo
CICERONE (si veda) (Torino, Loescher), come
nel Metodo degl’umanisti
(Firenze, Monnier). luzione, si
colloca nella storia
stessa del volgare. Il latino insegna al volgare
l'eleganza la misura la forza e 1'eloquenza, e il volgare imprime ne’filosofi
umanisti le leggi del suo andamento piano, della sua sintassi sciolta, dei suoi
trapassi intuitivi, della sua eloquenza
interiore. Fra il latino, in cui si rispecchia pienamente tutto un
atteggiamento culturale, e il volgare v’e una collaborazione che del resto si
traduce quasi materialmente
nel fatto che
gl’autori spesso scrivono
1'opera loro in
latino e in
italiano. Non sempre si e posto mente al fatto che da MANETTI (si veda) a FICINO gli stessi trattatisti, siano pur
filosofi, stendono anche in volgare le loro meditazioni. E come il loro latino
e davvero una lingua
low., cosi il
volgare che adoperano
non e per
nulla oppresso da
una imitazione artificiosa
di modelli classici. Giungiamo cosi
a quello che
forse e il
punto piu delicato
ad intendersi dell'atteggiamento di questi:
l’imitazione degl’antichi. Che la posizione assunta dagl’umanisti
rispetto agl’autori classici
sia alimentata da una
preoccupazione storica e
critica; che essi sono dei filologi
desiderosi innanzitutto di comprendere
gl’autori del passato
nelle loro reali
dimensioni e nella loro situazione concreta: e cosa ormai in complesso
pacifica. Ora gia questo definisce
il senso
di quella imitazione che indica un atteggiamento molto
caratteristico. ACCOLIT dichiara nettamente
la parita di
valore fra i
nuovi autori e
i classici. POLIZIANO (si veda) nella
polemica col CORTESI, che e un
testo capitale, confuta
tutte le istanze
del ciceronianismo, e
proclama il valore di un'intera
tradizione afferrata nel suo
sviluppo, rivendicando il senso di tutto il periodo piu tardo della FILOSOFIA
ROMANA (neque autem statim detenus dixerimus quod diversion
sit). Ma dice
soprattutto 1'enorme distanza
fra una poesia
che fiorisce come
libera creazione su una
cultura meditata e fatta proprio sangue, e l'imitazione pedestre — ilia poetas
facit, haec simias. SPONGANO, Un capitolo di storia della nostra
prosa d'arte, Firenze,
Sansoni, E cosi
sono spesso notevoli
le version! di
scrittori celebri come
latinisti: TAurispa che
traduce Buonaccorso da
Montemagno, Donate ACCIAIUOLI che volgarizza
BRUNI, e cosi
via. interessante ritrovare, distesi
e volgarizzati, i
concetti di un
Valla e di
un Poliziano nei filosofi
francesi. Per esempio
Bellay, scrivendo dopo
aver tratto da
Valla il concetto che Roma è grande per la lingua imposta all'Europa
non meno che per l’impero
(la gloire du
peuple Romain n'est moindre,
comme a dit quelqu'unen l’amplifacation L'Umanesimo e in questa singolare
imitazione-creazione, come la chiama RUSSO: l'umanita fatta consapevole
attraverso il rapporto stabilito con gl’altri uomini nell'operoso sforzo
di raggiungere una sempre pifc alta forma di vita. Di qui, appunto, il particolare
carattere delle sue piu felici espressioni letterarie. de son langage que de
ses limites) eccolo riprendere POLIZIANO: immitant les
meilleurs aucteurs, se
transformant en eux,
les devorant, et
apres les avoir
bien digerez, les
convertissant en sang
et nouriture. Solo cosi l’imitazione e giovevole allo scrittore.
Autrement son immitation ressembleroit celle du singe. Cfr. WEINBERG,
Critical prefaces of
the French Renaissance, Northwestern, Evanston,
Illinois, Russo, Problemi di
metodo critico, Bari,
Laterza. G. Antonio Nasce a
Rieti, figlio di Francesco e di Teresa Barbagli. Il nonno, intendente di
Finanza, si è trasferito dalla SAVOIA in Toscana con l’Unità d’Italia; la madre
è originaria di San Giustino nel Valdarno; il padre – allievo di Vitelli, in
rapporti amichevoli con Pasquali, che scrive il suo necrologio su Atene e Roma
– è un valente filologo, con particolare interesse per la storia del romanzo
greco, per Teocrito e per i commenti a Teocrito. La guerra e la fine prematura
e quasi improvvisa ne stroncarono la carriera e costrinsero il figlio ad
assumersi, precocemente, pesanti responsabilità. G. ha, anche per questo,
un'infanzia e un'adolescenza assai difficili e tormentate, che hanno un peso
nel rafforzare i toni disincantati e pessimisti del carattere, controllati, in
genere, dall'ironia e anche dal sarcasmo, pronti però a esplodere nei momenti
di particolare amarezza o di maggior contrasto con i tempi in cui gli
toccò di vivere e di lavorare. Fin da quegli anni – duri e mai
dimenticati – comprese però quale era la sua vocazione e individuò nei libri, e
in uno studio assiduo e disperatissimo, la bussola con cui avrebbe costruito,
con tenacia, la propria vita: bruciando le tappe, si iscrisse alla facoltà di
filosofia a Firenze e si laurea col massimo dei voti in filosofia con una tesi
su Butler [cf. GRICE, SELF-LOVE, OTHER-LOVE], preparata sotto la guida di LIMENTANI
(si veda). A Firenze aveva compiuto anche gli studi elementari e medi,
frequentando il Liceo Galilei, nel quale insegna il padre e dove incontra Maria
Soro, nata a Sassari, che sarebbe poi diventata sua moglie, con rito
civile. G è nato a Rieti in seguito al trasferimento in quella città del
padre, che come professore di liceo aveva girato, si può dire, tutta l’Italia;
ma si considerò sempre fiorentino e conservò per tutta la vita un ricordo assai
vivo degli anni liceali e, soprattutto, di quelli trascorsi nella facoltà di
lettere di Firenze. In quel periodo fece incontri decisivi dal punto di vista
sia personale sia scientifico, e non solo in ambito filosofico; stabilì
rapporti con personalità come PASQUALI (si veda), e conosce compagni di studi
ai quali resta legato tutta la vita, italiani e non italiani: Teicher, Rubinstein,
LUPORINI (si veda), il quale, rievocando gli anni della sua formazione
(Qualcosa di me stesso, in Luporini, a cura di Moneti, Il ponte), ricorda come
G. eccellesse già allora su tutti, e fosse più avanti degli altri coetanei per
maturità e sapere. In quegli stessi anni, G. conosce due maestri che
incisero segni profondi nella sua mente e nella sua personalità intellettuale e
scientifica: SARLO (si veda) e, soprattutto, LIMENTANI (si veda), che lo avviò
agli studi sull'Illuminismo inglese, confluiti nel volume L'Illuminismo
inglese. I moralisti (Milano). Dopo aver insegnato nel Regio Convitto delle
Mantellate, G., ottenuta l’abilitazione in storia e filosofia riuscendo
tredicesimo nella graduatoria generale, fa il concorso per l'insegnamento di
filosofia e storia nei licei per sedi determinate, e lo vince, dopo essere
stato esaminato da una commissione presieduta da GUZZO (si veda). Prende
servizio come professore straordinario di filosofia e storia presso il Liceo
Cannizzaro di Palermo, dove rimane fino a quando – dopo molti tentativi
giustificati da motivi sia familiari sia filosofici – è trasferito a Firenze
per insegnare, come professore ordinario, filosofia e storia al Liceo
Vinci. Gli anni palermitani sono assai importanti e fecondi per G.: per
gli incontri umani e intellettuali che fece e per le ricerche che condusse,
preparando l'importante volume PICO (si veda) Vita e dottrina, pubblicato a
Firenze, ma già pronto a Palermo. È a Palermo che scrive in gran parte il suo
primo saggio di argomento umanistico, servendosi dell’eccellenti biblioteche
pubbliche della città, e frequentando la Biblioteca filosofica a Palazzo Reale,
col suo singolare fondatore e direttore, POJERO (si veda), l'amico di GENTILE
(si veda) e primo editore dell'Atto puro, il bizzarro filosof' noto
dappertutto, sempre teso a cogliere una battuta e a fissarla per scritto (Una
collaborazione lunga una vita, in Belfagor). A spostare G. dagli studi
iniziali sull'Illuminismo inglese verso le ricerche umanistiche e
rinascimentali contribuì una pluralità di fattori: certo agirono la presenza, e
il magistero, di Limentani, che in quegli stessi anni studia il BRUNO 'inglese' sulla scia della importante
monografia su La morale di Bruno. Ma alla base di quello spostamento ci furono
due altri motivi, forse più rilevanti: la centralità assunta a quella data
dall'Umanesimo e dal Rinascimento nella ricerca filosofica europea intorno a
problemi decisivi come la libertà, e la dignità, dell'uomo; il rapporto tra
uomo, mondo, Dio; il carattere e il significato dell'esperienza umana. È stato,
peraltro, G., in un testo degli anni Settanta (lettera a Chemotti, la cui
minuta è conservata presso il Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa),
a segnalare la complessità delle questioni che, negli anni Trenta, si
concentravano nella discussione sul Rinascimento: domande di ordine sia
filosofico sia religioso, ma tutte convergenti in una generale interrogazione
sul significato dell'uomo e del suo destino, in un momento tragico della storia
del mondo. È in questo contesto che si inseriscono sia il saggio su PICO
sia il saggio su La "dignitas hominis" e la letteratura patristica
(in La Rinascita) in cui questo intreccio di motivi si presenta in modo
esemplare, con un netto primato della problematica di tipo religioso – anzi
esplicitamente cristiano – e, simmetricamente, con un consapevole distacco
dalle impostazioni di tipo idealistico, comprese quelle risalenti a
Gentile. Come testimoniano anche i molteplici richiami alla
interpretazione Burdach – messa in
circolazione in Italia, anche da Cantimori –, a quella data G. era su un'onda
assai diversa rispetto a Gentile che, pure, fin dal primo momento apprezzò
molto i suoi lavori su Pico, invitandolo a collaborare al GIORNALE CRITICO
DELLA FILOSOFIA ITALIANA, sul quale aveva cominciato a pubblicare con un saggio
su L’etica di Butler. Non si trattava solo di una distanza di ordine
storiografico, evidente, per esempio, nella importanza che già in questi anni G.
comincia ad assegnare alla tradizione ermetica, avviando una ricerca che
avrebbe continuato, sia pure con toni e forme assai diverse, fino ai suoi
ultimi anni -- il saggio su Una fonte ermetica poco nota. Contributi alla
storia del pensiero umanistico, destinato a essere ripreso e profondamente
modificato, uscì originariamente in La Rinascita. Al fondo, rispetto a Gentile,
c'era una forte distanza di carattere strettamente filosofico, come risulta dai
principali riferimenti filosofici di G. in questi anni: Senne, Marcel, Gilson, Lavelle,
forse il più importante di tutti, quello al quale si sentì a lungo più
vicino. Sono tutti autori di area francese e di matrice cristiana,
convergenti, sia pure con toni differenti, nella prospettiva di un
esistenzialismo religioso che appare ben presente negli scritti storici di . sul
Rinascimento di questo periodo, pur mediati, e filtrati, da una armatura di
carattere filologico ed erudito molto forte già in quegli anni (ne è una
conferma il ricco e aggiornatissimo corredo bibliografico del libro su Pico).
Mancano, invece – con l'importante eccezione di Cassirer, presente già nel saggio–
riferimenti altrettanto significativi ad autori di area tedesca, a cominciare
da Heidegger che, in quegli anni, era invece interlocutore privilegiato di
altri importanti esponenti della generazione di G., come Luporini, suo amico
fin dagli anni della Università, ma assai diverso sia per interessi filosofici
che per le strade che avrebbe poi preso sul terreno politico. È una
mancanza che non stupisce, se si considera che la cultura di matrice francese
fu una componente centrale della formazione di G., e che essa – insieme al
pensiero inglese, ma con maggiore forza – ebbe un ruolo centrale nella sua
attività scientifica e anche editoriale, come testimonia l'imponente opera di
presentazione e traduzione di testi capitali del pensiero francese svolta insieme
alla moglie – da Rousseau a Malebranche, a d'Holbach e gl’enciclopedisti.
Il primato della cultura di matrice francese era, del resto, un tratto diffuso
della generazione di G. e, in modo particolare, dell'ambiente culturale
fiorentino: quello che si esprimeva in istituzioni di notevole rilievo come il
Gabinetto Vieusseux – di cui è bibliotecario e direttore Montale –, e LA
BIBLIOTECA FILOSOFICA di Levasti e Marrucchi, una personalità notevole, alla
quale G. rimane sempre legato e che ricorda in pagine molto intense, rievocando
quell'ambiente e quell’atmosfera, in cui vive il ricordo di una figura come
Michelstaedter, alla quale anche G. dedica, a più riprese, molta
attenzione. Tornato a Firenze, ha un incarico di filosofia teoretica
presso la facoltà di lettere e filosofia. Ottenne, poi, la libera docenza in
storia della filosofia. Quando per effetto delle leggi razziali LIMENTANI
(si veda) lascia la cattedra di filosofia morale, la facoltà decide di NON
chiamare su essa un altro ordinario, ma di conferire l’incarico a G., discepolo
– pupillo -- di LIMENTANI (si veda). Nei modi possibili in quei tempi
difficili, G. espressa pubblicamente la sua fedeltà al maestro e tutore con cui
si è formato, tenendo una conferenza presso la BIBLIOTECA FILOSOFICA Biblioteca
di Firenze in cui attacca a fondo ogni forma di storicismo identificato con il relativismo rivendicando,
da un lato, il valore della lotta, e dell'ostacolo, sulla scia di Senne. Ribadendo,
dall'altro, e con massima energia, la distinzione tra vittima e carnefice, tra
perseguitato e persecutore, che nessuna provvidenza storica avrebbe mai potuto,
in alcun modo, risarcire. Dopo la morte di LIMENTANI (si veda), ne redatta un
commosso necrologio, pubblicato in opuscolo insieme alla bibliografia dei suoi
scritti (Limentani, Firenze). Comincia, intanto, a partecipare a concorsi per
ottenere una cattedra universitaria, che riuscì a vincere quando risulta primo
ternato in quello per professore straordinario alla cattedra di storia della
filosofia a Cagliari -- la commissione èformata da Aliotta, presidente,
Lamanna, segretario, Abbagnano, Banfi, e Spirito. Precedentemente partecipa,
venendo dichiarato maturo, a tre altri concorsi, banditi, rispettivamente, da Messina
e da Napoli -- quest’ultimo si svolse in due tornate, per l’annullamento, a
causa di un ricorso, dei risultati della prima. Difficili sul piano
accademico e anche personale, quegli anni sono però fertilissimi dal punto di
vista filosofico. Oltre a una serie di saggi assai importanti usciti, in
genere, su La Rinascita diretta da Papini, con il quale ha, allora, un rapporto
intenso, G. pubblica due importanti antologie: Il Rinascimento italiano, Milano,
commissionatagli da VOLPE (si veda) e stampata nella collana dell'ISPI; e Filosofi
italiani, Firenze, uscita come pubblicazione dell'Istituto nazionale di studi
sul Rinascimento. Si tratta, in entrambi i casi di opere fondamentali,
destinate a lasciare una orma profonda negli studi rinascimentali. Ma lette con
attenzione – e tenendo conto della inclinazione dissimulatoria tipica
dell'epoca –, esse svelano con precisione quali fossero gli atteggiamenti
filosofici e politici di G. in quel momento: una posizione nettamente
antifascista, trasparente nelle pagine dedicate alla critica del tiranno; un
profondo interesse di tipo religioso, già emerso nei primi saggi rinascimentali
della seconda metà degli anni Trenta, e ora pienamente dispiegato nella lunga
Introduzione ai Filosofi italiani, a cominciare dalle pagine scritte sulla
morte, discorrendo di Salutati. Sono temi nei quali la nota religiosa
risuona con particolare forza e vigore, e non solo nei testi sull'Umanesimo. Pubblica
per una piccola casa editrice fiorentina, Cya, una antologia di testi
tolstoiani, Ultime parole, nei quali è affermato con nettezza il primato
della 'riforma interiore' come condizione di ogni riforma di tipo economico e
sociale. Sarebbe stato, del resto, lo stesso G. ricordare che anni prima, nel
pieno della guerra, attraversa una vera e propria crisi di tipo religioso,
subendo a fondo l'influenza di Tolstoj. Sul terreno filosofico è una
inclinazione che si rivela, oltre che sul piano del linguaggio, nel forte ruolo
assegnato a SAVONAROLA (si veda), un autore che gli è sempre carissimo, ma che
arriva ad affiancare al Platone della Repubblica per il Trattato sul reggimento
di Firenze. Spicca anche il lavoro di presentazione e di traduzione dei
testi fondamentali di PICO (si veda): De hominis dignitate, Heptaplus, De ente
et uno, Firenze; Disputationes adversus astrologiam divinatricem -- un'impresa
imponente, che contribuì a mutare in profondità sia l'immagine tradizionale di
Pico, sia quella corrente del Rinascimento, ponendo le basi della
interpretazione generale che G. propone ne “Der italienische Humanismus, pubblicato
nella collana diretta da GRASSI (si veda) per l'editore Francke di Berna, ristampato
poi nel testo originale presso Laterza. Sono saggi resi possibili anche
dal forte sostegno di una figura singolare, ma più importante di quanto in
genere si pensi, della cultura italiana: CASTELLI ZUBIENA (si veda), il quale –
oltre a pubblicare le traduzioni di PICO (si veda) nell'ambito dell’edizione
nazionale dei classici del pensiero italiano promossa dal REGIO ISTITUTO DI
STUDI FILOSOFICI da lui presieduto e del quale G. è anche segretario della
sezione toscana, si impegna con molta tenacia e costanza, a tutti i livelli,
per fargli ottenere un distacco dal Liceo Vinci che gli consentisse di svolgere
con maggiore tranquillità il suo lavoro. G. sottolinea più volte che non
c'è un rapporto meccanico tra storia della cultura e storia politica,
precisando, per esempio, che la crisi e la fine dell'idealismo crociano si
compiono nel 1968, non nel 1945. Non c'è però dubbio che con la fine della
guerra sia iniziata una nuova fase della sua lunga vita sul piano sia
intellettuale sia politico. Dopo un periodo connotato dalla vicinanza a
posizioni di tipo liberal-democratico (come appare chiaro dagli articoli che
pubblica sull'Italiano), si avvicinò infatti, sia pur progressivamente, al
Partito comunista italiano, senza mai iscriversi a esso, ma diventandone,
specie negli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei principali intellettuali di
riferimento. Alla base di questo netto spostamento di campo ci furono
motivazioni di ordine intellettuale e di natura politica. Sul primo
punto, è decisivo l'incontro con le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che
recensì subito su Leonardo, la rivista di cui, divenne redattore – cioè, in
effetti, direttore –, avviando un intensissimo colloquio che sarebbe
continuato lungo tutta la sua vita e che avrebbe inciso sia sulle sue ricerche
umanistiche sia sulle Cronache di filosofia italiana pubblicate per i tipi di
Laterza ma preparate dagli articoli su Leonardo e sul GIORNALE CRITICO DELLA
FILOSOFIA ITALIANA fondato da GENTILE (si veda) e diretto da SPIRITO (si veda). Dal
punto di vista strettamente politico, per quanto possa apparire paradossale, in
quella scelta agì il profondo, e mai venuto meno, interesse religioso di G.: e
infatti profondamente LAICO, NON LAICISTA. Ritene necessario distinguere con
chiarezza ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, anzi pensa che dalla
confusione dell'uno e dell'altro potesse derivare una degenerazione di
entrambi. Il partito della Democrazia cristiana gli apparve come la
realizzazione concreta di questo rischio, con la ripresa, e il potenziarsi, di
quelle tendenze che durante il Regime si erano espresse nel clerico-fascismo,
contribuendo, a suo giudizio, a corrompere il carattere morale degl’italiani.
Perciò considera negativamente l'inserzione dell'articolo 7 nella Costituzione
repubblicana, ma fu per questi stessi motivi che si avvicinò al Partito
comunista: per una scelta di ordine anzitutto morale e, alle origini,
religiosa. Pur nel dissenso con il Partito comunista nella valutazione
dell'articolo 7, G. vide in esso la forza più intransigentemente schierata a
favore di una concezione laica dello Stato e, in genere, della vita, contro il
riaffiorare e l'imporsi di una nuova forma di clerico-fascismo, dannosa, ai
suoi occhi, sia per la politica sia per una autentica esperienza
religiosa. I due piani – quello culturale e quello politico – si
intrecciarono e si potenziarono a vicenda, nella concretezza del suo lavoro,
sia in quello sul Rinascimento sia nelle ricerche sulla filosofia italiana. A
quest'ultima aveva già dedicato, per incarico di Gentile, due volumi pubblicati
da Vallardi. Si tratta dell'opera: La filosofia, da non confondere con la
Storia della filosofia uscita per i tipi di Vallecchi: uno de suoi libri più
belli, più vivaci, più liberi. Le Cronache di filosofia italiana erano, in effetti, un'altra cosa: una sorta
di autobiografia di una intera generazione, quella nata al tornante del primo
decennio del secolo – la stessa di Bobbio, nato anch'egli, come G., e autore di
Politica e cultura, l'altro grande testo 'autobiografico' della loro
generazione. A considerare oggi quegli anni, non appare casuale che due
intellettuali di quel livello abbiano avvertito, nello stesso momento, la
necessità di confrontarsi con la propria storia, sia pure da punti di vista
diversi e con strumenti differenti. In G., assai più che in BOBBIO (si veda), e
infatti presente la lezione di Gramsci. Sul piano del metodo, anzitutto: La
filosofia come sapere storico (Bari) si conclude con un lungo saggio su
Gramsci, nato come relazione al Convegno di studi gramsciani, tenutosi a Roma
l'anno prima, ma anche sul piano del merito, cioè di specifiche valutazioni di
uomini e cose, come Togliatti rileva nella sua recensione a Cronache di
filosofia italiana (Rinascita). Non solo: la lezione di Gramsci, in forme
assai mediate e controllate, è visibile anche negli scritti che G. dedica al
Rinascimento. Nonostante che, in questo caso, i giudizi di Gramsci e G.
fossero, proprio nel merito, profondamente differenti. L’UMANESIMO CIVILE,
IL TRAMONTO DI UN MONDO Quando si parla di G. si pensa, in genere, alla
sua interpretazione del Rinascimento come 'umanesimo civile'. È giusto, ma
riduttivo per due ordini di motivi. In primo luogo, essa svolge funzioni e
ruoli diversi, anche a seconda del mutare dei contesti storico-politici. In
secondo luogo, a cominciare dagli anni Settanta G. riformula in modo profondo
la sua interpretazione, dislocando l'Umanesimo civile in zone progressivamente
laterali, rispetto al nucleo centrale del suo discorso (in questo senso è
fondamentale Rinascite e rivoluzioni: movimenti culturali, Roma-Bari: uno dei
suoi lavori più importanti, insieme a La cultura filosofica del Rinascimento
italiano. Ricerche e documenti, uscito per i tipi di Sansoni, nel quale spicca
in apertura il saggio – capitale dal punto di vista dell'Umanesimo civile – su
I cancellieri umanisti della Repubblica fiorentina da Salutati a Scala, pubblicato
originariamente in Rivista storica italiana. All'interpretazione del
Rinascimento come Umanesimo civile G. lavorava, in effetti in convergenza con
le ricerche di Baron, del quale fa pubblicare su La Rinascita un importante
saggio. Ma allora esso aveva una funzione parallela, anzi secondaria, rispetto
ai motivi ermetici che G. tendeva maggiormente a valorizzare, anche in
relazione a quell'esistenzialismo religioso nel quale allora si riconosceva.
Negli anni Cinquanta e Sessanta il quadro muta in modo deciso, e
l'Umanesimo civile diventò il motivo dominante della sua interpretazione, come
appare dall'antologia, fortemente lodata da Cantimori, Prosatori latini del
Quattrocento (Milano). I motivi messi a fuoco nella seconda metà degli anni
Trenta erano ripresi, e anzi energicamente sviluppati, a cominciare dalle
tematiche magiche e astrologiche, cui dedicò due saggi fondamentali; ma essi
ora venivano riformulati (per esempio, cambiò in modo consistente il giudizio
sull'astrologia) ed inseriti in una prospettiva che privilegiava, in primo
luogo, la dimensione mondana, terrestre – appunto, 'civile' del Rinascimento –,
dando rilievo centrale al problema del rapporto tra 'vita contemplativa' e
'vita activa', e valorizzando in questa luce i grandi cancellieri fiorentini
come SALUTATI (si veda) e BRUNI (si veda). Ne scaturì una nuova immagine
del Rinascimento, entro cui assunsero valore centrale discipline come LA
RETORICA, l'arte della memoria o esperienze filosofiche prima trascurate, o non
comprese in modo adeguato, come, per esempio, il lullismo. Su questo
sfondo, G. si pose in termini nuovi rispetto agli scritti degli anni Trenta
anche il problema della genesi e dei caratteri della scienza moderna,
sforzandosi di mostrare come un moto di cultura strettamente legato nelle sue
origini alla vita delle città italiane debba considerarsi una delle premesse
del rinnovamento scientifico moderno (come scriveva nella Premessa al volume
Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, pubblicato con Laterza: una
linea di ricerca, sia detto tra parentesi, che non ebbe ulteriori sviluppi,
anche per i mutamenti che, di lì a poco, avrebbero sconvolto il mondo storico,
coinvolgendo a fondo anche il mondo storiografico). In questa
accentuazione della dimensione civile agì certamente la lezione metodica di GRAMSCI
(si veda), che appare con ancor maggiore chiarezza nei lavori che G. dedica alla
filosofia contemporanea, specie a quella ITALIANA. Sono importanti, da questo
punto di vista, sia La cultura italiana (Bari); sia, e soprattutto, quello
sugli Intellettuali italiani (Roma), che
costituisce, per molti aspetti, il vertice della presenza, e della influenza,
di G. nella cultura, e anche nella politica, italiane. Se si
considera il corso della sua vita, si può azzardare un giudizio: forse furono
proprio quelli gli anni in cui G. riuscì a stabilire, nel complesso, un
rapporto positivo con il proprio tempo storico, e non solo per i molti
riconoscimenti pubblici che ebbe in quel periodo, dentro e fuori l'Università,
in Italia e all’estero. E diventato professore ordinario di storia della
filosofia medievale a Firenze, insegnamento che tenne per incarico. È poi
subentrato a Lamanna come titolare della cattedra di storia della filosofia
presso la stessa Università. Riconoscimenti, e onori, altrettanto
importanti stava avendo anche al di fuori dell'Università. Socio effettivo
dell'Accademia toscana di scienze e lettere 'La Colombaria', ne era anche
segretario generale; eletto socio corrispondente dei lincei, diventandone socio
nazionale. Riceve dalla British Academy la Serena medal for Italian studies (gl’ultimi
italiani che l'avevano ottenuta – scrive, con orgoglio, al direttore della
Scuola Normale comunicandogli la notizia – sono Longhi e Bandinelli. Al
fondo, però, pur considerandosi anzitutto un insegnante, G. è, a suo modo, un
animal politicum, e avrebbe voluto essere un cittadino. Riusce a esserlo come
non gli era accaduto prima e non sarebbe più successo dopo, intrecciando
un'attività scientifica di alto livello con un impegno civile assai intenso sui
temi che gli interessavano maggiormente, a iniziare dalla scuola, su cui
intervenne anche con una relazione molto dura letta al Teatro Valle di
Roma pubblicandola poi in volume, La cultura nella società italiana, Torino.
La situazione muta profondamente. Quell'equilibrio, sempre fragile e precario,
si incrina e G. si distacca, progressivamente, fino a contrapporsi, dai
movimenti culturali e politici che comincia a scuotere il paese fin dalle
fondamenta, nel bene e nel male. Il punto più aspro del contrasto, anzi la vera
e propria rottura, si produce quando – si legge in una lettera al preside della
facoltà di lettere, Sestan -- minuta nel Fondo G. della Scuola Normale
Superiore – e costretto a interrompere la lezione per il contegno oltraggioso e
provocatorio di uno studente. È una scelta assai meditata, anche se amara,
quella di lasciare Firenze, che è stata la sua alma aater, trasferendosi alla scuola
normale superiore di PISA come professore e anche questa scelta è significativa
di storia della filosofia del Rinascimento. Come scrive al direttore della
scuola, Bernardini, sarebbe stata quella la conclusione migliore, certo la più
onorevole, di un lungo insegnamento (minuta). Questo non significa che da
quel momento si sia disinteressato della filosofia contemporanea, a cominciare
da quella italiana. Anzi: pubblica, con l'editore barese Donato, un saggio
importante, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia, riprendendo in
forme nuove il problema del positivismo e riaprendo, in generale, la questione
del rapporto tra eredità positivistiche e filosofia, nelle sue varie
diramazioni. Ma il saggio non ebbe un successo paragonabile a quello tributato
al volume sugli Intellettuali italiani. Nel giro di pochi anni, la situazione
era profondamente mutata e i temi trattati in quel testo, pur così importante,
avevano perso peso e rilievo nel dibattito filosofico italiano, che stava ormai
aprendosi, e su vasta scala, a nuove tendenze estranee alla tradizione
nazionale, nel pieno di una crisi che investiva lo stato italiano fin dalle
fondamenta. Effettivamente, un intero mondo sta cominciando a finire.
Tanto più colpisce, in questa situazione, il saggio che in
controtendenza, G. dedica a Gentile pubblicandone, con l'editore Garzanti, le
Opere filosofiche. Aveva ormai 82 anni: nel 1979 era uscito dai ruoli
dell'insegnamento, nel 1984 era andato definitivamente in pensione, nel 1986
era diventato professore emerito della Scuola Normale. Lascia anche la
presidenza dell'Istituto nazionale di studi sul Rinascimento. E dunque
diventato un libero studioso sciolto da qualunque vincolo di ordine
istituzionale, e forse anche questo contribuisce a spiegare la libertà – e
l'atteggiamento 'non conformista', si potrebbe dire – con cui si confronta con
Gentile nella lunghissima introduzione che premise ai testi, spiegando il senso
della sua scelta. Non è un'impresa facile. I rapporti di G. con Gentile e
con Croce sono infatti assai complessi e si modificarono, e complicarono, con
il tempo. Si possono però in sintesi individuare alcuni elementi di ordine
generale. Dal punto di vista filosofico egli si sentì, al fondo, più vicino a
Gentile. Basta leggere le pagine che gli dedicò nella Storia della filosofia, e
accostarle a quelle scritte nello stesso testo su Croce, per vedere come ne
apprezzasse la posizione e quanto fosse invece distante da Croce. Certo, come
dimostrano le cronache, il suo giudizio sull’idealismo si approfondì col tempo
e divenne assai più ricco e articolato. Ma la distanza di G. dalla 'filosofia
dello spirito' non venne mai meno, perché essa coinvolgeva un punto centrale,
allora e poi, della sua posizione. Alle origini, le ragioni di quella
scelta stano precisamente qui. Sul piano filosofico GENTILE (si veda) appartene
a quella filosofia della libertà, specie di matrice francese, in cui G. riconosce
il carattere principale della filosofia e anche le proprie radici filosofiche. Filosofia
della libertà: cioè azione, praxis, atto, volontà. Sono i motivi che erano
presenti anche in Marx, quelli che gli avevano fatto apprezzare GRAMSCI (si
veda), sentire affine la ricerca dei Quaderni del carcere, e che, nel volume,
sottolineò anche in GENTILE (si veda), vedendo anzi nella sua lettura di Marx
la via attraverso cui si era affermato nel nostro paese il principio della
praxis, dell'azione, della volontà. È per queste stesse ragioni –
strutturali, non contingenti – che G. fu, invece, in sostanza, lontano da CROCE
(si veda), pur apprezzandone il rapporto stabilito tra politica e cultura e
l'immenso lavoro: non ne condivideva la concezione del circolo spirituale; lo
sentiva distante per l'incapacità di afferrare la intima, e insuperabile,
tragicità della vita; rifiuta la dissoluzione dell'individuo empirico, che
invece per lui era fondamentale. Certo, con il tempo maturò un giudizio
assai più ricco di quello espresso negli anni Quaranta; ma alcuni elementi in
cui si esprimevano un distacco, e un dissenso, perfino di ordine generazionale
non vennero mai completamente meno. In occasione del centenario della nascita
di Croce, scrive un bel saggio sui suoi rapporti con Serra (SERRA (si veda) e
Croce, in Belfagor) e, pur facendogli ampi riconoscimenti, non ha esitazione a
schierarsi, proprio per questi motivi, dalla parte di quest'ultimo. Iniziò
una profonda trasformazione del mondo storico, destinata a incidere, in vari
modi, nel mondo storiografico, compreso quello di G., che operò mutamenti
profondi nella sua posizione, a cominciare dalla concezione dell'Umanesimo
civile, che nel ventennio precedente era stato il centro della sua
interpretazione del Rinascimento. Ora venne configurandosi come un ideale; anzi
una ideologia nobile e importante, ma pur sempre una ideologia (come appare nel
Ritratto di Bruni aretino in Atti e Memorie dell'Accademia Petrarca di Lettere,
Arti e Scienze di Arezzo), mentre assunsero rilievo essenziale altri temi,
altri autori, come risulta chiaro dal libro Lo zodiaco della vita. La polemica
sull'astrologia dal Trecento al Cinquecento (Roma-Bari), che raccoglieva
quattro lezioni tenute al Collège de France. Fin dall'inizio della sua attività
G. da rilievo alle tematiche magiche, astrologiche, ermetiche, sistemandole,
poi, nel contesto dell'Umanesimo civile. Ora esse ridiventarono centrali, con
una particolare sporgenza dei testi e dei motivi di carattere astrologico. Alla
base di questo c'era, come sempre in G., un convincimento di ordine
teorico. A lungo era stato persuaso che nella cultura europea fosse
stata presente, e dominante, quella che egli chiama la 'linea PICO (si veda)-Sartre',
secondo cui l'uomo non ha una natura (una specie, una forma), ma è un atto che
si sceglie, per riprendere una sua battuta contenuta nella lettera a Amoroso
minuta nel Fondo G. della Scuola Normale Superiore di Pisa. È un convincimento
coerente con la sua filosofia della libertà, della praxis, del primato della
volontà. Negli ultimi anni furono proprio questi capisaldi che si infransero e
vennero meno sbalzando in primo piano, al posto dei cancellieri fiorentini, filosofi
come POMPONAZZI (si veda) e, soprattutto, ALBERTI (si veda), sostenitori, l'uno
e l'altro, di una concezione totalmente disincantata dell'uomo e della vita,
ridotta o a gioco privo di senso o a una eterna vicissitudine di uomini, di
cose, di sorti. E qui si può osservare come in un microcosmo in che modo lavora
G., e quanto fosse profondo nella sua ricerca l'intreccio tra autobiografia e
storiografia, a loro volta sostenute da una posizione teorica precisa, ma
destinata, al tempo stesso, a importanti variazioni e mutamenti. ALBERTI e s infatti
sempre al centro della sua attenzione, ma venne a lungo inserito nella
prospettiva dell’Umanesimo civile, mentre negli scritti dell'ultimo periodo si
configurò come uno dei principali esponenti di una concezione che vede
nell'uomo niente altro che un ludus deorum, per riprendere l'espressione
utilizzata da Platone nelle Leggi e ripresa nel De fato da POMPONAZZI (si veda). Sono
precisamente questi temi, e queste espressioni (citate puntualmente nello
Zodiaco della vita, e rafforzate dalla scoperta che fa di alcune Intercenali
inedite di Alberti, pubblicate su Rinascimentonel), che attrassero G. quando si
convinse che la linea PICO (si veda)-Sartre si era infranta ed èstata
sconfitta. Né è facile dire quanto in queste posizioni storiografiche avesse
inciso la crisi che fin dalla fine degli anni Sessanta sta travagliando il
mondo storico, dandogli progressivamente il senso – e poi la persuasione – che
una intera epoca della cultura europea stava tramontando, dissolvendo quegli
ideali e quelle utopie che ne avevano sostenuto il cammino, specie nei momenti
più gloriosi come il Rinascimento e l’Illuminismo. In un intreccio
profondo di autobiografia e storiografia, le pagine dell'ultimo G. sono solcate
da toni assai disincantati e pessimistici. Ma neppure in questi anni, e in
questi scritti, egli si presenta al lettore in toni disarmati o vinto: troppo
forte era stata la persuasione di un primato della praxis, dell'azione, della
volontà perché essa potesse venire mai integralmente meno. Stava qui la
sorgente originaria della sua personalità fin dagli anni Trenta, e a essa –
nonostante tutto – aveva cercato di restare fedele, dipanando il filo
essenziale della sua esistenza, nelle diverse situazioni in cui gli toccò di
vivere, per quasi un secolo. Quando muore, a Firenze non ha smesso di pensare all'utopia di un
mondo diverso: come gli avevano insegnato a fare i rappresentanti più eminenti
dell'epoca alla quale aveva dedicato tanta parte della sua esistenza. G.
Il percorso storiografico di un maestro del Novecento, Giornata di studio,
Prato, Biblioteca Roncioniana a cura di Audisio - A. Savorelli, Firenze (si
vedano in particolare i saggi di Cesa, Momenti della formazione di uno storico
della filosofia e di C. Vasoli, Gli studi di E. G. Su Pico; G. e il Novecento,
numero monografico del Giornale critico della filosofia italiana; Ciliberto, G.
Un intellettuale nel Novecento, Roma-Bari; G. Dal Rinascimento all’Illuminismo,
Atti del Convegno, Firenze, a cura di Catanorchi - Lepri, con Premessa di
Ciliberto, Roma-Firenze; Il Novecento di G., Atti del Convegno promosso dalla
Fondazione Istituto Gramsci in collaborazione con l’Istituto della Enciclopedia
Italiana, Roma, a cura di Ricci - Vacca, Roma. Grice: “Don’t expect philosophical insight from Garin.
He is at most an amanuensis. But like Gentile, it is helpful, if you are into
minor philosophers, or minor figures, to go through the indexes of his many
compilations. As with Gentile’s Storia della filosofia italiana, Garin’s is
just as boring. Garin makes it more difficult in that he uses two or three
words which we don’t use at Oxford: ‘pensiero’ for philosophy, ‘intellectual’
(‘intelletuali italiani del novecento’) and ‘culture’ (cultura italiana del
ottocento’). By these monickers, he is attempting to include as philosophers
people who we should not!” Eugenio
Antonio Garin. Eugenio Garin. Garin. Keywords: cicerone come umanista –
umanesimo e unamenismi – garin, umanista del Novecento – umanisti e il ritorno
dei filosofi antichi – umanesimo, ovvero, il primo secolo del rinascimento – il
ritorno dei filosofi antichi – retorica umanista – castelli e garin -- le
griceianisme est un humanism!” humus, human, homo sapiens, homo sapiens
sapiens, human vs. person, sapientia, persona -- human, umano, umanesimo – filosofia
romana -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Garin – umano, troppo umano – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Garroni: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Pinocchio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo
lazio. Filosofo Italiano. Garroni. Grice: “I like Garroni; he writes very Griceianly:
on lying, on Pinocchio, on semiotics, on Kant – ‘quasi-Kant’ --, and on sense
perception (‘senso e paradosso’, ‘immagine, figura, communicazione’). Inizia la
sua attività in Rai, dove era entrato per un invito di Gualainsieme come
intervistatore e autore di trasmissioni sulla filosofia. Affianca a questo
lavoro l'opera intellettuale di critica e di riflessione sull'estetica,
grazie anche alla sua frequentazione del mondo artistico dell'epoca anni
cinquanta, redigendo anche presentazioni e cataloghi d'arte. Insegna a Roma.
Pur essendosi tenuto fino a quel momento ai margini della vita accademica, con “La
crisi semantica dell’arte” (Roma, Officina), insegna estetica. Porta un rinnovamento
dell'estetica italiana dopo Croce, culminante in una innovativa traduzione
della Critica della facoltà di giudizio di Kant tesa a sottolinearne la co-appartenenza
di tematiche estetiche (l’estetico) ed epistemologiche (il noetico). Cura
Arnheim, Macherey, Mannoni, Lukács, Brandi, Dufrenne, akobson e del Circolo
linguistico di Praga e collaborato alla rivista Rassegna di filosofia, alle
riviste cinematografiche Cinema Nuovo e Filmcritica e alla Enciclopedia
Einaudi.Cura Benedetto, Bottari, Melis,
Fieschi, Vacchi, Greco ecc. L’estetica è una "filosofia non speciale"
il cui compito non deve limitarsi allo studio delle espressioni artistiche
("il bello", “l’arte” e “la natura”), ma è finalizzato ad una visione
e ad una "costruzione" del mondo fondata sull'esperienza del “senso”
(il sensibile, sentire, sensate). Ciò che va rivendicata è la portata
iudicativa (e non solo volitiva) delle riflessioni kantiane, che trascendono lo
stato empirico delle scienze e vivono
operanti nel meglio degli indirizzi novecenteschi, magari di ciò inconsapevoli.
(L’orizzonte di senso). Altre opere: “Il mito negative” (Roma, Officina); “Semiotica
ed estetica. L'eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematografico”
(Bari, Laterza); “Progetto di semiotica: il concetto di messagio” (Roma-Bari,
Laterza); “Pinocchio uno e bino” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica ed
epistemologia. Riflessioni sulla "Critica del Giudizio"” (Roma,
Bulzoni); “Ricognizione della semiotica” (Roma, Officina); “Estetica e
linguistica” (Bologna, Il Mulino); “Senso e paradosso. L'estetica, filosofia
non speciale” (Roma-Bari, Laterza); “Estetica. Uno sguardo-attraverso” (Milano,
Garzanti); “Sul mentare e il mentire” (Castrovillari, Teda); “Altro dall'arte. Saggi
di estetica” (Roma-Bari, Laterza); “Senso e storia dell'estetica: studi offerti
a Emilio Garroni” (Pietro Montani, Parma, Pratiche Editrice);
"Interpretare", in Il testo letterario. Istruzioni per l'uso,
Roma-Bari, Laterza); “Critica della facoltà di giudizio” (Torino, Einaudi);
“Immagine e figura” (Roma-Bari, Laterza); “Scritti sul cinema: pubblicati dalla
rivista "Filmcritica"; Bruno e Cervini, Torino, Aragno, Creatività,
introduzione di Paolo Virno, Macerata, Quodlibet); “La macchia gialla’ (Milano,
Lerici, Dissonanzen quartett. Una storia” (Parma, Pratiche); “Racconti morali,
o Della vicinanza e della lontananza, Roma, Editori riuniti); “Sulla morte e
sull'arte: racconti morali, Parma, Pratiche); Lettere alla TV”, Monteleone,
Storia della Radio e della Televisione italiana, Marsilio; Una puntata, tratta
da Rai Teche, del programma TV "Arti e Scienze", in cui G. parla del
Bauhaus e intervista Zevi e Gropius
Presentazione della mostra dell'Autoritratto; Articolo de La Repubblica;
Intervista che riassume la nozione di estetica come "filosofia non
speciale". L'intervista fa parte dell'Enciclopedia multimediale delle
scienze filosofiche. Treccani L'Enciclopedia
italiana". Legalità / Creatività.: G. legge Kant di Romeo Bufalo, in Studi
di estetica, Bologna. LORENZINI, Carlo (Collodi). Nasce a Firenze,
primogenito di Domenico, originario di Cortona, cuoco del marchese Carlo
Leopoldo Ginori Lisci, e di Angiolina (Maria Angela Carolina) Orzali, figlia
del fattore dei marchesi Garzoni Venturi e nata a Veneri (frazione di Collodi).
Degli altri nove figli di casa Lorenzini sopravvissero il terzogenito Paolo,
Maria Adelaide, Giuseppina, e l'ultimo dei fratelli del L., Ippolito. È
probabile che il L. abbia frequentato le scuole elementari a Collodi, dove
risulta ospitato dagli zii materni Giuseppe e Teresa (forse per le disagiate
condizioni della famiglia a Firenze); l'anno successivo, con il sostegno
economico del marchese Ginori, entrò nel seminario di Colle di Val d'Elsa. Decise
di interrompere gli studi in seminario, iscrivendosi nel maggio dell'anno
successivo al corso di retorica e filosofia delle Scuole pie di S. Giovannino a
Firenze. Terminato il corso trovò subito un impiego nella libreria Piatti di
Firenze, nella quale aveva già svolto lavori saltuari per potersi mantenere
agli studi. La libreria, anche casa editrice, era fra le più importanti
di Firenze e frequentata da molti letterati e patrioti liberali, tra i quali
G.B. Niccolini, principale autore delle edizioni Piatti, considerato dal
giovane L. uno dei grandi scrittori italiani. Il L. aveva incarico di redigere
notizie, recensioni e bollettini bibliografici per il catalogo delle novità
della libreria e strinse profonda amicizia con G. Aiazzi, amministratore dell'impresa
ed erudito bibliotecario della Rinucciniana, al quale restò legato tutta la
vita. Aiazzi avviò il L., che ottenne l'autorizzazione alla lettura dei libri
proibiti, alle ricerche di biblioteca e d'archivio e ne accompagnò le prime
prove come cronista teatrale nella Rivista di Firenze e come critico musicale
nell'Arpa musicale, periodi co milanese animato da C. Tenca, dove apparve il primo articolo firmato del L.,
L'arpa. L., insieme con il fratello Paolo e con Giulio Piatti,
proprietario della libreria, si arruolò nel II battaglione fiorentino e
combatté a Montanara: di questa prima esperienza militare rimangono, nelle
Carte collodiane, tre lettere ad Aiazzi, già notevoli per lucidità d'osservazione
e descrizione. In estate il L. tornò a Firenze e dovette trovarsi un
altro impiego anche per poter aiutare la famiglia colpita dalla malattia del
padre, che morì alla fine di settembre a Cortona. Per interessamento di Aiazzi
fu nominato "messaggiere" (segretario, commesso) del Senato toscano e
arrotondò il modesto stipendio con un'intensa attività di collaborazione a
diverse testate, in particolare, al periodico democratico Il Lampione di cui fu
tra i fondatori. Qui pubblicò numerosi articoli, per lo più non firmati, tra i
quali spiccano alcuni pezzi anticomunisti e antifemministi e, soprattutto, la
serie di ritratti intitolata "fisiologie" in cui già con matura
incisività satirica tratteggiava caratteri e tipi contemporanei, come quelli
contrapposti del "codino" e del "crociato" (cioè il falso
volontario): in essi più che "mazziniano sfegatato" (come lo definì
Martini, p. 168), manifestava tendenze repubblicane e democratiche derivate da
Mazzini solo "in termini generali" e in "modo indiretto"
(G. Candeloro, C. Collodi nel giornalismo del Risorgimento, in Studi
collodiani). Con il ritorno dei Lorena nel Granducato, L. dapprima
rinunciò all'impiego (o ne fu allontanato), poi, in giugno, fu reintegrato, ma
la sua condizione lavorativa dovette restare precaria, tanto che l'autunno
dell'anno successivo si dedicò alla traduzione dal francese del romanzo La
figlia dell'archibugieredi M. Masson che apparve a puntate nel periodico
milanese l'Italia musicale, per il quale compì un lungo giro tra Emilia e
Lombardia come critico corrispondente; con quella rivista continuò a
collaborare per tutto il 1851 (nell'agosto era di nuovo a Milano per i suoi
impegni giornalistici) e quando perdette definitivamente il suo impiego.
Con il 1853 l'impegno del L. come giornalista e pubblicista si intensificò
ulteriormente ed egli divenne una delle firme di punta del periodico
artistico-letterario e teatrale L'Arte(cui collaborava anche I. Nievo). Nel
periodico fiorentino venne pubblicando articoli di critica musicale, teatrale e
letteraria (tra cu una feroce stroncatura del poema Rodolfo di G. Prati che
anticipava di netto le prese di posizione negative di F. De Sanctis e G.
Carducci sul poeta trentino) e prose umoristiche: tra l'altro, condusse una
battaglia contro la pittura accademica convergendo sulle posizioni dei
macchiaioli, i cui più importanti esponenti (T. Signorini, A. Tricca, S. Ussi)
incontrava e frequentava al caffè Michelangiolo. Il tutto "con uno stile
rapido e di presa immediata, che si segnala per il valore e la modernità del
linguaggio" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Contemporaneamente, fondò
e diresse il periodico teatrale Lo Scaramuccia, per il quale aveva reclutato
collaboratori di livello, tra cui P. Fanfani e il giovane P. Ferrigni
(Coccoluto Ferrigni), poi famoso con lo pseudonimo di Yorick. Ormai dedito
a tempo pieno alla sua attività di pubblicista e scrittore, estese il raggio
delle sue collaborazioni giornalistiche a periodici quali Lo Spettatore (cui
collaboravano, tra gli altri, G. Giusti, N. Tommaseo e R. Bonghi) e al giornale
umoristico La Lente, in cui per la prima volta usò lo pseudonimo di Collodi
(nell'articolo Coda al programma della Lente). Il L. coltivava
anche ambizioni di scrittore teatrale e compose il dramma in due atti Gli amici
di casa ispirato a un episodio reale e in cui si ritrovano evidenti influssi
del romanzo Beppe Arpia di P. Emiliani Giudici: tentò invano di farlo
rappresentare, ma il testo fu bloccato dalla censura, cosicché più tardi poté
pubblicarlo (Firenze), ma non riuscì a farlo mettere in scena. Pubblica Un
romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno. Guida storico-umoristica, nato come
opuscolo-guida per viaggiatori in occasione dell'inaugurazione della ferrovia
Leopolda, che collegava appunto Firenze a Livorno. In esso il L. contaminava e
stravolgeva, tentando un'inedita forma di giornalismo umoristico ispirato al
modello di L. Sterne (cfr. Marcheschi, in C. Collodi, Opere), il genere
"popolare" del romanzo e quello "borghese" della guida di
viaggio. Così la narrazione romanzesca, che procede in modo parodisticamente
caotico e con l'intreccio ingarbugliato della narrativa d'appendice, è
inframmezzata da divagazioni con informazioni utili o curiose per il
viaggiatore sulle diverse località toccate dalla ferrovia. Confortato dal
buon esito di critica e pubblico del Romanzo in vapore, il L. si dedicò alla
stesura di un'altra opera romanzesca di carattere parodistico, I misteri di
Firenze. Scene sociali, che uscì a dispense dall'ottobre 1857, preannunciata
dalla stampa sin da maggio ed elogiata per lo stile vivace e spontaneo. Il
romanzo, che restò (forse intenzionalmente) interrotto al primo volume,
intendeva essere sin dal titolo parodia della narrativa d'appendice alla E. Sue
(I misteri di Parigi), ma si risolve, senza il consolante lieto fine del
romanzo popolare, in un'amara critica della società fiorentina, moralmente e
politicamente decaduta, condotta con uno stile fortemente espressivo e
satirico, con esiti non di rado farseschi e surreali. Durante la stesura
di queste opere, il L. proseguì incessantemente la sua intensa attività di
pubblicista e di operatore teatrale. Nel marzo 1856 assunse l'incarico di
segretario della compagnia teatrale Romandiolo-Picena fondata da G. Servadio,
facendo la spola nei mesi successivi tra Ancona, Bologna e Firenze e
intrecciando una breve e tormentata relazione amorosa con il mezzosoprano
Giulia De Filippi Sanchioli. Conclusa la sua attività di segretario della
Romandiolo-Picena, tornò per breve tempo a Firenze, da dove ripartì
improvvisamente (forse in seguito a un'altra infelice relazione amorosa) la
primavera successiva, spostandosi tra Milano e Torino come critico del
periodico L'Italia musicale. Nella capitale sabauda si arruolò
nell'esercito piemontese e partecipò come soldato semplice alla guerra. Dopo
l'umiliante armistizio di Villafranca, alla fine di agosto fu posto in congedo
e ritornò a Firenze. Qui, amareggiato e depresso, iniziò a collaborare come
"cronista settimanale" al giornale La Nazione, diretto dall'amico A.
D'Ancona, espressione del gruppo moderato che faceva capo a B. Ricasoli. E
proprio dalla cerchia di Ricasoli, tramite C. Bianchi, gli venne chiesto di
scrivere una replica all'opuscolo La politica napoleonica e quella del governo
toscano del conservatore federalista e neoguelfo E. Albèri, uscito (con la
falsa indicazione di Parigi, in realtà a Firenze) ai primi di dicembre del
1859. In esso, con un violento attacco contro i toscani filopiemontesi, i
plebisciti e il partito unitario, si propugnava l'istituzione di un Regno
dell'Italia centrale, da assegnare, secondo il desiderio di Napoleone III, a
Gerolamo Bonaparte. Il L. rispose con l'ironico e brioso Il sig. Albèri ha
ragione!( Dialogo apologetico (scritto a Collodi e pubblicato a Firenze alla
fine di dicembre), in cui, fingendo di schierarsi dalla parte del professore
bonapartista, ne ridicolizzava la proposta politica, sottolineando come
sull'ipotesi dell'annessione convergesse la volontà prevalente dei
Toscani. Nel febbraio del 1860, per interessamento del marchese Ginori e
di Ricasoli, ricevette la nomina per il modesto ruolo di commesso aggregato
della commissione di censura teatrale; in marzo condusse dalle colonne de La
Nazione un'accesa campagna in sostegno dei plebisciti annessionistici. Nei mesi
successivi si imbarcò nell'impresa della riesumazione del quotidiano umoristico
Il Lampione, di cui era insieme fondatore, compilatore e direttore (mentre il
fratello Paolo ne era l'amministratore) e che, presentandosi come prosecuzione
del giornale interrotto, intendeva incarnare ed esprimere l'evoluzione (non solo
del L.) dal repubblicanesimo quarantottesco al successivo e più maturo lealismo
annessionistico. A questa amara e disillusa evoluzione politica
corrispondeva del resto l'insoddisfazione personale per la sua posizione
lavorativa, ormai stabile ma modesta e non amata. Ai doveri del suo ufficio il
L. si dedicò sempre senza entusiasmo, anche quando, nel 1864, ebbe la nomina a
segretario di seconda classe nell'amministrazione provinciale di Firenze e poi,
nel 1874, quella a segretario di prima classe: appena poté chiese e ottenne di
essere collocato a riposo. Le non onerose incombenze del suo
impiego, pertanto, non gli impedirono di occuparsi con crescente intensità
delle sue molteplici attività di pubblicista, scrittore teatrale e, infine, di
cultore di cose di lingua. Così, nel novembre 1860, recandosi a Milano per
contattare Tenca e il gruppo del periodico Il Crepuscolo, fu cooptato come
segretario aggiunto nella Commissione promotrice del Panteon italiano, cui era
collegato il progetto di un'edizione nazionale delle opere di Dante. Nel
1861 pubblicò l'opuscolo La Manifattura delle porcellane di Doccia, steso
(probabilmente per iniziativa del fratello Paolo, direttore della fabbrica
Ginori) come guida storica e illustrativa dell'industria dei marchesi Ginori in
occasione dell'Esposizione italiana che si tenne quell'anno a Firenze.
L'opuscolo del L., che ripercorreva abbastanza fedelmente la linea espositiva
di un analogo volumetto compilato ancora da Albèri circa vent'anni prima, era
anche un "elogio della politica illuminata dei marchesi Carlo
("l'Owen della Toscana") e Lorenzo, per migliorare le condizioni di
vita dei propri operai" (Marcheschi, in C. Collodi, Opere). Ne Il
Lampione, apparve la commedia Gli estremi si toccano, in seguito ampliata con
il titolo La coscienza e l'impiego, amara satira politica contro l'eterno
trasformismo, e in novembre poté finalmente far rappresentare il dramma Gli
amici di casa, rielaborato sul modello delle opere di V. Sardou in forma di
commedia in tre atti: l'accoglienza della critica fu tiepida, ma unanime
consenso ricevette la vivacità linguistica del testo. Al teatro il L.
continuò a dedicarsi per tutto il decennio successivo sia per dovere d'ufficio
(fa parte della Società d'incoraggiamento teatrale e nella Gazzetta d'Italia
apparve un suo importante articolo tecnico sulla Censura teatrale in Italia)
sia come critico e in qualità di autore. Pubblica a Firenze la commedia in tre
atti L'onore del marito, rappresentata per la prima volta al teatro Niccolini,
rivolta non tanto alla condanna dell'adulterio quanto a sottolineare la
vitalità della borghesia attiva rispetto all'infiacchita e oziosa aristocrazia
italiana. In quel periodo attese anche alla stesura della commedia in quattro
atti Antonietta Buontalenti, che non risulta essere stata rappresentata; risale
inoltre la composizione della commedia in due atti I ragazzi grandi,
rappresentata con scarso successo a Firenze nell'agosto dell'anno successivo.
Subito trascritta in forma di racconto lungo (o romanzo breve), fu pubblicata a
puntate nel Fanfulla con il significativo sottotitolo Bozzetti e studi dal
vero. Con esso per un verso si indicava il registro di spietata lucidità con
cui erano ritratti i protagonisti, viziati dall'ozio, dall'agiatezza e
dall'opportunismo politico; per l'altro si chiariva come il "vero"
che si prefiggeva L., più che quello del naturalismo letterario, era quello
nitido, rapidamente tratteggiato e nettamente chiaroscurato en plein air della
contemporanea pittura toscana. Del resto, anche nell'intensa attività
giornalistica esercitata dal L. nel quindicennio che va dall'Unità, in
particolare in La Nazione, La Gazzetta del popolo e nel Fanfulla, la sua
attenzione di notista politico e di osservatore e commentatore di costume andò
concentrandosi, con toni progressivamente amari e disillusi, sull'esame dei
problemi, dei conflitti e degli scandali dell'Italia appena unificata, con attacchi
sempre più ironici e velenosi contro personaggi e provvedimenti politici (come
M. Coppino e la sua legge sull'istruzione elementare, Q. Sella e la tassa sul
macinato, il corso forzoso e la politica fiscale dei governi della Destra) e
soprattutto contro tipi, costumi e mentalità dominanti, fino all'acme
paradossale e sferzante della Delenda Toscana, sarcastica lettera aperta a M.
Minghetti, pubblicata il 30 genn. 1876 nel Fanfulla. Qui, in risposta alla
ventata antitoscana successiva alla polemica sul privilegiato esercizio delle
ferrovie, era esposta la paradossale e sferzante proposta di sopprimere la
Toscana stessa, cancellandola dalla carta geografica del Regno d'Italia.
A questa oltranza polemica, pagata peraltro cara dall'impiegato L., diffidato,
in quanto dipendente del ministero degli Interni, da G. Nicotera e da F. Crispi
dal pubblicare articoli politici, seguì un deciso cambiamento di attività e di
orizzonti. In primo luogo, al giornalismo etico-politico militante
subentrò una fase in cui L. si dedicò al riordino e alla pubblicazione in
volume del meglio della propria produzione pubblicistica (racconti e cronache)
nelle raccolte, dai titoli programmaticamente eloquenti, Macchiette (Milano
1880) e Occhi e nasi. Ricordi dal vero (Firenze). In esse riunì, senza alcuna
revisione, semplicemente legate con il "filo di refe", come avvertiva
non senza autoironica civetteria nella prefazione di Macchiette, le prove più
tipiche della prosa giornalistica, caratterizzate da "sapienti scorciature
e tagli narrativi" (Asor Rosa) a formare un antinaturalistico ritratto
"alla macchia" dell'Italia contemporanea, schizzato, cioè, "dal
vero" non a "figurine intere" ma con i tratti essenziali dei
"profili", gli occhi e i nasi (prefazione a Occhi e nasi).
Inoltre, si fece più consapevole la sua attenzione, sempre così acuta, ai
fatti di lingua, e tale senso nativo della lingua venne precisandosi in una più
chiara adesione al fiorentino vivo di tono medio. Proprio per questo ènominato
dal ministro E. Broglio membro straordinario della giunta per la compilazione
del vocabolario dell'uso fiorentino, impresa alla quale, peraltro, dette scarso
contributo. L. si indirizzò, dapprima casualmente e occasionalmente, poi
con impegno, assiduità e adesione personale sempre più convinti, verso la
letteratura per l'infanzia. Questa gli offriva un terreno di illimitata libertà
fantastica in cui superare la grigia realtà del presente e insieme la
possibilità di una sua piena partecipazione al clima "fortemente
pedagogizzante" del "mondo morale e intellettuale del tempo",
dominato da un "bisogno incoercibile di guardare al di sotto della
superficie" delle cose (Asor Rosa), dal quale prendevano le mosse i due
diversi ma in fondo convergenti filoni della letteratura verista e della
letteratura moralistica e normativa alla De Amicis. L'occasione per quella
svolta fu offerta al L. dalla dinamica casa editrice fiorentina dei fratelli
Paggi, all'avanguardia nel fiorente mercato dell'editoria scolastica, che gli
propose di tradurre i Contes e le Histoires di Ch. Perrault, nonché le favole
della Contessa di Aulnoy e di Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont. La versione,
condotta dal L. con leggere variazioni rispetto agli originali e con stile
piano ed elegantissimo, uscì l'anno seguente con il titolo Racconti delle fate
e le illustrazioni di E. Mazzanti. Da allora, pur riprendendo la
collaborazione al Fanfulla e continuando la sua attività di critico teatrale,
il L. si mosse quasi esclusivamente nel campo della letteratura scolastica e
per ragazzi. Così, sempre presso Paggi pubblicò con discreto esito i due libri
di lettura Giannettino, che sin nel titolo riprendeva il fortunato romanzo
pedagogico Giannetto di L.A. Parravicini, e Minuzzolo: entrambi erano storie di
bambini discoli o svogliati, ricondotti alla scuola e alla normalità dalle
famiglie e da esperienze che li inducevano a riflettere (lo schema è già quello
di Pinocchio, ma le peripezie dei due protagonisti si svolgono sullo sfondo
della Firenze contemporanea). Ormai accreditato tra i più ricercati
autori di libri scolastici e per l'infanzia, il L. (che per le sue opere
pedagogiche ottenne nel 1878 la nomina a cavaliere della Corona d'Italia e
ricevette da Conti, assessore alla cultura del Comune di Firenze, l'incarico di
compilare i libri di testo per le scuole fiorentine) si dedicò con insolita
metodicità alla compilazione di una lunga serie di opere che configuravano una
sezione autonoma, personale e sistematica, all'interno della "Biblioteca
scolastica" della casa editrice Paggi. Nacque così, tra l'altro, una serie
di volumi imperniati sulla figura di Giannettino: il Viaggio per l'Italia di Giannettino:
Italia superiore, seguito nel 1883 dal secondo volume dedicato all'Italia
centrale e nel 1886 dal terzo, sull'Italia meridionale; La grammatica di
Giannettino; L'abbaco di Giannettino(1884); La geografia di Giannettino; fino a
La lanterna magica di Giannettino. Con la loro formula innovativa questi testi
costituirono una novità ben accolta dal mondo scolastico, ma non sempre
apprezzata dai vertici più austeri e arcigni del ministero della Pubblica
Istruzione (cfr. Raicich): le diverse discipline, infatti, erano esposte in
forma decisamente scherzosa e discorsiva, spesso apertamente dialogica
nell'intento di alleggerire la finalità didascalica del testo e rendere
l'apprendimento il più possibile piacevole e "naturale". Al
centro di tale intensa attività vanno inquadrate la nascita e la complessa
vicenda redazionale ed editoriale de Le avventure di Pinocchio. Il libro nacque
per le insistenze di G. Biagi, vecchio amico del L., che lo voleva tra i
collaboratori del periodico Il Giornale per i bambini di cui era animatore e
che era stato fondato da Martini con l'ambizione di rinnovare la letteratura
infantile italiana. L., ormai stanco e disilluso, rispose controvoglia inviando
all'amico i primi tre capitoli di un testo intitolato La storia di un burattino
(dallo stesso L. definito, con la consueta autoironia, "una
bambinata"), pubblicati nei numeri di luglio del Giornale. I capitoli
successivi apparvero nei numeri dal 4 agosto al 27 ottobre: la vicenda si
concludeva al capitolo XV con l'impiccagione e la presunta morte del burattino.
Forse per le insistenze di Biagi e certo per il successo riscosso dalla storia,
il L., dopo molti dinieghi, si decise a proseguire la narrazione, il cui
seguito, con il titolo ormai definitivo di Le avventure di Pinocchio. Storia di
un burattino, iniziò a essere pubblicato (dal cap. XVI) dal febbraio 1882. La
pubblicazione proseguì a ritmo irregolare. Velocissima è la pubblicazione in
volume, che uscì nel febbraio successivo presso Paggi, con le illustrazioni, di
nuovo, di Mazzanti; sempre presso Paggi apparvero, e andarono presto esaurite,
una seconda edizione nel 1886 (lo stesso anno in cui Amicis pubblica Cuore),
una terza di cui non restano esemplari, e una quarta (1888). L'ultima edizione
uscita vivente l'autore fu quella pubblicata nel 1890 presso R. Bemporad et figlio
concessionari della Libreria Paggi. Non è sicuro che il L. abbia rivisto
personalmente tutte queste edizioni, che pure furono stampate con il suo
consenso; è certo, però, che nel corso delle varie ristampe il testo fu alterato
da refusi e banalizzazioni. Se ci si limita alle sole circostanze esterne
della composizione e della pubblicazione di Pinocchio, dunque, può risultare
fondata la qualifica di "capolavoro scritto per caso" risalente a P.
Pancrazi. In essa, oltretutto, è cristallizzata in un'efficace formula critica
la constatazione che la straordinaria qualità espressiva della
"bambinata" ha finito per mettere in ombra il resto dell'intensa
carriera letteraria e giornalistica del L., il quale, se non avesse scritto il
suo capolavoro, sarebbe comunque restato, al di là delle sue ambizioni
teatrali, uno dei protagonisti della narrativa umoristica e soprattutto del
giornalismo della seconda metà dell'Ottocento. In realtà,
nell'archetipica polisemia della fiaba e con l'enigmatica perspicuità del
capolavoro, in Pinocchio convergevano, in una struttura insieme profondamente
coesa, traballante e sfuggente, tutte le componenti e le esperienze della vita
e della carriera letteraria del L.: dalla sua lunga militanza come scrittore
satirico e bozzettista (trasfusa nelle numerose figure e figurine che animano
l'universo del burattino), alla sua intensa attività di autore di testi
scolastici (da cui deriva il registro scherzoso e colloquiale con cui è
condotta la narrazione), alla sua ricerca di una lingua non letteraria e
mediana, che trova piena realizzazione nel toscano "vivo" in cui la
celebre fiaba è narrata. Di tutto ciò non si accorsero né i
contemporanei, che decretarono a Le avventure di Pinocchio un successo
crescente ma circoscritto all'esiguo spazio della letteratura infantile, mentre
la fortuna editoriale della "bambinata" veniva crescendo fino a farne
il libro più letto e tradotto al mondo dopo la Bibbia, né gli antesignani della
critica collodiana (da P. Hazard, a Pancrazi, a B. Croce, fino ad A. Savinio e
A. Baldini), i quali, rivolti a indagare e rivendicare Pinocchiocome capolavoro
della letteratura mondiale, non si curarono di ricostruirne i nessi con la vita
e la carriera del suo autore. Negli anni della composizione e
pubblicazione di Pinocchio, il L. proseguì la collaborazione al Fanfulla e
assunse parte sempre più attiva nella gestione del Giornale per i bambini, di
cui divenne direttore e nel quale pubblicò racconti e novelle quali Chi non ha
coraggio vada alla guerra. Proverbio in due parti, La festa di Natale e Pipì lo
scimmiottino color di rosa, quest'ultima confluita con altri racconti e
memorie, tra cui il brioso dialogo Dopo il teatro, nel volume Storie allegre
pubblicato nel 1887, sempre presso Paggi. L'anno prima era morta la
madre, presso la quale il L. ancora viveva, e per lui fu un colpo da cui non
riuscì a riprendersi. Gli anni successivi furono i più tristi e solitari della
vita del L. che, già minato nel fisico, venne sempre più chiudendosi in se
stesso e isolandosi nel suo lavoro. L. muore a Firenze improvvisamente.
Dopo la sua morte, su incarico del fratello Paolo, il grammatico e lessicografo
purista G. Rigutini ordinò e raccolse in due volumi (Note gaie e Divagazioni
critico-umoristiche, editi entrambi a Firenze) gran parte delle prose sparse
del L., intervenendo con arbitrarie correzioni e aggiunte ai testi. Rigutini e
il fratello Paolo, inoltre, passarono in rassegna la vasta raccolta delle sue
carte, provvedendo a distruggere quasi tutte le lettere (private o d'argomento
politico) che avrebbero potuto nuocere all'onorabilità del L. e di molti
viventi, e soprattutto molti inediti, al fine di salvaguardare "il buon
nome del Collodi scrittore" (cfr. Paolo Lorenzini [Collodi nipote]). Le
non molte carte sopravvissute furono donate dall'ultimo dei fratelli, Ippolito,
alla Biblioteca nazionale di Firenze. Fonti e Bibl.: Firenze, Biblioteca
nazionale, N.A., 754: Carte Lorenzini, cassette I, II, III; un altro nucleo di
carte è custodito presso l'archivio del Gruppo editoriale Giunti Bemporad
Marzocco di Firenze, erede della casa editrice Paggi (cfr. Minicucci, Tra
l'inedito e l'edito delle carte manoscritte di C. L., in Studi collodiani. Atti
del I Convegno internazionale, Pescia. Altri documenti sono presso
l'Autografoteca Bastogi della Biblioteca Labronica F.D. Guerrazzi di Livorno e
presso la Biblioteca nazionale di Roma. Infine, numerosi cimeli sono conservati
presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (cfr. i cataloghi Collodi
giornalista e scrittore, a cura di R. Maini - P. Scapecchi, Firenze; Pinocchio
e pinocchiate nelle edizioni fiorentine della Marucelliana, a cura di R. Maini
- M. Zangheri, Firenze). Tra le testimonianze biografiche contemporanee,
i necrologi di E. Checchi e Yorick (rispettivamente nel Fanfulla della domenica
e nella Domenica fiorentina; i profili premessi dai curatori a due successive
edizioni delle Note gaie del L. (a cura di G. Rigutini, Firenze; a cura di I.
Cortona, Lorenzini); G. Biagi, Il babbo di "Pinocchio": C. Collodi,
in La Lettura, Martini, Confessioni e ricordi (Firenze granducale), I, Firenze;
inoltre Lorenzini, Collodi e Pinocchio, Firenze 1954; R. Bertacchini, Il padre
di Pinocchio. Vita e opere del Collodi, Milano, Traversetti, Introduzione a
Collodi, Roma-Bari; Cronologia, in C. Collodi, Opere, a cura di D. Marcheschi,
Milano. Manca un'edizione completa delle opere del L.: il progettato Tutto
Collodi, a cura di P. Pancrazi, è rimasto interrotto al primo volume (Firenze);
la più ampia raccolta attualmente disponibile è quella delle Opere, a cura di
D. Marcheschi, che nella Bibliografia delle opere di C. Collodi dà conto delle
numerose edizioni e ristampe dei testi giornalistici e delle opere minori
(narrative e teatrali) del L.: va inoltre ricordata la ristampa anastatica
della Grammatica di Giannettino, a cura di Geymonat, Firenze. De Le
avventure di Pinocchio si segnalano solo le edizioni di particolare rilievo: le
due edizioni critiche, la prima a cura di A. Camilli, Firenze 1946 (basata
sull'edizione Paggi del 1883); la seconda, a cura di O. Castellani Pollidori,
Pescia 1983 (fondata sull'edizione Bemporad, l'ultima rivista dall'autore -, ma
corredata delle varianti delle precedenti stampe e dei manoscritti
dell'autore); inoltre, le tre edizioni curate da F. Tempesti (tutte pubblicate
a Milano), corredate da un ampio commento e da ricchi apparati documentari;
infine, quella compresa nella raccolta di Opere, a cura di Marcheschi, con
ampio corredo di note. Tra le più recenti, quella (Torino 2002) con introd. di
S. Bartezzaghi e prefaz. di G. Jervis, e quella (Milano) con introd. di P.
Italia e prefaz. di V. Cerami. Per il resto si rinvia (anche per la letteratura
critica) alla Bibliografia Collodiana di L. Volpicelli (Pescia), da integrare
con la citata Bibliografia di D. Marcheschi, aggiornata,, alla consultazione
del catalogo della Biblioteca Collodiana e all'Archivio digitale degli articoli
su C. Collodi e Pinocchio (on-line su internet), gestiti dalla Fondazione
nazionale Carlo Collodi di Pescia. La storia degli studi critici sul L. in
gran parte contributi su Pinocchio) è ricostruita in due ampie panoramiche: Da
Collodi a L.: sulla fortuna critica di D. Marcheschi, in C. L. oltre l'ombra di
Collodi, cur. Viola e Rovigatti, Roma; Pinocchio. Breve storia della critica
collodiana di Bertacchini, in C. L.- Collodi nel centenario. Atti del Convegno,
Roma-Pescia Roma. Pertanto, diamo per esteso solo i riferimenti agli incunaboli
della critica collodiana richiamati nel testo: P. Hazard, La littérature enfantine
en Italie, in Revue des deux mondes, Pancrazi, Elogio di Pinocchio, in Id.,
Venti uomini, un satiro e un burattino, Firenze Croce, Pinocchio, in Id., La
letteratura della Nuova Italia, V, Bari; Bargellini, La verità di Pinocchio,
Brescia Savinio, Collodi, in Id., Narrate uomini la vostra storia, Milano Fazio
Allmayer, Commento a Pinocchio, Firenze; Baldini, La ragion politica di
"Pinocchio, in Id., Fine Ottocento. Carducci, Pascoli, D'Annunzio e
minori, Firenze; Pancrazi, Capolavoro scritto per caso, in Id., Scrittori
d'oggi, Segni del tempo. Inoltre, va ricordato l'impulso dato allo studio della
personalità e dell'opera del L. dalla Fondazione nazionale Carlo Collodi, a
Pescia, soprattutto con una lunga serie di congressi scientifici: Studi collodiani.
Atti del Convegno Pescia; Pinocchio oggi. Atti del Convegno pedagogico,
Pescia-Collodi, C'era una volta un pezzo di legno. Atti del Convegno La
simbologia di Pinocchio", Pescia Milano; Folkloristi italiani del tempo
del Collodi(, Pescia, cur. Clemente - M. Fresta, Montepulciano; Pinocchio fra i
burattini. Atti del Convegno internazionale, cur. Tempesti, Firenze; Pinocchio
sullo schermo e sulla scena. Atti del Convegno internazionale, a cura di G.
Flores d'Arcais, Firenze; Scrittura dell'uso al tempo del Collodi cur.
Tempesti, Firenze; Pinocchio nella pubblicità(, Pescia cur. Bernacchi, Firenze;
Sterne e Collodi. Atti della tavola rotonda, Lucca. Per il centenario
della morte del L. vanno ricordati il volume promosso dalla Banca Toscana, C.
Collodi, lo spazio delle meraviglie, a cura di R. Fedi, con introduzione di L.
Comencini e Suso Cecchi D'Amico, Firenze e le citate pubblicazioni
dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana a Roma: il catalogo C. L. oltre
l'ombra di Collodi; e gli atti del Convegno C. L.- Collodi nel
centenario. Tra gli studi dell'ultimo decennio: M. Raicich, Di grammatica
in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma; G. Cives,
Pinocchio tra realtà e sogno, in F. Cambi - G. Cives, Il bambino e la lettura.
Testi scolastici e libri per l'infanzia, Pisa, Giachery, Tre compari intorno a
un burattino, in Id., La letteratura come amicizia, Roma, Gómez del Manzano -
G. Janier Manica, Pinocchio in Spagna, Scandicci; A. Asor Rosa, Le avventure di
Pinocchio, in Id., Genus Italicum. Saggi sull'identità letteraria italiana nel
tempo, Torino, Citati, Il ritratto di "Pinocchio", in Id., Ritratti
di donne, Milano, Cives, Da "Pinocchio" a "Cuore": due
fortune molto diverse, in Scuola e città, Farnetti, I notturni di Pinocchio, in
Id., L'irruzione del vedere nel pensare. Saggi sul fantastico, Pasian di Prato
Gasparini, La corsa di Pinocchio, Milano Lanza, Lo stolto. Di Socrate,
Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Torino; Tempesti,
Pinocchio, in I luoghi della memoria: strutture ed eventi dell'Italia unita, a
cura di M. Isnenghi, Roma-Bari, Spinazzola, Pinocchio et C., Milano Toesca, La
filosofia di Pinocchio, ovvero l'Odissea di un ragazzo per bene con memoria di
burattino, in Forum Italicum, Pizzoli, Sul contributo di "Pinocchio"
alla fraseologia italiana, in Studi linguistici italiani, Randaccio, La
"Legge shandyana del nome" nei personaggi di C. Collodi, in Riv.
italiana di onomastica, Bertacchini, Collodi poeta di teatro, in Nuova
Antologia, Biffi, Alcuni interrogativi su Collodi e Pinocchio, in Studi
cattolici; Campa, La metafora dell'irrealtà: saggio su "Le avventure di
Pinocchio", Lucca; Sterne e Collodi, Lucca, testi di R. Bertacchini, D.
Marcheschi, F. Tempesti, Guagnini, Il "Romanzo in vapore" e la
tradizione delle guide e della letteratura di viaggio, in Id., Viaggi
d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura in Italia, Udine, Iermano, Da
Parravicini a Amicis: considerazioni sulla letteratura per l'infanzia tra
Risorgimento e Italia umbertina, in Studi piemontesi, Carosi, Pinocchio. Un
messaggio iniziatico, prefaz. di G. De Turris, Roma; A. Gnocchi - M. Palmaro,
Ipotesi su Pinocchio, Milano; Moret, Pinocchio e le pinocchiate in Francia, in
Levia gravia, Tamburini, Il cuore di Collodi e quello di De Amicis, in Studi
piemontesi, Villoresi, La letteratura poliziesca e del mistero ambientata a
Firenze. Contributo per un itinerario di ricerca, in Archivi del nuovo,
Lavizzari, Della disubbidienza in Pinocchio, in Nuovi Argomenti, Geymonat, Una grammatica di buon senso, in
Collodi, La grammatica di Giannettino, cur. Geymonat, Firenze; Marello, La
dubbia efficacia del paternalismo induttivo, i Castellani Pollidori, In riva al
fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia, Roma, ad ind.; Il giro di
Pinocchio in due giornate. Convegno internazionale di studi, Pisa. Proietti. Ho
intervistato G. presso la sua casa di Roma. Pochi mesi prima avevo deciso,
insieme al mio relatore Amoroso, di scrivere un saggio i sull’estetica di G.. G.,
molto gentilmente, non solo ha concesso l’intervista ma l’ha rivista e mi ha
fornito indicazioni importanti per la stesura della tesi. G., nei suoi testi
c'è stato un progressivo spostamento di interesse dalla semiotica all'estetica,
in che modo lo descriverebbe? Come lo motiva? Io mi sono occupato molto prima
di estetica che di SEMIOTICA. Ma quando ho cominciato ad occuparmi di SEMIOTICA,
l’interesse non e rivolto solo alle opere d’arte, anche se l’occasione e
questa. Perché mi sono occupato di SEMIOTICA? Sono stato attratto anch’io nel
vortice della MODA della SEMIOTICA. Ma forse ho anche qualche motivo serio per
farlo. Provengo dalla cultura estetica imperante in Italia, di tipo crociano,
dove l’arte viene riportata all’intuizione, e non si dice quasi nulla di più.
Non si sa in alcun modo come l’estrinsecazione di questa intuizione si
strutturi e sia analizzabile. Lo stesso Croce nelle sue opere critiche conduce
analisi critiche vere e proprie in modo assai esiguo. Poesia e non-poesia e
quasi nient’altro. Anche i tentativi che sono fatti sulla scia 2crociana
nell’ambito di arti particolari, nell’architettura da parte di Zevi, nella
musica da parte d’altri e così via, servirono fino a un certo punto, perché
resta pur sempre quelle categoria fissa e indistinta dell’intuizione. Tanto
meno si puo sapere, come pure e nella mente di Croce, se e quando un’opera
d’arte e veramente un’opera d’arte, se si potesse distinguere fra un’opera
d’arte riuscita e un’opera d’arte non riuscita e quindi non più opera d’arte.
Appunto questo intuizionismo mi urta. Non a caso mi avvicinai in un [Questa
intervista nasce dunque come appendice al saggio di Ferrari, Estetica e FILOSOFIA
in G, Pisa. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, Torino] primo momento a
Volpe, citato già nel mio saggio e ampiamente discusso insieme al pensiero di
Anceschi, di Formaggio e di molti altri. Perché Volpe? Perché in lui c’e
l’esigenza di riportare l’opera d’arte a un uso specifico del LINGUAGGIO. In VOLPE
insomma l’opera si presenta come analizzabile, ed effettivamente Volpe conduce ANALISI
SEMANTICHE, piacciano o no, più che analisi sorvolanti sulla mera forma. Tali
analisi semantiche si occupano inoltre anche di varie arti non linguistiche.
L’appendice alla Critica del gusto, che riprende il tema del Laocoonte
lessinghiano, contiene infatti riferimenti, per esempio, alla pittura, e non è
un caso che al proposito si citi Brandi, che non e mai un semiotico, anzi e un
accanito ANTI-semiotico, e tuttavia pone le basi di un’autentica analisi
dell’opera d’arte. Tra parentesi: io apprezzo tuttora moltissimo Brandi, che ho
sempre letto. Insomma: mi interessa di poter disporre di una teoria che
permettesse di analizzare, sì, la struttura delle opere, ma anche la loro
struttura COMUNICATIVA. Ero tuttavia contrario al modo semplicistico allora
adottato frequentemente, di prendere pezzi materiali di opere e classificarli
come SEGNI (per esempio,
nell’architettura, «capitello», «colonna», «base», e così via), e ho tentato
invece un’impresa molto più difficile e in qualche modo più fine, che però si
dimostra anch’essa fallimentare o piuttosto inutilizzabile. Mi sforzo cioè di
produrre una semiotica formale mediante operazioni analoghe a quelle che si
conducono sul linguaggio, dove appunto si arriva a unità formali, non
materiali. Monemi e fonemi, per esempio, non sono pezzetti di frase, ma unità
formali costitutive della sequenza linguistica. Volevo ottenere insomma una
autentica leggibilità dell’opera, non puramente retorica, ma aderente alla sua
costituzione. Non pretendo, certo, di arrivare attraverso l’analisi di un’opera
a giustificare la sua bellezza o non bellezza, il giudizio estetico è un'altra
cosa, volevo solo analizzare e capire l’oggetto, che poteva poi essere opera
d’arte o altre cose, anche non opere d’arte, anche oggetti comuni. Ho
intrapreso dunque questa impresa assai ardua, ma a un certo punto mi sono
accorto che quel lavoro puo forse essere interessante come mero esperimento, ma
non porta a niente. In realtà non porta a niente né la semiotica materiale di
tanti altri, né la mia semiotica formale. Ho avuto una vera e propria crisi
teorica dopo aver scritto Progetto di semiotica, saggio semioticamente troppo
ambizioso. La crisi si risolse con Ricognizione della semiotica, che è una
dichiarazione di abbandono sostanziale della semiotica e un’apertura più
decisa, anche se già più che affiorante nei saggi precedenti, verso altri
orientamenti. Una precisazione importante. Mi sono distaccato dagli studi di
semiotica sulla base di un accorgimento ancora più fondamentale, vale a dire: tento
di utilizzare opportunamente gli strumenti linguistici anche per i linguaggi
non verbali e di arrivare a soluzioni non ovviamente identiche, ma ANALOGHE,
nella definizione del loro codice, e mi sono accorto a un certo punto che
neanche il codice linguistico è un vero e proprio codice. C’è, sì, una parte
codificata, fonematica, monematica e grammaticale. Ma, nell’uso, poi, il
linguaggio è creativo, continuamente si amplia, muta, e così via. E mi sono
convinto che sarebbe stato assurdo pretendere qualcosa di [ G., La crisi
semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma. Volpe, Critica del gusto,
Feltrinelli, Milano. G., Progetto di semiotica. Messaggi artistici e linguaggi
non-verbali, Problemi teorici e applicativi, Laterza, Bari. G., Ricognizione
della semiotica. Tre lezioni di, Officina Edizioni, Roma] più da linguaggi
chiaramente ancora meno codificati, come per esempio il presunto linguaggio
figurativo. Mi ha allontanato dalla semiotica, inoltre, l’approfondimento della
filosofia di Kant. Naturalmente, mi ero da sempre occupato di Kant e in
particolare della terza Critica, e ho tenuto sull’argomento vari corsi di
lezioni. E via via che ando maturando una mia interpretazione di Kant, essa e
sempre più in collisione con una prospettiva semiotica. Non che le opere non
siano analizzabili, ma sono analizzabili con strumenti diversi, non con
strumenti propriamente semiotici. Ma questo è un altro discorso. Come reputa di
inserirsi nella tradizione kantiana in Italia? Quali sono stati e sono i suoi
riferimenti imprescindibili in essa, e come ritiene di averli rielaborati? Chi
sono stati e sono i suoi interlocutori privilegiati? Il riferimento più
significativo è SCAVARELLI. Scaravelli dà un’interpretazione fulminante della
terza Critica, mettendo in evidenza cose che non sono mai state viste, e che
invece, dopo aver letto Scaravelli, risultano addirittura ovvie. Debbo citare
anche un autore, un po’ più antico, che pure dice cose molto interessanti: BARATONO,
che sostanzialmente interpreta il principio estetico della facoltà di giudizio
come un principio per la possibilità dell’esperienza particolare della natura e
quindi della scienza. È insomma una parziale anticipazione di Scaravelli. Un
ultimo riferimento notevole è MATHIEU, che è giunto a risultati analoghi nei
riguardi del cosiddetto Opus postumum. Questi sono i miei più importanti
riferimenti. Tutti italiani? Naturalmente ho letto e apprezzato anche molte
opere di studiosi non italiani, da Cassirer a De Vleeschauwer, da Hinske a
Guyer, e così via. Ma sa che cosa si dice, scherzando, ma fino a un certo
punto, in Germania, proprio nell’ambiente di Hinske?, che gli studi kantiani si
sono ormai trasferiti in Italia. I miei interlocutori... non è che io abbia
tanti interlocutori. Insomma: molti che si occupano di Kant non si occupano
molto di me, e io non mi occupo molto di loro. Alcuni interlocutori, sì, li ho,
e ottimi. Per esempio MARUCCI, con cui ho avuto anche una corrispondenza che,
come lei sa, è stata pubblicata, mi pare, in «Studi di estetica». Con Marcucci
sono in ottimi rapporti, abbiamo sempre scambiato idee, mi manda i suoi saggi e
io gli mando i miei. Insomma discutiamo, anche se non siamo sempre d’accordo,
soprattutto sul punto fondamentale dell’interpretazione del principio estetico
della facoltà di giudizio. Ma spesso è più [Le considerazioni più rilevanti
sulla terza Critica sono in: Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del
Giudizio, poi in Scaravelli, Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze. Cfr.
Baratono, Il pensiero come attività estetica. Introduzione alla Critica del
Giudizio, Logos. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di
Kant, Edizioni di «Filosofia», Torino; Kant, Opus postumum, a cura di Mathieu,
Zanichelli, Bologna. G., Marcucci, Lettere kantiane, Studi di estetica] proficuo
non essere d’accordo, che l’esserlo. E ancora: Amoroso. Con Amoroso ho
scambiato idee, ho letto il suo saggio su Kant che apprezzo molto. Per esempio,
ci siamo visti in occasione di un seminario kantiano a Palermo, e abbiamo
parlato a lungo. E ancora Makkreel, che ho conosciuto a Salle, e Rocca, che mi
interessa molto. A proposito di Salle, proprio lì Amoroso ed io scoprimmo,
chiacchierando insieme, non senza stupore e forse con un po’ di disappunto, che
stavamo entrambi traducendo la terza Critica, rispettivamente: Critica della
capacità di giudizio e Critica della facoltà di giudizio. Ma dovrei ricordare
alcuni dei miei allievi, con cui sono molto legato e con cui c’è sempre stato
uno scambio molto forte su problemi kantiani: Giacomo, Montani, Catucci,
Velotti, che ha scritto un bel saggio che si occupa largamente di Kant,
recentemente edito da Laterza. E soprattutto Hohenegger, con il quale ho
lavorato insieme nella traduzione della terza Critica, edita da Einaudi, e nella
stesura della relativa Introduzione. E altri ancora. Rocca è un caso per me
leggermente, come dire?, angustiante, perché è un ottimo studioso ed è per
fortuna d’accordo con me su molti punti, abbiamo anche parlato insieme oltre
che scritto reciprocamente uno dell’altro, però non accetta, al pari di
Marcucci, la mia interpretazione del principio estetico come il principio
stesso della facoltà del giudizio. Eppure Kant dice, mi pare più volte e
chiaramente in tutto il testo, che quello è l’unico principio costitutivo della
facoltà di giudizio, mentre il principio teleologico è soltanto derivato da
quello. Il caso di Rocca è in un certo senso l’inverso del caso di DESIDERI,
che è senza dubbio, anche lui, un studioso bravo, interessante, forse un po’
complicato qualche volta, ma bravo. Perché inverso? Perché recentemente è
uscito un suo saggio, in cui lui riprende in sostanza la mia interpretazione,
che a lui sta bene, al contrario di Rocca. Ebbene, [ Cfr. G., Estetica ed
epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio” di Kant, Bulzoni, Roma,
con una Premessa dell’autore: Unicopli, Milano); Marcucci, Epistemologia ed
estetica in Kant, Physis. Amoroso, Senso
e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli, Seminario promosso dal Centro
Internazionale Studi di Estetica e svoltosi a Palermo, Grand Hotel des Palmes,
Tema del convegno: Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica; contemporaneamente
all’uscita di Baumgarten, Lezioni di estetica, a cura di Tedesco, Aesthetica,
Palermo, Hanno introdotto la discussione Amoroso, Ferraris, G., Russo.
Partecipanti: Carbone, Carchia, Angelo, Giacomo, Diodato, Ferrario, Goldoni,
Griffero, Kobau, Lombardo, Mattioli, Mazzocut-Mis, Montani, Pimpinella, Pizzo Russo, Salizzoni, Tedesco,
Tomasi, e Velotti. La relazione di G. e altre relazioni e comunicazioni sono
state poi pubblicate in «Aesthetica Preprint». A Cerisy si svolgono le attività
del Centre Culturel International cerisy.asso.fr). Il Colloquio su L’Esthétique
de Kant si svolse. Gli atti sono stati poi pubblicati in Kants Ästhetik, hrsg.
H. Parret, Walter de Gruyter, Berlin. Kant, Critica della capacità di giudizio,
a cura di Amoroso, BUR, Milano. Kant, Critica della facoltà di giudizio, a cura
di G. e Hohenegger, Einaudi, Torino; Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza,
Laterza, Roma-Bari; Rocca, Soggetto e mondo. Studi su Kant, Marsilio, Venezia; Desideri, Il passaggio estetico. Saggi
kantiani, Il Melangolo, Genova] curiosamente non ho mai avuto rapporti
personali con lui, al contrario di La Rocca, se non di sfuggita in concorsi o
cose del genere. E per di più Desideri scrive all’inizio del suo ultimo saggio
che questa idea gli è venuta leggendo una serie di saggi, fra cui il mio, ma
anche quelli di altri che negano recisamente questa tesi. Non capisco bene il
perché. In ogni caso posso dire che con Desideri sono idealmente» in rapporti
di discussione. Più volte Lei fa riferimento alla problematicità di una storia
dell'estetica. In Estetica. Uno sguardo-attraverso si prendono in
considerazione Burke e Batteux oltre a, naturalmente, Kant. Inoltre lì, e per
un certo verso anche in Senso e paradosso, si argomenta intorno alla
possibilità di una rilettura motivata di testi definibili come estetici,
rilettura nella prospettiva del senso che è a Lei propria. Come ritiene quindi
fattibile una storia dell'estetica? E con quali limiti? Non ho mai scritto una STORIA
DELL’ESTETICA (Grice: “Bosanquet, a minor, has!”), né mi è mai venuto in mente
di farlo, e ormai non la scriverò neppure in futuro. Però cominciano a uscire
dei lavori interessanti, cioè esempi di una storia dell’estetica calibrata in
modo diverso rispetto a quello tradizionale: una storia dell’estetica che non
presume di trovare un’estetica dappertutto, tale e quale, così come si è
costituita nel secolo XVIII. Si è ormai consci che si debbono fare distinzioni
opportune. L’oggetto stesso della cosiddetta riflessione estetica, in senso
molto lato, è diverso nei vari tempi, non è affatto identico a quello che noi
chiamiamo opera d’arte bella, una categoria nata storicamente in un certo
tempo. Ci sono, come dico spesso nei miei saggi, somiglianze, identità
parziali, ma anche differenze, talvolta molto forti, tra i vari oggetti sui
quali si esercita la cosiddetta riflessione estetica. Questo significa che non
si può scrivere una storia dell’estetica come storia di una disciplina e che
però si può forse delineare un panorama di tutti quei fenomeni che, in qualche
modo, hanno analogie con ciò che noi, poi, abbiamo chiamato opere d’arte bella
e che richiedono parimenti un principio non intellettuale. Su questa base è
nata una subcollanina laterziana di Cultura Moderna, da me diretta, dedicata ai
problemi dell’estetica e dell’altro dall’estetica, dove sono usciti alcuni
ottimi saggi, per esempio quello di Angelo sull’estetica della natura e
dell’ambiente. Dunque, estetica fino a un certo punto, che non si occupa di
opere d’arte, ma di oggetti diversi che possono essere sottoposti a giudizi di
tipo diverso, che non sono sempre, o quasi mai, puramente estetici, ma
coinvolgono altri aspetti della nostra esperienza. E’ uscito poi un saggio di
Guastini sull’estetica ANTICA, particolarmente interessante, perché riesce a
chiarirla senza mai dimenticare che la LA FILOSOFIA ANTICA non possiede una
vera e propria estetica, non solo perché non sia sanzionata come disciplina, ma
perché i suoi [G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano; G.,
Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari; La
serie di Laterza si chiama: «Temi per l’estetica» ed appartiene alla collana
Biblioteca di cultura moderna; Angelo, Estetica della natura. Bellezza
naturale, paesaggio, arte ambientale, Laterza, Roma-Bari] problemi erano
alquanto diversi. Ebbene, in quel saggio si vedono bene, come le dicevo, e
differenze e analogie. Insomma: questo è appunto un modo di fare storia
dell’estetica senza pretendere di fare la storia di una disciplina, ma
piuttosto la storia di un qualcosa di cangiante che circola nella riflessione e
che tuttavia richiede una qualche condizione comune, qualcosa come il principio
soggettivo della facoltà di giudizio. E del resto io stesso, il mio saggio,
l’ho intitolato L’arte e l’altro dall’arte, con questa precisa intenzione. Nei
suoi più recenti saggi, Lei lamenta il fatto che l'arte non riesca più ad
essere esemplificatrice di una prospettiva di senso: essa sarebbe solo una
reduplicazione e sostituzione dell'esistente. In che modo valuta questi
cambiamenti? Ritiene inoltre che vi siano nell'arte propensioni opposte a
questa tendenza generale? Sull’arte ho poco da dire, ho poco da dire perché...
Guardi, io mi sono interessato moltissimo di arte e storia dell’arte,
occupandomi dell’arte antica e moderna, dai greci fino ai nostri giorni,
compresa l’avanguardia novecentesca. Mi sono avvicinato di più all’arte che si
sta facendo allora e ho scritto anche qualche saggio in onore di pittori che mi
interessavano. Ma questo interesse artistico è un po’ scemato col tempo.
Perché? Un po’ per mie traversie intellettuali, non sempre testimoniate in
saggi, che mi hanno portato su altre strade. Un po’ perché credo che il
giudizio che ho dato sull’arte attuale come riproposizione dell’esistente, con
l’aggiunta di trovate e trovatine più o meno lodevoli, sia abbastanza valido.
Io non so se esistano casi che facciano pensare il contrario, può darsi, non so
dirglielo. Fino adesso non ne ho incontrati... qualcosa di «carino», sì, una
invenzione che richiama l’attenzione... però tutto sommato mi pare che l’arte
nella sua generalità tenda precisamente a quella riproposizione dell’esistente,
attraverso i mezzi tecnologici oggi a disposizione. Le stesse installazioni,
per esempio, che pure sono qualche volta opere di grande interesse, sono spesso
la raccolta di oggetti trovati, ma con intenti diversissimi rispetto a Duchamps,
e richiamano sempre l’esistente tale e quale, o quasi. In effetti è
significativo che anche in quelle opere ci sia spessissimo un te- [Guastini,
Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari; G.,
L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Roma-Bari; Pochi giorni dopo l’intervista,
G.mi ha inviato una e-mail con la bozza di quello che sarebbe stato davvero il
suo ultimo saggio: G., Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi,
Laterza, Roma-Bari. Cfr. G., Relazione interna, relazione esterna e
combinazione delle arti, relazione presentata al Convegno della Biennale Lo
scambio delle arti, Venezia, poi in: G., L’arte e l’altro dall’arte, cit.; G.,
Senso e non-senso, conferenza letta a Coloquio Latino-americano de Estética y
de Critica di Buenos Aires e alla Facultad de Arquitectura Diseño y Urbanismo,
poi in: G., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda, Castrovillari; G.,
Crispolti, Greco, Biblioteca di Alternative Attuali, Roma; G., Arte mito e
utopia: 11 dipinti di Bice Lazzari, Tipografia Fonteiana, Roma; G., Il mito
negativo e la pittura di Vacchi, Officina, Roma; Benedetto, Amore Uno: 6
acqueforti, presentate da G., Il Torcoliere, Roma; Benedetto, Galleria d’arte
internazionale Due Mondi, Roma] levisore, quasi che si volesse richiamare
l’attenzione sulle comunicazioni di massa e sul fatto che quello che si mostra
è proprio quello che potremmo incontrare andando in una casa che non
conoscevamo. Naturalmente, non sto facendo previsioni per il futuro. Può darsi
che tutto cambi, basta che emerga una personalità di talento, che faccia del
nuovo diverso da quello che si fa adesso. Ma, a dire la verità, io non credo
molto alle capacità taumaturgiche dei singoli talenti. I talenti sono un fatto,
ma il loro emergere è condizionato dai tempi. E i nostri tempi sono tempi di
degradazione, inadatti a sollecitare i talenti potenziali. Insomma, se l’arte
mi pare giù di tono, non credo affatto che la colpa sia degl’artisti, ma
piuttosto dei nostri tempi disgraziati, che oppongono all’orrore ormai
quotidiano la contemplazione dell’esistente ridotto a immagine televisiva o
telematica. Un filosofo citato nei suoi testi (insieme ad Heidegger e
Wittgenstein) è Dewey. I riferimenti a Dewey, pur significativi, sono più
circoscritti rispetto a quelli nei confronti di Heidegger e Wittgenstein. Per
quale ragione? Quali sono le sue idee ed opinioni sull'autore di L'arte come
esperienza? Perché cito soprattutto Heidegger e Wittgenstein? Ognuno ha i suoi
filosofi preferiti. Oltre a tutto, come è stato detto da Verra, Wittgenstein e
Heidegger sono i due filosofi più importanti. Questo forse sarà un giudizio
estremo. Senza dubbio ce ne sono altri importanti, ma sicuramente questi sono
tra i pochi più importanti. Io trovo motivi di interesse per un certo verso più
in Wittgenstein che in Heidegger. Heidegger non lo accetto per molti aspetti,
ma certo ha intuizioni e riflessioni notevoli. In ogni caso mi hanno aiutato
entrambi, o almeno lo spero, a capire come stanno le cose con la filosofia e
con il problema stesso della filosofia. E qui allora vorrei citare ancora una
volta un altro filosofo, che non cita più nessuno: CARABELLESE. Carabellese è
stato per me un insegnamento fondamentale. Il modo di ricercare di Carabellese
nell’ambito filosofico e stupefacente: la lettura del testo, lo smontaggio del
testo, e lo scavare nel pensiero degli autori, talvolta non senza qualche
coartazione qua e là, ma in ogni caso con serietà e profondità. Confesso di
preferire di gran lunga questo metodo a quello di certi filologi che capiscono
a metà. Quella era la sua caratteristica principale. Io tento di ispirarmi a
quel metodo, anche se l’ammissione può nuocermi presso i filologi. Pazienza.
Cito Dewey per una ragione semplicissima. Perché l’estetica di Dewey è un
estetica precisamente nel mio senso più che non nel senso di molti altri. Non
un’estetica dell’opera d’arte. Ha come oggetto non solo l’opera d’arte, ma
certe esperienze, che rimandano ad un certo principio che è lo stesso di quello
del giudizio estetico in senso stretto. Veramente, Dewey non parla
esplicitamente di principi, ma fa esempi che non hanno niente a che fare con
l’arte, assimilandoli tuttavia a questa sotto un comune denominatore: il pranzo
in un ristorante francese, oppure la tempesta (se ricordo bene) durante una
crociera, e così via. Però cito molto anche Brandi. Brandi, come le dicevo, è
stato molto impor- tante per me, anche per il superamento della semiotica30, ma
soprattutto per alcuni Sul problema interno della filosofia, cfr. Carabellese,
Che cos’è la filosofia?, Rivista di Filosofia; Per le critiche alla semiotica,
cfr. BRANDI (si veda), SEGNO e immagine, Milano, Il Saggiatore] aspetti
filosofici della sua estetica, guarda caso proprio in riferimento allo
schematismo kantiano, e per la sua prodigiosa capacità di lettura delle opere
d’arte. Basta leggere i suoi Dialoghi, l’Architettura barocca, Duccio, eccetera
eccetera, per rendersene conto. Da
sempre Lei ha alternato alle opere filosofiche, opere di narrativa. C'è stata
un'influenza tra i due ambiti? L’argomento dei miei scritti narrativi mi
imbarazza leggermente, dato che cadono del tutto al di fuori dell’ambito dei
miei lavori. Tuttavia non mi imbarazza dirle che li ho scritti con la stessa
attenzione degli altri scritti, e, per di più, che essi meritavano forse
un’attenzione maggiore, al di fuori della ristrettissima cerchia dei miei
lettori, come dire?, convinti. Non è uno sfogo da autore deluso. E’ una
convinzione, credo non immotivata, che non nasce affatto dalla delusione. Ora
lei mi chiede se c’è un’interrelazione tra i due ambiti. Senza dubbio, non può
non esserci, perché sono sempre io che scrivo, quell’io che ha una certa
storia, personale e culturale, e che è arrivato a certi risultati, buoni,
cattivi o mediocri, questo non importa, in fatto di comprensione. E tuttavia
ciò che scrivo nelle opere narrative non serve a spiegare nulla dei miei saggi.
Anzi sarebbe una fonte di fraintendimento utilizzare quegli scritti per capire
i miei saggi filosofici. Sono semmai gli scritti narrativi che esigerebbero una
spiegazione ulteriore da parte dei saggi filosofici. Infatti si pongono in una
posizione più arretrata. Sono, per così dire, una fabulazione interna di chi
deve arrivare ad una vera comprensione cui non arriverà mai. Sono racconti di personaggi
in qualche modo nevrotici e metafisici. Per esempio, ho usato queste due parole
nel sottotitolo del libretto Racconti morali: lontananza e vicinanza. Ebbene i
miei personaggi oscillano precisamente tra la lontananza dal mondo e la
vicinanza al mondo, ma non si pongono mai il problema se questa oscillazione
sia superabile, e quindi non arrivano mai a una comprensione critica della
vicinanza con gli oggetti del mondo, né si pongono il problema se sia possibile
guardare da lontano il mondo intero. In questo senso preciso sono racconti
metafisici che intendono lasciare insoddisfatto il lettore con quella scrittura
elaborata, saltellante, ripetitiva, cosparsa di frequenti contraddizioni, tutte
intenzionali, ovviamente. Infatti questi personaggi nevrotici e metafisici sono
fatalmente ambivalenti e contraddittori. Si potrebbe dire, per autocitarmi, che
non hanno capito [Brandi, Carmine o della pittura, Scialoja, Roma; Brandi,
Arcadio o della Scultura. Eliante o della Architettura, Einaudi, Torino Brandi,
Celso o della Poesia, Einaudi, Torino Brandi, La prima architettura barocca:
Pietro da Cortona, Borromini, Bernini, Laterza, Bari, Brandi, Duccio,
Vallecchi, Firenze G., La macchia gialla, Lerici, Milano G., I tasmaniani,
Bucciarelli, Ancona, G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma G.,
Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Editori Riuniti, Roma; G.,
Sulla morte e sull’arte. Racconti morali, Pratiche, Parma G. si dedica non solo
alla letteratura ma anche alla pittura, alcuni dipinti sono riprodotti nel
libro- intervista: G., Doriano Fasoli, Il mestiere di capire, Edizioni
Associate, Roma; G., Racconti morali, cit.] ciò che io chiamo il
guardare-attraverso. E tuttavia è vero che per arrivarci a capire qualcosa del
genere, non dico quella formula, ma l’atteggiamento mentale che sta dietro a
quella formula, forse bisogna proprio passare attraverso quelle oscillazioni
tra vicinanza e lontananza. Quindi in qualche modo sono una premessa, anzi una
sorta di postfazione, ai testi filosofici. G. non è stato soltanto uno dei
filosofi italiani più importanti, ma anche una figura di intellettuale
complessa e sfaccettata. Trovandosi di fronte alle sue molteplici attività e ai
suoi svariati interessi, si sarebbe tentati di concentrarsi – per i fini di
questo focus di Syzetesis dedicato ad alcuni Momenti di FILOSOFIA ITALIANA sui
suoi contributi più convenzionalmente etichettabili come filosofici, quali
quelli dedicati all’interpretazione del pensiero critico di Kant, tralasciando
tutto il resto: le pratiche di narratore e di pittore (attraversate da
specifiche auto-tematizzazioni teoriche e oggetto di riflessione saggistica),
l’interesse per la psicoanalisi e la linguistica, gli interventi sulle arti
visive, la letteratura e la musica – talvolta affidati a quotidiani,
settimanali o cataloghi, i numerosi saggi, sempre incisivi, su temi di grande
impegno, dalla creatività alla spazialità, dalla verità alla menzogna1. A
questi diversi aspetti dell’attività di Garroni potrò in effetti fare solo
qualche cenno, tuttavia ho scelto di presentarne il pensiero se- condo
un’angolazione in cui il confronto con Kant ha certamente un posto di rilievo,
ma solo in funzione di quella che mi sembra la vera vocazione o passione
dominante di G., e che il titolo di una lunga intervista concessa a Doriano
Fasoli poco prima di morire, nel 2005, mi pare colga bene: Il mestiere di
capire2. L’impegno costante a capire – capire quello che la vita e la storia ci
mettono davanti, capire “dove si sta”, capire “cosa si prova a essere un homo
sapiens”3, capire i prodotti della cosiddetta cultura, capire o com- 1 La
bibliografia più completa degli scritti di G,, curata da A. D’Ammando, è dispo-
nibile sul sito dell’associazione “Cattedra internazionale Emilio Garroni” G. e
Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni Associate, Roma
2005. 3 Cfr. E. Garroni, Che cosa si prova ad essere un homo sapiens?,
testo introduttivo a A. B. Ferrari, L’eclissi del corpo. Una ipotesi
psicoanalitica, Borla, Roma; G. poi rielabora questo testo in La mente, il
corpo, le cose, in Carignani e Romano, Prendere corpo. Il dialogo tra corpo e
mente in psicoanalisi: teoria e clinica, Angeli, Milano; Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale
prendere la stessa attività di capire e comprendere, cioè la filosofia –
è strettamente legato in G. alla riflessione su quel “senso dell’espe- rienza”
che ho messo nel titolo di questo saggio. Un senso che non è affatto da
intendersi come la pretesa metafisica di cogliere un “senso ultimo”
dell’esistenza, della storia o dell’universo (su cui la filosofia, nella
prospettiva critica adottata da G., ha ben poco da dire), ma neppure come una
dimensione immanente ma pacifica, in cui ci si installa con un po’ di buona
volontà, rassicurandosi che, essendo una condizione antropologica, possiamo
acquietarci nell’ordine vigente delle cose. Tutt’altro: per G. il senso
dell’esperienza è piuttosto un dover essere4, trascendentalmente ineludibile ma
per niente garantito nei fatti, un compito etico irto di difficoltà, intima-
mente paradossale, e sempre strutturalmente pronto a rovesciarsi in non-senso.
Per chiarire ancora qualcosa a proposito del titolo di questo inter- vento (la
sua seconda parte, l’estetica come filosofia non speciale), è bene ricordare
che per G. l’estetica non è affatto una filosofia dell’arte, una disciplina con
un proprio oggetto epistemico o materiale, ma riguarda le condizioni di
possibilità di fare esperienze sensate in genere, nella vita quotidiana, nelle
ricerche scientifiche, in tutte le attività umane, filosofia compresa. L’arte,
semmai, è, o è stata per qualche secolo, un suo referente esemplare. Per G.,
infatti, è la stessa filosofia a doversi comprendere nella sua possibilità non
empirica: la filosofia, come tutte le attività umane, è sì un’attività
empirica, concreta, determinata, ma a differenza di altre attività, che mirano
a produrre effetti pratici o conoscenze, ha piuttosto il compito di
guardare-attraverso le esperienze determinate, per Cfr. G., Sul dover essere
del senso, in appendice a Id., Estetica. Uno sguardo- attraverso, Garzanti,
Milano (seconda ed., Castelvecchi, Roma, con un’introduzione di Velotti, testo
presentato originariamente al convegno dell’Associazione italiana di studi
semiotici “Semiotica ed epistemologia delle scienze umane (Siena). Cfr. G.,
Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non speciale, Laterza, Bari G. usa il
termine “guardare-attraverso”, con il trattino, per sottolinearne l’uso
tecnico, quale traduzione del durchschauen usato da L. Wittgenstein nel § 90
delle Philosophische Untersuchungen, ed. Anscombe e Rhees, Blackwell, Oxford, Trad.
it. di Piovesan e Trinchero, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi. È come se
dovessimo guardare attraverso i fenomeni, die Erscheinungen durchschauen: la
nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma alla possibilità dei
fenomeni. Velotti risalire alle loro condizioni di possibilità
intellettuali e non intellettua- li, tra cui appunto una condizione estetica,
come orizzonte di senso dell’esperienza nella sua totalità indefinita e
indeterminabile. Il com- pito di capire è inteso innanzitutto proprio come
questo guardare- attraverso i fenomeni per comprenderli, cogliendone le
condizioni di senso. Il cosiddetto «problema interno della filosofia»7 – con
un’e- spressione ripresa questa volta da Pantaleo Carabellese, che G. ammirava
e le cui tutoriale frequenta da pupilo alla Sapienza – è infatti per G. un
problema fondamentale, che riguarda il paradosso fondante della filosofia, cioè
il suo esercitarsi dall’interno della stessa esperienza dalla quale, a un
tempo, si distanzia per comprenderla, senza mai poter rivendicare un proprio
altrove, un suo luogo metafisicamente appartato. Vorrei partire, però, da
qualche spunto di carattere biografico, ma solo per quel tanto che ci permette
di intravedere l’urgenza anche contingente, socio-biografico-culturale, di
quella passione per il capire stesso, che G. non considera affatto un’esigenza
contingente. G. lavora per diversi programmi televisivi della RAI, in parte
dedicati alle arti, in parte ad altre questioni (si ricorda, per esempio, un
bel documentario su AOlivetti, con quella che divenne la sua ultima intervista.
Lavorava alla RAI per necessità, non per vocazione, per quanto la RAI di allora
fosse culturalmente molto più ricca di quella di oggi. Sono tanti i programmi
che potrei citare a cui G. lavora: tra gli altri, Piazze d’Italia, Musei
d’Italia, Avventure di capolavori, Arti e scienze, Le tre arti, e soprattutto
L’Approdo, iniziato come trasmissione radio- fonica nel 1944, con la direzione
di Seroni e Piccioni, diventato programma televisivo come settimanale di
lettere e arti, più tardi accompagnato da una sua rivista a stampa, nel cui
comitato direttivo si trovavano alcuni dei più importanti intellettuali
dell’epoca (Bacchelli, Bo, Cecchi, Longhi, Ungaretti, a cui bisognerebbe
aggiungere altri col- laboratori di spicco), per non menzionare, nella RAI, la
presenza di figure molto diverse tra loro ma tutte significative, come Carlo
Emilio G., Senso e paradosso Cfr. Dolfi e Papini, L’Approdo: storia di
un’avventura mediatica, Bulzoni, Roma e A. Grasso-V. Trione, Arte in TV. Forme
di divulgazione, Johan et Levi, Monza Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica
come filosofia non speciale Gadda (o, più tardi, di CAMILLERI (si veda),
coetaneo di G., o ancora di ECO (si veda), che di G. è un costante
interlocutore. G. dà conto della sua attività televisiva in un’interessante
intervista da cui voglio prelevare solo una frase, apparentemente ovvia, ma
credo invece rivelatrice del suo atteggiamento inflessibilmente volto al
capire: un curatore o conduttore di una trasmissione culturale, o sulle arti –
dice lì G. – deve essere certamente colto, ma c’è di più: deve essere, nel
campo della letteratura, delle arti figurative, della musica, oltre che colto,
anche intelligente. Sembra, e forse è, un’ovvietà: un conduttore di programmi
culturali non deve essere uno stupido. Deve anche intelligere, deve capire.
Deve insomma essere qualcuno, precisa però subito G. che sia capace di far
vivere un testo, di cogliere un problema che va a fondo, di far vedere o capire
qualcosa di singolare che i più per pigrizia non vedono affatto. Emerge qui
quell’avversione per la pigrizia, la sciatteria, la bana- lità e la
semplificazione come le prime nemiche del capire, e dunque come un tratto
costante di G., che ha avuto conseguenze di ordi- ne diverso: non solo una
prosa ritenuta spesso ardua – in realtà solo molto precisa, scrupolosa,
controllata, mai fumosa o compiaciuta – ma anche l’avversione per una pratica
che oggi seduce molti, anche i filosofi: occupare una casella nell’esistente,
dare un marchio di fabbrica a se stessi, alla propria anche minima
particolarità, e reiterarlo in ogni occasione, per garantirgli la massima
riconoscibilità e diffusione sul mercato delle idee, al costo – naturalmente –
di imbalsamarsi in un prodotto, rinunciando al compito di capire. Questo
compito – inteso da G. come un compito intellettua- le, culturale ed
etico-politico – coinvolge tutte le sue svariate attività: non solo l’estetica
come filosofia non speciale, cioè come filosofia tout-court [“LA FILOSOFIA,
COME LA VIRTU, E ENTIERA – GRICE], benché spesso praticata in una sua forma
obliqua anche in relazione all’arte e alla letteratura; non solo il rapporto
con la psico- analisi o lo studio del linguaggio, su cui sono nati,
rispettivamente, il lungo sodalizio con FERRARI (si veda) e la duratura e
profonda amicizia con MAURO (si veda). Ma anche l’attività giornalistica e nelle
modalità proprie, non certo assimilabili a quelle filosofico-argomentative le
stesse pratiche pittorica e narrativa. G. esordisce con una raccolta di
racconti L. Bolla-F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino
Velotti a cui seguiranno altri testi narrativi, pubblicando un’opera
singolare, La macchia gialla, titolo ripreso da un’incisione di Dürer,
riportata sulla copertina del libro, in cui si vede la mano di un uomo che
indica un punto del suo addome, e una didascalia dello stesso Dürer che dice. Là
dove c’è la macchia gialla e dove indica il dito, là mi fa male». È un dolore,
direi, insieme singolare e generazionale, che nel giro di due anni metterà capo
a una lunga analisi della nozione di “crisi” nel suo primo libro
filosofico-estetico – La crisi semantica delle arti12, su cui non posso
soffermarmi. Né mi soffermerò sulla Macchia gialla, se non per citare un primo
autoritratto di G., un autoritratto verbale dell’autore, a cui seguirà venti
anni dopo un secondo autoritratto, questa volta dipinto su cui torna in
chiusura. I curatori della collana Narratori dell’editore milanese Lerici sono
due nomi di grande rilievo del mondo poetico-letterario, BILENCHI (si veda) e
LUZI (si veda), i quali presentarono
giustamente questa notizia biografica, o autoritratto semi-ironico dell’autore
da quasi-giovane, come segnato d’acume e humour. Ne riporto qualche riga, che
suggerisce una motivazione anche socio-biografica, per reazione all’ambiente di
provenienza, di quella passione per il “capire” che ho indicato come la
passione domi- nante di G.. È nato a Roma in un ambiente abbastanza sciatto e
approssimativo, che non posso soffrire e al quale sono legato controvoglia,
tanto più che certa piccola borghesia romana ha le sue asprezze ma anche le sue
tenerezze. Si è accorto che anche la sua formazione culturale è caratterizzata
dalle stesse contraddizioni: una cultura apolide e spregiudicata e nello stesso
tempo lacunosa e assai provinciale. Si è LAUREATO IN FILOSOFIA presso la
Facoltà di filosofia a Roma, G., La macchia gialla, Lerici, Milano Il testo,
con la relativa copertina, è reperibile integralmente sul sito
dell’associazione “CiEG - Cattedra internazionale G. 12 Ma, come ha scritto Ammando all’interno di
un’ottima ricostruzione del percorso filosofico di G. (Il circolo estetico e il
guardare-attraverso: la riflessione sull’arte di G. – Roma”), a cui rimando
anche per un’analisi della Crisi semantica delle arti, si puo affermare, in
proposito, che crisi, al pari d’oriz-zonte e senso, è una parola cara al
pensiero di G., almeno sotto il profilo del problema dell’arte e del suo
statuto quanto mai incerto e problematico. Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non
speciale con la quale intrattengo ancora rapporti abbastanza scialbi. Pubblica
saltuariamente saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte su
riviste specializzate, settimanali e quotidiani. La saltuarietà del suo lavoro
dipende in parte da una certa attitudine alla dissipazione, e in parte dalla
mancanza di tempo. Da molti anni collabora infatti alla televisione dove fa un
po’ di tutto dedicandomi prevalentemente in questi ultimi tempi alla redazione
e presentazione di rubriche d’arte, con intenti, dice, nobilmente divulgativi.
A queste parole si potrebbero accostare quelle scritte su richiesta del
Manifesto, che aveva invitato ventisei personalità della cultura a raccontare
la propria esperienza personale di una visita a un museo. G. scelse la Galleria
nazione di arte moderna di Roma: Non so se fosse possibile– con la CULTURA
LICEALE imperante, bene che andasse, in assenza di una mentalità più ariosa,
volta a capire, non a accettare, con giornali e riviste non specialistiche di
livello assai modesto che un museo o una galleria d’arte potessero essere
immediatamente formativi per un ragazzo. Anche le famiglie da cui provenivano sono
perlopiù ignoranti e disinteressate a tutto ciò che non fosse strettamente
tradizionale, compresa la stessa tradizione, più subita come un dato eccelso e
di fatto semisconosciuto, che vissuta come genuina cultura. Non era un
atteggiamento conservatore retrivo, ma semplice- mente passivo. Cosicché chi è
riuscito poi a combinare qualco- sa ha dovuto fare quasi tutto da solo. È in
balia della cultura e dei gusti mediocri della mia famiglia, e della cosiddetta
borghesia romana cui essa apparteneva, ed ècondotto più volte da certi suoi
zii, che si riteneno intenditori d’arte, alla galleria nazionale d’arte moderna.
Vuole solo dire che quella galleria è, nil luogo della mia diseducazione. Il
fatto è che una galleria o un museo non formano nessuno, se non si è già
preparati a formarsi mediante ipotesi, anche sbagliate. Ma lì, in quelle visite
sinistre, non erano in gioco ipotesi o sforzi per capire, ma solo meschine e
dogmatiche edizioni del mondo dell’arte ne varietur. È strano che, crescendo,
non mi sia allontanato per sempre dalle arti figurative. Così che la galleria
nazionale d’arte moderna, ha avuto il me- rito, con il concorso determinante
dei miei zii, di farmi capire G., La macchia gialla, cit., risvolto di
copertina. Velotti come non si guarda un quadro. Che è un’abilità
indimenticabile, come andare in bicicletta. Abbandono ora queste incursioni
biografiche – che pur nella loro rapidità credo siano indicative del modo in
cui G. si situa nei confronti della realtà, e quindi anche della sua attività
filosofica per cercare di indicare sinteticamente il nucleo centrale della sua
rifles- sione più matura, intorno a cui si raccolgono questioni complesse e
interessi anche eterogenei. Ha ricordato CARABELLESE (si veda) – che, al di là
degli esiti del suo ontologismo critico, G. considera uno dei pochi insegnanti
che ho avuto all’università che fosse anche un grande filosofo perché è
probabilmente uno dei tre punti di riferimento italiani più significativi per
il suo pensiero, insieme a SCARAVELLI (si veda) per l’inter- pretazione di Kant
– e poi, su un altro piano, a BRANDI (si veda). È stato infatti proprio CARABELLESE
(si veda) ad aver criticato sia GENTILE (si veda), sia CROCE (si veda) (come
poi farà anche con SPIRITO (si veda) e CALOGERO (si veda) per non aver colto il
problema interno della filosofia, la domanda, cioè, con cui la filosofia
diventa problema a se stessa, si interroga sul suo luogo, la sua possibilità,
le sue pretese. In una postilla Carabellese spiega così l’incomprensione da
parte di Croce e di CALOGERO (si veda) del problema da lui sollevato: Il vero è
che il Croce e il Calogero (anzi il Calogero molto più del Croce) continuano a
porre il problema della filosofia come problema del suo oggetto, cioè non
pongono veramente il problema interno della filosofia, ma soltanto e sempre il
suo problema og- gettivo, e inconsapevolmente confondono questo con quello.
Indicare come la filosofia il genere di realtà che essa dimostra o consente,
come Calogero (filosofia della prassi) e Croce (storicismo) d’accordo fanno,
non è risolvere il problema interno della filosofia, ma non porlo neppure,
ignorarlo. Con tale indicazio- ne, infatti, non si sa e non si ricerca neppure,
che cosa sia mai la filosofia entro quella realtà che essa dimostra. G., Il
piccolo Ottocento italiano”, in MELIS (si veda), La scoperta del museo.
Ventisei guide sulla via dell’arte, Manifestolibri, Roma G. e Fasoli, Il
mestiere di capire, Carabellese, L’ontologismo critico,saggi, Che cos’è la
filosofia, Signorelli, Roma Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come
filosofia non speciale Il problema della riflessione sul senso, per
Garroni si lega stretta- mente a quello che chiama il paradosso della filosofia
nel suo saggio intitolato appunto Senso e paradosso. L’estetica, filosofia non
speciale. È forse il libro più impegnativo che G. scrive, e certamente uno
snodo centrale nello sviluppo del suo pensiero. Lì G. cita Carabellese e il suo
saggio, e la replica di Croce, sostenendo che entrambi facciano valere
un’esigenza legittima: Carabellese, quella appunto del problema che la
filosofia è a se stessa; Croce, quella di ribadire, quasi con fastidio, che la
filosofia si conquista il suo luogo proprio solo dall’interno della conoscenza
e del fare concreti e storici. Entrambi, in sostanza, intendevano rifiutare
l’idea di un luogo separato della filosofia, ma non si rendevano conto della
parzialità e complementarità delle loro posizioni, che se rettamente intese si
compongono in quello che G. chiamerà appunto il paradosso fondante della
filosofia. Il dissidio tra Carabellese e Croce, infatti, prefigura una
antinomia non risolta, formulata da G. in questo modo: Un problema interno
della filosofia va posto, dato che non è per niente ovvio che questa abbia un
suo luogo appartato e neutra- le [e questa è la giusta esigenza fatta valere da
Carabellese; ma il porlo suppone che un luogo del genere esista e sia ovvio [e
questa è la replica di Croce, che ritiene il problema di Carabellese insignificante.
G. fa notare che il rischio che correva Carabellese, che pure po- neva un
problema genuino di cui Croce si disfaceva troppo frettolo- samente, era quello
di considerare la filosofia, in quanto si pone il suo problema interno, come
una sorta di meta-linguaggio che si esercita su un linguaggio oggetto già
compattamente costituito (una metafisica, o un sistema, quale era per lo stesso
Carabellese il suo ontologismo critico), perdendo di vista proprio quel
paradosso che pure aveva fatto emergere e trasformandolo così in un
paralogismo. Il modo giusto di far valere insieme le esigenze di CARABELLESE
(si veda) e di CROCE (si veda) è invece comprendere la filosofia come
risalimento, o come quel guardare- attraverso che risale dalla concretezza dei
fenomeni, dall’interno dell’esperienza concreta in cui stiamo, alle loro
condizioni di possibilità, senza dar per scontato che una filosofia già si dia
da qualche parte, e senza G., Senso e paradosso Velotti però
neppure vederla disciolta nelle indagini oggettive. Quel «guardare- attraverso»
deve essere inteso dunque come «un guardare-attraverso nel guardare, non un
semplice guardare a meno di un taciuto guardare- attraverso»18. Richiamandosi a Merleau-Ponty [“whom Austin hated” – Grice – “but then
why do you go to Royaumont in the first place?”], G. riassume così la sua
posizione. Una
filosofia di questo tipo include la propria stranez- za, perché non è mai del
tutto nel mondo e tuttavia non è mai fuori del mondo. Questa stranezza, questo
paradosso fondante, era presentato da G. come una posizione fedele alla
tradizione critica, in quanto opposta a posizioni metafisiche, nella specifica
accezione di “non criti- che”, sia di stampo razionalistico, sia di stampo
ingenuamente pragma- tista o empirista. Negli anni in cui in Italia Rorty e il
suo neopragmatismo sembravano raccogliere numerosi consensi (La filosofia e lo
specchio della natura era stato presentato da VATTIMO (si veda) e Marconi, che
aprivano la loro introduzione sottolineando come questo libro si presentasse
esplicitamente come epocale), G. vi scorgeva una delle due prospettive
metafisiche, non critiche, che può assumere lo sguardo della filosofia: da un
lato, infatti, è certamente da rifiutare, con Rorty (e tanti altri) la pretesa
di una God’s eye view, grazie a cui si presume di stabilire come stanno
“veramente” le cose nell’esperienza umana, eccettuandosene: come di chi dicesse
che tra noi e il mondo c’è un filtro fatto di schemi concettuali, culturali o
intuitivi, presumendo contraddittoriamente di vedere la realtà di questa
situazione al di fuori del filtro che varrebbe per tutti gli altri; ma anche di
chi proponeva l’e- sperimento mentale dei “cervelli in una vasca”, magari –
come Putnam (“He had the cheek to say I was too formal! – GRICE) – per
confutarlo: per G., porlo e comunicarlo è già confutarlo; immaginarlo o
escogitarlo presuppone già un linguaggio sensato, pubblico e non escogitato.
Dall’altro lato, altrettanto metafisica si presentava la posizione op- posta e
complementare, apparentemente demistificante, di chi, come il neopragmatista
Rorty, ci dipingesse come insetti intrappolati nel- l’ambra, cioè
inesorabilmente immersi nella realtà e nelle sue determi- natezze, culturali
storiche geografiche, per cui dovremmo rinunciare ad affermazioni che avanzano
pretese universali, e dovremmo conside- [G. e Fasoli, Il mestiere di capire,
Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton, Trad. di Millone e
Salizzoni, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale rare
piuttosto la filosofia come un genere letterario tra gli altri. G. replica:
Rorty avrà anche ragione, ma commette un unico errore, affermarlo. È questo
quel taciuto guardare-attraverso – negato in teoria, e quindi fatto valere
metafisicamente come un ritorno del rimosso a cui alludeva G. nel passo citato
poco sopra dell’intervista con FASOLI (si veda), cioè la pretesa di stare
sempre alle determinatezze dell’esperienza, di sbarazzarsi di ogni riferimento
alla sua totalità indeterminabile, ma facendola valere surrettiziamente nella
stessa pretesa di determinare tutta l’esperienza come il darsi di volta in
volta di esperienze solo con- tingenti e determinate. Per G., infatti, non si
tratta né di riguadagnare una posizione di sorvolo, né di muoversi sempre in
aderenza assoluta alle esperienze concrete e determinate, proprio in quanto le
chiamiamo esperienze concrete e determinate. Se davvero ci stessimo soltanto
dentro a tali esperienze, non potremmo dirlo, ci staremmo dentro e basta,
saremmo cose tra le cose. Risalire l’esperienza concreta o guardare-attraverso
i fenomeni dall’interno dell’esperienza concreta è, sì, essere come insetti
nell’ambra, ma con la complicazione decisiva che anche il solo fatto di
affermarlo attesta qualcosa che smentisce quell’immagine, in quanto trascende
le esperienze determinate e attinge all’indeterminatezza del- l’esperienza
nella sua totalità indeterminabile. È questo movimento che G. ravvisa in
Wittgenstein e, in una certa misura in Heidegger sulla scorta dei quali la
filosofia si configura, sì, come un domandare mediante domande determinate, ma
che includono e rivelano un’autotematizzazione del domandare in genere. Questo
paradosso fondante è tutt’uno con la condizione di senso del- l’esperienza e
può essere ricondotto a una delle forme antinomiche tematizzate da Kant, in
particolare all’antinomia della facoltà di giudizio estetica, che, nel modo più
schematico, Kant formula in questo modo. Tesi: il giudizio di gusto non si
fonda su concetti, ché altrimenti se ne potrebbe disputare (decidere mediante
prove. Questa argomentazione, qui appena accennata, viene sviluppata da G. nell’Estetica.
Uno sguardo-attraverso, anche in relazione ad alcuni autori classici e a
diversi autori contemporanei. Su questo punto potrebbe aprirsi un confronto con
il diversificato universo di alcu- ni nuovi realismi-materialismi oggi in voga
(per esempio quello della flat ontology), che propongono una visione degli
esseri umani proprio come cose tra le cose G., Senso e paradosso Velotti Antitesi:
il giudizio di gusto si fonda su concetti, ché altrimenti, malgrado le
differenze dei giudizi, non se ne potrebbe neppure discutere (avanzare
l’esigenza del consenso necessario di altri con tale giudizio. L’antinomia può
irrigidirsi in una contraddizione, oppure essere composta (non eliminata, ma
compresa e resa praticabile), come fa Kant, spiegando che nella prima tesi si
tratta di concetti determinati, nella seconda di concetti indeterminati. Ora,
la struttura di questa antino- mia, e il modo in cui Kant la compone, è omologa
a quella che G. fa valere, per esempio, in relazione al linguaggio, il motivo
per cui Rorty non può affermare quel che l’uso stesso del linguaggio confuta.
Un saggio dedicato a MAURO (si veda), L’indeterminatezza semantica, una
questione liminare, si apre con una frase che annuncia la riproposizione della
struttura dell’antinomia kantiana della facoltà di giudicare, che G. propone
poco dopo: Che il linguaggio sia stato talvolta considerato atto creativo
individuale e irripetibile oppure realizzazione o replica, secondo regole, di
possibilità già interamente previste non è semplice- mente un’alternativa
fondata su due ipotesi esclusive e, prese alla lettera, perfino bizzarre. È
qualcosa di più, in quanto entrambe le prospettive – inaccettabili nella loro
esclusività – fanno valere «un’esigenza che non può neppure essere lasciata
cadere. E infatti poco dopo G. riprende anche la forma stessa dell’antinomia
kantiana, enunciando una tesi e un’antitesi che esigo- no di essere composte:
Tesi: l’uso del linguaggio presuppone la determinazione di uni- tà e regole,
prima di ogni sua presunta possibilità indetermina- ta, ché altrimenti non
potremmo usarlo e non ci intenderemmo nell’usarlo. Antitesi: l’uso del
linguaggio presuppone l’indeterminatezza del- Kant, Kritik der Urtheilskraft,
in Id. Werke in zehn Bänden, ed. W. Weischedel, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmastad Trad. it. di E. G. e H. Hohenegger, Critica della
facoltà di giudizio, Einaudi, Torino G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di
estetica e di critica, Laterza, Bari. Il saggio era già stato pubblicato nel
volume a cura di F. Albano Leoni et al., Ai limiti del linguaggio, Laterza, Bari.
Il senso dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale la
sua possibilità, prima di ogni unità e regole determinate, ché altrimenti non
potremmo neppure determinare unità e regole per usarlo e intenderci.
L’antinomia nasce dal fatto che «quando parliamo, usiamo il linguag- gio così e
così, in certe sue espressioni determinate, e nello stesso tempo lo usiamo
nella sua totalità possibile indeterminata o, detto ancora altrimenti, per un
verso il linguaggio richiede come una sua propria condizione l’indeterminatezza
e per altro verso, proprio perché la richiede, la nega in favore delle sue
determinazioni: non si darebbero espressio- ni linguistiche determinate, dotate
di questo o quel significato, se non le comprendessimo come tali, cioè nella
loro determinatezza, e dunque a condizione di un riferimento a una totalità
indeterminata che le rende possibili e che esse negano in quanto, appunto,
determinate. È questo il nodo a cui Garroni arriva sempre, che indaghi il
linguaggio o la percezione [cf. GRICE e WARNOCK on SEEING – VEDERE],
l’organizzazione della conoscenza o le opere d’arte, l’esperienza quotidiana o
la natura dell’homo sapiens. Ed è un nodo che si è chiarito proprio nello
studio assiduo e prolungato di Kant, in particolare della terza Critica, la cui
dialettica presenta quella specifica forma antinomica appena esposta. C’è una
pagina, in questo saggio, che credo chiarisca molto bene il nesso di queste
riflessioni sul linguaggio con la rielaborazione del pensiero kantiano, e che
per questo motivo mi permetto di citare diffusamente. Ma l’analogia tra questa
antinomia [kantiana] e l’antinomia del linguaggio esposta all’inizio non si
ferma tuttavia a un’analogia imperfetta tra le rispettive correlazioni concetto
determinato/ concetto indeterminato e determinazione/indeterminatezza del
linguaggio. C’è in Kant un problema ancora più pertinente rispetto al nostro
argomento. Vale a dire: c’è la questione del rapporto tra la facoltà di
giudizio, da una parte, (per cui, soltanto, la conoscenza empirica effettiva è
possibile oltre i giudizi sintetici a priori dell’intelletto: ciò che
Scaravelli ha chiamato “tessitura analitica di tutti fenomeni”, e il principio
della quale facoltà ha tuttavia statuto non-intellettuale, ma estetico), e la
ragione, dall’altra (i cui concetti non hanno appli- cazione nell’esperienza e
tuttavia sono altrettanto indispensabili Velotti alla conoscenza
empirica). Infatti la nostra conoscenza d’esperien- za, che è, sì,
intellettualmente e sensibilmente determinata procede, per quanto le è dato,
mediante costruzione di concetti, leggi e unificazioni di diversi leggi sotto
leggi più potenti, non sarebbe possibile se non si inscrivesse innanzitutto
nell’ambito di un’anti- cipazione della totalità indeterminata delle possibili
conoscenze determinate – Kant scrive d’una conoscenza di oggetti dati in
genere, se insomma, sull’occasione di rappresentazioni deter- minate, come nel
caso esemplare dei cosiddetti giudizi di gusto, non avessimo coscienza
forzatamente non intellettuale che una conoscenza d’esperienza è possibile.
Esperienza possibile, però, non nel senso della possibilità della conoscenza in
genere della prima Critica, che ci dà appunto solo una tessitura analitica, ma
nel senso che è possibile e ha in generale senso cercare di deter- minarla
intellettualmente e sensibilmente nell’esperienza sotto il principio della
facoltà di giudizio. Ma di questa totalità della conoscenza d’esperienza
possibile né abbiamo una conoscenza a priori, né tantomeno possiamo fare una
conoscenza di esperienza. Non si fa esperienza di un’esperienza in genere. Ne
sappiamo qualcosa in, non con un’esperienza determinata, cioè non la cono-
sciamo, ma la sentiamo, mediante quel Gemeinsinn, senso o sentimento comune, che
abbiamo in comune, che ci assicura a priori della comunicabilità universale
delle rappresentazioni e delle conoscenze, il quale esibisce sensibilmente e
indirettamente ciò che non è propriamente esibibile e che la ragione può
soltanto pensare. Qui la ragione, cioè l’idea indeterminata di una totalità,
viene in qualche modo messa in scena sensibilmente mediante la facoltà di
giudizio il cui principio riposa precisamente sul senso comune o il gusto, cioè
mediante il sentire esteticamente dunque l’interna indeterminatezza del
determinato. Sentire l’interna INDETERMINATEZZA [GRICE INDETERMINACY OF
IMPLICATURE] del determinato è uno dei modi per capire in che modo il paradosso
fondante della filosofia fa della filosofia, come estetica non speciale, una
riflessione sul senso dell’esperienza. Se vogliamo restare sul piano
linguistico, possiamo dire infatti che dare significato ai concetti è
determinarli, per esempio mediante uno schema empirico o trascendentale, sempre
a condizione di mettere in gioco un simultaneo e inevitabile riferimento
all’inde- terminato, alla totalità indefinita del linguaggio o dell’esperienza,
che solitamente resta implicita, e magari viene negata (come accadeva in
Rorty), proprio in virtù di un SURRETTIZIO riferirvisi. Il senso
dell’esperienza: G. e l’estetica come filosofia non speciale. Il gioco delle
parti tra senso e significati, e tra senso e non senso, è affrontato da G. in
molte altre occasioni, ma viene tematizzato direttamente in una conferenza, poi
pubblicata in appendice al volume, Estetica. Uno sguardo-attraverso, con il
titolo Sul dover essere del senso. Ora il problema non è tanto distinguere il
senso dai significati, mettere in luce la condizione estetica di senso come
anticipazione estetica dell’esperienza entro cui i significati possono
significare, ma un problema ulteriore: riconosciuta questa condizione di senso
che rende possibile e traspare in ogni SIGNIFICATO DETERMINATO, non rischiamo
infatti di parificare tutti i significati nel loro essere varianti di
sensatezza, ‘seri’ nell’essere sensati come che sia, ma non altrettanto ‘seri’
nel loro proprio far senso? Come se la filosofia critica, spinta fino a questo
punto, rischi che il senso possa «riassorbire in sé la sensatezza che esso
condiziona. Il senso, così, concederebbe sensatezza a tutti i sensi e i
significati storici e proprio per questo la sottrarrebbe a ciascu- no di essi,
convertendosi esso stesso in non senso»31. Un esempio concreto di questo
problema, G. lo aveva scorto nel dilemma a cui deve far fronte l’antropologia
in relazione all’etnocentrismo: l’irrinunciabile rispetto che l’antropologia
moderna ha costruito per ogni società altra rischia infatti, d’altra parte, di
parifica- re ogni cultura come una variante di sensatezza, togliendole
“serietà”. Il colonialismo e l’imperialismo, ovviamente inaccettabili, avevano
però almeno il pregio di prendere le culture nella loro serietà. Ma era proprio
questo ciò su cui si interroga G.: non tanto la questione delle culture altre,
ma della nostra stessa cultura. E conclude così. Le considerazioni appena
svolte non hanno una vera e propria conclusione. Si può dire solo questo: che
si è forse messo in luce qui un nuovo ossimoro, o una forma ulteriore del
paradosso G., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Cfr. G., Senso e paradosso. Si
potrebbe sostenere che questo imperialismo della sensatezza sia stato
proclamato e poi smentito da Fukuyama nel suo The End of History and the Last
Man, mentre l’opposto – cioè il prendere la diversità delle culture nella loro
serietà, e tuttavia prenderle così seriamente da negargli una dimensione comune
di senso – veniva proposto di lì a poco da Samuel Huntington nel suo The Clash
of Civilizations and the Remaking of the World Order. Le due posizioni,
insomma, potrebbero rappresentare tesi e antitesi di una antinomia non
composta. Cfr. S. Velotti, Dare l’esempio. Cosa è cambiato nell’estetica, Studi
di estetica Velotti in cui consiste la filosofia, vale a dire: che
il senso pare che debba essere considerato nello stesso tempo come non-senso,
in quanto il suo dare sensatezza è nello stesso tempo un sottrarla [...] Forse
il senso si profila ora come il dover essere-sensato. E qui, forse, ritroviamo
– come già in Kant – la più profonda congiunzione tra le radici estetiche del
senso e le radici etiche del dover-essere. Il problema del prevalere della
sensatezza sui significati e quindi del rovesciarsi del senso in non-senso è
strettamente legato al problema spinoso della perdita di esemplarità dell’arte,
della questione, cioè, se l’arte non ha progressivamente ceduto a un’aderenza
sempre più spinta alla realtà fino a confondersi semplicemente con la sua
ottusità, il suo darsi di fatto, come mero accompagnamento del senso, avendo
per lo più rinun- ciato al rischio di dare corpo e forma a quella regola che
non si può addurre di cui parla Kant nella terza Critica; una regola
indeterminata che, non potendosi addurre, formulare o esplicitare. può essere,
appunto, solo esemplificata in un esempio singolare, inassimilabile a un
esempio inteso come membro di una classe. Nel denso saggio di G. Immagine
Linguaggio Figura troviamo spunti inediti, ma anche una nuova sintesi di
decenni di studi e ricerche. È un libro bello e importante, che attende ancora
di essere esplorato a fondo, in tutta la sua fecondità, anche in relazione a
ricerche in atto nel panorama nazionale e internazionale, ma che qui non posso
affrontare in modo minimamente adeguato. Ricordo solo che il perno intorno a
cui ruota è la nozione d’immagine interna che ha preso forma attraverso
l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo” kantiano, e che non è
confondibile in alcun modo con l’idea di poter spiegare qualcosa della
percezione o del riferimento al mondo – rimandando a immagini che avremmo nella
testa. Distinte dalle figure che nell’uso comune chiamiamo immagini, ma che non
possono essere altro che elaborazioni, esteriorizzazioni e riduzioni dell’immagini
interne, l’immagini interne sono innanzitutto ispezioni attive e mobili, per
scorci sempre diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni
riprodotte, rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi
ogni obiezione legata alla presuppo- [G. Estetica. Uno sguardo-attraverso, G.,
Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Bari G., Immagine
linguaggio figura. Il senso dell’esperienza:
G. e l’estetica come filosofia non speciale sizione indebita
e circolare di un homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di “figure
nella testa”. Figure nella testa non ce ne sono. In questo libro tornano anche
temi antichi come quello, centrale, della metaoperatività, un concetto già
introdotto oltre trent’anni prima, in Ricognizione della semiotica. È
l’anticipazione di uno dei temi più dibattuti, oggi, in ambito cognitivo, sotto
il titolo di metarappresentazioni, ma che in G. si estende già all’intero
ambito dell’operare umano un operare che è senso-motorio, pragmatico e
corporeo, percettivo e cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione
metalinguistica che è sempre implicata nelle funzioni di primo livello del linguaggio,
così come quella costituisce pur sempre una funzione operante solo mediante un
linguaggio di primo livello G. introduce la nozione di metaoperatività come
interna e presupposta in tutte le operazioni umane e praticabile solo mediante
esse. È ciò che distingue, in sostanza, un’operazione del tipo
“stimolo-risposta” da un’operazione che include già dentro di sé una
generalizzazione. Piantare un chiodo con un martello è sì un’operazione
determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione umana
contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni possibili
qualcosa, dunque, che potrebbe essere chiamato uno schema operativo. In
Immagine linguaggio figura la nostra capacità metaoperativa viene
reinterpretata e specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G.
chiama complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle
sensazioni come precedenti di un’immagine, sia delle percezioni (le immagini
interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia dell’immaginazione
nella sua specificità (delle immagini in quanto riprodotte o
ricordate-rielaborate). Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte
«immagini interne», costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o
figura materiale, e abitate da qualcosa di non sensibile, [G., Ricognizione
della semiotica, Officina, Roma Cfr. per esempio Sperber, Metarepresentations.
A Multidisciplinary Perspective, Oxford. Una formulazione molto simile dei
rapporti tra linguaggio e metalinguaggio, tra operazione e metaoperazione
all’interno di una prospettiva enattiva sulla percezione, a cui credo sia
riconducibile per molti versi anche quella proposta da G. è possibile
riscontrarla nei saggi di NOË (si veda). Per un confronto, su questi temi, tra
G. e NOË (si veda), cfr. S. Velotti, Tecnica, in Ferrario, Estetica dell’arte
contemporanea, Meltemi, Milano. G., Immagine linguaggio figura Velotti dunque
distinte dall’immagine-SEGNO materialmente intesa, la figura, appunto, e che è
invece sostanzialmente statica. Proprio l’attività artistica, che mette pur
sempre capo a figure per quanto possano essere mobili, processuali,
evanescenti, eventuali è considerata da G. come il venire in primo piano di
questa dimensione metaoperativa una rielaborazione della kantiana conformità a
scopi senza scopo interna a ogni operazione determinata. Ma nel corso di questo
«ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano vengono in primo piano
questioni spesso prima trascurate, come quella della corporeità, e viene messa
a punto una nozione che mi pare non fosse stata tematizzata in altri lavori, se
non di sfuggita e appoggiandosi a elaborazioni di diversa provenienza, come
quella d’aggregato. Un aggregato, direi, costituisce una sorta di antecedente di
uno schema, essendo qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve
dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di fatto anche il
costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, oltre che di classi vere e
proprie. Un aggregato è ciò che offre una prima pos- sibilità di riconoscimento
degli oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe (che
presuppongono appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una
pertinentizzazione di note concettuali), ed è invece costituito solo
percettivamente da un insieme di casi effettivamente sperimentati o di oggetti
effettivamente usati, quindi di numero finito, anche se via via crescente. Un
aggregato può essere costituito da oggetti assai diversi, legati da una minima
somiglianza e talvolta da nessuna somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra
disparati che stabiliscono tra loro un’unità non chiaribile in- tellettualmente
di tipo affettivo, emozionale, fantasticante, vol- to al padroneggiamento di
eventi e cose amate, preoccupanti, esaltanti. Né la funzione dell’aggregato si
esaurisce all’interno della prima infanzia, o nelle ipotesi relative a una
infanzia dell’umanità o in forme di pensiero magico, se, come nota G., Ancora
oggi, nello stesso pensiero occidentale, non possono es- 41 Alludo alle
considerazioni dedicate agli oggetti transizionali di Winnicot in Senso e
paradosso, G., Immagine linguaggio figura Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale sere evitati paradossi liminari,
che denunciano in un certo senso la persistenza dell’ufficio, pur
intellettualmente controllato, dell’aggregato, cioè dell’unione di due termini
diversi e addirittu- ra opposti, in una proposizione unitaria e non più
risalibile. Basta pensare alla kantiana comprensione dell’opposizione tra
incondizionato e condizionato, di soprasensibie e sensibile, e insieme del loro
richiamarsi l’un l’altro necessariamente, all’he- geliana unità di essere e
non-essere, alla questione russelliana di “classe e classe di tutte le classi,
e così via. Voglio però, in conclusione, mostrare un altro autoritratto di G.,
molto diverso da quello, verbale, ricordato all’inizio e consegnato, con
«acume» e «humour» alla bandella della Macchia gialla, perché credo che nelle
pagine di Immagine linguaggio figura si trovi, su un altro regi- stro, una sua
importante eco. È un polittico dipinto da G. sulla soglia dei sessant’anni –
dopo aver subito una seria operazione chirurgica, composto da 13 comparti, che
formano un quadrato di 115 cm per lato. Collezione privata Velotti Alcuni
comparti rappresentano frammenti del proprio corpo, vissuti come oggetti
estranei e familiari a un tempo. Figurano anche strumenti di studio e di
affezione dalla Critica del giudizio a Tempo e racconto di Ricoeur, cose amate,
come il Dissonanzen Quartett di Mozart che dà anche il titolo a un suo
romanzo-saggio. Ma questo è solo un primo riconoscimento di figure presenti nel
dipinto, non certo l’inizio di un’interpretazione. Quando dicevo che la
passione dominante di G. è quella di capire, di comprendere, pensavo anche a
questo dipinto, che credo tro- vi una sua ricomprensione filosofica proprio in
un passo del suo ultimo libro, nelle riflessioni sul corpo e su cosa si prova
ad essere un homo sapiens. Un’operazione chirurgica diventa nelle mani di G. un’occasione per elaborare, anche
operativamente e metaoperativamente, e non solo linguisticamente e
intellettualmente, l’esperienza fatta o subi- ta, anzi proprio per non subire
soltanto l’esperienza comunque subita, ma per esercitare, appunto, quel “dover
essere del senso” già articolato verbalmente. Quel che mi interessa è mettere
in contatto questa ope- razione pittorica, con un passo che, mi pare, le
corrisponde almeno in parte, e che rimanda a quella complementarità tra
determinatezza e indeterminatezza che è al cuore del suo pensiero. Non è
possibile, nota G. in alcune notevoli pagine del suo saggio, mirare a cogliere
l’indeterminato in quanto tale; è possibile farlo solo attraverso il
determinato. E poi si pone una possibile obiezione: È vero: momenti di
apparente non-riconoscimento e totale in- determinatezza percettiva
intervengono in modo tipico quando ci risvegliamo e a volte pare che non
riconosciamo neppure il nostro piede che spunta fuori dal lenzuolo
aggrovigliato. Forse vedremmo, per così dire, solo l’indeterminato e ci
sfuggirebbe affatto il determinato connesso con il riconoscimento di oggetti?
Si può rispondere tranquillamente di no. Salvi i casi di patologie gravi,
quando il mondo può forse divenire solo un magma indecifrabile e viene meno
perfino il senso della nostra identità ma parimenti dovremmo escludere il caso
estremo del coma, se non addirittura dell’essere già morti, il riconoscimento
non G., Dissonanzen-Quartett. Una storia, Pratiche, Parma Una densa e attenta
interpretazione di quest’opera è stata avanzata da Olivetti, dice. Primi
appunti su un Autoritratto di G., pubblicato nel catalogo della mostra G. Un
Autoritratto, Sala Santa Rita dell’Assessorato alle Politiche Culturali del
Comune di Roma. G., Immagine linguaggio figura, Il senso dell’esperienza: G. e
l’estetica come filosofia non speciale viene meno neanche nel caso
di un risveglio depresso e confuso. Si tratta piuttosto di una sensazione di
estraneità degli oggetti e delle nostre stesse parti del corpo percepite come
oggetti indipendenti e in qualche modo estranei. E l’idea di estraneità
modifica il riconoscimento, non lo annulla. Anzi, l’idea di estra- neità del nostro
piede presuppone un riconoscimento proprio in quanto lo riteniamo estraneo è il
nostro piede e per questo ci è estraneo. Solo che il riconoscimento viene
depotenziato e in certo senso avversato. Infatti il nostro piede non dovrebbe
esserci estraneo, ma il fatto è che ci pare assurdo che quel piede sia
cosiffatto e ci appartenga. E insomma la sensazione della stranezza delle cose
del mondo, esterne e nostre. Il che implica un riconoscimento sgradito,
languoroso e stupefatto48. Nelle ultime pagine, poi, il tono sempre controllato
di G., tendente piuttosto all’ironia e allo humour che allo scoramento, si
lascia andare anche a parole amare sul nostro presente (sono gli anni del
ventennio berlusconiano, che abbiamo sperimentato quanto fossero destinati a
cambiare i parametri della vita pubblica, la mente dei cittadini): Ormai si è
istituzionalizzato il banale ed espulso ciò che più con- ta, non tanto l’arte,
di cui ci importa fino a un certo punto e solo a certe condizioni, ma
soprattutto il comportamento civile, le ir- rinunciabili esigenze etiche,
l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la mente dei cittadini, di
cui invece ci importa molto in primissima istanza. E con una specie di apologo
politico di trista attualità ho messo termine a questo saggio. La facoltà
dell’immagine di G. e il suo contributo alla ricerca sulla percezione, i
contenuti non concettuali e l’immaginazione . Il saggio di G.,
Immagine Linguaggio Figura, è in parte una ripresa e un ripensamento di
alcuni temi trattati quasi trent’anni prima in Ricognizione della
semiotica Da una rielaborazione dei problemi abbozzati in questo
volume, e grazie a un’assidua interpretazione e rielaborazione del
pensiero kantiano, G. arriva a precisare il rapporto tra le due dimensioni
irriducibili della sensibilità e dell’intelletto in termini
di facoltà dell’immagine, da un lato, e di linguaggio e concetti,
dall’altro. Nonostante Immagine Linguaggio Figura nomini fin dal
titolo il problema della relazione tra queste due dimensioni correlate ma
kantianamente irriducibili dell’esperienza umana, lo statuto del
linguaggio non è qui affrontato nella sua problematicità complessiva
all’interno di tale esperie nza, ma solo in relazione all’«immagine
interna», che deve essere considerata «la premessa e la garanzia della
realtà del significato delle parole del linguaggio. Naturalmente, Relazione
tenuta al convegno di studi “G.: determinazioni e dissonanze, Chieti, G.,
Immagine Linguaggio Figura. Osservazioni e ipotesi, Roma-Bari, Laterza Ricognizione
della semiotica. Roma, Officina. Immagine Linguaggio Figura, dove G.
precisa. Chiamo complessivamente immagine interna sia il precedente d’un’immagine,
sensazione, sia l’immagine in quanto attualmente prodotta, percezione,
sia l’immagine in quanto riprodotta o ricordata, rielaborata, immaginazione,
per distinguerle complessivamente dalla figura esteriorizzata, per esempio,
mediante un disegno. Perciò mi capiterà di chiamare la facoltà che ne è
responsabi le facoltà dell’immagine, tale da riunire in sé sensazione,
percezione, immaginazione. Immagine Linguaggio Figura. non bisogna cadere
nell’errore di considerare l’immagini interne come figure (Bilder,
pictures) che avremmo nella mente. G. conosce bene la
critica wittgensteiniana a quest’idea tradizionale e insostenibile. Anzi,
si potrebbe considerare la teoria dell’immagine interna come una lunga e
meditata replica a chi confonde la critica di Wittgenstein con un rifiuto di
attribuire ogni valore cognitivo o semantico alla nostra attività
percettivo-immaginativa, per attenersi al solo linguaggio. Per integrare quanto
è implicito nel libro a questo riguardo, credo sia oppor tuno tenere presente
l’articolo che G. dedica a Minisemantica di MAURO (si
veda), caratteristicamente intitolato L’indeterminatezza semantica,
una questione liminare. Sia sul versante della percezione e dell’immagine, sia
su quello del linguaggio e dei concetti, troviamo infatti in
quest’articolo quella correlazione di determinato e indeterminato che è
forse il nodo teorico che G. ha pensato più a fondo e nelle sue molteplici
articolazioni: il paradosso fondante della filosofia, ma a nche dell’esperienza
comune di cui G. parla prima nella voce i paradossi
dell’esperienza scritta per l’enciclopedia Einaudi, e poi
in Senso e paradosso non è altro che un’antinomia inevitabile,
modellata sull’antinomia della facoltà di giudizio della
terza Critica kantiana. La relazione paradossale tra determinatezza e
indeterminatezza è al centro sia della trattazione della facoltà
dell’immagine, sia della facoltà del linguaggio. Qui vorrei, per un
verso, mostrare quale aspetto abbiano assunto nell’ultimo libro certi
problemi già impostati in Ricognizione della semiotica creando
MAURO [si veda], Minisemantica, Roma-Bari, Laterza; G.,
L’indeterminatezza semantica, una questione liminare, in Ai limiti del
linguaggio, cur. LEONI, GAMBARARA, GENSINI, PIPARO, SIMONE,
Bari, Laterza, poi in G., L’arte e l’altro dall’arte. Saggi di estetica
e di critica, Bari, Laterza. G., I paradossi
dell’esperienza, in Enciclopedia Einaudi, Sistematica, Einaudi,
Torino; Senso e paradosso. L’estetica, una filosofia non speciale, Bari,
Laterza così un asse verticale, o di profondità temporale, all’interno de lla
ricerca stessa di G.; per altro verso, però, vorrei tentare qualche rapido
confronto tra alcuni temi fondamentali affrontati in Immagine Linguaggio
Figura e la filosofia contemporanea, soprattutto di area analitica, con
qualche riferimento anche all ’ambito della psicologia cognitiva e
discipline affini. Con il corrodersi della filosofia linguistica, infatti,
o, se si vuole, con l’apertura della linguistic turn al non
linguistico quest’area di ricerca permette di riscoprire il problema della
percezione e dell’immaginazione, creando ambiti disciplinari anche molto
specialistici su questioni strettamente interconnesse: dal problema della
natura della mental imagery a quello dei cosiddetti contenuti non
concettuali della percezione in cui un ruolo di rilievo assume anche la
percezione e la cognizione degli animali non umani, da sempre tenuta presente
da G.; da quello della natura delle rappresentazioni mentali a quello delle
numerose prestazioni assegnate oggi in ambito analitico e cognitivistico
all’immaginazione. A lungo considerata in area analitica come una
“facoltà” nebulosa, indeterminata e quindi sospetta, da qualche anno a questa
parte l’immaginazione è al centro di molte aree di ricerca: se ne parla i
n relazione ai giochi di far finta games of make believe sia nel campo delle
arti che in quello più generale dell’esperienza comune 9 Cfr.
l’ampio contributo di THOMAS, Mental Imagery, The Stanford
Encyclopedia of Philosophy, cur. ZALTA plato. stanford. edu/ archives/ win2011/
entries/ mental-imagery/. Si tratta di un buon contributo, ma è sintomatico che
proprio allo schematismo kantiano Thomas dedica uno spazio molto ridotto, e
limitato alla schematismo trascendentale dell’intelletto della
prima Critica: aggrappandosi alla famosa asserzione kantiana secondo
cui lo schematismo è un’arte nascosta nella profondità dell’anima umana, il cui
vero impiego difficilmente saremo in grado di strappare alla natura per
esibirlo patentemente dinanzi agl’occhi, Thomas mette da parte il problema
concludendo che Kant, -- in attempting to grapple with problems about the
nature of mental representation that the empiricists had failed to solve, leaves
the process of image formation, and the nature of image itself, deeply
misterious. Cfr. WALTON, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of
Representational Arts, Harvard, (trad. it. di NANI, Mimesi come far finta,
Milano, Mimesis, alle ricerche sull’autismo considerato da alcuni come una
patologia dell’immaginazione, a quelle sull’EMPATIA e sulla simulazione,
ai cosiddetti paradossi della finzione, della suspense o della resistenza
immaginativa, e ai tentativi, o alle rinunce, di fornire una nozione unitaria
di immaginazione che ne comprenda le varie declinazioni: un’immaginazione pr
oposizionale e non proposizionale, una ricostruttiva e una creativa,
e così via 11. Immagine Linguaggio Figura è stato scritto
senza note e senza riferimenti espliciti ad altri autori o ad altre ricerche
contemporanee. Ma è tutt’altro che un libro estemporaneo o isolato.
Anzi, G. lo ha potuto scrivere liberamente, quasi di getto, solo perché sono
almeno trent’anni che anda elaborando quei pensieri. Abituati ormai a
pensare, come è d’uso nella filosofia analitica, sotto l’ombrello
di etichette generalizzanti, che identificano certi assunti teorici di
fondo nei confronti dei quali occorrerebbe definirsi nel caso
della mental imagery, per esempio, il primo discrimine che troviamo è
quello fotografato dall’annoso e fuorviante dibattito tra
sostenitori delle teorie analogiche e delle teorie PROPOSIZIONALI,
la riflessione di G. sembra condotta in isolamento, e risulta difficile
da collocare sotto un’etichetta univoca. Mentre non credo che le
etichette servano davvero, in quanto tali, a far progredire la comprensione dei
problemi, credo invece che un confronto sostanziale tra le proposte di G. e
quelle elaborate in ambito anglosassone sarebbe molto proficuo per entrambi gli
schieramenti. In ogni modo, se proprio volessimo collocare le posizioni di G.
in quel dibattito che nel bene e nel male è sempre più ristretto,
specialistico, talvolta accecato dai propri tecnicismi, ma altre volte utile a
chiarire i problemi in gioco e a suggerire soluzioni che lì, magari, non sono
contemplate -, potremmo orientarci verso l’ambito delle teorie enattive, enactive,
della percezione e delle Per il nuovo interesse suscitato
dall’immaginazione in ambito anglosassone negli ultimi decenni, e le
relative indicazioni bibliografiche, rimando a VELOTTI, La filosofia e le
arti. Sentire, pensare, immaginare, Roma-Bari, Laterza, in particolare il
cap. 3immagini mentali, che costituiscono una terza via non computazionale rispetto
a quelle analogiche e a quelle PROPOSIZIONALI (cf. Grice, CONTENUTO
PROPOSIZIONALE). Come che stiano le cose rispetto a questi orientamenti,
il confronto approfondito e sostanziale tra le riflessioni di G. e le teorie
della percezione, delle immagini mentali, dell’immaginazione
nel loro ruolo in ambito cognitivo, semantico, estetico,
artistico è un lavoro ancora da fare. Qui offrirò qualche spunto in
relazione al problema dei cosiddetti contenuti non concettuali della
percezione, cominciando però dallo sviluppo interno al pensiero di G.
stesso, e in particolare dall’insoddisfazione per la semiotica
denuncia. Alla domanda se la semiotica è sufficiente a se stessa, G. rispondeva di no, perché la semiotica non
poteva indagare il problema delle condizioni grazie a cui un qualcosa diviene SEGNO.
Lì G. invoca la costruzione di una semantica trascendentale come metateoria di
una semantica empirica e di una semantica logica, e indica il suo oggetto
specifico nei significati trascendentali, cioè negli schemi dell’immaginazione,
affrontati in sede di schematismo trascendentale nella Kritik der reinen
Vernunft. G., d’altra parte, avverte avendo pubblicato Estetica ed
epistemologia l’insufficienza dello schematismo trascendentale della
prima Critica, valido solo per le condizioni de)la conoscenza in
genere überhaupt, ma non per comprendere la conoscenza effettiva o determinata,
e rimanda al principio trascendentale soggettivo, creativo e costruttivo
indagato da Kant nella terza Critica. Nella Premessa a
Immagine Linguaggio Figura si dice che l’enigma dell’immagine interna, G.,
Ricognizione. G., Estetica ed epistemologia. Riflessioni sulla CRITICA
DEL GIUDIZIO di Kant, Roma, Bulzoni, nuova ed. con una nuova premessa, Milano,
Unicopli. G., Ricognizione, vero e proprio tema centrale del saggio, ha
preso forma attraverso l’assiduo ripensamento del cosiddetto schematismo kantiano.
Dunque, una continuità con l’opera, ma certamente anche un’importante
discontinuità: lo schematismo trascendentale, quello dei concetti puri
dell’intelletto, passa decisamente in secondo piano nell’ultimo libro, mentre a
venire in primo piano sono lo schematismo empirico - quello cioè che
permette di pensare la costruzione dei concetti empirici a partire dalla
percezione, che Kant nella terza Critica chiama esempio - e lo
schematismo simbolico, quello che funziona per analogia, in relazione a
concetti non propriamente esibibili e che è responsabile non solo delle
cosiddette opere d’arte bella, ma anche del funzionamento del nostro
linguaggio. Naturalmente, questi diversi schematismi, pensabili grazie alla
distinzione - disponibile solo a partire dalla terza Critica tra uno
schematismo oggettivo e un libero schematismo, si intrecciano sempre nella
produzione effettiva di enunciati e figure significanti, ma devono essere
distinti a livello analitico. Nella Ricognizione della semiotica G.
mette in chiaro come lo schematismo kantiano costituisse il superamento di ogni
concezione ingenuamente referenzialistica del linguaggio. Lì si indicava una
direzione di ricerca che poi si preciserà nel tempo. Si dice. Il referente non
è la cosa stessa, ma il nostro modo di operare sulle cose, di manipolarle
e configurarle come il correlato implicito del linguaggio; l’operazione a
sua volta è questo stesso concreto manipolare, che non può essere
disgiunto peraltro dal nostro rappresentarci le cose e le nostre
manipolazioni delle cose, cioè dal nostro prendere le distanze dagli stimoli
immediati, e che suppone quindi in qualche modo il nostro conoscerle e
parlarne Immagine Linguaggio Figura, Cfr. KANT, CRITICA DELLA FACOLTÀ DI
GIUDIZIO, ed. it. cur. G. e HOHENEGGER, Torino, Einaudi, in particolare l’introduzione
dei curatori. Sull’analogia in Kant v. CAPOZZI, L’inferenze del giudizio
riflettente in Kant: l’induzione e l’analogia, Studi kantiani, G., Ricognizione.
È evidente, mi pare, che l’operazione di cui si parla include anche la
nostra nativa attività percettiva che verrà poi indagata attraverso il problema
della costituzione, della natura e della funzione delle immagini interne.
Distinte dalle figure che non possono essere altro che elaborazioni,
esteriorizzazioni e riduzioni delle immagini interne), le immagini interne sono
innanzitutto dinamiche, sono cioè ispezioni attive e mobili, per scorci sempre
diversi, degli oggetti percepiti, o di queste percezioni riprodotte,
rielaborate e ricordate nell’immaginazione. È da escludere quindi ogni
obiezione legata alla presupposizione indebita e circolare di un HOMUNCULUS
(cf. CUMMINS ON GRICE) homunculus che sarebbe a sua volta spettatore di
figure nella testa. Figure nella testa non ce ne sono. È invece questa
operazione percettiva, dinamica e attiva, che impedisce ogn i regresso
all’infinito, anche se naturalmente non pretende di dare una
spiegazione, in termini oggettivi, di come ciò avvenga. Un ruolo decisivo gioca
qui la nozione di metaoperatività introdotta in
Ricognizione della semiotica e poi ripresa, anche terminologicamente, in
tutta la sua importanza, solo trent’anni anni dopo. È interessante
come, anche in questo caso, G. anticipasse uno dei temi più dibattuti, oggi, in
ambito cognitivo, sotto il t itolo di meta-rappresentazioni, ma che in G. si es
tende già all’intero ambito dell’operare umano, un operare che è pragmatico e
corporeo, percettivo, cognitivo. In analogia e in correlazione con la funzione
metalinguistica che per G. è sempre implicata nelle funzioni di primo
livello del linguaggio, così come quella costituisce pur sempre una funzione
che può essere solo interna al linguaggio di primo livello G. introduce
la nozione di metaoperatività come interna a qualsiasi o perazione umana. È ciò
che distingue, in sostanza, un’operazione del G., Ricognizione, Cfr.
Metarepresentations. A Multidisciplinary Perspective, cur. SPERBER, Oxford
genere STIMOLO-RISPOSTA da un’operazione che include già dentro di sé una
generalizzazione. P iantare un chiodo con un martello è sì un’operazione
determinata, concreta, e dotata di uno scopo preciso, ma come operazione
umana contiene già dentro di sé una famiglia o una classe di operazioni
possibili qualcosa, dunque, ch e potrebbe essere chiamato uno schema
operativo: piantare questo ch iodo, per l’uomo, suppone piantare i chiodi
in generale, cioè un comportamento operativo metaoperativo rispetto a
quello volto alla fabbricazione di strumenti e alla determinazion e di
variabili operative; e il piantare chiodi in generale suppone ul teriormente
l’operare in generale in vista d i possibili variabili operative, cioè un
comportamento specificamente metaoperativo. Persino l’operare per prova ed
errore tipico del comportamento animale non umano - suppone nell’uomo un
piano, una consapevolezza di operare per prova ed errore. Sappiamo che
proprio l’attività artistica è considerata da G. come l’esemplificarsi di
questa dimensione metaoperativa, e che questa dimensione metaoperativa
non è altro che una riformulazione della kantiana «conformità a scopi senza
scopo. La terza parte di ricognizione della semiotica è tutta
incentrata sui cosiddetti linguaggi artistici, che LINGUAGGI PROPRIAMENTE NON
SONO, non solo in quanto PRIVI DI UN CODICE, ma in quanto strettamente
condizionati da un’operatività e da una meta-operatività irriducibili a
linguaggio. Tutte le arti di cui G. lì parla dall’architettura alla musica,
dalla poesia alla narrativa alla pittura sono indagate a partire dal modo in
cui in esse prende corpo questa nostra capacità metaoperativa, di per sé
inosservabile, ma rilevabile in indici empirici in tutti i prodotti umani,
e in modo esemplare nelle opere d’arte. La stessa nozione di stile viene
riletta alla luce del manifestarsi concreto di indici metaoperativi. In estrema
sintesi, questa capacità metaoperativa viene caratterizzata come una
condizione G., Ricognizione nozioni diverse, quali gli oggetti
che Winnicott ha chiamato «transizionali, di quelli che Dummett ha chiamato
proto-pensieri, che sono analoghi poi a quelli che alcuni studiosi
a partire da Evans chiamano contenuti non concettuali della percezione (c
ontraddicendo, dunque, l’idea fatta valere da FERRARIS (si veda) secondo
cui la tradizione kantiana decreta l’equivalenza tra epistemologia e ontologia,
cioè l’assimilazione di tutto il reale, di quel che c’è, a quel che
possiamo conoscerne grazie ai nostri schemi concettuali, gettando così le
premesse del radicale prospettivismo e costruzionismo nietszscheano
secondo cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, e di qui del
postmoderno, del neopragmatismo alla Rorty, del decostruzionismo secondo cui
niente è fuori dal testo, e così via . affidata a un principio estet ico
che esprime un’originaria adesione del soggetto all’esperienza, e insieme
un’anticipazione distanziante di questa. Già in Senso e paradosso, G.
s’è riferito in un altro contesto agli oggetti transizionali di Winnicott
mediatori tra il narcisismo infantile, o primario, e le relazioni
oggettuali, obbedienti a quel principio di confusività che violerebbe appunto
il principio aristotelico di non contraddizione accostandoli da un lato all’
Unheimliches freudiano e, dall’altro, alla paradossale unità di
determinato e indeterminato che ha nell’opera d’arte e nell’esperienza estetica
una sua manifetsazione esemplare. Non c’è esperienza ben determinata,
apparentem ente solo ovvia, che non presupponga una condizione di
transizionalità o, insomma, un paradosso-senso. E certi tipici oggetti
transizionali non sono che concretizzazioni di un paradosso-senso. Qui si
legittima anche la creatività che viene esemplar mente e più tipicamente
esibita oggi, per noi e dal punto di vista di una riflessione estetica,
da ciò che chiamiamo arte ed esperienza estetica DUMMET, Origins of
Analytical Philosophy, Harvard, ed. cur. PICARDI, Origini della filosofia
analitica, Torino, Einaudi. Il proto-pensiero si distingue dal pensiero
vero e proprio che è esercitato dagli esseri umani per i quali il linguaggio ne
è il veicolo per il fatto di non essere separabile dalle attività e
circostanze presenti non possiamo dare una spiegazione soddisfacente della
nostra capacità di base d’apprendimento e di orientamento nel mondo trascurando
il livello dei proto-pensieri. EVANS, The Varieties of Reference, Oxford.
FERRARIS, tra i tanti testi e articoli in cui sostiene questa tesi, si veda da
ultimo il manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza. Per una
discussione più articolata di questadel l’esperienza che funziona come unità
costruttiva di un insieme di determinazioni linguistiche e operative», in
dichiarata corrispondenza a quell’unità estetica delle rappresentazioni
di cui si occupa Kant nella Kritik der Urteilskraft. A questo punto
abbandono il saggio per vedere come queste problematiche vengano
riformulate e rielaborate, in modo più adeguato, nel saggio. Il nuovo strumento
teorico che G. mette a punto, al di là del riferimento al principio di una
conformità a scopi senza scopo quale senso e sentimento comune, il
Gemeinsinn kantiano, è la nozione d’immagine interna, proprio a
partire da una rielaborazione del libero schematismo della terza
Critica. Qui la nostra capacità metaoperativa resta una nozione
importante, ed è esplicitamente richiamata nel testo, ma viene reinterpretata e
specificata proprio in relazione al lavoro di quella che G. chiama
complessivamente facoltà dell’immagine, che è responsabile sia delle
sensazioni (come precedenti di un’immagine), sia delle percezioni (le
immagini interne prodotte in presenza degli oggetti del mondo), sia
dell’immaginazione nella sua specificità (delle immagini in quanto
riprodotte o ricordate- rielaborate. Quella che veniva chiamata per lo più
operazione è qui inn anzitutto l’attività di questa facoltà dell’immagine, dal
livello senso-motorio e non ancora associato effettivamente al linguaggio e ai
concetti, fino al suo pieno intrecciarsi con linguaggio e concetti, ma pur
sempre all’interno di una non riducibilità dell’una dimensione all’altra.
Sensazione, percezione e immaginazione sono tutte immagini interne
costitutivamente dinamiche, non fissabili in un’icona o figura materiale,
e abitate da qualcosa di non sensibile, dunque distinte dall’immagine
SEGNO materialmente intesa, che G. chiama figura [ETIMOLOGIA INTERESANTE], e
che è invece sostanzialmente statica. G. Ricognizione, G. Immagine
Linguaggio Figura Una delle nozioni di maggior interesse che emerge
subito assente, direi, negli scritti precedenti è quella di
aggregato. Si tratta di qualcosa di pre-linguistico e pre-concettuale, che deve
dunque precedere in linea di diritto e ipoteticamente anche di
fatto il costituirsi di famiglie, in senso wittgensteiniano, e di classi.
Un aggregato è ciò che offre una prima possibilità di riconoscimento degli
oggetti, non come membri di una famiglia o di una classe che presuppongono
appunto una caratterizzazione di tratti linguistici o una pertinentizzazione di
note concettuali. Un aggregato è invece costituito solo percettivamente –
GRICE, POTCHING, NOT COTCHING -- e costituisce un insieme di casi
effettivamente sperimentati o di oggetti effettivamente usati, quindi di numero
finito, anche se via via crescente. Un aggregato può essere costituito da
oggetti assai diversi, legati da una minima somiglianza e talvolta da nessuna
somiglianza, ma solo da un cortocircuito tra disparati che stabiliscono
tra loro un’unità non chiaribile intellettualmente di tipo affettivo,
emozionale, fantasticante, volto al padroneggiamento di eventi e cose amate,
preoccupanti, esaltanti. Mi sembra di poter dire che G. stia cercando di dar
conto, con una rielaborazione di quella che Kant avrebbe chiamato una
sintesi dell’apprensione, ancora priva di un’unità conc ettuale, della
comune radice di G., Immagine Linguaggio Figura. Ma G. segnala una
revisione tendenziale dell’estetica trascendentale kantiana a un
livello molto più radicale e produttivo, già da Senso e paradosso. Con
la riflessione estetica della Critica del Giudizio, il problema
dell’immaginazione viene in primo piano: nasce u n nuovo schematismo lo
schematismo libero, senza concetti, dell’immaginazione come
capacità originaria di organizzazione delle percezioni. Di conseguenza tende a
ridimensionarsi notevolmente la primitiva estetica trascendentale, nonché
la stessa logica trascendentale, della Critica della ragion pura.
Per esempio, che qualcosa possa essere dato ai sensi solo alle condizioni dello
spazio e del tempo non è che un aspetto, forse non il più
originario appunto, della questione dell’intuizione e della sua elab
orazione nell’immaginazione non più soltanto produttiva e riproduttiva, ma
anche creatrice, non esauribile in termini di ‘forme’ spazio - temporali
rispetto a una materia sensibile. Il centro della questione, di fronte a
quell’aspetto, è ora la lor o interna capacità organizzativa Quanto alla
relazione tra aggregato e oggetto (GRICE OBBLE) transizionale, mi sembra che
uno degl’esempi portati in Immagine Linguaggio Figura non lasci
adito ad alcun dubbio. Nella primissima infanzia, scrive G., prima che il
linguaggio costituisca un vero e proprio ambiente e quindi sotto la condizione
di un’intelligenza prev alentemente senso-motoria, si può
ipotizzare che si producano, nel la manipolazione degli oggetti, riconoscimenti,
usi e aggregati di oggetti in essi variamenti disposti. Un burattino può
essere riconosciuto come un burattino e nello stesso tempo come un
vivente, oggetto d’amore o mostro persecutorio che sia; una copertina o
un lenzuolino possono essere riconosciuti come oggetti d’uso, adatti per
coprirsi e stare al caldo, e insieme come utero della madre, il suo
abbraccio, il suo stesso seno e quindi come una difesa dal mondo esterno non
ancora propriamente conosciuto e dominato; e così via. In questi casi
l’aggregato è lontanissimo dalla formazione di una futura tassonomia
intellettuale, e tuttavia una tassonomia non potrebbe più tardi formarsi se non
fosse preceduta da quello. Se queste forme prelinguistiche di aggregazione e
riconoscimento sono però contrassegnate da una vocazione al linguaggio e
all’organizzazione concettuale, ci si può chiedere se siano pensabili
anche senza questa teleologia evolutiva e se non siano per caso da
pensare come l’analogo più prossim o, con le opportune specificazioni, delle
rappresentazioni che dobbiamo attribuire ad alcune specie di animali non-umani.
A questi, infatti, G. riconosce non una vera percezione interpretante come
quella umana, ma neppure si sente di relegarli in un «ambiente» nettamente
distinto da un mondo come avevano fatto Scheler e Heidegger sulle orme di von
Uexküll. Forse la distinzione vale per l’ambiente sensoriale della zecca,
ma sarebbe diff icile dire la stessa cosa di un cane o delle grandi
scimmie. tesi rispetto a Kant, rimando a VELOTTI, Storia filosofica
dell’ignoranza, Roma-Bari, Laterza. G., Immagine Linguaggio Figura. G., Immagine
Linguaggio Figura. Un mondo, senza darne qui un’impossibile definizione e
accettando della parola solo l’indicazione di un senso complessivo della vita e
delle cose che la avvolgono, è attribuibile anche agli animali non-umani.
Solo che sembra presentarsi non come mondo in immagine, ma come comportamento,
in cui la sensazione, visiva o non visiva, svolge una funzione segnaletica e
non formativa, essenziale, ma non caratterizzante propriamente una co siddetta
immagine del mondo. Mi sono soffermato brevemente sul tema della percezione
infantile e degli animali non-umani perché è diventato forse l’argomento
più forte portato dai sostenitori dei contenuti non concettuali della
percezione. Questo confronto tra le posizioni di G. e quelle dei
sostenitori dei contenuti non concettuali (un’espressione che Garroni non usa
mai) richiederebbe uno studio specifico, come anche la relazione
tra l’ aggregato e i proto -pensieri di Dummett, una nozione elaborata proprio
per dar conto di rappresentazioni che non sono dipendenti dal linguaggio,
proprie sia dunque degli infanti, sia degli animali non-umani (anche se credo
che sia necessario, anche per Dummett [WRIGLEY TO GRICE: MY THESIS WILL BE ON
DUMMETT’S FREGE – PHILOSOPHY OF LANGUAGE. HAVE YOU READ IT? GRICE: NO, AND I
HOPE I WON’T], distinguere tra proto-pensieri suscett ibili di diventare
pensieri, o vocati a diventarlo, e quelli che non lo sono). Se menziono i
possibili punti di convergenza della riflessione di G. sulla irriducibilità
della percezione al linguaggio con quella di alcuni filosofi di tradizione
analitica e psicologi cognitivi, non è per mostrare che il pensiero di G. sta
al passo con i tempi, o li ha precorsi, cosa che sarebbe di pochissimo
interesse. Il fatto è che G. mette in luce spesso senza portare fino in
fondo i dettagli dell’analisi aspetti, implicazioni e dimensioni del
problema che potrebbero essere molto fecondi se messi a contatto con la ricerca
contemporanea propria di quelle diverse tradizioni. Vorrei sottolineare che non
si tratta solo di un generico auspicio di integrazione di prospettive diverse,
ma di confronti concreti G., Immagine Linguaggio Figura Non
solo in EVANS, cit., ma soprattutto, tra gli altri, in C. A. B. PEACOCKE, Does
perception have a nonconceptual content? Journal of Philosophy, e
Phenomenology and nonconceptual content, in “Philosophy and Phenomenological
Research”, e già anche in DRETSKE, Naturalizing the Mind, MIT che
potrebbero portare a risultati sorprendenti forse anche in termini di nuove
acquisizioni conoscitive. Farò due esempi: il primo, già accennato, riguarda
proprio i contenuti non concettuali. Il secondo riguarda invece
l’indeterminatezza delle immagini mentali A. È indubbio che le
principali ragioni che hanno portato la filosofia della linguistic
turn a occuparsi di fenomeni non linguistici, e in particolare di
contenuti percettivi non concettuali, è legata a una serie di ragioni che
trovano corrispondenze abbastanza puntuali in Garroni. E tuttavia, nonost-ante
la loro raffinatezza, spesso queste analisi sono incapaci di vedere aspetti
della questione che una riflessione filosofica come quella di G. aiuta a
scorgere. Le ragioni che hanno dato il via al dibattito sui contenuti non
concettuali sono svariate. La possibilità, riconosciuta da G. con la nozione di’aggregato,
di rappresentare nella percezione stati di cose contraddittori o impossibili da
un punto di vista proposizionale e concettuale [SPERANZA MISE-EN-ABYME E GRICE:
l’esempio che si fa di s olito sono le figure di Escher, o la l’illusione della
cascata di Crane, ma l’aggregato di G., come abbiamo visto
rapidamente, coglie questa possibilità percettiva innanzitutto al livello
dell’immagine interna, e nella sua necessità non solo come fatto
accidentale ed episodico, o artatamente escogitato e realizzato in una figura. Un
secondo argomento è stato proposto da Peacocke, il quale sostene che il
contenuto della percezione è unit-free: percepisco una distanza
CRANE, The Waterfall Illusion, Analysis, Cfr. Immagine Linguaggio Figura,
in cui G. analizza la differenza tra la interpretabilità plurima di
alcune figure, e il ruolo primario nei riguardi della varia
interpretabilità del percepibile giocato dall’indeterminatezza percettiva
propria delle immagini interne in relazione al mondo
reale. PEACOCKE, Analogue content, Proceedings of the Aristotelian
Society, determinata tra me e un oggetto senza per questo dover usare
un’unità di misura. E queste rappresentazioni sono irriducibilmente
nonconcettuali. G., di nuovo appoggiandosi qui implicitamente a Kant,
usa un’argomentazione analoga per mostrare come la percezione ci appaia
legittimamente come soggettiva e oggettiva a un tempo, senza che ci sia nulla
di contraddittorio o ossimorico, in quanto la percezione fornisce valori
oggettivi delle cose, per esempio quantitativi, tali da poter essere poi
esplicitati in rapporti metrici, in un modo che non è ad evidenza delle
cose stesse: lo stesso avvertimento di quei valori oggettivi
è nostro [e questo avvertimento è non concettuale: nota mia]
e, tanto più, la nostra misurazione non sta nelle cose,
ma dipende da un’unità di misura da noi stabilita idonea per
l’esplicitazione concettuale di quei rapporti. L’avvertimento dei valori
quantitativi privo di un’unità di misura è dunque la condizione, non
concettuale estetica, direbbe G. con Kant di ogni misurazione oggettiva e
concettuale. 3. Un terzo argomento, avanzato da Evans e poi ripreso da molti, è
la maggiore finezza di grana della percezione rispetto alla grana dei
contenuti degli atteggiamenti proposizionali. Qui è facile riferirsi di nuovo a
G. nella sua rielaborazione del pensiero kantiano, ma non tanto in relazione
agli aggregati, quanto al libero schematismo e a quelle che Kant chiamava «idee
estetiche» (una modalità esemplare di «immagine interna», che Kant stesso
designa come «intuizione interna»: « dal punto di vista estetico
l’immaginazione è libera, al fine di fornire, ma in modo non ricercato una
copiosa e inesplicita materia [Stoff] all’intelletto, che questo,
nel suo concetto, non prendeva in considerazione ). E l’analisi,
centralissima, che G. dedica al libero schematismo, non si limita a un
riferimento alle ope re d’arte che sono, per Kant, espressioni di idee
estetiche, ma KANT, Critica della facoltà di giudizio, G.,
Immagine Linguaggio Figura . KANT, Critica della facoltà di
giudizio si allarga alla stessa costruzione di schemi per concetti
empirici. G. precisa infatti che lo stesso schema lo schema empirico,
l’immagine schema o, nel linguaggio della terza Critica
kantiana, l’esempio è possibile dentro il quadro del rapporto dell’intera
immaginazione e dell’intero intelletto: è una scelta di certi tratti
caratteristici nell’insieme di tutti i tratti caratteristici percepibili
di un oggetto, il quale a sua volta non sarebbe possibile se non sullo sfondo
di tutti i tratti caratteristici possibili, percepiti o no, percepibili o no, c
onfusi nell’indet erminatezza della totalità. Non si tratta, è vero, di
una percezione non relazionata ai concetti (dato il rapporto
dell’immaginazione con l’intelletto), ma è anche vero che qui nessun concetto
determinato può corrispondere ai tratti caratteristici percepiti, e anzi un
concetto empirico può formarsi solo su progressive selezioni a partire da una
totalità indeterminata di tratti non già linguisticamente o
concettualmente classificati. Nella prospettiva di G., la maggiore
“finezza di grana” della percezione verrebbe vista in un quadro più ampio
di quello analitico e cognitivista, che ha conseguenze antropologiche,
semantiche, di teoria dell’arte, mentre probabilmente potrebbe guadagnare
a sua volta in precisione e articolazione da un confronto serrato con il
dibattito analitico. 4. Un quarto argomento strettamente collegato al
precedente è stato di nuovo messo in evidenza da Peacocke e da Ayers, e riguarda la possibilità di acquisire
e apprendere concetti empirici. Se non si dessero contenuti non concettuali, o
il nostro ragionamento sarebbe circolare (coglieremmo già concettualmente
contenuti percettivi di cui invece, per ipotesi, dobbiamo costruire i concetti),
oppure dovremmo supporre un innatismo fortissimo e insostenibile. La G., Immagine
Linguaggio Figura, C. A. B. PEACOCKE, A study of concepts, MIT, e
Does perception..., cit.; AYERS, Sense experience, concepts, and content: objections
to Davidson and McDowell, in SCHUMACHER, Perception and Reality: from
Descartes to the Present, Paderborn, Mentis, 2ripresa da parte di G. delle
considerazioni svolte da ECO (si veda) nel suo Kant e L’ORNITORINCO (che
a sua volta si riferiva a G.) fornisce un modello per la formazione dei
concetti empirici proprio a partire dai contenuti non concettuali, in forma di
aggregati, che permette un riconoscimento percettivo anteriore alla
costituzione di uno schema empirico, correlato a un nome comune. Veniamo al
secondo esempio. Discutendo di immagini mentali, alcuni autori di provenienza
analitica hanno sostenuto che una delle caratteristiche che le differenzia
dalle figure (pictures) è la loro indeterminatezza. Sembrerebbe, questo, un
tratto che li avvicina alla tesi di G. sul reciproco correlarsi di
determinatezza e indeterminatezza. Ma non è così. Lo scopo di chi usa questa
argomentazione è quello di sostenere che le immagini mentali, essendo
indeterminate, sono più simili a descrizioni che a figure. L’argomento di
Dennett è abbastanza noto, e rig uarda il numero delle strisce del manto
di una tigre: in un’immagine mentale il numero delle strisce di una
tigre può essere indeterminato, mentre in una figura le strisce devono essere
numerabili, e dunque determinate. In una descrizione, il numero delle
strisce può essere indeterminato (“questa tigre ha numerose strisce sul
manto”), dunque le immagini mentali sono più vicine alle descrizioni che alle
figure. Un’autorità sulla mental imagery come Thomas insieme
a molti altri sostiene che questo argomento non è valido, perché
un’immagine mentale di una tig re potrebbe avere un numero determinato di
strisce, solo che uno potrebbe non fare in tempo a contarle perché
l’immagine mentale svanisce velocemente dalla coscienza. Inoltre, anche una
figura di una tigre potrebbe rendere impossibile contarle, in quanto
sfocata o sommaria, e G., Immagine Linguaggio Figura. Tra gli altri,
DENNETT, Content and Consciousness, London, Routledge et Kegan Paul;
PYLYSHIN, What the mind’s eye tells the mind’s brain: A critique of
mental imagery, “Psychological Bullettin”; tra i critici di questa
argomentazione, TYE, The Imagery Debate, MIT, anche una tigre reale
– presente alla percezione attuale e non immaginata -, data
la natura frammentaria, confusa e sfuggente delle sue strisce, porrebbe molti
dubbi quanto al loro numero 45 . A me sembra evidente come Dennett e gli altri
autori abbiano colto solo di sfuggita un carattere delle immagini mentali o
interne e ne abbiano tratto una conclusione affrettata. E come le
contro-argomentazioni di Thomas (insieme a quelle di molti altri) si mantengano
sullo stesso livello, senza prendere neppure in considerazione la relazione,
ben altrimenti pregnante e ricca di conseguenze, colta da G. tra determinatezza
e indeterminatezza dell’immagini interne e il loro rapporto con
le figure. L’indeterminatezza dell’immagine interna così come viene
pensata da G. - non è una figura sfocata o mancante di alcuni particolari, o
addirittura una figura che sarebbe determinabile se solo avessimo il tempo di
esaminarla nella nostra mente. La correlazione essenziale tra determinatezza e
indeterminatezza che la caratterizza è condizionata dal fatto che è
un’immagine dinamica e multimodale (visiva, olfattiva, tattile, uditiva,
mnemonica, affettiva, viscerale, e così via) e dunque non è in nessun
modo una figura, neppure una figura sfocata o sbiadita o evanescente. È
piuttosto un’operazione nativa e attiva, che, nel caso della percezione
visiva, è non solo filtrata dalla gamma limitata di raggi luminosi a cui è
sensibile il nostro occhio, ma è resa possibile dai movimenti saccadici e
di altro genere dell’occhio, senza di cui non ci sarebbe neppure un’immagine
retinica. E quest’immagine retinica è a sua volta attivamente e
selettivamente rielaborata dalla nostra «percezione interpretante» sullo sfondo
di un contesto oggettivo e soggettivo che si allarga da quello visibile a
quello non visibile, fino ad estendersi alle altre caratteristiche non presenti
(associazioni con altri oggetti e memorie percettive). Il problema
dell’indeterminatezza condizionante dell’immagine interna non è tanto se
possiamo contare o meno certi suoi elementi, quanto quello di darne un
resoconto teorico adeguato, che, per esempio, non si 45
THOMAS, Mental Imagery, 1illuda di poterla considerare come
l’immagine interna di un oggetto già definito e isolato dagli altri oggetti,
dal mondo soggettivo e oggettivo e dal sentimento della totalità
dell’esperienza in cui siamo avvolti. Si possono anche costruire
modellini della percezione più semplici, avendo in vista la costruzione di
macchine per il riconoscimento automatico di certe caratteristiche oggettuali
nel mondo, ma senza illudersi che quei modellini riproducano effettivamente la
percezione umana. Per concludere, vorrei citare per esteso quel che nota G. nel
già citato articolo sulla indeterminatezza semantica a proposito del senso
stesso di una riflessione filosofica. Credo che quel che diceva allora a
proposito del linguaggio e dei linguisti, potrebbe essere ripetuto per la
percezione e i percettologi, come suggerisce l’ultimo esempio che ho
portato: Si mette in dubbio prima che potessero esistere puri linguisti o
puri percettologi, potremmo dire. Forse è proprio vero: non esistono. Anzi,
se l’antinomia che essi inevitabilmente incontrano e si sforzano di
comporre è sempre presente esteticamente in loro e in tutti noi,
linguisti e non linguisti, nell’anticipazione, all’interno dello stesso uso,
del linguaggio in genere nella sua totalità indeterminata, è forse
addirittura possibile sostenere che la cosiddetta filosofia si inscrive
necessariamente in ciò che abbiamo detto coscienza implicita del linguaggio. È
infatti difficile dire cosa sia la filosofia istituzionalmente ma che essa nasca
da un qualche sforzo di comprensione dell’esperienza e del linguaggio,
consustanziale all’esperienza e a linguaggio, nella stragrande
maggioranza dei casi solo una precomprensione o un avvertimento oscuro di
una comprensione, questo sembra tutt’altro che campato in aria. Ciò
comporta una differenza rispetto a una linguistica che non vuole saperne,
di filosofemi? Forse no, se la differenza va cercata in positivo, in una
determinazione dall’alto di principi e metodi. Forse sì, se invece va cercata in
negativo, nell’esclusione che principi e metodi possano essere qualcosa
di assoluto e unilaterale, si ispirino poi alla indeterminatezza o alla
determinazione. Ciò pare plausibile soprattutto se essa fa emergere più
nettamente la coscienza implicita che ogni nostro uso del linguaggio non è solo
un uso particolare ma contiene una componente di indeterminatezza che lo
fa essere paradossalmente proprio quell’uso e permette di descriverlo proprio
come quell’uso determinato, nello stesso uso effettivo, in tutti i
sensi. Non sarebbe per caso anche un contributo non del tutto insignificante,
da un punto di vista etico e politico, non sospettabile di ideologismo, alla
promozione di una cultura non dogmatica, non settaria e non particolaristica? G., L’indeterminatezza
[cf. GRICE, INDETERMINACY OF IMPLICATURE] semantica. Emilio Garroni. Garroni. Keywords:
l’implicatura di Pinocchio, Freges Sinn – Germanic ‘sinn’ *not* via Latin
cognate ‘sentire’ -- senso, senso fregeiano – senso freegan – “Fregean sense” –
Do not multiply senses -- mentire/mentare/meinen/mean
-- messagio, message, semiotic – sender, recipient, message, emittente,
mittente, recipiente, message, emission, utterance, emitire, to utter – to
‘out’ -- ‘to ex-press’ Lorenzini---- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Garroni” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Gartida: laragione conversazionale e la setta di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, G. Succeeds Boulagoras as
head of the sect of Pythagoras. He had spent some time away from Crotonne and
returned to the city that had been badly damaged as a result of a feud between
the Pythagoreans and their opponents. He was so upset by what he found that he
is said to have died of a broken heart. Gartida.
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