Luigi Speranza -- Grice e Casalegno:
l’implicatura conversazionale -- il concetto d’implicatura nella filosofia
linguistica del Novecento – scuola di Torino – filosofia torinese –filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino,
Piemonte. Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me!
Translating Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating
Cassiodoro,, “more than a translation, he provided a correction – and he tried
to prove that Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not
try to ‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he
tries to ‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a
Pisa sotto Sainati con “Aspetti della logica modernista”. Insegna a Milano,
chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi temi all'interno della filosofia
analitica, quali il concetto di verità, la teoria degli insiemi,
l'epistemologia della testimonianza, la teoria della ricorsività. Altre opere:
“Alle origini della semantica formale,” Cuem; “Filosofia del linguaggio:
un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi, un'introduzione, Carocci);
“Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio, Carocci, Verità e
significato. Scritti di filosofia del linguaggio, Carocci, (P. Frascolla, D.
Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in Teoria, Sulla logica dei
plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e riferimento, in Iride; Come
interpretare l'argomento antirealista di Dummett?, in Lingua e stile; Le
proprietà modali della verità: problemi e punti di vista, in Logica e teologia
(Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di asseribilità, in Modi
dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e riferimento, in Politeia.
Chomsky sul riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della
filosofia del linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio
storico. Grice Logica e conversazione. In P. Casalegno, P. Frascolla, A.
Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia del linguaggio,
Milano, Raffaello Cortina. Il libro che vi presento oggi appartiene alla
collana “Bibliotheca” della casa editrice Raffaello Cortina. Il titolo è
Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra i libri di cui ho parlato in
questo blog) e si tratta di una interessante e utile antologia di testi,
appartenenti alla tradizione novecentesca della filosofia analitica del
linguaggio. I curatori sono importanti docenti italiani, tra cui C., Frascolla,
Iacona, Paganini e Santambrogio. I testi antologizzati consentono al lettore di
farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e
problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi
decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei
curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e
i concetti chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e
significato di Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono quindi Le
descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle descrizioni definite),
Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein (tratto dalle sue
Ricerche filosofiche), Due dogmi dell’empirismo e Relatività ontologica di
Quine, Nomi e riferimento di Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di
Putnam, Interpretazione radicale di Davidson, “Logica e conversazione” di
Grice, Dispute metafisiche intorno al realismo, di Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Chomsky. versazione – afferma Grice - è
un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata. A tale fine, bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono. Introduzione alla filosofia del linguaggio C.
Significato e condizioni di verità. Prendiamo in considerazione un’idea del
primo Wittgenstein: “Comprendere una proposizione vuole dire sapere che accada
se essa è vera” (Tractatus). Poiché comprendere una proposizione equivale a
conoscerne il significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del
significato si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi
wittgensteiniana? Un modo può essere questo: usiamo il linguaggio per
descrivere la realtà. Una proposizione singola fornisce una descrizione
appropriata, anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo
modo, una descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una
proposi-zione dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione
della realtà che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere
fatto il mondo affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per
comprendere una proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’.
Evitiamo di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione
è molto diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna
dunque confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere
le condizioni di verità di una proposizione equivalga a sapere come si fa, in
pratica, per stabilire se essa è vera. La tesi wittgensteiniana sembra essere
ragionevole, e così anche la sua conseguenza più immediata: una teoria del
significato, ammesso che la si possa elaborare, deve essere imperniata sulla
nozione di verità. Le obiezioni che si possono però muovere a un siffatto modo
di vedere le cose sono moltepli-ci, concentriamoci su alcune di queste. Le
obiezioni possono essere, principalmente, di due tipi. Da un lato si può
concedere che compren-dere una proposizione equivalga a conoscerne le
condizioni di verità, ma respingere l’idea che la nozione di verità sia la
nozione centrale di una teoria del significato (ci sono espressioni per le
quali parlare di condizioni di verità sembra essere assurdo). Dall’altro lato,
si può più radicalmente soste-nere che il significato delle proposizioni non
può essere ridotto a un insieme determinato di condi-zioni di verità. Al
termine ‘proposizione’ preferiamo contrapporre un gergo leggermente più
tecnico, facciamo quindi uso del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a
quelle che talvolta si chia-mano ‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle
quali si può fare un’asserzione e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere
o false. La prima obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attribuibili condizioni di
verità. Ci sono espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete,
parole singole o espressioni come ‘valigia pesante’. Che queste espressioni
abbiano un significato è indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di
verità sembra essere un’evidente for-zatura. In secondo luogo, ci sono frasi
complete come le interrogative e le imperative. Inevitabilmente, una teoria che
voglia analizzare il significato di queste due sorte di espressioni deve
ricorre a nozioni diverse da quella di verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una teoria del significato.
Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler dire che la nozione di
verità, sebbene non possa essere considerata l’unica nozione di una teoria del
significato, rimane in ogni caso la nozione centrale. Si può sostenere che
anche il significato delle espressioni che non sono enunciati ha a che fare con
la verità. Consideriamo il caso delle parole singole: queste servono a
costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci serviamo per parlare, non
di parole isolate (a meno che le parole singole non fungano esse stesse da
frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato perché ci
interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse figurano.
Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in
definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in
particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare
in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa e, più in generale,
che cosa sia il significato di una parola qualsiasi se non presupponendo la
nozione di verità. Una teoria del significato deve fare appello alla nozione di
verità anche nell’analisi delle parole singole (questo vale anche per frasi più
complesse che tuttavia non sono frasi complete) (MAH). Vediamo ora il caso
delle frasi complete che non sono enunciati. Se ci si riflette un po’ su, ci si
rende conto che la nostra capacità di capire e di usare correttamente frasi
interrogative e imperative dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio
per descrivere il mondo, il che comporta che si sappia quando una descrizione è
appropriata e quando non lo è, il che ci riporta, ancora una volta, alle
condizioni di verità. Nel caso di domande molto semplici, domande che esigono
come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente: queste domande (come ‘E
partito il treno per Udine’) corrispondono in modo ovvio a un enunciato, ora è
ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la domanda è sapere se questo
enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il rispondere ‘Sì’ alla domanda
equivale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al dire che è falso. A
conclusioni analoghe si perviene riflettendo sui casi delle interrogative che
non richiedono una risposta nei termini di una negazione o un’affermazione, e
delle frasi imperative. La centralità della nozione di verità sembra così
essere confermata. Della seconda obiezioni esistono più varianti, potremmo
perciò formularla come segue. Concentrando l’attenzione sulle condizioni di
verità, si privilegia solo uno degli scopi cui il linguaggio può essere
adibito: la descrizione della realtà, la trasmissione di informazioni su come è
fatto il mondo. E questa è una mossa evidentemente arbitraria. Se si decide di
ignorare la straordinaria varietà degli usi cui gli enunciati possono essere
adibiti nelle circostanze concrete delle vita per concentrarsi in modo
esclusivo sul loro ruolo di veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire
del linguaggio un’immagine desolantemente impoverita. Del resto anche se si è
interessati al linguaggio come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna
convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono assai più
complicate. In primo luogo, il fornire informazione non può mai ridursi al
proferire enunciati in modo casuale e sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener
conto della situazione in cui ci troviamo, delle informazioni di cui i nostri
interlocutori già dispongono, delle loro aspettative ecc.; inoltre, ci sono
regole precise di costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo
potrebbe non esser compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni
di verità non bastano. In secondo luogo, le condizioni di verità degli
enunciati sono concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e
stabile. Di conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse
per intero dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta
stabile. Ma solo fintanto che si contemplano gl’enunciati prescindendo da ogni
loro impiego effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò che si può
comunicare con un dato enunciato varia enormemente con il variare dei contesti.
La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la distinzione
tra semantica e pragmatica, una distinzione che risale a un saggio di Morris,
secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi altro sistema di
segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e pragmatica. La sintassi
si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo dalla loro
interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei segni, e la
pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi concreti.
Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e pragmatica. Qualcuno
potrebbe però voler dire che questa risposta si riduce, nei fatti, ad una mera
stipulazione definitoria. Il problema è se un tale modo di circoscrivere la
semantica disgiungendola dalla pragmatica sia giustificato o meno: se cioè la
decisione di isolare le condizioni di verità da altre dimensione del linguaggio
rispecchi un’articolazione intrinseca della nostra competenza di parlanti,
identifichi un livello realmente fondamentale, e possa costituir una scelta
metodica feconda. Due punti: né il filosofo del linguaggio né il linguista sono
tenuti a rendere conto di tutti gl’usi possibili del linguaggio. Si è tenuti a
rendere conto solo di quelli che potremmo chiamare gl’usi linguistici del
linguaggio (MAH). Se focalizziamo la nostra attenzione su questi usi, possiamo
convincerci che l’idea di partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che
la conoscenza delle condizioni di verità degl’enunciati svolga un ruolo
essenziale anche quando sono coinvolti fattori che non sono riducibili alle
condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo distinguere
semantica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica presuppone la
semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gl’enunciati siano usati spesso
per trasmettere un contenuto informativo Questa pagina non è visibile
nell’anteprima Non perderti parti importanti! Questa pagina non è visibile
nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di cose che l’immagine
rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva,
come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di
studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno
stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è
esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi sono costituenti
psichici. Usando le parole di Wittgenstein si può continuare a dire, come
faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire
che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione
è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione
stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel caso del linguaggio
ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è
molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente
imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla
forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero
rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi
che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É
ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio
ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose
corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio
ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire
qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del
linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a
quell’immagi-ne vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un
lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine,
dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la
quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che
rispecchi fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni travestimento
del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio artificiale
costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La convinzione che il
linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base della concezione
della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il più delle questioni
e delle proposizioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma
insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non comprendiamo la nostra
logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo ingannevole in cui il
linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro verso, “scopo della
filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia è non una
dottrina, ma un’attività. Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”,
ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein rinnegherà il Tractatus per
intero, ma questa concezione della filosofia resterà per lo più immutata. I
nomi che figurano in una proposizione completamente analizzata devono
denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti non identificabili con le
entità che popolano l’ontologia del senso comune (?) e quindi diversi dagli
oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò che contraddi-stingue
gli oggetti nominati in una proposizione completamente analizzata dagli oggetti
del senso comune è il requisito della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’ neanche un esempio.
Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del Tractatus, si scopre
che una preoccupazione ricorrente di Wittgenstein era proprio quella di non
riuscire a fornire degli oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e
diretta. Ne postulava l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi
specifici, bensì sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In
effetti un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel
Tractatus si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche.
Gl’oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo
presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I)
Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che
figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue
dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità complessa consta di entità
più semplici correlate in un certo modo; ora, che sussista una tale
correlazione è un fatto contingente. 5 stato di cose che l’immagine
rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è quanto mai elusiva,
come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha subito da parte di
studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una proposizione rappresenta uno
stato di cose solo attraverso la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è
esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti
psichici”. Usando le parole di Wittgenstein si può continuare a dire, come
faceva Frege, che ogni proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire
che il pen-siero espresso è il senso della proposizione: il senso della
proposizione è lo stato di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione
stessa, tramite il pensiero, rappresenta (?). Nel caso del linguaggio
ordinario, il rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è
molto intricato. Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente
imperfetto: “Il linguaggio traveste i pensieri. E precisamente così che dalla
forma esteriore dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero
rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi
che quello di far conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É
ben difficile che la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio
ordinario rispecchi fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose
corrispondenti. Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio
ordinario, dire che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire
qualcosa che è corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del
linguaggio ordinario è un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a
quell’immagine vera e propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un
lato allo stato di cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine,
dall’altro alla proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la
quale il Tractatus non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che
rispecchi fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale:
oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso
co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio
ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione
completamente analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito della
semplicità. L’oggetto deve essere semplice, ma di questa semplicità il
Tractatus non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in
parte la genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione vera e
propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano soltanto
qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la sostanza
del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non avesse una
sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere un’altra
proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine del
mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di Wittgenstein
vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una proposizione abbia
senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa corrisponda un oggetto.
Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che le proposizione
elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero corrispondere entità complesse,
non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad un dato nome corrisponda
davvero qualcosa. Un’entità complessa consta di entità più semplici correlate
in un certo modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto
contingente. Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non
ci sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso.
Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse
corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde
davvero qualcosa, e quindi che P ha senso, solo se fossimo sicuri che C esiste:
in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la proposizione P’ la quale
asserisce che gli elementi costituitivi di C sono correlati in quel certo modo.
Come dice Wittgenstein, “l’avere una proposi-zione senso dipenderebbe
dall’essere un’altra proposizione vera”. Ma questo sarebbe assurdo. Se una
proposizione abbia senso oppure no deve essere chiaro a priori. É inconcepibile
che la sensatezza o l’insensatezza di una proposizione possa essere
“sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione è sensata, dovessimo
sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra proposizione, si genererebbe
un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai sapere se, parlando, stiamo
dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in gra-do di “progettare
un’immagine del mondo vera o falsa”. Devono esserci oggetti semplici e sono gli
oggetti semplici che devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. In
questo ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici
viene fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto
contingente ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É
manifesto che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure
deve avere in comune con il mondo reale qualcosa una forma —”; “Questa forma
fissa consta appunto degli oggetti”. La proposizione non è dunque un’immagine
vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno stato di
cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre oggetti
semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’ e
‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non
implica che sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un senso ce
l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a
proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente
analizzate. Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa
attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava
Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire
identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il sussistere
di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la correlazione di
un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve essere garantita
a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione nome/oggetto non può
essere una descrizione dell’oggetto stesso. Vediamo ora cosa Wittgenstein
sostiene riguardo le proposizioni complesse. La sua idea è che le proposizioni
complesse siano funzioni di verità delle proposizioni elementari che figurano
come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari che figurano
nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P è una
funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità di P
dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione,
congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in cui il
valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato connettivo
dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti, Wittgenstein
propone un artificio grafico: le cosiddette ‘tavole di verità’. Tavola di
verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1). Tavola di verità della
congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione (inclusiva): Wittgenstein
osserva che le tavole di verità, così come sono, potrebbero addirittura fungere
da pro-posizioni complesse di un linguaggio artificiale: ad esempio, le tre
tavole di verità sopra riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,(P ^
Q),(P ∨ Q). Se si seguisse questo
suggerimento si di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche
enormemente ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e
Wittgenstein nel modo di concepire i connettivi logici. Per Frege ogni
connettivo denota una certa funzione che associa valori di verità a valori di
verità (dove i valori di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe
dunque interpretato la tavola di verità per un connettivo come un modo per
descrivere la funzione da esso denotata. Per Wittgenstein, invece, i connettivi
non denotano nulla. Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso
consente di costruire proposizioni complesse il cui essere vere o false
dipende, secondo certe modalità determinate, dall’essere vere o false le
proposizioni costituenti. Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per
Wittgenstein, come chiedersi che cosa denotino le parentesi. A queste
considerazioni circa le proposizioni complesse è strettamente collegata la
concezione wittgensteiniana della logica. Né Frege né Russell avevano saputo
spiegare che cosa contraddistingue una proposizione logica da una proposizione
di altro tipo, e questo era proprio uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella
stesura del Tractatus. Se si pensa ancora una volta al valore di verità di una
pro-posizione complessa come determinato dai valori di verità dei suoi
costituenti elementari, si può constare che ci sono due casi limite: quello in
cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui una proposizione
complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili combinazioni di verità
dei costituenti elementari. Una proposizione del primo tipo Wittgenstein la
chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo ‘contraddizione’. Ciò che
Wittgenstein sostiene circa la natura della logica è che essa consta per intero
di tautologie. É l’essere una tautologia ciò che contraddistingue una
proposizione logica da qualsiasi altra. Una pro-posizione logica non è tale per
via del suo contenuto ma, piuttosto, perché non ha contenuto, per-ché non dice
nulla. Le tautologie non possono fornirci alcuna informazione sulla realtà. Il
loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo vere in virtù delle sole regole del
linguaggio, esse ci mostrano come questo funzioni. Avevamo detto che il senso
di una proposizione elementare è lo stato di cose che la proposizione rappresenta.
Alle proposizioni complesse questa nozione di senso non può essere applicata
senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è
uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da
P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni
complesse sono funzioni di verità dei loro costituenti proposizionali
ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non
sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di
identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non
sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso
della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si attenga
a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E
CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO” di Wittgenstein: CAPIRE UNA
PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA E’VERA(alla base deve esserci
la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x descrivere la realtà, attraverso la
PROPORZIONE che fornisce una descrizione della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO
SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO
CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze in cui essa è vera) FRA
INTENDIMENTI POSSIBILI: CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE
E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O F Es: l’uomo + alto del mondo è bruno = NON SO
SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES: Napoleon was defeated by
Nelson = E’ VERA,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO LE SUE CONDIZIONI DI
VERITA’ CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE EQUIVALE A
SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La luna ha un diametro
superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI VERITA’,MA NON CONOSCO
IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO COME SI FA A STABILIRE
SE ESSA E’ VERA- PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo della quale si può
fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o f) = ENUNCIATO*tesi è
plausibile ma può essere soggetta a critiche,2 obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE
DI SIGNIFICATO,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI
DI VERITA’: espressioni sintatticamente ben formate che non sono frasi complete-PAROLE
SINGOLE, ESPRESSIONI COME “VALIGIA PESANTE”, FRASI INTERROGATIVE
ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’
L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle
PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI,
LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA
DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI - concentrando l’attenzione sulle condizioni di
verità si privilegia la descrizione della realtà, ma questo atteggiamento è
arbitrario: UN INDIVIDUO PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI
NON HA MOLTA IMP SE GLI ENUNCIATI SONO V O F parlando dobbiamo tenere conto
della situazione in cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri
interlocutori, delle loro aspettative e delle regole della costruzione del
discorso -GLI ENUNCIATI HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO
“SIGNIFICATO LETTERALE”, MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO
PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO. Morri s= lo studio della
lingua si divide in 3 parti: SINTASSI: studia segni in quanto tali. SEMANTICA:
STUDIO DEGLI ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI
VERITA PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro
impegni concreti*GRICE: - conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I
PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4
massime:1.QUANTITA’ = giusta via di mezzo 2. QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE
= cose pertinenti 4. MODO= parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x
comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA
CONVERSAZIONALE. FREGE:primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita della
logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base
della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il
linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA
FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA:
riguardo alla natura del significato linguistico generale 1. SINN: senso
(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole=
SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo = SIGNIFICATO
è il Monte Everest TERMINI SINGOLARI nomi propri E’ ABBREVIAZIONE DI UNA
DESCRIZIONE D. es: Totò, Grazia, New York descrizioni definite= ARTICOLO DET
SING + NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa- UN NOME HA SENSI DIVERSI, x
diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale -le
espressioni hanno un significato in virtù del loro senso senso diverso da
rappresentazione = E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI
HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”, MA
E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE
IN UN CONTESTO CONCRETO. Morris= lo studio della lingua si divide in 3
parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI
DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si
occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni concreti*GRICE:
-conversazione = ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I PARTECIPANTI DEVONO
CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4 massime.
QUANTITA’=giusta via di mezzo QUALITA’= non dire cs false 3. RELAZIONE = cose
pertinenti .MODO = parlare in modo chiaro e ordinato*massime violate x
comunicare qualcosa che va al di là del significato letterale= IMPLICATURA
CONVERSAZIONALE 2. FREGE: primo filosofo analitico-contribuisce alla nascita
della logica moderna -inventa IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla
base della filosofia ci sia la teoria del significato-è diffidente verso il
linguaggio ordinario, è strumento inaffidabile= x questo crea l’ideografia- LA
FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA:
riguardo alla natura del significato linguistico generale1.SINN: senso
(OGGETTIVO,NOZIONE LOGICA) BEDETUNG: significato = riferimento Es: Aristotole =
SIGNIFICATO è l’individuo Aristotele. La montagna + alta al mondo= SIGNIFICATO
è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE DI UNA
DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni definite= ARTICOLO DET
SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI DIVERSI, x
diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio naturale-le
espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso diverso da
rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina
non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate, Medioevo
PREMESSA PARADIGMA CLASSICOFrege Russell Wittgenstein Tarski Quine Putnam
FREGE, “SENSO E SIGNIFICATO”; ENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B) TERMINI SINGOLARI
(NOMI PROPRI e DESCRIZIONI DEFINITE) ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO,
di COMPOSIZIONALITÀ e di SOSTITUIBILITÀ) QUANTIFICATORI RUSSELLLE
DESCRIZIONIDESCRIZIONI INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI
COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALI
TAUTOLOGIE CONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀ LA NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA.
TARSKI LINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIO DEFINIRE LA VERITÀ CONVENZIONE V
COSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE) SIMBOLI AUSILIARI SODDISFACIMENTO
PARADOSSI VERITÀ RELATIVA AD UN MODELLO CARNAP DESCRIZIONI DI STATO ESTENSIONE
e INTENSIONE POSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHE KRIPKE VERITÀ LOGICA MODELLO K
VERBI DI CREDENZA DEISSI (o INDICALI) QUINE DUE DOGMI DELL’EMPIRISMOANALITICO /
SINTETICO RIDUZIONISMO REGOLE SEMANTICHE TEORIA DELLA VERIFICAZIONE. il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV. OBIEZIONE. Essa si basa
sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato,
non sono enunciati e quindi non gli si possono attribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Ogni
student che hanno superato la prova”- frasi complete come le INTERROGATIVE e le
IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti il conto!”Cosa si può
rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del significato ne
resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato delle
espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre, non è
possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di qualcosa se
non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve fare in ogni
caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa linea
argomentativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni
complesse. Riflettedoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire
ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di
usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una
descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che
la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli
enunciati. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli
scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli
enunciati possono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di
informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi
che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due
motivi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere
questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come
qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciati
dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col
variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione
di CDV- ammettere che gli enunciate abbiano CDV che corrispondono al loro
SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e
PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una lingua si
compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che riguarda
il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti dei
segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe
ribattre che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due punti.
Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del linguaggio - il
significato non può essere ridotto ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si
basa sulla constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo
significato, non sono enunciate quindi non gli si possono attrbuire CDV. Tra di
esse troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex.
“Ogni student che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi porti l
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enunciatti ha a che fare con la verità. Inoltre,
non è possibile spiegare in cosa consista per una parola essere nome di
qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del significato deve
fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole singole.Questa
linea argomenativa risale a Frege e si può applicare anche alle espressioni
complesse. Riflettendoci, ci si può convincere che la nostra capacità di capire
ed usare frasi interrogative ed imperative dipende dalla nostra capacità di
usare il linguaggio per descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una
descrizione è appropriata o meno. OBIEZIONE #2. Essa consiste nel sostenere che
la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del significato degli
enunciate. Concentrando l’attenzione sulle CDV si privilegia uno solo degli
scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare i vari usi cui gli
enunciati ossono essere adibiti per concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di
informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi, però, bisogna convincersi
che anche da questo punto di vista le cose sono molto più complicate, per due
motivi. Parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere
questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come
qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informativo degli enunciatti
dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col
variare dei contesto. Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione
di CDV- ammettere che gli enunciate abiano CDV che corrispondono al loro
SIGNIFICATO LETTERALE RISPOSTA = evocate la distinzione tra SEMANTICA e
PRAGMATICA che risale a MORRIS. Secondo Morris, lo studio di una lingua si
compone di: SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali; SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni; PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concreti
dei segni. L’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo
nella direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe
ribattere che tutto ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se
questo modo di circoscrivere la semantica sia giustificato. Sottolineiamo due
punti. Non si è tenuti a rendere conto di tutti gli usi possibili del
linguaggio è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica e, anzi, la
pragmatica presuppone la semantica, Questo secondo punto è messo bene in luce
dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una
conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti devono
contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si avvnga
a massime sotto quattro categorie conversazionali (alla funzioni di Kant): CATEGORIA
CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di
quanto richiesto al momento. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DELLA QUALITÀ: non dire
cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate. FUNZIONE
CONVERSAZIONALE DELLA RELAZIONE: dire cose perttnenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE
DEL MODO: essere perspicuo -- parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando
oscurità ed ambiguità - è legittima la distinzione tra semantica e pragmatica
e, anzi, la pragmatica presuppone la semantica. Questo secondo punto è messo
bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo
cui una conversazione è un’attività cooperativa alla quale i partecipanti
devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si
attenga a 4 massime. CATEGORIA CONVERSAZIONALE DELLA QUANTITÀ: fornire
informazioni né minori né maggiori di quanto richiesto al momento. QUALITÀ: non
dire cose che credi false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI:
dire cose pertinenti. FUNZIONE CONVERSAZIONALE DEL MODO: essere perspicuo.
parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità. Nome
compiuto: Paolo Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords: filosofia
linguistica. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Casalegno,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Casanova: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del desiderio
omoerotico – scuola di Venezia – scuola veneta -- filosofia veneziana – filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library (Venezia). Filosofo veneziano.
Filosofo veneto. Filosofo italiano. Venezia, Vneto. Grice: “It is fascinating
to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the plural –
bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less acute!” --
Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife hardly would
not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo Girolamo
Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, esoterista,
diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto della
Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia. Benché di
lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici d'argomento
vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di matematica) e
opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi ricordato
principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa a dir
poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del soave
e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso chiamato
"C.". A questa sua fama di grande conquistatore di donne
contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre: Histoire de ma
vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la massima
franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e alcuni
abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi
innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale
scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione dell'opera,
in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e parlata dalle
élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si ritrovò a vivere, quasi
senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della storia, non
comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che avrebbe fatto
virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti ancorato fino alla
fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze dell'ancien régime e
della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia, alla quale era stato
escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di far parte, anche
quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo, per tutta la
propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo di conoscere
personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si possono citare
Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang Amadeus Mozart,
Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di Prussia. Dalla
nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia (ora Malipiero)
Giacomo Girolamo C. nacque a Venezia, in Calle della Commedia (ora Calle
Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu anche battezzato,
il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o letterarie recano
erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui origine è sicuramente
da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835 Biografia degli italiani
illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII e de' contemporanei,
Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce relativa al C., Bartolomeo Gamba,
intestò erroneamente la voce a un certo Giovanni Giacomo C.. Successivamente,
l'errore fu ripetuto nella voce su C. dell'Enciclopedia Treccani e da allora è
spesso riapparso. Si può leggere il nome corretto nel documento relativo
al battesimo del C.. «Addì Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano
Giuseppe C. del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna Maria,
giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di chiesa de
licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S. Salvador.
Lev. Regina Salvi.» (Storia della mia vita, Mondadori) Il padre, Gaetano C.,
era un attore e ballerino parmigiano di remote origini spagnole (almeno stando
alla dubbia genealogia tracciata dal C. all'inizio dell'Histoire, gli avi
paterni sarebbero stati originari di Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la
madre, Zanetta Farussi, era un'attrice veneziana che, nella sua professione,
ebbe di gran lunga maggior successo del marito, dato che la troviamo menzionata
persino da Carlo Goldoni nelle sue Memorie, ove la definì: "...una vedova
bellissima e assai valente". La voce popolare lo considerava frutto di una
relazione adulterina della madre con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4]
e C. stesso affermò, seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né
donne, di essere figlio naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio
della tesi potrebbero derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i
Grimani si presero cura di lui con un'assiduità che appare andasse oltre i
normali rapporti di protezione e liberalità che le famiglie patrizie veneziane
praticavano nei confronti delle persone che, a qualche titolo, avevano servito
la casata. Il che troverebbe conferma anche nel fatto che la giustizia della
Repubblica, solitamente piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei
suoi confronti. Dopo la sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli:
Francesco, Giovanni Battista, Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella
e Gaetano Alvise. Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di
padre a soli otto anni d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a
causa della sua professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia
Baldissera in Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo
la nonna lo condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale,
riuscì a guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza
infantile, l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la
vita, ma lui stesso era il primo a ridere della credulità che tanti
manifestavano nei confronti dell'esoterismo. All'età di nove anni fu
mandato a Padova, dove rimase fino al termine degli studi; s'iscrisse all'università
dove, come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione
dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti
C. descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di essersi
laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera del 1797 a
Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard Snetlage, Docteur
en droit de l'Université de Gottingue, Jacques C., docteur en droit de
l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il C. abbia lavorato
nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si era presunto che,
compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere il
praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a dubitare
del titolo conseguito dal C. fu Pompeo Molmenti, ma ben presto gli studi del
Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in modo certo
l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive iscrizioni, convinsero
tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo accademico; in tal
senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (C.). Successivamente Enzo
Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del titolo rifacendosi ai
registri di laurea, i quali non menzionano il nome del veneziano. Dello stesso
avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai registri consultati dal
Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati 1737 usque ad 1747,
non riportava il nome del C.; inoltre egli constatò che il C. non aveva mai
parlato del titolo se non in epoca tarda, quando ormai ricostruire la
circostanza sarebbe stato difficile per chiunque. Terminati gli studi,
Giacomo C. viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per poi rientrare a Venezia nel
1742. Nella sua città natale ottenne un impiego presso lo studio dell'avvocato
Marco da Lezze. La nonna Marzia Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla
quale era legatissimo, si chiuse un capitolo importante della sua vita: la
madre decise di lasciare la bella e costosa casa in Calle della Commedia e di
sistemare i figli in modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò
profondamente Giacomo, togliendogli un importante punto di riferimento. Nello
stesso anno fu rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel
Forte di Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che
l'applicazione di una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di
correggerne il carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici
materni, per la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad
assumere la diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le
condizioni di povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a
Roma, dove nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore
della Spagna presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa
della sua condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna,
residenza ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa.
Targa commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad
Ancona, dove era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella
città era stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva
intessuto una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera
superiore alla sua.[E 9] Fu però durante il suo secondo soggiorno ad
Ancona che C. ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un
seducente cantante castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di
una donna. Fu solo dopo una corte serrata che C. riuscì a scoprire ciò che
sperava: il castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio
illegittimo Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana,
si faceva passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello
Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il
nome di Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei
molti incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva
successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo
periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele,
di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta
prematuramente, avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo,
avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse
il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio
veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue
condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da C. e si convinse
che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di
conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché
visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin, C.
venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Barbaro e Dandolo;
anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché vissero, lo tennero
sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili attirò l'interesse
degli Inquisitori di Stato e C., su consiglio di Bragadin, lasciò Venezia in
attesa di tempi migliori. Nel 1749 incontrò Henriette, che sarebbe stata
forse il più grande amore della sua vita. Lo pseudonimo nascondeva
probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence, forse Adelaide
de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i "casanovisti" si
sono accapigliati per decenni. In linea di massima, come è stato sostenuto da
molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie sono reali. Al più,
l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche piccola accortezza: spesso,
trattandosi di donne sposate, alcune sono citate con le iniziali o con nomi di
fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata per galanteria o per vanità
dell'autore che non amava riferire di avventure con donne considerate, con i
criteri di allora, in età matura, ma in generale le persone sono identificabili
e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e riscontrabili. Innumerevoli
identificazioni e notizie documentali hanno confermato il racconto. Se
qualche errore c'è stato, lo si deve anche al fatto che, all'epoca in cui
furono scritte le Memorie, erano passati molti anni dai fatti e, per quanto
l'autore si possa essere aiutato con diari o appunti, non era facile
incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni tanto l'autore si faceva però
trascinare dalla sua visione teatrale delle cose e non rinunciava a qualche
"colpo di teatro", il che peraltro contribuisce a rendere la lettura
più piacevole. Il problema dell'attendibilità del racconto casanoviano è
tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in molti casi, impossibile da
valutare è se i rapporti che C. riferisce di aver intrattenuto con i personaggi
siano rispondenti alla realtà dei fatti. Taluni studiosi hanno ritenuto che nel
corpus delle Memorie siano stati inseriti dei passaggi totalmente romanzati e
di pura invenzione, basati comunque su personaggi storicamente esistiti ed
effettivamente presenti nel luogo e nel tempo della descrizione. Il caso
più clamoroso è quello che riguarda la relazione di C. con suor M.M.e i
conseguenti rapporti con l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una
delle parti più valide dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico.
Il ritmo del racconto è serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di
straordinario realismo. Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente
veritiero e si è ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo
altri il racconto è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco
dell'ambasciatore (tale Rosier), che effettivamente C. conosceva molto bene. La
diatriba tra le varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore
dell'opera non cambia, perché ciò che perde il C. memorialista lo guadagna il C.
romanziere. Rientrato a Venezia decide di partire per Parigi. A Milano si
incontra con l'amico Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice
Silvia, e con lui proseguì alla volta della capitale francese. Durante il
viaggio, a Lione, C. aderì alla Massoneria. Non sembra che la decisione fosse
ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di
procurarsi utili appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere
il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia
dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per
sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene
la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (C., Memorie) Ottenne qualche
risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua vita, come
Mozart e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni ricevute in varie
occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far parte di un'organizzazione
ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti a Parigi, Balletti presentò
C. alla madre, che lo accolse con familiarità; la generosa ospitalità della
famiglia Balletti si protrasse per i due anni in cui visse nella capitale
francese. Durante la permanenza si applicò allo studio del francese, che
sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre che, in molti casi, epistolare.
Ritornato a Venezia dopo il lungo soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda,
Praga e Vienna, il 26 luglio 1755, all'alba, fu arrestato e ristretto nei
Piombi. Come d'uso all'epoca, al condannato non venne notificato il capo
d'accusa, né la durata della detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in
seguito scrisse, si rivelò dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di
durata tutto sommato sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il
rischio mortale dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile
successiva eliminazione da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano
a operare anche molto lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati
erano l'espressione più evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che
governava Venezia. Erano insieme tribunale speciale e centrale di
spionaggio. Sui motivi reali dell'arresto si è discusso parecchio. Certo
è che il comportamento di C. era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono
molte riferte (rapporti delle spie al soldo degli Inquisitori) che ne
descrivevano minutamente i comportamenti, soprattutto quelli considerati
socialmente sconvenienti. In definitiva l'accusa era quella di
"libertinaggio" compiuto con donne sposate, di spregio della
religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in generale di un
comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del regime aristocratico.
Di fatto, C. conduceva una vita alquanto disordinata, ma né più né meno di
tanti rampolli delle casate illustri: come questi giocava, barava e aveva anche
delle idee abbastanza personali in materia di religione e, quel che è peggio,
non ne faceva mistero. L'arresto di C. (illustrazione per Storia
della mia fuga) Anche la sua adesione alla Massoneria, che era nota agli
Inquisitori, non gli giovava, così come la scandalosa relazione intrattenuta
con "suor M.M.", certamente appartenente al patriziato, monaca nel convento
di S. Maria degli Angeli in Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate
De Bernis. Insomma, l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un
individuo ritenuto socialmente pericoloso restasse in circolazione.
Tuttavia gli appoggi, di cui certamente poteva disporre nell'ambito del
patriziato, lo aiutarono notevolmente, sia nell'ottenere una condanna
"leggera" sia durante la reclusione, e forse addirittura ne
agevolarono l'evasione. La contraddizione è solo apparente, perché C. fu sempre
un personaggio ambivalente: per estrazione e mezzi faceva parte di una classe
subalterna, anche se contigua alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni
poteva sembrare far parte, a qualche titolo, della classe al potere. A questo
riguardo va anche considerato che il suo presunto padre naturale, Michele
Grimani, apparteneva a una delle famiglie più illustri dell'aristocrazia
veneziana, annoverando ben tre dogi e altrettanti cardinali. Questa paternità
fu rivendicata da C. stesso nel libello Né amori né donne e sembra che anche la
somiglianza di aspetto e di corporatura dei due avvalorasse parecchio la
tesi. Dalla fuga dai Piombi al ritorno a Venezia Presunto ritratto
di Giacomo C., attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs
o al suo allievo Giovanni Battista C. (fratello di Giacomo) Appena riavutosi
dallo shock dell'arresto, C. cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo
fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il
1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di allontanarsi
fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente verso nord. Il
problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava un'ombra
sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove C. finalmente si liberò della scomoda
presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a Parigi,
dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e quindi gli
appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della mia fuga
Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua specialità:
brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale potesse offrire.
Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna ricchissima e stravagante,
con la quale intrattenne una lunga relazione, dilapidando cospicue somme di
denaro che lei gli metteva a disposizione, soggiogata dal suo fascino e dal
consueto corredo di rituali magici. Assiste, come accompagnatore di alcune
dame «incuriosite da quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo)
e di un conte trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di
Robert François Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto
fantasioso, come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo
scopo di rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico
modo di far contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica.
L'intuizione era talmente valida che ancora adesso il sistema è molto
praticato. L'iniziativa venne autorizzata ufficialmente e C. venne nominato
"Ricevitore" il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso
anno, De Bernis fu nominato cardinale; un mese dopo C. fu incaricato dal
governo francese di una missione segreta nei Paesi Bassi. Al suo ritorno
fu coinvolto in un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata
di un'amica, la scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre
inglese, Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente
relazione con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti
i modi di sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici
famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a
causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo
scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia. Giunta a Parigi,
trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà, la
ragazza si rivolse per aiuto a C., che aveva conosciuto a Venezia e che era
anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è stata
ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge a C.,
dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo, tenuto conto dell'enorme
rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il messaggio fosse
caduto nelle mani sbagliate. C. si prodigò per darle aiuto, ma incorse in
una denuncia per concorso in pratiche abortive, presentata dall'ostetrica Reine
Demay in combutta con un losco personaggio, Louis Castel-Bajac, per estorcere
denaro in cambio di una ritrattazione. Benché l'accusa fosse molto grave, C.
riuscì a cavarsela con la consueta presenza di spirito e fu prosciolto, mentre
la sua accusatrice finì in carcere. L'amica abbandonò l'idea di interrompere la
gravidanza e in seguito partorì nel convento in cui si era rifugiata. Ceduti i
suoi interessi nella lotteria, C. si imbarcò in una fallimentare operazione
imprenditoriale, una manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una
forte restrizione delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti
che ne derivarono lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al
solito, il provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo
tolse dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il
maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire
ed è riferito nei minimi particolari; C. esordì dicendo che era il giorno più
felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi con il
suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora più
onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso C. non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire doveva capire che il popolo per la pace
generale della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito),
e quindi rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per
il patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma. Qui
viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il soggiorno
presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762 ritornò a
Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla marchesa
d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni presa in
giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di pratiche
magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo poco tempo,
lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più favorevole, per
Londra, dove fu presentato a corte. Nella capitale inglese conobbe la funesta
Charpillon, con la quale cercò di intessere una relazione. In questa
circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato debole e questa
scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse un grande
amore, ma evidentemente C. non poteva accettare di essere trattato con
indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi s'intestardiva, più lei lo
menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di questa assurda situazione e
si diresse verso Berlino. Qui incontrò il re Federico il Grande, che gli offrì
un modesto posto d'insegnante nella scuola dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente
la proposta, C. si diresse verso la Russia e giunse a San Pietroburgo nel
dicembre del 1764. L'anno successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò
l'imperatrice Caterina II,[38] anche lei annessa alla straordinaria collezione
di personaggi storici incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni.
Merita una riflessione la straordinaria facilità con cui C. aveva accesso a
personaggi di primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con
chiunque. Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto
della curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più
esclusivi delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel
senso che in qualsiasi luogo si trovasse, C. si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma C. il
suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne. Nel 1766 in
Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente C.: il duello con il conte
Branicki. Questi, durante un litigio a causa della ballerina veneziana Anna
Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone veneziano. Il conte era
un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao II Augusto Poniatowski e
per uno straniero privo di qualsiasi copertura politica non era molto
consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso pesantemente dal conte,
qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato in buon ordine; C.,
invece, che evidentemente non era solo un amabile conversatore e un abile
seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un duello alla pistola.
Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia in caso di vittoria,
in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne avrebbero rapidamente
vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di C. a Madrid Il conte
ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza da impedirgli di pregare
onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne l'avversario, che si era
comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza seriamente a un braccio,
C. riuscì a lasciare l'inospitale paese. La buona stella sembrava avergli
voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove fu espulso.Tornò a Parigi,
dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia della morte di Bragadin, il
quale, più che un protettore, era stato per C. un padre adottivo. Pochi giorni
dopo fu colpito da una lettre de cachet
del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di lasciare il paese. Il
provvedimento era stato richiesto dai parenti della marchesa d'Urfé, i quali
intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le pur cospicue sostanze di
famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla disperata ricerca di una
qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu gettato in prigione con
motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un mese. Lasciò la Spagna e
approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente. Fu assistito grazie
all'intervento della sua amata Henriette che, nel frattempo sposatasi e rimasta
vedova, aveva conservato di lui un ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare,
recandosi a Roma, Napoli, Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i
contatti con gli Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che
finalmente giunse. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, C. riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite grazie
a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli Inquisitori
come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi prima a
condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le riferte
di C. non furono mai particolarmente interessanti e la collaborazione si
trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso rendimento".
Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di persecuzioni che,
avendole provate in prima persona, conosceva bene. L'ultima
abitazione veneziana di C. Rimasto senza fonti di sostentamento, si dedicò
all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta rete di relazioni per
procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si usava far
sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle stampe o
addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter sostenere gli
elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva manualmente e le
tirature erano bassissime. Pubblica il primo tomo della traduzione dell'Iliade.
La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che avevano finanziato l'opera, era
davvero notevole e comprendeva oltre duecentotrenta nomi fra quelli più in
vista a Venezia, comprese le alte autorità dello stato, sei Procuratori di San
Marco in carica[50] due figli del doge Mocenigo, professori dell'Padova e così
via. Va rilevato che, per essere un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva
delle frequentazioni di altissimo livello. Il fatto di far parte della lista non
era tenuto segreto, ma in una città piccola, in cui le persone che contavano si
conoscevano tutte, era di pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano
che, malgrado le sue vicissitudini, C. non era affatto un emarginato. Anche qui
è opportuna una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno
oscillare tra la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso
periodo iniziò una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice
e incolta che per anni avrebbe scritto a C., dopo il suo secondo esilio da
Venezia, delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza
commoventi, utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano,
con evidenti tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu
l'ultima relazione importante di C., che rimase molto attaccato alla donna:
anche quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo C. è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di Castello.
L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a C. di Francesca
Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca). .L'appartamento
occupato da C. e dalla Buschini (di proprietà della nobile famiglia Pesaro di
S. Stae), affittato a 96 lire venete a trimestre, corrisponde alle tre finestre
del terzo piano situate sotto la soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi
foto). La lettera in questione, spedita dalla Buschini a C. ormai in esilio,
faceva riferimento alla casa antistante "È morto la molgie del maestro di
spada che mi stà in fasa di me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche
bela la era..." (testo originale tratto dall'edizione critica delle
lettere di F. Buschini Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble,
Antonio Trampus, Trieste, Lettres de Buschini à C.) Poiché tutti i caseggiati
antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi incendi, l'area era
rimasta praticamente priva di fabbricati e destinata a giardino. L'unico
fabbricato ancora esistente era quello dinanzi al 6673. In seguito la
situazione non ha subito modifiche di rilievo; l'edificio in questione,
antistante al 6673, si trova tra il ramo primo e il ramo secondo "Del
brusà" e quindi l'identificazione appare fondata e verificabile.
Negli anni successivi pubblicò altre opere e cercò di arrabattarsi come meglio
poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò un brutto scherzo: offeso
platealmente in casa Grimani da un certo Carletti, col quale aveva questionato
per motivi di denaro, si risentì perché il padrone di casa aveva preso le parti
del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi componendo un libello, Né
amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur sotto un labile
travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne chiaramente di essere
lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan Carlo Grimani sarebbe
stato "notoriamente" frutto del tradimento della madre (Pisana
Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano Giustinian. Probabilmente
era tutto vero, anche perché in una città in cui le distanze tra le case si
misuravano a spanne, si circolava in gondola e c'erano stuoli di servitori che
ovviamente spettegolavano a più non posso, era impensabile poter tenere segreto
alcunché. Comunque, anche in questo caso l'aristocrazia fece quadrato e C. fu
costretto all'ultimo, definitivo, esilio. Tuttavia la questione non passò
inosservata, se si ritenne opportuno far circolare un libello anonimo, con cui
si replicava allo scritto casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il
riffiutto mentito, e vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero
La stalla ripulita, di Giacomo C.". Ritratto del 1788
Annotazione della morte di C. nei registri di Dux Lasciò Venezia e si diresse
verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore veneziano
Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi, accettò un posto di
bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì
trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù, ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata per
sempre. Da Dux, C. dovette assistere alla Rivoluzione francese, alla
caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno di
quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo conforto,
oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo tenevano al
corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione della Histoire
de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue residue energie,
compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere da una morte che
ormai sentiva vicina. Scrivendola, C. riviveva una vita assolutamente
irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario collettivo, una vita
«opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che la salma fosse stata
sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del castello. Ma riguardo
al problema dell'identificazione corretta del luogo di sepoltura di Giacomo C.,
le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non ci sono, allo stato, che
ipotesi non correttamente documentate. Tradizionalmente si riteneva che fosse
stato sepolto nel cimitero della chiesetta attigua al castello Waldstein, ma
era una pura ipotesi. Altre opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal
Francese, da rappresentarsi nel Regio Elettoral Teatro di Dresda, dalla
compagnia de' comici italiani in attuale servizio di Sua Maestà nel carnevale.
Dresda); La Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda Confutazione della Storia
del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana
caprina. Epistola di un licantropo. Bologna. Istoria delle turbolenze della
Polonia. Gorizia. Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. Né amori né
donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. Lettre historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu
connu... Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste
entre le deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna.
1785Supplément à l'Exposition raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della
contestazione, che susiste trà le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda.
Venezia. Supplemento alla Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur
Jean et Etienne Luzac. Vienna); Lettera ai signori
Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque d'un penseur, Prague chez Jean
Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et libraire. -Histoire de ma fuite des
prisons de la République de Venise qu'on appelle les Plombs. Ecrite à
Dux en Bohème, Leipzig chez le noble de Shonfeld Historia della mia fuga dalle
prigioni della republica di Venezia dette "li Piombi", prima edizione
italiana Salvatore di Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano. 1788Icosameron ou histoire d'Edouard,
et d'Elisabeth qui passèrent quatre vingts ans chez les Mégramicres habitante
aborigènes du Protocosme dans l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois
par Jacques C. de Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à
l'imprimerie de l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) Solution du
probleme deliaque démontrée par Jacques C. de Seingalt, Bibliothécaire de
Monsieur le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De
l'imprimerie de C.C. Meinhold. Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée
a Dux en Boheme, par Jacques C. de Seingalt, Dresda. Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. Lettres écrites au sieur Faulkircher par son
meilleur ami, Jacques C. de Seingalt. A Leonard Snetlage, Docteur en droit de
l'Université de Gottingue, Jacques C., docteur en droit de l'Universitè de
Padoue. Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue
Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara, traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo C., Storia della mia vita, ed. Mondadori, con note, documenti e
apparato critico. Piero Chiara e Federico Roncoroni Giacomo C., Storia della
mia vita, Milano, Mondadori "I meridiani" Ultima edizione: Milano,
Mondadori "I meridiani Saggi libelli e satire di Giacomo C., Piero Chiara,
Milano. Longanesi et C. Epistolario di C., Piero Chiara, Milano. Longanesi et C.
Rapporti di Giacomo C. con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito
"Prosopopea Ecaterina II , Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi
veneziani Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli.
Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e
Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a
Dux), Milano, Rusconi Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli. Salt Lake City. Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du
manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée et établie
par Francis Lacassin. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in
veneziano Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del
manoscritto a fronte, Venezia, Editoria Universitaria Iliade di Omero in
veneziano Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del
manoscritto a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia
vita, traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton,
coll. « I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo C..
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria
Universitaria. Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de
Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio
Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la
collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque
de la Pléiade Gallimard. Parigi. Histoire
de ma vie, tome III. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik
Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi.
Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi, Milano, Luni Editrice,, 978-88-7984-611-0 Istoria delle turbolenze
della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore letterario e fortuna dell'opera
casanoviana Presunto ritratto di Giacomo C., attribuito ad Alessandro
Longhi o, da alcuni, a Pietro Longhi. Sul valore letterario e la validità
storica dell'opera di Giacomo C. si è discusso parecchio. Intanto bisogna
distinguere tra l'opera autobiografica e il resto della produzione. Malgrado
gli sforzi fatti per accreditarsi come letterato, storico, filosofo e
addirittura matematico, C. non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna
notorietà e nessun successo. Successo che arrise invece all'opera
autobiografica, anche se si manifestò in tempi molto posteriori alla morte
dell'autore. Disegno di un busto di Giacomo C., ubicato in
origine a Dux, oggi al Museo delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione
fu spesso d'occasione, cioè di frequente i suoi scritti furono creati per
ottenere qualche beneficio. Principale esempio è la Confutazione della Storia
del Governo Veneto d'Amelot de la Houssaye, scritta in gran parte durante la
detenzione a Barcellona, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a
ingraziarsi il governo veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo
stesso si può dire per opere scritte nella speranza di ottenere qualche
incarico da Caterina II di Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere,
come l'Icosameron, avrebbero dovuto sancire il successo letterario dell'autore
ma così non fu. Il primo vero successo editoriale fu ottenuto dall'Historia
della mia fuga dai Piombi che ebbe una diffusione immediata e varie edizioni,
sia in italiano sia in francese ma il caso è praticamente unico e di
proporzioni limitate a causa delle dimensioni dell'opera costituita dal
racconto dell'evasione. Sembra quasi che C. tollerasse le sue creature
autobiografiche e il loro successo, continuando a inseguire, con opere non
autobiografiche, un successo letterario che non arrivò mai. Questo aspetto fu
acutamente osservato da un memorialista suo contemporaneo, il principe Charles
Joseph de Ligne, il quale scrisse[70] che il fascino di C. stava tutto nei suoi
racconti autobiografici, sia verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione
salottiera sia la versione stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e
trascinante quando parlava della sua vita- osserva de Lignequanto terribilmente
noioso, prolisso, banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra
che questo, C., non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di
non avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui
ambiva. Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che
nascondeva una profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche
contro la volontà dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma
meno prediletti, le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande
successo editoriale quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura
molto ridotta per vari motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato
tardi. Si pensi ad esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che
costituì per decenni il cavallo di battaglia del C. salottiero, fu pubblicata
soltanto nel 1787. Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui
aveva trasfuso tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi
anni di vita e il motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera
indirizzata a quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era
stato la causa del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere
di aver finito di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè
sembra che per mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse
prima ammettere con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti
da vivere non ce n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in
particolare per un uomo che aveva creato una vita-capolavoro
irripetibile. Ma un altro aspetto, questo strutturale, ha ritardato la
fortuna dell'opera autobiografica: l'Histoire era all'epoca assolutamente
impubblicabile. Non è un caso che la prima edizione francese del manoscritto,
acquistato dall'editore Friedrich Arnold Brockhaus di Lipsia, fu pubblicata,
però in una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non
si limitò a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo
audaci, ma intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore,
facendone una sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva
affatto alla verità storica, perché di C. si può dire che era ribelle e
trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime, come
dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa
Histoire. In un passo delle Memorie, C. esprime chiaramente il suo punto di
vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo è
quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca,
taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare
come la pensano.[75]» Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette
attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme
all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi
curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che
era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un
cinismo assolutamente impresentabile. Quello che essi chiamarono cinismo sarà
considerato, due secoli dopo, modernità e realismo. C. è già uno
scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni,
inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e
tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente
il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore,
fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto
precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi C. non ha scritto, e chi non ha
incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]
Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo
insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana.
Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie
della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più
fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto. C.
ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di successo. E
forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo Grimani,
ricordata in precedenza, C., parlando dell'Histoire, scrive testualmente:...
questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo e che sarà forse
tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta... perché io possa
porla nei codicilli che formeranno il settimo volume postumo della Storia della
mia vita. Tutto questo è avvenuto puntualmente.[79] Riguardo all'uso
della lingua francese, C. vi fece riferimento nella prefazione: «J'ai écrit en français, et non pas en
italien parce que la langue française est plus répandue que la
mienne.[80]» «Ho scritto in francese e non in italiano perché la lingua
francese è più diffusa della mia.» Certo dell'immortalità della sua
opera, se non al fine di garantirsela, C. preferì utilizzare la lingua che gli
avrebbe consentito di raggiungere il maggior numero possibile di potenziali
lettori. Molte opere minori, del resto, le scrisse in italiano, forse perché
sapeva bene che esse non sarebbero divenute mai un monumento, come avvenne
invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni, altro celebre veneziano, coevo
al C., scelse allo stesso modo di scrivere la propria autobiografia in
francese. L'autobiografia del C., a parte il valore letterario, è un
importante documento per la storia del costume, forse una delle opere
letterarie più importanti per conoscere la vita quotidiana in Europa nel
Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per le frequentazioni
dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori, riferisce
principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e borghesia, ma
questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di contorno, di
qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo. Leggere quest'opera
è uno strumento importante per conoscere il quotidiano degli uomini e delle
donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di ogni giorno. La
fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di vertice della scena
letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera autobiografica ed è stata
vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu attribuita la paternità
dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in dubbio l'esistenza storica
del C., Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler, Hesse, Márai. Molti furono solo
lettori e quindi influenzati in modo inconscio, altri scrissero opere
ambientate nell'epoca di C. e di cui egli era protagonista. Innumerevoli
sono i riferimenti, nella letteratura moderna, a questa figura che ha finito
per diventare un'antonomasia. In Italia l'interesse si è manifestato tra la
fine dell'Ottocento e i primi del Novecento. La prima edizione italiana della
Historia della mia fuga dai Piombi fu curata da Giacomo, il quale studiò anche
i ripetuti soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse
un saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara.
Un capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del C.. Proprio a questa legione di sconosciuti si debbono
infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che
probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per
l'Europa. La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua
vita a un certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura Riguardo al mito del seduttore, C., insieme a Don Giovanni, ne
è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di numerose
opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi, benché
ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile, lasciando
dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il collezionista
puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente all'immagine di sé e
soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato unicamente sul numero delle
vittime della sua seduzione. L'interpretazione del suo mito sarebbe
fornita proprio dal libretto del Don Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da
Ponte, in cui Leporello, il servo di Don Giovanni, in un'aria notissima recita:
Madamina il catalogo è questo, delle belle che amò il padron mio... e prosegue
snocciolando le innumerevoli conquiste, diligentemente registrate. Il fatto che
alla redazione del libretto sembra abbia partecipato anche C.come è stato
sostenuto basandosi su documenti trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e C. si
frequentassero e che l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a
Praga andò in scena la prima dell'opera mozartiana è tutto sommato marginale.
La partecipazione, comunque molto limitata, di C. alla composizione del
libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni, è ritenuta molto
probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un autografo,
rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è ipotizzato
facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da Ponte e
forse anche con lo stesso Mozart. Quel che è certo è che C. si misurò col mito
di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande, certamente più positivo e
soprattutto reale. Mostre Praga,
Palazzo Lobkowicz, "C. v Čechách" (C. in Boemia). Catalogo: C. v
Čechách, Praga, Gema Art Venezia, Ca'
Rezzonico "Il mondo di Giacomo C.". Catalogo: Il mondo di Giacomo C.,
un veneziano in Europa, Venezia, Marsilio.
Francia "C. for ever, 33 expositions
Languedoc-Roussillon". Catalogo: C. For Ever, Emmanuel Latreille (dir.),
Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France “C., la
passion de la liberté. Catalogo: C., la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil,. (BnF) (Seuil) Stati Uniti d'America "C.: The seduction
of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art Museum,
Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: C. The seduction of
Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. Filmografia su C. C.
. Regia di Alfréd Deésy Il cuore del C. (Germania) Regia di Erik Lund. Soggetto
di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con Bruno Kasner, Ria
Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. C.s erste und letzte Liebe (Austria).
Regia di Szoreghi. C. Regia di Alexandre Volkoff Les
amours de C. (Francia, 1934). Regia di René Barberis L'avventura di
Giacomo C. (Italia). Regia di Carlo Bassoli. Le avventure di C. (Les Aventures
de C.) (Francia). Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia). Regia
di Riccardo Freda. Con Gassman, Canale, Mercader, Centa. Le avventure di C. (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from C., titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia). Regia di
Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo C., veneziano
(Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria
Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell,
Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul
Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia). Regia di Daniele
Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert Alda,
Massimo Girotti. (C. è uno dei personaggi). Il C. di Federico Fellini (Italia).
Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina Aumont, Olimpia Carlisi,
M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M. Berenstein. Il mondo nuovo
(Italia). Regia di Ettore Scola. Con Jean Louis Barrault, Marcello Mastroianni,
Hanna Schygulla, Harvey Keitel, Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold,
A. Belle, E. Bergier, Laura Betti. David di Donatello per la migliore
sceneggiatura, scenografia e costumi. Il ritorno di C., titolo originale Le
retour de C. (Francia). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini,
E Lunghini. Goodbye C. (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G.
Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane C. (Francia,
Italia, Germania). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano Accorsi, Thierry
Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine Flemming, Katja
Flint. C. (Stati Uniti). Regia di Lasse Hallström. Con Heath Ledger, Jeremy
Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani. Historia de la meva mort
(Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç Altaió, Lluís Serrat,
Eliseu Huertas. C. variations (Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di
Michael Sturminger, con John Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres.
Zoroastro, Io C. (Italia ) Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier
Amour (Francia ). Regia di Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo C.),
Stacy Martin (Marianne de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo
lontanamente ispirati alla figura di C. C. farebbe così! (Italia). Regia di
Carlo Ludovico Bragaglia. Le tre donne di C. (Stati Uniti). Regia di Wood. C.
(Italia). Regia di Mario Monicelli. Film comici La grande notte di C.
(Stati Uniti) Norman Z. McLeod. C. et Company (Austria/Italia/Francia/Rft
1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis, Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt
Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh Griffith. Telefilm su C. C. (Regno
Unito). Regia di Sheree Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole,
Laura Fraser, Nina Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron
d'oronastrino per uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro Roma, 1760
Riguardo l’onorificenza, C. nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice
e il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. C., Storia della mia vita,
Milano, Mondadori). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di
ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla C.
(dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi, senza
alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata
effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore
burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso
periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi,
Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo
stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron
d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare
l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso C. in un passo dell’opera
autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza, "il troppo
strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il duello cit. in
bibl.). Note Esplicative C.
visse a lungo in Francia e conobbe personalmente molti protagonisti del
movimento illuminista tra cui Voltaire e Rousseau. Inoltre, in patria,
frequentò membri dell'oligarchia aristocratica dominante appartenenti all'ala
progressista, come Andrea Memmo. In più aveva anche aderito alla Massoneria, il
che lo pose a contatto con tutta una serie di personaggi portatori di idee
progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si definì sempre, un
conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare cui, pur non
appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore, reputandosi a
torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo scoppio della
Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne seguì, scrisse
numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in cui deprecava in
modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli eventi, la
paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva assistito come
semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente potenzialità e
non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio, Montesquieu espresse
nei confronti dell'iniquo sistema (cfr. Montesquieu, Lettres Persanes) e
riteneva che, pur con qualche modifica, il governo della classe nobiliare fosse
il migliore possibile. Un esame attento ed approfondito della posizione
politica del C. è stato compiuto da Feliciano Benvenuti (C. politico, atti del
convegno: Giacomo C. tra Venezia e l'Europa, Pizzamiglio, fondazione Giorgio
Cini, Venezia, ed. Leo S. Olschki.) Il
cognome C. è attestato appartenere a nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano,
Parma, Torino-Dronero C. afferma
che dalla città spagnola il suo antenato, padre Jacob C., a seguito del
rapimento di una monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito a Roma in cerca di
un rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il
perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona,
potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è
interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. C., Histoire de ma vie, tome
I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,XL, in
Opere postume) il quale sostiene che la genealogia inserita dal C. all'inizio
delle Memorie sia del tutto fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia
di ciò che facevano regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i
quali, all'inizio dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a
ricercare una legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria,
le vicende di cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le
private rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se
si considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale
addirittura al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un
cognome, praticamente un toponimo, estremamente comune. A conferma del fatto che la nascita
illegittima di C. fosse oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La
commediante in fortuna di Chiari (Venezia) in cui si tratteggia un ritratto
precisissimo di C. che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di
un nome di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo
Signor Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione,
ben fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di
franchezza indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici
tipici e riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una
notevole somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor
Vanesio con C. è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda:
E.Vittoria C. e gli Inquisitori di Stato.
(Immatricolazione, iscrizione, fede di terzeria. Fonte: Bruno Brunelli, C.
studente, in “Il Marzocco Firma un testamento in qualità di testimone. Sull'ubicazione esatta della casa natale di C.
e di quella in cui trascorse l'infanzia all’anno della morte della nonna
materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al momento del matrimonio
Gaetano e Zanetta C. non disponevano di un reddito tale da sostenere un spesa
come quella affrontata di 80 ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il
matrimonio avvenuto il 27 febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa
della madre di Zanetta, Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il
marito Girolamo Farussi poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E
questa con ogni probabilità fu la casa in cui C. nasce con l'assistenza della levatrice Regina
Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è assai ardua, ma comunque è
stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha identificato la casa di
Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle delle muneghe. Questa
sarebbe dunque la casa natale di C. (Fonte: Helmuth Watzlawick, House of
childhood, house of birth; a topographical distraction, in Intermédiaire des
Casanovistes, Genève). I coniugi C. si trasferirono nella casa di Calle della
Commedia al ritorno dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a
Venezia col secondogenito Francesco, nato a Londra. Tale abitazione risulta
essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al secondo
piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui era
circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per
appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto
chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che
corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al
terzo, nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con
certezza della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla
descrizione è quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della
Commedia) al civico 3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto
che la lapide apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa
calle, già Calle della Commedia, nacque
G. C." senza alcun altro più specifico elemento. Alcuni sostengono
che a causa di rimaneggiamenti interni non è più possibile identificare la
struttura originaria. Uno studioso dell'argomento, Federico Montecuccoli degli
Erri, ha pubblicato (L'intermédiaire des Casanovistes, Genève) un'analisi molto
approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni" cioè sulle
dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai proprietari.
All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si procedeva ad
un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia, dal parroco.
Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di possesso. I
proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari dovevano o
esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché è stato
ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per la
figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto
prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà
Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata
sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e
catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche
perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso
citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle
degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della
Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque
tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche
centinaia di metri; infatti è certo che i C. abitavano, per motivi di lavoro,
nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento: Calle
della Commedia 324|casa|Giovanna C. comica al presente s'attrova in Dresda,
giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui)
Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in
quello in uso precedentemente. Si è
mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui,
come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la
permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24)
novembre 1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di
sette. Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto
"Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel
febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda
Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio
Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des
Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno 711. In tale studio viene ricostruita
la situazione dei lazzaretti di Ancona e confrontato il racconto casanoviano
con le risultanze di archivio relative ai progetti e all'iconografia degli
edifici adibiti alle quarantene.La cronologia della permanenza è stata stimata
dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743. Un'altra cronologia differisce di un
giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J. C., Histoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Laffont, I, Cronologia,XXX, cit. in bibl.) Il progetto
di ristrutturazione del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si
conserva nell'Archivio di Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I,
Cart. 2, n° 87/I, II, III.). Esso consente di verificare lo stato del
fabbricato all'epoca della permanenza del C..
Il personaggio di Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè
la questione dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il
considerare il personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione
di Teresa con Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si
basa su ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo
Gugitz, il quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una
costruzione letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome
fittizio di Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio.
Ma molte delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non
quadrano con quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata
direttamente nell'Histoire allorché C. riferisce di averla incontrata a Londra
e di aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un
incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare
questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la
Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per
l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che C. abbia costruito il personaggio
di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che non esclude
che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla Calori.
Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio, C. a Bologna)
ha ipotizzato trattarsi non della Calori, ma di un'altra famosa cantante
bolognese, Vittoria Tesi, nota per il suo fascino androgino e per aver
interpretato spesso en travestie parti maschili. La tendenza a romanzare del C.
sarebbe in questo caso particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei
personaggi descritti. Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo
teatrale, essendo figlio di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e
teatranti. Curiosamente, ogni volta che rappresenta un personaggio femminile
che ha a che fare col teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo
rarissimi casi, in modo particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel
mondo, ne disprezzasse profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a
quelli femminili, le peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al
calcolo. Teresa/Bellino è una delle eccezioni, il che farebbe propendere per
l'idealizzazione, cioè per la non rispondenza alla realtà del personaggio,
peraltro nascosto, come si è detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra
l'Histoire e il mondo del teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety.
The figure of the actress in C.'s Histoire de ma vie. L'intermédiaire
des casanovistes, Genève, Barbaro, patrizio veneziano del ramo Barbaro di San
Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a C. un legato di sei
zecchini al mese. (Fonte: Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore Robert
Laffont cit. in bibl. I997, che rinvia a
Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi, Milano) Dandolo, patrizio
veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di
Dandolo in Archivio di Stato di Venezia. Legato testamentario
"...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo C., che mi fu in
tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla mia persona, e che ha
mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a' miei pochi benefizj.
Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono nella stanza in cui
dorme. Al suddetto C. lascio il mio orologio d'oro e le mie quattro possate
d'argento" (Fonte: L'Histoire de ma vie di Giacomo C., Michele
Mari, cit. in, pag.29 nota 104).
L'identificazione di "Henriette" insieme a quella di
"Suor M.M." è stato uno degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti.
Il motivo di tante accanite ricerche è connesso con la centralità sentimentale
di questi due personaggi nella vita di C.. Il nome di Henriette ricorre di
con tinuo nelle Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente
dall'autore. Tra le identificazioni che si sono susseguite quelle più
autorevoli sono da ascrivere a: John Rives Childs, che sostenne trattarsi di
Jeanne-Marie d'Albert de Saint Hyppolite, sposata a Fonscolombe, nipote di
Margalet, proprietario del castello di Luynes, che si trova nella zona
descritta da C. come quella di residenza di Henriette. Watzlawick, che sostiene
trattarsi di Marie d'Albertas, nata a Marsiglia. Louis Jean André, che avrebbe
identificato Henriette in Adelaide de Gueidan. Quest'ultima ricostruzione è
sostenuta da un apparato critico impressionante che, attraverso una raccolta
minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia, topografia della zona),
conduce a una notevole verosimiglianza dell'identificazione. Immagini del
castello di Valabre, residenza della famiglia De Gueidan, che secondo André
corrisponderebbe perfettamente alla descrizione datane da C. senza nominarlo,
sono visibili qui. Manca ancora però la prova inoppugnabile, una lettera o un
qualsiasi manoscritto del C. stesso che consenta l'identificazione certa. Molti studiosi hanno tentato
l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a
Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note casanovianeSuor
M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Sul rapporto tra romanzo e autobiografia
nelle Memorie si veda tra gli altri L'Histoire de ma vie di Giacomo C. Michele
Mari. Balletti era il nipote della Fragoletta, l'attempata attrice amata dal
padre di Giacomo, Gaetano, al seguito della quale era arrivato in giovane età a
Venezia. (Fonte: Charles Samaran, Jacques C., Vénitien, une vie d'aventurier au
XVIII siècle, con rinvio a un passaggio delle Memorie di Goldoni) C. fu iniziato nella loggia Amitié amis
choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier
Vincent, C. il contagio del piacere).
L'affiliazione di Mozart alla Fratellanza Massonica avvenne il 14
dicembre del 1784, nella loggia “Zur Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di
Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart massone e rivoluzionario. Mondadori). C.
riceve i gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di Gerusalemme
(cfr. Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Malgrado la diuturna applicazione, il fatto
di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di aver potuto fare ampia
pratica durante la permanenza in Francia, il francese di C. non fu mai ritenuto
sufficientemente perfetto nella forma scritta, soprattutto a causa degli
“italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle Memorie. C. riferisce con
dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon e la successiva intensa
frequentazione allo scopo di imparare la lingua. Ammette anche i suoi limiti:
infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon tre volte alla settimana ma
non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi (Fonte: G. C., Storia della
mia vita, Mondadori). L'imputazione e la
sentenza. Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di
Giacomo C. principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE.
lo fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto C. condannato
anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio Condulmer
Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (Venezia Archivio di Stato Inquisitori
di Stato Annotazioni B. 534245) Riferte
di Manuzzi, confidente degl’inquisitori di stato Incaricata la mia obbedienza
dal Venerato Comando di riferire chi sia Giacomo C., generalmente rilevo ch'è
figlio di un comico e di una commediante; viene descritto il detto C. di un
carattere cabalon, che si fa profittare della credulità delle persone come fece
col N.H. Ser Zanne Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello...
Giovanni Battista Manuzzi. Mi sovvenne allora che lo stesso C. parlato mi avea
ne' giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi
che si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva
dell'inclinazione il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta...
Giovanni Battista Manuzzi. Secondo il
casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di C. è da
ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con
Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti),
apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I
Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la
scandalosa situazione. Cfr. Jacques C. de
SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,....Ed.
Laffont. Bibliografiche C., Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A.
Brockhaus-Librairie Plon. Giacomo C.,
Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie"
de Bernardin de Saint Pierre. Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi Fonte: Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. G.C.,Storia della mia vita, Mondadori. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo C., in Padova e la sua provincia) (Fonte: P.Del
Negro, Giacomo C. e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia dell'Padova
secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie,LVIII in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. (Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie,LXIII
in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl.) Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano: Ma perché fu fermato? Non aveva da
scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal Grimani che
voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili della casa
paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta, che doveva
occuparsi della questione. Si veda di
Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo C., L'Intermédiaire des
casanovistes. Si veda di Pierre-Yves
Beaurepaire, Grand Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche: una
cultura della mobilità nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali, La
Massoneria, Gian Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, in C.,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati,, cit. in bibl. cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, in C., Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl, Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C. Fonte:
Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore. Riguardo
alla paternità del quadro in questione, la precedente attribuzione a Mengs
(risalente a Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e,
allo stato delle ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco
Narici, pittore di origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel
1952 a Milano da un restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale
sosteneva di aver trovato tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un
biglietto manoscritto che recava le parole Jean-Jacques C. Il fatto che il
soggetto rappresentato possa effettivamente essere Giacomo C., si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il
naso; il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare
trattarsi di un uomo della stessa statura di C. che è nota; il fatto che i
tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del
fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il
soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a
una simbologia molto affine al personaggio di C. che, pur nello stile di vita
brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro passò,
nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe Bignami
di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes. Il mondo di C. (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico). Giuseppe
Bignami, C. tra Genova e Venezia, La Casana, n° 3 luglio-settembre 2008,25-37.
Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove opere di cui
soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in C., la passion de la
liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi, Coédition
Bibliothèque nationale de France / Seuil. Balbi, monaco somasco. Era un
patrizio veneziano appartenente a una casata barnabota, cioè a una di quelle
famiglie patrizie che avevano perso ogni ricchezza e i cui membri erano ridotti
a vivere di espedienti. Erano detti barnabotti in quanto gravitavano intorno a
Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire de ma vie di C., Mari. Si trattava di un
certo Andreoli, custode del palazzo, che il C. vide approssimarsi, da una fessura
del portone, "in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul
punto, per maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico
Cento note per C. a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza. Sentenza di condanna a carico di Basadonna,
carceriere del C. Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni de Piombi, che
esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali ne provenne la
fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi somasco, e di Giacomo C.,
che vi erano condannati, per tenui motivi di contrasto con Giuseppe Ottaviani
pur condannato ne' camerotti, ne commise la interfezione. Presi dal Tribunale
gl'essami per rilevare l'origine, e i modi del non ordinario avvenimento,
risultò infatti per la confessione stessa del reo il caso per proditorio in
ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il supplizio maggiore, la
clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di clemenza è devenuta
alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r
Bortolo Diedo Inq.r. Basadonna sia condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise
Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di
Stato, Inquisitori di Stato, Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus de
Pontcarré marchesa d'Urfé, sposò Louis-Christophe de Lascaris d'Urfé de
Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre figli. Rimase
vedova nel 1734 (Fonte: G. C. Storia della mia vita, ed. Mondadori) G. C., Historie de ma vie. Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che C. abbia svolto un ruolo
chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature politiche.
Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo entourage era
molto solido. Sul punto si veda G. C., Storia della mia vita, Mondadori in cui si puntualizza che la lista dei 28
ricevitori, pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di C. in
relazione alla ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto
autobiografico. Secondo Samaran, (Jacques C. ecc.. Cit. In bibl.) C. avrebbe
diretto una ricevitoria, ma a Rue Saint Martin. Si veda anche Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Éd. Robert
Laffont (con rinvio a C. Meucci, C.
Finanziere),23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo C.) e Jean Leonnet,
Les loteries d'état en France. Imprimerie nationale. Il decreto di fondazione
della lotteria è un arrêt delConsiglio di Stato del re Luigi XV (BnF,
Departement des Manuscrit Française 26469, fol. 198). Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato
di una missione diplomatica descritto da C., vi è un riscontro obiettivo: il
passaporto, ritrovato a Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys
Lestevenon van Berkenroode, ambasciatore della Repubblica delle Sette Province
a Parigi (Fonte: G. C. Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il documento
originale è riprodotto in Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo
il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre Anna Gazini
(che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard Wynne)
decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero le
altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori). La
lettera autografa di Giustiniana Wynne è andata all'asta all'Hôtel Drouot
(Parigi). Il collezionista che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere
l'anonimato, ne ha però consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut
Watzlawick, L'Intermédiaire des Casanovistes)
siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani, Salvattemi
se c'è ancora rimedio, e se potete. C., Storia della mia
vita, Mondadori, Histoire Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi)
Fonte: Frédéric Manfrin in C., la passion de la liberté, Parigi, Coédition
Bibliothèque nationale de France / Seuil,, Chronologie. G. C., Storia della mia vita, Mondadori. Augspurger,
detta La Charpillon, nota cortigiana londinese (Fonte: G. C., Storia della mia
vita, ed. Mondadori. Un riscontro del
soggiorno di C. a Berlino deriva da una annotazione nel diario di Boswell, in
cui lo scrittore scozzese accenna all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla
locanda Zu den drei Lilien (Ai tre gigli) in Poststraße, dove anche C.
alloggiava. In particolare scrive: Ho mangiato da Rufin dove Nehaus, un
italiano, voleva brillare come grande filosofo e quindi sosteneva di dubitare
di tutto, a cominciare dalla sua stessa esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London). Il nome Nehaus è la
traduzione di C. in tedesco (con un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che C.
abbia usato il suo cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una
lettera a lui indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus
de Farussi, Farussi era il cognome della madre del C.. (Fonte: Helmut
Watzlawick, C. and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII
2006, pag 41). Fonte: Elio Bartolini,
Vita di Giacomo C., cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. C. passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.)
Fonte: Elio Bartolini, Vita di C. Secondo quanto affermato nelle
Memorie, C. incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari progetti, ma
senza alcun risultato. Franciszek
Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si
muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui
collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio
tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in
particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia". Anna Binetti (cognome di nascita Ramon)
celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges
Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della
danza a Venezia (Fonte: G. C., Storia della mia vita, ed. Mondadori) C., Storia della mia vita, Mondadori 2001, III, pag. 285 e seguenti, cit. in bibl. La vicenda sollevò un clamore notevole e fu
riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca
sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in
una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario
del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a
Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna. La vita i
tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag.
203.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di C. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C. Cfr.
anche, per la data di morte di Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa
da C. (26 ottobre), Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome
I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati,, cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo C.. I
soggiorni romani di C. furono tre. I personaggi descritti, numerosissimi, sono
noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere veridico il racconto
che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è costituito da un
documento che certifica la presenza a Roma del C. durante la Quaresima del
1771. Documento: Stato delle anime, in Registri parrocchiali di S.Andrea delle
Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di S.Eufemia Francesco Poletti anni
51 M. Angela moglie.anni 40 Margarita figlia zitella anni 16 Tommaso figlio anni
20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva anni 40 Piggionanti
Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti
anni 37 Il signor Giacomo C....anni 46 L'immobile in questione è quello,
antistante l'Ambasciata di Spagna, sito nella piazza all'attuale numero civico
32. L'abitazione del C. era al secondo piano. (Fonte: A.Valeri C. a Roma cit.
in bibl.) Si è a lungo discusso
circa l'esistenza di ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal
titolo originale dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta
dalla prima pagina della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi,
perché non è stato mai trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo
al 1774. Va quindi considerato che, fino alla data in questione, la fonte
primaria delle vicende di C. sono le sue Memorie; dopo il termine temporale
delle medesime ci si è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di
contemporanei, registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette.
Alcuni autori hanno tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando
i documenti disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo C.
dopo le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, C. dalla
felicità alla morte. Evidentemente le notizie riguardanti il periodo compreso
temporalmente nelle Memorie sono enormemente più numerose di quelle relative al
periodo successivo. Circa l'attendibilità e la precisione delle notizie
riportate nelle Memorie, il dibattito è stato amplissimo, ma numerosissimi
riscontri ne hanno comprovato la sostanziale veridicità. Il viaggio da Trieste a Venezia inizia; la
data è verificabile da una notizia apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10
corrente è passato per qua il signor Giacomo C. di Saint Gall celebre per li
diversi famosi incontri da lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le
opere da lui stampate, fra le quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio
la Storia delle vicende di Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo
perdono e dopo venti anni si è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj
Gorian Editoria e informazione a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta
goriziana”, Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso C. che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco assai di
nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue maniere
sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. C., Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara.
Delle lettere di C. alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie
rivoltele, è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute.
A Dux sono state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Buschini. Di queste, 33 sono state riportate
nel volume Lettere di donne a Giacomo C. Aldo Ravà, Milano, Treves cit. in bibl. L'edizione critica più recente
delle lettere di Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. C., è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo C.. Attraverso esse si vive il dramma
umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più avvolta
da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che praticamente
viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva sempre più
intollerante. Quando C. dovette sospendere i suoi aiuti in denaro, essendo
ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si ritrovò
letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di Barbaria
delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna notizia
ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo C. Fonte dell'ammontare del canone: Ravà, Marsan, Sui passi di C. a Venezia. Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo C. Fonte: G. C., Analisi degli studi sulla natura...
G. Simeoni. Ed. Pendragon. Il testo del libello è stata oggetto di una
pubblicazione a tiratura limitata Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981.
Si è ipotizzato che il Grimani abbia incaricato della redazione della replica
Girolamo Molin, tuttavia il libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma
fu fatto circolare in forma manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo
C. dopo le sue memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9). Il conflitto con la servitù del castello
divenne con gli anni sempre più acuto, tanto da far giudicare insostenibile la
permanenza al castello del maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti
rimosso dall'incarico. La diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au
sieur Faulkircher... (vedi in ) nella quale C. trasfuse tutto l'astio
accumulato per le persecuzionia suo diresubite.
Il concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. C., Storia
della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14)...Ma il C.
è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes) una breve nota
intitolata Lieu de sepolture de C., in cui riferisce la notizia, comunicatagli
da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di una testimonianza sull'argomento
individuata nell'opera di un memorialista e storico coevo al C.: Meusel,
professore di storia a Erlangen. Meusel, nella sua
opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde (Dresda) fa il seguente commento:
«L'aîne, Jacques C., Docteur en Droit de Padoue et bibliothécaire de Comtes de
Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il mourût aussi, immortalisé par un
monument plein de goût que le Comte lui a fait ériger dans son jardin, où il le
faisait aussi enterrer selon son propre désir.» Pare quindi
evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del parco del castello e il
conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di gusto” in memoria del suo
bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente dell'affetto per C., oltre
al legame derivante dalla comune appartenenza alla Massoneria, se è vero che
gli conferì un incarico formale di bibliotecario ma in pratica, visto lo scarso
impegno che comportava, una pensione, che lo mantenne per lunghi anni
provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso dovette far fronte ai suoi
debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi più che logico che abbia
deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna e con un monumento
funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo scrupoloso e non
avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente verificabile da
parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco C., fratello minore di Giacomo e
famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella medesima opera, un contributo
biografico e che era ancora in vita al tempo della redazione dell'opera. Come
sostiene Watzlawick, per avere la prova certa, bisognerebbe revisionare la
contabilità del castello al momento della morte del C., cercando la traccia dei
pagamenti effettuati per la sepoltura e l'erezione del monumento. Edizione in tre tomi basata sul manoscritto
conservato presso la BNF, con le varianti di testo relative a passi rimaneggiati
dall'autore. Attualmente è l'edizione critica di riferimento. Archivio Alinari,
su alinariarchives. Archivio Granger New
York Opere di LonghiC.Ubication:
Firenze Miti e personaggi della
modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte, musica e cinema, edizioni
Bruno Mondadori,: Nell'arte. Di C. esistono alcuni ritratti, tra cui un dipinto
giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi che lo raffigura all'epoca della
maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un terzo attribuibile a Mengs» (NDR:
oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco Narici) Il quadro, conservato un tempo nella
collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e nero
in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe stato
eseguito presumibilmente nel 1774 allorché C. rientrò a Venezia dall'esilio.
Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni sconosciute
donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti. Successivamente passò a
Gritti di Treviso, zio materno dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò
dalla sorella di Francesco Antonio, Maria Gritti Rizzi. Il quadro faceva ancora
parte della collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del C. nel
soggetto ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre,
all'epoca in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, C. era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in C., la
passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF,, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil. Su Alessandro Longhi si veda
l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile su Ca' Foscari online). In
particolare vengono riassunte le vicende del ritratto con richiami
bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les portraits de Jacques et de
François C., «Gazette des Beaux-Arts», Bernier G., Beau garçon, C.?, «L‟OEil», La
questione è stata oggetto di un cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato
il giudizio moralmente negativo circa la personalità dell'autore. Soprattutto
al primo apparire di opere critiche sulla questione, cioè alla fine
dell'Ottocento, primi del Novecento, si tendeva a separare la indiscussa
validità storica delle Memorie, nel loro complesso, dal giudizio di
riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei passi delle memorie
ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta da Benedetto Croce
il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende casanoviane (si veda:
Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili settecenteschi, ed. Sandron 1914)
pur definendo le Memorie "un libro osceno" (B.Croce, Salvatore di
Giacomo e il canto del grillo in "la Critica"). Col tempo il valore
storico e letterario cominciò ad avere sempre più numerosi sostenitori, come
Ettore Bonora il quale scrisse...fissati i loro limiti. i Mémoires restano un
libro eccezionale, rappresentativo quant'altri mai del mondo settecentesco, un
libro che, per la sua stessa ricchezza di materiali quanto pochi altri, può
rivelare a un lettore paziente lo spirito della vecchia società che la
Rivoluzione doveva distruggere (E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori
del Settecento). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in. Emblematico a questo riguardo è il caso del
romanzo utopistico Icosameron (Praga) che costituì un tale insuccesso
editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria
del C.. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò una
perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a Dux, di
ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre comunque
di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato editore a
ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni residui e
perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo C., ed.
Mondadori). Fonte: Elio Bartolini, Vita
di Giacomo C.. La redazione della Confutazione fu soltanto uno dei tanti
elementi della lunga strategia che condusse all'ottenimento del perdono da
parte delle autorità della Repubblica e il consenso al ritorno in patria
dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo. La pubblicazione dell'opera fu
sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il quale, pur privo di parentele
influenti, stava compiendo un percorso politico lusinghiero e attraverso il
sostegno a C. si aspettava di ottenere dai patrizi che lo appoggiavano, alcuni
dei quali molto influenti come i Memmo e il procuratore Lorenzo Morosini, di
essere aiutato a sua volta nel prosieguo della carriera. Zulian era anche
vicino ad ambienti massonici il che spiegava ulteriormente il suo agire. Sul
gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di C. ed era fautore del perdono si
veda Piero Del Negro, Il patriziato veneziano nell'Histoire de ma vie, in
L'Histoire de ma vie di Giacomo C., Mari
Si veda inoltre la lettera di C. a Zulian scritta da Lugano, Epistolario di Giacomo C.,
Chiara. Il brano, un ritratto in
prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a cogliere con
straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli elementi del
carattere del C.. Il passo può essere consultato qui (Mémoires et mélanges
historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C. Parigi). Su come C. esercitasse il suo fascino
sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure, vi è una testimonianza
assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che è stata lasciata da
Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello Pietro, inviata da Roma,
scrive:...V'è un certo uomo straordinario per le sue avventure, per nome il
signor C., Veneziano: egli è attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e
vivacità; ha viaggiato tutta l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli
riuscì di fuggire...Egli racconta questa dolorosa anecdota della sua vita,
successagli quindici anni or sono, con tanto interesse e forza, come se gli
fosse accaduta ieri... Alla risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla
veridicità del racconto, Alessandro replicava:...Ultimamente gliel'ho sentita
raccontare da lui stesso. Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie
le obiezioni, ed ha un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che
v'interessa infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per C. a
Venezia, Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. C., Storia
della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di C., il manoscritto originale
dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini che nel 1787
aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria Maddalena.
Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a Dresda,
dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e i
quattro saggi furono venduti all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio, il ministro
francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del
manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di Hubertus
Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile C.). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da C. e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali C. li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. C., Storia della mia vita, Mondadori. A questo proposito de Ligne scrive...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e
ritratti), Illuminante, a questo
riguardo, il passo di una lettera inviata da C. a Giovanni Ferdinando Opiz in
cui lo scrivente dichiara: Per ciò che riguarda le Mie Memorie, più l'opera va
avanti più mi convinco che è fatta per essere bruciata. Da questo potete capire
che fin quando saranno in mie mani non verranno certo pubblicate. Sono di una
tale natura di non far passare la notte al lettore; ma il cinismo che vi ho
messo è tanto spinto che passa i limiti posti dalla convenienza
all'indiscrezione (Fonte: Epistolari di Giacomo C., Piero Chiara, ed. Longanesi
et C.) Si veda in Giacomo C. tra Venezia
e l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki G. C., Storia della
mia vita, Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione
dell'Histoire (Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du
manuscrit original,....Ed. Laffont). Quindi la scelta sarebbe stata orientata
soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione dell'opera. Ma il pensiero
dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito nella cosiddetta
“Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio), C. dice Ho scritto
in francese, perché nel paese dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di
quella italiana; perché, non essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i
lettori francesi a quelli italiani; e perché lo spirito francese è più
tollerante di quello italiano, più illuminato nella conoscenza del cuore umano
e più rotto alle vicissitudini della vita. Come si vede, la scelta andava ben
al di là di un problema di diffusione.
Stendhal fa, nella sua opera, numerosi riferimenti a C. e all'Histoire
cfr. Promenades dans Rome, Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio
Luccichenti Il casanovismo fra Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di
Giacomo C., Michele Mari cit. in bibl. pag. 383. Foscolo, durante il soggiorno londinese,
recensiva opere di autori italiani. A proposito dell'Histoire casanoviana
scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster review dell'aprile 1827 e
sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno), che il protagonista era
di pura fantasia e le vicende narrate completamente inventate. Balzac si ispirò largamente alle Memorie
casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per l'ambientazione
veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per desumere spunti
narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda Raffaele de Cesare
Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia, Mondadori. Molte parti del
libro, comprese le pagine indicate con relativa note, sono consultabili on
line. Sempre sui collegamenti tra l'opera casanoviana e Sarrasine si veda
L'histoire de ma vie di Giacomo C., Michele Mari, cit. in bibl. pag.
95 nota 5 con rimando a J.R. Childs, C.. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed.
Jean-Jacques Pauvert, Paris 1962
Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e scrive al padre:..mi sono comprato
le Memorie di C. dove spero di trovare un soggetto. Il soggetto fu il C.
stesso, rappresentato nella commedia L'avventuriero e la cantante (Fonte:
L'avventuriero e la cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE). Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla
vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero C. a Spa (ed. Einaudi) e Il
ritorno di C. (ed. Adelphi). Hesse
scrisse il racconto La conversione di C. (ed. Guanda). Márai scrive il romanzo La recita di Bolzano
(ed. Adelphi), pubblicato a Budapest, che ha come protagonista l'avventuriero
veneziano. Salvatore di Giacomo "C.
a Napoli" in Nuova antologia. CROCE (vedasi), Aneddoti di varia
letteratura", Napoli. Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle
Memorie di Giacomo C." opera il cui autografo di sei pagine è andato
all'asta a Milano. Chiara cura per Mondadori l’edizione italiana basata sul
manoscritto originale delle Memorie, scrisse un saggio Il vero C., Mursia e
molti articoli sull'argomento. Scrive C.
in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che
scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il
vero C., Mursia). Tra le altre si veda
Margherita Sarfatti, C. contro Don Giovanni, ed. Mondadori, citata in. La tesi è esposta in modo articolato da
Francis Lacassin (Jacques C. de SeingaltHistoire de ma vie. Ed. Robert Laffont,
I, Préface). Di questo avviso Piermario
Vescovo (Il mondo di Giacomo C., ed. Marsilio 1998, citato in bibl.).
Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale
esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione
(Giacomo C. tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Olschki). In sostanza è
stato osservato che Da Ponte e C. si conoscevano e frequentavano, che C. era
certamente presente a Praga nei giorni che precedettero la prima, che sia lui
che Mozart erano massoni, che una serie d'incidenti aveva procrastinato la
rappresentazione, costringendo a varie modifiche del testo per manifesta
insoddisfazione di alcuni cantanti, che C. era stato sempre molto vicino per
gusti e frequentazioni al mondo teatrale e autore egli stesso di opere di
teatro quindi perfettamente in grado di apportare le modifiche necessarie.
Inoltre sembra assai improbabile che, rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare
varianti al testo del libretto per puro passatempo. Sull’argomento si veda lo studio di Furio
Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève Année. In cui vengono
minuziosamente riferite le ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio
vaticano. Lettere a G.C. raccolte da Aldo Ravà, Il mondo di Giacomo
C., Venezia, Marsilio, C., la passion de la liberté, Parigi, Coédition
Bibliothèque nationale de France / Seuil, Robert Abirached, C. o la dissipazione,
Palermo, Sellerio, Louis Jean André, Memoires de l'Academie des sciences,
agriculture, arts et belles lettres d'Aix. Tome 6. Aspects du XVIIIe siecle
aixois, Aix-en-Provence, Ed. Académie d'Aix, Maurice Andrieux, Venise
au temps de C., Paris, Hachette, Archi, I giorni mantovani di Giacomo C., Mantova,
Sometti, Luigi Baccolo, C. e i suoi amici, Milano, Sugar, Luigi Baccolo, Vita
di C., Milano, Rusconi, Orazio Bagnasco, Vetro, Milano, Mondadori, Elio
Bartolini, C. dalla felicità alla morte, Milano, Mondadori, Elio Bartolini,
Vita di Giacomo C., Milano, Mondadori, Bergreen, C., The World of a Seductive
Genius, New York, Simon et Schuster, Alberto Boatto, C. e Venezia, Bari,
Laterza, Virgilio Boccardi, C.. La Venezia segreta, Venezia, Filippi editore, Virgilio
Boccardi, C.. La fine del mio mondo, Treviso, Canova editore, Ettore Bonora, Letterati memorialisti e
viaggiatori del Settecento, Napoli, Riccardo Ricciardi, Annibale Bozzòla, C.
illuminista, Modena, Editrice modenese, Bozzolato, C.: Uno storico alla
ventura. Istoria delle turbolenze della Polonia, Padova, Marsilio, Bozzolato,
Proposta per una revisione storiografica: Giacomo C., Bari, Dedalo, Giampiero
BozzolatoBoranga, Nuovi contributi agli studi casanoviani, Bari, Dedalo,
Brunelli, Un'amica del C., Palermo, Sandron, Bruno Brunelli, Figurine padovane
nelle Memorie di Giacomo C., Padova, Penada, Bruno Brunelli, Vita di Giacomo C.
dopo le sue memorie (edizione postuma Furio Luccichenti), Roma, Intermédiaire
des casanovistes,Cagli, Giacomo C. e la medicina del suo tempo, Roma, Armando
Editore,Silvio Calzolari, C. Vita, Amori, Mistero di un libertino veneziano,
Milano, Luni Editrice, Bruno Capaci, Le
impressioni delle cose meravigliose. Giacomo C. e la redenzione imperfetta
della scrittura, Venezia, Marsilio, Capaci, Simeoni, Giacomo C.: una biografia
intellettuale e romanzesca, Napoli, Liguori, Carcassi, C., anatomia di un
personaggio, Sassari, Carlo Delfino, Celi, Santangelo, C. per giovani italiani,
POMBA, Giuseppe Cengiarotti, Gli ultimi anni di Giacomo C. in Boemia. Note
storich, Firenze, Atheneum, Ivo Cerman, Susan Reynolds, Diego Lucci, C.
einlightment philosopher, Oxford, Piero
Chiara, Il vero C., Milano, Mursia, Ciliberto, Biblioteca laica. Il pensiero
libero dell'Italia moderna (Giacomo C.), Bari, Laterza, Giovanni Comisso, Agenti
segreti di Venezia, Milano, Bompiani, A. Compigny des Bordes, C. et la marquise
d'Urfé: la plus curieuse aventure galante du XVIII siècle: d'après les mémoires
et des documents d'archives inédits: Paris, Librairie ancienne H. Champion, E.
Champion, Dominique Cornez-Joly, La Venise de C.: Itinéraires d’aujourd’hui
dans la ville d’autrefois, Venezia, Lineadacqua, Stefano Cosma, Il castello di
Spessa a Capriva del Friuli, una lunga vacanza di Giacomo C., Mariano del
Friuli, Edizioni della Laguna, Benedetto Croce, Personaggi casanoviani in
Aneddoti e profili settecenteschi, Palermo, Sandron, Carlo Curiel, Gustavo
Gugitz; Aldo Ravà, Patrizi e avventurieri, dame e ballerine in cento lettere
inedite o poco note, Milano, Corbaccio, Carlo Curiel, Trieste settecentesca,
Palermo, Sandron, Cvetaeva, Phoenix, Milano, Archinto, Lorenzo Da Ponte,
Memorie, Milano, Garzanti, Damerini, C. a Venezia, Torino, ILTE,Alessandro
D'Ancona, Viaggiatori e avventurieri, Firenze, Sansoni, Alessandro D'Ancona,
Casanoviana, Roma, Crescenzi Allendorf, Charles Joseph de Ligne, Aneddoti e ritratti,
Palermo, Sellerio, Michel Delon, Album C..
Iconographie commentée, Parigi, Gallimard, Delon, Michèle
Sajous D'Oria, C. à Venise des mots et des images, Venezia, Lineadacqua, Michel
Delon, C.. Histoire
de sa vie, Parigi, Gallimard, Federico Di Trocchio, Romano Forleo, C. e le
ostetriche, Torino, Centro scientifico, M. A. Fabbri Dall'Oglio, A. Fortis, Il
gastronomo errante Giacomo C., Roma, Ricciardi et Associati, Stefano Feroci,
Sulle orme di C. nel Granducato di Toscana, Signa, Masso delle Fate Edizioni, Feroci,
Vibrac, Une promenade à Paris avec Giacomo C., Fiesole, Duepi, Giorgio
Ficara, C. e la malinconia, Torino, Einaudi, Lydia Flem, C.. L'uomo che amava
le donne, davvero, Roma, Fazi, Louis Furnberg, Mozart e C., Palermo, Sellerio, Gervaso,
C., Milano, Rizzoli, Cinzia Giorgio, Storia Erotica d'Italia, Roma, Newton
Compton, Luca Goldoni, C. romantica spia, Milano, Rizzoli, Kathleen Ann González, A Venezia con C.
(edizione italiana Adriano Contini e Tiziana Businaro), Venezia, Supernova, Herman
Hesse, La conversione di C., Milano, Guanda, Gert Hofmann, C. e l'attrice,
Parma, Guanda, Hugo von Hofmannsthal, L'avventuriero e la cantante, Milano, Toni
Iermano, Le scritture della modernità, Napoli, Liguori, Isenberg, Memmo, mon
cher frére, Treviso, Elzeviro, Joseph Le
Gras, C., Napoli, S/A Cooperativa Editrice Libraria, Marco Leeflang, Utrecht,
Marie-Françoise Luna, Grenoble, Trampus, Trieste, Lettres de Francesca Buschini
à G. C., Mainardi, Il demone di C., Roma, Tre editori, Mainardi, C. l'ultimo
mistero, Roma, Tre editori, Michele Mari, L'histoire de ma vie di Giacomo C., Dip.
di Filologia Moderna, Letteratura italiana. Quaderni di Acme, Milano, Cisalpino,
Jacques Marsan, Sui passi di C. a Venezia, Milano, Idealibri, Achille
Mascheroni, C., liturgia della seduzione, Milano, Greco et Greco, Meucci, C.
finanziere, Milano, Mondadori, Andrei Miller, C. innamorato, Milano, Bompiani, Pompeo
Molmenti, Epistolari veneziani del secolo XVIII, Palermo, Sandron, Pompeo
Molmenti, Carteggi casanoviani. Vol I, Lettere di G. C. e di altri a lui.
Palermo, Sandron, Pompeo Molmenti, Carteggi casanoviani. Vol II, Lettere del
patrizio Zaguri a G.C.. Palermo, Sandron, 1918. Federico Montecuccoli degli
ErriCammei casanoviani. Ginevra 2006. Roberto Musì, Francesco Musì, Bernardino
de Bernardis, Vescovo calabrese europeo, Cosenza, Luigi Pellegrini, Giacomo
Nanni, C.: histoire de ma fuite, Parigi, Ed. de l'Olivier, Cornélius, Vittorio
Orsenigo A Giacomo C.. Lettere d'amore
di Manon BallettiElisa von der Recke, Milano, Archinto, Giuseppe Ortolani, Voci
e visioni del Settecento veneziano (TXT), Bologna, Zanichelli, Sandro Pasqual,
L'intreccio, C. a Bologna, Faenza, Tratti/Mobydick, Maurizio Pincherle, Luoghi
ed itinerari sentimentali di Giacomo C., Leipzig, Edito dall'autore, Gilberto
Pizzamiglio, Giacomo C. tra Venezia e l'Europa, Firenze, Leo S. Olschki, Aldo
Ravà, Lettere di donne a G. C., Milano, Fratelli Treves, Emilio Ravel, L'uomo
che inventò se stesso, Milano, La Lepre Edizioni, Childs, C., Milano, AREA, James
Rives Childs, Casanoviana. An annotated world bibliography, Vienna, Nebehay,
Rorato, Giacomo C., avventuriero, scrittore e agente segreto, Vittorio Veneto,
Dario de Bastiani, Bruno Rosada, C. e il suo contrario, Dosson di Casier
(Treviso), Matteo, Bruno Rosada, Il Settecento veneziano. La letteratura (cap.
IX, Giacomo C., Venezia, Corbo e Fiore. Maxime Rovere, C., Parigi, Gallimard, Ruozzi,
Quasi scherzando, percorsi nel Settecento letterario da Algarotti a C., Roma,
Carocci, Charles Samaran, Jacques C., Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII
siècle, Parigi, Calmann-Lévy. Margherita Sarfatti, C. contro Don Giovanni,
Milano, Mondadori, Scaraffia, Il mantello di C., Palermo, Sellerio, Arthur
Schnitzler, Il ritorno di C., Milano, Adelphi, Arthur Schnitzler, Le sorelle
ovvero C. a Spa, Milano, Einaudi, Riccardo Selvatico, Cento note per C. a
Venezia, Vicenza, Neri Pozza, Francesca Serra, C. autobiografo, Venezia, Saggi Marsilio,
Francesco Sgarlata, I pensieri di C. Vademecum del libertino contemporaneo,
Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna, Philippe Sollers, Il mirabile C.,
Milano, Il saggiatore, Lorenzo Somma, C.. Il seduttore, l'artista, il
viaggiatore, Villorba, edizioniAnordest, Antonio Valeri, C. a Roma, Roma,
Enrico Voghera Editore, 1899. Sebastiano Vassalli, Dux, C. in Boemia, Torino,
Einaudi, Jean-Didier Vincent, C. il contagio del piacere, Venezia, Canal et Stamperia
Editrice, Eugenio Vittoria, G. C. e gli Inquisitori di Stato, Venezia, EVI, Angelandrea
Zottoli, Giacomo C., Roma, Tumminelli, Stefan Zweig, Tre poeti della propria
vita: C., Stendhal, Tolstoj, Milano, Sperling et Kupfer, Muratore, l'uomo dai mille volti, Monteleone
editore Vibo Valentia,. Nicola Mangini, C., Giacomo, in Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Consultazione del
manoscritto originale dell'Histoire. Il ministro francese della cultura,
Frédéric Mitterrand, ha annunciato l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e
degli altri carteggi di proprietà di Hubertus Brockaus, da parte della
Bibliothèque nationale de France. Il manoscritto può essere consultato qui.
Riviste di studi casanoviani C. Gleanings, John Rives Childs. L'intermédiaire
des casanovistes, M. Leeflang (Utrecht), F. Luccichenti (Roma), M.F. Luna
(Grenoble), E. Straub (Berlino), A. Trampus (Trieste), T. Vitelli (Salt Lake
City), H. Watzlawick (Vernier). Casanoviana. Rivista internazionale di studi
casanoviani, Trampus, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati,
Università Ca' Foscari Venezia, Ca' Bembo.
Libertino (personaggio) Storia della mia fuga dai Piombi Manon Balletti
Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco C. Gaetano C. Giovanni Battista C.
François-Joachim de Pierre de Bernis Zanetta Farussi Grimani Charles Joseph de
Ligne Andrea Memmo Louise O'Murphy Giustiniana Wynne Pietro Antonio Zaguri
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo C., in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Giacomo C., su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera.
Giacomo C., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Giacomo C.,
su The Encyclopedia of Science Fiction. Giacomo C., su Find a Grave. Opere di Giacomo C., su Liber Liber. Opere di Giacomo C., su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Opere di Giacomo C., su
Progetto Gutenberg. Audiolibri di Giacomo C., su LibriVox. di Giacomo C., su Internet Speculative
Fiction Database, Al von Ruff. Giacomo C., su Internet Movie Database,
IMDb.com. Manoscritto originale
dell'Histoire de ma vie su Gallica, su gallica.bnf.fr. Sito della BNF con notizie sul manoscritto e
iconografia, su expositions.bnf.fr.
Testo dell'Histoire de ma vie edizione 1880, su
www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di C.
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche
sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la
massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli
incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con
almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe
legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare
prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a C. l'espulsione del
seminario. Ma il numero di uomini con cui C. e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui C.
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di C.. L’ultimo amore di C.: Una
grande storia d'amorebooks.google.com › books· Bertolini · FOUND INSIDE ai
tempi di Padova e ai giorni delle lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva
istruito con amore per avviarlo al sacerdozio, e con un po' più di passione e
di attenzione se lo era portato a letto per iniziarlo alla pratica omosessuale
che C. si... – Grice: “Casanova was what I regard as a philosopher of sex. He fell for Bellino, an alleged castrato. In bed with him, Bellino tells him that his name was
Teresa and that her penis was an artificial phallus. Bellino had died years
before but people wanted a castrato, not a girl with a girl’s voice – and she
added that working on the side as a harlot, she found that most clients rather
she be a ‘he’!” -- Grice: “His first experience was with a Venetian nobleman;
his second one cost him the expulsion from the seminary – Altham alleges he
(Casanova, not Altham) slept with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s
favourite is the description of the ‘erotical game’ as masked in Venice. Nome
compiuto: Giacomo Casanova. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Casanova: conversazione sessuale,
conversazione e conversazione,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Casati: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Eurialo -- ovvero,
dell’amicizia – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casati;
he is from Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or
‘clever’” – His dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that
there’s ‘man,’ and “man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but
the idea stands for the thing, and the expression stands for the thing that
stands for the thing! But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of
Oreste’s alter ego, ‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a
typical Renaissance man of a philosopher, as he should!” Studia a
Milano con Bonomi. Pubblica la raccolta di racconti filosofici Il caso
Wassermann e altri incidenti metafisici (Laterza). Si occupa di
fenomenologia dello spazio e degli oggetti. Analizzato la rappresentazione di
questi due elementi secondo il senso comune. Buchi e altre superficialità
(Garzanti), e Semplicità insormontabili (Laterza). Buchi e altre
superficialità è un tentativo di analizzare i diversi tipi di buco, superando
il paradosso di classificare un elemento che evoca l'assenza, il vuoto e il
nulla. Utilizza strumenti di filosofia della percezione, geometria, logica e
topologia, ma anche linguistica e letteratura. Un esperimento epistemologico
che dimostra come l'esperienza e il linguaggio quotidiani si trasformino quando
diventano oggetto di un'indagine filosofica e di una formalizzazione
scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso quotidiano, diventa
sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi si annoverano la
teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la teoria
'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica analitica:
la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione spaziale
immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli oggetti
materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella metafisica
del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle ombre e il loro
contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali grazie alla scoperta
di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre (ombre corrette che
appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette), scoprendo o
prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione "copycat",
l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la cattura delle ombre,
le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le ombre di oggetti non
materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il modo in cui l'ombra è
stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il ragionamento
geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra). Un'altra
linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati principali in
questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per le mappe, una
sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la teoria dei
"micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una teoria
generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore di un
progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità
insormontabili: 39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri
incidenti metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi
di immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia,
Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente
diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo,
Einaudi). Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI
UNA TEORIA DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e
definizione. Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA
VISTA E L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto
visivo. Ombra. Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti
materiali: la nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE
E PERCEZIONE DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed
immagine. L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il
problema dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore
della teoria della somiglianza Somiglianza e rappresentazione.
Alcuni casi limite. Contro la teoria della somiglianza. La complessità della
percezione dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in.
LO SPAZIO NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione
canonica e scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun
luogo. QUADRO E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie
percettiva. L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario
iconografico. Quadro ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio
nel quadro. Alcuni esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE.
Contesto di interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza
iterata. Cornice e finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione
ridondante. I CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di
Escher e il fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte:
rappresentare e immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia
estetica. IL PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella
materialità. La geometria dell'espressione. La dissoluzione della
rappresentazione. Lo Stilo rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di
esplicitazione. L'IMMAGINE E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la
comunicazione. Critica. Riferimento e generalità. La teoria che Grice e
Casati propongono può chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la
conversazione -- ma ‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati
alternativi. La teoria di Grice e C. sostiene che un artefatto (segno
artificiale, non-naturale -- 'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo
precipuo essere ri-conosciuto come emesso in base all’intenzione di profferire
una espressione che... – dove si può immaginare vari modi di riempire lo spazio
lasciato vuoto dai puntini di sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto
è il seguente. Una emissione conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo
di essere riconosciuti come creati in base all’intenzione di creare un oggetto
che servisse a suscitare una qualche conversazione sulla loro produzione.
Cominciamo con lo sgombrare il campo da possibili equivoci. Un’obiezione
semplice è che “molte cose vengono create con lo scopo di suscitare una
conversazione, e queste non sono opere d’arte, come per esempio la produzione
di gesti che conducono alla disseminazione di pettegolezzi, o affermazioni
roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel segno in quanto la teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale non dice che le opere d’arte vengono
create con l’intenzione di suscitare una conversazione. Di fatto la teoria è
compatibile con l’ipotesi che le opere d’arte non vengano create con
l’intenzione di suscitare una conversazione. L’intenzione pertinente è
un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che vengano riconosciuti (per
esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche) come creati allo scopo di
suscitare una conversazione. È irrilevante per la soddisfazione di questa
intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una conversazione, o se una
conversazione venga poi effettivamente suscitata 4. Vediamo subito anche alcune
conseguenze immediate, tenendo presente il fatto che i due competitori diretti
della teoria sono la teoria della comunicazione e quella dell’intenzione
artistica, laddove la prima compete sull’aspetto sociale, e la seconda in
quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria metacognitiva dello spunto
conversazionale i prodotti artistici non servono per una “comunicazione”
semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di “messaggi” nel senso
della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti che hanno un legame
preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi, anche se sono oggetti
utilitari, devono far coesistere questo fatto con una sovrapposizione di altri
elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto all’interno di un contesto
sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto di discussione in quanto
sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette di inquadrare alcuni dei
fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non dice che l’artista debba
creare l’opera sulla base della formulazione di un’intenzione di inserirsi in
una conversazione specifica (che è molto probabilmente quella comune nella sua
epoca), ma dice piuttosto che l’opera deve essere in grado di esser vista come
creata allo scopo di inserirsi in una conversazione qualsiasi. Questo fatto
impone dei vincoli importanti sulla struttura delle opere d’arte. Si tratta di
oggetti che devono portare dei segni chiari dell’intenzione che li ha animati.
La teoria metacognitiva sembra tagliata su misura per performances artistiche
come le opere di Duchamp. In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono
particolarmente interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti
di tutte le opere d’arte. La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono
a sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto
molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici
contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di
essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non
dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai
parametri generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una
conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile
conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente
dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il
prodotto all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria
spiega perché le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono
venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla comunità originale del
creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che
hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare
la novità - attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da
artefatti utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro
forma apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la
possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è
riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed
economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per
essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione
per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti
artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la
maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte
e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli
artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state
scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di
interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva
riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata
l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria
spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso
dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero
dell'arte.) Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da C. Spiega
l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose siano considerate
arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci con un fondamento
nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo oggetto massimalmente
“conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti amano parlare del
loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è particolarmente arduo da
spiegare in una teoria della comunicazione o dell’espressione). La teoria
spiega perché i quadri hanno le etichette e i pezzi di musica dei titoli. La
teoria spiega perché le opere d’arte vengono acquistate senza alcun riguardo
per l’autore, come inviti alla conversazione scollegati dalla persona
dell’autore. La teoria è compatibile con svariate strategie che possono venir
messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che è alla base dell’opera vada
a buon fine: sospensione delle routines (Bullot), esposizione in spazi
privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria ipotizza che gli artisti
producano con un occhio di riguardo alle possibili conversazioni sulla loro
opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto immediato, il problema
dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono oggetti creati con lo
scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La clausola principale è
metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione appropriata di creare
un’opera che sia riconoscibile come... La clausola esclude casi in cui certi
artefatti siano di fatto moneta per lo scambio conversazionale, come le teorie
matematiche, senza essere opere d’arte. Dove interviene lo studio della
cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto che non tutti i soggetti
sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire spunti per la
conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo dell’intenzione
meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni empiriche sul
contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di ricerca, una
antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo in questa
direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo? Conclusione
La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta un’ipotesi che
cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su che cosa è
un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti artistici e
all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano. Anche se è una
teoria che si situa nella regione della dipendenza della risposta, non non è
una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche sono un tipo di
risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti non artistici.
Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe aspettare di
fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte del 19
riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto resta
un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che considera
le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la cui forma
dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione di
controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio. L'arte come idea e come
esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica. Rome’s national epic displays a tendency to treat sex and love. The pair
of Trojan warriors Nisus and Euryalus are cast in the roles of erastes and
eromenos. Virgil’s narrative of the two valorous young Trojans has, of course,
various thematic functions and will have resonated in various ways for a roman
readiership. Here I focus on only one aspect of the narrative, namely the
eroticization of their relationship, in he interests of esplong wha this text
might suggest about the pre-conceptions of its Roman readership. See Makowski
for an overview of ancient and modern views of the pair, along with arguments
for describing them as erastes and eromenos on the Greek model (Makowski finds
particular parallels with Plato’s Symposium). For literary discussions of Nisus
and Euryalus that take as their starting point the erotic nature of their
relationship see Williams, Lyne, and Hardie). Bellincioni,
‘Eurrialo’ in Enciclopedia Virgiliana (Roma), observing that Virgil has added
tdhe motif of their friendship to his Homeric models summarses thus: “L’AMORE
CHE UNISCE EURIALO E NISO E UN SENTIMENTO INTERMEDIO FRA L’AMCIZIA E LA
PASSIONE PUR NELLA SUA PUREZZA, TENDE ALL’EROS. COMNQUE E PASSIONE CHE SI PONE
FINE A SE STESSA E NON SI SUBIRDINA A PRINCIPI MORALI, COME LA SLEALTA SPORTIVA
DI NISO NEL 5o CHIARAMENTE DIMOSTRA. Bellincione
cites Colant, ‘Le’peisode de Niuses et Euryale ou le poeme de l’amitie, LEC,
19, 89-100. IThe pair of Trojan warriors Nisus and Euryalus are
cast in the roles of erastes and eromaneos. Virgil’s narrative of the two
valourus young Trojans has, of course, various thematic functions and will have
resonated in various ways of a Roman readership. Here I focus on only one
aspect of the narrative, namely the eroticiation of their relation Niso ed
Eurialo are first introduced in the funeral games in Book 5. ‘Nisus et Euryalus
primi, Eurialus forma insignis viridique iuventa, Nisus ammore pio pueri’ (Vir.
Aen.). ‘First came Nisus and Euryalus: Euryalus outstanding for his beauty and
fresh yourhfulness, Nisus for his deveted love for the boy’. During the ensuing
footrace, Nisus indulges ia a questionably bit of gallantry: starting off in
first place, he slips and falls in the blook of sacrificed heifers, then
deliberately trips the man who was in second place, in order the Euryalus may
come up from behind an win first place. Non tamen Euryali, non ille oblitus
amorum (Vir. Aen. -- ‘He was not forgetful of his love Euryalus, not he! (The
plural AMORES is ordinarily used of one’s sexual partner, one’s LOVE in that
sense 0- Liddell Scott ic. Virgil himself uses the word in the plural to refer
to a bull’s mate at Georgics. Indeed, Servius, ad Aen. writing in a different
cultural climate, was worried by precisely thiat fact, observing that OBLITUS
AMORUM AMARE NEC SUPRA DICTIS CONGRUE: AIT ENIM AMORE PIO PUERI, NUNC AMORUM,
QUI PLURALITER NON NISI TURPITUDINEM SSIGNIFICANT. Virgil’s phrase, OBLITUS
AMORUM contradicts his earlier AMORE PIO PUERI because AMORES in the plural
‘can only SIGNIFY SOMETHING DISGRACEFUL’ Whereas the description of Nisus’s
love for the boy as PIUS apparently precludes, for Servius, PHYSICALITY. ‘ The
two Trojans reappear in a celebrated episode from Book 9, when they leave the
camp at night in an effort to break through enemy lines and reach Aeneas. They
succeed in killing a number of Italian warriors, ut eventually are themselves
both killed. Euryalus first and then his companion, who, after being morally
wounded, flings himself upon Euryalus’s body. The episode beings with this
description of the pair. Nisus erat portae custos, acerrimus armis, Hyrtacides,
comitem Aenea quem miserat Ida venatrix iaculo celerem levibusque sagittis; et
iuxta comes Euryalus, quo pulchrior alter non fuit Aenaedum Troiana neque
induit arma, ora puer prima signans intonsa iuventa. His amor unus erat pariterque in bella ruebant. Vir. Aen. Nisus, son of Hyrtacus was the guard of the gate, a most fierce warrior,
swift with the javeling and with nimble arrows, sent by Ida the huntress to
accompany Aeneas. And next to him was his companion Euryalus. None of Aeneas’s
followers, none who had shouldered Trojan weapons, was more beautiful: a boy at
the beginning of youth, displaying a face unshaven. These two shared one love,
and rushed into the fightin side by side. Virgil’s wording is decorous but the
emphaisis on Euryalus’s youthful beauty and particularly the absence of a beard
on his fresh young face, as well as the comment that the THWO SHARED ONE LOVE
and fought side by side – imagery that is repeated from the scene in Book 5 and
is continued throughout the episode in Book 9 – is noteworth For Euryalus’s youth, cf. 217, 276 (puer) and
especially the evocation of his beauty even in death (433-7, language which
recalls the erotic imagiery of CATULLUS and Sappho – Lyne, For their INSEPARABILITY, cf. 203: TECUM
TALIA GESSI and 244-5 (VIDIMUS … VENATU ADSIDUO. Note: NEVE HAEC NOSTRIS
SPECTENTUSR AB ANNIS QUAE FERIMUS, 235-6, CONSPEXIMUS. 237. how Nisus gallantly
presents his plan to the assembled troops NOT AS HIS OWN Bt as his AND
EURYALUS’S (235-6: Likewise the question
that Nisus asks Euryalus when he first proposes the plan t o him has suggestive
resonances: DINE HUNC ARDOREM MENTIBUS ADDUNT EURYALE, AN SUA CUIQUE DEUS FIT
DIRA CUPIDO? Aen 9 184-5. Cf. Makowsky, p. 8 and Hardie, p. 109. For the phrase
DIRA CUPIDO, compare DIRA LIBIDO at Lucretius (De natura rerum, concerning
men’s desire TO EJACULATE and muta cupido. Euryyalus, is it the gods who put
this yearning (ardor) into our minds, or does each person’s grim desire (dira
cupido) become a god for him?” In addition to its ostensible subject (a desire
to achieve a military eploit), Nisus’s language of yearning and desire could
also evoke the dynamis of an erotic relationship. So too the poet’s depiction
of Nisus’s reaction to seeing his young companion captured by the enemy is
notable for its emotional urgency and its portrayal of Nisus’s intensely
protective for for the youth. Tum vero exterritus,
amens, conclamat Nisus nec se celare tenebris amplius aut tantum potuit
perferre dolorem. Me, me, adsun qui feci, in me convertite ferrum, o Rutuli,
mean fraus omnis, nihil iste nec ausus nect potuit, caelum hoc et conscia
sidera testor, tantum infeliciem nimium dilet amicum, VIRGILIO (si veda), Æn. Then, terrified out of his mind, unable to hid himself any longer in the
shadows or to endure such great pain, Nisus shouts out: “ME! I am the one who
did it! Turn your weapons to me, Rutulians! The deceit was entirely mine, HE
was not so bold as to do it; he could not have done it. I swear by the sky
above and the stars who know: the only thing he did was to love his unahappy
friend too much. There is, in short, good reason to believe that Virgil’s Nisus
and Euryalus, whose relationship is described in the circumspect terms
befitting epic poetry, would have been UNDERSTOOD by his Roma readers as
sharing a SEXUAL bond, much like the soldiers in the so-called SACRED BAND of
Thebes constituted of erastai and their eromenoi in fourth-century B. C. Greece.
Note also that “meme … figis?” seems to echo Dido’s words to Aeneas at 4.314
(mene fugis?. So too Makowski and 9.390-3 )Euryale infelix, qua te regione
reliqui? Quave sequar? Rurus perplexum iter omne revolves fallacis sylvae simul
et VESTIGIA RETRO observata legit dumisque silentisu errat) might recall the
scene were Aeneas loses Creusa a t the end of Book 2. Haride p. 26) points to
parallels with the story of Orpheus and Euryide in the Georgics, as well as as
to that of Aeneas and Crusa in Aeneid 2. For the Sacred Band of Thebes, see
Plut, Amat. Pelop, Athen. and the probable allusion at Pl. Smp. When Nisus,
mortally wounded, flings himself upon his companion’s lifeless body to join him
in death, the narrator breaks forth into a celebrated eulogy. Tum super exanimum
sese proiecit amicum confossus, placidaque ibi demum morte quievit. Fortuanati
ambo! Si quid mean carmina possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo,
dun domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus
habebit. (Vir. Aen.). Then he hurdled himself, pierced through
and through, upon his lifeless friend, and there at last rested in a peaceful
death. Blessed pair! If my poetry has any power, no day shall ever remove you
from the remembering ages, as long as he house of Aenea dwells upon the
immovable rok of the Capitol, as thlong as the Roman father holds sway. The
praise of the two loving warriors joined in death ould hardly be more stirring
– cf. Wiliams, 205-7, Lyne, 235, for their ‘elegiac union of LOVERS IN DEATH’
he adduces Pr0.18 – AMBOS UNA FIDES AUFERET, UNA DIES, and Tibull. 1 1 59-62 as
parallels. op. 2.2, and the language coulnt NOT BE MORE ROMAN. And Virgil’s
words obviously made an impression among those who wished to EXPRESS FEELINGS
OF INTIMACY AND DEVOTION IN PUBLIC CONTEXTS, for we find his language echoied
in funerary instricptions for a husband and his wife as well as for a woman
praised by her male friend. The inscription on a joint tomb of a grandmother
and gradauther explicitly likens them to Nisus and Euryalus. CLE = CIL, husband and wife: FORTUNATI AMBO – SI
QUA EST, EA GLORIA MORTIS QUO IUNGIT TUMULUS, IUNXERAT UT THALAMAS; CLE 491 =
CIL: a woman praised by her male friend: UNUS AMOR MANSIT PAR QUOQUE VIDA
FIDELIS. Cf. Aen. 9. 182. HIS AMOR UNUS ERAT PARITERQUE IN BELLA RUEBANT.
CLE granddaumother and granddaughter:
SIC LUMINE VERO, TUNC IACUERE SIMUL NISUS ET EURIALUS. So too Senece quotes the lines as an
illustration of the fact that great writers can immortalize people who
otherwise would have no fame: just as Cicero did for Atticus, Epicurus for
Idomeneus, and Seneca himself can do for Lucilius (an immodest claim but one
that was ultltimately borne out), so ‘our Virgil promised and gave and
everlasting memory to the two,’ whom he does not even bother to name, so
renowned had the poet’s words evidently become (Senc. Epist. 21.5
VERGILIUS NOSTER DUOBUS MEMORIAM AETERNAM PROMISIT ET PRAESTAT; FORUTATI AMBO
SI QUI MEA CARIMA POSSUNT. It is revealing that sometimes
Porous boundary in Roman tets between wwhat we might call friendship and
eroticism among males – and overlaps I hope to discuss in another context –
that Ovid citest Nisus and Euryalus as the ULTIMATE EMBODIMENT OF MALE FRIENDSHIP,
putting them in the company of THESEUS AND PIRITUOUS, ORESTES AND PYLADES
ACHILESS AND PATROCLUS, Tristia but the relationship between ACHILEES AND
PATROCLUS, at least, was openly described as including a sexual element by
classical Greek writers (see n. 92), and with characteristic cluntness by
Martial (11.43), wh cjites the pair as an illustration of the special pleasures
of anal intercourse. The relationships between Cydon and CClytius, Cycnus and
Phaethon, and Juupiter and Ganymede (on Eneas’s shield) all demonstrate that
pedersastic relationships enjoy a comfortable presence in the world of the
Aeneid. Niusus and Euryalus are thus HARDLY ALONE. Some scholars have even
detected an EROTIC ELEMNET in Virgil’s depiction of the relationship between Aeneas
and Evander’s son Pallas. See e. g. Gillis, Putnam, and Moorton. Erasmo and
Lloyd have independently described erotic elements in the relationship between
the young Evander and Anchises, a relationship that, they argue, is then
replicated in the next generation, with Pallas and Aeneas. But their relationship is more complex than
the rather straightforward attraction of Cydon for beautiful boys, of Cycnus
for the well-born young Phaethon, and even of Jupiter for Ganymede. For while
those couples conform unproblematically to the Greek pedrerastic model (one
partner is older and dominant, the other young and sub-ordinate), Nisus and
Eurialus only do so AT FIRST GLANCE. AS the poem progresses they are
transformed from a Hellenic coupling of Erastes and eromanos into a pair of
ROMAN MEN (VIRI). The valosiging distinctions inherent in the pederstaist
paradigm seem to fade with the Roman’s poet remark that the rwo rushed into war
side by side (PARITER – PARITERQUE IN BELLA RUEBANT Vir Aen 9. 182), and they
certainly DISAPPEAR when the old man Aletes, praising them from their bold
plan, addresses the TWO as VIRI (QUAE DIGNA, VIRI, PRO LAUDIBUS ISTIS, PRAEMIA
POSSE REAR SOLVI, 252-3, whe an enemy
leader who catches a glimpse of them shoults out, “Halt, men!” (STATE VIRI,
376), and most poignantly, when the sight of the two “MEN’S” severed heads
pierced on enemy spears stuns the Trojan soldiers. SIMUL ORA VIRUM PRAEFIXA MOVEBANT NOTA NIMIS MISERIS ATROQUE FLUENTIA TABO
471-2 . In other words, although Euryalus is the junior
partner in this relationship, not yet endowed with a full beard and capable of
being labeled the PUER, his actions prove him to be, in the end, as much of a
VIR, as capalble of displaying VIRTUS – as his older lover Nisus. There is a
further complication in our interpretation of the pair, and indeed all the
pederstastic relationships in the Aeneid. Virgil’s epic is of course set in the
MYTHIC PAST and cannot be taken as direct evidence for the cultural setting of
Virgil’s own day. Moreover, the poem is suffused with the influence of Greek
poetry. Thus, one might argue that the rather elevated status of pedersastic
relationships in the Aeneid is a SIGN merely of the DISTANCES both cultural and
temporal between Virgil’s contemporaries and the character s of his epic. Yet,
while the influence of Homer is especially strong in these passages of battle
poetry (Virgil’s passing reference to Cydon’s erotic adventures echoes the
Homeric technique of citing some touching details about a warrior’s past even
as he is introduced to the reader and summarily killed off), is is a
much-discussed fact that there are no UNAMIBUOUS, diret references in the
Homeric epics to pedersastic relationships on the classical model. The relationship
between ACHILLES AND PATROCLUS was understood by later Greek writers to have a
seual component see e. g. Aesch. F.r.
Nauck – from the Myrmidons), Pl. Symp. 180a-b, Aeschin. 1.133, 141-50,
Lyne, p. 235, n. 49, crediting Griffin, adds Bion 12 Gow. But the test of the
Iliad itself, while certainly suggesting a passionate and deeply intense bond
between the two, does not represent them in terms of the classical pederastic
model. See further, Clarke, Achiles and Patroclus in Love, Hermes, Sergent, and
Halperin. Virgil might thus be said to ‘out-Greek’ Homer in his description of
Cydon. G. Knauer, Die Aeneis und Homer, Gottingen, cites no Homeric parallel
for these lines. And yet the pederastic relationships in the Aeneid occur NOT
AMONG GREEKS but rather among TROJANS AND ITALIANS, two peoples who are
strictly distinguished din the epic from the Greeks, and who,more importantly,
together constitute the PROGENTIROS of the roman race. Cf. Turnus’s rhetoric
based on sharp distinctions among the Trojans, Greeks, ndnd Italians, and the
weighty dialogue between Jupiter and June where it is agreed that Trojans and
Italians will become ONE RACE. Virgil’s readers found pederstastic
relationships ina n epic on their people’s orgins, and temporal gap or no, this
would have been unthinkable in a cultural context in which same-se
relationships were universally condemned or deeply problematized. But is it
still not the case that, since Nisus and Euryalus are freeborn Trojans, Virus,
and perhaps also Aeneas and Pallas. Significalntly, though, the arua of a
male-female relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas
with the would-be univira Dido. In other words, while a MALE-MALE relationship
that corresponds to what would among among Romans of Virgin’s own day be
considered stuprum is capable of being heroized in the epic, a male-female
relationhship that th etet implicitly marks as a kind of stuprum is not. This
tywo types of relationships in the brates, even glamorizes, a relationship that
in his own day would be labeled as instance sos stuprum? Here the gap between
Virgil’s time and the mythis past of his poem has significance. While, due toe
o their freeborn status, analogues of to Nisus and Euryalus in Virgil’s OWN DAY
could not have found their relationship SO OPENLY CELEBRATED, they did find
HEROISED ANCESTORS IN NISUS AND EURYALUS, Cydon, and Clutis. And perhaps also
Aeneas and Pallas. Significantly, though, the aura of the mythic past does not
extend so far as to conceal the moral problematization of a male-female
relationship in the Aeneid, namely the doomed love affair of Aeneas with the
would-be univiria Dido. In other words, while a male-male relationship that
corresponds to what would among Romans of Virgil’s own day be considered
stuprum is capable of being heroized in thee pic, a male-female relationship
that the tect implicitly marks as a kind of stuprum is not. The issue is
complex. Dido is of course neither Roman nor Trojan, and thus at first glance
Aeneas’s relationship with her does not constitute stuprum. But since Dido’s
experiences are, in important ways, seen though a Roman filtre, above all, the
commitment to her first husband that makes her a prototypical univira, her
involvement with Aneas (aculpa, constitutes an offense within the moral
framework poposed by the text in a way that the relationship between Nisus and
Euryalus does ot. This distintion revelas something about the relative degrees
of problematization of the two types of relationships in the cultural
environment of Virgl’s readership. ‘Blessed pair! If my poetry has any power no
day shall ever remove you from the remembering ages, as lon as the house of
Aeneas dwells upon the immommovable rock of the Capitol, as long as the Romans
father holds sway.’ One can hardly imagine such grandiose prise of an
adulterous couple ina Roman epic!” Grice: “Niso ed Eurialo are presented as the
epitome of friendship along with Achilles and Patroclus, Ercole e Idi, and
Oreste e Palade. Luigi
Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo". Nome
compiuto: Roberto Casati. Keywords: Eurialo e Niso; ovvero, dell’amicizia, “la
conversazione come arte del negoziato”; teoria conversazionale dell’artifatto,
segno, comunicazione, imagine, intenzione, Grice, Ricominiciamo da capo –
logico, stramaledettamente logico – implicatura come stramaledettamente logica --
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Casati,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Casini: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale de naturismo – il
concetto di natura a Roma – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo
italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like
Casini – he takes, unlike me, physics seriously! But then so
did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did a lot of ‘physical’
rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a Roma sotto
Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con “L'idea di
natura”. I suoi interessi di ricerca in storia della filosofia si
sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze sperimentali
nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e alla
diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a
proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero,
non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in
tale contesto Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue
ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra
rivoluzione scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della
fisica di Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca
philosophia" e "antica sapienza italica", le dispute sorte
attorno al darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe",
Laterza); Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia
newtoniana, Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo,
Laterza -- razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso
ed utopia” (Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il
Mulino); “Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle
origini del Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il
Mulino); Il concetto di creazione (Il Mulino). La lista di
autorità e l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo
Casini. Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito
pitagorico nella cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita,
l'autore segue passo passo le trasformazioni del mito dalla sua prima
incarnazione nella cultura romana alla riscoperta operata nel Rinascimento,
alle discussioni storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni
politiche del Sette-Ottocento. Giuseppe
Bottai o delle ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele
corporativa - La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia –
Espiazione) - 2. Ugo Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi
postidealista - Teorico dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato
Mutevolezza e instabilità Scienza», ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra -
Alla ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la
sociologia (Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione -
«Aristòcrate» - Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione
mancata» - Verso la sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte
e massacri» - Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia -
«Commesso viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra
sordi - Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra
casa e scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj -
Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo
Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità
idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio,
Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della
RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order
Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale
Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a). Like Recommend Bookmark
L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark 10 Zev
Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht:
Kluwer (review) British Journal for the
History of Science The "Enciclopedia italiana". Fringes of ideology
Rivista di Filosofia Political Theory Like Recommend Bookmark Éléments de la
philosophie de Newton (review) British Journal for the History of Science Isaac
Newton Like Recommend Bookmark 10 Rousseau e l'esercizio della sovranità
Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Like Recommend Bookmark 9 Il
momento newtoniano in Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della
Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark 5 Newton in Prussia Rivista di
Filosofia Newton 1 citation of this work Like Recommend Bookmark 27
François-Marie Arouet de Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton,
critical edition by Robert L. Walters and W. H. Barber. The Complete Works
of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire Foundation, Taylor Institution, British
Journal for the History of Science 17th/18th Century French Philosophy Like
Recommend Bookmark Lo spettro del materialismo e la "Sacra famiglia"
Rivista di Filosofia Lumi e utopie in uno studio di Bronislaw Baczko Rivista di
Filosofia The New World and the Intelligent Design Rivista di Filosofia
Anti-Darwinist ApproachesDesign Arguments for Theism Like Recommend Bookmark
Scienziati italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia Kant e
la rivoluzione newtoniana Rivista di Filosofia Kant: Philosophy of Science Like
Recommend Bookmark » Ottica, astronomia, relatività: Boscovich a Roma; «
Rivista di Filosofia Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza;
Like Recommend Bookmark Newton e i suoi
biografi Rivista di Filosofia Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della
Filosofia Italiana L'iniziazione Pitagorica Di Vico Rivista di Storia Della
Filosofia; Like Recommend Bookmark Per
Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques
Rousseau Toland e l'attività della materia Rivista di Storia Della Filosofia
British Philosophy, Misc L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia
Rousseau, il popolo sovrano e la Repubblica di Ginevra Studi Filosofici Il mito
pitagorico e la rivoluzione astronomica Rivista di Filosofia Newton, Leibniz e
l'analisi: la vera storia Rivista di Filosofia; Like Recommend Bookmark
13 Francesco Bianchini und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early Science
and Medicine History of Science Like Recommend Bookmark L'antica Sapienza
Italica Cronistoria di Un Mito. 1998. Pythagoreans Like Recommend
Bookmark 16 Candide, Theodicy and the «Philosophie de l'Histoire» Rivista
di Filosofia La filosofia a Roma Rivista di Filosofia Vico's initiation into
the study of Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia Pythagoreans Topic
Order Teoria e storia delle rivoluzioni scientifiche secondo
Thomas Kuhn Rivista di Filosofia Il
problema D'Alembert Rivista di Filosofia Semantica dell'Illuminismo Rivista di
Filosofia Cheyne e la religione naturale newtoniana Giornale Critico Della
Filosofia Italiana Newton's Physics and
the Conceptual Structure of the Scientific Revolution (review) British Journal
for the History of Science Isaac Newton Like Recommend Bookmark 1 Diderot
and the portrait of eclectic philosophy Revue Internationale de Philosophie
Diderot Like Recommend Bookmark 6 "Magis amica veritas": Newton
e Descartes Rivista di Filosofia Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura
Isedi. 1975. Like Recommend Bookmark Voltaire, la geometria della visione e la
metafisica Rivista di Filosofia Leopardi apprendista: scienza e filosofia
Rivista di Filosofia Studi stranieri sulla filosofia dei Lumi in Italia Rivista
di Filosofia Il metodo di Foucault e le
origini della rivoluzione francese Rivista di Filosofia Rousseau e Diderot
Rivista di Storia Della Filosofia Diderot « philosophe » Revue Philosophique de
la France Et de l'Etranger Continental Philosophy 1 citation of this work Like
Recommend Bookmark Newton: gli scolii classici Giornale Critico Della Filosofia
Italiana La ricerca embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di
Filosofia L'empirismo e la vera filosofia:
il caso Scinà Rivista di Filosofia 8The Newtonian moment in Italy: A
post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Classical Mechanics Like
Recommend Bookmark 6 James, Freud e il determinismo della psiche Rivista
di Filosofia Freud Grean: Shaftesbury's philosophy of religion and ethics. A
study in enthusiasm (review) Studia Leibnitiana
Herschel, Whewell, Stuart Mill e l'«analogia della natura» Rivista di
Filosofia Newton: the classical scholia History of Science; 1 reference in this
work 15 citations of this work Diderot et le portrait du philosophe éclectique
Revue Internationale de Philosophie Morte e trasfigurazione del testo Rivista
di Filosofia L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. Bechler, Newton's Physics and the Conceptual Structure of the Scientific
Revolution. Boston Studies in the Philosophy of Science 127. Dordrecht: Kluwer
(review) British Journal for the History of Science Éléments de la philosophie
de Newton (review) British Journal for the History of Science 2Isaac Newton
Like Recommend Bookmark 6 The "Enciclopedia italiana". Fringes
of ideology Rivista di Filosofia Political Theory Il momento newtoniano in
Italia: un post-scriptum Rivista di Storia Della Filosofia Rousseau e
l'esercizio della sovranità Rivista di Filosofia Jean-Jacques Rousseau Topic
Order 5 Newton in Prussia Rivista di Filosofia saac Newton 1
citation of this work Like Recommend Bookmark 27 François-Marie Arouet de
Voltaire, Éléments de la philosophie de Newton, critical edition by Robert L.
Walters and W. H. Barber. The Complete Works of Voltaire, 15. Oxford: Voltaire
Foundation, Taylor Institution, (review)
British Journal for the History of Science. 17th/18th Century French
Philosophy. Grice: “An assumption generally shared by those who wrote and read
the tests surveyed in Latin is that male desire can normally and normatively be
directed at either male of female objects. If this configuration is held to be
NORMAL or NORMATIVE, we might expect that it would also be represented as
NAATURAL, and it is thus worthwhile to consider the role played by the
discourse of NATURE in ancient representations of sexual behaviour. This
question is both hughe and complex.Important discussions include Boswell, 1Foucault,
1986, 150-7, 189-227, and Winkler, 20-1 36-7 114 8. but one thing is clear: the
ancient rhetoric of nature, as it relates to sexual practices, displays
significant differenct from more recent discourses. Boswell, for example,
observes that while “what is supposed to have been the major contribution of
Stoicism to Christian sexual morality – the idea that the sole ‘natural’ and
hence moral use of sexuality is procreation, is in fact a common belief of amny
philosophies of the day’ at the same time, ‘the term UNNATURAL was applied eto
everything from POSTNATAL CHILD SUPPORT to legal contracts between friends (Boswell).
‘The objection that homsosexuality is ‘unnatural’ appears, in short, to be
neither scientifically nor morally cogent and probably represents mnothing more
than a derogatory epithet of unusual emotiona impact due to a confluence of
historically sanctioned prejudiced and ill-formed ideas about ‘nature.’”Thus,
as Winkler notes, the contrast between nature and non-nature, when deployed in
ancient writings simply ‘does not posess the same valence that it does today’ Winkler,
p. 20 Moreover, nearly all of the texts that offer opinions on whether specific
secual practice is in accordance with nature are works of philosophy. The
guestion does NOT seem to have seriously engaged the writers of texts that
directly spoke to and reflected popular moral conceptions (e. g. graffiti,
comedies, epigram, love poetry, oratory). For this important distinction
between the morallyity espoused by a philosopher and what we might call popular
morality, see the introduction and chapter 1. In short, as Richinlin warns us, the question
I ‘something of a red herring, since the concept of nature takes a larger and
more ominous form in our Christian culture than it did in AAncient Rome,
whetere itw as a matter for philosophers’.Richlin, p. 533. But it may
nonetheless be worthwhile to attempt a preliminary exploration of how the
rhetoric of NATURE was applied by some ROMAN PHILOSOPHERS to sexual practices,
particularly those between males.In other words. I would like to go a step or
two beyond that ‘nature’ is generally used by Roman moralists to justify what
they approve of’ (Edwards 88 n. 87). always bearing in mind, however, that to
the extent that it was mostly taken up by philsoeophers, the question of
‘natural’ sexual practice seems not to have played a significant role in most
public discourse among Romans. Nonphilosophical texts sometimes do deploy the
rhetoric of NATURE in conjunction with sexual practices, at least insofras they
as they offer representations of ANIMAL bheaviour, one possible component in
arguments about what is natural.2-6, and Win3, on Philo’s description of
crocodiles mating. kler, 2See for example Boswell, 137-43, 15 It will come as
no surprise that Roman writers images of animals’ sexual practices are
transparetntly influenced by their own cultural traditions. Thus in no Roman
text do we find an explicit appeal to animal bhehaviour in order to condemn
sexual practices between males as unnatural.Such an argument does occasionally
appear in Greek texts, such as Plato, Laws 836c (martua parag Omenos en ton
therios phusin kai deiknos pros ta toitauta oux aptomenon arena arrenos dia to
me phusei touto einai – and Lucian Amores 36. To Be sure, Musonius Ruffus’s
condemnation of sexual practices between males as para phusin might imply a
reference to animal practices, and it is possible that in some work now lost to
us the Roman Stoic followed in Plato’s footsteps in being explicit on the
point. A Juvenalian satire does make reference to animal behaviour in orer to
condemn cannibalism (claiming that no animas eat member s of their own species
Juv. And in a passage discussed later in this appendix, Ovid has a character
argue that NO FEMALE ANIMAL experiences SEXUAL DESIRE for other females. These
claims are as unsupportable as the claim that sexual practices between males do
not occur anong nonhuman animals.This is obvious to anyone who has spent time
with dogs. With regard to the academic-study of the question, the remarks of
Wolfe, Evolution and Female Primate Sexual Behaviour, in Understanding
behaviour: what primate studies tell us about human behaviour Oxford, p.are as
illuminating as they are depressing. ‘I have taked with several (anonymous at
their request) primatologists who have told me that they have observed both
male and female homosexual bheaviour during field studies. They seemed
reluctant t publish their data, however,
either because THEY FEARED HOMOPHOBIC REEACTIONS (‘my ccolleagues might thank
that I am gay’) or because they lack a framework for analysis (‘I don’t know
what it means’). On the latter point Wolfe insightfully comments that the same
problem affects our attempts to understand ANY sexual interactions among
primates. ‘Because the alloprimates do not possess language, it is impossible
to inquir into their sexual eroticism. In other words, homosexual and
heterosexual behaviours can be observed, recorded, and analysed, but we cannot
infer either homoeroticism or heteroeroticism from such behaviours (p. 131). But
the fact that we do find animal behaviour cited by Roman authors to CONDEMN
such phenomena as cannibalism and same-sec desire among females, but not
SAME-SEX desire among males, merely proves the point. These rhetorical
strategies reveal more about ROMAN cultural concerns than about actual animal
behaviour. A poem in the Appendix Vergiliana introduces us to a lover hhappyly
separated from his beloved Lydia. In the throes of his grief he cries out that
this miserable fate NEVER BEFALLS ANIMALS: A bull is never without his cor, nor
a he-goat without his mate. In fact, sighs, the lover: ET MAS QUACUMEQUE EST
ILLA SUA FEMINA IUNCAT INTERPELLATOS SUMPAUQM PLORAVIT AMORES CUR NON ET NOBIS
FACILIS NAUTRA FUISTI CUR EGO CRUDELEM PATIOR TAM SAEPE DOLOREM? (Lydia 35-8). The
lover is melodramatically weepy and that consideration partially accounts of
his ridiculous claim that male animals are never to be seen without their
mates. Still, amatory hyperbole aside the verses nicely illustrate the tendency
to shape both natura and animal bheaviour into whatever form is convenient for
the argument at hand. Thus, Ovid,s suggesting that the best way to appease
one’s angry mistress is in bed, portrays sexual behaviour among early human
beings and animals s as the primary force that effects RECONCILIATION (Ars. The
poet offers a lovely panorama in which animal behaviour is invoked as a
POSTIIVE paradigm for specific human practices: unting otherwise scattered
groups (2. 473-80) and mollifying an angry lover (2. 481-90). Less than two
hundred lines later, the same poet invokes animalas as A NEGATIVE PARADIGM,
again in support of a characteristically human concern: discretion in sexual
matters. IN MEDIO PASSIMQUE COIT PECUS HOC QUOQUE VISO AVETIT VULTUS NEMPE
PUELLA SUOUS CONVENIUNS THALAMI FURTIS ET IANUA NOSTRIS PARSQUE SUB INJIECAT
VESTE PUDDAN LATET ET SI NON TENEBRAS AT QUIDDAM NUBIS OPACAE QUAERIMUS ATQUE
ALIQUID LUCE PATENTE MINUS (Ovid, Ars, 2 615-20). Drawing his objets lesson to
a close, Ovid holds up his own behaviour as a pattern to follow. NOS ETIAM
VEROS PARCE PROFITEMUR AMORES TECTAQUE SUNT SOLIDA MYSTIFCA FURTA FIDE. And we
are reminded of the strategies of this pasage’s broader context. If you want to
keep your girlfriend happy, do not kiss and tell: that is the argument in
service of which animal behaviour is invoked as NEGATIVE paradigm. These to
Ovidian passages illustrate the utilyt of arguments from the animal world. Just
look ant the animals and see how much we resemble them; just look at the51-5. animals and see how far we have come.An
epigram by theGreek poet Strato gives the later poin an dineresting twist. We
huam beings, he writes, are SUPERIOR to animals in that, in addition to vaginal
intercourse, we have discovered ANAL INTERCOURSE, thus men who are dominated by
women are really no better than mere animals (A P PAN ALOGON soon bivei monon oi ligkoi de ton
allon zoon tout exkomen to pleon pugizein eurotntes hosoi de guanxi kratountai
ton alogon zoon ouden exousi kleon. It all depends on the eye – and rhetorical
needs – of the beholder. OS it is that Roman writers show how Roman they are
through the picture they paint of sexual practices among animals of the same
sex. Ovid himself, in his Metamorphoses, imagines the plight of young girl
named Iphis who has fallen in love with another girl. In a torrent of self-pity
and self-abuse, she expostulates on her passion, making a simultaneous appeal
to NATURA and to the animals that is reminiscent of Ovid’s sweeping review of
animal bheaviour in the Ars amatorial just cited. But this time the paradigm is
an emphatically negative one. SI DI MIHI PARCERE VELLENT PARCERE DEBUERANT SI
NON ET PERDERE VELLENT NAUTRALE MALUM SALTEM ET DE MORE DEDISSENT NEC CACCAM
VACCA NEC EQUAS AMOR URIT EQUARUM: URIT OVES ARIES SEQUITUR SUA FEMINA CERVUM
SIC ET AVES COEUNT INTERQUE ANIMALIA UNCTA FEMINA FEMINEO ONREPTA CUPIDINE
NULLA EST (Ov. Met. 9. 728-34) As with Lydia’s lover, so here we have the
melodramatic expostulations of an unah[py lover, and similarly her view of
animal behaviour does not correspond to the realities of that behaviour. Still,
these arguments are pitched in such a way as to invite a Roman reader’s
agreement, and the sexual practices invoked as natural and occurring among the
animals demonstrate a SUSPICIOUS SIMILARTY to the sexual practices and desired
SEMMED ACCEPTABLE BY ROMAN CULTURE (the female never leaves the male,
heterosexual intercourse is a convenient and pleasurable way of unting
different social groups, and females never lust after females), or to
specifically HUMAN EROTIC STRATEGIES: we do not copulate in public, and we
should not kiss and tell if we want our to keep our partners happy. It cannot
be coincidental that, whereas Ovid invokes animal behaviour in the context of a
girl’s tortured rejection of her own passionalte yearnings for another girl,
the mythic compendium in which this natrratie is found is peppered with stories
involves passion and sexual relations between males. Both Orfeo (after losing
his wife Euridice) and the gods themselves (whether married or not) are
represented as ‘giving over their love to TENDER MALES, harvesting the BRIEF
springtime and its first flowers before maturaity sets in” Ov. Met. 10. 83-5
ORPHEUS ETIAM THRACUM POPULIS FUIT AUCTOR AMORET IN TENEROS TRANSFERRE MARES
CITRAQUE IUVENTAM AETATIS BREVE VER ET PRIMOS CARPERE FLORES. The stories that
Orfeo proceeds ts to relate include those of the young CYPARISSUS once loved by
Apollo Met 10.106-42 and the tales of Zeus and Ganumede, Apollo and Hyacinth
(Met 10 155-219 Consider also the beautiful sixteen yer old Indian boy Athis
and his Assyrian lover Lycabas (Met. A passage which echoes of Virgil’s lines
on NISUS AND EURIALO discussed in chapter 2. And the remark that the stunning
but haughty young Narcissus, also in his sixteenth year, had many admireers of
both sexses (Met. None of Ovid’s characters arever questions the NATURAL status
of that kind of erotic experience or invokes the animals in order to reject it.
Aulus Gellius preserves for us some anecdotes that further demonstrate the
manner in which animal bheaviour could be made to conform to human paradigms.
Writing of (IMPLICITLY MALE) dolfns who fell in love with beautiful boys (one
oft them even died of a broek heart after losing his beloved) Gellius exclaims
that they were acing “in amazing human ways” 606C-D and Plin N H 8 25-8 for
this and other tales of male dolphins falling in love with human boys. Gell 6 8
3 NEQUE HI AMAVERUNT QUOD SUNT IPSI GENUS SED PUEROS FORMA LIBERALI IN
NAVICULIS FORE AUT IN VADIS LITORUM CONSPECTOS MIRIS ET HUMANIS MODIS ARSERUNS.
Cf. Athen 13 Once again, the comment tells us more about ‘human ways’ than
about dolphins. The elder Plini, who alo relates this story regarding the
dolphin, introduces his encyclopeic discussion of elephants by observing that
they are nonly the largest land animals but the ones closest to human beings in
their intelligence and sense of morality. In particular, they take pleasure in
love and pride (AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS), and by way of illustration of the
‘power of love’ (AMORIS VIS) among elephants he cites two examples: ONE MALE
FELL IN LOVE WITH A FEMALE FLOWER_SELLER, another with a young Syractusan man
named MENANDER who was in Ptolemy’s army. Likehise he tells of a MALE GOOSE who
fell in love with a beautiful young Greek MAN, and of another who loved a female
musician whose beauty as such that she alstro attracted the attention of a ram.
-4. NEC QUIA DESIT ILLIS AMORIS VIS, NAMQUE TRADITUR UNUS AMASSE QUANDAM IN
AEGYPTO COROLLAS VENDENTEM ALLUS MENANDRUM SYRACUSANUM INCIPIENTIS IUVENTAE IN
EERCITU PTOLEMACI DESIDERIUM EIUS QUOTIENS NON VIDERET INEDIA TESTATUS 10.51
QUIN EST FAMA AMORS AEGII DILECTA FORMA PUERI NOMINE OLENII AMPHILOCHI, ET
GLAUCES PTOLOMAEO REGI CITHARA CANENTIS QUAM EODEM TEMPORE ET ARIES AMASSE
PRODITUR. Plin N H MAXIMUM EST EPLEPHANS PROXIMUMQUE HUMANIS SENSIBUS QUIPPE
INTELLECTUS ILLIS SERMONIS PATRII ET IMPERIORUM OBEDIENTIA, OFFICIOURM QUAE
DIDICERE MEMORIA, AMORIS ET GLORIAE VOLUPTAS 8 13Turing to the concept of
NATURA as it applied to sexual pracyices by ancient writers, we being with
basica basic problem. The very term NATURA has various referents in those
texts. Sometimes NATURA seems simply to refer to the way things are or to the
INHERENT nature OF something, sometimes to the way things SHOULD be according
to the intention ordictates of some transcendent imperative. Thus Foucault
speaks of ‘the ‘three axes of nature’ in philosophical discourse. The general
order of the world, the orgginal state of mankind, and a behaviour that is
reasonably adapted to natural ends.Fouctault, p. 215-6. See also the
discussions in Boswell, p. 11-5, where he distinguishes between ‘realistic’ and
‘ideal’ notions of nature, Beagon, and Levy, “Le concept de nature a Rome: la
physique, Paris). The first two of these axes are evident in a wife-variety of
Roman texts. Departures from what is observably the usual PHYSICAL constitution
of various thbeings could be called NONNATURAL or UNNATURAL even by
nonphilosophical authors. The Minotuar, centaurs, a snake with feet, a bird
with four wings, and a sexual union between a woman (the muthis Pasiphae) and a
bull.snAnon De Differentiis 520 23 MONSTRUM EST CONTRA NATURAM UT EST
MINOTAURUS. Serv. Aen 6. 286 (centaurs) Suet Prata fr. 176.113-5 snakes with feet, birds with four wings.
Serv. Aen. 1. 235.11. Pasiphae and the bull. Te elder Plinty claims that breech
births are ‘against nature’ since it is ‘nature’s way’ that we should be born
head first.n N H 7 45 -6. IN PEDES PROCIDERE NASCENTEM CONTRA NATURAM EST RITUS
NATURAE CAPITE HOMINEM GIGNI MOST EST PEDIBUS EFFERRI. PLiQuintilian argues
that to push one’s hair back from the forehead in order to achieve some
dramatic effect is to act ‘against nature’.Quint I O 11 3 160 CAPILLOS A FRONTE
CONTRA NATURAM RETRO AGERE. and Seneca himself opines that being carried about
in a litter is ‘contra natural’a, since nature has gives us feet and we should
use them.Sen. Epist 55 ` LABOR EST ENIM ET DIU FERI AC NESCIO AN EO MAIOR QUIA
CONTRA NATURAM EST QUAE PEDES DEDIT UT PER NOS AMBULAREMUS. Finally, the belief
that physical disabilities and disease are UNNAUTARAL, and thus, implicitly,
that a healthy body displaying no marked derivations from the form illustrates
what nature designed or intended, surfaces in a number of texts, arnign from Celusus’
mdical treatise to Ciceroo’s philosophical works to declamations attributed to
Quintilian, to a moral epistle fo Seneca to the, to the Digest.2 1. 60 pr. MOTUS CORPORIS CONTRA NATURAM QUAM FEBREM APPELLANT. Quint. Decld. Min. 298.12 WEAK AND MALFORMED BODIES ARE IMPLICITLY CCONTRA NATURAM.
Celsus Medic 3 21 15. On fluids that are retained in the body contra naturam.
Cic Off 3 30 MORBUS EST CONTRA NATURAM. Gell. Labeo defines morbus asHABITUS
CUIUSQUE CORPORIS CONTRA NATURAM QUI USUUM ETIUS FACIT DETERIOREM. Cf. D. 21 1
1 7. D. 4Along the same lines, some ancient writers also suggest that to harm a
healthy body with poisons and the like is unnatural.Quint Decl. Min. 246.3 the
plaintiff refers to a substance as a venenum QUONIAM MEDICAMENTUM SIT ET
EFFICIAT ALIQUID CONTRA NATURAM. Sen Epist 5. 4. To torment one’s body and to
eat unhealthy food is CONTRA NATURAM. As for the third of the axes described by
Foucault, anthropologists and others have long observed that proclamations
concerning practices that are in acoordance with nature often turn out to
reflect specific cultural traditions. As Winkler puts it, for nature we may
often read culture.Winkler p. 17. In the same way Edwards p. 87-8 discusses a
passage from Seneca (Epist.) discussed in chapter 5, having to do with women
who violate their ‘nature.’ She concludes that ‘Seneca was not reacting to
naturally anomalous bheaviour. He was taking part in the reproduction of a a
cultural system.’ So too Veyne, p. 26. ‘When an ancient says that something is
unnatural, he does not mean that it is disgraceful (monstrueuse) that that it
does not conform with the rules of society, or that it is perverted OR
ARTIFICIAL”. Roman sources of various types certainly support that contention.
Thus, for example, violations of traditional PRINCIPLELS OF LANGUAGE AND
RHETORIC which are surely among the most intensely cutlrual of human phenomeno
are SOMETIMES SAID TO BE UNNATURAL.Serv. Comm. Art Don. PLINIUS AUTEM DICIT BARBARISMUM ESSE SERMOVEM
UNUM IN QUO VIS SUA EST CONTRA NATURAM – Serv Aen. 4. 427. REVELLI NON REVULSI.
NAM VELLI ET REVELLI DICIMUS. VULSUS VERO ET REVULSUS
USURPATUM EST TANTUM IN PARTICIPIIS CONTRA NATURAM cf. Sen. Contr. 10, pr. 9 – tof the rhetorician Musa. OMNIA USQUE AD ULTIMUM TUMOREM
PERDUCTA UT NON EXTRA SANITATEM SED EXTRA NATURAM ESSENT. One legal writer
invokes the rhetoric of NATURA to justify the principle of individual ownership
(joint possession of a single object is said to be CONTRA NATURAL.D. 41 2 3 5
CONTRA NATURAM QUIPPE EST UT CUM EGO ALIQUID TENEAM TU QUOTE ID TENERE
VIDEARIS. Interestingly, another jurist argues that the principle underlying
the institution of slavery – that one person can be owned by another – is
actually ‘unnatural’ (D. SERVITUS EST CONSTITUTIO IURIS GENTIUM QUA QUIS
DOMINIO ALIENO CONTRA NATURAM SUBICITUR. In a Horatioan satire we read that
NATURA sees it that no one is every truly the ‘master’ of the land that he
legally owns, and Natura puts a limit on how much one can inherit (Hor. Sat.). Sallust
describes the violation of the cultural and more specifically philosophical
tradition priviliengy the SOUL over the BODY as UNNATRUAL.Sall. Cat. QUIVUS
PROFECT CONTRA NATURAM CORPUS VOLUPTATI, ANIMA OVERI FUIT. SALLUST. Likewise,
practices violating Roan ideologies of MASCULINITY are represented as
INFRACTIONS NOT of cultural tranditions s but of the natural order. Cicero’s
philosophical tratise DE FINIBUS includes a discussion of the parts and with
some clarity functions of the BODY that illustrates the relation between NATURE
and MSASCULINITY with some clarity Our bodily parts, Cicero argues, are
PERFECTLY DESIGNED to fulfil their functions, and in doing so they are in
conformance with nature. But there are certain bodily movesmesns NOT in accord
with nature (NATURAE CONGRUENTES> If a man were to walk on his hand or to
walk backwyasds, he would manifestbly be rejecgting his identity as a human and
thuswould thus be displayeing a ‘hattred of nature’ (NAUTRAM ODISSE). Cic Fin 5
35. CORPORIS IGITUR NOSTRI PARTES TOTAQUE FIGURA ET FORMA ET STATURA QUAM APTA
AD NATURAM SIT APPARET. The claim that walking on one’s hand is unnatural
nicely illustrates the gap between ancient and more recent uses of the rhetoric
of nature – cfr. Dodgson). The next illustration Cicer o offers of bodily
moveents not in accord with natura concerns correctly masculine ways of
deporing oneself. QUAMOBREM ETIAM SESSIONES QUAEDAM ET FLEXI FRACTIQUE MOTUS,
QQUALES PROTERVORUM HOMINUM AUT MOLLIUM ESSE SOLENT, CONTRA NATURAM SUNT, UT
ETIAMSI ANIMI VITIO ID EVENIANT TAMEN IN CORPOMUTRAR MUTARI HOMINIS NATURA
VIDEATUR ITAQUE A CONTRARIO MODERATI AEQUABILESQUE HABITUS AFFECTIONS USUSQUE
CORPORIS APTI ESSE AD NAUTRAM VIDENTUR (Cic. Fin Deemed ‘agaist natture’ are
certain ways of carrying oneself that are ‘wanton’ and ‘soft,’ movements lthat,
like walking on one’s hand or stepping backwards, clasi the with thvident
purporse of the body’s various parts. Implicitly then, nature wills men’s
bodies to move and to function in certain ways. Men who violate these
principles of masculine comportment are acting BOTH EFFEMINATELY (as we saw in
chapter 4, militia is a standard metaphor for effeminacy) AND UNNATURALLLY.
Cultural traditions regarding masculinity – here, appropriate bodily gestures –
are identified with the natural order.Similar conddemnations of inappropriate
bodily comportment, marked as EFFEMINATE, abound: walking daintily, scratching
the hair delicately wih onefinger, and so on (see chapter 4 in general and see
Gleason for a general discussion of physiognomy and masculinity in antiquity. How,
then is the rheotirc of nature applied to same-sex practices? One scholar has
recently suggested that the elder Pliny describes men’s desires to be anally
penetrated as occurring ‘by crime against nature’ Taylor, p. 325. But that is
probably a misinterpretation of Pliny’s language. IN HOMINUM GENERE MARIBUS
DEVERTICULA VENERIS EXCOGIGATA OMNIA, SCLERE (or CCCELERE naturae FEMINIS VERO
AOBRTUS Plin N H. The phrase DEVERTICULA VENERIS which one might translate
(by-ways of sex’ or ‘sexual deviations’ is vague. There is no reason to think
that it refers to specifically, let alone exclusively, to the practice of being
anally penetrated. Moreover, the phrase SCELERA NATURA or SCELERE NATURAE,
rather than ‘crime against nature,’ is most obviously transated as ‘crime OF
NATURE,’ that is, a crime perpetrated BY NATURE.This is indeed the way Plinio
uses the phrase elsewhere, noting that we ought to call earthquakes ‘moracles
of the eart rather than crimes of nature’ (NH 2 206 – UT TERRAE MIRACULA POTIUS
DICAMU QUAM SCLEREA NATURAE. See Beagon. In other words (pace Taylor and
Rackham Loeb Classical Library translation, I take the genitive NATURAE to be
subjective rather than objective. I have not found any parallels for such an
objective use of a genitive noun dependent upon scelus. In any case, Pliny is
not implying that all sexual desires or practices between males are unnatural:
in this same treatise, significantly called the HISTORIA NAUTRALIS or Natural
Investigations’ he reports the story of a male elephant who fell passionately
in love with a young man from Syractuse as an illustration of the obviously
natural power of love of love (amoris vis) among elephants; likewise, he
reports the story of a gosse who loved a beautiful young man.Plin N H 8 13-4,
10.51More explicitly referring to those men who take pleasure in being
penetrated, the speaker in Juvenal’s second satire riducules menwho have
wilfully abandoned their claim on masculine status by weaking makeup,
participating in women’s religious festivals, and even taking husbands, and
notes with gratitude, that nature does not allow them gto give birth.Juv. 2 139
40. SED MELIUS QUOD NIL ANIMIS IN CORPORI IURIS NATURA INDULGET STERILES
MORTUNTUR. For Further discussion see Appendix 2. The orator Labienus decries
wealthy men who castrate their male prostitutes (EXOLETI, see chapter 2) in
order to render them more suitable for playing the receptice role in
intercourse. These men use their rinces in UNNATURAL WAYS (contra natural), and
the natural standard they they violate is apparently the principle that mature
males both should make use of the PENISES and should be IMPENETRABLE.Sen Contr.
PRINCIPES VIRI CONTRA NATURAM DIVITIAS SUAS EXERCENT CASTRATORUM GREGES HABENT
EXOLETOS SUOS AD LONGIOREM PATIENTIALM IMPUDICITIAE IDONEI SINT AMPUTANT. Firmicus
Maternus refers to men’s desires to be penetrated as CONTRA NATURAL (5. 2. 11),
and Caelius Aurelianus’s medical wirtings also reveal the assumption that men’s
‘natural’ sexual function is TO PENETRATE and not to be penetrated. NATURALIA
VENERIS OFFICIA. Cael. Aurel. Morb. Chron. 4 In short, nature’s ditactes
conveniently accorded with cultural traditions, such as those discouraging men
from seeking to be penetrated, or those deterring them from engaging in sexual
relations with other men’s wives: in a poem that urges on its male readers the
principle that NATURA places a limit of their desires, Horace remocommends, as
implicitly being in line with the requirement of nature, that men avoid
potentially dangerous affaris with married women and stick to their own slaves,
bh male and female.Hor. Sat.. NONNE CUPIDINIBUS STATUAT NATURA MODUM QUEM … Se
chapter 1 for further discussion of this poem. Cf. Sat. 1. 4.
113-4: NE SEQUERER MOECHAS CONCESSA CUM VENERE UTI POSEEM. In one of his Episles Seneca provides a lengthy and revealing discussion
of ‘unnatural’ behavours that include a reference to sexual practices among
males. He beings, however, by despairing of ‘those who have perverted the roles
of daytime and nightime, not opening their eyes, weighed down by the preceding
day’s hangover, until night begins its approach. Sen Epist 122 2 SUNT QUI
OFFICIA LUCIS NOTISQUE PERVERTERINT NEC ANTE DIDUCANT OCULOS HESTERNA GRAVES
CRAPULA QUAM ADPETERE NOX COEPIT. These people are objectionably not simply
because of their overindulgence in goof and drink but because they do not
respect the proper function of night and day.Comparing them to the Antipodes,
mythincal beings who live n the opposite side of the globe, he asks. Do you
think these people know HOW to live when they don’t even know WHEN to live?
122.3 HOS TU EXISTIMAS SCIRE QUEMADMODUM VIVENDUM SIT QUI NESCIUNT QUANDO?and
this pervesion of night and say, is, in the end, ‘unnatural’. INTERROGAS
QUOMODO HAEC ANIMAO PRAVITAS FIAT AVERSANDI DIEM ET TOTAM VITAM IN NOCTEM
TRANSFERENDI? OMNIA VITA CONTRA NAUTRAM PUGNANT, OMNIA DEBITUM ORDINEM DESERUNT
(Sen Epist.). He then proceeds to tick off a serioes of bheaviour
that are similarly CONTRA NATURAM. First, people who drink on an empty stomach
‘live contrary to nature’ Sen. 122 6 NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM VIVERE
QUI IEIUNI BIBUNT QUI VINUM RECIPIUNT INANIBUS VENIS ET AD CIBUM EBRII
TRANSEUNT. Young men nowadsays, Seneca continues, go to the baths before a meal
and work up a sewat by drinking heavily; according to them, only hopelessly
philistine hicks (patres familiae rustici … et verae volupatigs ignari) save
their drinking for after the meal.Sen Epist 122 6. ATQUI FREQUENS HOC
ADULESCENTIUM VITIUM EST QUI VIRES EXCOLUNT UT IN IPSO PAENE BALINEI LIMINE
INTER NUDOS BIBANT IMMO POTENT ET SUDOREM QUEM MOVERUNT POTIONIBUS CREBRIS AC
FERVENTIBUS SUBINDE DESTRINGAT POST PRANDIUM AUT CENAM BIBERE VULGARE ETS HOC
PATRIS FAMILIAE RUSTICI FACIUT ET VERA VOLUPTATIS IGNARI. The latter comment,
with its contrast between URBAN AND RUSTIC life, austerity and luxyry, is a
valuable reminder of us. The standard violated by those who drank betweofre
eating was what we would call a cultural norm. But for Seneca they were
violating the dicates of NATURE, abandoning the proper order (debitum ordinem)
of things. This important point bust be borne in mind as we turn to the next
practices that come under Seneca’s fire: NON VIDENTUR TIBI CONTRA NATURAM
VIVERE QUI OMMUTANT CUM FEMINIS VESTEM? NON VIVUNT CONTRA NAUTRA QUI
SPECTANT UT PUERITIA SPENDEAT TEMPORE ALIENO? QUID FIERI CRUDELIS VEL VISERIOUS
POTEST? NUMQUAM VIR ERIT, UT DIU VIRUM PATI POSSIT? ET CUM ILLUM CONTUMELIAE
SEXUS ERIPUISSE DEBUERANT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET (Sen. Epist.). The concept of the proper order is very much in evidence here, and here
again the order shows unmistakable signs of cultural influence. Just as those
who turn night into day or drink wine before they eat a meal are engaging in
unnatural activities, so men who wear women’s clothes live contrary to nature –
yet what could be more cultural than the designation of certain kinds of
clothing as appropriate only for men and others as appropriate only for women?
Moving on to his next point, Senceca continues to focus on extermal appearance.
Men who attempt to give the appearance of the boyhood that is in fact no longer
theirs also ‘live contrary to nature’. Again the order of things has been
disrputed. Boys should be boys, men should be men. But these particular men
want to LOOK like boys in order to find older male sexual partners to penetrate
them. Such is the thenor of Seneca’s decorous but blunt phrase, ‘so that he may
submit to a man for a long time’ (ut diu virum pati possit’). If we filter out
Seneca’s moralizing overlay, this detail gives us a fascinating fglimpse oat
Roman realities. These MEN scorned by Seneca acted upon the awareness that MEN
would be more likely to find them desirable if their bodies seemed like those
of BOYS (not men): young, smooth, irless. Moreover, the very fact that these
men made the effort suggests that th actual age of the beautiful ‘boys’ we
always hear of may not have mattered to their loveers so much as their youthful
APPEARANCE.Cf. Boswell, p. 29, 81. All of this is very much a matter of
CONVENTION, of CULtURAL traditions concerning the ‘proper order’ of things, but
Seneca insistently pays homage to NATURA.Cf. Winkler, p. 21. “Contrary to
nature means to Senea not ‘outside the order of the kosmos’ but ‘unwilling to
conform to the simplicity of the unadorned life’ and, in the case of sex,
‘going AWOL rom one’s assigned place in the social hierarchy. The importance of
this order is especially clear in the climactic illustrations of those who live
‘contrary to nature’. These are people who wish to see see roses in winter and
employ artificial means to grow lilies in the cold season; who grow orchards at
the tops of towers and trees under the roofs of their homes (this latter
proving Seneca to a veritable outburst ofm moral indignation)., and those who
construct their bathhouses over the waters of the sea Sen. Epist 122 21 NON
VIVUNT CONTRA NATURAM QUI FUNDAMENTA THERMARUM IN MARI IACIUNT ET DELICATE
NATARE IPSI SIBI NON VIDENTUR NISI CALENTIA STAGNA FLUCT AC TEMPESTATE
FERIANTUR. Finally Seneca returns to the
example of unnatural practices that sparked the whole discussion: those who
pervert the function of night and day aengage in the ultimate form of unnatural
behaviour (Sen Epist 122 9 CUM INSTITUERUNT OMNIA CONTRA NATURAE CONSUETUDINEM
VELLE NOVISSIME IN TOTUM AB ILLA DESCISCUNT LUCET SOMNI TEMPUS EST QUIES EST
NUNC EXERCEAMUR NUNC GESTEMUR NUNC PRANDEAMUS. That the practice ofs of growing
trees indoors, of building bathhouses over the sea, and of sleeping by day and
partying by night should be considered unnatural makes some sense in relation
to notions of the ‘proper order’ of things. Plants should e outdoors, buldings
should be on dray land, and people should sleep at night. But that thes
practices should be cited as the most egregious examples of unnatural bheaviour
– they constitute the climax of Seneca’s argument – demontrastes just how wide
the gap is between ancient moralists and their modern counterparts on the
question of what is natural. With regard to mature men who seek to be
penetrated by men, the third of Seneca’s examples of unnatural behaviour,
Seneca makes in passing a surprising remark. CUM ILLUM CONTUMELIAE SEXUS ERIPUISSE DEBUERAT NON NE AETAS QUIDEM ERIPIET?
122.7. The clear implication is that a nature man
certainly ought to be safe from ‘indignity’ (here a moralizing euphemism for
penetration), but ultimately the very fact that he is MALE, REGARDLESS OF HIS
AGE, ought to protect him. With with one pointed sentence, then, Seneca is
suggesting that MALENESS IN ITSELF IS IDEALLY INCOMPATIBLE WITH BEING
PENETRATED, and since sexual acts were almost without exception conceptualized
as REQUIRING penetration, this amounts to positing the exclusion of sexual practices
BETWEEN MALES from the ‘proper order’. This is a fairly radical suggestion FOR
A ROAM MAN TO MAKE, and Seneca was no doubt aware of that fact. He slips the
comment quietly into his discussion, makes the point rather subtly (it makight
ake a second reading even to REALISE IT IS THERE), and then instantly moves on
to other, less controversial arguments. FOR as opposed to Seneca’s suggestion
that EVERY MALE, even a boy, should somehow be ‘rescued’ from ‘indignity,’ the
usual Roman system of protocols governing men’s sexual behaviour required the
understanding that A BOY is different from A MAN precisely because they COULD
BE penetrated without necessarily forfeiting EVERY CLAIM to masculine or male
status (see especially chapter 5 on this last point). But Seneca, waxing Stoic,
here voices a dissenting opinion, as does the first century A. D. Stoic
philosopher MUSONIUS RUFUS, in one of twhose treatises we find the remark that
sexual practices BETWEEN MALES are ‘against nature’ (‘para-physical’) Muson,
Ruf. 86. 10 Lutz para phusin. The remark needs to be be put in the context of
Musonius’s philosophy of nature. According to Musonious, every createure has its own TELOS beyond the goal
of simply being aalive En a horse would not b e fully living up to its telos if
all it did was to eat, drink, and copulate (106.25-7 Lutz)., while the TELOS or
goal of a human being is to live the life or arete or VIRTUS. Thus, “each one’s
nature (phusis) leads him to his particular virtuous quality (arete), so that
it is is a reasonable conclusion that a human being is living in accordance
WITH nature NOT when he lives in pleasure, but rather when he lives in virtue” 108.1-3
Lutz). Elsewhere he opines that human nature (phusis – anthropine phusis,
natura humana, Hume, Human Nature) is not aimed at pleasure (hedone, 106.21.3
Lutz). Consequently, luxury (truphe) is to be avoided in EVERY way, as being
the cause of INJUSTICE (126.30-1 Lutz). By implication, then, eating, drinking,
and aopulating are not in themselves evil, but they can easily become sgns of a
life of luxury, and if those activities aconstitute the goals of our existence,
we are FAILING TO FULFIL OUR POTENTIAL AS A HUMAN BEING, namely, the practice
of virtue, or reason, and consequently, not living IN ACCORDANCE WITH NATURE,
but against her (paa phusin). Thus, as part of a regime of SELF-CONTROL
(MALENESS OR MASCULINITY AS SELF-CONTROL, not addictive behaviour or weakness
of the will) Musonius argues that a man should engage in a sexual practice only
within the context of marriage for the purpose of begetting children. Any other
sexual relation, even within marriage should be avoided. T”Those who do not
live licentiously, or who are not evil, must think that only those sexual
practices are justified which are consummated within marriage and for the
creation of children, since these pratcttices are licit (NOMIMA). But such
people must think that those sexual practices which hunt for mere pleasure are
unjust and illicit, even if they take place within marriage. Of Other forms of
intercourse, those committed in moikheia (I e. a sexual relation with a
freeborn woman under another man;s control) are the most illicit. No more
moderate than this is the INTERCOURSE OF MALES WITH MALES, since it is a DARING
ACT CONTRARY TO NATURE. As for those forms of intercourse with with females
apart from moikheia which are not licit (kaTa nomon) all of these are too
shameful, because done on account of a lack of self-control. If one utside to behave temperately (TEMPERANTIA,
CONTINENTIA) one would not dare to have relations with a courtesan, nor with a
free woman outside of marriage, nor, by Zeus, with one’s own slave woman
(Musonius Rufus, 86.4-14 Lutz). As I argued in chapter 1, Musonius’s final
remark reveals the extent to which the sexual morality that he is preaching is
at odds with mainstream Roman traditions. Nor is his suggestion that men should
keep their hans off prostitutes and their own slaves the only surprising
statement to be found in the treatises attributed to Musonius. He elsewhere
aargues against the obviously widespread practices of giving up for adoption or
even exposing unwanted children (Lutz), of EATING MEANT (here he explicitly
contrasts himself with the many hoi polloi who live to eat rather than the
other way around (Lutz) or SHAVING THE BEARD (128.4-6 Lutz), of using wet
nurses (42.5-9 Lutz), and most appositely, of allowing husbands sexual freedoms
not granted to wives (Lutz). Thus his condemnation of sexual practices between
MALES is issued in the context of a condemnation of ALL SEXUAL PRATICES other
than those between husband and wife aimed at procreation (strictly speaking,
vaginal intercourse when the wife is ovulating) and also in the context of a a
suspicion of all luxury oand of pleasures beyond those relating to the bare
necessities of life. Thus he condemns sexual relations between males as
contrary to nature (the implication being that the two sexes ARE DESIGNED TO
UNITE WICH EACH OTHER IN THE CONTEXT OF MARRIAGE), while sexual relations
between malesand female outside of marriage are criticized as ‘illicit (para-noma)
and as signs of lack of self-control. Here Musonius is obviously manipulating
the ancient contrast between law or convention (nomos) and nature (phusis) and
interprestingly procreative relations within marriage are ultimately given his
seal of approval not because they are more ‘natural’ than tother sexual
practices, but because they are ‘licit’ or ‘conventional’ (nomima), just as
adulterious relations are most ‘illicit’ of unconventional (paranomotatai). In
other words, Musonius invokes the rhetoric of nature only by way of secondary
support.. A male-male relation is no more ‘moderate’ than a adulterious
relationa dn anyway, he adds, they are ‘unnatural’. But a relation between a
man and another man’s wife, while implicitly ‘natural’,is in the end more
‘illicit’ than a male-male relation. Even for the Stoic Musonious, NATURA may
NOT be the ultimate arbiter. Interestingly, when he describes sexual practices
between males as being against nature, Musonius does not appeal to animal
bheaviour as does Plato in his Laws (836c). Indeed, such an argument sould have
ill-suited Musonius’s argument elsewhere that humans are different from other
animals and should not takem them as a MODEL FOR BHEAVIOUR. Thus he argues that
wise men ill not attack in return if attacked – such revenge is the province of
MERE ANIMALS – Lutz) – and that, while among animals an act of copulation
suffices to procude offspring, human beings should aim for the lifelong union
that is marriage (88.16-17 Lutz). Finally, there is an important distinction to
observe between Musonius’s remark concerning sexual practices between males and
later Christian fulminations against ‘the unnatural vice’ which came to be a
code term for ‘sodomy’. On the one hand, Musonius did not go so far as to
condemn such relations as THE unnatural vice. Indeed, if we think about the
implications of his words, relations between MALES do not even constitute the
ULTIAMTE sexual crime. He declare that ADULTEROUS relations are ‘the most
illicit of all’ (paranomotatai) and thus clearly more ‘illicit’ than relations
between males which are howevery ‘equally immoderate’. Furthermore Musonius’s
approach to the problem of sexual behaviour differs from later Christian
moralists in a fundamental respect. As Foucault puts it, according to Musonius,
‘to withdraw pleasure from this form (sc. Of marriage, to detach pleasure from
the conjugal relation in order to propoeseother ends for it, is in fact to debase
the ESSENTIAL composition of the human being. The defilement is not in the sexual
act itself, but in the ‘debauchery’ that would dissociate it from marriage,
where it has its natural form and its rational purpose” Foucault CICERONE
(vedasi) ro in a passage from one of this major philosophical works, the
Tusculan disputations, approaches the ascetic stance advocated by Seneca and
Musonius Rufus, although he nowhere makes an explicit commitment to the extreme
suggested by Seneca and preached by Musonius. Speaking in the Tusculan
Disputations of the detrimental effects of erotic passion, Cicero observes that
the works of Greek poets are filled with images of love. Focusing on those who
describe LOVE FOR BOYS (he mentions Alcaeus, Anacreon, and Ibycus), Cicero
notes thain an aside that ‘NATURE HAS GRANTED A GREATER PERMISSIVENESS (maiorem
liicnetial)” to men’s affairs with women. Cic. Tusc. 4. 71. ATQUE UT MULIEBRIS
AMORES OMITTAM QUIVUS MAIOREM LICENTIAL NATURA CONCESSIT QUIS AUT DE GANYMEDI
RAPTU DUBITAT QUID POETAE VELINT AUT NON INTELLEGIT QUID APUD EURIPIDEM ET
LOQUATUR ET CUPIAT LAIUS. The comparative (MAIOREM LICENTIAL is noteworthy.
NATURE has granted ‘greater’, not exclusive license to affais with women than
to affairs with BOYS. The Latter are evidently NOT FORBIDDEN BY NATURE.
Discouraged perhaps, but not outlawed. This is a BEGRUDGING ADMISSION, in
perfect agreement with the tenor of the whole discussion of sexual passion
which had opened thus. ET UT TURPES SUNT QUI ECFERUNT SE LAETITIA TUM CUM
FRUUNTUR VENERIIS VOLUPTATIBUS SIC FLAGITIOSI QUI EAS INFLAMAMATO ANIMO
CONCPISCUNT TOTUS VERO ISTE QUI VOLGO APPELATUR AMOR – NEC HERCULE INVNEIO QUO
NOMINE ALIO POSSIT APPELARI TANTAE
LEVITATIS EST UT NIHIL VIDEAM QUOD PUTEM CONFERENDUM. (Cic. Tusc. 4. 68). These
words disparage sexual passion as a whole – particularly a hot, inflamed desire
(QUI EAST INFLAMMATO ANIMO CONCUSPICUNT) whether indulged in with women or with
boys. NATURA, according to Cicero, makes it easier to indulge in this passion
with women, so that when men DO INDULGE
IN IT WITH BOYS, they show just who DEEPLY THEY HAVE FALLEN VICTIM TO LOVE –
that treacherous and destructive power, ‘te originator of disgraveful behaviour
and inconstanty (FLAGITTI ET LEVITATIS AUCTOREM (4. 68), as G. Williams notes. In
fact, remarkably enough, Cicero later claims that love itself is not natural.
Cic. Tusc. 4 76. If love were natural, everyone would love, they would always
love, and would love the same thing: one person would not be deterred from
loving by a sense of shame, another by rational thought, another by his satiety
– ETENIM SI NAUTRALIS AMOR ESSET ET AMARENT OMNES ET SEMPER AMARENT ET IDEM
AMARENT NEQUE ALIUM PUDOR ALIUM COGITATIO ALIUM SATIETAS DETERRERET. Cicero’s
remark on NATURA and sexual relations with women is in fact fact little more
than a a passing comment. Still, its implications deserve some consideration.
In what whays does NATURE grant ‘greater permisiveness’ to a relation with aa
woma than with a boy? Why does Seneca suggest that men’s MALENESS ought to
preclude them from being PENETRATED, and why does Musonius Rufus condemn ALL
SEXUAL PRACTICES BETWEEN MALES as unnatural? These philosophers’ comments seem
to rest on certain assumptions about the function of sexual organs. Certainly
Seneca emphasixes the notion of the proper order or debitus ordon, according to
which men should not drink wine before eating, grow roses in the winter, build
buildings over the sea, or PENETRATE MALES. In short, some kind of ARGUMENT
FROM DESIGN seems to lruk in the backgrounf of Cicero’s Seneca’s and Musoniu’s
claism. The penis is ‘designed’ to PENETRATE a vagina. TA vagina is deigned to
be penetrated by a penis. Similarly the passage from Phaedrus Fables implies,
whitout actually using the word NATURA, that males who desire to be penetrated
(molles mares) and females who desire to penetrate (tribades) have A FLAWED
DESIGN. When Prometheus was assuming these people’s bodies from CLAY, he
attached the genial organs of the opposite sex in a drunken slip-up. But his
more popularizing account only specifies that those males who DESIRE to be
penetrated are anomalous. It does not designate those men who seek to penetrate
other males as unnatural. On this model, a sexual act in which a master
penetrated his UNWILLING MALE slave is
NOT UNNATURAL. By contrast, according the philosophers discussed here (Musonius
most expliclty) this act would be unnatural. But on the whole very few Roman writers seem
to have taken this kind of argument to heart. In general, ROMAN MEN’S
BEHAVIOURAL codes reflect an AWARENESS that the PENIS IS SUITED for purposes
OTHER than penetrating avagina, and that the vagina is NOT the only organ
suited for being penetrated. Such is the implication of a witty comment in an
epigram of Martial’s addressed to a man who, instead of doing the USUAL WITHIN
with his BOY and analyy penetrating him, has been STIMULATING THIS GENITALS.
This is objectionable because it will speed up the process of his maturation
and thus hasten THE ADVENT OF HIS BEARD (11.22.1-8). Martial tries to talk some
sense into his friend and the epigram ends with an APPEAL TO NATURE. DIVISIT
NATURA MAREM PARS UNA PUELLIS UNA VIRIS GENITA EST UTERE PARTE TUA Mart. The comment is of course a witticigm. Note the logical contradiction
that this playful invocation of nature creates. If the penis is designed by
nature for girls and the anus for mmen,how can a man use a boy’s anus in the
way nature intended (i. e. to be penetrated by men) and at the same time use
his own penis in the way nature intended (i. e. by penetrating a girl? See
chapters 1 and 5 for further fsucssion of this epigram together with Martial’s
humorous invocation of the paradigm of nature with regard to masturbation. but
if the humour was to succeed, the notion that a boy’s anus is designed by
nature for a man to penetrate cannot have seemed outrageous to Martial’s
readership. After all, the rhetorical goal of the epigram is to steer tha man
onto the path of right behaviour, the path which Martial’s won persona,
dutifully, even proudly, followed. This sort of comment – rather than the
passing remarks of such philosophers as Cicero, Seneca and Musonius Rufus,
reflects the mainstreat Roman understanding of what constitutes NORMATIVE and
NATURAL sexual beavhiour for a boy and for a man. It is significant, moreover,
that neither CCicero nor Seneca nor Musonius Rufus nor any other survinving
Roman text, philosophical or not, argues that a MAN’s *DESIRE* to penetrate a
boy is ‘contrary to nature’. Musonius, for one, speaks ony of the sexual act
(SUMPLOKAI). We return to the Epicurean perspective offered by Lucretius cited
in chapter i. SIC IGITUR VENERIS QUI TELIS ACCIPIT ICTUS SIVE PUER MEMBRIS
MULIEBRIBUS HUNC IACULATUR SEU MULIEUR TOTO IACTANS E CORPORE AMOREM UNDE
FERITUR EO TENDIT GESTITQUE COIR ET IACERE UMOREM IN CORPUS DE CORPRE DUCTUM.
Lucr. 4. 1052-6. This are lines from a poem dedicated to teaching its Roman
readers about ‘the nature of things’ (de rerum natura 1.25). cf. Boswell p. 149
“Lucretius’s De rerum natura dealt with the whole of ‘natura’ but it was the
‘rerum’ of things – which suggested to Latin readers what modern speakers mean
by ‘nature’”. Obviously the SUSCEPTIBILITY OF MEN to THE ALLURE of boys and
women is a PART OF THE NATURAL ORDER for Lucretius. The beams of atomic
particles that EMANATE from the bodies of boys and women and attract men to
them are an integral part of the nature of things. It is the mentalitly evident
in such diverse textsa Lucretius’s poetic treatise On the nature of Things,
Martial’s epigrams, and graffiti scrawled on ancient walls that we need to keep
in mind when we evaluate the comments of Musonius Rufus, Seneca, and Cicero.
These are the words of three philosophers. Cicero expounding on the danger s of
love, Senceca inveighing against the corrputions of the world around him, and
Musonius arguing that men should engage only in certain kind of sexual
relations and only with their wives, the goal being the production of
legitimate offspring and not the pursuit of pleasure. These pronouncements tell
u something about the world in which these three philosophers who made them
lived, and about what men and women in that world were actually doing. Seneca
for example is hardly fulminating about imaginary fices) but they tells us even
more about Cicero, Seneca, and Musoiuns, and their own philosophical
allegiances We have every reason to believe that comments like their rpersented
a minoriy opinion. Indeed, the men AGAINST whom Musonius argues, who believed
that A MASTER has absolute power to do ANYTHING HE WANTS to his slave, is
precisel that man shoes VOICE dominated the public discourse on sexual
practice. Moreover, as Winkler (p. 21) trenchangly observers, Seneca’s condemnation
of such ‘unnatural’ behaviour as growing hothouse flowers or throwing nightime
parties, ‘though articulated as universal, is OBVIOUSLY DIRECTED AT A VERY
SMALL AND WEALTHY ELITE – THOSE WHO CAN AFFORD THE SORT OF LUXURIES Seneca
wants ‘ALL MANKIND’ to do without”, It is telling, too, that Cicero himself
never makes this kind of APPEAL TO NATURA in the SEXUAL INVECTIVE sscattered
throughout the speeches he delivered in the public arenas of the courtroom,
Senate, or popular assembly, and that the argument appears NOWEHERE ELSE IN the
considerable corpus of Seneca’s moral treatises. Likewise, it is worth noting
that Musonius Rufus’s who makes the most extreme case, not only wrote his
treatise in GREEK rather than Latin, as if to underscore its distance from he
everyday beliefs and practices of Romans, but as a philosopher omitted to
stoicis in a way that Cicero and and Seneca are not. As Haexter reminds us,
Cicero proposes manydifferent rhetorical and philosophical positions in his
speeches, letters, and dialogues, and Seneca’s epistles to Lucilius offer a
tentative and experimental mixture of Stoicism and other philosophical schools (many
of his earlier letters end with quotations from Epicurus, for example). In any
case, Boswell, cp. 130 citing ancient sources claiming that the very founder of
stoicism, Zeno, engaged in sexual practices with males (perhaps even
exclusively) tnote that many ancient stoics actually seem to have considered
the question of sexual praticess between males to e ETHICALLY NEUTRAL. Finally,
It is worth noting that both Seneca and Cicero were thought not to have
practiced what they prached. In a discussion of how Seneca’s behaviour often
stood in contracition to his own teachings, the historian DIO CASSIUS observes
that although he married well, Seneca also “takes pleasure in older lads, and
teachers Nero do to the same thing, too”. Dio 61 10 4. Tas te aselgeias has
praton gamon te epiphanestaton egme kai meikarious exorois exaire kai tauto kai
ton Nerona poietin edidaxe. The historian goes on to insutate that Seneca
fellated his partners, speculating on the reason why refused to kiss Nero. One
might imagine, Dio notes, that this was
because he was gisuted by Nero’s penchant for oral sex. But that makes
no sense given Seneca’s own relations with his boyfriends (61 10 5 o gar toi monon an tis hupopteuseien hoti
ouk ethele toiouto stoma philein elegxketai ek ton paidikon autou pseudos on). The younger Pliny (Epist. 7.4) informs us that
Cicero addresses a love poem to his faithful slave and companion Tiro. Of
course neither of these pieces of information tells us anything about Cicero’s
or Seneca’s actual experiences. Cicero’s poem could have been a literary game
and the stories a out Seneca that constituted Dio’s source may well have been
unfounded gossip (For Cicero and Tiro, see McDermott and Richlin. P. 223,
Canatarella p. 103 assumes that they actually ENJOYED A sexual relationship)).
On the other hand, is it not impossible that Cicero actually DID experience
DESIRE for Tiro and that Seneca DID enjoy the company of MATURE MALE SEXUAL
PARTNERS. And abovre all it is important to recognize that later generations of
Romans (the younger Pliny and Dio) were willing to IMAGINE THOSE THINGS
HAPPENING. Dio’s gossipy remarks and Pliny’s comments on Cicero remind us of the cultural context in which a
philosopher’s allusion to NATURA must be placed. Nome compiuto: Paolo
Casini. Keywords: naturismo, naturalismo, natura, nazione, patto sociale, la
legge naturale, l’uomo, contra natura. “antica sapienza italica” razionalismo,
la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto sociale -- Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Casini,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Casotti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del volere –
filosofia fascista – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Roma). Abstract.
Grice: “My whole philosophy, like Casotti’s, is based on the anatomy of ‘willing’!”
-- Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade
or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT
you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course
reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a
human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning
‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa
sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione
idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla
dottrina gentiliana dell'attualismo.
Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in
vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso
professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di
Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e
Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola
Italiana. Motivazioni personali, unite
all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad
allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche
precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una
filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis
philosophia” dell'aristotelismo aquinista.
Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando
l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di
insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro
reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate.
Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee)
in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di
crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come
un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto. Fonda la rivista Supplemento pedagogico a
Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi
una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come
arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale,
sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da
seguire e adattare alle difficoltà del contesto. Altre opere: “La concezione idealistica della
storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La
nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla
religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita
e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali
di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia
dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di
pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La
Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue
basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia
generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La
pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La
Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e
l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La
Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico, Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia
nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vita e
Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa,
«Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni, Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona, Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un
Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale , L ' Idea
Nazionale. vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola , 1920,
nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli
insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la...
Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale
riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova
pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923.
Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola,
Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his
career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a
conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924.
There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with
a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and
director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance
in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he
is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin;
he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He
produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually,
he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or
end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINO Saggi
di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno
e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica
Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e
radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi
tanto in voga, di autoeducazione, va meditata, seriamente, se non si vuol
correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli attivisti. Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine attività al posto del termine autoeducazione,
e il termine spontaneità al posto del termine creazione, che conviene solo a
Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire,
nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro:
nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio,
disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi -
uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - naturalistico, anche se
giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi
preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando
gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli volete sostituire un
dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci
manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia
di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al
mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare
ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella
maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri
nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un
periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e
soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con
sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che
doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San
Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo
le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non
fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o
non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non
si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E'
cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso
giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale
osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo
povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia
dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere
rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a
cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una
realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che
discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e
toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e
censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano
prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor
fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi.
Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno.
Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active,
qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa
l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima,
che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e
superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo
riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di
autoeducazione, di libertà, di creazione, quell’ingenuo ottimismo
naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo
denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San
Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua
critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di autoeducazione, va meditata,
seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di
accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active!
Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o,
meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio
libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli attivisti. Sì,
"attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino,
e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine
attività al posto del termine autoeducazione, e il termine spontaneità al posto
del termine creazione, che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate,
in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e
la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando
quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione
cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia
- naturalistico, anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico
vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico
fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro moralismo, e gli
volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica
addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia
di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali
certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese
e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri
avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un
passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo
pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero
di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà
e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e filosofie
nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la
pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno
nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche
come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose
opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le
faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri
mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o
rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed
intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore
(Piacenza) Convento di S. Francesco, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. I
saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo
di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta
pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana
Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima
della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia
cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza
temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso
ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto
l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche
nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno
che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al
quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a
testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla
fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta.
Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto
dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine
a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è
anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore
scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella
storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso
problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso
affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile
che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i
pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la
chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di
solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e
delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più
urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i
metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere
senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso
permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di
discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e
didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
De magistro, è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto
quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: che cosa è l'educazione?
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: come è possibile
l'educazione?. Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa
valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono
intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare
dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto
malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto
dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle
particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella
pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione
stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e
caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile,
davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un
soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede
determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste
stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e
lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. Posto così, il problema dell' educazione
ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore
l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare
precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non
indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il
maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed
attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una
difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine trasmettere o comunicare o
qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del
maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto
imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo
educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a
tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede,
come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si
trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la
virtù. E questi valori tanto poco si lasciano trasmettere, nel significato
materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del
pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile
trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un
soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità,
sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al
pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi
che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla
radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce
dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché
non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione
come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere
dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la
correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica
socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi,
Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto,
nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da
Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare,
indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o
nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la
scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una
scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta
la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina
dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè,
che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione
filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina
il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via
scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo
estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza
nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e
dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla
chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e
della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano
concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva
presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse,
anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda
verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e
verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a
ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente
scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De
Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto
conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un
modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa,
come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della
pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno d’AQUINO (si veda), incomincia da questa domanda.
“Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro
soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro
agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra
appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che
tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la
parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni
grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il
veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al
discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la
strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce
e si svolge normalmente l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e
geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla
quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche
sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera
che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una
magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo
col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione
della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo intuitivo od
oggettivo, ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento
molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non
ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi
accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia
il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia
deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere
che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare
l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché,
effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non
sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete
la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un
segno della parete: né più né meno della parola trisillaba parete [Cfr. S.
agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura
del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno
appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo
già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo,
allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se
non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La
parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente,
proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di
copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non
col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i
copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola capo la
prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in
relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri,
per intendere il suo significato [Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni
che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i
segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben
lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può
significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il
che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva:
la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal
maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono
essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni
sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto
interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che
le vengono date Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose
che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo...
per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore. E
che cos'è questa verità? ...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu
detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza
di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si
apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona
volontà. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione
nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo
spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle
possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova,
un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e,
in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque,
è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo
quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto
discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto
non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella
mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero
divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma
affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a
negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il
problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e
scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce
che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso,
cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una
soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De
Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare
dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare
così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura:
l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico
riprenderà tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale
guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo,
ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di
manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al
pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e
l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una
tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto
gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli
scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di
cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi
conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi
di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che
l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e
concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per
non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il
trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S.
Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo
modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei
peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben
costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che
abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia
pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione
di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi
averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che
permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia
dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate
(della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica
(Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo
intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che
un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente
prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito,
esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze
implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi
futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere
una risposta definitiva a questa domanda. Comunque, se circa questo
problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero
tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun
dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo,
cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda
all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole,
benché con intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla
dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata.
L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma
incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto
da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a
questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano
sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive
che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del
De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i
principi fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque
possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. Quod intellectus omnium hominum
est unus et idem numero [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1°
pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate
dallo stesso Arcivescovo nel 1277: Quod scientia magistri et discipuli est una
numero... Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro,
all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270
dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione
riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di
interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare,
adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In
sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da
un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale
interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni
speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi
attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma
doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente
attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò
nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari
oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti,
ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti
differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da
quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze
riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la
sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29],
fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si
corrompe colla morte, né più né meno del corpo. Fermiamoci un momento a
questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato,
pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio
Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un
averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore.
Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in
ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in
tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali,
dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla
funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà della
comunicazione fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il
maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la
semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima
possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò
l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma
solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si
veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare
convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del
maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica accresce la
sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il
pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di
spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né
l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo:
poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già,
filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile
riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di
infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria
averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa
l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la
pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al
principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto
pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto
pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità,
riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare
una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé
con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria
dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si
considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si
riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori
arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche
condannate affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non
conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi
gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma
alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i
commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di creazione da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze.
La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si
svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta
insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce
in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il
De Magistro d’AQUINO (si veda). Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, l'averroismo è,
infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra
maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S.
Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise
che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che
quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua
immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto
e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit,
quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam
ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod
movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita
convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente
che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la
fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima
intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la
molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o
all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto
del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in
quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i
quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto
particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel
fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no,
dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso
intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il
maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi
rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre
lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro,
quindi, non comunica né trasmette scienza nel senso vero e proprio della
parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei
fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce
dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e
annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua chiarezza.
Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe
dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare
sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa,
ammettono un Io unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare
alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra
un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria
averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire
col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano,
l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile
difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime
individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli
soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un
soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che
gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto
unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle
forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve
nulla, poiché tale continuatio vel unio come la chiama S. Tommaso non spiega in
qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto
particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi
dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come
l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o
che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il
colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi
le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma
piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1
(in corp.)]. Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare
a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come
oggi si preferisce dire, immanente. Poiché la questione non è di lontananza o
vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità
logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere immanente un
intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la
difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta
critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che
gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né
di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2)
ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver
criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco,
nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero
poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la
comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre
che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la
proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il
medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno
passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia
eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose
conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una
materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello
scolaro, ...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come
se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro
passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una
scienza, simile a quella che è nel maestro... [De Mag. Art. I ad 6.tum ...docens
non dicitur transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero
scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in
discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in
sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto
unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione,
colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un
soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si
sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra
loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata
per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per
ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le
cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè,
come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più
insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come
l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo,
il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico,
dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il
problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli
esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso
fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali.
Accanto a questa dottrina AQUINO (vedasi) ne ricorda, per criticarla parimente,
un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il
riscontro con la citata questione della Summa. Altri credettero, è detto nel De
Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché
in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per
opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose
fossero già immanenti nella materia. Quidam vero e contrario opinati sunt;
scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent,
sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim
quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes [De Mag.
art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei
Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti
naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per
partecipazione delle Idee. Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo
disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per
participationem specierum separatarum [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)].
E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De
Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto
il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò,
l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa
l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo
ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica
della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche
giustificazioni della autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è
anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la
dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe
avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla
stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E,
infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria
averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i
suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la
quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede
nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi
frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma
ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste
antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello
scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per
cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero
del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che
l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In
realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel
combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, AQUINO
(si veda) ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella
che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica
moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S.
Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di
togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come
l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al
problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la
possibile comunicazione fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e
nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto
che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei
segni ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già
conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non
servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni.
A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno
dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa,
la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può
considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza,
dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché,
per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività
conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune
forme o categorie come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la
sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla
sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se
ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria
tomistica della conoscenza, che non è affatto un innatismo simile a quello,
poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio apriorismo capace di
richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza
critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia
moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva
costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'a priori
nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra a priori
ed a posteriori]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un a priori
nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra
ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della
scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per
partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo
nostro, ma solo in potenza ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro
ha in sé alcuni germi di scienza quaedam scientiarum semina, cioè alcune,
virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata
dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le categorie. Che contengono
già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata,
presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali
dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali
nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi
di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in
potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per
escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia
contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è
nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del
pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza,
e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed
esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o,
meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo
il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non
sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli
insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed
implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto
possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne
fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è, secondo AQUINO
(si veda) uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una
vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una attività sintetica. A
differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti
sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli
uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti
gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note,
nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza
intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le
cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII.
mum) ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed
statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite
continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis
ea quae in principiis implicite continentur explicando ]. L'intelletto,
cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce
tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e
un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica
appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce
in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del
ragionamento. Tanto che se si propongono ad alcuno cose non incluse nei
principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in
lui scienza, ma opinione, ovvero fede. VI. Sia concesso prima di
procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria d’AQUINO (vedasi) riguardante
i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è
mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e
radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato
contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un
segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai
potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza
relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome
dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto
dei principi si sono messe le categorie di Kant, l' io di Fichte o i momenti e
gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema
ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'io,
resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in
quanto è sembrato che l' io solo fosse un principio immediatamente per sé noto,
e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si
deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e
qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella
quale si trovano i principi primi della teoria tomisticoaristotelica, la quale
sotto questo aspetto è dunque tanto moderna e critica come qualsiasi altra.
Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere,
mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della
conoscenza intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha
bisogno di un motore (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza
all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale
dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per
una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i
primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave
lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte
non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le
conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece,
scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre
cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi
principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e
deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare,
sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per
effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il
maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: inquantum proponit discipulo ordinem principiorum
ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem
collativam [S. Theol. loc. cit].
Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume
intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o,
meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per
sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori,
disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della
esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove
conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza
sensibile ci offre. Coi concetti di uno, di essere, ecc. (primi principi) io
non posso formare i concetti di animale, di vegetale, di uomo ecc. se
l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali,
animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io
formo appunto il concetto di animale, vegetale, uomo ecc. Processo che S. Tommaso descrive così:
Cum autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua
particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per
inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat... Non basta,
cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni
particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima,
col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la
conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed
imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile
molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il
maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o
proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al
lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed
esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse
[...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex
praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua
sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus
intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae. S. Theol.
loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro:
procurare allo scolaro aliqua auxilia vel instrumenta aiuti e strumenti di
lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto
quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza
diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera.
Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio
che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto
viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi
principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo
passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della
Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente
il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della
Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i
maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma
perché davvero causassero, cioè producessero qualche cosa ...prima causa ex
eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam
quod causae sint [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause
seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde
significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio,
supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi
sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto
l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e
platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico,
o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli
agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale.
Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del
maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva
d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore:
nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel
tale, difficile problema della comunicazione fra maestro e scolaro? E quella
tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili
del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per rispondere a queste
domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo,
i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica.
E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è
proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale
da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di
passaggio della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da
una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La
scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già
visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma
se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse
cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere
un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono
tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali
persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una
identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha
punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto
materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa
formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria
scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del
maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che
siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente
identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno
nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il
processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della
conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi
l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza
senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta.
Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo
scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col
quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire
uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di
numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato
non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo,
il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che
qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo
stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che
aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale:
l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir
l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il
maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali.
Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero
che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto
che ...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et
per eadem media, quibus et natura [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è
ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica
alla natura. Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo
sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la
natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che,
ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello
stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto [Ibid. Si
cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza
fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento
come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o
si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema
della comunicazione? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa,
sia pur non trasmettere nel senso materiale della parola, ma anche solo
provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua? Ecco,
come S. Agostino, anche AQUINO (vedasi) non mette in dubbio che lo strumento
principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e
siano i SEGNI ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che
S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il
carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della
scienza. Poiché il segno del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia
tutta speciale: è sensibile, sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla,
sensibilità affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità
degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della
sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il
fantasma o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed
immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il
fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle
sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già
l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò,
con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: il calore dilata i corpi. Che è quella legge? Niente altro che una
forma. Nella natura é la forma di quel processo che è, appunto, la dilatazione.
Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le
forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un
determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è,
appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne
abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si
dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione
partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che
potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il
corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni
particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E
come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua
volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della
dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo
processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli
corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti
videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione
universale! E si capisce: quella forma che è la legge della dilatazione esiste
nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una
materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma
bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne
seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è
formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste
precise parole: il calore dilata i corpi. Anche qui essa viene espressa con
segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili
quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza.
Che per poter dire o scrivere le parole il calore dilata i corpi si è già
dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge
della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere
materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente
del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto
un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge
scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o
concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a
dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire
dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole il calore dilata i corpi
(udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la
legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e
della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè
anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è
detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della
dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali
il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata d’AQUINO (si veda) Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi intuitivi od oggettivi escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente
essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una
differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente
come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché
è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o
viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le
cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto
riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui,
poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che
non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni
delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium). IPSA VERBA
DOCTORIS AVDITA VEL VISA IN SCRIPTA HOC MODO SE HABENT AD CAVSANDVM SCIENTIAM
IN INTELLECTV SICVT RES QVÆ SVNT EXTRA ANIMAM QVIA EX VLTRISQVE INTELLECTVS
INTENTIONES INTELLIGIBILES ACCIPIT QVAMVIS VERBA DOCTORIS PROPINQVIVS SE
HABEANT AD CAVSANDVM SCIENTIAM QVAM SENSIBILIA EXTRA ANIMAM EXISTENTIA
INQVANTVM SVNT SIGNA INTELLIGIBILIVM INTENTIONVM. E sappiamo già che cosa vuol
dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di
vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere
cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed
esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni"
intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle
sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del
maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle cose e dalle sensazioni:
non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato
procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi,
incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante
vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione
di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che
facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può
sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli
elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto
fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa
incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla
percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può
metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere
l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri
oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere
l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina,
l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto,
così, quel tal problema della comunicazione fra maestro e scolaro? Certo, ed è
risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista
parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere,
dei segni fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab
estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto
intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo,
poiché vera causa di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di
ripeterlo - sono non già i segni del maestro, ma il lume intellettuale e i
primi principi dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità)
di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme
intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi,
mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività,
senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e
aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro
altro errore che AQUINO (vedasi) combatte continuamente negli argomenti acclusi
al primo articolo del De Magistro non è già un'opera creativa; come se il
maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi.
Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è
l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col
trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro
un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e
qualsiasi attività od operazione. L'arte dell'insegnamento non crea la
natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano
è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non
realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e
malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo
articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e
spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale
in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati
ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto
evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il
principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A
noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in
certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde
senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci,
intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua
dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha
fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene
attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente
simili: acquistar scienza da sé ed esser maestro di se stesso. Che cosa vuol
dire acquistar scienza da sé secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non
quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi
principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza
sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere
nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella
natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un
esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È questa,
così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui
estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da
parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della
esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a
che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che
chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato.
Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè,
la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De
Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar
confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma
se questo processo é, innegabilmente, acquisto di scienza, è poi anche
insegnamento, o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è
un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò,
l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale
noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e
nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella
mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di
certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque
nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un
processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione
che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua
mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come
possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente
esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge
della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei
corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e
non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura
legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non
avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina)
per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene
due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria azione (azione perfetta) é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è
necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da
essere una vera e propria azione (azione perfetta) occorre che nell’agente sia
già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade
soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in
sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà
poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio
è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la
causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile,
contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili
come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al
suo essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene -
un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario,
S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal
modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo
all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice
insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che
dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a
quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no
non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste
precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua
cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra
un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e
spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo
tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per
camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche
dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo
migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e
che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà
l'autodidatta merita lode ...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la
ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si
segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più
perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento [De Mag. Art.
II (ad 4.tum.) quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit
perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad
sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per
doctrinam]. Né si creda che quel ridurre a scienza più speditamente, sia
solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così
importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la
differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe
filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è
la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a
questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della
filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa,
s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si
crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la
filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente
realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito
sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo
genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che
non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di
completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la
filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero
nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e
futura, ma in potenza o come pura possibilità di conoscere, non già come atto,
o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa
reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma
in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può
dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è
la pura possibilità di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere
in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la
scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una
pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il
figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla possibilità di vivere.
Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in
atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa. Ecco la
differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo
questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un
germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa
o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la
realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel
quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab
aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi
rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco,
quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e
l'autodidattica, fra lo scoprire e l'imparare. Si capisce che per coloro i
quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga
l'inventio: se prima non abbiamo scoperto o tratto dal nulla la scienza, che
cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è
vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè,
scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che
cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà
la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure
forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire
come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la
scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il
valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento,
poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore
a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si
potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle
rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico
dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno,
non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della
scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo
atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre
vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in
una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e
concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di
dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria
della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve
saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume
Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1930]. Basti qui
ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si
ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della
scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in
cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda
disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina
piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba
avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore,
il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per
ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume
intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze
d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata
dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e
a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i
secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza
come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione
diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che
agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce,
piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo
ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella
scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S.
Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento
non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto
naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro
tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della
scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e
nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla
quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e
possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della
Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della
Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare,
consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo
metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la
libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente
un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come
l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto
impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata
sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione,
anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa,
colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben
lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto
liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia
moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto
diversi come quello di attività o libertà e quello di autodidattica, quasiché
per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia
di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
medioevalisti, come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi,
l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso
un antico più vero e, perciò, più moderno del moderno: l'effetto di una novità
addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in
tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato,
soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti,
normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i
quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti
dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che
s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via
nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e,
viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della
lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma
soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la
pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi
generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro
possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente
costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente
insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti,
mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un
uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì
la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le
specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il
catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte:
avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e
soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di
più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e
commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio
uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze
della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che
la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale
l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari.
Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è
naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più
semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi
soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione
e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel
collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze,
la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e
l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece,
tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una
particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni,
atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura
propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo,
ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali,
appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della
natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo
medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata
morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso
le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova,
i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece,
dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così
profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con
quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non
parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto
soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto.
Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e
neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò,
dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe abbastanza
interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate,
quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più
importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è,
attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro
di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più
importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche,
perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una
immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue
proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può
coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio,
il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione
naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse
della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un
perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli
non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la
conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra
parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non
potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere
tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare
che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato
mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili;
o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe,
subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero
mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla
possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche
si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare
eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la
grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento
soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma
impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva
rivelazione divina e proclamando errori la filosofia e peccato le virtù dei
pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza,
ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del
paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi
chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo
sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della
civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi. Ma, oltre
questo naturalismo ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della
natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha
pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre
questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di
educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro
naturalismo niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo,
non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie
necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce
allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti
leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua
propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima
analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che
l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento
delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante
natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita,
quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo,
ma respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una
educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale
nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono,
per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua
effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per
essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini
siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino,
in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella
misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana,
nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e
gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero,
sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del
mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il
peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo,
qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a
un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare
che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che
regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà
di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non
da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono
e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel
delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo
dell'uomo educato? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci
dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio,
riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione
a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità
avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad
istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i
libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è
perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro,
che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova
mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo
sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una
realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono
l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella
possibilità e la sua realizzazione effettiva. Riescono, almeno, questi
sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre
gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non
pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi:
forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia?
Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi
che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti
accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi,
vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire
notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i
tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte
ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua
lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai
nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla
cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della
triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci
o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni?
gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto
ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se
fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi, badiamo, non si
tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non
si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente
diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti
intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse
uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che
quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a
tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la
nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo -
circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato
ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose
abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia -
quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere -
l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di
fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far
diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al
vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando
si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei
non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano,
irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la
natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto
educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e
ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile
a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso
contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato
in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena
la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo,
anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in
certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee,
mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente
dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato attento, se i
ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non
lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la
chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro
imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi
che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare
andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha
già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle
idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni,
le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il
maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando,
sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche
il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di
nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la
parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene,
la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una
critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è
sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà
servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che
si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal
maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno,
atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a
questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un barbaro che
vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad
astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo
in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena
di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue
un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più
lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee semplici, che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e semplificare, tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo intuitivo
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere
il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi
avvicinarle e far contare: se il ragazzo è disattento, se si rifiuta di far
scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se non vuole ascoltare,
nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere
nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi,
quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione
dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di
un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri
geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo intuitivo possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che sapere scolastico
è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo
a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione
scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni
istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione
s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili;
supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo
rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a
taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno,
falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita
risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da
circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in
fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i
sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più
ideali e favorevoli condizioni. Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà
dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione
della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà
della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro
l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la
storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di
questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini
dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono
abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi
verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla
cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale
sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione,
e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le
ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente
istruzione morale: che, cioè, il non rubare, non dire il falso testimonio, non
desiderare la donna d'altri e simili precetti della morale naturale siano
appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad
altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione.
Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse
dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si
sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei
precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e
applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli
diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò
nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui,
predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al
vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la
pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è
appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere
libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la
predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se
la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni.
Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella
medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee
morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo
significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti
particolari. Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione,
abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in
certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio
ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta
d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un
giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La
teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole
azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito
loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che
un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato
a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e
dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi
progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di
peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai
abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe,
ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla
scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga
educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto
quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda
l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui
sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà,
fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto
effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare,
anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che
cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione
misteriosa? È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa
dell'universo, risponde il positivista. È la razionalità del reale, lo
sviluppo dello spirito, dell'io immanente ed onnipresente, risponde
l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono
lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi
procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione
intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad
ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra
conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti,
e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come
per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa,
spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo
educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza
che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto
non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa
stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo
allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi
naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti
e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. Materia,
spirito, evoluzione o storia, sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali
esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni
nostra esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e contorti, che non
possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così
perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il
giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o
la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra
possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece,
un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno
sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa
sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei
suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di
cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che
compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano
anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo
nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il
delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà.
Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che
si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà.
La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe
entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia
compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a
tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le
incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia
di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in
quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma
la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno
questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale,
l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile
e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire
assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una
educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna
contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale
nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale: utile
nello stesso senso in cui i teologi parlano della utilità della
rivelazione. Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è
d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi,
appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la
sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le
resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi
della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al
bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare
all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze
inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la
fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di
genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta
educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un
solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale
volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di
macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il
genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione
naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla,
per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i
suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue
industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua
fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante
tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi
intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della
pedagogia. Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico
nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata il 17 dicembre 1924. È importante che il
lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo
studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e
democratica, che sono com'è ovvio assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi. Domando
scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così
poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove
si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e
nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da
quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi
capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un
organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti,
tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come
l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come se mi perdonate il
brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani,
mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è
dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità
riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la
curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da
un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più
mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole
di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano
qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare
nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano
immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non
abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto
dei discorsi sull'anima della scuola, sulla sacrosanta necessità di educare
oltreché istruire, sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione
un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei
discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana
nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
forse per ironia di concetto, nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa
che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le
nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da
rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui
capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria
soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla
punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e
neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo
non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde
traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma
è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la
noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali,
l'analfabetismo morale insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni
scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o
interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali
e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti
cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non
dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza
d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non
averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati
deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di
cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma GENTILE (si veda):
i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel
loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che
accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto
spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora
paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un
mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del
mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina
eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come
la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome
tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le
lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae
dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di
amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel
volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una
larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che
l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli
edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno
spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il
pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali
idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come
notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli
istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola
universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti
si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non
presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da
sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro
futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro
tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la
ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi,
per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto
il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un
differente senso dello sforzo gioioso base d'ogni cultura, i primi rudimenti,
ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione
ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con
sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita.
Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi,
un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo
visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in
materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha
infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno
come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le
bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha
trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare
che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra
cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto
Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo
sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la
cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già
compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia
perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in
sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole
ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e
gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole
elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare
che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione
del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici
non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano
ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar
giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi ponga mano ad
esse, ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde
non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi,
a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che
ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una cultura nel senso
di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello
spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della
scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza
un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse
in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella
stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la
formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un
lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel
mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza
interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed
eccoci a quello che dicevamo prima sull'analfabetismo morale, ben più
pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee
il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o
l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e
difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il
bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina
spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari,
e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le
sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica,
e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e
di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con
passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli
anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o
iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad
apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca
d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei
propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo
ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra
nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe,
forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri
e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera
superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina
romana, le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri
tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati,
avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime
lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non
fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e
l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri
accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una
cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione
scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro
pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare
non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E
quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel
miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se
non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il
maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle
agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi
intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con
mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione
intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi
anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione
politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato
che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del
raccoglimento e della meditazione, va a divertirsi in un modo più o meno
discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle,
ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè,
del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo,
l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del
lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio
moralmente analfabeta che nei suoi salari che gli hanno permesso il
pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più
sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo
duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica
gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità
simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale
dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono
pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol
lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di
sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami
del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le
chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più
massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al
volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche,
agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere
qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il
principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del
manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon
pubblico liberale e democratico, quello dello stellone, non fu purtroppo
accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi
dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il fattaccio
con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove
si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i bocciati
alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato,
implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della
conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle
scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita?
Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità,
l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo
avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del
'14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui
cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale
alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un
giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica
da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero
impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il manganello
dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di
famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben
altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero
finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente
sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di
fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione che vi ho
prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete
chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future
insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori
riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo,
fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle
dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue
condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle
città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci
permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente
su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di
cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura
nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel
nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla
bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo,
avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che
già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare
poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo
conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse
sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo
laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo
aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando
intelligenze, opponendo ai divertimenti dissipatori il gusto d'un nobile lavoro
dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il
Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le
conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa
farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho
cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia,
essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello
alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi
annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza
italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il
nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo
marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la
parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è
parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un
altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema
pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale,
noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui
si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline
formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di
prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi
cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero
fondo della questione. Giacché il cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha
troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini
del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della
Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore
Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe
risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la
corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe
stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale
ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene,
l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea
delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato
ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i
difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale:
rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento
brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo
passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni
dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del
Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la
cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se
stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in
quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le
critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il
realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del
Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi
scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la
formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il
nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche,
ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che
annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo
entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella
legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a
detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va
impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito
ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato
quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in
poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i
suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte.
La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo
scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo
letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e
scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei
fatti e delle notizie e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile:
pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo
scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore.
E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un
Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno
simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte
della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro
l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non
diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so
quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato;
né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della
rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria
scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma
allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche
dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore
infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in
genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente
rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo
nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura,
d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era
parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la
cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico
riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti
dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a
torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che
s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo
l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica
che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da
meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli
immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso
programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri,
non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata
superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato
nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani
oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola
neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere
umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più
l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione
della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come
“spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici
laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo
additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non
soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo
e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza,
ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la
letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente
intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno
dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che
racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per
così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore.
Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”.
Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito
umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua
immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente
mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve
sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola
umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della
abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per
essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista? No, una
cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni
pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento
dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta,
limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con
dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti
che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà
superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando
guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei,
essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il
caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio,
tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il
più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica
è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna
in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del
realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre
insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica
prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est
necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite
per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia
cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla
filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via
su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia
divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza
fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché
il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile
anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve
riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il
circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante
tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la
ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore
e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia
gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria
ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e
in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi
indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma
come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si
perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e
imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco
perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la
grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la
vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla
pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore
e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito
cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al
realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi
di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.
Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di
intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio
lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza,
debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta
d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica
l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi,
la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle
proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi
al terribile problema: che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche
volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?
Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e
che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale
ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto
pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno
bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la
libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il
nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso
tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di
comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno
una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo
che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro
col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del
neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il
problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno
non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e
della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la
maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se,
viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual
criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che
tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco
lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e
all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne.
Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva
saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla
scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si
attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di
lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei
doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che
esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo
aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di
sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire
abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al
lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre
rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la
gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava
compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo
aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta
attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per
la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno
per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che
non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al
mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso.
Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di
nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare;
concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di
studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle
moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della buona novella
queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni
che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco
interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che
quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od
esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla
via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per
la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo
deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo,
trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto
fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha
sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti
della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica
cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei poveri e degli
ignoranti, sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo
specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa
non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto
distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna
primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita
cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha
mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e
ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e
pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo
fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale
cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi
le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la
Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché
le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica
del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione
intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più
ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo
ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito
eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che
tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza
(razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa
disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite
nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più
sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai
grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile
d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo,
impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene,
da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo
ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che ecco la vera parola barbara distruzione della libertà
umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto
del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non
avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da
dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che
sono di Dio appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro
interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del
proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni
fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la
brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita
irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe
esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti
“divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati
alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo,
con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta
della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e
suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe
arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i
grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la
prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha
affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la
partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura,
la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? Oggi si raccomanda il metodo attivo, si
biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del
lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni
medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano
del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi
si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti
moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le
congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in
una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse
hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma
forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce,
ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della
pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana
e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro
assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa
tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché
mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai
pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente
stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera
dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per
l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur
cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni
effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è
mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto
originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella
da lui vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il
domenicano e via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la
Chiesa racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno
ben delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si consideri
che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una larga azione
sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare sistemi e
metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in quanto era
possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene che si
poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario e
dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal
moltitudine di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un
amore della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una
infaticabile attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della
sfera umana, una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per
cui l'uomo guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di
superiori ideali quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira
quando la colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o
del missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta ascoltare,
è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda questo lungo
discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una conclusione così
bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una conclusione che, non ne
dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie scarsissime forze hanno
dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il nostro futuro lavoro
comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e sempre meglio. E questa
conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i maggiori problemi della
pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi richiama là dove da secoli la
vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e, possiamo dire senza tema di
smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie. Diffondete pure il sapere fra
le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con gl'intenti ch'Essa vi ha
insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle tormentose crisi dell'anima
moderna; di soddisfare, così, pienamente alle esigenze della pedagogia più
raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla quale sarete uscite, potrà
veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le altre scuole universitarie,
una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente, in quanto ciò è dato ai
nostri deboli sforzi umani, non demeritare di raccogliersi sotto l'altissimo
nome che oggi invochiamo a guida e conforto: sotto l'altissimo nome di Colei
che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio, umile ed alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia, religione e "filosofie"
nelle scuole medie L'introduzione dell'insegnamento religioso nelle
scuole medie e, più, l'esplicita dichiarazione del Concordato secondo la quale
la dottrina cattolica deve essere il necessario fondamento e coronamento di
ogni istruzione, hanno fatto nascere, strano a dirsi, nell'animo di molti e
insegnanti e studiosi un turbamento la cui eco si è sentita nell'ultimo
Congresso di filosofia, e si sente tuttora negli scritti e nelle private
conversazioni di quanti, o per elezione o per ufficio, amano discutere i vivi
problemi della scuola. E forse non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse
che tale discussione, interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola
media in genere, offre poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto
magistrale, dal quale (si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo
d'istruire i loro alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma
precisamente intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare
certamente, se già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda
istruzione e formazione religiosa. È bene dirlo subito: intendiamo di
deliberato proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che
possono nascere e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione
dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per
un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo
persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte
dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della
questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver
male risolto il problema filosofico che della questione stessa sta al
fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la
difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. Che significa
si domandano molti questa
dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il coronamento degli studi?
Significa forse che si debbano escludere e bandire severamente dalla scuola
tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili colla ortodossia
cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la libertà di
coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa libertà
della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica pienamente solo
negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può neppure escludere
del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a una semplice
trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di intima ricerca
è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, e
non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno esclude assolutamente
quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce la feconda ricerca e
la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende di ridurre tutti,
volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì gran braccia che
accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina, poiché in ogni
dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della verità. E dunque,
mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha diritto di esprimere
il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero, secondo il cattolico,
il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto, deve esser cacciato e
tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso. Ora, ognuno vede da
qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il prevalere della
filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del pensiero, il
prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto e ristretto
oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà moderna ha, e
vuole avere, per sempre superato. E, poste queste premesse, ecco che
molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le par di
vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed entrar
nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il collo
con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo e per
segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché. E poi,
al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e rimozioni
dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale, o meglio,
storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica piazza, e un
buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i libri proibiti
formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che assisterebbe, fra
cantici di gioia e inni sacri, all'edificante spettacolo. Ora, i timori -
più o meno irragionevoli - sono timori, e la filosofia è filosofia, e forse non
c'è cosa tanto difficile a questo mondo quanto il persuadere certe brave
persone che i timori vanno trattati da timori e la filosofia da filosofia; che
le questioni filosofiche non si risolvono coi timori, ma cogli argomenti.
Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se ne sono fatte da che mondo è
mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei secoli; sarebbe dunque
puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma giustizia vuole che di
queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento e il valore, prima di
sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima cosa, ma finché non
vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente parole: segni, o suoni,
siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta avvinca a sé i cuori, o gli
stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi stordiscono, sulle piazze,
la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al presente studio, questo fine:
domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e su quali argomenti poggino
quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si vorrebbe sequestrare il
cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per relegarlo nei musei
d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe inonoratamente seppellire.
Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi quali si cerca di carpire il
consenso attraverso la mozione degli affetti e guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci
che alla forza dell'evidenza e della ragione. Cerchiamo, se è possibile, di
ridurre la questione a un tale stato di chiarezza che chiunque ci segue, amico
o avversario, possa senza disperati sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere
le ragioni sulle quali poggia la nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il
più piccolo errore nel quale ci sia avvenuto d'incappare. Cominciamo con
l'osservare subito che la questione che ora c'interessa non riguarda tanto i
rapporti, o i conflitti che possono nascere, nella scuola media, fra
l'insegnamento religioso in quanto puramente tale, e l'insegnamento della
filosofia. Che se il problema fosse questo, molti amerebbero risolverlo, almeno
in pratica, con una pacifica e cortese reciproca neutralità: l'insegnante di
religione insegni la sua religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua
filosofia, e tutti pari. Ma il problema riguarda, invece che l'insegnamento
della religione e quello della filosofia, due modi diversi di concepire
l'insegnamento della filosofia, cioè due diverse concezioni della filosofia, o,
meglio, due diverse concezioni della verità, diverse tanto, che non possono
convivere pacificamente fra loro, né stare insieme senza distruggersi a
vicenda. E se poi anche l'insegnamento della religione finisce con l'essere
implicato in questo conflitto, ciò accade pei diversi effetti che quelle due
concezioni producono, e non possono fare a meno di produrre, nel modo stesso di
concepire la religione. Ma quali sono queste due diverse concezioni in conflitto?
L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e lo ripetono a sazietà coloro che formulano,
contro la filosofia ispirata al cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora
abbiamo sentito. Possibile mai che la verità debba essere qualcosa di fisso, di
statico, d'immobile, definibile una volta per tutte e racchiusa, per tutti i
secoli, entro i ferrei cancelli di una determinata dottrina? Ma la verità è
invece, progresso, sviluppo, divenire: e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire
del pensiero che incessantemente si accresce su sé medesimo, creando sempre
nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna delle quali è un momento e un aspetto
immortale del vero, ma nessuna delle quali può aspirare ad esaurire in sé la
verità tutta quanta. Ecco dunque le cose singolarmente semplificate.
Verità fissa ed immobile da una parte; verità in continuo sviluppo dall'altra;
verità trascendente, da una parte, verità immanente, e identica col divenire
stesso del pensiero dall'altra; verità oggettiva, che il pensiero filosofico
può soltanto scoprire e riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva,
eternamente creata dal pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice,
più chiara questa antitesi, molti amano ricorrere alla storia della filosofia e
impersonare in alcuni nomi di filosofi celebri quelle due diverse concezioni.
Kant ed Hegel da una parte ed AQUINO (si veda) dall'altra, quasi due mondi l'un
contro l'altro armati, la filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia
scolastica. Contro, si capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti
i sistemi filosofici veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a
San Tommaso e alla scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un
“momento” della immortale verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché
chi pensa la verità come un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa
sui piedi, offrirci a modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o
l'hegeliano, a preferenza di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e
li ricostruiamo noi. Kant ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso
colui che adesso parla o scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo
appello alla storia della filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e,
anzi, vedremo che intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro
effetto di maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente
vera la concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”,
e, per necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo moderno non ha
pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo
sconsigliato ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o
scolastico, “tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere
oltre, una semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o
di questa piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i
personaggi del filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che
le parole sono parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”,
di “libera ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un
grande effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e
ciò accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere,
in questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere
ciecamente, ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di
progresso e di spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II.
Il procedimento adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la
filosofia dei cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica,
come retriva e non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed
artificioso che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra
filosofia non scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di
vituperi. E se queste parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa
da quella che vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese,
diremmo che tale procedimento è assai simile a quella “illusione
cinematografica” del pensiero per la quale si pensa d'aver afferrato e
ricostruito un organismo vivente quando se ne sono raccostate alcune immagini
parziali e frammentarie. E, infatti, tutto l'equivoco si fonda su questo:
quando alcuno dice di ritener vera una filosofia, sia essa scolastica o
antiscolastica, religiosa o irreligiosa, idealistica o positivistica, dogmatica
o scettica e così via, è costretto a dirlo con frasi e parole le quali ci
danno, per forza, di essa soltanto un'immagine approssimativa e inadeguata. E
tanto più approssimativa ed inadeguata, quanto meno è possibile condensare in
una breve formula verbale, qual è quella per cui uno si dichiara scolastico,
materialista, idealista o naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale
nella filosofia: gli argomenti coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie
tesi. E questo stesso carattere di approssimazione e di inadeguatezza si
estende, in un certo senso, a tutte le parole, e a tutte le frasi, e a tutti i
libri che sono stati scritti per esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per
importante che sia, non si può mai dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina
che pure insegna, o possa considerarsene un equivalente materialmente completo.
Tanto è vero che da che mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e
difendere le varie dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può
finire. Poiché una dottrina filosofica è un insieme di concetti e di
ragionamenti: e benché concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole
e con libri, e si possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule,
pure, non i libri e le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti
costituiscono l'essenza della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire,
non deve fermarsi alle parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire
ai concetti e ai ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto
pel quale si costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è,
evidentemente, lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o
s'impara a memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice
“siate idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e
vi scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della
filosofia quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele od AQUINO (si veda), come
quelli coi quali il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere
davvero così sciocco ed insensato da volervi indurre solo a ripetere
pappagallescamente “siamo scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere
tal quali le sue parole, e ad imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto
Empirico, di Aristotele e d’AQUINO (si veda). Ma pretende, invece, che i suoi
uditori o lettori, da quelle formule e da quei libri risalgano ai ragionamenti
in essi contenuti, e, mediante u n positivo lavoro del loro intelletto, li
riscontrino veri e se li approprino, facendo così un'opera di ricerca che è
certamente originale, benché riesca (nihil sub sole novi!) a conclusioni già
scoperte da altri pensatori, siano essi Hegel o Sesto Empirico, Kant od AQUINO
(si veda). Né questo riuscire a conclusioni già scoperte da altri menoma in
nulla l'originalità e la libertà della ricerca; giacché la libertà del pensiero
non consiste punto nel non aver nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare
nulla che non sia dimostrato vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la
libertà dell'intelletto è garantita, in altro non consistendo tale libertà se
non nell'esser fatto l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser
libero e attivo sol quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa
fanno, rispetto alla scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici
poco esperti, o male intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i
filosofi scolastici siano, essi soli, così insensati da far consistere la loro
filosofia, non nel pensiero ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici
esser “scolastici” significhi non già compiere quell'effettivo e originale
processo di pensiero pel quale ognuno può riscontrare col proprio intelletto la
verità della filosofia scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza
mutare una virgola, l'una e l'altra Summa d’AQUINO (si veda). Onde, la facile
accusa agli scolastici d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò,
diseducare il pensiero umano, riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica
fatica di ripetere frasi, o libri altrui, con quelle pessime conseguenze per
l'educazione e per la scuola che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla
quale, evidentemente, non si può rispondere altro che negando l'arbitraria e
cervellotica supposizione dalla quale è partita. Nessun filosofo scolastico,
infatti, s'è mai sognato di voler indicare col termine “scolastica” soltanto la
parola e non la cosa, i libri, e siano pur d’AQUINO (si veda), e non la
dottrina in essi contenuta, le conclusioni, e non il concreto processo di
pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo scolastico, quando dice agli
altri “siate scolastici” vuol loro imporre la irragionevole schiavitù di una
dottrina senza dimostrazione e senza ricerca. Nessun filosofo scolastico,
infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse altro che un concreto
processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano vere alla luce della
ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale di colui che studia.
Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non d'un pezzo di legno,
non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così com'è, ma dovrà bene
arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e ripensando, e non
smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo, sillogizzando,
dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non c'inganniamo, i modi e
le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma la propria attività e
originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo da sé il falso.
Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina scolastica differisca
dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche o
scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale equivoco fra il
pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica si compiacciono
d'insistere. Infatti, una dottrina, come or ora s'è visto, la si formula
in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo, e a chi li guardi
dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato, esterno anch'esso;
esterno, ben inteso, finché colui che esamina la dottrina proposta non
sia in condizione di passare all'interno, cioè di riscontrare vera, mediante la
propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi così anche della bontà ed
esattezza di quelle espressioni, di quelle formule, di quei libri che prima gli
erano apparsi qualcosa di arbitrario e di indimostrato. Ma questa, se così
vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del pensiero umano che non può
afferrar la verità immediatamente e tutto in una volta, ma è costretto a
raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola filosofia scolastica, bensì
appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o positivistiche, materialistiche
o scettiche che siano. Le quali, debbono pure anch'esse formularsi in parole e
in libri che, in un primo tempo appaiono, per forza, un puro e indimostrato
dato esterno, finchè colui che le esamina non è in condizione di dimostrar vera
la rispettiva teoria idealistica o positivistica, materialistica o
scettica. Il che è ancor più manifesto quando si tratta della scuola e
dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali condizioni da
poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della dottrina
insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e definizioni e
formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la ragione. Che
se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi una
oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non soltanto
la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o positivistica,
materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire oppressiva e
restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale, oscurantista
e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente amica della
libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi come testo di
studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che proporsi Kant,
Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule scolastiche debba esser
più avvilente che imparare definizioni o formule positivistiche o idealistiche,
vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel solito dilemma dal quale non è
dato trovare una via d'uscita. O il presentare una dottrina restringendola in
alcune formule e in alcuni libri ed autori, che in un primo tempo appaiono,
necessariamente, allo studioso come puri dati esterni da accettarsi solo
sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un secondo tempo, una compiuta
dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è ammissibile, nulla ci vieta
d' insegnare la scolastica, così come altri insegna l'idealismo o il
positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come altri può prendere
Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica diventa, certo, una dottrina
oppressiva, incompatibile con l'attività e la libertà del pensiero umano, ma
anche l'idealismo, il positivismo, lo scetticismo e persino l'eclettismo
diventano dottrine altrettanto retrive e incompatibili con l’attività e la
libertà del pensiero umano. Ciò è tanto vero, che, in ogni tempo, ci sono
stati autori e scrittori più coerenti degli altri, i quali, per essere
imparziali e non far danno a nessuno, hanno addirittura dichiarato oppressiva,
antiquata e insopportabile la filosofia stessa, a qualsivoglia tendenza o
dottrina appartenente, e si sono vantati di condurre liberamente la loro vita
intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie delle dottrine e dei sistemi.
Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a tutti, anche il dire di non
credere nella filosofia è fare della filosofia, e anche il dire di non avere un
sistema è un sistema, come lo scetticismo, l'eclettismo o qualche altro tipo
simile. Ma pretesa coerente, anzi coerentissima con l'assurdo medesimo dal
quale è partita, poiché se insegnare una qualsiasi dottrina rigorosamente
definita e formulata vuol dire opprimere il pensiero, il miglior modo, anzi,
l'unico modo di non opprimere il pensiero sarà addirittura quello di non
formulare né insegnare mai nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né
materialistica né di altro indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale
dell'economia e della semplicità per filosofi, scienziati, legislatori, maestri
e scolari, se solo non avesse, come or ora s'è chiarito, il difetto d'essere
inattuabile. Colla pura e semplice denunzia di un equivoco verbale cadono,
dunque gran parte delle irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la
filosofia scolastica. La quale non è un insieme di frasi o di formule da
ripetere meccanicamente, ma è un vivente organismo di pensieri da pensare; così
come appunto sono, o vogliono essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una
dottrina che, lungi dal pretendere d'imporsi irragionevolmente o
arbitrariamente al pensiero umano, non vuole essere accettata altro che
mediante argomenti e dimostrazioni. È bene ricordarlo, poiché oggi certe
nozioni sono grandemente obliate anche da coloro che per professione ed ufficio
avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia scolastica pretende di
essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile tale con argomenti
filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda punto in una
rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una rivelazione
religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si possono trattare
dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente stabilito e
dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega perché sia
molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di filosofia
scolastica che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo questi ultimi
termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia che non è
ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca filosofica,
laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire direttamente la
filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo, senza introdurre
altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della scolastica aver
adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi servita della
Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue tesi, l'uso di
questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che vale durante la
ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile una rivelazione
religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi persuasi, cogli
argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o apologetica, che
una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la rivelazione cattolica.
Risulta, dunque, evidente da quel che si è detto fin qui che per insegnare
filosofia scolastica da parte del maestro, come per apprenderla da parte del
discepolo occorre precisamente tanto spirito inventivo ed originalità quanta ne
occorre per insegnare od apprendere qualunque altro sistema filosofico, e che,
perciò il meccanicismo, il mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e
l'oscurantismo sono da temersi nell'insegnamento della filosofia scolastica
appunto quanto sono da temersi nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né
più, né meno. Questo significa che non c'è un criterio estrinseco col quale si
possa decidere su due piedi quali filosofie siano per riuscire,
nell'insegnamento, oppressive, e quali liberatrici; ma che un tale criterio è
soltanto interno, in altro non consistendo che nella maggiore o minore verità
delle filosofie stesse. Fra le quali, secondo quanto già abbiamo
avvertito prima, solo una dottrina vera sarà sul serio liberatrice, e le altre
riusciranno sempre e per forza oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché
solo il vero può imporsi all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della
persuasione, senza ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle
quali, invece, debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che
riescono, dunque, sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò,
nella scuola le cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica,
qualunque sia la loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di
libertà colle quali si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci
ritornati - sembra - al punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche
col massimo buon volere, e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro
la scolastica, è certo che proprio in questa diversa concezione del quando e a
quali condizioni debba ritenersi vera una filosofia sta la differenza più
notevole fra il sistema scolastico e il sistema moderno, e il conseguente
pericolo che la scolastica introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di
oppressione e di scarso spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già
detto: per la scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori
del pensiero che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre
debbono per forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità
e la realtà medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano,
si svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una
sola dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre
un atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora,
a quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo
scolastico non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua,
il filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia
della filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il
discepolo a “crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame
più attento, questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si
rivela almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo,
esso cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il
gran numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno
malinconico - non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da
mille, che più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte
dottrine filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e
colla libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto
diverse come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto
diffuso ai giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra
loro due ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se,
infatti, una dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un
orto, si avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto
lo spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta
dietro i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina
non è un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in
quanto tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità.
E se riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è proprio
l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo cambiamento
di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel tranquillo ritmo
progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un simulacro di
progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza dei molti
sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui dal
momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno invertite e
quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre nella scuola
molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una cosa assurda
com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E viceversa, quei
filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo fanno onore alla
loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici fautori d'uno spirito
sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può aversi dalla conoscenza
della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci: il vostro ragionamento
ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la vostra concezione della
verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la verità è tale che possa esser
colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte le altre, voi avete ragione
nel voler che quella sola dottrina venga insegnata. Ma, e se la verità non
fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma si trovasse in tutte le
dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo, allora, ragione noi di
sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i principali sistemi filosofici,
sia utile e necessaria? La risposta a questa obiezione non può essere che
una sola: non esistono due concetti differenti della verità, benché esistano le
parole colle quali ci si illude di esprimere un concetto della verità diverso
dal nostro. Ma sono vuote parole; e la dimostrazione ce la forniscono gli
avversari stessi. Quando essi dicono, infatti, di non creder vera una teoria
filosofica ad esclusione delle altre, ma di tener vere tutte le teorie che la
storia della filosofia registra, che cosa fanno essi mai se non sostenere e
difendere come vera una loro teoria filosofica particolare? Dire che la verità
è in tutti i sistemi filosofici, non è forse sostenere una teoria filosofica? È
il solito argomento contro lo scetticismo e l'eclettismo: filosofie che
proclamano, sia di non creder vera alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle
tutte, e intanto cominciano, sotto mano, col creder vere se stesse e solo se
stesse. Ora, la contraddizione è evidente. Ritener vere tutte le filosofie
vorrebbe dire ritener vere anche quelle filosofie che affermano esserci una
sola filosofia vera e tutte le altre esser false. Ma ammetter queste filosofie
vorrebbe dire distruggere appunto quella nozione della verità alla quale tanto
si tiene, e che esclude assolutamente potersi sostenere la verità di una sola
filosofia, cioè distruggere lo stesso principio eclettico, o idealistico. Onde,
una delle due: o l'idealismo, l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso
tipo restano fedeli al loro programma di ammetter vere senza esclusione alcuna
tutte le filosofie, e si uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero
anche il concetto della verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le
filosofie, ma eccettuate quelle che sostengono un concetto della verità opposto
al loro, e allora la loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è
finita, ed essi sono liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato
col fatto che la verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in
alcuni, e precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con
l'eclettismo, cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà,
dunque, che la filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è
molto simile alla libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla
a suo modo purché, però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti.
Libero ognuno di scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo
sistema sia l'idealistico, o almeno s'accordi in tutto col criterio
fondamentale dell'idealismo: essere la verità in divenire continuo ed essere,
perciò, vere tutte le filosofie che lo spirito umano ha escogitato. Ché fuori
di questo concetto non v'è salvezza possibile, e le filosofie che non lo
ammettono, non sono filosofie, ma aborti del pensiero, non vanno neppure presi
in considerazione, anzi, vanno seppelliti sotto l'unanime disprezzo della gente
ben pensante. Ora, quando si è stabilito ciò che in un sistema filosofico è più
importante, cioè il concetto della verità, tutto il resto ne viene di necessaria
conseguenza, e si può ben lasciar libero lo studioso di dedurlo in un modo
piuttosto che nell'altro, di fregiarlo con un titolo piuttosto che con l'altro,
e di compiacersi, così, della propria intelligenza ed originalità inventiva.
Allo stesso modo, per ripigliar l'esempio di prima, poco importa che in quelle
tali democrazie la gente voti in un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra
costituzione - tutte cose intorno alle quali, anzi, è bene che ciascuno si
diverta a discutere a perdifiato, ricavandone un gran senso della propria
dignità e importanza - purché, alla resa dei conti, siano sempre gli stessi
uomini politici che detengono effettivamente il potere. Così la storia
della filosofia che i pensatori moderni si vantano d'insegnare con tanta
larghezza e liberalità, si risolve in una illusione. Poiché, sotto l’apparenza
di tutti i sistemi filosofici che la mente umana ha escogitato, da Talete ai
giorni nostri, la dottrina insegnata è sempre una sola: l'idealismo, il
concetto della verità come coincidente collo sviluppo stesso del pensiero
umano, e come escludente qualsiasi altra realtà che il pensiero umano non sia.
Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone, di Aristotele e di S.
Tommaso, di Kant e di Hegel, di Mill e di Spencer, e che ognuno vi può spaziare
entro i confini del materialismo e del platonismo, della scolastica e del
kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via dicendo. Ma si tratta di un
dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo, benché volta a volta variamente
travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele ed AQUINO (si veda), Kant ed
Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti, costretti a
rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora dell'idealista
in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi dell'idealista
evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se stesso, ma
prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in ogni caso,
sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano le forme,
circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la sostanza
sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire rispondere un
filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la vera e che
l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se non del
vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana per
risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle
aberrazioni o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano,
come preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia
scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte,
la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella
di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la
propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la
scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di
dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto
d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente
accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici
riconosciuti vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per
la scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel
secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né
caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o
colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al
XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da
molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e
codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e
cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci
mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non
meno che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente
moderatissime - non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra
modernissima “novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e
così via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che
l'arte d’ANNUNZIO (si veda), o di MARINETTI (si veda) è superiore a quella
d'Omero e di Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte
moderna: ora, dai tempi antichi, dei greci, ad oggi si sono effettuati
innegabilmente dei progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso
su quella d'una volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né
vi sarebbe scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto
che un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche
migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze
naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero
inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico.
Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è
meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od
Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San
Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia
fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è
l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come
temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da
uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una
verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e
progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso
reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e
ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i
conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni,
colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del
filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di
passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento
dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto
il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con
conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera
espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri
possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di
Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un
temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la
mediocrità, la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un
filosofo avranno per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli
produrre un sistema sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il
filosofo, se vuol esser certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino
alle altezze di Platone, d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la
mediocrità è la morte. E la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia
vale solo in questo: mentre l'artista deve esser grande lui e non ammette
sostituzioni, il filosofo, se non è grande lui, può andare a scuola dai grandi
e ricevere da loro quella verità che colle sole sue forze non avrebbe saputo
scoprire. In ogni caso, non c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi,
come i grandi poeti, siano pochi, e nascano nelle più diverse epoche che la
Provvidenza ha stabilito, senza darsi pensiero della successione cronologica né
del progresso. E dunque è chiaro che la scolastica può aver le sue buone
ragioni nel concedere relativamente a pochi l'ambìto titolo di filosofi, come
la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto titolo di poeti, e che l'opposto
criterio, il quale vorrebbe che ogni momento nascesse un filosofo capace di
“creare” una “nuova” filosofia è lungi dal parere soddisfacente. E può essere
anche indizio d'un inadeguato e troppo largo concetto della filosofia, così
come sarebbe segno d'un insufficiente concetto dell'arte lo scovare i poeti a
decine e centinaia per ogni lustro, quando è risaputo che la vera arte e la
vera filosofia sono cose difficili e che, perciò, in ogni tempo la grande
maggioranza di coloro che si qualificano poeti o filosofi è composta, invece,
di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. Possiamo dunque riconfermare, senza tema
di smentite, la nostra conclusione. Ogni sistema filosofico, idealistico o
scolastico, scettico o materialistico, non può, nonostante ogni sforzo
contrario, insegnare mai più di una dottrina e di una verità, la quale
necessariamente esclude la verità di altre dottrine diverse od opposte. E il
sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé tutte le altre dottrine si rivela
presto per quello che è, un puro e semplice sogno, sfornito di qualsiasi
consistenza scientifica, l'eterno sogno irrealizzabile, perché contraddittorio,
dello scetticismo e dell'eclettismo. La verità di questa proposizione
risulta manifesta dallo stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano
di poter mettere la scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola
moderna. La nostra filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e
il cattolicesimo quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il
pensiero moderno, e ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più
ristretti ed intolleranti di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data
dal duplice significato che s'attribuisce al termine “ammettere” o
“giustificare”, che una volta si prende nel senso di “condividere” una dottrina
e accettarne la verità, e un'altra volta si prende nel senso di “giustificarla”
storicamente, cioè di indagare le condizioni storiche nelle quali nacque, i
bisogni ai quali rispose e così via. Poiché, se si tratta di “giustificare” nel
primo senso, allora è certo che la scolastica non può ammettere e insegnare
come vero l’idealismo, il positivismo o qualsiasi altro sistema del genere, ma
è altrettanto certo che neppure l'idealismo, il materialismo o un altro sistema
simile possono ammettere e insegnar come vera la scolastica, tanta essendo
l'opposizione della scolastica a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto
l'opposizione degli altri sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di
“giustificare” nel secondo senso, allora anche la scolastica si può prendere il
gusto di fare una elegante rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono
stati da che mondo è mondo, metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e
ricorsi, assegnarne le condizioni, enumerare le cause che li hanno fatti
nascere e ne hanno garantito il successo, corredando il tutto con un grande
apparato di erudizione critica e una sesquipedale bibliografia. Può prendersi
il gusto, diciamo, poiché in realtà la scolastica, possedendo un concetto della
verità molto più severo ed elevato di quello che mostrano d'avere tanti sistemi
moderni, è sollecita più della formazione mentale, che della brillante
informazione ed erudizione dei suoi scolari, e teme sempre non accada loro
questa disgrazia: necessaria non norunt, quia superflua didicerunt: il che la
conduce a limitare, nella scuola, più che sia possibile questa parte
storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono i sistemi moderni, perché
tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed eclettismo. E allora la
discussione sarà, non più sulla necessità di tener per veri o meno questi o
quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare, nella scuola media,
un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e, specialmente, alla sua
parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della quale adesso non
intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno, o del sedicente
pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed oscurantista, può
facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri avversari perché la
scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi che hanno avuto
fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano indignati: l'umanità ha
dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E come allora ha potuto
svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per tanti rispetti
superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel far questa
domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono fra i
sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della civiltà,
poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale, aristocratica sì che
solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto dell'umanità è una
trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e dedicarvisi. Quanti, fra
i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di Hegel, poterono
effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea del loro
sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante l'accresciuta
cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso coi filosofi
recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende, per opera di
compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale che in tale
vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come sarebbe l'idea
che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è organizzata male e
bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le proprie passioni,
ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i sistemi filosofici,
tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema d'errare, che le
varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente filosofico,
passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima maggioranza,
onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e costruisca una
civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono errati, potendo la
verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma imperfetta, per altre
vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze stesse. Ben più difficile e
ben più intollerante è, invece, la posizione degli avversari, quando, sforzati
dalla logica, sono costretti a condannare non solo la scolastica, ma,
addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un sistema che vanta per
sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa verità di averla
ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una dottrina
filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità o falsità
non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione, attraverso
l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e praticata da
milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza del mondo
civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione importantissima
su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla filosofia non meno
che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che sulle industrie e i
commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il cristianesimo ha agito,
perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e della civiltà moderna,
infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel, di Spencer, coi piccoli
gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e seguite. Se, dunque, esso
è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria affermazione di un Dio
trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione e fecondità? come si
spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte deriva da lui? È vero che
gli avversari rispondono di non aver affatto questa malvagia intenzione, ma di
voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e il cattolicesimo così come
qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui il punto: ammettere il
cristianesimo così come qualunque altro sistema filosofico umano significa, in
realtà, non ammettere affatto il cristianesimo, bensì sostituirgli una deforme
immagine di esso, che prescinde precisamente da ciò che in esso è fondamentale:
l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi in esso e realizzantesi nella
Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come frutto della ragione umana e
dei suoi sforzi filosofici, non è più cristianesimo, esso è, al più,
spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non è dunque il cristianesimo ma
l’idealismo che, pur con diverse parole, gli avversari ammettono e
giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed operante come
religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi dall'idea
d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica un po',
quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come religione
cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di cenacoli
intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del
pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio
fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo. E dunque la
difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il
cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che
pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche
oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza
infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il cattolicesimo
significa davvero ridurre tutta la storia a storia d'errori, ben più che
non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia scolastica; significa
spezzare in due la grande tradizione cristiana della civiltà moderna; significa
ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di Hegel tutti i filosofi
bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre dell'errore; significa,
infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni dell'umanità stessa, che ha
sempre cercato, prescindendo anche dal cristianesimo, di risolvere i suoi
problemi, piuttosto che colla filosofia, soggetta alle discussioni e agli
errori di pochi dotti, colle religioni, che tutte si presentano come rivelate
da Dio, qualunque poi sia il modo col quale concepiscono tale
rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero della scolastica e il
pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di moderna è, si potrebbe
dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non ammettere quella, la
possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel non ammettere quella,
l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua rivelazione.
Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna parte, in
realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto mai settaria
e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al pensiero: purché,
però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e la possibilità
della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si accorge che, con
tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in sostanza, alla propria,
tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa entro un circolo ove non è
più possibile alcun reale progresso e sviluppo del pensiero. Lo hanno osservato
anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva simpatia per la scolastica,
che il pensiero umano ha in sé una brama irresistibile di infinito che domanda,
come suo adeguato oggetto, un Oggetto parimente infinito ed assoluto: Dio. La
filosofia moderna gli toglie questo oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la
brama dell'Infinito resta egualmente, ad esso sostituisce una falsa immagine,
il mutamento indefinito del pensiero medesimo, nella sua irrequietezza e
insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo storico e il divenire di questa
insoddisfazione stessa. Senza por mente che l'Assoluto non può consistere in
una negazione o in una privazione, e che il semplice mutamento non è progresso
o sviluppo. In tal modo il pensiero umano, lungi dal progredire, resta
perennemente immobile, nella sua scontentezza, volubilità e insoddisfazione che
è sempre identica; un apparente progredire che è, in effetti, un ritornare
sempre sulle stesse posizioni, come la storia di certa filosofia
malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la scolastica, concludendo
col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione apre all'anima umana i
vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile, ove il pensiero può
innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare, per quanto si
sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine, niente altro
che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e progredire:
Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus est : ecco
l'unico programma - il programma della santità cristiana - che consente anche
al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso infinito. Nonostante
ogni dichiarazione in contrario, la filosofia moderna non è affatto disposta ad
aprire la scuola a tutte le più diverse e disparate dottrine. Che, anzi, essa
persegue tenacemente la realizzazione di un suo ideale, e si propone - né
potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola alla sua propria fede. Fede
intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più intollerante ed esclusiva
delle altre, perché non sa di essere una fede e una dottrina anch'essa, e con
tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le altre dottrine quanto più
si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante autorizzata della verità
e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e soffocante, affatto inconciliabile
colla sana libertà della ricerca scientifica, e addirittura contraria ad ogni
effettivo progresso e svolgimento dell'anima umana, nella sua educazione e
nella scuola. Poiché l'anima del giovane e del fanciullo, ha, se così si
potesse dire, più ancora che non l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e
la scuola che non può darle Dio, non può darle che vani trastulli e giocattoli
intellettuali, destinati ad essere infranti subito dopo che una curiosità
irrequieta ne ha scoperto il meccanismo. Pedagogia cattolica Credo che a
parlare di un'opera come questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e
Pensiero”, Milano di Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione
non soltanto la ben intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri
recenti, bensì anche un fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le
lettere pedagogiche di Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro
innegabili pregi, il bene d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra
coloro che pur si occupano o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani
effetti della modestia! Il Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di
non essere pedagogista e nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua
addirittura frequentato mai alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia
il proprio stupore, nell'aver appreso da altri che certi suoi concetti erano
pedagogia, a quello del bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza
saperlo, aveva fatto della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza
della vita. Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste
dichiarazioni alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro
del Crispolti alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo
subito di non credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto
basta per annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore.
L'esperienza in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e
necessaria cosa; ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli
schemi di un miope professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione
assai spesso la gente del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se
l'opera educativa si celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola,
essa presuppone poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo
senso intesa, talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia
sorretta da una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue
molteplici forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica,
alla scienza, all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come
Crispolti, ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita,
riescano a ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca
e finiscano col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e
spregiudicato quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno
si preoccupa di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere,
invece, con piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli
scopre. Se così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel
sarebbero riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico
Herbart, bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali
pedagogici. Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro
“irregolarità”, nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi
della vita, prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il
possente lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci
dello spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le
esigenze che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a
giustificare il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue
dottrine sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel
campo cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a
penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto
la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che
egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della
storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del
procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui
c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche
s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con
mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla
formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha
affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice
aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è
quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro
e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far
fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è
rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai
“laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio
vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si
direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue
lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una
malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva
sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle
concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo,
grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un
villaggio distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a
ricostruirlo da sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi,
o virilmente rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di
applaudirli in quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste
loro qualità ad una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o
cattolica. Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale,
pur apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari
raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la
grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della
virtù”, definì or non è molto CROCE (si veda) il concetto sostituito dalla più
recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non
impossibile sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui
rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio
della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la
legge morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può
comunque risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere
senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una
soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica
della virtù poiché non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò
che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro
serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme,
per un ardore che tutte le supera e le fonde (p. 16). La carità, l'amore di Dio
possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina
stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si
richieda il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e
sentimenti umani. Ma, giustamente ammonisce Crispolti, la santità eminente non
è da tutti. Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa
complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità,
dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi
d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature
chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio
timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle
qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. Eppure ogni metodo
di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché i
sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri (ibid.) e questi
mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità, ma non
per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura. E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro
l'educazione cristiana stessa la necessità d'una politica della virtù. Poiché
Crispolti rammenta certo che sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo e
che, confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie
della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la
saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben
intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese
contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore
dovrà dire: “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati
perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa
preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto
ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è
una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a
mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e
consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi,
seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla. La strada più modesta è
appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso diverso da
quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come quella di CROCE
(vedasi). Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era fine
morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori richiesta
dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano della
parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e proprio
terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma altresì
quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito, come
poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono necessariamente
avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere umano:
allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé,
soddisfazione, che le rende tutte più o meno passionali perché presentano
all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio
sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse
sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per
sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio.
Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare,
facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso
ricorrere già ad una politica della virtù: non perché si sia facilitata la virtù
ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica, ma
perché, esorbitando la virtù pura dai mezzi di educazione umana, si è ricorso
per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù umane e perciò già in sé
stesse passionali. Conclusione di tutto ciò è dunque per il Crispolti che
l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti umane, deve e
può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente quell'economia
delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio possono raggiungere
d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere anch'essa in
considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando due errori
egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal fine religioso
e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio riesca
eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo
dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su
l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal
proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui
il rinvigorimento del corpo non è già la formazione del robusto ed agile
animale, bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare
il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei
propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva Crispolti,
parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro carattere
religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel
compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle
menti giovanili lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento
degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo...
cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro
progressiva vigoria. E quindi ai troppo facili satireggiatori della ginnastica
cattolica, il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una ginnastica, ben
vi può essere anche una cucina cattolica, da quando in alcuni giorni della
settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E se la Chiesa
non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile come il
mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa impronta su
qualsiasi attività umana? Non si andrà incontro così ad un pericolo nuovo, che,
sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il pieno valore della
persona umana, questa diventi superba? No certo, se teniamo presente che la
pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei mezzi, per combattere quella
superbia ingiustificata, nella cultura dell'opposto sentimento dell'umiltà;
cultura che e insieme, ancora, un dovere religioso ed un ottimo espediente
pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri si ha dell'umiltà cristiana, ben
osserva Crispolti, è spesso quella ch'essa consista soltanto nell'ansia
costante e smaniosa di stornar gli occhi dal proprio io, per il pericolo di
potervi scoprire dei pregi e provarne compiacenza. È un concetto negativo
dell'umiltà ben diverso da quel concetto positivo che si ritrova nella
tradizione cristiana e medioevale (si ricordi il titolo di donna umile dato a
Beatrice), secondo cui invece l'umiltà è concepita in forma positiva, come un
avanzare non come un fuggire, come una confidenza, non come un viluppo di
precauzioni e consiste nel dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver
tempo di starsi a considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la
propria bellezza accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio.
Sentimento che, fatta la solita riserva dell'ardente amor divino il quale
assorbe d'un subito in sé la creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio,
si può raggiungere pedagogicamente in grado meno splendido col solo riverire la
verità, quella verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la
difficoltà di misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di
qualsiasi maggior pregio che ci elevi sopra di essi. Ogni cosa nel mondo dello
spirito è frutto di umiltà, le grandi opere sorsero sempre in un'ora di umiltà,
ossia d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di
noi. Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la
scienza, l'arte, la patria, l'umanità o che so io. La filosofia qui rincalza la
religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole.
Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente
appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa
introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della
pedagogia cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato,
che, cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di
preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti
leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere
automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza,
dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum
pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana
sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a
renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di
fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo tentare Iddio pretendendo
ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che solo in
casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché, tratte le
somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di addottrinare
l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di rivolgere la
sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura religiosa
quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il Crispolti,
la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla fede, fra
l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale. Le quali
sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a salvarla da
tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda la formula
stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è un carcere
che si chiude; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi; moltiplicano i
nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere; procurano
all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che unico dura
oltre la giovinezza e la maturità degli anni. Ch'è, in fondo, lo stesso
principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda la
pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che
meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un
potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a
beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione
del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo
risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette
precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali
di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti
ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che,
cattolici o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o
della Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale,
filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere secondo spirito e
verità è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione
stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni;
così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta
conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione
cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento,
pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per
quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e
proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico
quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante
un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto
per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio
dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su
i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove Crispolti ha avuto
sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una
poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi
d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra
letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il
cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un D'aNNUNZIO
(vedasi) o ad un PASCOLI (vedasi)? La ragione è sempre la stessa: pretendono
gli artisti cattolici di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni
artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro. Tutta la fatica,
secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di
soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore
della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od
avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di LEOPARDI (si
veda) così lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno
come raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se
stessa. Non si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti
gli sforzi di dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti
di lei. Non si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della
deficienza o pigrizia loro, se anche questa volta i figli delle tenebre sono
stati più prudenti dei figli della luce. Ciò è quanto dire che, dal punto di
vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio
dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione
dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene
esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e
pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione
dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a
una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di
esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è
sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana:
della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i
pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti parchi e lontani
da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così
facilmente il nido alla vanità gli scrittori classici: umili tutti coloro che
non pensarono a scriver bene, ma presi da alti pensieri, da alti affari o da
alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la
parola si facesse umile innanzi a quello riuscirono, perciò solo,
necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non
soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì uomini in qualunque
campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia
dovuto umilmente ubbidire: talché, per esempio, i Francesi bene hanno fatto a
far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco di
Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi
dell'estetica moderna quale si è affermata da Croce in poi avrebbe in più per
Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe
l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di
vita. Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti
viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli
molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal
pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero
una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera
su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel
parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il
positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico
postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento
se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone
degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere
pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la
morale, Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina il
fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i
mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile
incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini,
delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In
linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre
sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato
quello che il nostro chiama appunto il fine. Ma ciò non implica soltanto
superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia.
Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica
e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e
la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da
preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere
possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe
mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente
predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da
lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da
quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare
di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle
questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della
pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente
altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la
falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha
introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione
importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la
capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto
nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con
l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del
linguaggio: voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i
tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione
meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con
lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare. È il
principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno. Ma
Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza di
quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del
fanciullo con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica
moderna, per la quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di
imporgli decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale
dell'adulto. Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo
fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da
alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse
questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni. Ma queste
piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui
Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi
importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci
piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un
consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera
ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il pensiero
moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti
naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo
ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini
diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e
di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica
fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato
questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che
Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle
donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il
Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna,
cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo,
come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di mezzo.
E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui l'uomo,
presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più
spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del
sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più
docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere
con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente
c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi
indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura
di fare il resto. La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella
acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un
padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare
in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non
soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse
verso di esse, ciò che è più difficile. Non importa se per questa via la donna
non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro: per chi
non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo dello
scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole idee che
dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione per cui la
donna non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a compiacersi
nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il mondo, ma possa
accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore. Giacché la difficoltà
della cultura femminile è tutta qui, non nel far assimilare alla donna un certo
contenuto, cosa di cui essa è tanto capace quanto l'uomo, bensì nel suscitare
in essa il senso dell'importanza e del valore di ciò che studia; cosa assai più
difficile. Istruire la donna è una difficoltà non intellettuale ma morale; è
una coltivazione non dell'ingegno ma dell'animo. Osservazioni tutte giustissime
e sulle quali con qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La
riserva, se mai, sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale
formazione interiore ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali
perciò non è possibile rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse
siano per far valere in quella interessi tutti propri diversi da quelli
dell'uomo e per occupare, nella repubblica delle lettere, un posto a sé. La
stessa necessità di collaborare con l'uomo per fondare l'unità spirituale della
famiglia, può render talora necessaria alla donna anche una completa cultura
scolastica, giacché pur fra gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò
che basta magari alla moglie di un colto professionista avvocato, ingegnere
ecc., può non bastare alla moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo,
d'un illustre scienziato, i quali di necessità richiedono alle loro donne una
più robusta formazione mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche
soltanto accompagnati, seguiti, intesi nell'esercizio delle loro
attività. Ed eccoci ora al dissenso. Parlando della cultura e dell' arte
pratica della vita, il Crispolti torna a proporsi indirettamente, per conto
suo, la vexata quaestio dei rapporti fra teoria e pratica, pensiero e vita. E,
naturalmente, vede da par suo la diversa formazione mentale richiesta agli
uomini d'azione e agli uomini di pensiero, nonché la diversità di funzioni a
cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma appunto questo poi gli suscita un
dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo intensa cultura intellettuale un grave
ostacolo allo sviluppo del senso pratico? Mi sto domandando se il guardarsi
attorno intelligentemente senza posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto
ciò che ci ferisce la vista, ossia il menare una vita intellettuale intensa,
che debitamente frenata dalla ponderazione può darci frutti copiosi, originali
e buoni nelle lettere e nelle scienze, non ci renda più inetti all'alta vita
pratica, di quel che facesse la vecchia abitudine degli studi accademici e
degli sfoghi retorici, nei quali la mente non osservava e si può dire non
pensava, ossia non acquistava nessuna verità intorno al mondo e agli uomini, ma
si contentava di baloccarsi colle parole. Probabilmente questa vuotaggine,
funestissima alle scienze e alle lettere, lasciando in riposo e come da parte
la capacità quasi istintiva di sapersi regolare cogli uomini e di saperli
regolare, la conservava intatta. E che ciò possa essere e sia, nel fatto,
stato, anzi, che tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema
della cultura pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto
lasciando inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene.
Ma che possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no:
le soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né
le migliori. Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura
stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un
Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e
d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo un
criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o
addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera
pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli ideologues !). E che siffatte personalità
dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione storica, non è dubbio.
Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi stessi, prima o poi,
rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi barbarica e pagana
consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del dominio, dell'imperio
divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che innanzi alla morte di
Napoleone si domanda: fu vera gloria? e non sa rispondere se non col
rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra fra due secoli, due
volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in fine, là, dove è
silenzio e tenebre la gloria che passò: lo sgomento del Manzoni temperamento
insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove si pensi che
cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi concordi nel
richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di ricordarsi
anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo e volontà
di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e raccoglimento
interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio del pensiero,
che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie aeternitatis,
potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e sugli altri, ma
finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il senso
dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire ad una
realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere restano
edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre unilateralità
e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un limite, sia
pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di grandezza è
andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è consueto lamento,
innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non nasca più un
Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta parte
all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o poi, i
suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza politica
richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma di
grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per questo
meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica, che
aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli ricorderò
che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche con un
opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il suo
normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra a Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero e
lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio Gabelli - abbiano attribuito al genio italiano
carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica come eccessivo
sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle doti pratiche
che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia difficile
raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si sono venuti
formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma ciò dimostra
anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir delle grandi
personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un singolare
incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi personalità sono
spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente individualiste: la loro
attività politica si consuma in sé stessa come un sogno, o come - fu già notato
a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte che non ha risultati fuori della
sua bellezza; raramente si inquadrano nell'armonico insieme d'un sistema che le
perpetui e le fecondi. E in quanto esse ci offrono siffatte deficienze,
dimostrano appunto che l'abitudine della retorica fu, in ogni campo, teoretico
e pratico, un difetto dello spirito europeo e non solo italiano. Giacché v'è
una retorica della pratica, consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per
sé sola, finisce col non esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima
una religione e una filosofia: filosofia dello sforzo, del dominio
dell'eroismo, della Realpolitik, dell'astratto machiavellismo, che noi moderni
ben conosciamo sotto tutte le possibili forme e ch'è una concezione unilaterale
della realtà in servigio dei puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi
ciò che lo stesso sano istinto pratico (che non è mai praticistico)
ispirerebbe. Significa ciò, forse, che bisogna trascurare una cultura specifica
delle attitudini pratiche? No certo: significa solamente che l'educazione ha da
formar tutto l'uomo, e che attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono
essere e sono, distinte, ma non è possibile, né desiderabile, che diventino
opposte. Non è ancora spenta l'eco delle
discussioni suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione
dell'Istituto fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi
autorevolissimi (come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato
il loro contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel
quale è meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate
libere di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni
altra minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che I Diritti
della Scuola hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo,
sulla stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi,
a quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta
cortesia - dalla Rivista romana. Notano, dunque, I Diritti della Scuola
che l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto, doveva trattarsi, come pare ovvio,
d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della chiesa cattolica.
Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del gennaio 1924
sembrano invece, al redattore de I Diritti, ispirati a una ben diversa
concezione. Non arido dottrinarismo o meccanico formalismo ma poesia e quasi
canto della fede, doveva essere l'insegnamento religioso; e non più la Chiesa,
ma l'opera religiosa di MANZONI (si veda) e le figure più edificanti del suo
romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il
significato di quelle espressioni è, sempre secondo i Diritti della Scuola,
molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: La tendenza era
dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse al cuore
del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più
puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri.
Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste
letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la
luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà
percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco
l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei
dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico,
anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e
poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del
maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si
impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve)
dalla lettera dei sacri testi. Noi non vogliamo rivolgere a I Diritti
della Scuola alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre
volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con
noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile
trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata,
quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i
suoi ministri. L'argomentazione de I Diritti
si basa tutta su un presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso
come incontrovertibile verità, della quale nessun uomo, sano di cervello,
potrebbe minimamente dubitare. Ecco il presupposto: la teologia, la liturgia, i
dogmi e i misteri costituiscono, non già la religione ma un suo irrigidimento:
il catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica,
ma un arido dialogo, e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'anima ingenua, le aspirazioni sante, i sentimenti puri del fanciullo e
dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non possono portare
nella scuola che arido dottrinarismo o meccanico formalismo: se volete la
poesia e il canto della fede, dovete rivolgervi altrove. Non c'è, dunque, che
prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile, insegnerete la religione secondo
la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del
Catechismo, della Liturgia, della Teologia, ecc. - ma avrete l'arido
dottrinarismo che si voleva evitare. Se v'appigliate, invece, ai programmi
didattici o alla circolare, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e
l'anima ingenua, ma vi converrà gettare a mare la chiesa, i sacerdoti, la
teoria, la prassi e l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni
così diverse ed avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con
molto rispetto ma con molta fermezza, I Diritti della scuola. Ripetiamolo
ancora: sarebbe ingiusto addossare a I Diritti la responsabilità d'un cuore
così largamente diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un
pregiudizio che, duole il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi
cattolici. La liturgia, arido formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al
canto! La teologia opposta ai sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma
brava gente - verrebbe voglia di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai
sfogliato un breviario? Avete mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo,
assistito non come vi assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone
davvero, intimamente, tutte le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale
è fatto delle sacre scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre
scritture sono i libri biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli
apostoli, le epistole di San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più
begli inni cristiani e via discorrendo? E non vi pare che come poesia e come
canto ce ne sia abbastanza da scegliere, anche per le persone di più
difficile contentatura? Non sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua
opera; ciò nonostante, mi sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano
a loro modo poeti non certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del
resto, appunto da quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta
cultura profondamente cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione
dei suoi Inni sacri. Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre
scritture è accessibile o comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è
evidente che nemmeno siamo obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una
volta, o tutta collo stesso grado di profondità. E poi la liturgia non è solo
nelle parole: è nella musica, nel canto, nell'azione del celebrante e degli
assistenti, nel colore dei paramenti sacri, nella architettura stessa del
tempio, elementi organizzati e concatenati da una sapientissima disciplina che
riescono quanto mai plastici, sensibili ed intuitivi e parlano all'animo anche
delle persone più illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi
sono proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui
si riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della
Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro
trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso
raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità
costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura
medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo intuitivo
e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei suoi templi e
il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi illetterate quando
ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali e poeti erano di là
da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa della liturgia non è,
neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe desiderare. Ma il
movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile zelo e delle autorità
ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va facendo ogni giorno
progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società francese di San Giovanni
Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti per la
volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti, ottimi
testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto opportunamente, una
parte notevole. Per gli amatori di curiosità pedagogiche ricorderemo gli
esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo Montessori; la
partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa, mediante un'offerta
che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il grano e la vite
coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie sacramentali, e via
dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e giovevolissimi, ma che sono
ben lungi dal costituire, come forse taluno potrebbe credere, una novità
rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa, che ha sempre chiamato i
fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere persino nelle più remote
parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le panchettine, le pilettine,
gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario a scala ridotta del metodo
montessoriano. E passo all'altro, apparentemente più scabroso argomento
della teologia o del catechismo, che sarebbe, in fondo, una teologia elementare
per fanciulli, come la teologia è un catechismo degli adulti. Ora, la teologia
è il pensiero di cui la liturgia è la esterna e multiforme espressione, è
l'anima di cui la liturgia è il corpo. Evidentemente, chi ignora l'una non può
afferrar bene l'altra, a meno di non essere un filosofo o uno scienziato
così abituato a muoversi fra i concetti puri, da potervisi collocare
stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e anche allora l'ignoranza della
liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei mezzi che la Chiesa ha messo a
nostra disposizione appunto per comprendere e praticare la sua dottrina)
produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in fine l'uomo, anche
scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di anima e corpo, di
senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di sorreggere il proprio
pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente, che presso
coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno trascurato
di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura liturgica, il
catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè, quell'impressione di
arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto dispiace, e nella
scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze dell'anima infantile. Ma
ricostituite quella unità che avete spezzato: ricongiungete la teologia alla
liturgia, secondo, appunto, la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica, e le
verità del catechismo, aride in apparenza, si vestiranno dei più smaglianti
colori: diverranno verità, non solo, apprese o ripetute a parole, ma vissute,
sentite, amate, alle quali neppure l'anima del più rozzo analfabeta saprà
rimanere insensibile. È difficile il concetto della transustanziazione? Eppure
anche il fanciullo e la donnicciola cantano e sentono il Pange lingua. È difficile
l'idea della resurrezione della carne? Eppure nessuno, che non sia un idiota o
un deficiente, può ascoltare senza fremere le parole del vangelo giovanneo,
dette dal sacerdote: Ego sum resurrectio et vita. Questo non vuol dire,
d'altra parte, che anche il catechismo puro e semplice non possa dì per se
stesso costituire la base d'un insegnamento vivo, agile, plastico, intuitivo ed
attivo condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con
cui viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta,
costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento
genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione
fra il decreto Gentile e la circolare dello stesso ministro, o i programmi
didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi della Chiesa Cattolica
nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto dare al fanciullo la
"poesia", il "canto" e tutte le altre belle cose annesse e
connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del Manzoni, il laico così
geloso della propria ortodossia, da riuscir più ortodosso di molti sacerdoti
suoi contemporanei, quali, poniamo, il Lambruschini o GIOBERTI (si veda). Che
se contraddizione c'è stata fra il decreto e la circolare, o il decreto e i
programmi, essa è stata piuttosto nella mente del loro autore che nella realtà
delle cose e appartiene, dunque, alla storia della cultura o della filosofia
italiana e non a quella della legislazione scolastica. Il cattolicesimo, non è
il protestantesimo, e perciò sarà sempre un osso troppo duro pei denti dei
filosofi volenterosi che si proveranno a maciullarlo e a convertirlo in poltiglia
per uso delle loro costruzioni metafisiche. Sotto questo aspetto, la nota de I
Diritti è, per noi, molto significativa e confortante: è il sintomo d'un
grandioso insuccesso, da parte di chi aveva creduto poter introdurre il
cattolicesimo nella scuola, come veste mitologica inferiore d'una verità
filosofica che, più tardi, lo avrebbe superato e divorato. Dal 1923 sono
passati cinque anni e il cattolicesimo, ben lungi dall'essere “superato” è lì,
colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi dogmi e i suoi misteri, che
minaccia gravemente di "superare" gli altri e di mangiarsi in due
bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali sta contendendo
energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che pure s'erano
riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti " hanno tutte le
ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore davvero, la sorte
delle filosofie "evolute": il che, sinceramente, non auguriamo. La
Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della
pedagogia 125 Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie
163 Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary.
Il problema della dialettica oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere
soltanto come è possibile che il tutore (Socrate) comunichi al tutee
(Alcebiade) una determinate cattitudine psicologica sembra implicare, se non
addirittura una contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato
che il termine "tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi
altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su
Alcebiade ("conversare") non sembra possa riflettere, se non in
maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del
processo filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o
corporale, o fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si "tras-mette"
è essenzialmente un valore ideale, immateriale, non-fisico, spirituale, come la
scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto proposizionale, un complesso
proposizionale non-naturalistico. E questo complesso proposizionale (in parte
sensibile) tanto poco si lascia tras-mettere, nel significato explicito
dell'espressione (Latino, mettere trans), poiché il complesso proposizionale ha
la sua base percetuale, come Peacocke nota, in un atto interno della mente del
soggetto Socrate. E un atto di tal genere è tanto impossibile
"tras-portarlo" dall'anima del soggetto Socrate all'anima dell'altro
soggetto Alcebiade, quanto è impossibile che il soggetto Socrate trasmetta ad
Alcebiade ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi
Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade! XI suo soggiorno in Italia Terminata
la sua opera, Schopenhauer non si decise a tornare nel Nirvana, come
torse si sarebbe potuto credere; al contrario senza nemmeno aspettare le prove
di stampa, egli partì pel paese più bello e più ottimista che vi sia
sotto il sole, per la. véna terra promessa, per il paese dei paesi, per
la bella Italia, Con ragione si è detto che ! abitudine di vedere la vita in
nero, sparisce e sembra innaturale sotto il cielo splendido d’im paese
meridionale. Dintorni poco graziosi spesso diventano Ja causa d’un falso
pessimismo; ma de v ? esser genuino il pessimismo che persiste anche in un
ambiente bello ed incantevole. Il fatto che Schopenhauer non ismani il
suo pessimismo è una prova convincente, se prova ci vuole, che il suo
pessimismo era sincero. Questo pessimismo era piuttosto comprensibile nel
freddo settentrione; ma é un altro conto ritenerla in mi paese ove tutto
sorride, ove la natura stessa c’invita a prendere con leggerezza
resistenza ed a gettare lontano da noi ogni cura, ove Paria stessa respira la
leggerezza di cuore, ove il dolce far niente è il programma di vita
degPindigeni, T resoconti del suo viaggio in Italia sono tutt ? altro che
blandi. Schopenhauer, più si faceva vecchio, pili si rinchiudeva in se
stesso, e non vi sono nè giornali nè lettere che possano colmare questa
lacuna nella sua biografia. D’ora innanzi era il suo espresso desiderio
di sfuggire alla pubblicità. Non voglio che la mia vita privata formi mPesea per la curiosità fredda e maliziosa del
pubblico , così rispose molti anni più tardi a coloro che lo esortavano a
fornire maggiori informa’ zioni su se stesso ai dizionari biografici. I
suoi notiziari presero il posto del giornale, ma siccome contengono piuttosto
riflessioni suggerite dagli avvenimenti senza raccontare .questi, non
spargono sugl 5 incidenti del suo viaggio che poca
luce. Schopenhauer attraversò le Alpi persuaso d 3 avere scritto una
grand'oliera per Pumanftàp stava ora ad aspettarne il risultato. Non era
tanto indifferente in quanto alla accoglienza della sua opera quanto
voleva far credere. Il trattato sulla Quadruplice Radice era stato ben
accolto dai critiei, -ed. aveva chiamato all 5 autore l’attenzione generale più
di quanto sogliono farlo le dissertazioni universitarie; era
giustificabile che sperasse che la sua opera maggiore dovesse suscitare almeno
lo stesso interesse. Egli corresse le prove di stampa che gii furono mandate
ed a petto k pubblicazione, sfogando intanto i suoi sentimenti in
linguaggio poetico. Unv er schami e Vers e. A us ]
anggehegten, tiefgefuhlten Schmerzen Wand sich’s einpor aus meinetn
innern Herzen, Es festzuhaHen haMch lang gemngen,
I>och weiss ich, dasz zuletzt es mir gelungen. Mogi Euch drtim
irnrner, wie Ilir wollt, gebar cleri, Des Werkes Le ben kòimt ihr
nìcht gefahrden; Àufh&ffieii kònnt Ilir's, mirini ermehr
vernichterq Ein Denkrnrj! wird die Nachwelt mir ernchten. Nel
frattempo visitava le principali città <MP Italia settentrionale;
frequentava i musei ed il teatro, continuando a studiare la lingua italiana die
egli già sapeva assai bene. E* in Italia die egli s 5 invaghì cosi
profondamente della musica di Rossini, di cui andava spesso a sentire le
opere. Degli autori italiani egli predilìgeva, -— ed è questo un fatto
abbastanza curioso, — PETRARCA (vedasi), il poeta di Laura e dell 5
amore. Fra tutti gli scrittori italiani, preferisco il mio caro PETRARCA
(si veda). Non vi e in tutto il mondo un poeta che lo abbia mai superato
nella profondità e nell’ardore del sentimento; le sue parole vi vanno
dritto a al cuore. Per' ciò in preferisco i suoi sonetti, i suoi trionfi
e le sue can- a zoili alle follie fantastiche dell 5 Ariosto ed alle
orrende contorsioni d’ALIGHIERI (vedasi). Trovo il fiume naturale delle parole,
che sgorgano dal cuore, molto più
opportuno del linguaggio ricercato ed affettato di Dante, a Petrarca è
sempre stato e rimarrà per sempre il poeta del mio cuore. Quello che concorre a confermarmi nella mia
opinione è il tempo a presente, a quanto pare, tanto perfetto che osa
parlare con disprezzo a di Petrarca. T T na prova sufficiente sarebbe il
confronto di Dante e Petrarca nel
loro costume intimo e non ricercato, cioè in prosa, eon- K frontando per
esempio i bei libri di Petrarca, ricchi di pensieri e di verità, De \ ita solittì-rui, De Coafemptu
mundi, De rimediu ufrius- z que fortume eoe., colla scolastica sterile ed
asciutta di Dante. Dante coi suoi modi didattici non corrispondeva al gusto rii
Schopenhauer che considerava tutto Pinfenio come un’apoteosi della crudeltà. ed
il penultimo canto come una glorificazione della mancanza del sentimento
d’onore e di coscienza. Non aveva neppure alcun affetto per Ariosto e
Boccaccio; anzi più volte espresse la sua meraviglia in quanto alla fama
europea di quest’ultimo, il quale dopo tutto non aveva scritto che Delle
ehtonique.s scandaleuse*. Gli piacevano PAlfieri ed il Tasso, ma li
considerava come autori tli seeoncVordine; egli non riteneva il Tasso
degno d'essere posto come quarto in una linea coi tre grandi poeti
italiani. Per quanto riguardava Parte, egli si sentiva maggiormente
attirato dalla scultura e dall'arekitettura che dalla pittura. Ciò non
potrebbe sorprendere e non sarebbe in contraddizione coll 1 indole
generale della sua mente* se la sua intimità con Goethe non lo avesse
fatto entrare nello studio dei colori. Schopenhauer non volle
mai ammettere che i due anni possati in Italia fossero stati per lui due anni
felici, sosteneva, che mentre gli altri viaggiavano per divertimento,
egli lo faceva per raccogliere nuovi materiali in appoggio del suo sistema, e
nel suo notiziario scrisse has- stoma di Aristotile : 6 TQ
aAuTCtfO orò TU fiSìl. Però ricordava con piacere questi due anni,
dico con piacere e s'intende fin dove Schopenhauer ammetteva il piacere; negli
ultimi giorni della sua vita non poteva mai menzionare Venezia senza che
la sua voce tremasse, il che prova che Pamore che ivi lo tenne stretto,
non era interamente dimenticato, sebbene fosse morto. Senza dubbio, la
seguente nota scritta a Bologna in data del 19 novembre 1818 tradisce
qualche contentezza. Appunto perchè ogni felicità è negativa, accade
che non ce ne avvertiamo affatto,
quando ci troviamo in uno stato di benessere; lati sciamo tutto passare dinanzi
a noi liscio, e con dolcezza fino a che tf questo stato è passato. La
perdita soltanto* che ci si fa sentire con chiarezza, pone in rilievo la felicità,
svanita; è allora soltanto che ci a accorgiamo di ciò che abbiamo
trascurato di assicurarci, ed il rimorso
si aggiunge alla privazione, b Schopenhauer fece il
soggiorno piu lungo a Venezia- In quel tempo vi èanche Byron, ritenuto
esso pure da vezzi femminili. E J strano che essi non s'incontrarono mai.
Schopenhauer nutriva pel genio di Byron la più grande ammirazione ed
intelletti al mente entrambi sarebbero andati d f accordo. Egli non incontrò neppure
Schelley, nè Leopardi. Un dialogo secondo il modo di Leopardi in nni egli
ed il giovane conte erano confrontati, fu pubblicato nella rivista
contemporanea del 1858, e Schopenhauer non si diede pace prima che non sì
fosse assicurato di averne una copia. Gli procurò una vivissima soddisf
azione il trovarsi associato col giovane che egli ammirava così profondamente
(ed a cui, diciamolo tra parentesi, Io scrittore De Sanctis, non ha reso
giustizia); gran parte della sua soddisfazione, proveniva vinche dal
fatto die egli vedeva elio la sua filosofia si era fatto strada fino in
Italia. Non avveniva spesso che egli fosse contento di quanto sì scriveva sulle
sue opere, non trovava mai che lo avessero letto con sufficiente attenzione; ma
quest 1 uomo, così diceva, lo aveva assorbito in sucóurn et tangm nem .Quando
-Schopenhauer arrivò a Venezia per la prima Tolta, e pii scrisse : chiunque
si trova repenti nani ente trasferito in un contrada totalmente straniera, ove prevale un modo di
vivere e di parlare differente da quello a cui e pii è abituato, ha il
sentimento di chi inaspettata mente ha messo il piede nel F acqua fredda. Egli avverte
subito la differenza di tempera tura, sente una forte influenza che agisce dal
di fuori e che lo rende infelice; egli si trova in un elemento estraneo in cui non sa muoversi comodamente,
A questo si aggiunga che egli si
accorge come ogni cosa attira la sua attenzione e che teme di essere a ne Ir e gl i osservato da tutti.
Ma dal momento che si è ealmaio, che ha incominciato ad assorbire la. nuova
temperatura e ad abituarsi al
nuovo ambiente, egli si trova bene come difatti si trova un uomo nell’a equa fresca. Egli si è
assimilato a!1 J elemento, ed averir do perciò cessato di occuparsi della
propria persona, rivolge la sua a attenzione esclusivamente a ciò che lo
circonda: ed ora, appunto perche lo contempla con oggettività neutrale, egli si
sente superiore al suo ambiente come prima se ne sentiva
schiacciato, Viaggiando le impressioni dlogni genere abbondano, ed il
nutria s mento intellettuale ci viene in tale quantità che non ci rimane
tempo c per la digestione. Ci rincresce che le impressioni le quali si
succedono a rapidamente non possano lasciare una impronta permanente. In
real- tà però avviene qui quello che ci accade quando leggiamo.
Quante volte ci lamentiamo di non essere capaci di ritenere la millesima
parte di quanto abbiamo letto! W confortante però in ognuno dei due casi
il sapere che ciò che abbiamo visto e letto, ha fatto sulla nostra mente
un'impressione, prima d'essere dimenticato, impressione che concorre a
formare e nutrire la mente, mentre ciò che riteniamo a memoria serve
soltanto a riempire i vuoti della testa con materie che ci rimangono
sempre estranee, perchè non le abbiamo mai assorbite; il recipiente
dunque potrebbe anche essere rimasto vuoto come prima. Schopenhauer era
d’opinione elle, viaggiando, possiamo riconosce- re quanto areno radicate
le opinioni pubbliche e nazionali., e quanto sia difficile di cambiare il
modo di pensare d T un popolo, Mentre cerchiamo d'evitare uno scoglio, ne
incontriamo un altro; mentre fuggiamo i pensieri nazionali di un paese, in
un secondo ne troviamo degli
altri, ma non dei migliori. Il cielo ci liberi da questa valle di miseria!
\ i a gg ian do veciiamo 1a vita umana sotto ni olle fori ne diverse : ed
è questo appunto che rende i viaggi così interessanti. Ma, vinggiando, non
vediamo che il lato esteriore del la v if a u ni ana ; cioè ne scorgiamo soltanto quello che se ne vede
generalmente. D'altra parte non
vediamo mai la vita interiore del popolo, il suo cuore ed il suo centro,
cioè il campo in cui Vazione del popolo si svolge, in cui il suo carattere
si manifesta, quindi, viaggiando, vediamo il mondo a come un paesaggio
dipinto con un orizzonte vasto che abbraccia molte <i cose, ma che non
li a personaggi spiccati. Di lì, nasce pure la stantìi ehezza del viaggio.
Schopenhauer studia profondamente gl’Italiani, i loro costumi e la loro
religione. Di quest’ultima dice: La religione cattolica è un ordine per
ottenere il cielo mendicando, giacche sarebbe troppo disturbo doverlo
guadagnare. I preti sono i mediatori di questa transazione. Ogni religione
positiva dopo tutto non fa che usurpare il trono che per diritto spetta
alla filosofia; i filosofi quindi la coniti attera uno a sempre, anche se
dovessero considerarla come un male neccessario ed inevitabile, un appoggio per la debolezza
morbosa della maggior purte degli uomini. a La nuda verità non ha
la forza di frenare le menti rozze e di cote stringerle ad astenersi dal male e
dalla crudeltà giacche esse non santi no afferrare queste verità. Di lì il
bisogno di storne, di parabole e di dottrine positive. In dicembre ièlS la
sua grande opera vide la luce per la prima volta. Schopenhauer ne mandò
una copia a Goethe. Poi nella primavera del 1819, egli si trasferì a Napoli;
Goethe accusò ricevuta del dono per mezzo di Adele Schopenhauer, una delle
predilette del vecchio poeta. Goethe ha ricevuto il tuo libro con
grande piacere, scrive Adele, a Egli immediata mente divise V opera
voluminosa in due parti e corniliciò a leggerla. Un’ora dopo egli mi mandò il
biglietto qui unito, dieendomi che egli ti ringraziava molto e credeva che
tutto il libro .dovesso esser buono, giacche aveva sempre la fortuna di aprire
i libri nei posti più notevoli;
così egli mi disse d'avere letto le pagine indicaie ed egli spera di poferii
scrivere quanto prima la sua opinione completa. Intanto egli desidera che
io ti dicessi questo. Alcuni giorni dopo Ottilia mi disse che il di lei padre
leggeva il tuo libro con un interesse che lessa fino allora non aveva mai
osservato in lui. Egli le Ka detto che ora aveva. un divertimento per tutto
ranno, giacché intendeva leggere il tuo libro da capo in fondo e credeva
che ciò lo avrebbe occupato per un
anno. Disse a me ch’egli si sentiva proprio felice di saperti
sempre a lui devoto, nonostante il
vostro disaccordo sulla teoria dei colori. Disse pure che nel tuo libro
gli piaceva sopra tutto la chiarezza della rappresentazione e del linguaggio, sebbene la
tua lingua differisce da quella degli altri e che occorresse prima
avvezzarsi a chiamare le cose come tu lo vuoi. ila, continuò, quando una
volta si é pervenuto a queste, allora
la lettura procede con facilità e comodo. Anche la disposizione
della materia gli piaceva ;
solfante la forma immaneggiabile del libro non a gli dava pace, e si
convinse che F opera dovesse consìstere di due vo- a fumi. Spero di
rivederlo solo ed allora egli mi dirà iorse qualche cosa di più soddisfacente ; ad ogni mudo tu sei il
solo autore che Goethe legga in questo modo e con tanta serietà Nondimeno
Schopenhauer ritenne F opinione che Goethe non lo legasse con sufficiente
attenzione ; che il poeta avesse già speso il poco interesse che aveva per le
questioni filosofiche. A Napoli Schopenhauer fu principalmente in rapporto con
giovani inglesi. L’elemento inglese aveva per lui, durante tutta la sua
vita, un fascino speciale; credeva che gl"Inglesi erano quasi giunti
ad esse)e il più gran popolo del mondo, e che soltanto alcuni loro
pregiudizi si opponevano, acciocché infatti lo fossero. La sua cognizione
della loro lingua ed il suo accento erano tanto perfetti che anche gl T
Inglesi stessi per- qualche tempo lo prendevano per un loro cOmpatriftta,
un errore die sempre lo esalta. Tutto quanto vide, concorse a confermare
ed a sviluppare il suo sistema filosofico. Rimase specialmente colpito
dal quadro di un giovane artista veneziano, Hayez, esposto a Capo di Monte ; di
questo quadro illustrava la sua dottrina per quanto riguarda le lagrime
che, secondo il nostro filosofo, si spargono sempre per compassione di sé
stesso. Il quadro rappresentava, il passo dell 1 Odissea, ove Ulisse
piange alla Corte di re Alcinoo, il feaco, sentendo cantare le proprie
sventure, Questa è l’espressione più alta idi e possa avere la compassione
di se stesso. Schopenhauer aveva oramai raggiunto la piena maturità e
forza dell’uomo. Secondò lui il genio dell’uomo non dura più della
bellezza delle donne, cioè quindici anni, dal ventesimo al trentesimo
quinto et La ventina e la prima parte della trentina sono per Fintelletto
quello che è il 'uose di maggio
per gii alberi, questi durante la stagione prh <t maverile emettono
soltanto dei bottoni che poi diventano frutti L’esteriore, di Schopenhauer
doveva essere caratteristico, ma la sua bellezza stava nell 9 animo e non nella
faccia; i suoi occhi vivaci, ed ardenti anche nella vecchiaia, nella
gioventù rischiaravano quella testa potente col loro sguardo acuto e limpido.
Verso quel tempo un vecchio signore a lui perfettamente estraneo, gli si
accosto in istrada per dirgli che egli, Schopenhauer, sarebbe stato un
giorno un grand’uomo. Anche un italiano, che pure non lo conosceva, venne da
lui e gli disse: € Signore, lei deve aver fatto qualche grande opera; non
so cosa sia, a ma lo vedo nel suo viso. Un Francese che alla tal)le
cVhote, gli sedeva dirimpetto, ad un tratto esclama, Je ooudrais savorice qu il
penrse de nous autres j nous devom par altre hien petit s à ses yeiux !
Un inglese rifiuta assolutamente di cambiare posto con le parole: Voglio
stare qui, perchè mi piace vedere la sua faccia intelligente. Nel riposo egli
rassomiglia va a Beethoven; entrambi avevano la stessa testa quadrata, ma
il cranio di Schopenhauer dev’essere stato piu grande come lo prova la
misura elle ne fu presa dopo la sua morie e che recai un’idea delle prò
pozioni straordinarie eli questa testa, E notevole la distanza che correva tra
un occhio e V altro; egli non poteva portare occhiali ordinari. Era di
statura media, tarchiata e muscolosa, aveva le spalle larghe ; In sua
bella testa era portata da un collo troppo breve per esser bello* Capelli
biondi e ricci Liti circondavano la sua fronte e cadevano sulle sue spalle;
quando era giovane, mustacchi biondi coprivano la sua bocca ben formata,
che coll'accrescersi degli anni perdette la sua bellezza a misura che
perdeva i denti. Il suo naso era di bellezza speciale e cosi pure le sue
piccole mani. Egli stesso faceva una distinzione fra la fisionomia,
intelletuale e morale à- un uomo; cercava la prima nelPocchio e nella fronte,
la seconda nelle forme della bocca e del mento. Era soddisfatto della sua
fisionomia intellettuale, ma non della sua fisionomia morale. Veste
sempre bene e con eleganza, il.suo contegno era aristocratico e leggermente
altero. Portava Senili re V abito, cravatta bianca e scarpe; i suoi abiti erano
sempre dello stesso taglio senza riguardo alla moda, eppure egli non
pareva mai strano, talmente aveva adattato il vestito alla persona. He il
popolo in istrada spesso lo seguiva collo sguardo, ne era causa il suo
esteriore animato dal fuoco dei genio, e non il suo vestito. Più tardi fu
fatto il suo ritratto con la fotografia e colla pittura; la tradizione soltanto
ci parla dèi suo esteriore, quando era nel fiore degli anni
virili. Velia biografia, del laborioso antiquario e storico I. E. Bolline!
troviamo runica menzione fatta del viaggio di Schopenhauer a Roma. Allora
era un'epoca di misticismo per Parte e per la religione della Germania,
epoca che produsse nella storia un Biniseli, nell’arte un Cornelius ed un
Qverbeck. I giovani artisti tedeschi, chiamati dal loro console ad ornare
la di lui villa sul monte Pine io, avevano l'abitudine di riunirsi
quotidianamente con certi poeti e giornalisti nel caffè Greco, diventato
il punto d'incontro per tutti i Tedeschi di Bontà. Il poeta Ruekert ed il
novelliere L, Schefer, ottimisti per professione, frequentavano allora quella casa.
Molti degli uomini più importanti della Germania allora viventi, si trovavano
nella eterna città. Schopenhauer, come gli altri, frequentava il caffè
Greco, ma pare che il suo spirito mefistofelico fosse un elemento
disturbatore per i visitatori ordinari che desideravano che egli si
allontanasse. Un giorno egli annunciò alla società che la nazione tedesca
era la più stupida di tutte, ma che era in un punto a tutte superiore,
cioè che era arrivata al pùnto di poter fare a meno della religione.
Questa osservazione suscitò una tempesta ili disapprovazioni, ed alcune
voci gridarono: fuori! alla porta mettetelo fuori ! Dà quel giorno in poi il
filosofo evitò il caffè Greco, ina le sue opinioni sui Tedeschi rimasero
inalterate. La patria tedesca in me
non si è allevato un patriota , disse un giorno ; e spesso anda dicendo ai suoi
compatì lotti a francesi ed a inglesi che egli si vergoigmva di essere tedesco,
piaceli è questo popolo era tanto stupido, a Se io pensassi così della mia nazione , rispose
un Francese, almeno non lo direi. Questo Schopenhauer è un
sala miste) (N&rr) insopportabile, scrive Bòhmer. Questi filosofi
antitedeschi ed irreligiosi, dovrebbero essere tutti quanti rinchiusi pei
bene comune, Schopenhauer non menava una vita santa ed ascetica, uè
pretese die gli altri lo credessero. Egli sprezzava le donne; considerava
ibi more sessuale come una delle manifestazioni più caratteristiche della
volontà; tuttavia non era dissoluto. Sospirava con Byron : Più che
vedo gli uomini meno mi piacciono;
tutto sarebbe bene se potessi dire lo stesso delle donne. Egli differiva dagli
uomini ordinari, parlando di ciò che gli altri sopprimono. I suoi
discepoli troppo zelanti die credevano vedere qualcosa di divino in tutte le
sue azioni, trassero alla luce del giorno anche questi suoi discorsi e
quindi attirarono sul maestro un’imputazione che egli non ha mai meritata. Le
idee di Schopenhaner coincidevano con questa osservazione di Buddha ; Non v ? è
passione più potente di quella dei sessi : di fronte a. questa
nessun’ultra merita d’essere menzionata; se ve ne fosse un'altra di
questa forza, per la carne non vi
sarebbe più salute! E di lì nacque senza
dubbio il timore di Sdì operili auer di
non poter raggiungere il Nirvana , come egli disse con rincrescimento al
dottor Grwinner. In mezzo a questi trastulli leggeri colla bellezza
femminile gli giunse ad un tratto la notizia che V antica ditta di Danzi
e a, in cui era implicata gran parte della sua sostanza e tutta quella di
sua madre, era minacciata di bancarotta. Senza indugio si trasferì in
Germania; ia perdita del suo avere era il male che Schopenhauer temeva
maggior- mente., il male che egli sapeva di poter sopportare più
difficilmente, tenuto calcolo del suo temperamento. Egli non era adatto a
guada' gnarsi il. pane; la sua intelligenza non era di quelle che si
possono dare in affitto. L’indipendenza materiale che egli aveva
ereditata gli parve sempre uno dei più grandi beni della sua vita, dacché
s ! era tutto dedicato a suoi studi. Nei Par erga, sotto il titolo V on
(lem was Einer hai, egli scrive : Non. istimo indegno della mia penna di
raccomandare hi cura della fortuna
che si è acquistata per lavoro o per eredità. E 5 un vanfaggio inapprezzabile
il possedere fin da principio quanto occorre per vivere, sia anche solo e senza famiglia,
comodamente ed in vera im.1L
pendenza, c 1 o è se iiz a 1 avocar e ; quèsto stato rende huomn esente
ed immune dalla privazione e
quindi dalla servitù universale, sorte caie ninne dei mortali. Colui soltanto
che dal destino fu favorito in questo
modo è veramente nato uomo libero, giacché soltanto egli è vwr
j.arix, padrone del suo tempo e
delle sue facoltà e può dire ogni mattina ; il giorno è mio. Per questa
ragione la differenza tra colui che hn mille ai a scudi d’entrata e
colui clie ne La centomila- è molto minore di quella che corre tra il
primo e colui che non La nulla. La fortuna ereditari si acquista un sommo valore, quando cade in mano
ad un uomo il quale, dotato di capacità intellettuali d’ordine elevato,
segue tendenze incompatibili col lavoro pel pane quotidiano. Tale uomo
ricevette da! destino un doppio corredo e può vivere pel suo genio; ma
egli coniti pensa cento volte il debito contratto verso- V umanità, effettuando
cosa che nessun altro potrebbe
effettuare, e producendo qualcosa pel bene ed anzi per V onore comuni, TTn
altro in questa condizione privilegìata con tendenze filantropi eh e saprà
meritarsi la gratitudine d elee l’umanità. D’altra parte sarà un pigro
spregevole colui che si trote va in possesso d’ una fortuna ereditaria e non
cerca in nessun modo, neppure acquistando a fondo qualche scienza, di
rendersi utile all’umanità, a Questo ora- è riservato al più alto grado di
perfezione iute Ilei- ft tuale che noi al solito chiamiamo genio; il
genio solo si occupa escili- sivamente dell’esistenza e della natura
delle cose, per poi esprimere a i suoi concetti profondi, secondo la
propria inclinazione, per mezzo dell’arte, della poesia e della filosofia.
Pei uno spirito di questo genere il commercio non interrotto con sé stesso, co’
suoi pensieri e colle sue opere è
un bisogno urgente. Ad esso è cara la. solitudine, e l’ozio è il suo bene
maggiore; il resto non gli è indispensabile, anzi talvolta gli è gravoso. Di
tal uomo soltanto possiamo dire con ragione che abbia in sé stesso il suo punto di gravità.
Cosi si spiega perchè queste
persone tanto rare, anche se hanno il miglior carattere del
mondo, non mostrano per gli amici, per la famiglia e pel bene comune
quella a -simpatia ardente ed illimitata, di cui dispongono tanti altri;
giacche dopo tutto possono
consolarsi d’ogin cosa finché hanno sé stessi. In loro vive un elemento d'isolazione tanto più
attivo quanto meno gli altri possano dar loro soddisfazione; questi altri
uomini, essi non li considerano interamente come loro pan; e dal momento
che corniticiano a vedere che tutto a loro è eterogeneo, prendono l’abitudine
di camminare in mezzo agli nomi ni, come se questi fossero esseri da
loro diversi; nei loro pensieri ne
parlano come di terze persone, dicendo: essi, loro, e mai noi. Tln uomo
munito di questa ricchezza interiore non chiede al mondo esterno nulla, all*
infuori d'un dono negativo, cioè la libertà di svilappare e di migliorare le
sue facoltà intellettuali, di godere la sua ricchezza interiore, vale a dire di essere
interamente a sé in ogni gioì no. in ogni ora e durante tutta la sua vita.
Quando un uomo è destinato a lasciare l’impronta del suo intelletto all’intera
razza umana, egli non può conoscere che una sola gioia, cioè quella di
vedere le sue facolt-a riconosciute e di trovarsi in grado di compiere
l’opera e sua; oppure un rammarico e cioè d J esserne impedito. Ogni
altra, cosa « è insignificante ; e intatti troviamo clic in tutti i tempi
le menti più elevate abbiano pregiato sopra ogni altra cosa E ozio, ed il
valore di quest'ozio equivale appunto al valore deli-uomo stesso. Volentieri
Schopenhauer cita questa massima di Mienstone: la libertà è un cordiale
più fortificante del Tokay, Pieno dei più cupi presentimenti egli si portò
con fretta in Germania, (tra zi e alla
sua energia e alla siili diffidenza d ogni prò Fessio- nej riuscì a
salvare la maggior parte della propria sostanza. Sua in mire non volle
prendere consiglio,, e quando venne la catastrofe finale essa ed Adele
rimasero quasi senza un centesimo, Questo incidente dimostra die
Schopenhauer non era filosofo (/truche e poco pratico; egli certamente
non avrebbe inciampalo, guardando cri ammirando le stelle ; al genio egli
univa il senso pratico, una combinazione molto rara, la cui origine egli faceva
risalire a suo padre negoziante. Ed è questa qualità che fa di Schopenhauer il
vero filosofo pei bisogni d’ogrii giorno, lasciando da parte il -suo
pessimismo. Egli aveva vissuto nel mondo e non era uno di quegli studiosi
che vivono rinchiusi nel loro studio ; egli conosceva i bisogni e le richieste
del mondo i suoi aforismi ed assiomi non sono troppo elevati per essere
messi in pratica s oltreché sono esposti in linguaggio chiaro ed
intelligibile ed esprimono spesso le percezioni d’ogni mente che
pensa. Though man a tlilnkmg being is ci e fine d,
Few use thè great prerogative oi minti; How few thiiik jusUy
oì thè tliiriking few; II ow manv n e ver inmk, who think they
do. Sfortunata
incute il loro numero è infinito ed a loro non occorre nè filosofo, nè
poeta, uè artista; ginstinti sono per loro nella vita una guida
sufficiente. Nome compiuto: Mario Casotti. Keywords: volere, sì che Socrate
si tramuti in Alcibiade! Grice: “And perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” die
welt as will –volere – filosofia fascista -- la volonta di potere, un invento della
sorella di Nietzsche che piaceva a Hitler ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Casalegno, paolo. Italian philosopher author of “H.
P. Grice” in “Filosofia del linguaggio.”
Luigi
Speranza -- Grice e Cassio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma)
Filosofo italiano. Tribuno della plebe della Repubblica romana C. (a destra),
Marco Giunio Bruto (col volto girato) e gli altri congiurati pugnalano Giulio
Cesare alle Idi di Marzo; particolare del dipinto di Camuccini, Morte di Giulio
Cesare. Nome originale. Nascita: Roma Morte: Filippi Coniuge: Tertulla Figli:
C. Gens: Cassia Tribuno militare sotto Marco Licinio Crasso Questura. Tribunato
della plebe. C. Roma – Filippi) è stato
un filosofo e politico romano, tra i promotori della congiura che causò
l'uccisione di Gaio GIULIO (si eda) Cesare. Appartenne alla gens Cassia, una
famiglia patrizia riuscita ad accedere al consolato. C., dopo il matrimonio con
Tertulla, figlia di Servilia, sembra avvicinarsi al partito degl’optimates
guidato da CATONE (si veda) Uticense. Moneta coniata da Longino. Prende
parte alla guerra contro i Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi
dal disastro di Carre, e riuscendo a respingere una loro successiva invasione
che si era spinta fin sotto le mura di Antiochia. Nominato tribuno della plebe,
allo scoppio della guerra civile si schierò dalla parte di Pompeo, che gli
affidò il controllo di parte della sua flotta nelle acque del Mediterraneo.
Dopo la battaglia di Farsalo e la morte di Pompeo in Egitto, egli decise di
beneficiare della clemenza di Cesare: lo raggiunse dunque in Cilicia, vicino
Tarso, da dove il dittatore sta pianificando l'attacco a Farnace. Nonostante il
suo rapporto con Cesare si consolida, C. decide d’allontanarsi dalla corrente
politica di Cesare per essere uno degl’organizzatori del complotto che portò
costui alla morte. Dopo l'assassinio del dittatore, C. insieme a Bruto,
figlio di Servilia, fugge da Roma, timoroso delle rappresaglie messe in atto da
MARC’ANTONIO (si veda), luogotenente di Cesare, e dall’emergente OTTAVIANO (si
veda), futuro primo imperatore di Roma con il nome di Augusto. Come si apprende
da un'epistola scritta a CICERONE (si veda) poco prima della battaglia di
Modena, C. ottenne brillanti successi in Oriente. Recatosi ad Apamea, dove è
assediata dai cesariani una legione pompeiana al comando di Quinto Cecilio
Basso, riuscì a convincere i capi cesariani sul posto, Lucio Staio Murco e
Quinto Marcio Crispo, a defezionare con le loro sei legioni e passare dalla sua
parte. Poco dopo giunse dall'Egitto Aulo Allieno con altre quattro legioni, che
a sua volta si unì a Cassio. Secondo alcune fonti Marcio Crispo tuttavia
rifiutò di servirlo. C. disponeva ora di numerose legioni e si mosse per
affrontare il cesariano Publio Cornelio Dolabella, che in precedenza aveva
vinto e ucciso il cesaricida Gaio Trebonio. Tuttavia i due cospiratori non
riuscirono a farla franca. Nel frattempo era stata emanata la lex Pedia, che
condannava all'esilio i cesaricidi. Cassio e Bruto vennero affrontati
nella battaglia di Filippi da MARC’ANTONIO (si veda) ed OTTAVIANO (si veda). C.
fu sconfitto da Marco Antonio; pensando che anche Bruto fosse stato sconfitto
diede ordine ad un suo schiavo, Pindarus, di ucciderlo, usando la stessa daga
con cui aveva pugnalato Cesare; Bruto, nonostante la parziale vittoria ottenuta
su Ottaviano, fu successivamente raggiunto ed accerchiato dagli uomini di Marco
Antonio. Il 23 ottobre del 42 a.C. Bruto, vedendosi sconfitto, si
suicidò. Plutarco riferisce che Cassio era seguace di Epicuro.
Cassio viene definito da più fonti come Ultimus Romanorum, l'ultimo dei romani
a incarnare i valori e lo spirito romano: il riferimento è in Tacito, che cita
a sua volta lo storico Cremuzio Cordo: «Sotto il consolato di Cornelio Cosso e
Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per un reato di nuovo
genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui scritti, dopo aver
elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l'ultimo dei romani"[5].
Letteratura Dante lo pone nell'ultimo girone dell'Inferno (Inferno), la
Giudecca, ove si puniscono i traditori dei benefattori. Assieme a Giuda
Iscariota ed a Marco Giunio Bruto, è costantemente maciullato dalle fauci di
Lucifero. Cassio è uno dei protagonisti della tragedia Giulio Cesare di
Shakespeare. Note ^ Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, Syme, La
rivoluzione romana Cassio, epistola a Cicerone ex castris Taricheis, in Charles
Chaulmer, Les Epitres familières de Ciceron en latin et en françois., edd. Antoine e Horace Molin, 1689 ^ Broughton, T. Robert S., The Magistrates
of the Roman Republic, Annales, Sermonti, Inferno, Rizzoli. Bosco e
Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988. Voci correlate Gaio
Giulio Cesare Marco Giunio Bruto Battaglia di Filippi Marco Antonio Augusto
Ultimus Romanorum Altri progetti Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Càssio Longino, Gàio (uomo politico e questore), su
sapere.it, De Agostini. Gaius Cassius / Gaius Cassius Longinus, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Gaio Cassio Longino / Gaio Cassio
Longino (altra versione), su Goodreads. V · D · M Guerra civile romana V · D ·
M Guerra civile romana V · D · M Cesaricidi Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Età augustea Categorie: Politici
romani del I secolo a.C.Morti nel 42 a.C.Morti il 3 ottobreNati a
RomaCassiiGovernatori romani della SiriaMorti per suicidioPersonaggi citati
nella Divina Commedia (Inferno)EpicureiCesaricidi[altre] Cassio, one of those
who assassinated Giulio Cesare, was a follower of the philosophy of The Garden.
He converted to the sect after an earlier interest in
the Porch, and defended his new philosophy in correspondence with his friend
Cicerone. Nome
compiuto: Gaio Cassio Longino. Cassio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cassio,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi
Speranza -- Grice e Cassiodoro: -- vide under Briuzi --. noble Italian philosopher. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
Luigi
Speranza -- Grice e Castelli
Luigi
Speranza -- Grice e Castiglione -- Luigi Speranza (Casatico).
Abstract. Grice: “When I started giving lectures and
seminars – open to every member of the university – myself being a university
lecturer at this time, and not just St. John’s Tutorial Fellow in Philoosophy –
on ‘conversation,’ many thought I had become Castiglione – others, Guazzo!” Filosofo
italiano. Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi
Baldassarre Castiglione (disambigua). Baldassarre Castiglione Raffaello,
Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1514-1515 Signore di Casatico Stemma
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 (50 anni) Luogo
di sepoltura Santuario delle Grazie Dinastia Castiglione Padre Cristoforo
Castiglione Madre Luigia (Aloisia) Gonzaga Consorte Ippolita Torelli Figli
Camillo Anna Ippolita Religione Cattolicesimo Baldassarre Castiglione, anche
chiamato Baldassar e Baldesar (Casatico, 6 dicembre 1478 – Toledo, 8 febbraio
1529), è stato un umanista, letterato, diplomatico e militare italiano, al
servizio dello Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del Ducato di
Urbino. Casatico, ingresso di Corte Castiglioni, luogo di nascita di
Baldassarre, con stemma della famiglia La sua prosa e la lezione che offre sono
considerate una delle più alte espressioni del Rinascimento italiano[1].
Soggiornò in molte corti, tra cui quella di Francesco II Gonzaga a Mantova,
quella di Guidobaldo da Montefeltro a Urbino e quella di Ludovico il Moro a
Milano. Al tempo del sacco di Roma fu nunzio apostolico per papa Clemente VII.
La sua opera più famosa è Il Cortegiano, pubblicata a Venezia nel 1528 e
ambientata alla corte d'Urbino, presso la quale l'autore aveva potuto vivere
pienamente la propria natura cortigiana. Tema cardine del libro è la
trattazione, in forma dialogata, di quali siano gli atteggiamenti più consoni a
un uomo di corte e a una "dama di palazzo", dei quali sono riportate
raffinate ed equilibrate conversazioni che l'autore immagina si tengano durante
serate di festa alla corte dei Montefeltro attorno alla duchessa Elisabetta
Gonzaga. Biografia Le origini e la formazione Baldassarre
Castiglione Tiziano, Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1529 circa
Nascita Casatico, 6 dicembre 1478 Morte Toledo, 8 febbraio 1529 Cause della
morte febbre Luogo di sepoltura Grazie (Curtatone), Santuario delle Grazie Etnia
italiana Religione cattolica Dati militari Paese servito Marchesato di
Mantova Ducato di Urbino Unità Cavalleria Battaglie Assedio della
Mirandola 1510 voci di militari presenti su Wikipedia Manuale Figlio di
Cristoforo Castiglione (1458-1499), uomo d'armi alle dipendenze del marchese di
Mantova Ludovico Gonzaga e di Luigia Gonzaga (1458-1542), Baldassarre nacque a
Casatico, nel mantovano, il 6 dicembre del 1478[2]. Proveniente da una famiglia
dedita per necessità al culto delle armi e al prestar servizio presso signori
più potenti[3], all'età di dodici anni fu inviato, sotto la protezione del
parente Giovan Stefano C.[4], alla corte di Ludovico il Moro, signore di
Milano, ove studiò alla scuola degli umanisti Giorgio Merula, per quanto
riguarda il latino, e Demetrio Calcondila, per il greco[5]. Si impratichì
invece della letteratura italiana, appassionandosi in particolar modo a
Petrarca, Dante, Lorenzo il Magnifico e Poliziano, sotto l'umanista bolognese
Filippo Beroaldo[6]. Per quanto riguarda l'esercizio e la pratica delle armi,
si formò insieme a Pietro Monte[7]. Purtroppo il soggiorno milanese, funestato
negli ultimi anni dalla morte della duchessa Beatrice d'Este e del padre in
seguito alle ferite riportate nella battaglia di Fornovo del 1495, dovette
terminare e costrinse il C., in quanto figlio primogenito, a occuparsi degli
interessi familiari a fianco della madre[2]. La parentesi gonzaghesca Nel
1499 tornò a Mantova al servizio di Francesco II Gonzaga, marito di Isabella
d'Este[N 1], anche se, secondo la Cartwright, C. non fu mai attratto dalla
personalità rude del marchese[8]. Qui, proseguendo la tradizione familiare, si
mise al servizio di Francesco II quale cavaliere, seguendolo prima a Pavia e
poi nuovamente a Milano, dove assistette all'entrata trionfale di re Luigi XII
di Francia il 5 ottobre[5]. Rientrato a Mantova, Baldassarre si prestò a
servire il suo signore come funzionario marchionale (fu castellano di C. nel
Mantovano durante la ridiscesa di Ludovico il Moro a Milano[9]) e, nell'autunno
1503, lo seguì nel Mezzogiorno ad affrontare gli spagnoli nella battaglia del
Garigliano, subendo, in quel 29 dicembre, una cocente sconfitta[2]. Al
servizio del Ducato d'Urbino Una corte cosmopolita Raffaello, Ritratto di
Guidobaldo da Montefeltro, 1506 circa Nel frattempo il duca d'Urbino Guidobaldo
da Montefeltro, rientrato in possesso dei suoi domini dopo la morte di
Alessandro VI[10], scese a Roma per rendere omaggio al nuovo papa Giulio II[5].
Con la diretta conoscenza di Roma, di Urbino e del duca Guidobaldo, C. provò
«il fascino, tanto diverso, ma egualmente profondo, delle due città»[4]
rispetto alla più provinciale Mantova. Grazie anche all'interesse della
duchessa Elisabetta Gonzaga, ottenne così di essere dispensato dal servigio al
signore gonzaghesco per trasferirsi nella più promettente e amena città
marchigiana[11], anche se ciò suscitò nel marchese Francesco II un certo
risentimento verso il suo ex servitore[12]. Così, nel 1504, iniziò forse il
periodo più felice per il nobile C., entrando al servizio di una corte più
fastosa ed elegante di quella mantovana. Pur militando per il duca d'Urbino ed
essendo a capo di un manipolo di cinquanta uomini[2][13], egli poté frequentare
la corte urbinate, vero centro cosmopolita di ingegni e centro
d'eleganza: «A Urbino il C. s'incontrò con un comitato di persone
egregie, quali innanzitutto le due nobili dame, la duchessa Elisabetta Gonzaga
e madonna Emilia Pio, cognata della prima, e poi con uomini d'ingegno come
Ottaviano Fregoso [...] Federico Fregoso poi arcivescovo di Palermo, Cesare
Gonzaga, cugino del C., Giuliano de' Medici, il minore dei figli di Lorenzo il
Magnifico...» (Russo, p. 510) Luigi Russo ricorda poi anche il
conte Ludovico di Canossa e l'ormai celebre letterato veneziano e futuro
cardinale Pietro Bembo[14]. Alla corte urbinate il C. poté vivere appieno la
sua natura cortigiana, dedicandosi alla letteratura e al teatro. Nel primo
caso, si occupò dell'allestimento scenico prima dell'egloga Tirsi (1506), poi
nel 1513 de La Calandria, l'opera teatrale dell'amico e futuro cardinale
Bernardo Dovizi da Bibbiena[2][15]. In secondo luogo, raffinò ulteriormente la
sua attività cortigiana, ponendo le basi per l'esposizione teorica del buon
cortigiano nell'opera omonima. Le ambascerie e le missioni militari
Tiziano, Ritratto di Francesco Maria Della Rovere, 1538 circa La residenza a
Urbino non fu però statica: impiegato dal suo signore quale ambasciatore, fu
nell'autunno/inverno 1506[16] in Inghilterra alla corte di Enrico VII Tudor per
ringraziare il sovrano inglese della concessione a Guidobaldo dell'onore di far
parte dell'Ordine della Giarrettiera[17][18][19]. Fu in quest'occasione che
dedicò al sovrano inglese la Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini
Ducis[2]. Ancora, nel maggio 1507 fu a Milano per rappresentare il duca presso
Luigi XII di Francia[20], ma fu spedito anche a Roma come ambasciatore, visti
gli strettissimi legami feudali che intercorrevano tra la Santa Sede e il
Ducato d'Urbino, ora che il titolo ducale era passato a Francesco Maria I della
Rovere, parente di Giulio II (1508)[21]. Nel frattempo, agli inizi del ducato
di Francesco Maria, C. era stato nominato dal nuovo duca di Urbino podestà di
Gubbio affinché i suoi cittadini rimanessero fedeli alla causa roveresca,
riuscendovi[22]. Durante questi anni l'umanista partecipò anche alle imprese
belliche del papa guerriero, quale per esempio l'assedio della Mirandola che si
svolse dal 19 dicembre 1510 al 20 gennaio 1511 o la presa di Bologna da parte
delle truppe urbinate[2]. Dimostratosi devoto alla causa del suo signore,
questi gli concesse il 2 settembre 1513 il castello di Nuvilara, nel Pesarese,
col titolo di conte[22][23][24]. Presso la Roma di Leone X
Raffaello, particolare con Leone X Fu questa l'intellighenzia artistico-culturale
ereditata dal nuovo pontefice, Leone X, dalla Roma di Giulio II. Figlio di
Lorenzo il Magnifico e amico del duca e di C.[25], ebbe come ambasciatore di
Francesco Maria proprio quest'ultimo, che doveva rimanere nella capitale della
cristianità per seguitare a fare gli interessi rovereschi[26]. I tre anni che
Baldassarre C. passò alla festosa corte pontificia fecero credere al cortigiano
mantovano di «avere la sensazione che la corte [pontificia, n.d.r.] fosse quasi
un duplicato di quella urbinate»[2]: l'aver ritrovato gli antichi amici del
periodo montefeltrino, la loro frequentazione, l'essere entrato in contatto con
Raffaello e con Michelangelo, stabilendo rapporti cordiali con loro, gli fecero
credere del ritorno all'epoca felice delle feste e delle conversazioni che
spesso C. intratteneva con la colta duchessa Elisabetta Gonzaga. Come scrive il
Mazzuchelli a tal proposito: «Il Conte quivi egualmente servì il Duca ed
attese a' geniali suoi studj, conversando frequentemente col Bembo, col
Sadoleto, col Tibaldeo, e con Federigo Fregoso, e coltivando i più chiari
Professori delle belle arti, cioè Raffaello d'Urbino, Michelangelo Buonarroti,
e altri principali Pittori, Scultori ed Architetti.» (Mazzuchelli, p.
19) Inoltre, a partire dal 1513, l'autore iniziò la stesura del Cortegiano,
dando principio della sua attività anche di scrittore[27]. Purtroppo, la
politica del nuovo pontefice rovinò questa chimera. Leone X, infatti,
desideroso di elevare la sua famiglia, dichiarò decaduto il duca Francesco
Maria a favore del nipote Lorenzo II, nonostante il parere negativo del
fratello del pontefice, Giuliano de' Medici duca di Nemours[28]. L'installarsi
dei nuovi signori, la fuga del duca a Mantova e la dichiarata fedeltà alla
causa roveresca da parte del C. lo costrinsero a lasciare Roma per far ritorno
nei suoi vecchi domini di Casatico[15][29]. Il secondo periodo
mantovano Tiziano, Ritratto di Federico II Gonzaga, 1529 circa Rientrato
a Mantova, il 15 ottobre 1516 sposò la quindicenne[30] Ippolita Torelli, figlia
di Guido Torelli e di Francesca Bentivoglio[25]. Ristabiliti cordiali rapporti
col signore di Mantova Francesco II Gonzaga, C. trascorse degli anni abbastanza
tranquilli (si ricorda una gita a Venezia in compagnia della sposa e della
corte gonzaghesca[31]) finché nel 1519, divenuto marchese di Mantova il giovane
Federico II, fu rimandato a Roma per consolidare la posizione del nuovo signore
presso papa Leone X[32]. Nel contempo contribuì anche alla causa roveresca
facendo sì che, non appena morì Leone X, il collegio cardinalizio lo
reintegrasse nei suoi domini appena riconquistati con le armi[33]. Al
servizio del papato Rimasto vedovo nel 1520, C. si fece prete per provvedere ai
propri bisogni materiali[2] e ricevette la conferma del suo nuovo stato col
breve del 9 giugno 1521 da parte del pontefice medesimo[4]. Mandato a Roma al
conclave che elesse Adriano VI nella speranza che venisse nominato pontefice il
cardinale Scipione Gonzaga[2], servì sotto Federico Gonzaga ancora come
cortigiano e comandante militare[34][35], ma non c'era più la felicità e il
brio della corte urbinate e della Roma medicea: «Non c'è più
l'entusiasmo, la baldanza, la serenità fiduciosa di quegli anni giovanili;
ormai per lui le fatiche non sono più piaceri come lo erano allora; alla lieta
spensieratezza del giovane è subentrata la gravità dell'uomo che ha vissuto,
lavorato e sofferto, dell'uomo quale noi conosciamo, calmo, equilibrato ed un
poco triste per tutto quel male che è intorno a lui, ma che lo ha lasciato puro
di ogni macchia.» (Bongiovanni, p. 40) Tutto questo cambiò quando,
nel 1523, fu eletto al soglio pontificio il cardinale Giulio de' Medici col
nome di Clemente VII. Nunzio in Spagna Tiziano, Ritratto di Carlo V
seduto, 1548 «jeri N. Sign. [i.e. il papa Clemente VII] mandò per me, e con molte
buone parole e troppo a me onorevoli fecemi un discorso dell'amore, che egli
sempre mi avea portato per merito mio, e della fede che avea in me; ed
estendendosi molto sopra questo, mi disse che adesso gli accadea farmi
testimonio della confidenza, che aveva della persona mia: e questo, che
essendogli necessario mandare un uomo di qualità appresso Cesare [i.e.
l'imperatore Carlo V], dove si ha da trattar la somma delle cose non solo della
Sede Apostolica, ma d'Italia e di tutta la Cristianità, dopo lo aver discorso
tutti quelli, di chi egli si potesse servire in questo luogo, non avea trovato
persona da chi sperasse esser meglio servito che da me; e però desiderava che
io mi contentassi di accettar questa impresa, la quale era la più importante
che in questo tempo avesse per le mani.» (Baldessar C., Lettere, vol. 1,
p. 133) Con queste parole l'umanista riferiva a Federico Gonzaga della
nomina, annunciata il 19 luglio 1524 da parte del papa, a nunzio apostolico in
Spagna presso l'imperatore Carlo V[2]. Sciolto dal legame con il marchese di
Mantova, il 7 ottobre del medesimo anno[2][36] egli partì da Roma per occuparsi
di quest'incarico. La missione non era delle più facili, in quanto il giovane
imperatore era in lotta con il re di Francia Francesco I per la supremazia in
Italia, dove si giocava anche la sicurezza e la credibilità dello Stato
Pontificio. Sconfitto il re di Francia nella battaglia di Pavia del 1525,
Clemente VII, che per arginare lo strapotere imperiale si era alleato ai
francesi, fu invaso dalle truppe spagnole e tedesche dando origine al terribile
sacco di Roma del 1527. Il letterato fu accusato ingiustamente dal papa di non
aver saputo prevedere l'evento[37], nonostante col cardinale Salviati avesse
presentato un memoriale con cui il pontefice si congratulava della vittoria
imperiale[38]. Gli ultimi anni li dedicò alla stampa del Cortegiano, uscito a
Venezia per interesse del Bembo nel 1528, e alla disputa con Alfonso de Valdés
riguardo all'ortodossia cattolica[2]. Interno del santuario di Santa
Maria delle Grazie La morte Colpito da attacchi febbrili, C., riabilitato dalla
Curia, morì a Toledo l'8 febbraio 1529[2]. Fu inizialmente sepolto, per volontà
dell'imperatore che aveva sempre avuto grande stima di lui, nella cappella di
Sant'Ildefonso nella Metropolitana di Toledo[39]. Ai parenti che giunsero in
Spagna, l'imperatore Carlo rimpianse solennemente con queste parole il nunzio
appena scomparso: (ES) «Yo vos digo que ha muerto uno de los mejores
caballeros del mundo.» (IT) «Io vi dico che è morto uno dei migliori
gentiluomini del mondo.» (Aneddoto di Carlo V riportato in Ferroni, p. 7
e in Russo, p. 510) Dopo sedici mesi l'anziana madre, volendo adempiere
alla disposizione testamentaria del figlio, fece trasferire la sua salma a
Mantova per tumularla, accanto a quella della moglie, nel santuario di Santa
Maria delle Grazie, alle porte della città, nella tomba allestita da Giulio
Romano[40]. Nella colonna di sinistra a lato del sarcofago è inciso l'epitaffio
latino dettato da Pietro Bembo: (LA) «Baldassari Castilioni Mantuano
omnibus naturae dotibus plurimis bonis artibus ornato Graecis litteris erudito
in Latinis et Hetruscis etiam poetae oppido Nebulariae in Pisauren[si] ob
virt[utem] milit[arem] donato duab[us] obitis legation[ibus] Britannica et
Romana Hispanien[sem] cum ageret ac res Clemen[tis] VII pont[ificis] max[imi]
procuraret quattuorq[ue] libros de instituen[da] regum famil[ia][N 2]
perscripsisset postremo eum Carolus V imp[erator] episc[opum] Abulae creari
mandasset Toleti vita functo magni apud omnes gentes nominis qui vix[it]
ann[os] L m[ense]s II d[iem] I Aloysia Gonzaga contra votum superstes fil[io]
b[ene] m[erenti] p[osuit] ann[o] D[omini] MDXXIX» (IT) «A Baldassare C.
mantovano, adorno di tutte le doti naturali e di moltissime belle arti, erudito
nelle lettere greche e in quelle latine e italiane anche poeta. Avuto in dono
per il suo valore militare il castello di Novilara nei pressi di Pesaro,
portate a termine due legazioni in Inghilterra e a Roma, mentre conduceva quella
in Spagna e curava gli interessi del pontefice massimo Clemente VII, completò
di scrivere i quattro libri del Cortegiano; infine, dopo che l'imperatore Carlo
V ordinò che venisse creato vescovo di Avila, concluse la sua vita a Toledo
godendo di grande rinomanza presso tutti i popoli. Visse anni 50, mesi 2 e 1
giorno. La madre Luigia Gonzaga, superstite contro il proprio desiderio, al
figlio benemerito pose questo monumento nel 1529.» (Epigrafe di
Baldassare C., riportata in Mazzuchelli) Discendenza Baldassarre e
Ippolita ebbero tre figli:[2][41] Camillo (1517-1598), condottiero Anna
(1518 - ?), sposò Alessandro dei conti d'Arco e quindi il conte Antonio
Ippoliti di Gazoldo Ippolita (1520 - ?), sposò Ercole Turchi di Ferrara
Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Baldassarre C. Cristoforo C.Antonia da
Baggio Cristoforo C. Polissena Lisca Alessandro Lisca Amante
da Fogliano Baldassarre C. Antonio Gonzaga Luigi Gonzaga
Luigia Gonzaga Luigia Gonzaga Francesca degli Uberti
Gianfrancesco degli Uberti Bianca Gonzaga
Pensiero Uno scrittore non professionista Panoramica del Palazzo
dei duchi di Urbino, ove C. visse parte della sua vita C. non fu uno scrittore
professionista al pari di Pietro Bembo o di Ludovico Ariosto. La sua
testimonianza letteraria, a partire dall'opera maggiore fino alle prove minori,
era inquadrata da un lato nel tentativo di celebrare un modello di cortigiano
ideale in un'epoca in cui il principato era diventato la realtà quasi assoluta
nel contesto geopolitico italiano dell'epoca; nel secondo, invece, era quella
di un'esibizione della sua cultura personale ai fini sempre della
cortigianeria. Come scrive Giulio Ferroni: «la sua cultura ricca e varia non è
però [...] la cultura di un professionista: la letteratura è per lui
espressione del suo essere gentiluomo e un modo di partecipare alla vita della
società nobiliare»[15]. Semmai, piuttosto, se si prende il Cortegiano quale
misura del mondo C.sco, si può anche parlare di doverosa testimonianza di un
mondo che non c'è più, «un luogo mitico, immagine di una felicità
perduta»[27][N 3] devastata poi dalle guerre per il potere e il dominio tra gli
uomini[N 4]. Lasciando parola all'autore stesso: «...e come nell’animo
mio era recente l’odor delle virtú del duca Guido e la satisfazione che io
quegli anni aveva sentito della amorevole compagnia di così eccellenti persone,
come allora si ritrovarono nella corte d’Urbino, fui stimulato da quella
memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io feci in pochi giorni,
con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar
tosto questo debito erano nati.» (C., Dedica, I, p. 13) Il perfetto
cortigiano In un'epoca in cui la cortigianeria era divenuto il nuovo modello
del vivere sociale presso i potenti C. fu, nella schiera dei principali
letterati dell'epoca, il «precettista della vita di corte»[42]. Nel quadro
della corte feltrina e poi roveresca, il C. delinea una serie di modi di porsi
e di comporsi da parte del cortigiano, oltreché a precise indicazioni sulla sua
condotta e alla sua formazione culturale e fisica. In sostanza, il Cortegiano
si presenta quale «moderno erede della pedagogia umanistica»[43] in quanto
l'uomo che vi si raffigura è «un uomo versatile e aperto, duttile e completo; è
esperto di armi e di politica, ma sa anche di lettere, filosofia ed arti, è
raffinato ma senza affettazione, è coraggioso e valente, ma senza
ostentazione»[43]. In sostanza, è un trattato di pedagogia rivolto a chi vive
nel mondo ristretto ed elitario delle corti. Grazia e sprezzatura
Bernardino Campi, Baldassarre C. Doti fondamentali su cui si deve poggiare il
cortigiano per C. sono la grazia e la sprezzatura. La grazia del cortigiano,
propria di una specifica classe aristocratico-nobiliare[44], è essenziale alla
vita di corte in quanto «la grazia, le maniere gentili e amabili sono dunque le
condizioni che permettono al gentiluomo di conquistare "quella universal
grazia de' signori, cavalieri e donne"»[45]. Sempre seguendo il
ragionamento di Maria Teresa Ricci, «la grazia appare dunque come una specie di
abilità che ha per scopo di piacere e convincere. Il cortegiano, come
l'oratore, deve saper commuovere, persuadere, convincere gli altri. Egli deve
essere in grado di dare sempre una "buona opinione" di sé»[46]. In
sostanza, deve saper apprendere questa capacità per poter vivere nell'ambiente
di corte. La grazia però è connessa con la cosiddetta sprezzatura, ossia la non
visibilità dello sforzo con cui il cortigiano fa manifesto della grazia
acquisita, qualità contrapposta all'affettazione, ossia «l'ostentazione di un
comportamento ricercato, di cui risulta sottolineata l'innaturalezza e
artificiosità»[47]: «Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca
questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula
universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che
si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e
come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una
nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e
dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi.» (C., I, XXVI, p. 45) Il C. però propone, nonostante la
naturalezza della sua teoria, una vita che sia mimesi di quella reale: il
cortigiano agisce «in un teatro delle apparenze»[48] nel quale invece è
l'affettazione a dominare sulla sprezzatura e non l'incontrario. L'esaltazione
delle lettere Nella discussione dialogica del Cortegiano emerge poi la supremazia
artistica e formativa delle lettere tra le qualità del cortigiano. Per C. «la
vera gloria degli uomini è quella che si commenda "al sacro tesauro delle
lettere"»[49] in quanto tutti gli antichi, compresi i conquistatori e i
politici[50], ne seguirono le orme per una gloria duratura nei secoli.
Consigliere del principe L'umanista olandese Erasmo da Rotterdam propose
un modello pedagogico e politico in buona parte simile a quella del C. Nel IV
libro del Cortegiano si tratta dei rapporti tra cortigiano e principe. Il
discorso, tenuto da Ottaviano Fregoso, tratta di un argomento che risulta
«inatteso, in qualche modo disomogeneo con le prime tre parti dell'opera»[51].
Il tono del discorso, infatti, risulta molto più serio e concreto, in quanto il
Fregoso (sotto il quale si cela l'animo dell'autore) denuncia la degenerazione
delle corti dovuta a cortigiani inetti e all'immoralità dei principi. Sarà
dunque il cortigiano perfetto, quello delineato nei primi tre libri, a dover
“correggere” questo stato di cose, educando e consigliando il principe sulla
strada della virtù. Il modello del principe di C., che si rifà ancora
all'Umanesimo quattrocentesco di Coluccio Salutati e Matteo Palmieri e che
trova riscontri nella pedagogia erasmiana dell'Institutio principis
christiani[52], è quanto mai lontano da quello machiavelliano: se entrambi
concordano sulla necessità della virtù del principe per governare, C. si
propone di allontanare dall'immoralità il principe, la stessa che invece
Machiavelli dichiara essere necessaria per il governo dello Stato nei casi di
necessità: «Il fin adunque del perfetto cortegiano, del quale insino a
qui non s’è parlato, estimo io che sia il guadagnarsi per mezzo delle
condicioni attribuitegli da questi signori talmente la benivolenzia e l’animo
di quel principe a cui serve, che possa dirgli e sempre gli dica la verità
d’ogni cosa che ad esso convenga sapere, senza timor o periculo di
despiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata a far cosa non
conveniente, ardisca di contradirgli, e con gentil modo valersi della grazia
acquistata con le sue bone qualità per rimoverlo da ogni intenzion viciosa ed
indurlo al camin della virtú.» (C., IV, 5, p. 241) Come fanno
notare Salvatore Guglielmino ed Hermann Grosser, però, il modello politico del
cortigiano C.sco è simbolo di una crisi di valori per cui il suo campo d'azione
presso il principe non è quello di un primus inter pares, quanto solo quello di
un mero consigliere, preludio alla trasformazione del cortigiano nel mero
secretario custode dei segreti indiscutibili del principe[53]. La dama di
corte Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga, 1504-1505 Corrispettivo
dell'uomo di corte deve essere la dama di palagio, che nell'opera assume una
posizione rilevante grazie alla figura della duchessa Elisabetta Gonzaga, della
cognata Emilia Pio, di Costanza Fregoso e Margherita Gonzaga[54]. Secondo
quanto disposto dal C. nel III libro della sua opera, la dama di palazzo (o di
corte) deve essere istruita nelle belle lettere, nelle arti, nella musica e
nella danza, oltre ad essere al contempo una buona moglie ed una buona madre di
famiglia: deve essere dunque una donna «honesta», vocabolo che non indica
l'onestà come virtù morale, quanto l'adozione di certi valori etici e sociali
da cui ci si aspetterebbe da una donna di buoni costumi così come delineati
nell'opera. Per quanto riguarda la dama non ancora sposata, sarà necessario che
essa ami soltanto chi è disponibile a maritarsi con lei e deve rivolgere le
attenzioni maschili a discorsi virtuosi ed onesti, disdegnando invece le
promesse d'amore fatte in modo vago e senza alcun preciso intento di
mantenerle[55]. Fulcro della perfezione della donna di corte è rappresentato
dalla duchessa Elisabetta Gonzaga, come delineato da Uberto Motta:
«Elisabetta è la segreta sorgente a cui C. riconduce le ragioni più intime
della sua scrittura: nei temi, nei generi e nelle forme. Da lei, e
dall’incontro con lei, viene fatta discendere la scoperta e la rivelazione di
un nuovo modo di essere al mondo: la duchessa è una donna unica, l’esclusivo
prototipo della virtù e del valore, la sola compagna all’altezza del fine animo
di Guidubaldo, e a dispetto degli infortuni politici dello stato, e delle
tristezze procuratele dallo sterile matrimonio e dalla vedovanza.»
(Motta, Sotto il segno di Elisabetta. Il mito della duchessa) La
questione della lingua All'inizio del '500, davanti alla rinascita
dell'interesse del volgare dovuto all'umanesimo omonimo, ci si pose quale
dovesse essere il veicolo comunicativo da utilizzare fra gli italiani e quali
dovessero essere i modelli di questa lingua. Secondo Uberto Motta, C. si pone
nella linea dell'anticiceronianesimo appreso alla scuola milanese del
Calcondila e del Merula[56], rispondendo a quella che i critici vaglieranno
come teoria cortigiana, opposta a quella che in quegli anni Pietro Bembo stava
elaborando e che vedrà la luce con le Prose della volgar lingua. Claudio
Marazzini sintetizza così la teoria cortigiana: «la differenza tra questo
ideale linguistico e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della lingua
cortigiana non volevano limitarsi all'imitazione del toscano arcaico, ma
preferivano far riferimento all'uso vivo di un ambiente sociale determinato,
quale era la corte»[57]. Infatti tale posizione viene esplicitata da Federico
Fregoso nel Cortigiano nel I libro: Però io laudarei che l’omo, oltre al
fuggir molte parole antiche toscane, si assicurasse ancor d’usare, e scrivendo
e parlando, quelle che oggidí sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi
della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia.» (C.,
Cortegiano) Opere Il Cortegiano Lo stesso argomento in dettaglio:
Il Cortegiano. «Il tempo che egli passò in Urbino fu dunque quello che
maggiormente influì a dare quasi il segno all'arte sua. Il libro del Cortegiano
vide la luce assai appresso, ma non può negarsi che l'atteggiamento che egli
prende di fronte alla sua arte, di lì sia venuto.» (Bongiovanni)
Edizione inglese del 1603 a partire da quella di Thomas Hoby del 1561 La sua
fama è legata a Il libro del Cortegiano, trattato in quattro libri in forma
dialogica. Scritto in varie fasi, il Cortegiano si ambienta quando il duca
Guidobaldo era ancora vivo, e fu stampato a Venezia. Nel signorile ambiente
della corte di Urbino si svolgono, in quattro serate, dei dialoghi in cui si
disegna l'ideale figura del perfetto cortigiano: nobile di stirpe, vigoroso,
esperto delle armi, musico, amante delle arti figurative, capace di comporre
versi, arguto nella conversazione. Tutto il suo comportamento doveva dare
impressione di grazia e eleganza. Simile a lui la perfetta "dama di
palazzo". Serve così a comprendere non una realtà d'epoca, ma le
aspirazioni di una classe a una vita contraddistinta da un elegante ordine
razionale, un'idea di bellezza che desse alla vicenda terrena un significato
superiore ed eterno. L'opera ebbe immediata e generale fortuna in Europa e
servì da modello, anche come prosa, benché non conforme ai precetti di Pietro
Bembo: nel Cortegiano si espone anche un ideale di compostezza armoniosa nel
campo della produzione in prosa, contraddistinta da elevatezza di impianto
generale, ricchezza e fluidità, duttilità a registri diversi di
scrittura. Tirsi Frontespizio delle opere latine e volgari di
Baldesassar C., presso Giuseppe Comino, Padova
Il Tirsi è un'egloga in 55 ottave[59], elaborata insieme al cugino e
amico Cesare Gonzaga, che celebra i vari letterati presenti alla corte
urbinate, riconoscibili tramite i versi che sono stati da loro scritti. La
scena si apre con il lamento del pastore Iola per il rifiuto dell'innamorata
ninfa Galatea di unirsi a lui, quando interviene Tirsi che esalta una divinità
locale (dietro cui c'è Elisabetta Gonzaga) e tutti coloro che si sono posti
sotto la sua protezione[60]. Il chiaro retaggio virgiliano dell'opera è dovuto
al fatto che i personaggi che vi compaiono appaiono tutti nelle Bucoliche del
poeta mantovano[61], ma vi si intravedono anche stilemi tratti da Orazio,
Ovidio e Catullo, oltreché la metrica adottata nell'Orfeo del Poliziano. Fu stampato
per la prima volta nel 1553 a Venezia a cura di Anton Giacomo Corso[63].
Rime La produzione in ambito poetico è alquanto esigua, anche se nell'epitaffio
mortuario del Bembo si parla di «litteris [...] hetruscis etiam poetae». Le
rime, concentrate nel periodo urbinate[64], per C. appaiono «come strumento di
estrinsecazione dell'identità del cortigiano» e risentono del petrarchismo
cortigiano[65] oltreché dall'influenza poetica classica. Constano di due
canzoni e di cinque sonetti, stampati dall'abate Serassi nel 1771 nel secondo
volume delle Lettere[68]. Carmina Consistono in un'egloga intitolata
Alcon, dedicata in morte dell'amico Domizio Falcone[69] e basata su metri e
tematiche estratte dalle Bucoliche e dalle Georgiche virgiliane[70], in un poemetto
col titolo Cleopatra, in elegie e in epigrammi[68]. Furono raccolti per la
prima volta da Giovanni Antonio e Gaetano Volpi nell'edizione delle Opere
volgari e latine del 1733 in numero di diciotto, cui ne fu aggiunto un altro
inedito nell'edizione delle Poesie volgari e latine del 1760 curata da
Pierantonio Serassi per un insieme di diciannove carmi. Per la precisione, i
titoli sono i seguenti: Alcon, Cleopatra, Prosopopoeia Ludovici Pici
Mirandulani, De Elisabella Gonzaga canente, Elegia qua fingit Hippolyten suam
ad se ipsum scribentem, Ad puellam in litore ambulantem, Ad eamdem, De morte
Raphaelis pictoris, De Paullo canente, De viragine, Ad amicam, Epitaphium
Gratiae puellae, Insignium domus Castilioniae descriptio, Hippolytae Taurellae
coniugis epitaphium, Eiusdem tumulus, Ex Corycianis, In Cupidinem Praxitelis,
De Julio Caesare, De amore. Epistole Oltre alle sedici epistole in
volgare[72], tra le lettere degne di menzione si ricordano il De Vita et Gestis
Guidubaldi Urbini Ducis, panegirico in prosa del duca d'Urbino presentato ad
Enrico VII d'Inghilterra in occasione della morte di Guidobaldo e tentativo di
realizzare la figura ideale di principe; e la Lettera a Papa Leone X, che
tratta delle antichità romane e del modo con cui i romani costruivano i loro
edifici[73]. La fortuna Torquato Tasso Traduzioni del Cortegiano In
Europa il nome di Baldassarre C. è intrinsecamente legato alla sua opera più
celebre, Il libro del Cortegiano, quale modello di comportamento presso le
corti. C. trovò terreno fertile in Spagna dove già nel 1536 il poeta Juan
Boscán tradusse Il Cortegiano in spagnolo[74], mentre nel 1537 fu traslato in
francese da Jacques Colin d'Auxerre (Le courtisan), nel 1561 in inglese da
Thomas Hoby (The courtier)[2][75] e nel 1565 in tedesco dal bavarese Laurentz
Kratzer[76]. Seguirono traduzioni anche in latino del Cortegiano, come quella
di Hieronimus Turler la quale fu pubblicata a Wittenberg. Secondo Beffa-Negrini
e lo scrittore veronese Benini, nel XVII secolo, vi fu la traduzione dell'opera
anche in lingua russa[78]. Nel corso dei secoli Criticato parzialmente da
Torquato Tasso nel suo dialogo Il Malpiglio overo de la corte a causa delle
forti discordie che intercorrevano tra quell'ambiente e il poeta d'origine
bergamasca (ma anche per il mutato cambiamento sociale intercorso)[79], l'opera
di C. fu posta all'Indice dei libri proibiti nel 1576: il figlio di lui,
Camillo, ricevette notizia direttamente dalla Santa Sede[80]. Neanche la
versione "ripulita" di Antonio Ciccarelli permise al Cortegiano di
essere tolto dai libri proibiti, come riconfermato da papa Sisto V. Comunque Il
Cortegiano continuò a circolare e, con la fine dell'età della Controriforma, fu
visto nel XIX e nel XX secolo come l'emblema stesso del Rinascimento[82].
Opere Baldassarre C., Il libro del Cortegiano, a cura di Giulio Carnazzi,
Milano, Fabbri Editore, 2001 [1995], SBN TO01070935. Baldassarre C.,Il Libro
del Cortegiano, a cura di Ettore Bonora, commento Paolo Zoccola, , Mursia,
Milano Baldassarre C. e Cesare Gonzaga,
Rime e Tirsi, a cura di Giacomo Vagni, Bologna, I Libri di Emil, 2015, ISBN
978-88-6680-136-8. URL consultato il 14 maggio 2020. Baldessar C., Lettere ora
per la prima volta date in luce e con annotazioni storiche illustrate, a cura
di Pierantonio Serassi, vol. 1, In Padova, presso Giuseppe Comino, Omaggi
poetici e letterari Il poeta Matteo Bandello ha dedicato a Baldassarre C. la
Novella XLIV della Prima parte. Note Esplicative ^ I rapporti tra il C. e
Isabella d'Este furono sempre improntati ad armonia per spirito di vedute e per
interessi comuni. A rappresentare l'amicizia ormai consolidata, Isabella decise
di partecipare in prima persona al corteo nuziale del C. con Ippolita Torelli.
Cfr. Bongiovanni. ^ De instituenda regum familia ("Sull'istruzione della
corte dei regnanti") è il titolo latinizzato che il Bembo dà a Il
Cortegiano. ^ Per un discorso più ampio, cfr. Motta 2003, pp. 69-168. ^ In
Ferroni, p. 9. non a caso si parla di un tentativo di «esaltare [con] questo
sogno un modo di rispondere alle rovinose "mutazioni" dell'Italia
contemporanea». ^ Finucci, p. 92: «Le donne sono presenti inoltre perché
necessario, lo si metterà ben in chiaro, "non solamente all'esser ma ancor
al ben esser" (3, 40, 246) dell'uomo, della famiglia e della corte, quindi
ai valori familiari, sociali e politici che costituiscono la società che qui
con cura viene messa in scena dall'autore.» Bibliografiche ^ Motta,
Baldassarre C.: «L'opera, all'indomani della prima edizione (1528), si afferma,
a livello internazionale, come autentico capolavoro e nuovo punto di
riferimento nella letteratura etica e politica, sulla scia dei sublimi modelli
antichi di Aristotele e Cicerone, di cui, consapevolmente, aggiorna e
puntualizza la lezione.» Mutini. ^ «La guerra come duro scotto di
privazioni e di sangue, o come gioco millantato e fastoso, era il loro
appannaggio: la morte e la finzione costituivano i termini di un'alterità in
cui si celebrava, in mancanza di una struttura sociale subordinante, l'assoluta
devozione al signore...» (Mutini) Cian. Mazzuchelli, p. 16.
^ Cartwright Bongiovanni, p. 25. ^ Cartwright But loyally as C. served his
master, Francesco Gonzaga's personality, it is evident, never attracted him»,
ossia «A parte che C. servì lealmente il suo signore, la personalità di
Francesco Gonzaga, è evidente, non l'entusiasmò mai». ^ Cartwright, 1, p. 28. ^
Cartwright, 1, p. 38. ^ Mazzuchelli, pp. 16-17. ^ Martinati, p. 12. ^
Martinati, p. 13. ^ Russo, p. 510. Ferroni, p. 7. ^ Martinati, p. 16. ^
Mazzuchelli, Martinati, p. 14. ^ Cartwright, 1, p. 188: (EN) «Henry, by the
grace of God, King of England and France, Lord of Ireland, Soveraign of the
Most Noble Order of the Garter...Forasmuch as we understand that the right noble
prince, Gwe de Ubaldis, Duke of Urbin, who was heretofore, elected to be one of
the companions of the said noble Order» (IT) «Enrico, per la grazia di
Dio, Re d'Inghilterra e Francia, Signore d'Irlanda, protettore del nobilissimo
ordine della Giarrettiera...Dato che noi intendiamo che il giusto nobile
principe, Guidobaldo, Duca di Urbino, che era fino a questo momento, eletto ad
essere uno dei membri del suddetto nobile Ordine...» ^ Martinati, p. 18.
^ La coppia ducale era senza figli per l'impotenza di Guidobaldo e così, il 18
settembre 1504, Guidobaldo fu costretto ad accettare come successore Francesco
Maria Della Rovere, nipote del pontefice. Cfr. Cartwright Mazzuchelli, p. 18. ^
Martinati, p. 24. ^ Bongiovanni, p. 31. Mazzuchelli, p. 19. ^ Martinati,
p. 23. Ferroni, p. 8. ^ Bongiovanni, p. 141. ^ Martinati, p. 28 e sgg. ^ Cartwright, 1, p. 411; p. 415: «Ippolita married at fifteen, and died
four years later, before she was quite twenty». ^ Mazzuchelli, p.
20. ^ Martinati Martinati, p. 41. ^ Mazzuchelli, p. 21. ^ Bongiovanni, p. 39. ^
Cartwright, 2, p. 248. ^ Mazzuchelli, p. 22. ^ Martinati, p. 47. ^ Mazzuchelli,
p. 23. ^ Martinati. ^ Pompeo Litta, Famiglie celebri di Italia. Castiglioni di
Milano., Torino, 1835. ^ Russo, 1, p. 257. Guglielmino-Grosser, p. 282. ^
Ricci, p. 237. ^ Ricci, p. 237. Il testo del Cortegiano è tratto dal capitolo
II, par. 17. ^ Ricci, p. 238. ^ Ferroni, p. 78, n. 15 §1. ^ Ferroni, p. 9. ^
Russo Russo Ferroni Scarpati, p. 435: «La rete dei valori e dei disvalori che
si disegna non è dissimile da quella tracciata da Erasmo». ^
Guglielmino-Grosser, pp. 282-283. ^ Finucci, p. 91. Ferroni, p. 88. ^
Motta Marazzini, Motta, Il libro del Cortegiano. La genesi del testo. ^ Vagni,
p. 773. ^ Vagni, p. 734. ^ Vagni 2015, p. 187. ^ Cartwright, 1, p. 159. ^ Vagni
2015, p. 192. ^ Vagni 2015, p. XXVI. Vagni 2015, p. XXV. ^ Vagni 2015, p.
XXX. ^ Mazzuchelli, p. 32. Mazzuchelli, p. 33. ^ Motta, La produzione
poetica. I carmi latini. ^ Cartwright, 1, p. 144. ^ Mazzuchelli, pp. 33-34. ^
Mazzuchelli, p. 30. ^ Mazzuchelli, p. 34. ^ Pozzi. ^ Loewenstein-Mueller, p.
349. ^ Burke, p. 64. ^ Cartwright, Cartwright, 2, p. 440. ^ Cfr. il saggio di
Cox, pp. 897-918. ^ Cartwright, 2, p. 443. ^ Cartwright Burke, IV di cop. ^ La
prima parte de le Novelle, In Lucca, per il Busdrago, 1554. Bibliografia (FR)
Roland Antonioli (a cura di), Lumieres de la Pleiade, Parigi, J. Vrin Bongiovanni,
Baldassar C., Milano, Edizioni Alpes Bonora, Baldassarre C. e il
"Cortegiano, Storia della Letteratura Italiana, Garzanti IV,
Milano,pag.210-218 Peter Burke, Le fortune del Cortegiano. Baldassarre C. e i
percorsi del Rinascimento europeo, traduzione di Annalisa Merlino, Roma,
Donzelli Cartwright, Baldassare C. the perfect courtier: his life and letters,
London, John Murray Cartwright, Baldassare C. the perfect courtier: his life
and letters London, John Murray Cian, C., Baldassarre, collana Enciclopedia
italiana, vol. 9, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Cox, Tasso's
"Malpiglio overo de la corte: The courtier" Revisited, in The Modern
Language Review, vol. 90, n. 4, Modern Humanities Research Association Ferri,
Il racconto del Cortigiano. Vita e storie di Baldassarre C., Collana Saggi,
Milano, Solferino Ferroni, Dal Classicismo a Guicciardini (1494-1559), collana
Storia della Letteratura Italiana, vol. 6, Milano, Mondadori Finucci, La donna
di corte: discorso istituzionale e realtà ne"Il libro del cortegiano"
di B. C., in Annali d'Italianistica, vol. 7, Arizona SGuglielmino e Hermann
Grosser, Dal Duecento al Cinquecento, collana Il sistema letterario, 1. Storia,
Milano, Principato Pompeo Litta, Famiglie celebri di Italia. Castiglioni di
Milano., Torino Loewenstein e Janel Mueller (a cura di), The Cambridge History
of Early Modern English Literature, Cambridge Marazzini, La lingua italiana:
profilo storico, 3ª ed., Bologna, Il Mulino, Martinati, Notizie
storico-biografiche intorno al conte Baldassare C., Firenze, coi tipi dei
successori Le Monnier Mazzacurati, Baldassar C. e la teoria cortigiana:
ideologia di classe e dottrina Critica, in MLN Mazzuchelli, C. Baldassarre.
Articolo inedito dell'opera intitolata «Gli scrittori d'Italia», a cura di
Enrico Narducci, Estratto da Il Buonarroti, Roma, Tipografia delle scienze
matematiche e fisiche, Motta, La «questione della lingua» nel primo libro del
Cortegiano: dalla seconda alla terza redazione, in Aevum, vol. 72, n. 3,
Milano, Vita e Pensiero, Motta, C. e il mito di Urbino: studi sulla
elaborazione del "Cortegiano", Milano, Vita e Pensiero Mutini, C.,
Baldassarre, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 22, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Quondam, Questo povero cortegiano. C., il libro, la
storia, Bulzoni, Maria Teresa Ricci, La grazia in Baldassar C.: un'arte
senz'arte, in Italianistica: Rivista di letteratura italiana, vol. 32, n. 2,
Accademia Editoriale Russo, Pietro Bembo e la sua fortuna storica, in Belfagor,
Firenze, Leo S. Olschki Russo, Baldassar C., in Belfagor, Firenze, Leo S.
Olschki Scarpati, Dire la verità al Principe, in Aevum, Milano, Vita e Pensiero
Vagni, L'onorata schiera della duchessa Elisabetta. Ipotesi attributive sul
Tirsi di Baldassar C. e Cesare Gonzaga, in Aevum, Milano, Vita e Pensiero, Voci
correlate Carta Castiglioni Ducato di Urbino Marchesato di Mantova Francesco II
Gonzaga Ludovico il Moro Papa Leone X Papa Clemente VII Carlo V d'Asburgo
Guerre d'Italia Il Cortegiano Castiglióne, Baldassarre, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vittorio Cian, C.,
Baldassarre, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1931. Modifica su Wikidata Castiglióne, Baldassarre, su sapere.it, De Agostini.
Ulick Peter Burke, Baldassare C., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc.Baldassarre C., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.
Baldassarre C., su Dictionary of Art Historians, Lee Sorensen. Modifica su
Wikidata Opere di Baldassarre C., su Liber Liber. Modifica su Wikidata Opere di
Baldassarre C. / Baldassarre C. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited.
Opere di Baldassarre C., su Open Library, Internet Archive. Opere di
Baldassarre C., su Progetto Gutenberg. Audiolibri di C., su LibriVox.
Baldassarre C., su Goodreads. Baldassarre C., in Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton Company. Modifica su Wikidata Baldassarre C., in Archivio storico
Ricordi, Ricordi & C. Modifica su Wikidata Uberto Motta, Baldassarre C., su
internetculturale.it. In particolare: Sotto il segno di Elisabetta. Il mito
della duchessa, su internetculturale.it. La produzione poetica. I carmi latini,
su internetculturale.it. Il libro del Cortegiano. La genesi del testo, su
internetculturale.it. Mario Pozzi, La traduzione del Cortegiano e l'aspirazione
spagnola a una cultura degna della nuova condizione imperiale, su
journals.openedition.org. Predecessore Signore di Casatico Successore
Cristoforo C. Camillo C. Predecessore Nunzio apostolico in Spagna Successore
Bernardino Pimentel 1524 - 1529 Girolamo da Schio Portale Biografie
Portale Letteratura Portale Rinascimento Wikimedaglia Questa è una voce
di qualità. Categorie: Umanisti italianiLetterati italianiDiplomatici
italianiItaliani del XVI secoloNati nel 1478Morti nel 1529Nati il 6
dicembreMorti l'8 febbraioNati a Casatico (Marcaria)Morti a ToledoC.Militari
italiani del XVI secoloPoeti ed umanisti alla corte dei Da
MontefeltroDiplomatici al servizio dei GonzagaConiugi dei Torelli Sepolti nel
Santuario della Beata Vergine delle Grazie (Curtatone)[altre]. BALOESSAR
EASTUiLIONE puhulicato per cura BKI. C'ON’I'K CARLO BALDI DI
VB8MK Sraatorv 4«1 n*giio di S«ntrgo^ >•
5 /( 6 ? 552 > -ìj 54(5 ?>
O P E R E V «lei cuDtv BALDKSSAR CASTUiLlONE.
VOI.UMi; l'IUMO. DIgllized by Digitized by
Google F. 6'- COKTROIAAO DEL CONTE KALDHSSAR
(CASTIGLIONE PLBLICATO PEH CUBA l»Kf. C'ON’TK C;AHI.<»
BAUni »l VENUK Senitura del Regno di Serdegnn.
FIUENZE. KKLinK LE MONNIEH. 185 «. Digilized by
Goosle Digilized by Googlf Nel ripublicare, corretta
sopra i migliori testi, la princi- pale fra le opere del Conte Bàldassar
Castiglione, alla quale va più particolarmente debitore dell’alta sua fama come
scrittore, non è nostra intenzione di farla precedere dalla esposizione della
vita e dall’ esame degli altri scritti letterarii e politici dell’Autore; che
l’uno e l’altra aggiungeremo in luogo più opportuno dove ne publicheremo le
Lettere, in parte inedite, e gli altri scritti latini e volgari. Crediamo tut-
tavia non inutile premettere al presente Volume alcuna pa- rola intorno a
questa sua opera, che fu accolta con univer- sale applauso fino dal primo
apparire, e che, unica nel suo genere in Italia, viene meritamente reputata fra
le più leg- giadre scritture che vanti la lìngua nostra. Movevasi il
Castiglione, com’egli stesso riferisce, a scri- vere il Dialogo del Cortegiano
per la grata memoria degli anni passati a’ servigii di Guidubaldo da
Montefeltro duca d’Urbino; ed, introducendo ad interlocutori i principali fra i
personaggi che con lui si trovavano in quella Corte, ne traeva occasione di
encomio ai principi di Urbino, ed a’ suoi com- pagni ed amici erigeva in quest’
opera un monumento non perituro. Nel presente Dialogo tolse il
Castiglione ad imitare Pla- tone, Senofonte, e sopratutto Cicerone, nelle opere
dove cer- carono ritrarre l’ idea della perfetta Republica, del perfetto Re,
del perfetto Oratore, come il Castiglione l’ idea del per- fetto Cortegiano. Se
non che mal si apporrebbe chi, dalle a Digitized by
Google — li- cose dei nostri tempi o di quelli a noi più vicini
estimando gli usi del tempo del Castiglione, e dell’ opera traendo giudìzio dal
solo titolo, credesse raccogliersi in questo libro ridotte ad arte le vanità o
nequizie che troppo spesso infettano le corti. Lo stesso universale consenso,
con che fino dai tempi dell’Au- tore quest’opera fu ricercata e tenuta in sommo
pregio den- tro e fluori d'Italia, dimostra come, sebbene col titolo e con Li
scelta degli interlocutori il Castiglione intendesse a pagare alla corte di
Urbino un tributo di gratitudine e di lode, pure in realtà nel suo Dialogo non
tanto espresse l’idea di un perfetto Cortcgìano, quanto sodisfece ad un più
vero ed uni- versale bisogno. Il Dialogo del Cortegiano del Castiglione di-
fatti nella massima sua parte altro non è, che un trattato di morale e di bel
costume, nel quale con fine giudizio e bello stile si espone, secondo i
consigli della ragione e della espe- rienza, di quali doti da natura e
dall’arte debba essere for- nito chi voglia procacciarsi la stima e l’ affetto
delle persone che lo circondano ; soltanto in una parte del IV Libro trat-
tandosi dei doveri del Cortegiano come tale, ed insieme di quelli del
principe. Il libro incomincia con un elogio di Federico da Monte- feltro e
del suo figliolo Guidubaldo duchi di Urbino, e di va- ni fra gli uomini insigni
che praticavano in quella corte. Finge poscia l’Autore proposto da Federico
Fregoso e scelto ad ar- gomento di conversazione, il formare con parole un
perfetto Cortegiano ; onde si dimostrasse , ■ che in tutta Italia forse con
fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri così singolari, ed, oltre alla
principal profession della cavalleria, così eccellenti in diverse cose, » come
allora si trovavano alla corte di Ur- bino. Il Conte Ludovico da Canossa, al
quale ne fu dato l’in- carico , descrive le qualità di corpo , d’ animo e di
fortuna , che 0 per sè stesse, o nella opinione altrui, valgono ad ag- giunger
pregio, 0 siano esse dono di natura, od opera dello studio e dell’arte, come scienza
di lettere, cognizione di va- Digitized by Coogle lU
— rie lingue, di musica, di disegno, di pittura. Nel primo libro
inoltre v’ ha una lunga ed importante digressione, nella quale il Castiglione
esprime le sue opinioni intorno al modo di par- lare e di scrivere la nostra
lingua. Avendo cioè il Canossa dichiarato, doversi in ogni cosa con sommo
studio fi^gire rafTettaùone, e perciò anche nello scrivere e nel parlare:
Ludovico da Canossa condanna l’ uso di parole e di modi an- tiquati e caduti in
desuetudine; laddove Federico Fregoso vuole siadoprino, eccede aggiungano
spesso grazia e gravità al discorso. Colla stessa occasione l’ Autore espone la
sua dottrina intorno alla ortografia: nel che, come noteremo più sotto, dà
senza dubio in grave eccesso, svestendo la lingua italiana del proprio
carattere, troppo concedendo alla etimo- logia e ritraendo la nostra lingua
alia forma latina. Federico Fregoso, quegli stesso che aveva proposto il
gioco o ragionamento del Cortegiano, fu incaricato di prose- guirlo la seguente
sera, e nominatamente di esporre, quando e come si abbia a far uso delle buone
qualità descritte dal Conte Ludovico. Essendo quindi caduta menzione delle face
zie, Bernardo Bibiena ne discorre ampiamente, portandone molti esempii. Tutto
questo lungo tratto, nel quale, ma non servilmente, è seguito Cicerone nel
secondo Libro De Orato- re, è uno dei più ameni del Dial(^o, e quasi un riposo
fra i gravi ragionamenti delle qualità richieste nel Cortegiano. Tolta
occasione da alcuna parola che pone in bocca a Gasparo Pallavicino contro le
femine, nel terzo Libro, sotto la persona di Giuliano de’Medici il Magnifico,
l’Autore espone di quali doti debba essere ornata una perfetta Donna di
Palazzo; passa indi agli elogi delle donne, e adduce esempii di molte che
furono insigni per ogni genere di virtù; tratta del modo con che debbano
comportarsi con chi loro parli di amore; ed infine, tornando Gaspar Pallaviciuo
a dir mal delle donne, l’Autore, per bocca di Ottaviano Fregoso, conchiude, la
verità essere nel mezzo, fra i troppi biasimi del signor Ga-
*r BC H i y C oogte IV — \
sparo, e le troppe laudi che da altri erano loro state prodi- gate.
La prima parte del quarto Libro riguarda più diretta- mente i doveri del
Cortegiano, officio e fine del quale è gui- dare al bene il suo principe. Di
qui si toglie occasione di par- lare delle varie forme di reggimento degli
stati, nonché dei doveri dei principi, e come abbiano a procurare la felicità
dei loro popoli. Passa infine a trattare per bocca di Pietro Bembo delle cose
di Amore , seguendo le dottrine dei Platonici ; in tutto il qual tratto il
Castiglione è mirabile di eloquenza quanto forse non in altra fra le più belle
parli dell’ opera : e COSI compionsi i discorsi delia quarta sera, e il Dialogo
del Cortegiano. Il Castiglione scrisse questo Dialogo nel 1514, e compi-
tolo in breve tempo, a più riprese diede poi opera in limarlo ed accrescerlo.
Nel 1518 essendo stimolato dagli amici a darlo in luce, lo mandò a Giacomo
Sadoleto e a Pietro Bembo, richiedendoli di consiglio. Lo communicò anche a
Vittoria Co- lonna marchesa di Pescara : il che fu poscia occasione della pu-
blicazione dell’opera ; poiché avendone Vittoria Colonna, con- tro la fede
data, fatto trascrivere gran parte, onde se ne spar- sero copie : il
Castiglione, sebbene allora distratto in altre cose, ed inoltre avesse in mente
di aggiungere al libro parecchie cose, che già aveva ordinate nell’ animo,
pensò non dover più oltre differire a publicarlo, affinchè intanto non venisse
in luce mutilo e corrotto per mano d’altri. Due lettere del no- stro Autore,
recentemente publicate dal Conte Valdrighi, for- niscono curiose ed importanti
notizie intorno alla prima edi- zione del Cortegiano, che il Castiglione,
allora Nunzio in Ispagna, fece eseguire in Venezia presso Aldo, in foglio,
l’anno 1528: bella e nitida edizione, ma macchiata di non pochi e talor gravi
errori. Poco sopravisse il Castiglione alla publicazione del suo
Cortegiano, che intanto era stato l’anno stesso ristampato in Digitized
by Googfe V Firenze dagli eredi di Filippo Giunta,
edizione che fu in breve seguita da altre parecchie. Nel 1533 gli eredi
d’Aldo 10 ristampavano in minore formalo, dicendo essere più cor- retto
del primo, secondo l'esemplare iscritto di mano propria d'esso Autore; ma fatto
sta che nulla vi è mutato, e soltanto corretti i manifesti errori di
impressione. Non così la terza Aldina, fatta da Giovanni Padovano, ma ad
istanza e spesa di Riesser Federico Torresano d’Asola (1538); poiché in
questa 11 testo in più luoghi è mutato in modo, da non potersi attri-
buire fuorché ad una più diligente collazione del manoscritto. Tracce ancor più
evidenti di un nuovo esame del manoscritto si trovano nella quarta Aldina
(1541), sebbene abbia pure non pochi proprii errori. L'ultima Aldina (1547) non
é che una materiale ristampa della terza; come la quinta, in fo- glio (1545), é
a un di presso una ripetizione dell'edizione originale del 1528.
Numerosissime sono le ristampe di quest’ opera nel se- colo decimosesto,
contandosene presso a quaranta oltre le Aldine, e oltre le traduzioni che tosto
se ne fecero in quasi tutte le lingue di Europa; e ben può dirsi, che fra le
opere in prosa che illustrarono la letteratura italiana nel secolo di Leone X,
non altra fu accolta con più universale favore. — Le anzidetto edizioni, fino a
quelle del Dolce del 1 556 e del 1559, sono una materiale ristampa di alcuna
delle Aldine. Il Dolce poi asserisce bensì avere emendato il testo secondo l'
esemplare del proprio Autore ; ma é evidente ch’ei non ebbe sott’ occhio il
manoscritto originale, né appare ben certo se abbia raffron- tato almeno
l'edizione Aldina del 1528; le mutazioni nel te- sto che s’incontrano nelle
edizioni del Dolce scorgonsi fatte ad arbitrio, sebbene alcune colgano nel
segno. 11 testo del Dolce fu seguito in tutte le altre edizioni di quel secolo,
com- presa quella del Ciccarelli (1584), che diede il Cortegiano espurgato, e
fu più volte ripetuta gli anni seguenti. Se non che appunto pei vincoli
frapposti alla libera publicazione di Dioilìzed hv .Qjpgtf
— VI — quest' opera, più non ne fu publicata in Italia che
una sola edizione intera nei secoli decimosettimo e decimottavo, e sole tre
secondo la correzione del Ciccarelli; fra le quali tuttavia è degna di memoria
quella dei fratelli Volpi (1755), che, oltre all’ avere restituito alcuni più
innocenti fra i passi tolti dal Ciccarelli, corresse accuratamente il testo con
un diligente confronto dell’edizione originale del 1528; e su questa edi-
zione, ma coir aggiunta dei passi omessi dal Volpi, è fatta l’edizione di
Vicenza, come pure, quantunque assai negli- gentemente, quella di Milano detta
dei Classici, dalla quale derivano tutte le edizioni posteriori! In
difetto del manoscritto originale, il quale sembra es- sere passato in Francia,
e, venuto in potere del Professore Guglielmo Libri, trovarsi ora colla maggior
parte della ricca sua biblioteca in Inghilterra : ' abbiamo creduto dover
seguire esclusivamente le edizioni Aldine, tratte dall’ esemplare spe- dito di
Spagna per la stampa dall’Autore. A fondamento del- r edizione abbiamo posto
quella del 1528, la quale, non te- nuto conto degli evidenti errori
tipografici, pel testo e per r ortografìa appare avvicinarsi più che alcun’
altra all’ originale dell’Autore ; nè mai da questa ci siamo dipartiti senza
avver- tirne in nota il lettore : sebbene siansi tenute ad accurato con- fronto
anche le seguenti Aldine, delle quali abbiamo portato in nota le principali
varianti. Restano tuttavia alcuni luoghi, dove la lezione di tutte le Aldine è
evidentemente falsa; e quivi, avvertendone il lettore, abbiamo ricevuto le
emenda- zioni del Dolce o dei Volpi, e rare volte alcuna nostra con- gettura.
In fìne dell' opera riproduciamo alcuni passi del Cor- tegiano diversi da quelli
che si trovano nelle edizioni, i quali furono per la prima volta publicati
dall’Abbate Pierantonio Se- rassi, tratti dalla prima bozza del Gortegiano, che
si conser- vava e sembra conservarsi tuttora presso gli eredi del Casti-
glione. Nè vi ha dubio, che il confronto di quella bozza * Revue des
Deux-Mondes, 18S2, cahier de mai, page 325. — VII —
sarebbe di grande utilità in correggere molti luoghi dubii od errati
delle edizioni. Non lieve difficoltà ci si presentava nella scelta della
or- tografia, in che si avessero a publicare le opere del nostro Autore. La
maggior parte degli scrittori di quella età posero alla ortografìa poca cura,
scrìvendo spesso le stesse parole con diversa forma, ora strettamente
attenendosi all'etimolo- gia, ora seguendo la pronunzia volgare. Non così il
Casti- glione, il quale, non nella tessitura dei periodi, ma nella scrittura
dei vocaboli, reputa doversi conservare e conserva difatti la forma latina in
modo , che le sue opere a’ nostri giorni riescirebbero di pressoché impossibile
lettura. Noi pure opiniamo, e l’abbiamo altrove* dichiarato, doversi nella
scrittura delle voci italiane seguire piuttosto l' etimologìa, che non
l’incerta ed incostante pronunzia del volgo. Ma questa regola non deve
estendersi tant’ oltre, che più che l’ ortogra- fia si muti la forma stessa dei
vocaboli, ovvero si ammettano modi repugnanti all’ indole della nostra lingua,
figliola bensì della latina, ma avente regole, carattere, scrittura propria.
Chitolererebbe, che per popolo scrivessimo populo, come vuole il Castiglione,
edHercule, ed excepto, e così via? Ritenemmo adunque bensì costantemente la
forma di vocaboli adottata dall’Autore ; ma quanto all’ ortografìa non la
seguimmo se non in parte, onde non allontanarci di troppo dalla scrittura che
l’Autore professa voler seguire, nè tuttavia rendere il libro illegibile.
Abbiamo conservato le più importanti fra le annotazioni dei precedenti editori,
ed aggiuntone alcune nostre; alle an- notazioni abbiamo premesso brevi cenni
biografici sui perso- naggi introdotti dal Castiglione ad interlocutori nel
Dialogo. 11 testo fu con somma diligenza e a più riprese confrontato e *
Dialogo di Santo Gregorio : Volgariaamento di Fra Domenico Cavalca. Testo di
lingua ridotto alla vera letione da Carlo Baudi di Vesme. Torino, Stamperia
Reale, ISSI: nella prefazione, a pag. xii. vili
corretto sulle edizioni Aldine. Insomma non fu da noi omessa cura 0
fatica, affinchè questa nostra riesca ottima fra le edi- zioni del Cortegiano ;
e simile diligenza porremo intorno agli altri scritti del Conte Baldassar
Castiglione, che daremo fra breve, accresciuti di un gran numero di lettere
inedite, non meno importanti per argomento, che notevoli per purezza di lingua,
e per chiarezza, semplicità e nobiltà di dettato. Carlo
Vesme 1 gennaio 18S4. .1 i.
Al rsTeieado ed illastie signor DON MICHEL DE SILVA VESCOVO
DI VISEO. Quando il signor Goid’Ubaldo di Montefellro, duca d’
Urbino, passò di questa vita, io, insieme con alcun’aitri cavalieri che
l’aveano servito , restai alli servizi! del duca Francesco Maria dalla Rovere ,
erede e successor di quello nel stalo; e come nell’animo mio era re* cenle l’
odor delle virtù del duca Guido , e la satisfazione che in quegli anni aveva
sentilo dell’amorevole compagnia di cosi eccellenti per* sone, come allora si
ritrovarono nella corte d’ Urbino, fui stimolato da quella memoria a scrivere
questi Libri del Cortegiano: il che io feci in pochi giorni, con intenzione di
castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo
debito erano nati. Ha la fortuna già moli’ anni m’ ha sempre tenuto oppresso in
così continui travagli, che io non ho mai potuto pigliar spazio di ri- durgli a
termine, che il mio debii giudicio ne restasse contento. Ri* trovandomi adunque
in Ispagna, ed essendo d’Italia avvisato, chela signora Vittoria dalla Colonna,
marchesa di Pescara, alla quale io già feci copia del libro, contra la promessa
sua ne avea fatto trascrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche
fastidio, dubitan- domi di molti inconvenienti, che in simili casi possono
occorrere; nientedimeno mi confìdai che l’ ingegno e prudenza di quella Signora
(la virtù della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina )
bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall’aver obedito a’
suoi comandamenti. In ultimo seppi, che quella parte del libro si ritrovava in
Napoli in mano di molli; e, come sono gli uomini sempre cupidi di novità ,
parea che quelli tali ten- tassero di farla imprimere. Ond’io, spaventalo da
questo pericolo, determinaimi di riveder subito nel libro quel poco che mi
compor- tava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male
lasciarlo veder poco castigato per mia mano, che mollo lacerato per man
d’altri. Cosi, per eseguire questa deliberazione, cominciai a ri- leggerlo; e
subito nella prima fronte, ammonito dal titolo, presi non mediocre tristezza,
la qual ancora nel passar più avanti mollo si accrebbe, ricordandomi, la
maggior parte di coloro che sono intro- dotti nei ragionamenti, esser già
morti: che, oltre a quelli de chi si 1 Digitized by
DEDICA dell’ autore. 2 fa menzione nel proemio dell’
ultimo, morto è il medesimo mcsscr Aifonso Ariosto, a cui il libro è’indrizzato;
giovane affabile, discre- to, pieno di soavissimi costumi, ed atto ad ogni cosa
conveniente ad uomo di corte. Medesimamente il duca Julìano de’ Medici, la cui
bontà e nobii cortesia meritava più lungamente dal mondo esser goduta. Messcr
Bernardo, Cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e
piacevole prontezza d’ ingegno fu gratissimo a qua- lunque lo conobbe, pur è
morto. Morto è il signor Ottavian Fre- goso, uomo a’ nostri tempi rarissimo;
magnanimo, religioso, pien di bontà, d’ ingegno , prudenza e cortesia, e
veramente amico d’onore e di virtù, e tanto degno di laude, che li medesimi
inimici suoi fu- rono sempre costretti a laudarlo; e quelle di^razie che esso
co- stantissimamente sopportò, ben furono bastanti a far fede che la fortuna,
come sempre fu, cosi è ancor oggidì contraria alla virtù. Morti sono ancor
molti altri dei nominati nel libro, ai quali parca che la natura promettesse
lunghissima vita. Ha quello che senza lacrime raccontar non si devria, è die la
signora Duchessa essa an- cor è morta; e se l’animo mìo si turba per la perdita
di tanti amici e signori miei, che m’hanno lasciato in questa vita come in una
solitudine piena d’ affanni , ragion è che molto più acerbamente senta il
dolore della morte della signora Duchessa, che di tutti gli altri, perchè essa
molto più che tutti gli altri valeva, ed io ad essa molto più che a tutti gli
altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello che io debbo alla
memoria di cosi eccellente signora, e degli altri che più non vivono, indotto
ancora dal perìcolo del libro, bollo fatto imprimere e pubiicare tale qual
dalla brevità del tempo m’ è stato conceaso. E perchè voi nè della signora
Duchessa nè degli altri che son morti, fuorehe del duca Juliano e del. Cardinal
(K 9aoU Maria in Portico, aveste notizia in vita loro, acciò che, per quanto io
posso, t'abbiate dopo la morte, mandovi questo libro, come un ritratto di
rittura della corte d’ Urbino, non di mano di Rafaello o Michel Angelo, ma di
pittor ignobile, e che solamenie sappia tirare le linee principali, senza
adornar la verità di vaghi co- leri, 0 far parer per arte di prospettiva quello
che non è. E come di’ io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le
proprietà e condizioni di quell! che vi sono nominati , confesso non avere non
che espresso ma nè anco accennato le virtù della signora Dudiessa; perchè non
solo il mio stile non è sufficiente ad esprimerle, ma pur l’intelletto ad
imaginarle: e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so
che nel libro molle non mancano) sarò ripreso, non contradìrò alla
verità. Ma perchè talor gli uomini tanto si dilettano di riprendere,
die DEDICA DELL ADTOBE. O riprendono ancor
quello che non merita riprensione , ad alcuni cbe mi biasimano pcrch’ io non ho
imitato il Boccaccio, nò mi sono obli- gato alla consuetudine del parlar
toscano d’ oggidì , non restarò di dire , cbe ancor che ’l Boccaccio fosse di
gentil ingegno , secondo quei tempi, e che in alcuna parte scrivesse con
discrezione ed in- dustria, nientedimeno assai meglio scrisse quando si lasciò
guidar solamente dall’ingegno ed instinto suo naturale, senz’altro studio 0
cura di limare i scrìtti suoi, che quando con diligenza e fatica si sforzò d’
esser più culto e castigato. Perciò li medesimi suoi fautori affermano, cbe
esso nelle cose sue proprie molto s’ ingannò di giu- dicio, tenendo in poco
quelle cbe gli hanno fatto onore, ed in molto quelle che nulla vagliono. Se
adunque io avessi imitato quella ma- niera di scrivere cbe in lui è ripresa da
chi nel resto lo lauda, non poteva fuggire elmen quelle medesime calunnie che
al proprio Boc- caccio son date circa questo; ed io tanto maggiori le meritava,
quanto cbe l’error suo allor fu credendo di far bene, ed or ii mìo sarebbe
stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel modo cbe da molti è
tenuto per buono , e da esso fu men apprez- zalo, parevamì con tal imitazione
far testimonio d’ esser discorde di giudicio da colui che io imitava : la qual
cosa , secondo me, era in- conveniente. E quando ancora questo rispetto non
m’avesse mosso, io non poteva nel sobietto imitarlo, non avendo esso mai
scritto cosa alcuna di maniera simile a questi Libri del CoaTECi&NO : e
nella lin- gua , al parer mio , non doveva ; perchè la f<»za e vera regola
del parlar bene consiste più nell’ uso che in altro, e sempre è vìzio usar
parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente, ch’io usassi
molte di quelle del Boccaccio, le quali a’ suoi tempi s’ usavano, ed or sono
disusate dalli medesimi Toscani. Non ho an- cor voluto obligarmi alla consuetudine
del parlar toscano d’ oggidì; perchè il commercio tra diverse nazioni ha sempre
avuto forza di trasportare dall’una all’altra, quasi come le mercanzie, così
ancor nuovi vocaboli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla
consuetudine ammessi o reprobati ; e questo, oltre il testimonio de- gli
antichi, vedesi chiaramente nel Boccaccio, nel qual son tante pa- role
franzesi, spagnole e provenzali , ed alcune forse non ben intese dai Toscani
moderni; cbe chi tutte quelle levasse, farebbe il libro mollo minore. E perchè,
ai parer mio, la consuetudine del parlare dell’ altre cittò nobili d’Italia,
dove concorrono uomini sa vii, inge- gnosi ed eloquenti, e cbe trattano cose
grandi di governo dei stali , di lettere, d’arme e negozii diversi, non deve essere
del tutto sprez- zata; dei vocaboli cbe in questi loclii parlando s’usano,
estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli cbe hanno in sè
grazia. Digiiized by Google DEDICA dell’autore.
4 ed eleganm nella pronunzia, e son tenuti communemente per buoni e
significativi , benché non siano toscani, ed ancor abbiano origine di fuor
d’Italia. Oltre a questo, usansi in Toscana molli vocaboli chiaramente corrotti
dal latino, li quali nella Lombardia e nell’ altre parti d’ Italia son rimasti integri
e senza mutazione alcuna , e tanto universalmente s’ usano per ognuno, che
dalli nobili sono ammessi per buoni , e dal volgo intesi senza difficoltà.
Perciò, non penso aver commesso errore, se io scrivendo ho usato alcuni di
questi , e piut- tosto pigliato l’integro e sincero della patria mia, che’l
corrotto e guasto della aliena. Nè mi par buona regola quella che dicon molti ,
che la lingua volgar tanto è più bella , quanto è men simile alla la- tina; nè
comprendo perchè ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore
autorità che all’ altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocaboli
latini corrotti e manchi , e dar loro tanta grazia che, cosi mutilati, ognun
possa usarli per buoni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra
non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii, e non
mutati in parte alcuna , tanto che siano tolerabili. E veramente, si come il
voler formar voca- boli nuovi o mantenere gli antichi in dispetto della
consuetudine, dir si può temeraria presunzione : cosi il voler centra la forza
della medesima consuetudine distruggere e quasi sepelir vivi quelli che durano
già molti secoli, e col scodo della usanza si son difesi dalla invidia del
tempo, ed ban conservato la dignità e ’l splendor loro, quando per le guerre e
ruine d’ Italia si son fatte le mutazioni della lingua, degli edifizii, degli
abiti e costumi ; oltra che sia difficile, par quasi una iropielà. Perciò, se
io non ho voluto scrivendo osare le parole del Boccaccio che più non s’ usano
in Toscana, nè sottopormi alla legge di coloro che stimano che non sia licito
usar quelle che non usano li Toscani d’oggidl, parmi meritare escnsazione.
Penso adun- que, e nella materia del libro e nella lingua, per quanto una
lingua può ajotar l’altra, aver imitato autori tanto degni di laude quanto è il
Boccaccio; nè credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto di farmi
piuttosto conoscere per Lombardo parlando lom- ' bardo, che per non Toscano
parlando troppo toscano : per non fare come Teofrasto, il qual , per parlare
troppo ateniese, fu da una sem- plice vecchiarella conosciuto per non Ateniese.
Ma perchè circa questo nel primo Libro si parla a bastanza, non dirò altro, se
non che, per rimover ogni contenzione, io confesso ai miei riprensori, non
sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita ; e dico aver
scritto nella mia, e come io parlo, ed a coloro che par- lano come pari’ io : e
cosi penso non avere fatto ingiuria ad alcuno ; chè, secondo me, non è proibito
a chi si sia scrivere e parlare nella Digitized by CoogL
DEDICA dell’autore. 5 sua propria lingua ; nè
meno alcuno è astretto a leggere o ascol- tare quello che non gli aggrada.
Perciò, se essi non vorran leggere il mio CoRTEGiANO, non mi tonerò io punto da
loro ingiuriato. Altri dicono, che essendo tanto difllcile e quasi
impossibile tro- var un uomo così perfetto come io voglio che sìa il Cortegìano
, è stato superfluo il scriverlo , perchè vana cosa è insegnar quello che
imparar non si può. A questi rispondo, che mi contenterò aver er- rato con
Platone, Senofonte e Marco Tullio, lasciando il disputare del mondo
intelligibile e delle Idee; tra le quali, si come (secondo quella opinione) è
la Idea della perfetta Republica, e del perfetto Re, e del perfetto Oratore ,
cosi è ancora quella del perfetto Corte- giano: alla imagìne della quale s’io
non ho potuto approssimarmi col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani
d’approssimarsi con r opere al termine e méta , eh’ io collo scrivere ho loro
pro- posto ; e se, con tutto questo, non potran conseguir quella perfezion ,
qual che ella si sia , eh’ io mi sono sforzato d’esprimere , colui che più se
le avvicinerà sarà il più perfetto ; come di molti arcieri che tirano ad un
bersaglio, quando ninno è che dia nella brocca, quello che più se le accosta
senza dubio è miglior degli altri. Alcuni an- cor dicono, eh’ io ho creduto
formar me stesso, persuadendomi che le condizioni eh’ io al Cortegìano
attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già negar, di non aver
tentato tutto quello eh’ lo vorrei che sapesse il Cortegiano ; e penso che chi
non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano , per
eru- dito che fosse stato, mal averebbe potuto scriverle : ma io non son tanto
privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che
so desiderare. La difesa adunque di queste accusazioni, e forse di molt’
altre, rimetto io per ora al parere della commune opinione; perchè il più delle
volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per
instinto di natura un certo odore del bene e del male, e, senza saperne rendere
altra ragione, l’uno gusta ed ama, e l’altro rifluta ed odia. Perciò, se
universalmente il libro piacerà, terròllo per buono, e penserò che debba vivere
; se ancor non pia- cerà , terròllo per malo, e tosto crederò che se n’ abbia
da perder la memoria. E se por i miei accusatori di questo commun giudicio non
restano satisfatti, conténtinsi almeno di quello del tempo; il quale d’ ogni
cosa al fin scopre gli occulti difetti, e, per esser padre della verità e
giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scritture
giusta sentenza. Baloesar Castiglione. r ■ by
Lioosle Digitized by Google IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO
DEL COXTE BÀLOESÀB CiETIGUONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO.
I. Fra me stesso lungamente ho dubitato, messer Alfonso carissimo, qual
di due cose più diibcil mi fosse; o il negarvi quel che con tanta instanza più
volle m’ avete richiesto, o il farlo : perchè da un canto mi parea durissimo
negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona eh’ io amo som- mamente,
e da cui sommamente mi sento esser amato; dal- r altro ancor, pigliar impresa,
la qual io non conoscessi po- ter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi
estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si debbano. In ullimo, dopo
molti pensieri, ho deliberato esperimentare iu questo, quanto ajuto porger
possa alla diligenza mia quella aITczione c desi- derio intenso di compiacere,
che nelle altre cose tanto suole accrescere la industria degli uomini.
Voi adunque mi richiedete ch’io scriva, qual sia al pa- rer mio la forma di
Cortegiania più conveniente a gentiluo- mo che viva in corte de’ principi, per
la quale egli possa e sappia perfettamente loro servir in ogni cosa
ragionevole, acquistandone da essi grazia, e dagli altri laude; in somma, di
che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto
che cosa alcuna non gli manchi. Onde io, considerando tal richiesta, dico, che
se a me stesso non pa- resse maggior biasimo l’ esser da voi reputato poco
amore- vole, che da tutti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica,
per dubio di non esser tenuto temerario da tutti quelli che conoscono, come
difficil cosa sia, tra tante varietà di co- Digitized by
Googk 8 IL CORTEGIANO. Sturai che s’usano
nelle corti di Cristianità, eleggere la piu perfetta forma, e quasi il fior di
questa Cortegiania ; perchè la consuetudine fa a noi spesso le medesime cose
piacere e dispiacere: onde talor procede, che i costumi, gli abiti, iriti, e i
modi, che un tempo son stati in pregio, divengon vili, e per contrario i vili
divengon pregiali. Però si vede chiara- mente, che r uso più che la ragione ha
forza d’introdur cose nuove tra noi, e cancellar l’ antiche; delle quali chi
cerca giudicar la perfezione, spesso s’inganna. Per il che, cono- scendo io
questa e molte altre difficoltà nella materia propo- stami a scrivere, son
sforzato a fare un poco di escusazione, e render testimonio che questo errore
(se pur si può dir er- rore) a me è commune con voi, acciò che se biasimo avve-
nire me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perchè non minor colpa si dee
estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze diseguale, che a me averlo
accettalo. Yegniamo adunque ormai a dar principio a quello che è nostro
presupposto, e, se possibii è, formiamo un Cortegian tale, che quel principe
che sarà degno d’ esser da lui servito, ancor che poco stato avesse, si possa
però chiamar grandis- simo signore. Noi in questi Libri non seguiremo un certo
or- dine o regola di precetti distinti, che ’l più delle volle nel- r insegnare
qualsivoglia cosa usar si Suole ; ma , alla foggia di molti antichi, rinovando
una grata memoria, recilaremo alcuni ragionamenti, i quali già passarono tra
nomini singo- larissimi a tale proposito : e benché io non v’ intervenissi
presenzialmente, per ritrovarmi, allor che furon delti, in In- ghilterra,
avendogli poco apresso il mio ritorno intesi da •persona che fedelmente me gli
narrò, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli,
acciò che noto vi sia quello che abbiano giudicato e creduto di questa materia
uomini degni di somma laude, ed al cui giudizio in ogni cosa prestar si potea
indubitata fede. Né fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al
fine dove tendo il parlar nostro, narrar la causa dei successi
ragionamenti. II. Alle pendici dell’ Appennino, quasi al mezzo della
Italia verso il mare Adriatico, è posta, come ognun sa, la piccola città d’
Urbino; la quale, benché tra monti sia, e non LIBRO PRIMO.
9 cosi ameni come forse alcun* altri che vergiamo in molti
lo- chi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intorno il paese è
fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrità dell* aere, si
trova abondantissima d* ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano. Ma tra
le maggior felicità che se le possono attribuire, questa credo sia la
principale, che da gran tempo in qua sempre è stala dominata da ot- timi
signori; avvenga che, nelle calamità universali delle guerre della Italia, essa
ancor per un tempo ne sia restata priva. Ma non ricercando più lontano,
possiamo di questo far buon testimonio con la gloriosa memoria del duca Fede-
rico, il quale a’ di suoi fu lume della Italia ; nè mancano veri ed amplissimi
testimoni!, che ancor vivono, della sua prudenza, della umanità, della
giustizia, della liberalità, del- 1* animo invitto e della disciplina militare
: della quale pre- cipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni
de* lochi inespugnabili, la subita prestezza nelle espedizioni, l’ aver molte
volte con pochissime genti fugato numerosi c validissimi eserciti, né mai esser
stato perditore in battaglia alcuna ; di modo che possiamo non senza ragione a
molli famosi antichi aguagliarlo. Questo, tra l’ altre cose sue lode- voli,
nell’ aspero sito d’ Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molli il
più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d* ogni oportuna cosa si ben lo
forni, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva; e non
sola- mente di quello che ordinariamente si osa, come vasi d’ ar- gento,
apparamenti di camere di ricchissimi drappi d’oro, di seta e d* altre cose
simili, ma per ornamento v* aggiunse una infinità di statue antiche di marmo c
di bronzo, pitture singolarissime, instmmenli musici d’ogni sorte; nè quivi
cosa alcuna volse, se non rarissima ed eccellente. Appresso, con grandissima
spesa adunò un gran numero di eccellen- tissimi e rarissimi libri greci, latini
ed ebraici, quali tutti ornò d* oro e d* argento, estimando che questa fosse la
su- prema eccellenza del suo magno palazzo. III. Costui adunque, seguendo
il corso della natura, già di sessantacinque anni, come era visse, cosi gloriosamente
mori ; ed un figliolino di diece anni, che solo maschio avc-
Digitized by Coogle 10 IL CORTEGIANO.
va, e senza madre, lasciò signore dopo sè; il qual fu Guid’ Ubaldo.
Questo, come dello stalo, cosi parve che di tutte le virtù paterne fosse erede,
e subito con maravigliosa indole cominciò a promettere tanto di sè, quanto non
parca che fosse licito sperare da uno nom mortale; di modo che estimavano gli
uomini, delli egregii fatti del duca Federico iiiuno esser maggiore, che
l’avere generato un tal figliolo. Ma la fortuna, invidiosa di tanta virtù, con
ogni sua forza s’ oppose a cosi glorioso principio ; talmente che, non es-
sendo ancor il duca Guido giunto alti venti anni, s’ infermò di podagre, le
quali con atrocissimi dolori procedendo, in |M>co spazio di tempo talmente
tutti i membri gl’ impediro- no, che nè stare in piedi nè mover si potea; e
cosi restò un dei più belli e disposti corpi del mondo deformato e guasto nella
sua verde età. £ non contenta ancor di questo la foi^ tuna, in ogni suo disegno
tanto gli fu contraria, ch’egli rare volte trasse ad etTetto cosa che
desiderasse ; e benché in esso fosse il consiglio sapientissimo e l’animo
invittissimo, parea che ciò che incominciava, e nell’ arme e in ogni altra cosa
o picciola o grande, sempre male gli succedesse: e di ciò fanno testimonio
molte e diverse sue calamità, le quali esso con tanto vigor d’animo sempre
telerò, che mai la virtù dalia fortuna non fu superala; anzi, sprezzando con
l’animo valoroso le procelle di quella, e nella infermità co- me sano e nelle
avversità come fortunatissimo, vivea con somma dignità ed estimazione appresso
ognuno ; di modo che, avvenga che cosi fosse del cor|)0 infermo, militò con
onorevolissime condizioni a servizio dei serenissimi re di Napoli Alfonso e
Ferrando minore; appresso con papa Ales- sandro VI, coi signori V’eneziani, e
Fiorentini. Essendo poi asceso al pontifìcalo Julio li, fu fatto capitan della
Chiesa ; nel qual tempo, seguendo il suo consueto stile, sopra ogni altra cosa
procurava che la casa sua fosse di nobilissimi e valorosi gentiluomini piena,
coi quali mollo familiarmente viveva, godendosi della conversazione di quelli:
nella qual cosa non era minor il piacer che esso ad altrui dava, che quello che
d’altrui riceveva, per esser dottissimo nell’ una e nell’altra lingua, ed aver
insieme con la affabilità e piacevo- LIBRO PRIMO.
11 iezza congiunta ancor la cognizione d’inrinile cose: ed, olire a
ciò, tanto la grandezza dell’animo suo lo stimolava, che, ancor che esso non
potesse con la persona esercitar l’ opere della cavalleria come avea già fatto,
pur si pigliava grandis- simo piacer di vederle in altrui ; e con le parole, or
correg- gendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava
quanto giudicio circa quelle avesse ; onde nelle giostre, nei tornìamenti, nel
cavalcare, nel maneggiare tulle le sorti d’arme, medesimamente nelle feste, nei
giochi, nelle musiche, in somma in tutti gli esercizi! convenienti a nobili
cavalieri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicalo
degno di cosi nobile commercio. IV. Erano adunque tutte l’ore del giorno
divise in ono- revoli e piacevoli esercizii cosi del corpo come dell’ animo ;
ma perchè il signor Duca continuamente, per la infirmilà, dopo cena a'ssai per
tempo se n’ andava a dormire, ognuno per ordinario dove era la signora duchessa
Elisabetta Gon- zaga a quell’ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la
signora Emilia Pia, la qual per esser dolala di cosi vivo ingegno e giudicio,
come sapete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e
valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l’ oneste facezie s’ udivano, e
nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarità, talmente che
quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria: né mai credo
che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara
compagnia deriva, come quivi si fece un tempo ; chè, lasciando quanto onore
fosse a ciascun di noi servir a tal'signore come quello che già di sopra ho
detto, a tutti nascea nell’ animo una somma contentezza ogni volta che al
cospetto della signora Duchessa ci riducevamo ; e parca che questa fosse una
catena che lutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concor- dia di
volontà 0 amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra lutti
era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed
onestissimo commercio; che a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e
ridere con chi gli parca : ma tanta era la reverenza che si portava al voler
della signora Duchessa, che la medesima libertà era Digilized by
Google 12 IL CORTEGIANO. grandissimo freno
; nè era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver
potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa,
quivi onestissimi costumi erano con grandissima libertà congiunti, ed erano i
giochi e i risi al suo cospetto conditi, oltre agii argutissimi sali, d’una
graziosa e grave maestà; chè quella modestia e grandezza che tutti gli atti e
le parole e i gesti componeva della signora Duchessa, motteggiando e ridendo,
facea che ancor da chi mai più veduta non l’avesse, fosse per grandissima
signora conosciuta. E cosi nei circostanti imprimendosi, parea che tutti alla
qualità e forma di lei temperasse; onde ciascuno questo stile imitare si
sforzava, pigliando quasi una norma di bei costumi dalla presenza d’ una tanta
e cosi virtuosa signora : le ottime condizioni della quale io per ora non
intendo narrare, non essendo mio proposito, e per esser assai note al mondo, e
molto più ch’io non potrei nè con lingua nè con penna esprimere; e quelle che
forse sariano siale alquanto nascoste, la fortuna, come ammiratrice di cosi
rare virtù, ha voluto con molte avver- sità e stimoli di disgrazie scoprire,
per far testimonio che nel tenero petto d’ una donna in compagnia di singoiar
bel- lezza possono stare la prudenza e la fortezza d’animo, e tulle quelle
virtù che ancor ne’ severi uomini sono rarissime. V. Ma lasciando questo,
dico, che consuetudine di tutti i gentiluomini della casa era ridursi subito
dopo cena alia signora Duchessa ; dove, tra l’ altre piacevoli feste e musi-
che e danze che continuamente si usavano, talor si propo- neano belle
questioni, talor si faceano alcuni giochi inge- gnosi ad arbitrio or d’uno or
d’un altro, nei quali sotto varii velami spesso scoprivano i circonslanli
allegoricamente i pensier sui a chi più loro piaceva. Qualche volta nasceano
altre disputazioni di diverse materie, ovvero si mordea con pronti detti;
spesso si faceano imprese, come oggidì chia- miamo: dove di tali ragionamenti
maraviglioso piacere si pigliava, per esser, come ho detto, piena la casa di
nobilis- simi ingegni; tra i quali, come sapete, erano celeberrimi il signor
Ottavian Fregoso, messer Federico suo fratello, il Ma- gnifico Julian de’
Medici, messer Pietro Bembo, messer Ce- LIBRO PRIMO.
13 sar Gonzaga, il conte Ludovico da Canossa, il signor
Gaspar Pallavicino, il signor Ludovico Pio, il signor Morello da Òr- tona,
Pietro da Napoli, messer Roberto da Bari, ed intìniti altri nobilissimi
cavalieri: oltra che molti ve n’erano, i quali, avvenga che per ordinario non
slessino quivi fermamente, pur la maggior parto del tempo vi dispensavano; come
mes- ser Bernardo Bibiena, l’ Unico Aretino, Joan Cristoforo Ro- mano, Pietro
Monte, Terpandro, messer Nicolò Frisio ; di modo che sempre poeti, musici, e
d’ogni sorte uomini pia- cevoli, e li più eccellenti in ogni facoltà che in
Italia si tro- vassino, vi concorrevano. YI. Avendo adunque papa Julio II
con la presenza sua e con r ajuto de’ Franzesi ridotto Bologna alla obedienza
della sede apostolica nell’anno MDVI, e ritornando verso Roma, passò per
Urbino; dove quanto era possibile onora- tamente, e con quel più magnifico e
splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra nobil città
d’Italia, fu ricevuto: di modo che, oltre al papa, tutti i signor cardi- nali
ed altri cortegiani restarono sommamente satisfatti ; c furono alcuni, i quali,
tratti dalla dolcezza di questa compa- gnia, partendo il papa e la corte,
restarono per molli giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si
continuava nel- r usato stile delle feste e piaceri ordinarli, ma ognuno si
sforzava d’accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi
ogni sera s’attendeva. E l’ordine d’ essi era tale, che, subito giunti alla
presenza della signor.i Duchessa, ognuno si ponea a sedere a piacer suo, o come
la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un uomo ed una donna, fin
che donne v’ erano , chè quasi sempre it numero degli nomini era molto
maggiore; poi, come alla si- gnora Duchessa pareva si governavano, la quale per
lo più delle volte ne lasciava il carico alla signora Emilia. Cosi il giorno
apresso la partita del papa, essendo all’ora usata ri- dotta la compagnia al
solilo loco, dopo molti piacevoli ragio- namenti la signora Duchessa volse por
che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l’aver alquanto
rifiutala taf impresa, così disse: Signora mia, poiché pur a voi piace eh’ io
sia quella che dia principio ai giochi di questa sera , 2
Digitized by Google 14 IL CORTEGIANO.
non possendo ragionevolmente mancar d’obedirvi, delibero proporre un
gioco, del qual penso dover aver poco biasimo e men fatica: e questo sarà, che
ognun proponga secondo il parer suo un gioco non più fatto; da poi si eleggerà
quello che parerà esser più degno di celebrarsi in questa compa- gnia. — £ cosi
dicendo, si rivolse al signor Gaspah Palla vicino, imponendogli che '1 suo
dicesse; il qual subito rispose: A voi tocca, signora, dir prima il vostro. —
Disse la signora Emilia: Eccovi eh’ io 1’ ho dello; ma voi, signora Duchessa,
comandategli eh’ e’ sia obedienle. — Allor la signora Du- chessa ridendo.
Acciò, disse, che ognuno v’abbia ad obe- dire, vi faccio mia locotenenle, e vi
do tutta la mia auto- rità. — VII. Gran cosa 6 pur, rispose il signor
Gaspab, che sempre alle donne sia licito aver questa esenzione di fati- che, e
certo ragion saria volerne in ogni modo intender la cagione ; ma per non esser
io quello che dia priucìpio a dis- obedire, lascierò questo ad un altro tempo,
e dirò quello che mi tocca ; — e cominciò : A me pare, che gli animi no- stri,
si come nel resto, cosi ancor nell’ amare siano di giudi- ciò diversi: e perciò
spesso interviene, che quello che all’uno è gratissimo, all’ altro sia
odiosissimo; ma con tutto questo, sempre però si concordano in aver ciascuno
carissima la cosa amata; talmente che spesso la troppo aSezion degli amanti di
modo inganna il lor giudicio, che eatiman quella persona che amano esser sola
al mondo ornata d’ ogni eccellente virtù, e senza difetto alcuno; ma perchè la
natura umana non ammette queste cesi compite perfezioni, nè si trova persona a
cui qualche cosa non manchi, non si può dire che questi tali non s’ingannino, e
che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa
sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse, di che virtù precipua- mente
vorrebbe che fosse ornata quella persona ch’egli ama; e, poiché cosi è necessario
che tutti abbiano qualche mac- chia, qual vizio ancor vorrebbe che in essa
fosse: imr veder chi saprà ritrovar più lodevoli ed utili virtù, e più
escusabili vizii, e meno a chi ama nocivi ed a chi è amato. — Avendo cosi detto
il signor Gaspar, fece segno la signora Emilia a Digitized by
Google LIBRO PRIMO. 15 madonna Costanza
Fregosa, per esser in ordine vicina, che seguitasse; la qual già
s’apparecchiava a dire; ma la signora Duchbssà subito disse: Poiché madonna
Emilia non vuole aflaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l’
altre donne participassino di questa commodità, ed esse ancor fessino esente di
tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti uomini, che non è
pericolo che.mancbin giochi. — Cosi faremo, — rispose la signora Emilia ; ed
im- ponendo silenzio a madonna Costanza, si volse a messer Cesare Gonzaga che
le sedeva a canto, e gli comandò che parlasse ; ed esso cosi cominciò :
Vili. Chi vuol con diligenza considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in
esse varii difetti; e ciò procede perchè la natura, cosi in questo come nell’
altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in
un’altra: però interviene, che sapendo l’un quello che l’al- tro non sa, ed
essendo ignorante di quello che l’altro inten- de, ciascun conosce facilmente
l’ error del compagno e non il suo, ed a tutti ci par esser molto savii, e
forse più in quello in che più siamo pazzi ; per la qual cosa abbiam ve- duto
in questa casa. esser occorso, che molli i quali al prin- cipio sono stati
reputati saviissimi, con processo di tempo si son conosciuti pazzissimi: il che
d’altro non è proceduto, che dalla nostra diligenza. Ché, come si dice che in
Puglia circa gli atarantati s’ adoprano molti instrumenti di musica, e con
varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per
una certa convenienza eh’ egli ha con alcuno di quei suoni, sentendolo,
subitosi move, e tanto agita lo infermo, che per quella agilazion si riduce a
sanità: cosi noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtù di pazzia, tanto
sottilmente e con tante varie persuasioni l’ab- biamo stimolata e con si
diversi modi, ohe pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo
umore, cosi ben r abbiam agitato, che sempre s’è ridotto a perfezion di pu-
blica pazzia: e chi è riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi
in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada,
ciascun secondo la miniera del suo metallo; onde poi, come sapete, si sono
avuti mara- Digitized by Google 16 IL
CORTEGIANO. vigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo, che in
ciascun di noi sia qualche seme di pazzia,, il qual risveglialo, possa
moltiplicar quasi in infinito. Però vorrei che questa sera il gioco nostro
fosse il disputar questa materia, e che ciascun dicesse : Avendo io ad impazzir
publicamente, di che sorte di pazzia si crede eh’ io impazzissi, e sopra che
cosa, giudi- cando questo esito per le scintille di pazzia che ogni di si
veggono di me uscire : il medesimo si dica di lutti gli altri, servando
l’ordine de’ nostri giochi, ed ognuno cerchi di fon- dar la opinion sua sopra
qualche vero segno ed argomento. E così di questo nostro gioco ritrarremo
frutto ciascun di noi di conoscere i nostri difetti, onde meglio ce ne potrem
guar- dare; e se la vena di pazzìa che scopriremo sarà tanto abon- dante che ci
paja senza rimedio, l’ ajuteremo, e, secondo la dottrina di fra Mariano,
averemo guadagnato un’anima, che non ila poco guadagno. — Di questo gioco si
rise molto, nè alcun era che si potesse tener di parlare : chi diceva. Io
impazzirci nel pensare, chi, Nel guardare; chi diceva, lo già son impazzilo in
amare ; e tai cose. IX. Allor FRA Serafino, a modo suo ridendo: Questo,
disse, sarebbe troppo lungo; ma se volete un bel gioco, fate che ognuno dica il
parer suo. Onde è che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti, ed aman le
serpi; e vederete che niuno s’apporrà, se non io, che so questo secreto per una
strana via. — E già cominciava a dir sue novelle; ma la si- gnora Emilia gl’
impose silenzio, e trapassando la dama che ivi sedeva, fece segno all’ Unico
Aretino, al qual per l’or- dine toccava ; ed esso, senza aspettar altro
comandamento , Io, disse, vorrei esser giudice con autorità di poter con ogni
sorte di tormento investigar di sapere il vero da’ malfattori ; e questo per
scoprir gl’inganni d’una ingrata, la qual, con gli occhi d’angelo e cor di
serpente, mai non accorda la lingua con 1’ animo, e, con simulala pietà
ingannatrice, a niun’ altra cosa intende che a far anatomia de’ cori : nè si
ritrova cosi velenoso serpe nella Libia arenosa, che tanto di sangue umano sia
vago, quanto questa falsa; la qual non so- lamente con la dolcezza della voce e
meliflue parole, ma con gli occhi, coi rìsi, coi sembianti^ e cmt tutti i modi
è veris- Digitized by Google LIBRO PRIMO.
17 sima Sirena. Però, poi che non m’è licito, com’io vorrei,
usar le catene, la fune o ’l foco per saper una verità, desi- dero di saperla
con un gioco, il quale è questo : Che ognun dica ciò che crede che signiflchi
quella lettera S, che la si- gnora Duchessa porta in fronte ; perchè, avvenga
che cer- tamente questo ancor sia un artiCcioso velame per poter in- gannare,
per avventura se gli darà qualche interpretazione da lei forse non pensata, e
trovarassi che la fortuna, pietosa riguardatrice dei martini degli uomini, l’ha
indotta con questo piccol segno a scoprire non volendo l’ intimo deside- rio
suo, di uccidere e sepelir vivo in calamità chi la mira o la serve. — Rise la signora
Duchessa, e vedendo 1’ Unico ch’ella voleva escusarsi di questa imputazione.
Non, disse, non parlate. Signora, che non è ora il vostro loco di parla- re. —
La signora Emilia allor si volse^ e disse : Signor Uni- co, non è alcun di noi
qui che non vi ceda in ogni cosa, ma molto più nel conoscer l’ animo della
signora Duchessa ; e cosi come più che gli altri lo conoscete per lo ingegno
vo- stro divino, l’amate ancor più che gli altri; i quali, come quegli uccelli
debili di vista, che non affisano gli occhi nella spera del sole, non possono
cosi ben conoscer quanto esso sia perfetto : però ogni fatica saria vana per
chiarir questo dubio, fuor che ’l giudicio vostro. Resti adunque questa im-
presa a voi solo, come a quello che solo può trarla al fine. — L’Unico avendo
taciuto alquanto, ed essendogli pur repli- cato che dicesse, in ultimo disse un
sonetto sopra la materia predetta, dichiarando ciò che signiGcava quella
lettera S; che da molti fu estimato fatto all’improvviso, ma, per esser inge-
gnoso e colto più che non parve che comportasse la brevità del tempo, si pensò
pur che fosse pensato. X. Cosi, dopo l’aver dato un lieto applauso in
laude del sonetto, ed alquanto parlato, il signor Ottavian Frbgoso, al qual
toccava, in tal modo, ridendo, incominciò: Signori, s’ io volessi aflermare non
aver mai sentito passion d’ amore, son certo che la signora Duchessa e la
signora Emilia, an- cor che non lo credessino, mostrarebbon di crederlo, e di-
riano che ciò procede perch’ io mi son diffidato di poter mai indur donna
alcuna ad amarmi : di che in vero non ho 2 ’ Digilized by
Google 18 IL CORTEGIAXO. io insili qui
fallo prova con tanta instanza, che ragionevol- mente debba esser disperato di
poterlo una volta consegui- re. Nè già son restalo di farlo perch'io apprezzi
me stesso tanto, 0 cosi poco le donne, che non estimi che molle no siano degne
d’ esser amate e servite da me; ma piuttosto spaventato dai continui lamenti d’
alcuni innamorati, i quali pallidi, mesti e taciturni, par che sempre abbiano
la propria scontentezza dipinta negli occhi ; e, se parlano, accompa- gnando
ogni parola con certi sospiri triplicali, di nuli’ altra cosa ragionano che di
lacrime, di tormenti, di disperazioni, e desiderii di morte : di modo che, se
lalor qualche scintilla amorosa pur mi s’è accesa nel core, io subito sónomi
sfor- zato con ogni industria di spegnerla, non per odio ch’io porti alle
donne, come estimano queste signore, ma per mia salute. Ho poi conosciuti
alcun’ altri in tutto contrarii a que- sti dolenti, i quali non solamente si
laudano e contentano dei grati aspetti, care parole, .e sembianti soavi delle
lor donne, ma tutti i mali condiscono di dolcezza; di modo che le guerre, l’
ire, li sdegni di quelle per dolcissimi chiamano: perchè troppo più che felici
questi tali esser mi pajono. Che se negli sdegni amorosi, i quali da quell’
altri più che morte sono reputati amarissimi, essi ritrovano tanta dolcezza,
penso che nelle amorevoli dimostrazioni debban sentir quella bea- titudine
estrema, che noi in vano in questo mondo cerchia- mo. Vorrei adunque che questa
sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnala seco
queHa persona ch’egli ama, qual causa vorrebbe che fosse quella che la
inducesse a tal sdegno. Che se qui si ritrovano alcuni che abbian provalo
questi dolci sdegni, son certo che per cortesia desideraranno una di quelle
cause che cosi dolci li fa ; ed io forse m’assicurarò di passar un poco più
avanti in amore, con speranza di trovar io ancora questa dolcezza, dove alcuni
trovano I’ amaritudine ; ed in tal modo non po- tranno queste signore darmi
infamia più eh’ io non ami. — XI. Piacque molto questo gioco, e già ognuno si
prepa- rava di parlar sopra tal materia; ma non facendone la si- gnora Emilia
altramente molto, messer Pietro Bembo, che era in ordine vicino, cosi disse:
Signori, non piccol dubio ha LIBRO PRIMO.
19 risveglialo nell’ anioio mio il gioco proposto dal signor
Otla- viano, avendo ragionato de’ sdegni d’ amore; i quali, avvenga che vari!
siano, pur a me sono essi sempre stati acerbissimi, né da me credo che sì
potesse imparar condimento bastante per addolcirgli; ma forse sono più e meno
amari secondo la causa donde nascono. Ché mi ricordo già aver veduto quella
donna ch’io serviva, verso me turbata o per sospetto vano che da sé stessa
della fede mia avesse preso, ovvero per qualche altra falsa opinione in lei
nata dalle altrui parole a mio danno; tanto eh’ io credeva niuna pena alla mia
potersi agguagliare, eparevami che ’l maggior dolor ch’io sentiva fos.se il patire
non avendolo meritato, ed aver questa afflizione non per mia colpa, ma per poco
amor di lei. Altre volle la vidi sdegnata per qualche error mio , e conobbi
l’ira sua proceder dal mio fallo; ed in quel punto giudicava che ’l passato mal
fosse stato levissimo a rispetto di quello ch’io sentiva allora; e parcami che
Tesser dispiaciuto, e per colpa mia , a quella persona alla qual sola io
desiderava e con tanto studio cer- cava di piacere, fosse il maggior tormento e
sopra tutti gli altri. Vorrei adunque che ’l gioco nostro fosse, che ciascun
dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch’egli ama, da chi
vorrebbe che nascesse la causa dello sdegno, o da lei, 0 da sé stesso: per
saper qual è maggior dolore, o far dispiacere a chi s’ama, o riceverlo pur da
chi s’ ama. — XII. Attendeva ognun la risposta della signora Emilia; la qual
non facendo altrimenti molto al Bembo, si volse, e fece segno a messer Federigo
Fregoso che ’l suo gioco dicesse; ed esso subito cosi cominciò: Signora, vorrei
che mi fosse li- bito, come qualche volta si suole, rimettermi alla sentenza un
altro; eh’ io per me volentieri approverei alcun de’gio- '^chi proposti da
questi signori, perchè veramente parmi che lutti sarebbon piacevoli: por, per
non guastar l’ordine, dico, che chi volesse laudar la corte nostra, lasciando
ancor i me- riti della signora Duchessa, la qual cosa con la sua divina virtù
basteria per levar da terra al cielo i più bassi spirili che siano al mondo,
ben poria senza sospetto d’adulazion dire, che in tutta Italia forse con fatica
si ritrovariano altrettanti cavalieri cosi singolari, ed , oltre alla principal
profession della Digitized by Google 20 IL
CORTEGIANO. cavalleria, cosi eccellenti in diverse cose, come or
qui si ri- trovano: però, se in loco alcuno son nomini che meritino esser
chiamati buon Cortegiani , e che sappiano giudicar quello che alla perfezion
della Gortegiania s’appartiene, ragionevolmente s’ ha da creder che qui siano.
Per reprimere adunque molti sciocchi, ì quali per esser presuntuosi ed inetti
si credono acquistar nome di buon Cortegiano, vorrei che’l gioco di que- sta
sera fosse tale, che si eleggesse uno della compagnia, ed a questo si desse
carico di formar con parole un perfetio Cor- tegiano, esplicando tutte le
condizioni e particolar qualità che si richieggono a chi merita questo nome; ed
in quelle cose che non pareranno convenienti sia licito a ciascun con- tradire,
come nelle scole de’ filosofi a chi tien conclusioni. — Seguitava ancor più
oltre il suo ragionamento messer Fede- rico, quando la signora Emilia,
interrompendolo. Questo, disse, se alla signora Duchessa piace, sarà il gioco
nostro per ora. — Rispose la signora Duchessa : Piacemi. — Allor quasi tutti i
circonstanti, e verso la signora Duchessa e tra sè, co- minciarono a dir che
questo era il più bel gioco che far si potesse; e senza aspettar l’uno la
risposta deH’altro, facevano inslanza alla signora Emilia che ordinasse chi gli
avesse a dar principio. La qual, voltatasi alla signora Duchessa, Co- mandate,
disse. Signora, a chi più vi piace che abbia que- sta impresa; ch’io non
voglio, con eleggerne uno più che l’altro, mostrar di giudicare, qual in questo
io estimi più suf- ficiente degli altri, ed in tal modo far ingiuria a chi si
sia.— Rispose la signora Duchessa: Fate pur voi questa elezione; e guardatevi
col disobedire di non dar esempio agli altri, che siano essi ancor poco
obedienti. — XIll. Allor la signora Emilia, ridendo, disse al conte
Lodovico da Canossa: Adunque, per non perder più tempo, voi. Conte, sarete
quello che averà questa impresa nel modo che ha detto messer Federico; non già
perchè ci paja che voi siate cosi buon Cortegiano, che sappiate quel che si gli
con- venga, ma perchè, dicendo ogni cosa al contrario, come spe- rarne che
farete, il gioco sarà più bello, chè ognun averà che rispondervi; onde se nn
altro che sapesse più di voi avesse questo carico, non se gli potrebbe
contradir cosa alcuna, per- Digitized by Googlc LIBRO
PRIMO. 21 chè diria la verità , e cosi il gioco saria
freddo. — Subito ri- spose il Conte: Signora, non ci saria pericolo che
mancasse contradizione a chi dicesse la verità, stando voi qui presen- te; — ed
essendosi di questa risposta alquanto riso, seguitò: Ma io veramente molto
volentier fuggirei questa fatica, pa- rendomi troppo difficile, e conoscendo in
me, ciò che voi avete per burla detto, esser verissimo; cioè eh’ io non sap-
pia quello che a buon Cortegian si conviene: e questo con altro testimonio non
cerco di provare, perchè non facendo r opere, si può estimar eh’ io noi sappia;
ed io credo che sia minor biasimo mio, perchè senza dubio peggio è non voler
far bene, che non saperlo fare. Pur essendo cosi che a voi piac- cia eh’ io
abbia questo carico, non posso nè voglio rifiutarlo, per non contravenir all’
ordine e giudicio vostro, il quale estimo più assai che ’t mio. — Allor messer
Cesare Gonzaga, Perchè già, disse, è passata buon’ora di notte, e qui son
apparecchiate molte altre sorti di piaceri, forse buon sarà differir questo
ragionamento a domani, e darassi tempo al Conte di pensar ciò eh’ egli s’ abbia
a dire; chè in vero di tal subietto parlare improviso è difficil cosa. —
Rispose il Conte: Io non voglio far come colui, che spogliatosi in ginp- pone
saltò meno che non avea fatto col sajo; e perciò parmi gran ventura che l’ ora
sia tarda, perchè per la brevità del tempo sarò sforzato a parlar' poco, e ’l
non avervi pen- salo mi escuserà, talmente chi^ mi sarà licito dire senza
biasimo tutte le cose che prima mi verranno alla bocca. Per non tener adunque più
lungamente questo carico di obligazione sopra le spaile, dico, che in ogni cosa
tanto è dif- ficil conoscer la vera perfezion, che quasi è impossibile; e
questo per la varietà dei giudizii. Però si ritrovano molli, ai quali sarà
grato un uomo che parli assai, e quello chiama- ranno piacevole; alcuni si
dileltaranno più della modestia; alcun’ altri d’ un uomo attivo ed inquieto;
altri di chi in ogni cosa mostri riposo e considerazione: e cosi ciascuno lauda
e vitupera secondo il parer suo, sempre coprendo il vizio col nome della
propinqua virtù, o la virtù col nome del propin- quo vizio; come chiamando un
prosunlnoso, lìbero; un mo- desto, arido; un nescio, buono; un sceleralo,
prudente; e Digitized by Google 22 IL CORTEGIANO.
medesimamente nel reslo. Pur io estimo, in ogni cosa esser la sua
perfezione, avvenga che nascosta; e questa potersi con ragionevoli discorsi
giudicar da chi di quella tal cosa ha no- tizia. £ perchè, com’ho detto, spesso
la verità sta occulta, ed io non mi vanto aver questa cognizione, non posso
laudar se non quella sorte di Cortegiani eh’ io più apprezzo, ed ap- provar
quello che mi par più simile al vero, secondo il mio poco giudicio: il qual
seguitarete se vi parerà buono, ovvero v’ allenerete ai vostro, se egli sarà dal
mio diverso. Nè io già contrasterò che ’l mio sia miglior che ’l vostro; ciiè
non so- lamente a voi può parer una cosa ed a me un’altra, ma a me stesso poria
parer or una cosa ed ora un’ altra. XIV. Voglio adunque che questo nostro
Cortegiano sia nato nobile, c di generosa famiglia; perchè molto men si disdice
ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se
desvia del cammino de’ suoi ante- cessori, macula il nome della famiglia, e non
solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perchè la nobiltà è quasi
una chiara lampa, che manifesta e fa veder l’opere buone e le male, ed accende
e sprona alla virtù cosi col timor d’in- famia, come ancor con la speranza di
laude: e non scoprendo questo splendor di nobilita l’o|)ere degl’ignobili, essi
man- cano dello stimolo, e del timore di quella infamia, nè par loro d’esscr
ohligati passar più avanti di quello che fallo abbiano i suoi antecessori; ed
ai nobili par biasimo non giugner almeno al termine da’ suoi primi mostratogli.
Però inlervien quasi sempre, che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni
gli uomini più segnalali sono nobili, |>crchè la natura in ogni cosa ha
insilo quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo
principio a lutto quello che da esso deri- va, ed a sè lo fa sìmile: come non
solamente vedemo nelle razze de’ cavalli e d’altri animali, ma ancor negli
alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s’ assimigliano al tronco; e se
qualche volta degenerano, procede dal mal agricoltore. £ cosi intervicn degli
uomini, i quali se di buona creanza sono coltivati, quasi sempre son simili a
quelli d' onde procedono, e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi
bene, di- vengono come selvalichi, nè mai si maturano. Vero è che, Digitized
by C.ooeL LIBRO .PRIMO. 23 o sia per favor
delle Bielle o di natura , nascono alcuni accom- pagnali da tante grazie, che
par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formali gli
abbia , ed or- nati di tulli i beni dell’animo e del corpo; si come ancor molli
si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si può credere se non che la natura
per dispetto o per ludibrio prodotti gli ab- bia al mondo. Questi si come per
assidua diligenza e buona creanza poco frullo per lo più delle volte posson
fare, cosi quegli altri con poca fatica vengon in colmo di somma eccel- lenza.
£ per darvi un esempio: vedete il signor don Ippolito da Esle Cardinal di
Ferrara , il quale tanto di felicità ha por- talo dal nascere suo, che la
persona, lo aspetto, le parole, e tulli i suoi movimenti sono talmente di
questa grazia com- posti ed accomodati, che tra i più antichi prelati, avvenga
che sia giovane, rapresenta una tanto grave autorità, che più presto pare allo
ad insegnare, che bisognoso d’ imparare; me- desimamente, nel conversare con
nomini e con donne d’ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare
tiene una certa dolcezza e cosi graziosi costumi, che forza è che cia- scun che
gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affe- zionalo. Ma, tornando al
proposito nostro, dico, che tra que- sta eccellente grazia e quella insensata
sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura cosi
perfettamente dotati , con studio e fatica limare e correggere in gran parte i
difetti naturali. Il Cortegiano adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in
questa parte fortunato, ed ab- bia da natura non solamente lo ingegno, e bella
forma di persona e di volto, ma una certa grazia, e, come si dice, un sangue,
che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile, e. sia
questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue, e prometta
nella fronte, quel tale esser degno del commercio e grazia d’ ogni gran
signore. — XV. Quivi, non aspettando più oltre, disse il signor G a- SPAR
Palla vicino: Acciò che il nostro gioco abbia la forma ordinata, e che non paja
che noi cslimiam poco l’ autorità dataci del contradire, dico, che nel
Cortegiano a me non par cosi necessaria questa nobilita; e s’io mi pensassi dir
cosa ^ Digitized by Googlc 24 IL
COnXEGIANO. che ad alcun di noi fosse nova, io addurrei molli, li
quali, nati di nobilissimo sangue , son siali pieni di vizii; e per Io
contrario molti ignobili, che hanno con la virtù illustrato la posterità loro.
E se è vero quello che voi diceste dianzi, cioè che in ogni cosa sia quella
occulta forza del primo seme: noi tutti saremmo in una medesima condizione, per
aver avuto nn medesimo principio, nè più un che l’altro sarebbe nobile. Ma
delle diversità nostre e gradi d’ altezza e di bassezza credo io che siano
molte altre cause: tra le quali estimo la fortuna esser precipua; perchè in
tutte le cose mondane la veggiamo dominare, e quasi pigliarsi a gioco d’alzar
spesso fin al cielo chi par a lei, senza merito alcuno, e sepelir nel- l’
abisso i più degni d’ esser esaltati. Confermo ben ciò che voi dite della
felicità di quelli che nascon dotati dei beni dell’animo e del corpo: ma questo
cosi si vede negl’ ignobili come nei nobili, perché la natura non ha queste
cosi sottili distinzioni; anzi, come ho detto, spesso si veggono in per- sone
bassissime altissimi doni di natura. Però non acquistan- dosi questa nobiltà nè
per ingegno nè per forza nè per arte, ed essendo piuttosto laude dei nostri
antecessori che nostra propria, a me par troppo strano voler che se i parenti
del nostro Cortegiano son stati ignobili, tutte le sue buone qua- lità siano
guaste, e che non bastino assai qneli’altre condi- zioni che voi avete
nominate, per ridurlo al colmo della per- fezione: cioè ingegno, bellezza di
volto, disposizion di persona, e quella grazia che al primo aspetto sempre lo
fac- cia a ciascun gratissimo. — XVI. Allor il conte Lunonco, Non nego
io, rispose, che ancora negli nomini bassi non possano regnar quelle mede- sime
virtù che nei nobili : ma (per non replicar quello che già avemo detto, con
molte altre ragioni che si poriano ad- durre in lande della nobiltà, la qual
sempre ed appresso ognuno è onorala , perchè ragionevole cosa è che de’ buoni
nascano i buoni) avendo noi* a formare un Cortegiano senza difetto alcuno, e
cumulato d’ogni laude, mi par necessario farlo nobile, si per molle altre
cause, come ancor per la opi- nione universale, la qual subito accompagna la
nobilità. Che se saranno dui uomini di palazzo, i quali non abbiano per
Digitized by Googte LIBRO PRIMO. 25
prima dato impression alcuna di sè stessi con l’opere o buo- ne 0 male:
subito che s’ intenda l’ un esser nato gentiluomo e r altro no, appresso
ciascuno lo ignobile sarà molto meno estimato che ’l nobile , e bisognerà che
con molle fatiche e con tempo nella mente degli uomini imprima la buona opi-
nion di sè, che T altro in un momento, e solamente con l’ esser gentiluomo,
averà acquistata. E di quanta importanza siano queste impressioni, ognun può
facilmente comprendere: chè, parlando di noi, abbiam veduto capitare in questa
casa uomini, i quali essendo sciocchi e goffissimi, per tutta Italia hanno però
avuto fama di grandissimi Corlegiani; e benché in ultimo siano stati scoperti e
conosciuti, pur per molti di ci hanno ingannato, e mantenuto negli animi nostri
quella opinion di sè che prima in essi hanno trovato impressa, ben- ché abbiano
operato secondo il lor poco valore. Avemo ve- duti altri al principio in
pochissima estimazione, poi esser all’ ultimo riusciti benissimo. E di questi
errori sono diverse cause: e tra l’altre, la ostinazion dei signori, i quali,
per vo- ler far miracoli , talor si mettono a dar favore a chi par loro che
meriti disfavore. E spesso ancor essi s’ ingannano ; ma perchè sempre hanno
inGnili imitatori, dal favor loro deriva grandissima fama, la qual per lo più i
giudicii vanno seguen- do: e se ritrovano qualche cosa che paja contraria alla
com- mone opinione, dubitano d’ ingannar sè medesimi, e sempre aspettano
qualche cosa di nascosto: perchè pare che questo opinioni universali debbano
pur esser fondate sopra il vero, e nascere da ragionevoli cause; e perchè gli
animi nostri sono prontissimi allo amore ed all’odio, come si vede nei
spettacoli de’combatlimenti e de’ giochi e d’ogni altra sorte contenzione, dove
i spettatori spesso si affezionano senza manifesta cagione ad una delle parti,
con desiderio estremo che quella resti vin- cente e r altra perda. Circa la
opinione ancor delle qualità degli uomini, la buona fama o la mala nel primo
entrare move l’ animo nostro ad una di queste due passioni. Però inter- viene
che per lo piò noi giudichiamo con amore, ovvero con odio. Vedete adunque di
quanta importanza sia questa prima impressione, e come debba sforzarsi
d’acquistarla buona nei principi!, chi pensa aver grado e nome di buon
Corlegiano. 20 IL COKTEGIANO. XVII- Ma per
venire a qualche particolarità, estimo che la principale e vera profcssion del
Cortegiano debba esser quella dell’ arme; la qual sopra tutto voglio che egli
faccia vivamente, e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato c fedele
a chi serve. E ’l nome di queste buone condizioni si acquisterà facendone l’
opere in ogni tempo e loco; imperoc- ché non è licito in questo mancar mai
senza biasimo estre- mo: e come nelle donne la onestà una volta macchiata mai
più non ritorna al primo stalo, cosi la fama d’un gentiluomo che porti l’arme,
se una volta in un minimo punto si deni- ^ra per codardia o altro rimprocchio,
sempre resta vitupe- rosa al mondo e piena d’ignominia. Quanto più adunque sarà
eccellente il nostro Cortegiano in questa arte, tanto più sarà (lesno di laude;
bench’ io non estimi esser in lui necessaria quella perfetta cognizion di cose,
e l’ altre qualità, che ad un capitano si convengono; che per esser questo
troppo gran mare, ne conlenlaremo, come avemo detto, della integrità di fede e
dell’animo invitto, e che sempre si vegga esser tale: perchè molte volle più
nelle cose piccole che nelle grandi si conoscono i coraggiosi; e spesso ne’
pericoli d’importanza, e dove son molli leslimonii, si ritrovano alcuni i
quali, benché abbiano il core morto nel corpo, pur, spinti dalla vergogna 0
dalla compagnia, quasi ad occhi chiusi vanno inanzi, e fanno il debito loro, e
Dio sa come; e nelle cose che poco premo- no, e dove par che possano senza
esser notali restar di met- tersi a pericolo, volcnticr si lasciano acconciare
al sicuro. Ma quelli che ancor quando pensano non dover esser d’ alcuno né
mirati né veduti nè conosciuti, mostrano ardire, c non lascian passar cosa, per
minima che ella sia, che possa loro esser carico, hanno quella virtù d’animo
che noi ricerchia- mo nel nostro Cortegiano. Il quale non volerne però che si
mostri tanto fiero, che sempre stia in su le brave parole, c dica aver tolto la
corazza per moglie, e minacci con quelle fiere guardature che .spesso avemo
vedute fare a Berlo: chè a questi tali meritamente si può dir quello, che una
valorosa donna in una nobile compagnia piacevolmente disse ad uno, ch’io pier
ora nominar non voglio; il quale essendo da lei, per onorarlo, invitalo a
danzare, c rifiutando esso e questo, r , ized Ì^.-50gU
LIBRO PRIMO. 27 e Io adir musica, e molti altri
interlenimenti offertigli, sem- pre con dir, cosi fatte novelluzze non esser
suo mestiero; in ultimo dicendo la donna. Qual é adunque il mestier vostro? —
rispose con un mal viso. Il combattere; — allora la donna subito. Crederei,
disse, che or che non siete alla guerra né in termine di combattere, fosse
buona cosa che vi faceste molto ben untare, ed insieme con tutti i vostri
arnesi di bat- taglia riporre in un armario, finché bisognasse, per non rug-
ginire più di quello che siate; — e cosi, con molte risade'cir- constanti,
scornato lascioUo nella sua sciocca prosanzione. Sia adunque quello che noi
cerchiamo, dove si veggon gl’ inimici, fierissimo, acerbo, e sempre tra i
primi; in ogni altro loco, umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la
ostenta- zione, e lo impudente laudar sé stesso, per lo quale 1’ uomo sempre si
concita odio e stomaco da chi ode. — XVIII. Ed io, rispose allora il
signor Gàspab, ho co- nosciuti pochi uomini eccellenti in qualsivoglia cosa,
che non laudino sé stessi: e parmi che mollo ben comportar lor si possa; perchè
chi si sente valere, quando si vede non esser per r opere dagli ignoranti
conosciuto , si sdegna che’l valor suo stia sepolto, e forza é che a qualche
modo Io scopra, per non esser defraudato dall’ onore, che è il vero premio
delle virlaose fatiche. Però, tra gli antichi scrittori, chi mollo vale, rare
volte si astien da laudar sé stesso. Quelli ben sono in- tolerabili, che
essendo di ninn merito, si laudano; ma tal non presumiam noi che sia il nostro
Corlegiano. — Allor il Conte, Se voi, disse, avete inteso, io ho biasimalo il
laudare sé stesso impudentemente e senza rispetto: e certo, come voi dite, non
si dee pigliar mala opinion d’un uomo valoroso, che modestamente si laudi; anzi
lòr quello per testimonio più certo, che se venisse di bocca altrui. Dico ben
che chi, lau- dando sé stesso, non incorre in errore, nè a sé genera fasti- dio
0 invidia da chi ode, quello è discretissimo, ed, oltre alle laudi che esso si
dà, ne merita ancor dagli altri; perchè è cosa difflcii assai. ~ Allora il
signor Gaspar, Questo, disse, ci avete da in^gnar voi.— Rispose il Conte: Fra gli
antichi scrittori non è ancor mancalo chi l’abbia insegnalo; ma, al parer mio,
il tutto consiste in dir le cose di modo, che paja Digitized by
Google 28 IL CORTEGIANO. non che si dicano
a quel fine, ma che caggìano talmente a proposito, che non si possa restar di
dirle, e sempre mostran- do fuggirle proprie laudi, dirle pure; ma non di
quella ma- niera che fanno questi bravi, che aprono la bocca, e lascia n venir
le parole alla ventura. Come pochi di fa disse un de’ nòstri, che essendogli a
Pisa stato passato una coscia con una picca da una banda all’altra, pensò che
fosse una mosca che l’avesse punto; ed un altro disse, che non teneva spec-
chio in camera, perchè quando si crucciava diveniva tanto terribile nell’
aspetto, che veggendosi aria fatto troppo gran paura a sè stesso. — Rise qui
ognuno; ma messer Cesare Gonzaga soggiunse: Di che ridete voi? Non sapete che
Ales- sandro Magno, sentendo che opinion d’un filosofo era che fossino infiniti
mondi, cominciò a piangere, ed essendogli domandato, perchè piangeva, rispose.
Perch’io non ne ho ancor preso un solo; — come se avesse avuto animo di pi-
gliarli tolti? Non vi par che questa fosse maggior braveria, che il dir della
puntura della mosca? — Disse allor il Conte ; Anco Alessandro era maggior uomo,
che non era colui che disse quella. Ma agli uomini eccellenti in vero si ha da
per- donare quando presumono assai di sè; perchè chi ha da far gran cose,
bisogna che abbia ardir di farle e confidenza di sè stesso, e non sia d’animo
abietto o vile, ma si ben mo- desto in parole, mostrando di presumer meno di sè
stesso che non fa, pur che quella presunzione non passi alla te- merità.
— XIX. Quivi facendo un poco di pausa il Conte, disse ri- dendo messer
Bernabdo Bibiena: Ricordomi che dianzi dice- sti, che questo nostro Corlegiano
aveva da esser dotalo da natura di bella forma di volto e di persona, con
quella gra- zia che lo facesse cosi amabile. La grazia e ’l volto bellissi- mo
penso per certo che in me sia, e perciò interviene che tante donne quante sapete
ardeno dell’ amor mio ; ma della forma del corpo sto io alquanto dubioso, e
massimamente per queste mie gambe, che in vero non mi pajono così atte com’io
vorrei: del busto, e del resto contentomi pur assai bene. Di- chiarate adunque
un poco più minutamente questa forma del corpo, quale abbia ella da essere,
acciò che io possa levarmi Digilized by Google LIBRO
PRIMO. 20 dì questo dubio, e star con l’animo riposalo.
— Essendosi di questo riso alquanto , soggiunse il Conte: Certo, quella grazia
del volto, senza mentire, dir si può esser in voi, nè altro esempio adduco che
questo, per dichìarire che cosa ella sia; chè senza dubio veggiamo, il vostro
aspetto esser gratissimo e piacere ad ognuno, avvenga che i lineamenti d’esso
non siano molto delicati; ma tien del virile, e pur è grazioso; e trovasi
questa qualità in molle e diverse forme di volti. E di tal sorte voglio io che
sia lo aspetto del nostro Cortegiano , non cosi molle e feminile come si
sforzano d’aver molti, che non solamente si crespano i capegli e spelano le
ciglia, ma si strisciano con lutti que’ modi che si faccian le più lascive e
disoneste femine del mondo; e pare che nello andare, nello stare, ed in ogni
altro lor atto siano tanto teneri e lan- guidi, che le membra siano per staccarsi
loro l’uno dall’al- tro; e pronunziano quelle parole cosi afflitte, che in quel
punto par che lo spirito loro finisca: e quanto più si trovano con nomini di
grado, tanto più usano tai termini. Questi, poi che la natura, come essi
mostrano desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono
non come buone femine esser estimati, ma, come publiche meretrici, non so-
lamente delle corti de’ gran signori, ma del consorzio degli uomini nobili
esser cacciati. XX. Yeguendo adunque alla qualità della persona, dico
bastar ch’ella non sia estrema in piccolezza nè in grandez- za; perchè e l’una
e l’altra di queste condizioni porla seco una certa dispettosa maraviglia, e
sono gli uomini di tal sorte mirali quasi di quel modo che si mirano le cose
mostruose: benché, avendo da peccare nell’una delle due estremità, mcn male è
Tesser un poco diminuto, che ecceder la ragioncvol misura in grandezza; perchè
gli nomini cosi vasti di corpo, olirà che molte volle di ottuso ingegno si
trovano, sono an- cor inabili ad ogni esercizio di agilità: la qual cosa io
desi- dero assai nel Cortegiano. £ perciò voglio che egli sia di buona
disposizione e de’ membri ben formato, e mostri forza e leggerezza e
discioltura, e sappia di tutti gli esercizi! di persona che ad uom di guerra
s’appartengono: e di questo penso, il primo dover essere maneggiar ben ogni
sorte d’ar- Digitìzed by Google 30 IL
CORTEGIANO. me a piedi ed a cavallo, e conoscere i vantaggi che in
esse sono, e massimamente aver notìzia di quell’arme che s’usano ordinariamente
tra’ gentiluomini ; perchè, oltre all’ operarle alla guerra, dove forse non
sono necessarie tante sottilità, intervengono spesso differenze tra un
gentiluomo e l’altro, onde poi nasce il combattere, e molte volte con quell’
arme che in quel punto si trovano a canto: però il saperne è cosa securissiraa.
Nè son io già di quei che dicono, che allora l’arte si scorda nel bisogno;
perchè certamente chi perde l’arte in quel tempo, dà segno che prima ha perduto
il core e ’l cervello di paura. XXL Estimo ‘ancora, che sia di momento
assai il saper lottare, perchè questo accompagna molto tutte l’arme da piedi.
Appresso, bisogna che e per sé e per gli amici intenda le querele e differenze
che possono occorrere, e sia avvertito nei vantaggi, in tutto mostrando sempre
ed animo e pruden- za; nè sia facile a questi combattimenti, se non quanto per
l’onor fosse sforzato: chè, oltre al gran pericolo che la du- biosa sorte seco
porta, chi in tali cose precipitosamente e senza urgente causa incorre, merita
grandissimo biasimo, avvenga che ben gli succeda. Ma quando si trova l’aomo es-
ser entrato tanto avanti, che senza carico non si possa ri- trarre, dee e nelle
cose che occorrono prima del combattere, e nel ^combattere, esser
deliberatissimo , e mostrar sempre prontezza q core; e non far com’alcuni, che
passano la cosa in dispute e punti, ed avendo la elezion dell’arme pigliano
arme che non tagliano nè pungono, e si armano come s’aves- sero ad aspettar le
cannonate; e parendo lor bastare il non esser vinti, stanno sempre in sul
difendersi e ritirarsi, tanto che mostrano estrema viltà; onde fannosi far la
baja da’ fan- ciulli: come que’dui Anconitani, che poco fa combatterono a
Pei^gia, e fecero rìdere chi gli vide — E quali furon que-- sti? — disse il
signor Gaspàb Palla vicmo. Rispose roesser Ce- sare: Dui fratelli consobrini. —
Disse allora il Conte: Al combattere parvero fratelli carnali; — poi soggiunse:
Ado- pransi ancor l’arme spesso in tempo dì paca in diversi eser- cizii, e
veggonsi i gentiluomini nei spettacoli publici alla pre- senza de’ popoli, di
donne e di gran signori. Però voglio che ’l LIBRO PRIMO.
31 nostro Cortegiano sia perfetto cavalier d’ogni sella; ed
oltre allo aver cognìzion di cavalli e di ciò che ai cavalcare s’ap- partiene,
ponga ogni stadio e diligenza di passar in ogni cosa un poco più avanti che gli
altri, di modo che sempre tra tatti sia per eccellente conosciuto. E come si
legge d’ Alcibiade, che superò tutte le nazioni appresso alle quali egli visse,
e ciascuna in quello che più era suo proprio: cosi questo nostro avanzi gli
altri, e ciascuno in quello di che più fa professione. E perché degli Italiani
é peculiar laude il cavalcar bene alla brida, il maneggiar con ragione
massimamente cavalli aspe- ri, il correr lance e’I giostrare, sia in questo dei
migliori Italiani: nel torneare, tener un passo, combattere una sbar- ra, sia
buono tra i miglior Franzesi: nel giocare a canne, correr tori, lanciar aste e
dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto, accompagni ogni suo
movimento con un certo buon giudicio e grazia, se vuole meritar quell’
universa! fa- vore che tanto s’apprezza. XXII. Sono ancor molti altri
esercizi!, i quali benché non dipendano drittamente dalle arme, pur con esse
hanno molta convenienza, e tengono assai d’una strenuità virile; e tra questi
parmi la caccia esser de’ principali, perché ha una certa similitudine di
guerra: ed é veramente piacer da gran signori, e conveniente ad uom di corte, e
comprendesi che ancora tra gli antichi era in molta consuetudine. Conveniente é
ancor saper nuotare, saltare, correre, gittar pietre, per- ché, oltre alla
utilità che di questo si può avere alla guerra, molle volte occorre far prova
di sé in tai cose; onde s’acqui- sta buona estimazione, massimamente nella
moltitudine, con la quale bisogna pur che l’uora s’accommodi. Ancor nobile
esercizio e convenientissimo ad uom di corte é il gioco di pal- la, nel quale
molto si vede la disposizion del corpo, e la pre- stezza e discioltura d'ogni
membro, e tutto quello che quasi in ogni altro esercizio si vede. Né di minor
laude estimo il volteggiar a cavallo; il quale benché sia faticoso e difficile,
fa l’uomo leggerissimo e destro più che alcun’ altra cosa; ed, oltre alla
utilità, se quella leggerezza é compagnala di buona grazia, fa, al parer mio,
più bel spettacolo che alcun degli altri. Essendo adunque il nostro Cortegiano
in questi eserci- Digilized by Google 52 IL
CORTEGIANO. zii più che mediocremenle esperto, penso che debba
lasciar gli altri da canto ; come volteggiar in terra , andar in su la corda, e
tai cose, che quasi hanno del giocolare, e poco sono a gentiluomo convenienti.
Ma, perchè sempre non si può ver- sar tra queste cosi faticose operazioni ,
oltra che ancor la as- siduità sazia mollo e leva quella ammirazione che si
piglia delle cose rare, bisogna sempre variar con diverse azioni la vita
nostra. Però voglio che’l Cortegiano discenda qualche volta a più riposati e
placidi esercizi!, e per schivar la invi- dia e per intertenersi piacevolmente
con ognuno, faccia tutto quello che gli altri fanno, non s’allontanando però
mai dai landevoli atti, e governandosi con quel buon giudicio che non lo lasci
incorrere in alcuna sciocchezza; ma rida, scherzi, motteggi, balli e danzi,
nientedimeno con tal maniera, che sempre mostri esser ingenioso e discreto, ed
in ogni cosa che faccia o dica sìa aggraziato. — XXIII. Certo, disse
allor messer Cesare Gonzaga, non si dovria già impedir il corso di questo
ragionamento; ma se io tacessi, non satisfarei alla libertà ch’io ho di
parlare, nè al desiderio di saper una cosa: e siami perdonato s’io, avendo a
contradire, dimanderò; perchè questo credo che mi sia licito, per esempio del
nostro messer Bernardo, il qual, per troppo voglia d’esser tenuto bell’ uomo,
ha contrafatto alle leggi del nostro gioco, domandando, e non contradicen- do.—
Vedete, disse allora la signora Dociiessa, come da nn crror solo molti ne
procedoùo. Però chi falla, e dà mal esem- pio, come messer Bernardo, non
solamente merita esser pu- nito del suo fallo, ma ancor dell’ altrui. — Rispose
allora mes- ser Cesare: Dunque io. Signora, sarò esente di pena, avendo messer
Bernardo ad esser punito del suo e del mio errore. — Anzi, disse la signora
Duchessa, tutti dui dovete aver doppio castigo: esso del suo falle, e dello
aver indotto voi a fallire; voi del vostro fallo, e dello aver imitato chi
falliva. — Signora, rispose messer Cesare, io fin qui non ho fallito; però, per
lasciar tutta questa punizione a messer Bernardo solo, tacerommi. — E già si
taceva; quando la signora Emi- lia ridendo. Dite ciò che vi piace, rispose,
chè, con licenza però della signora Duchessa, io perdono a chi ha fallito e
a nir '.7r^ by Uoogic LIBRO PRIMO.
33 chi fallirà in cosi piccol fallo. — Soggianse la signora
Dccues- sa: io son contenta: ma abbiate cura che non v’inganniate, pensando
forse meritar più con Tesser clemente che con Tes- ser giusta; perchè,
perdonando troppo a chi falla, si fa in- giuria a chi non falla. Pur non voglio
che la mia austerità , per ora, accusando la indulgenza vostra, sia causa che
noi perdiamo d’udir questa domanda di messer Cesare. — Cosi esso, essendogli
fatto segno dalla signora Duchessa e dalla signora Emilia, subito disse:
XXIV. Se ben tengo a memoria, parmi, signor Conte, che voi questa sera più
volte abbiale replicato, che’l Corle- giano ha da compagnar Toperazion sue, i
gesti, gli abiti, in somma ogni suo movimento con la grazia; e questo mi par
che mettiate per un condimento d'ogni cosa, senza il quale tulle Taltre
proprietà e buone condizioni siano di poco valore. E veramente credo io , che
ognun facilmente in ciò si lascie- rebbe persuadere, perchè, per la forza del
vocabolo, si può dir che chi ha grazia, quello è grato. Ma perchè voi diceste,
questo spesse volle esser don della natura e de’ cieli , ed an- cor quando non
è cosi perfetto potersi con studio e fatica far molto maggiore: quegli che
nascono cosi avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro come alcuni che ne
veggiamo , a me par che in ciò abbiano poco bisogno d’altro maestro; perchè quel
benigno favor del cielo quasi al suo dispetto i guida più alto che essi non
desiderano, e fagli non solamente grati ma am- mirabili a tutto il mondo. Però
di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi
Tacquistarlo. Ma quegli che da natura hanno tanto solamente, che son atti a
poter essere aggraziati aggingnendovi fatica, industria e stu- dio, desidero io
di saper con quaTarle, con qual disciplina e con qual modo possono acquistar
questa grazia, cosi negli csercizii del corpo, nei quali voi estimate che sia
tanto ne- cessaria, come ancor in ogni altra cosa che si faccia o dica. Però,
secondo che col laudarci molto questa qualità a tutti avete, credo, generato
una ardente sete di conseguirla, per lo carico dalla signora Emilia impóstovi
siete ancor, con lo insegnarci, obligaio ad estinguerla. — XXV.
Obligatonon son io, disse il Conte, ad insegnarvi Digitized by
Google 34 IL CORTEGIANO. a diventar
aggraziati, nè altro; ma solamente a dimostrarvi qual abbia ad essere un
perfetto Cortegiano. Nè io già piglia- rci impresa di insegnarvi questa
perfezione; massimamente avendo poco fa detto che ’i Cortegiano abbia da saper
lottare c volteggiare, c tant’altre cose, le quali come io sapessi in-
segnarvi, non le avendo mai imparate, so che tutti Io cono- scete. Basta che si
come un buon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bontà hanno ad
esser l’arme, nè perù gli sa insegnar a farle, nè come le martellio tempri;
cosi io forse vi saprò dir qual abbia ad esser un perfetto Cortegiano, ma non
insegnarvi come abbiate a fare |)er divenirne. Pur per satisfare ancor quanto è
in poter mio alla domanda vostra, l)enchè e’ sia quasi in proverbio, che la
grazia non s’ impa- ri: dico, che chi ha da esser aggrazialo negli esercizii
corpo- rali, presupponendo prima che da natura non sia inabile, dee cominciar
per tempo, ed imparar i principii da ottimi maestri; la qual cosa quanto
paresse a Filippo re di Macedo- nia importante, si può comprendere, avendo
voluto che Ari- stotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior che sia stato
al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi clementi delle lettere ad
Alessandro suo figliolo. E degli uomini che noi oggidì couoscemo, considerate
come bene ed aggrazia- tamente fa il signor Galeazzo Sanseverino gran scudiero
di Francia tutti gli esercizii del corpo; c questo perchè, oltre alla naturai
disposizione ch’egli tiene della persona, ha posto ogui studio d’imparare da
buon maestri, ed aver sempre presso di sè uomini eccellenti, e da ognun pigliar
il meglio di ciò che sapevano: chè siccome del lottare, volteggiare, c
maneggiar molle sorti d’armi, ha tenuto per guida il nostro messer Pietro
Monte, il qual, come sapete, è il vero e solo maestro d’ogni artificiosa forza
e leggerezza, cosi del caval- care, giostrare, e qualsivoglia altra cosa, ha
sempre avuto ìnanzi agli occhi i più p>erfetti che in quelle professioni
siano stali conosciuti. XXVI. Chi adunque vorrà esser buon discepolo,
oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenza per assimigliarsi
al maestro, e se possibil fosse, trasformarsi in lui. E quando già si sente
aver fatto profitto, giova molto vo- Dì- LIBRO
PRIMO. 35 der diversi uomini di tal pr9fessione, e,
governandosi con qoel buon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar
sce* gliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pec- chia ne’ verdi
prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori , COSI il nostro Cortesiano averà
da rubare questa grazia da que’che a lui parerà che la tenghino, e da ciascun
quella jtarle che più sarà landevole; e non far come un amico no- stro, che voi
tutti conoscete, che si pensava esser molto si- mile al re Ferrando minore d’
Aragona, né in altro avea po- sto cura d’imitarlo, che nei spesso alzar il
capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosi
da infirraità. E di questi, molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che
sian simili ad un grand’uomo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella
che in colui è sola vi- ziosa. Ma avendo io già più volle pensalo meco onde
nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una
regola universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose
umane che si facciano o dicano più che al- cuna altra: e ciò è fuggir quanto
più si può, e come un aspe- rissìmo e pericoloso scoglio, la affettazione; e,
per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che
nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e
quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: [terché
delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficoltà , onde in esse la facilità
genera gran- dissima maraviglia; e per lo contrario, il sforzare, e, comesi
dice, tirar per i capegli, dà somma disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per
grande ch’ella si sia. Però si può dir quella esser vera arte, che non appare
esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché
se é scoperta, leva in lutto il credito, e fa ruòmo poco estimato. E ricórdomi
io già aver letto, esser stati alcuni antichi ora- tori eccellentissimi, i
quali, tra l’altre loro industrie," sforza- vansi di far credere ad
ognuno, sé non aver notizia alcuna di lettere; e, dissimulando il sapere,
mostravan le loro ora- zioni esser fatte semplicissimamenlc, e piuttosto
secondo che loro porgea la natura e la verità, che lo studio e l’arte: la qual
se fosse stala conosciuta, aria dato dubio negli animi Uiyil1?t!8
by Google 36 IL CORTEGIANO. del popolo di
non dover esser da quella ingannali. Vedete adunque come il mostrar l’arte, ed
un cosi intento studio, levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida,
quando il nostro messer Pierpaolo danza alla foggia sua, con que’ sal- telli e
gambe stirale in punta di piede, senza mover la lesta, come se tutto fosse un
legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual
occhio è cosi cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazio- ne?
e la grazia in molti uomini e donne che sono qui pre- senti, di quella
sprezzata disinvoltura (chè nei movimenti del corpo molti così la chiamano),
con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni
altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non sa- per nè
poter errare? — XXVII. Quivi non aspettando, messer Bernardo Bibiena
disse: Eccovi che messer Roberto nostro ha pur trovalo chi lauderà la foggia
del suo danzare, poiché tutti voi altri paro che non ne facciale caso; chè se
questa eccellenza consiste nella sprezzatura, e mostrar di non estimare, e
pensar più ad ogni altra cosa che a quello che si fa , messer Roberto nel
danzare non ha pari al mondo; chè per mostrar ben di non pensarvi, si lascia
cader la roba spesso dalle spalle e le pan- toffolc de’ piedi , e senza
raccòrrà nè l’uno nè l’altro, tuttavia danza. — Rispose allor il Conte: Poiché
voi volete pur ch’io dica, dirò ancor de’vizii nostri. Non v’accorgete che
questo, che voi in messer Roberto chiamate sprezzalura, è vera affetta- zione?
perchè chiaramente si conosce che esso si sforza con ogni studio mostrar di non
pensarvi: e questo è il pensarvi troppo; e perchè passa certi termini di
mediocrità, quella sprezzalura è affettala c sta male; ed è una cosa che
appunto riesce al contrario del suo presupposito, cioè di nasconder l’arte.
Però non estimo io che minor vizio della affetlazion sia nella sprezzatura, la
quale in sè è laudevole, lasciarsi cadere i panni da dosso, che nella
attillatura, che pur medesima- mente da sè è laudevole, il portar il capo cosi fermo
per paura di non guastarsi la zazzera, o tener nel fondo della berretta il
specchio, e ’l pettine nella manica, ed aver sem- pre drìelo il paggio per le
strade con la sponga e la scope l- LIBRO PRIMO.
7)1 (a: perchè questa cosi fatta attilatura c sprezznliira tendono
troppo allo estremo; il che sempre è vizioso, e contrario a quella pura ed
amabile simplicità, che tanto è grata agli ani- mi umani. Vedete come un
cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d’andare cosi stirato in su la
sella, e, come noi $o- gliam dire, alla veneziana, a comparazion d’ un altro,
che paja che non vi pensi, e stia a cavallo cosi disciolto e sicuro come se
fosse a piedi. Quanto piace più e quanto più é lau- dato un gentiluom che porti
arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il qual sempre
stia in sul lau- dar sé stesso, e biastemando con braveria mostri minacciar al
mondo I e niente altro è questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il
medesimo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si
possa. — XXVllI. Allora il signor Magnifico, Questo ancor, disse, si
verifica nella musica, nella quale è vizio grandissimo, far due consonanze
perfette l’una dopo l’altra; tal che il mede- simo sentimento dell’andito nostro
l’aborrisce, e spesso ama una seconda o settima, che in sè è dissonanza aspera
cd intolcrabile: c ciò procede , che quel continuare nelle per- fette genera
sazietà, e dimostra una troppo affettata armo- nia; il che, mescolando le
imperfette, si fuggc, col far quasi un paragone, donde più le orecchie nostro
stanno sospese, e più avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi
talor di quella dissonanza della seconda o settima, $ome di cosa sprezzata. —
Eccovi adunque, rispose il Conte, che in questo nóce l’ affettazione, come
nell’altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio appresso ad alcuni
eccellentissimi pit- tori antichi , troppo diligenza esser nociva , ed esser
stato biasimato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola.
— Disse allor messer Cesare: Questo medesimo difetto parmi che abbia il nostro
fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola, almen fin che in tutto
non ne sono levate ancora le vivande. — llise il Conte, c sog- giunse: Voleva
dire Apelle, che Protogene nella pittura non conoscea quel che bastava; il che
non era altro, che ri- prenderlo d’essere affettato nelle opere sue. Questa
virtù adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora cbia-
Digitized by CoofJ». 38 IL CORTEGIANO.
marno sprezzatora, olirà che ella sia il vero fonte donde de- riva la
grazia, porta ancor seco un altro ornamento, il qua- le accompagnando
qualsivoglia azione umana per minima che ella sia, non solamente subito scopre
il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che è in
effetto ; perchè negli animi delti circonstanti imprime opi- nione, che chi
cosi facilmente fa bene sappia molto più di quello che fa, e se in quello che
fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. £, per replicare i
medesimi esem- pii, eccovi che un uom che maneggi l’arme, se per lanciar un
dardo, ovver lenendo la spada in mano o altr’arma, si pon senza pensar
scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilità che paja che il corpo e
tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica
alcuna , ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo
in quello esercizio. Medesimamente nel dan> zare, un passo solo, un sol
movimento della persona grazioso e non sforzato, subito manifesta il sapere di
chi danza. Un musico, se nel cantar pronuncia una sola voce terminata con soave
accento in un groppetto duplicato con tal facilità che paja che così gli venga
fatto a caso, con quel ponto solo fa conoscere che sa molto più di quello che
fa. Spesso ancor nella pittura una linea sola non stentata, un sol colpo di
pen- nello tirato facilmente, di modo che paja che la mano, senza esser guidata
da studio o d’arte alcuna, vada per sé stessa al suo termine secondo la
hitmision dd pittore, scopre chia- ramente la ecceHensa dell’artehoe , circa la
opinion della qoale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio: e ’l me-
desimo interviene quasi d’ ogni altra cosa. Sarà adunque il nostro Cortegiano
estimato eccellente, ed in ogni cosa averà grazia, e massimamente nel parlare,
se fuggirà raSettazione: nel qual errore incorrono molli, e talor più che gli
altri, al- cuni nostri Lombardi ; i quali se sono stati un anno fuor di casa,
ritornati, subito cominciano a parlare romano, talor spagnolo 0 franzese, e Dìo
sa come; e tolto questo procede da troppo desiderio di mostrar di saper assai :
ed in tal modo r uomo mette studio e diligenza in acquistar un vizio odio-
sissimo. E certo, a me sarebbe non piccola fatica, se in que- LIBRO
PRIMO. 59 \ sii nostri ragionamenti io
volessi usar quelle parole antiche toscane, che già sono dalla consuetudine dei
Toscani d’ og- gidì riOntate; e con lutto questo credo che ognun di me ri-
deria. — XXIX. Allor messcr Fedeoico, Veramente, disse, ra- gionando tra
noi come or facciamo , forse saria male usar quelle parole antiche toscane;
perchè, come voi dite, da- riano fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse, e
non senza ditfìcoltà sarebbono da molli intese. Ma chi scrìvesse, crede- rei
ben io che facesse errore non usandole , perchè dànno molta grazia ed autorità
alle scritture , e da esse risulta una lingua più grave e piena di maestà che
dalle moderne. — Non so, rispose il Conte, che grazia o autorità possan dar
alle scritture quelle parole che si deono fuggire , non sola- mente nel modo
del parlare, come or noi facciamo ( il che voi stesso confessate), ma ancor in
ogni altro che imagìnar si possa. Chè se a qualsivoglia nomo di buon giudicio
occor- resse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che
è il capo di Toscana, ovver parlar privata- mente con persona di grado in
quella città di negozii im- portanti, o ancor con chi fosse dimcslichissimo di
cose pia- cevoli , con donne o cavalieri d’amore, o burlando o scher- zando in
feste, giochi, odove si sia, oin qualsivoglia tempo, loco o proposito, son
certo che si guarderebbe d’osar quelle parole antiche toscane ; ed usandole ,
oltre al far far beffe di sè, darebbe non poco fastidio a ciascun che lo
ascoltasse. Farmi adunque mollo strana cosa usare nello scrivere per buone
quelle parole, che si fuggono per viziose in ogni sorte di parlare; e voler che
quello che mai non si conviene nel parlare, sia il più conveniente modo che
usar si possa nello scrivere. Chè pur, secondo me, la scrittura non è altro che
una forma di parlare, che resta ancor poi che l’ uomo ha parlato, e quasi una
imagine o più presto vita delle parole: e però nel parlare , il qual, subito
uscita che ò la voce , si disperde, son forse tolerabili alcune cose che non
sono nello scrivere; perchè la scrittura conserva le parole , e le sotto- pone
al giudicio di chi_ legge , c dà tempo di considerarle maturamente. E perciò è
ragionevole che in questa si metta Digitized by Googte
iO IL CORTEGIANO. maggior diligenza, per farla
più colla e castigala; non però di modo, che le parole scritte siano dissimili
dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle più belle che s’ usano nel
parlare. E se nello scrivere fosse licito quello che non è licito nel parlare,
ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandissimo: che è, che più licenza
usar si poria in quella cosa nella qual si dee usar più studio ; e la industria
che si mette nello scrivere, in loco di giovar, nocerebbe. Però certo è, che
quello che si conviene nello scrivere, si convien ancor nel parlare; e quel
parlar è bellissimo, che è simile ai scritti belli. Estimo ancora, che molto
più sia necessario Tes- ser inteso nello scrivere, che nel parlare ; perchè
quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, co- me quelli
che parlano a quelli che parlano. Però io laudarei che l’uomo, oltre al fuggir
molte parole antiche toscane, s’assicurasse ancor d’usare, e scrivendo e
parlando, quelle che oggidì sono in consuetudine in Toscana e negli altri lo-
chi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronun- cia. E parrai che
chi s’ impone altra legge, non sia ben si- curo di non incorrere in quella
affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo.,— XXX. Allora
messer Federico, Signor Conte, disse, io non posso negarvi che la scrittura non
sia un modo di par- lare. Dico ben, che se le parole che si dicono hanno in sè
qualche oscurità, quel ragionamento non penetra nell’ animo di chi ode, e
passando senza essere inteso, diventa vano: il che non interviene nello
scrivere ; chè se le parole che usa il scrittore portan seco un poco non dirò
di difficoltà, ma d'acutezza recondita, e non cosi nota come quelle che si di-
cono parlando ordinariamente, dànno una certa maggior autorità alla scrittura,
e fanno che ’l lettore va più. ritenuto e sopra di sè, e meglio considera, e si
diletta dello ingegno e dottrina di chi scrive; e col buon giudici o
affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s’ ha nel co nseguir le cose
diflìcili. E se la ignoranza di chi legge è tanta, che non possa superar quelle
difficoltà, non è la colpa dello scrittore, nò per questo si dee stimar che
quella lingua non sìa bella. Però, nello scrivere credo io che si convenga usar
le parole Digilized by Googk . LIBHO PRIMO.
41 toscane, e solamente le usate dagli antichi Toscani;
perchè quello è gran testimonio ed approvato dal tempo che sian buone, e
significative di quello perché si dicono ; ed oltra questo, hanno quella grazia
e venerazion che l’ antiquità presta non solamente alle parole, ma agli
edificii, alle sta- tue, alle pitture, e ad ogni cosa che è bastante a
conservar- la ; e spesso solamente con quel splendore e dignità, fanno la
elocuzipn bella, dalla virtù della quale ed eleganza ogni subietto, per basso
che egli sia, può esser tanto adornato, che merita somma lande. Ma questa
vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a me par molto pericolosa, e
spesso può esser mala; e se qualche vizio di parlar si ritrova esser invalso in
molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regola, ed
esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le consuetudini sono molto varie,
nè è città nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte r
altre. Però non vi ristringendo voi a dichiarir qual sia la migliore, potrebbe
l’ uomo attaccarsi alla bergamasca cosi come alla fiorentina, e secondo voi non
sarebbe error alcu- no. Parmi adunque, che a chi vuol fuggir ogni dubio ed es-
ser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento
dì tutti sia estimato buono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi
volesse riprendere : e questo (nel volgar dico) non penso che abbia da esser
altro che il Petrarca e ’l Boccaccio ; e chi da questi dui si disco- sta, va
tentoni, come chi cammina per le tenebre senza lu- me, e però spesso erra la
strada. Ma noi altri siamo tanto arditi, che non degnamo di far quello che
hanno fatto i buoni antichi; cioè attendere alla imitazione, senza la quale
estimo io che non si possa scriver bene. E gran testimonio di questo parmi che
ci dimostri Virgilio; il quale, benché con quello ingegno e giudicio tanto
divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar
lui, volse però imitar Omero. — XXXI. Allor il signor Gaspar Pallavicino,
Questa dis- putazion, disse, dello scrivere, in vero è ben degna d’esser udita:
nientedimeno, più farebbe al proposito nostro se voi c’ insegnaste di che modo
debba parlar il Cortegiano, perché 4 * Digitized by
Google 42 IL CORTEGIANO. panni che n’
abliia maggior bisogno, e pki spesso gli occórra il servirsi del parlare che
dello scrivere. — Rispose il Ma- gnifico: Anzi a Cortegiano tanto eccellente e
cosi perfetto, non è dubio che l’ uno e l’altro è necessario a sapere, e che
senza queste due condizioni forse tutte l’ altre sariano non molto degne di
laude: però, se il Conte vorrà satisfare al de- bito suo, insegnerà al
Cortegiano non solamente il parlare, ma ancor il scriver bene. — Allor il
Conte, Signor Magnifi- co, disse, questa impresa non accettarò io già: chè gran
sciocchezza saria la mia voler insegnare ad altri quello che io non so; e,
quando ancor lo sapessi, pensar di poter fare in cosi poche parole quello, che
con tanto studio e fatica hanno fatto appena uomini dottissimi ; ai scritti de’
quali ri- metterei il nostro Cortegiano, se pur fossi obligato d’ inse- gnargli
a scrivere e parlare. — Disse messer Cesare : Il si- gnor Magnifico intende del
parlare e scriver volgare, e non latino ; però quelle scritture degli uomini
dotti non sono al proposito nostro : ma bisogna che voi diciate circa questo
ciò che ne sapete , chè del resto v’ averemo per escusato. — Io già l’ ho
detto, rispose il Conte; ma, parlandosi della lin- gua toscana, forse più saria
debito del signor Magnifico che d’ alcun altro il darne la sentenza. — Disse il
Magnifico: Io non posso nè debbo ragionevolmente contradir a chi dice che la
lingua toscana sia più bella dell’ altre. È ben vero che molle parole si
ritrovano nel Petrarca e nel Boccaccio, che or son interlasciate dalla
consuetudine d’ oggidì ; e que- ste io, per me, non usarci mai, nè parlando nè
scrivendo; e credo che essi ancor, se insin a qui vivuli fossero, non le
usarebbon più. — Disse allor messer Federico: Anzi le usa- rebbono ; e voi
altri signori Toscani dovreste rinovar la vo- stra lingua, c non lasciarla
perire, come fate; chè ormai si può dire che minor notizia se n’abbia in
Fiorenza, che in molti altri lochi della Italia. — Rispose allor messer Bernar-
do: Queste parole che non s’usano più in Fiorenza, sono restale ne’ contadini,
e, come corrotte e guaste dulia vec- chiezza, sono dai nobili riGulale. —
XXXII. Allora la signora Duchessa, Non usciam, disse, dui primo proposito, e
facciuiu che ’l conte Ludovico in&cgni Digilized by
LIBRO PRIMO. i5 al Corlcgiano il parlare e scriver bene, e sia o
toscano o co- me si voglia. — Rispose il Conte: lo già, Signora, ho detto
quello che ne so ; e tengo che le medesime regole che ser- vono ad insegnar
l’uno, servano ancor ad insegnar l’altro. Ma poiché mel comandate, risponderò
quello che m’occorre a messer Federico, il quale ha diverso parer dal mio; e
forse mi bisognerà ragionar un poco più diffusamente che non si conviene : ma
questo sarà quanto io posso dire. £ prima- mente dico, che, seconda il mio
giudicio, questa nostra lin- gua, che noi chiamiamo volgare, è ancor tenera e
nuova, benché già gran tempo si costumi ; perché, per essere slata la Italia
non solamente vessala e depredata, ma lungamente abitata da’ Barbari, per Io
commercia di quelle nazioni la lingua latina s’é corrotta e guasta, e da quella
corruzione son nate altre lingue; le quai, come i fiumi che dalla cima
dell’Apennino fanno divorzio e scorrono nei due mari, cosi si son esse ancor
divise, ed alcune tinte di latinità perve- nute per diversi cammini quiM ad una
parte e quale all’ al- tra, ed una tinta di barbarie rimasta in Italia. Questa
adun- que é stata tra noi lungamente incomposta e varia, per non aver avuto chi
le abbia posto cura, né in essa scritto, né cercato di darle splendor o grazia
alcuna: pur é poi stata alquanto più colta in Toscana, che negli altri lochi
della Ita- lia ; 0 per questo par che ’l suo fiore insino da que’ primi tempi
qui sia rimaso, per aver servalo quella nazion gentil accenti nella pronunzia,
ed ordine grammaticale in quello che si convien, più che l’altre; ed aver avuti
tre nobili scrit- tori, i quali ingeniosamente, e con quelle parole e termini
che usava la consuetudine de’ loro tempi, hanno espresso i lor concetti: il che
più felicemente che agli altri, al parer mio, é successo al Petrarca nelle cose
amorose. Nascendo poi di tempo in tempo, non solamente in Toscana ma in tutta
la Italia, tra gli uomini nobili e versati nelle corti e ncH’arme e nelle
lettere qualche studio di parlare e scrivere più elegantemente, che non si
faceva in quella prima età rozza ed incolta, quando lo incendio delle calamità
nate da’ Barbari non era ancor sedato: sonsi lasciate molte paro- le, cosi
nella città piopria di Fiorenza ed in tutta la Tosca- Digitized by
Google u IL COUTEGIANO. na, come nel resto
della Italia, ed in loco di quelle riprese deir altre, e fattosi in questo
quella mutazion che si fa in tulle le cose umane : il che è intervenuto sempre
ancor delle altre lingue. Che se quelle prime scritture antiche la- tine
fossero durate insino ad ora, vederemmo che altra- mente parlavano Evandro e
Turno e gli altri latini di que’ tempi, che non fecero poi gli ultimi re romani
e i primi consoli. Eccovi che i versi che cantavano i Salii a pena erano dai
posteri intesi ; ma essendo di quel modo dai primi institutori ordinali, non si
mutavano per riverenza della religione. Cosi successivamente gli oratori e i
poeti an- darono lasciando molle parole usate dai loro antecessori ; chè
Antonio, Crasso, Ortensio, Cicerone fuggivano molte di quelle di Catone, e
Virgilio molle d’ Ennio; e cosi fecero gli altri : che ancor che avessero
riverenza aH’antiquità, non la cslimavan però tanto, che volessero averle
quella obbliga- zion che voi volete che ora le abbiam noi; anzi, dove lor pa- rca,
la biasimavano : come Orazio, che dice che i suoi anti- chi aveano scioccamente
laudalo Plauto, e vuol poter acqui- stare nuove parole. E Cicerone in molli
lochi riprende molli suoi antecessori ; e per biasimare Sergio Galba, afferma
che le orazioni sue aveano dell’ antico ; e dice che Ennio ancor sprezzò in
alcune cose i suoi antecessori : di modo che, se noi vorremo imitar gli
antichi, non gl’ imitaremo. E Virgi- lio, che voi dite che imitò Omero, non lo
imitò nella lingua. XXXIII. Io adunque queste parole antiché, quanto per
me, fuggirei sempre d’usare, eccetto però che in certi lo- chi, ed in questi
ancor rare volte ; e parmi che chi altri- menti le usa, faccia errore, non meno
che chi volesse, per imitar gli antichi, nutrirsi ancora di ghiande, essendosi
già trovala copia di grano. E perchè voi dite che le parole anti- che,
solamente con quel splendore d’antichità, adornan tanto ogni subiello, per
basso che egli sia, che possono farlo degno di molta laude : io dico, che non
solamente di queste parole antiche, ma nè ancor delle buone faccio tanto caso,
ch’estimi debbano senza ’l suco delle belle sentenze esser prezzale
ragionevolmente ; perchè il dividere le sentenze dalle jiarole è un divider
l’anima dal corpo : la qual cosa nè Digitized by Google
LIBRO PRIMO. 45 nell’ uno nè nell’ altro senza
distruzione far si può. Quello adunque che principalmente importa ed è
necessario al Cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il
sapere • perchè chi non sa, e nell’ animo non ha cosa che ineriti esser intesa,
non può nè dirla nè scriverla. Appres- so, bisogna dispor con bell’ordine
quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole; le q«al«,
» non m’inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma
sopra lutto usale ancor dal popolo ; per- chè quelle medesime fanno la
grandezza e pompa dell ora- zione, se colui che parla ha buon giudicio e
diligenza, e sa pigliar le più significative di ciò che vuol dire, ed
inalzarle, c come cera formandole ad arbitrio suo collocarle in tal parte e con
tal ordine, che al primo aspetto mostrino e fac- cian conoscere la dignità e
splendor suo, come tavole di pittura poste al suo buono e naturai lume. E
questo cosi dico dello scrivere, come del parlare : al qual però si richiedono
alcune cose che non son necessarie nello scrivere; come la voce buona, non
troppo sottile o molle come di femina, nè ancor tanto austera ed orrida che
abbia del rustico, ma so- nora, chiara, soave e ben composta, con la pronunzia
espe- dita, e coi modi e gesti convenienti ; li quali, al parer mio, consistono
in certi movimenti di tutto ’l corpo, non affettati nè violenti, ma temperali
con un volto accommodalo, e con un mover d’ occhi che dia grazia e s’ accordi
con le parole, e più che si può significhi ancor coi gesti la intenzione ed
affetto di colui che parla. Ma tulle queste cose sarian vane e di poco momento,
se le sentenze espresse dalle parole non fossero belle, ingegnose, acute,
eleganti e gravi, secondo 1 bisogno. — XXXIV. Dubito, disse allora il
signor Morello, che se questo Cortegiano parlerà con tanta eleganza e gravità,
fra noi si trovaranno di quei che non lo intenderanno. Anzi da ognuno sarà
inteso, rispose il Conte, perchè la facilità non impedisce la eleganza. Nè io
voglio eh’ egli parli sem- pre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di
motti c di burle, secondo il tempo; del tutto {wrò sensatamente, c con
pioiilezza e coiiia non confusa ; nè mostri in parte al- TSa'by
Coogic 46 IL CORTEGIANO. cuna
vanità o sciocchezza paerìle. E quando poi parlerà dì cosa oscura o dilBcile,
voglio che e con le parole e con le sentenze ben distinte esplichi sottilmente
la intenzion sua, ed ogni ambiguità faccia chiara e piana con un certo modo
diligente senza molestia. Medesimamente, dove occorrerà, sappia parlar con
dignità e veemenza , e concitar quegli af- fetti che hanno in sè gli animi
nostri , ed accenderli o mo- verli secondo il bisogno; talor con una semplicità
di quel candore, che fa parer che la natura istessa parli, intenerir- gli, c
quasi inebbriargli di dolcezza, e con tal facilità, che chi ode estimi eh’ egli
ancor con pochissima fatica potrebbe conseguir quel grado, e quando ne fa la
prova se gli trovi lontanissimo. Io vorrei che ’l nostro Cortegiano parlasse e
scrivesse di tal maniera; e non solamente pigliasse parole splendide ed
eleganti d’ogni parte della Italia, ma ancor lauderei che talor usasse alcuni
di quei termini e franzesi e spagnoli, che già sono dalla consuetudine nostra
accettati. Però a me non dispiacerebbe che, occorrendogli, dicesse primor;
dicesse accertare, avventurare; dicesse ripassare una persona con ragionamento,
volendo intendere riconoscerla e trattarla per averne perfetta notizia ;
dicesse «n cavalier senza rimproccio, attilato, creato d' un principe, ed altri
tal termini, pur che sperasse esser inteso. Talor vorrei che pi- gliasse alcune
parole in altra signiheazione che la lor pro- pria; e, traportandole a
proposito, quasi le inserisse come rampollo d’ albero in piA felice tronco, per
farle più vaghe e belle, e quasi per accostar le cose al senso degli occhi pro-
pri!, e, come si dice, farle toccar con mano, con diletto di chi ode o legge.
Nè vorrei che temesse formarne ancor di nuove, e con nuove hgure di dire,
dedocendole con bel modo dai Latini, come già .i Latini le deducevano dai
Greci. XXXV. Se adunque degli nomini litterati e di buon in- gegno e
giudicio, che oggidì tra noi si ritrovano, fossero al- cuni, li quali ponessino
cura di scrivere del modo che s’ è detto in questa lingua cose degne d’ esser
lette, tosto la ve- deressimo colla ed abondante di termini c di belle Rgure, e
capace che in essa si scrivesse cosi bene come in qualsivo- LIBRO
PRIMO. 47 glia altra; c so ella non fosse para toscana
antica, sarebbe italiana, commane, copiosa e varia, e qaasi come an deli- zioso
giardino pien di diversi fiori e fratti. Nè sarebbe que- sto cosa nuova ;
perchè, delle quattro lingue che aveano in consuetudine i scrittori greci,
eleggendo da ciascuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano
nascere un’ altra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un sol nome
chiamavano lingua greca ; e benché la ateniese fosse elegante, pura e faconda
più che l’ altre, i buoni scrit- tori che non erano di nazion Ateniesi non la
affettavan tan- to, che nel modo dello scrivere, e quasi all’odore e proprietà
del suo naturai parlare, non fossero conosciuti : nè per que- sto però erano
sprezzati ; anzi quei che volevan parer troppo Ateniesi, ne rapportavan
biasimo. Tra i scrittori latini ancor furono in prezzo a’ suoi di molti non
Romani, benché in essi non si vedesse quella purità propria della lingua roma-
na, che rare volte possono acquistar quei che son d’altra na- zione. Già non fu
rifiutato Tito Livio, ancora che colui di- cesse aver trovato in esso la
patavinità, nè Virgilio, per es- ser stato ripreso che non parlava romano; e,
come sapete, furono ancor Ietti ed estimati in Roma molti scrittori di na-
zione Barbari. Ma noi, molto più severi che gli antichi, im- ponemo a noi
stessi certe nuove leggi fuor di proposito ; ed avendo inanzi agli occhi le
strade battute, cerchiamo andar per diverticoli: perchè nella nostra lingua
propria, della quale, come di tutte l’ altre, 1’ officio è esprimer bene e
chiaramente i concetti dell’ animo, ci dilettiamo della oscu- rità ; e,
chiamandola lingua volgare, volemo in essa usar pa- role che non solamente non
son dal volgo, ma nè ancor da- gli uomini nobili e litterati intese, nè più si
usano in parte alcuna ; senza aver rispetto, che tutti i buoni antichi biasi-
mano le parole rifiutate dalla consuetudine. La qual voi, al parer mio, non
conoscete bene ; perchè dite, se qualche vizio di parlare è invalso in molti
ignoranti, non pèr questo si dee chiamar consuetudine, nè esser accettato per
una re- gola di parlare; o, secondo che altre volte vi ho udito dire, volete
poi, che in loco di CapiloUo si dica Campidoglio; per Jeronimo, Girolamo;
aldace per audace; e per patrone, podro- DigtfTzed by Googic
48 IL CORTEGIANO. n«, ed altre lai parole
corrotte e guaste; perchè cosi si tro- van scritte da qualche antico Toscano
ignorante, e perché cosi dicono oggidì i contadini toscani. La buona
consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli uomini che hanno
ingegno, e che con la dottrina ed esperienza s’ hanno guadagnato il buon
gindicio, e con quello concorrono e con- sentono ad accettar lé parole che lor
pajon budnc, le quali si conoscono per un certo gindicio naturale, e non per
arto o regola alcuna. Non sapete voi, che le figure del parlare, le qnai dànno
tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni delle regole
grammaticali, ma accettate e confermate dalla usanza, perchè, senza poterne
render altra ragione, pia- cene, ed al senso proprio dell’ orecchia par che
portino soa- vità e dolcezza? E questa credo io che sia la buona consue-
tudine; delia quale cosi possono essere capaci i Romani, i Napoletani, i
Lombardi e gli altri, come i Toscani. \X\VI. È ben vero, che in ogni
lingua alcune cose sono sempre buone: come la facilità, il bell’ordine, l’abon-
danza, le belle sentenze, le clausole numerose; e, per con- trario, r
affettazione e l’ altre cose opposite a queste son ma- le. Ma delle parole son
alcune che durano buone un tempo, poi s’invecchiano ed in tutto perdono la
grazia; altre pigliai! forza e vengono in prezzo: perchè, come le stagioni del-
r anno spogliano de’ fiori e de’ frutti la terra, e poi di nuovo d’ altri la
rivestono, cosi il tempo quelle prime parole fa ca- dere, e Taso altre di nuovo
fa rinascere, e dà lor grazia c dignità, fin che, dall’invidioso morso del
tempo a poco a poco consumate, giungono poi esse ancora alla lor morte ;
perciocché, al fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale. Con- siderate che
della lingua Osca non avemo più notizia alcuna. La provenzale, che pur mo, si
può dir, era celebrata da no- bili scrittori, ora dagli abitanti di quel paese
non è intesa. Penso io adunque, come ben ha detto il signor Magnifico, che se
’l Petrarca e ’l Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non nsariano molte
parole che vedemo ne’ loro scritti : però non mi par bene che noi quelle
imitiamo. Laudo ben som- mamente coloro che sanno imitar quello che si dee
imitare; nientedimeno non credo io già che sia impossibile scriver
uy Cuoiai LIBRO PRIMO. 49 bene ancor
senza imitare ; e massimamente in questa nostra lingua, nella quale possiam
esser dalla consuetudine ajutatì: il che non ardirei dir nella latina. —
XXXVII. Allor messer Federico, Perchè volete voi, disse, che più s’estimi la
consuetudine nella volgare che nella latina? — Anzi, dell’ una e dell’altra,
rispose il Conte, estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perchè* que-
gli uomini, ai quali la lingua latina era cosi propria come or è a noi la
volgare, non sono più al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo
quello che essi aveano impa- rato dalla consuetudine; nè altro vuol dir il
parlar antico, che la consuetudine antica di parlare: e sciocca cosa sarebbe
amar il parlar antico non per altro, che per voler più presto parlare come si
parlava, che come si parla. — Dunque, ri- spose messer Federico, gli antichi
non imitavano?— Credo, disse il Conte, che molti imitavano, ma non in ogni
cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli saria passato
inanzi; nè Cicerone a Crasso, nè Ennio ai suoi an- tecessori. Eccovi che Omero
è tanto antico, che da molti si crede che egli cosi sia il primo poeta eroico
di tempo, come ancor è d’ eccellenza di dire : e chi vorrete voi che egli imi-
tasse? — Un altro, rispose messer Federico, più antico di lui, del quale non
avemo notizia per la troppa antiquità. — Chi direte adunque, disse il Conte,
che imitasse il Petrarca e ’l Boccaccio, che pur tre giorni ha, si può dir, che
son stati al mondo? — Io noi so, rispose messer Federico; ma creder si può che
essi ancor avessero l’ animo indrizzato alla imi- tazione, benché noi non
sappiam di cui. — Rispose il Conte: Creder si può che que’ che erano imitati
fossero migliori che que’ che imitavano ; e troppo maraviglia saria che così
pre- sto il lor nome e la fama, se erano buoni, fosse in tutto spenta. Ma il
lor vero maestro cred’io che fosse l’ingegno, ed il lor proprio gindicio
naturale; e di questo ninno è che si debba maravigliare, perchè quasi sempre
per diverse vie si può tendere alla sommità d’ ogni eccellenza. Nè è natura
alcuna che non abbia in sè molle cose della medesima sorte dissimili runa dall’
altra, le quali però son Ira .sè di egual laude degne. Vedete la musica, le
armonie della quale or son 5 --*■ A Digitized by
Google 50 IL CORTEGIANU. gravi c (arde, or
velocissime e di novi modi e vie ; niente- dimeno (ulte dilettano, ma per
diverse cause : come si com- prende nella maniera del cantare di Bidon; la
quale è tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata, e di cosi varie me-
lodie, che i spiriti di chi ode tutti si commoveno e s’inGam- mano, e cosi
sospesi par che si levino insino al ciclo. Né mem commove nel suo cantar il
nostro Marchetto Cara, ma con più molle armonia ; chè per una via placida e
piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime, imprimendo in esse
soavemente una dilettevole passione. Varie cose an- cor egualmente piacciono
agli occhi nostri, tanto che con diflìcoltà giudicar si può quai più lor son
grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Man-
(egna, Rafacllo, Michelangelo, Georgio da Castelfranco : nientedimeno, tutti
son tra sé nel far dissimili; di modo che ad alcun di loro non par che manchi
cosa alcuna in quella maniera, perchè si conosce ciascun nel suo stil esser
perfet- tissimo. Il medesimo ò di molti poeti greci c latini, i quali, diversi
nello scrivere, son pari nella laude. Gli oratori ancor hanno avuto sempre
tanta diversità tra sé, che quasi ogni età ha prodotto ed apprezzato una sorte
d’ oratori peculiar di quel tempo ; i quali non solamente dai precessori e suc-
cessori suoi, ma tra sé son stati dissimili: come si scrive ne’ Greci, d’
Isocrate, Lisia, Eschinc^ e molt’ altri, tutti ec- cellenti, ma a niun |)cró
simili fuor che a sé stessi. Tra i La- tini poi quei Carbone, Lelio, Scipione
Africano, Galba, Sul- pizio, Cotta, Gracco, Marc’ Antonio, Crasso, e tanti che
saria lungo nominare, tutti buoni, e l’un dall’ altro diversissimi; di modo che
chi potesse considerar tutti gli oratori che sono stati al mondo, quanti
oratori tanto sorti di dire trovarebbe. Farmi ancor ricordare che Cicerone in
un loco introduca Marc’Antonio dir a Sulpizio, che molti sono i quali non imi-
tano alcuno, e nientedimeno pervengono al sommo grado della eccellenza ; e
parla di certi, i quali aveauo introdotto una nova forma e figura di dir,
bella, ma inusitata agli altri oratori di quel tempo, nella quale non imilavano
se non sé stessi : però aflcrma ancor che i maestri debbano conside- rar la
natura dei discepoli, e, quella tenendo per guida, in- Digitizi^d
bv Gno^Ic LIBRO PRIMO. 51 drizzarli ed
ajutargli alla via che lo ingegno loro e la natu- rai disposizion gl’ inclina.
Per questo adunque, messer Fede- rico mio, credo, se l’ uomo da sè non ha
convenienza con qualsivoglia autore, non sia ben sforzarlo a quella imitazio-
ne ; perchè la virtù di quell’ ingegno s’ ammorza e resta im- pedita, per
-esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non gli
fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d’ arricchir questa lingua
e darli spi- rilo, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura, e
cercare di metterla in tante angustie, che ognuno sia sfor- zato ad imitare
solamente il Petrarca e ’l Boccaccio ; e che nella lingua non si debba ancor
credere al Poliziano , a Lo- renzo de' Medici, a Francesco Diaceto, e ad alcuni
altri che pur sono Toscani , e forse di non minor dottrina e gindicio che si
fosse il Petrarca e '1 Boccaccio. E veramente, gran miseria saria mejlter fine
e non passar più avanti di quello che s’ abbia fatto quasi il primo che ha
scritto, e disperarsi che tanti e cosi nobili ingegni possano mai trovar più
che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi è pro- pria e
naturale. Ma oggidì son certi scrupolosi, i quali, quasi con una religion e
misterii ineffabili di questa lor lingua to- scana, spaventano di modo chi gli
ascolta, che inducono an- cor molli uomini nobili e lilterati in tanta
timidità, che non osano aprir la bocca, e confessano di non saper parlar quella
lingua, che hanno imparata dalle nutrici inaino nelle fasce. Ma di questo parmi
che abbiam detto pur troppo; però seguitiamo ormai il ragionamento del
Cortegiano. — XXXVIII. Allora messer Fedkbigo rispose: Io voglio pur
ancor dir questo poco, che è, eh’ io già non niego che le opi- nioni e gli
ingegni degli uomini non siano diversi tra sè; nè credo che ben fosse che uno,
da natura veemente e concitato, si mettesse a scriver cose placide; nè meno un
altro severo c grave, a scriver piacevolezze: perchè in questo parmi ra- gionevole
che ognuno s’ accommodi allo instinto suo proprio. E di ciò, credo, parlava
Cicerone quando disse, che i maestri avessero riguardo alla natura dei
discepoli, per non far come i mali agricoltori, che talor nel terreno che
solamenre è fruttifero per le vigne vogliono seminar grano. Ma a me non
Digitized by Google 52 IL CORTEGIANO.
può capir nella testa, che d’nna lingua particolare, la quale non è a
tutti gli uomini cosi propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre
operazioni, ma una invenzione conte- nuta sotto certi termini , non sia più
ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso; e che, così
come nel latino l’ nomo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio
e di Cicerone, piuttosto che a quella di Silio o di Cornelio Tacito, cosi nel
volgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d’ alcun
altro; ma ben in essa esprimere i suoi propri! concetti, ed in questo attende-
re, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale: e cosi si troverà, che
quella differenza che voi dite essere tra i buoni oratori, consiste nei sensi,
e non nella lingua.— Allor il Conte, Dubito, disse, che noi entreremo in un
gran pe- lago, e lasciaremo il nostro primo proposito del Cortcgiano. Por
domando a voi: in che consiste la bontà di questa lin- gua? — Rispose messer
Fedebico: Nel servar ben le pro- prietà di essa, e tòrla in quella
significazione , usando quello stile e que’ numeri, che hanno fatto tutti quei
che hanno scritto bene. Vorrei, disse il Conte, sapere se questo stile e questi
numeri di che voi pariate, nascono dalle sentenze o dalle parole. — Dalle
parole, rispose messer Fedebico. Adunque, disse il Conte, a voi non par
che le parole di Silio e di Cornelio Tacito siano quelle medesime che usa - Virgilio
e Cicerone? nè tolte nella medesima significazione? — Rispose messer Fedebico:
Le medesime son si, ma alcune mal osservate e tolte diversamente. — Rispose il
Conte: E se d’ un libro di Cornelio e d’un di Silio si levassero tutte quelle '
parole che son poste in altra significazion di quello che ’ fa Virgilio e
Cicerone, che sariano pochissime: non direste voi poi, che Cornelio nella
lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? e che ben fosse imitar quella
maniera di dire? — XXXIX. Allora la signora Emiliì, A me par, disse, che
questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa ; però fia bene a
differirla ad un altro tempo. — Messer Fede- rico pur incominciava a
rispondere; ma sempre la signora Emilia lo interrompeva. In ultimo disse il Conte:
Molli vo- LIBRO PRIMO. 55 sliono giudicare
i sUii e parlar de’ numeri e della imitazione; ma a me non sanno già essi dare
ad intendere che cosa sia stile nè numero, nè in che consista la imitazione, nè
perchè le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio,
che più presto pajono illustrate che imitate: e ciò forse procede ch’io non son
capace d’ intendergli. Ma perchè grande argomento che l’ uom sappia una cosa è
il sa- perla insegnare, dubito che essi ancora poco la intendano; e che e
Virgilio e Cicerone laudino perchè sentono che da molti son laudali , non
perchè conoscono la differenza che è tra essi e gli altri: chè in vero non
consiste in avere una osservazione di due, di tre o di dieci parole usate a
modo diverso dagli altri. In Saluslio, in Cesare, in Varrone e negli altri
buoni si trovano usati alcuni termini diversamente da (luello che usa Cicerone;
e pur l’ uno e l’ altro sta bene, per- chè in cosi frivola cosa non è posta la
bontà e forza d’ una lingua: come ben disse Demostene ad Eschine, che lo mor-
deva, domandandogli d’ alcune parole le quali egli aveva usate, e pur non erano
attiche, se erano mostri o portenti; e Demostene se ne rise, e risposegU , che
in questo non con- sistevano le fortune di Grecia. Cosi io ancora poco mi cura-
rci se dà un Toscano fossi ripreso d’ aver detto piuttosto so- tis fatto che
sodisfatto, ed onorewle che orrevole, e causa che cagione, e populo che popolo,
ed altre tai cose. Allor mes- se r Fedbbico si levò in piè, e disse: Ascoltatemi,
prego, queste poche parole. — Rispose, ridendo, la signora Emilia: Pena la
disgrazia mia a qual di voi per ora parla più di que- sta materia , perchè
voglio che la rimettiamo ad un’ altra sera. Ma voi. Conte, seguitate il
ragionamento del Corte- giano ; e mostrateci come avete buona memoria, chè,
credo, se saprete ritaccarlo ove lo lasciaste, non farete poco. — XL. Signora,
rispose il Coste, il filo mi par tronco: pur, s’ io non m’inganno, credo che
dicevamo, che somma disgrazia a tulle le cose dà sempre la pestifera
affettazione, e per contrario grazia estrema la semplicità e la sprezzalura: a
laude della quale, o biasimo della affettazione, molte altre cose ragionar si
potrebbono; ma io una sola ancor dir no voglio, e non più. Gran desiderio
universalmente lengon sìiaitiz I Googie
5-i IL CORTEGIANO. tulle le donne di essere, e, quando
esser non possono, aimcn di parer belle: perù, dove la natura in qualche parte
in questo è mancala, esse si sforzano di supplir con l’ artiGcio. Quindi nasce
l’ acconciarsi la faccia con tanto studio e talor pena , I>elarsi le ciglia
e la fronte, ed usar tutti que’ modi e patire que’ fastidii, che voi altre
donne credete che agli uomini siano molto secreti, e pur tutti si sanno. — Rise
quivi Ma- donna Costanza Fbegosa, e disse: Voi fareste assai più cor- tesemente
seguitar il ragionamento vostro, e dir onde nasca la buona grazia, e parlar
della Corlegiania, che voler scoprir i difetti delle donne senza proposito. —
Anzi mollo a propo- sito, rispose il Conte; perchè questi vostri difetti di che
io parlo vi levano la grazia, perchè d’altro non nascono che da affettazione,
per la qual fate conoscere ad ognuno scoperta- mente il troppo desiderio vostro
d’ esser belle. Non v’accor- gete voi, quanto più di grazia tenga una donna, la
qual, se pur si acconcia, Io fa cosi parcamente e cosi poco, che chi la vede
sta in dubio s’ella è concia o no; che un’altra, em- piaslrala tanto, che paja
aversi posto alla faccia una masche- ra, e non osi ridere per non farsela
crepare , nè si muti mai di colore se non quando la mattina si veste; e poi
tutto il remanenle del giorno stia come statua di legno immobile, comparendo
solamente a lume di lorze, come mostrano i cauli mercatanti i lor panni in loco
oscuro? Quanto più poi di tulle piace una, dico non brutta, che si conosca
chiara- mente non aver cosa alcuna in su la faccia, benché non sia cosi bianca
nò cosi rossa, ma col suo color nativo pallidelta, e talor per vergogna o per
altro accidente tinta d’ un inge- nuo rossore, coi capelli a caso inornati e
mal composti, e coi gesti semplici e naturali, senza mostrar industria nè
studio d’ esser bella? Questa è quella sprezzata purità gratissima agli occhi
ed agli animi umani, i quali sempre temono essere dall’ arte ingannali.
Piacciono multo in una donna i bei denti, |)erchè non essendo cosi scoperti
come la faccia , ma per lo più del tempo stando nascosi, creder si può che non
vi si ponga tanta cura per fargli belli, come nel volto: pur citi ridesse senza
proposito e solamente per mostrargli, scoprirla r urte, c benché belli gli
avesse, a tutti parerla disgraziatis- Digitized by CoogI‘
LIBRO PRIMO. 55 sìmo, come lo Egnazio Catulliano.
11 medesimo è delle mani; le quali, se delicate e belle sono, mostrate ignude a
tempo, secondo che occorre operarle, e non per far veder la lor bel- lezza,
lasciano di sè grandissimo desiderio, e massimamente revestite di guanti;
perchè par che chi le ricopre non curie non estimi molto che siano vedute o no,
ma cosi belle lo ab- bia più per natura che per studio o diligenza alcuna.
Avete voi posto cura talor, quando, o per le strade andando alle chiese o ad
altro loco, o giocando o per altra causa, accade che una donna tanto della roba
si leva, che il piede e spesso un poco di gambetta senza pensarvi mostra? non
vi pare che grandissima grazia tenga, se ivi si vede con una certa don- nesca
disposizione leggiadra ed altilata nei suoi chiapinetti di velluto, e calze
polite? Certo a me piace egli molto, e credo a tutti voi altri, perchè ognuno
estima che la attila- tura in parte cosi nascosa e rare volte veduta, sia a
quella donna piuttosto naturale e propria che sforzata, e che ella di ciò non
pensi acquistar laude alcuna. XLI. In tal modo si fugge e nasconde l’
affettazione, la qual or potete comprender quanto sia contraria, e levi la
grazia d’ ogni operazion cosi del corpo come dell’ animo: del quale per ancor
poco avemo parlato, nè bisogna però la- sciarlo; chè si come l’ animo più degno
è assai che ’l corpo, cosi ancor merita esser più culto e più ornato. ■£ ciò
come far si debba nel nostro Cortegiano, lasciando li precetti di tanti savii
filosoG che di questa materia scrivono, e difGni- scono le virtù dell’animo, e
cosi sottilmente disputano della dignità di quelle: diremo in poche parole,
attendendo al no- stro proposito, bastar che egli sia, come si dice, uomo da
bene ed intiero; chè in questo si comprende la prudenza, bontà, fortezza e
temperanza d’animo, e tutte l’altre condi- zioni che a cosi onorato nome si
convengono. Ed io estimo, quel solo esser vero filosofo morale, che vuol esser
buono; ed a ciò gli bisognano pochi altri precetti , che tal volontà. E però
ben dicea Socrate, parergli che gli ammaestramenti suoi già avessino fatto buon
frutto quando per quelli chi si fosse s’ incitava a voler conoscer ed imparar
la virtù : perchè quelli che son giunti a termine che non desiderano cosa
alcuna __.niniiizixJ by Coogle 6G IL
COKTEGIANO. più che l’essere banni, facilmente conseguono la
scienza di lutto quello che a ciò bisogna; però di questo non ragione- remo più
avanti. XLII. Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento deir
animo in ciascuno penso io che siano le lettere: benché i Franzesi solamente
conoscano la nobilità delle arme, e tutto il resto nulla estimino; di modo che,
non solamente non ap- prezzano le lettere, ma le aborriscono; e tutti i
letterati ten- gon per vilissimi uomini ; e pare lor dir gran villania a chi si
sia, quando lo chiamano clero. — Allora il Magnifico Jcluno, Voi dite il vero,
rispose, che questo errore già gran tempo regna tra’ Franzesi; ma se la buona
sorte vuole che monsignor d’Angolem, come si spera, succeda alla corona, estimo
che si come la gloria dell’ arme fiorisce e risplende in Francia , cosi vi
debba ancor con supremo ornamento fiorir quella delle lettere: perchè non è
mollo ch’io, ritrovandomi alla corte, vidi questo signore, e parvemi che, oltre
alla disposizion della persona e bellezza di volto, avesse nell’ aspetto tanta
grandezza, congiunta però con una certa graziosa umanità, che ’l reame di Francia
gli dovesse sempre parer poco. Intesi da poi da molti gentiluomini , e franzesi
ed italiani , assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell’animo,
del va- lore e della liberalità ; e tra l’ altre cose fnmmi detto, che egli
sommamente amava ed estimava le lettere, ed avea in gran- dissima osservanza
tutti e’ litterati; e dannava i Franzesi proprii dell’ esser tanto alieni da
questa professione, avendo massimamente in casa un cosi nobil Studio come è
quello di Parigi, dove tutto il mondo concorre. — Disse allor il Conte : Gran
maraviglia é che in cosi tenera età, solamente per istinto di natura, contra
l’usanza del paese, si sia da sé a sé volto a cosi buon cammino; e perché li
sud- diti sempre seguitano i costumi de’ superiori, può esser che, come voi
dite, i Franzesi siano ancor per estimar le lettere di quella dignità che sono:
il che facilmente, se vorranno intendere, si potrà lor persuadere; perché niuna
cosa più da natura é desiderabile agli uomini né più propria che il sapere; la
qual cosa gran pazzia é dire o credere che non sia sempre buona.
Digitized by Google LIBKO PKIMO. 57
XLIII. E s’io parlassi con essi o con altri che fossino d’opinion
contraria alla mia, mi sforzare! mostrar loro, quanto le lettere, le quali
veramente da Dio son state agli uomini concedute per un supremo dono , siano
utili e necessarie alla vita ed alla dignità nostra ; nè mi mancheriano esempi!
di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero l’orna- mento
delle lettere alla virtù dell’arme. Chè, come sapete, Alessandro ebbe in tanta
venerazione Omero, che la Iliade sempre si teneva a capo del letto ; e non
solamente a questi studi!, ma alle speculazioni Glosofice diede grandissima
opera sotto la disciplina d’ Aristotele. Alcibiade le buone condizioni sue
accrebbe e fece maggiori con le lettere, e con gli ammae- stramenti di Socrate.
Cesare quanta opera desse ai studi!, ancor fanno testimonio quelle cose che da
esso divinamente scritte si ritrovano. Scipione Africano dicesi che mai di mano
non si levava i libri di Senofonte, dove instituisce sotto ’l nome di Ciro un
perfetto re. Potrei dirvi di Lucnllo, di Siila, di Pompeo, di Bruto e di moli’
altri Romani e Greci ; ma so- lamente ricordarò che Annibaie, tanto eccellente
capitano, ma però di natura feroce ed alieno da ogni umanità, infe- dele e
dispregiator degli uomini e degli dei, pur ebbe notizia di lettere e cognizion
della lingua greca ; e, s’io non erro, parmi aver letto già, che esso un libro
por in lingua greca lasciò da sé composto. Ma questo dire a voi è superfluo,
chè ben so io che tutti conoscete quanto s’ingannano i Franzesi pensando che le
lettere nuocciano all’ arme. Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella
guerra il vero stimolo è la gloria; e chi per guadagno o per altra causa a ciò
si move, oltreché mai non fa cosa buona, non merita esser chiamato gentiluomo,
ma vilissimo mercatante. E che la vera gloria sia quella che si commenda al
sacro tesauro delle lettere, ognun può comprendere, eccetto quegli infelici che
gustate non l’hanno. Qual animo è cosi demesso, timido ed umile, che, leggendo
i fatti e le grandezze di Cesare, d'Alessandro, di Scipione, d’ Annibaie e di
tanti altri, non s’infìammi d’ un ardentissimo desiderio d’ esser simile a
quelli, e non posponga questa vita caduca di dui giorni per acquistar quella
famosa quasi perpetua, la quale, a dispetto della O'ifììlizod by
Google 58 IL CORTEGIANO. morte, viver lo
fa più chiaro assai che prima? Ma chi non sente la dolcezza delle lettere,
saper ancor non può quanta sia la grandezza della gloria cosi lungamente da
esse conser- vata, e solamente quella misura con la età d’nn nomo, o di dui,
perchè di più oltre non tien memoria: però quésta breve tanto estimar non può,
quanto faria quella quasi perpetua, se per sua disgrazia non gli fosse velato
il conoscerla ; e non estimandola tanto, ragionevol cosa è ancor credere, che
tanto non si metta a pericolo per conseguirla come chi la conosce. Non vorrei
già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrarii, per riflutar la
mia opinione, allegando- mi , gli Italiani col lor saper lettere aver mostrato
poco valor nell’ arme da un tempo in qua : il che por troppo è più che vero; ma
certo ben si poria dir, la colpa d’alcnni pochi aver dato , oltre al grave
danno , perpetuo biasimo a tutti gli altri ; e la vera causa delle nostre mine
e della virtù prostrata, se non morta, negli animi nostri, esser da quelli
proceduta: ma assai più a noi saria vergognoso il publicarla, che a’ Franzesi
il non saper lettere. Però meglio è passar con silenzio quello che senza dolor
ricordar non si può ; e, fuggendo questo pro- posito, nel quale centra mia
voglia entrato sono, tornar al nostro Cortegiano. XLIV. Il qual voglio
che nelle lettere sia più che me- diocremente erudito, almeno in questi stndii
che chìamamo d’umanità; e non solamente della lingua latina ma ancor della
greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente
scritte sono. Sia versato nei poeti, e non meno negli oratori ed istorici, ed
ancor esercitato nel scriver versi o prosa, massimamente in questa nostra
lingua volgare; chè, oltre al contento che egli stesso pigliarà, per questo
mezzo non gli mancheran mai piacevoli interleni- menti con donne, le quali per
ordinario amano tali cose. £ se, o [)cr altre faccènde o per poco studio, non
giugnerà a tal perfezione che i suoi scritti siano degni di molta lande, sia
cauto in sopprimergli, per non far ridere altra! di sé, e solamente i mostri ad
amico di chi fidar sì possa ; perchè al- meno in tanto li giovaranno, che per
quella esercitazion sa- prà giudicar le cose d’altrui: chè invero rare volte
intervie- LIBRO PRIMO. 59 ne, che chi non è
assueto a scrivere, per erudilo che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le
fatiche ed indastric de’ scrittori , nè gnstar la dolcezza ed eccellenza de’
stili, e quello intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli an* tichi.
Ed oltre a ciò, farànnolo questi stodii copioso, e, come rispose Aristippo a
quel tiranno, ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben perù, che ’l
nostro Cortegiano fisso si tenga nell’animo un precetto; cioè che in questo ed
in ogni altra cosa sia sempre avvertito e timido più presto che audace, e
guardi di non persuadersi falsamente di sapere quello che non sa: perchè da natura
tutti siamo avidi troppo più che non si devria di laude , e più amano le
orecchie no^ stre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro
soavissimo canto o suono; e però spesso, come voci di Sirene, sono causa di
sommergere chi a tal fallace armonia , bene non se le ottura. Conoscendo questo
pericolo, si è ritro- vato tra gli antichi sapienti chi ha scritto libri, in
qual modo possa l’uomo conoscere il vero amico dall’adulatore. Ma que- sto che
giova? se molti, anzi infiniti son quelli che manife- stamente comprendono
esser adulati, e pur. amano chi gli adula, ed hanno in odio chi dice lor il
vero? e spesso paren- dogli che chi landa sia troppo parco in dire, essi
medesimi lo ajutano, e di sè stessi dicono tali cose, che lo impuden- tissimo
adulator se ne vergogna. Lasciamo questi ciechi nel lor errore, c facciamo che
’l nostro Cortegiano sia di cosi buon gìudicio , che non si lasci dar ad
intendere il nero per lo bianco, nè presuma di sè, se non quanto ben
chiaramente conosce esser vero ; e massimamente in quelle cose, che nel suo
gioco, se ben avete a memoria, messer Cesare ricordò che noi più volte avevamo
osate per instromento di far im- pazzir molti. Anzi, per non errar, se ben
conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le consenta cosi aperta-
mente, nè cosi senza contradizione le confermi; ma piutto- sto modestamente
quasi le nieghi, mostrando sempre e te- nendo in efietto |>er sua principal
professione l’arme, e l’ altre buone condizioni tutte per ornamento di quelle;
e massima- mente tra i soldati, per non far come coloro che ne’ studi! voglion
parere uomini di guerra, e tra gli uomini di guerra 60
IL COKTtGlANO. litterati. In questo modo, per le ragioni che
avemo dette, fuggirà r affettazione, e le cose mediocri che farà parranno
grandissime. — XLY. Rispose quivi messer Pietro Bembo: Io non so. Conte,
come voi vogliate che questo Cortegiano, essendo litterato, e con tante altre
virtuose qualità, tenga ogni cosa per ornamento dell’ arme, e non l’ arme e ’l
resto per orna- mento delle lettere ; le quali, senza altra compagnia, tanto
son di dignità all’arme superiori, quanto l’animo al corpo, per appartenere
propriamente la operazion d’ esse all’ ani- mo, cosi come quella delle arme al
corpo. — Rispose allor il Conte: Anzi, all’animo ed al corpo appartiene la
operazion dell’arme. Ma non voglio, messer Pietro, che vói di tal causa siate
giudice, perchè sareste troppo sospetto ad una delle parti : ed essendo già
stata questa disputazione lunga- mente agitata da uomini sapientissimi , non è
bisogno rino- varla ; ma io la tengo per difllnita in favore dell’ arme , e
voglio che ’l nostro Cortegiano , poich’ io posso ad arbitrio mio formarlo,
esso ancor cosi la estimi. E se voi sete di con- trario parer, aspettate d’
udirne una disputazion, nella qnal cosi sia licito a chi difende la ragion
dell’ arme operar l’ ar- me, come quelli che difendon le lettere oprano in tal
difesa le medesime lettere ; chè se ognuno si vaierà de’ suoi iiistru- menti,
vedrete che i litterati perderanno. — Ah, disse mes- ser Pietro; voi dianzi
avete dannati i Franzesi che poco ap- prezzan le lettere, e detto quanto lume
di gloria esse mo- strano agli uomini, e come gli facciano immortali; ed or
pare che abbiate mutala sentenza. Non vi ricorda, che Giunto Alessandro
alla famosa tomba Del fero Achille, sospirando disse : 0 fortunato, che
si chiara tromba Trovasti, e chi di te si alto scrisse! E se Alessandro
ebbe invidia ad Achille non de’ suoi fatti, ma della fortuna che prestalo gli
avea tanta felicità che le cose sue fosseno celebrate da Omero, comprender si
può che estimasse più le lettere d’ Omero, che l’arme d’Achille. Qual altro
giudice adunque o qual’ altra sentenza aspettate voi Digitized by
Google f LlllKO HilMO. 61 della dignità dell’
arme e delle lettere, che quella che fu data da un de’ più gran capitani che
mai sia stato? — XLYI. Rispose allora il Contk: Io biasimo i Franzesi che
estiman le lettere nuocere alla profession dell’ arme, e tengo che a niun più
si convenga Tesser litlerato che ad un uom di guerra; e queste due condizioni
concatenate, e Tuna dall’ altra ajutate, il che è convenientissimo, voglio che
siano nel nostro Cortegiano : nè per questo parmi esser mutalo d’opinione. Ma,
come ho detto, disputar non voglio qual d’ esse sia più degna di laude. Basta
che i litterati quasi mai non pigliano a laudare, se non uomini grandi e fatti
gloriosi , i quali da sè meritano laude per la propria essenzial virlute donde
nascono; oltre a ciò sono nobilissima materia dei scrittori: il che è grande
ornamento, ed in parte causa di perpetuare i scritti, li quali forse non
sariano tanto letti nè apprezzati se mancasse loro il nobile soggetto, ma vani
e di poco momento. E se Alessandro ebbe invidia ad Achille per esser laudato da
chi fu, non conchiude però questo che esti- masse più le lettere che Tarme;
nelle quali se tanto si fosse conosciuto lontano da Achille , come nel scrivere
estimava che dovessero esser da Omero lutti quelli che di lui fossero per
scrivere , son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in sè, che
il ben dire in altri. Però questa credo io che fosse una tacita laude di sé
stesso, ed un desiderar quello che aver non gli pareva , cioè la suprema
eccellenza d’un scrittore; e non quello che già si presumeva aver con- seguito,
cioè la virtù dell’arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse
superiore : onde chiamollo fortu- nato, quasi accennando, che se la fama sua
per lo innanzi non fosse tanto celebrata al mondo come quella, che era per cosi
divin poema chiara ed illustre, non procedesse perché il valore ed i meriti non
fossero tanti e di tanta laude degni, ma nascesse dalla fortuna, la quale avea
parato inanti ad Achille quel miracolo di natura per gloriosa tromba del- T
opere sue ; e forse ancor volse eccitar qualche nobile in- gegno a scrivere di
sè, mostrando per questo dovergli esser tanto grato, quanto amava e venerava i
sacri monumenti delle lettere: circa le quali ornai s’è parlato a bastanza.
— G Digitized by Google UBUO PRIMO.
ori E ricordomi aver già inteso, che Platone ed Aristotele
vo- gliono che rnom bene institnito sia ancor musico; e con in- finite ragioni
mostrano, la forza della musica in noi essere grandissima, e per molte cause,
che or saria lungo a dir, doversi necessariamente imparar da puerizia; non
tanto per quella superficial melodia che si sente, ma per esser suftì- ciente
ad indur in noi un nuovo abito buono, ed un costume tendente alla virtù, il
qual fa l’ animo più capace di felicità, secondo che lo esercizio corporale fa
il corpo più gagliardo ; c non solamente non nuocere alle cose civili e deUa
guerra, ma loro giovar sommamente. Licurgo ancora, nelle severe sue leggi, la
musica approvò. E leggesi , i Lacedemoni! belli- cosissimi ed i Crelensi aver
usalo nelle battaglie citare ed altri instrumenti molli; e molti
eccellentissimi capitani anti- chi, come Epaminonda, aver dato opera alla
musica; e quelli che non ne sapeano, come Temistocle, esser stati molto meno
apprezzati. Non avete voi letto, che delle prime discipline che insegnò il buon
vecchio Chirone nella tènera eia ad Achille, il qual egli nutrì dallo latte e
dalla culla, fu la musica ; e volse il savio maestro che le mani che aveano a
sparger tanto sangue Irojano, fossero spesso occupate nel suono della cilara ? Qual
soldato adunque sarà che si vergo- gni d’imitar Achille, lasciando molti altri
famosi capitani eh’ io potrei addurre ? Però non vogliate voi privar il nostro
Corlegiano della musica, la qual non solamente gli animi umani indolcisce, ma
spesso le fiere fa diventar mansuete; e chi non la gusta, si può tener certo
che abbia gli spi- riti discordanti l’ un dall’ altro. Eccovi quanto essa può,
che già trasse un pesce a lasciarsi cavalcar da un uomo per mezzo il procelloso
mare. Questa veggiamo operarsi ne’ sa- cri tempii in rendere lande e grazie a
Dio; e credibil cosa è che ella grata a lui sia , ed egli a noi data l’ abbia
per dol- cissimo alleviamento delle fatiche e fastidii nostri. Onde spesso i
duri lavoratori de’ campi sotto l’ ardente solo in- gannano la lor noja col
rozzo ed agreste cantare. Con que- sto la incolta contadinella, che inanzi al
giorno a filare o a tessere si lieva, dal sonno si difende, e la sua fatica fa
pia- cevole ; questo è giocondissimo trastullo dopo le piogge, i
Digitized by Coogte 64 IL CORTEGIANO.
venti e le tempeste ai miseri marinari ; con questo conso- lansi i
stanchi peregrini dei nojosi e lunghi viaggi, e spesso gli afflitti prigioneri
delle catene e ceppi. Cosi, per maggior argomento che d’ ogni fatica e molestia
umana la modula- zione, benché incolta, sia grandissimo refrigerio, pare che la
natura alle nutrici insegnata l’abbia per rimedio precipuo del pianto continuo
de’ teneri fanciulli ; i quali al suon di tal voce s’inducono a riposato e
placido sonno, scordandosi le lacrime cosi proprie, ed a noi per presagio del
rimanente della nostra vita in quella età da natura date. — XLVIII. Or
quivi tacendo un poco il Conte, disse il Magnifico Joluno : Io non son già di
parer conforme al si- gnor Gaspar ; anzi estimo, per le ragioni che voi dite e
per molte altre, esser la musica non solamente ornamento, ma necessaria al
Cortegiano. Vorrei ben che dichiaraste, in qual modo questa e 1’ altre qualità
che voi gli assegnate siano da esser operate, ed a che tempo e con che maniera
: perchè molte cose che da sé meritano laude, spesso con 1’ operarle fuor di
tempo diventano inettissime ; e per contrario, alcune che pajon di poco
momento, usandole bene, sono pregiate assai. — XLIX. Allora il Conte,
Prima che a questo proposito entriamo, voglio, disse, ragionar d’ un’ altra
cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal
nostro Cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata adietro; e questo è
il saper disegnare, ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere. Nè vi
maravigliate s’ io de- sidero questa parte, la qual oggidì forse par mecanica e
poco conveniente a gentiluomo : chè ricordomi aver ietto che gli antichi,
massimamente per tutta Grecia, voleano che i fan- ciulli nobili nelle scole alia
pittura dessero opera, come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta
nel primo grado dell’ arti liberali; poi per publico editto vetato che ai servi
non s’ insegnasse. Presso ai Romani ancor s’ ebbe in onor grandissimo; e da
questa trasse il cognome la casa no- bilissima de’ Fabii, chè il primo Fabio fu
cognominato Pitto- re, per esser in effetto eccellentissimo pittore, e tanto
dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della
LiBno rumo. G5 Salute, gl’ inscrisse il nome suo; parendogli
che, benché fosse nato in una famiglia cosi chiara, ed onorata di tanti ti-
toli di consolati, di trionfi e d’ altre dignità, e fosse litterato e perito
nelle leggi e numerato tra gli oratori, potesse ancor accrescere splendore ed
ornamento alla fama sua lasciando memoria d’ essere stalo pittore. Non
mancarono ancor molli altri di chiare famiglie celebrali in quest’arte; della
qual, olirà che in sé nobilissima e degna sia, si traggon molte uti- lità, e
massimamente nella guerra, per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, ròcche,
fortezze, e tai cose; le quali se ben nella memoria si servassero, il che però
è assai diffìcile, al- trui mostrar non si possono. E veramente, chi non estima
questa arte, parmi che molto sia dalla ragione alieno; chè la machina del
mondo, che noi veggiamo coll’ampio cielo di chiare stelle tanto splendido, e
nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata, e di si
diversi alberi e vaghi fiori e d’ erbe ornata, dir si può che una nobile e gran
pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi può imitare,
parmi esser di gran laude degno: nè a que- sto pervenir si può senza la
cognizion di molle cose, come ben sa chi lo prova. Però gli antichi e l’ arte e
gli artefici aveano in grandissimo pregio , onde pervenne in colmo di somma
eccellenza : e di ciò assai certo argomento pigliar si può dalle statue antiche
di marmo e di bronzo che ancor si veggono. £ benché diversa sia la pittura
dalla statuaria, pur runa e l’altra da un medesimo fonte, che é il buon dise-
gno, nasce. Però, come le statue sono divine, cosi ancor cre- der si può che le
pitture fossero ; e tanto più, quanto che di maggior artificio capaci sono.
— L. Allor la signora Emilia , rivolta a Joanni Cristoforo Romano, che
ivi con gli altri sedeva. Che vi par, disse, di questa sentenza? confermarele
voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria? — Rispose
Joanni Cri- stoforo : Io, Signora, estimo che la statuaria sia di più fati- ca,
di più arte e di più dignità, che non è la pittura. — Sog- giunse il Conte :
Per esser le statue più durabili, si poria forse dir che fossero di più dignità
; perchè, essendo fatte I>er memoria, satisfanno più a quello eflello perchè
son fatte, e* Digitized by Coogte 1
06 IL COHTKGIANO. che la pillura. Ma, oltre alla memoria', sono
ancor e la pit- tura e la statuaria fatte per ornare, ed in questo la pittura è
molto superiore ; la quale se non è tanto diuturna, per dir cosi, come la statuaria,
è però molto longeva; e tanto che dura, è assai più vaga. — Rispose allor
Joanni Cbistoforo : Credo io veramente che voi parliate centra quello che avete
nell’animo, e ciò tutto fate in grazia del vostro Rafaello; e forse ancor parvi
che la eccellenza che voi conoscete in lui della pittura sia tanto suprema, che
la marmoraria non possa giungere a quel grado : ma considerate , che questa è
laudo d’un artefice, e non dell’arte. — Poi soggiunse: Ed a me par bene, che 1’
una o l’ altra sia una artiGciosa imitazion di na- tura ; ma non so già come possiate
dir che più non sia imi- tato il vero, e quello proprio che fa la natura, in
una figura di marmo o di bronzo, nella qual sono le membra tutte ton- de,
formate e misurate come la natura le fa, che in una ta- vola, nella qual non si
vede altro che la superficie, e que’ co- lori che ingannano gli occhi : nè mi
direte già, che più pro- pinquo al vero non sia l’essere che ’l parere. Estimo
poi, che la marmoraria sia più dilllcile, perchè se un error vi vien fatto, non
si può più correggere, chè ’l marmo non si ritac- ca, ma bisogna rifar un’
altra figura ; il che nella pittura non accade, chè mille volte si può mutare,
giungervi e smi- nuirvi, migliorandola sempre. — LI. Disse il CoKTE
ridendo: Io non parlo in grazia di Rafaello ; nè mi dovete già riputar per
tanto ignorante, che non conosca la eccellenza di Michel’Angelo e vostra e
degli altri nella marmoraria: ma io parlo dell’arte, e non degli ar- tefici. E
voi hen dite vero , che l’ una e 1’ altra è imitazion della natura; ma non è
già così, che la pittura appaja, e la statuaria sìa. Chè, avvenga che le statue
siano tutte tonde come il vivo, e la pittura solamente si veda nella
superficie, alle statue mancano molte cose che non mancano alle pittu- re, e
massimamente i lumi e 1’ ombre : perchè altro lume fa la carne ed altro fa il
marmo; e questo naturalmente imita' il pittore col chiaro e scuro, più e meno,
secondo il bisogno; il che non può far il marmoràrio. E se ben il pittore non
fa la figura tonda, fa que’ muscoli o membri tondeggiuti di sorte
Digitized by Google LlBnO PIUMO. 67
che vanno a ritrovar quelle parli che non si veggono, con tal maniera,
che benissimo comprender si può che ’l pitlor ancor quelle conosce ed intende.
Ed a questo bisogna un al | tro artifìcio maggiore in far quelle membra che
scortano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospet- tiva;
la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d’ombre, vi mostra
anco in una superfìcie di muro dritto il piano e ’l lontano, più e meno come
gli piace. Parvi poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali
in contraffar le carni, i panni, e tutte l’ altre cose colorate? Questo far non
può già il marmorario, nè meno esprimer la graziosa vista degli occhi neri o
azzurri, col splendor di que’ raggi amorosi. Non può mostrare il color de’
capegli flavi, no ’l splendor dell’ arme, non una oscura notte, non una
tempesta di mare, non que’ lampi e saette, non lo in- cendio d’ una città, no
’l nascere dell’ aurora di color di ro- se , con que’ raggi d’ oro e di porpora
; non può in somma mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini,
fiumi, città nè case: il che tutto fa il pittore. LII. Per questo parmi
la pittura più nobile e più capace d’ artiQcio che la marmoraria, e penso che
presso agli anti- chi fosse di suprema eccellenza come l’ altre cose: il che si
conosce ancor per alcune piccole reliquie che restano , mas- simamente nelle
grotte di Roma; ma mollo più chiaramente si può comprendere per ì scritti
antichi, nei quali sono tante onorate e frequenti menzioni e delle opre e dei
maestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso i gran signori e le
republiche sempre onorali. Però si legge che Alessandro amò sommamente Apelle
Efesio, e tanto, che avendogli fatto ritrar nuda una sua carissima donna, ed
intendendo, il buon pittore per la maravigliosa bellezza di quella restarne
arden- tissìmamente inamorato, senza rispetto alcuno gliela donò: liberalità
veramente degna d’Alessandro, non solamente do- nar tesori e stati, ma i suoi
proprii affetti e desideri!; e se- gno di grandissimo amor verso Apelle, non
avendo avuto rispetto , per compiacer a lui , di dispiacere a quella donna che
sommamente amava; la qual creder si può che molto si dolesse di cambiar un
tanfo re con un |)itlurc. Narransi an- Digitized by Googfe
68 IL CORTEGIANO. cor molli altri seleni di
benivolenza d’Alessandro verso d’Apelle; ma assai chiaramente dimostrò quanto
lo estimasse, avendo per publico comandamento ordinato che niun altro pittore
osasse far la imagine sua. Qui potrei dirvi le conten- zioni di molti nobili
pittori con tanta laude e maraviglia quasi del mondo; potrei dirvi con quanta
solennità eli impe- radori antichi ornavano di pitture i lor trionfi , e ne’
lochi publici le dedicavano, e come care le comperavano; e che siansi già
trovati alcuni pittori che donavano l’ opere sue, parendo loro che non bastasse
oro nè argento per pagarle ; e come tanto pregiata fosse una tavola di
Protogene, che es- sendo Demetrio a campo a Rodi, e possendo intrar dentro appiccandole
ii foco dalla banda dove sapeva che era quella tavola, per non abrusciarla
restò di darle la battaglia, e cosi non prese la terra; e Metrodoro, filosofo e
pittore eccellen- tissimo, esser stalo da Ateniesi mandato a Lucio Paolo per
ammaestrargli i Gglioli,ed ornargli il trionfo che a far avea. E molli nobili
sciitlori hanno ancora di quest’arte scritto; il che è assai gran segno per
dimostrare in quanta estimazione ella fosse: ma non voglio .che in questo
ragionamento più ci estendiamo. Però basti solamente dire , che al nostro
Corfe- giano conviensi ancor della pittura aver notizia, essendo one- sta ed
utile, ed apprezzata in que’ tempi che gli uomini erano di mollo maggior valore
che ora non sono: e quando mai altra utilità o piacer non se ne traesse, oltra
che giovi a saper giudicar la eccellenza delle statue antiche e moder- ne, di
vasi, d’ediQcii, di medaglie, di carnei, d'intagli e tai cose, fa conoscere
ancor la bellezza dei corpi vivi, non solamente nella delicalura de’ volti , ma
nella proporzion di tutto il resto, cosi degli uomini come di ogni altro
animale. Vedete adunque come lo aver cognizione della pittura sia causa di
grandissimo piacere. E questo pensino quei che tanto godono contemplando le
bellezze d’ una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sanno
dipingere: il che se sapessero, arian mollo maggior contento, perchè più per-
fettamente conosceriano quella bellezza, che nel cor genera lor tanta
satisfazione.>- LIII. Rise quivi messer Cesare Gonzaga, e disse: Io già
Digitized by Google LIBKO PRIMO. 69
non son pittore; pur certo so aver molto maggior piacere di vedere alcuna
donna, che non aria, se or tornasse vivo, quello eccellentissimo Apelle che voi
poco fa avete nomina- to. — Rispose il Conte: Questo piacer vostro non deriva
in- teramente da quella bellezza, ma dalla affezion che voi forse a quella
donna portate; e, se volete dir il vero, la prima volta che voi a quella donna
miraste, non sentiste la mille- sima parte del piacere che poi fatto avete,
benché le bellezze fossero quelle medesime: però potete comprender quanto più
parte nel piacer vostro abbia raffezion che la bellezza. — Non nego questo,
disse messer Cesare; ma secondo cbe ’l piacer nasce dalla affezione, cosi 1’
affezion nasce dalla bel- lezza: però dir si può cbe la bellezza sìa pur causa
del pia- cere. — Rispose il Conte: Molte altre cause ancor spesso in- fiammano
gli animi nostri, oltre alla bellezza; come i costumi, il sapere, il parlare, i
gesti, e mill’ altre cose, le quali però a qualche modo forse esse ancor si
poriano chiamar bellezze; ma sopra tutto il sentirsi essere amato: di modo che
si può ancor senza quella bellezza di cbe voi ragionate amare ar-
<lentissimamente; ma quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che
superficialmente vedemo nei corpi , senza dubìo daranno molto maggior piacere a
chi più la conoscerà, che a chi meno. Però, tornando al nostro proposito, penso
che molto più godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe, che non
faceva Alessandro: perchè facilmente si può creder che l’ amor dell’ uno e
dell’ altro derivasse sola- mente da quella bellezza; e che delib ;rasse forse
ancor Ales- sandro per questo rispetto donarla a chi gli parve che più
perfettamente conoscer la potesse. Non avete voi letto, che quelle cinque
Fanciulle da Crotone, le quali tra l’altre di quel ]iopolo elesse Zeusi pittore
, per far di tutte cinque una sola figura eccellentissima di bellezza, furono
celebrale da molti poeti , come quelle che per belle erano state approvate da
co- lui, che perfettissimo giudicio di bellezza aver dovea? — LIV. Quivi,
mostrando messer Cesare non restar sati- sfatto, nè voler consentir per modo
alcuno che altri che esso medesimo potesse gustare quel piacer eh’ egli sentiva
di con- icmplar l.n bellezza d’una donna, ricominciò a dire: ma in
Digitìzod by Googic 70 IL CORTEGIANO.
quello s’ndi un gran calpestare di piedi, con strepito di par- lar alto:
e cosi rivolgendosi ognuno , si vide alia porta della stanza comparire un
splendor di torchi, e subito drieto giunse con molta e nobil compagnia il
signor Prefetto, il qual ritor- nava, avendo accompagnato il papa una parte del
cammino; e già allo entrar del palazzo dimandando ciò che facesse la signora
Duchessa, aveva inteso di che sorte era il gioco di quella sera, e’I carico
imposto al conte Ludovico di parlar della Cortegiania; però quanto più gli era
possibile studiava il passo, per giungere a tempo d’ udir qualche cosa. Cosi,
su- bito fatto riverenza alla signora Duchessa, e fatto seder gli altri, che
tutti in piedi per la venuta sua s’ erano levati , si pose ancor esso a seder
nel cerchio con alcuni de’ suoi gen- tiluomini; tra i quali erano il marchese
Febus e Ghirardino fratelli da Ceva, messer Ettor Romano, Vincenzo Calmela,
Orazio Florido, e molti altri; e stando ognun senza parlare, il signor Pbbfetto
disse: Signori, troppo nociva sarebbe stata la venuta mia qui, s’ io avessi
impedito cosi bei ragionamenti, come estimo che sian quelli che ora tra voi
passavano; però non mi fate questa ingiuria, di privar voi stessi e me di tal
piacere. — Rispose allora il conte Ludovico: Anzi, signor mio, penso che’l
tacer a tutti debba esser molto più grato che ’l parlare; perchè essendo tal
fatica a me più che agli altri questa sera toccata, oramai m’ ha stanco di dire,
e credo tutti gli altri d’ascoltare, per non esser stato il ragiona- mento mio
degno di questa compagnia, nè bastante alla gran- dezza della materia di che io
aveva carico; nella quale aven- do io poco satisfatto a me stesso, penso molto
meno aver satisfatto ad altrui. Però a voi, Signore, è stato ventura il
giungere al flne; e buon sarà mo dar la impresa di quello che lesta ad un altro
che succeda nel mio loco; perciò che, qua- lunque egli si sia, so che si
porterà molto meglio eh’ io non farei se pur seguitar volessi, essendo oramai
stanco come sono. — LV. Non sopporterò io, rispose il Magnifico Joliano,
|)cr modo alcuno esser defraudato della promessa che fatta m’avete; e certo so
che al signor Prefetto ancor non dispia- cerà lo intender questa parte. — E
qual promessa? — disse il tjoogle LIBRO PRIMO.
71 Conte. Rispose il Magnifico : Di dechiarirci in qual modo
abbia il Cortegiano da osare quelle buone condizioni, che voi avete detto che
convenienti gli sono.— Era il signor Pre- fetto, benché di età puerile, saputo
e discreto, più che non parea che s’appartenesse agli anni teneri, ed in ogni
suo movimento mostrava con la grandezza dell’ animo una certa vivacità dello
ingegno, vero pronostico dello eccellente grado di virtù dove pervenir doveva.
Onde subito disse : Se tutto questo a dir resta, parmi esser assai a tempo
venuto; perchè intendendo in- che modo dee il Cortegiano usar quelle buone
condizioni, intenderò ancora quali esse siano, e così verrò a saper tutto
quello che intìn qui è stato detto. Però non riCu- tate. Conte, di pagar questo
debito, d’una parte del quale già sete uscito. — Non arei da pagar tanto
debito, rispose il Conte, se le fatiche fossero più egualmente divise ; ma lo
er- rore è stato dar autorità di comandar ad una signora troppo parziale: — e
cosi, ridendo, si volse alla signora Emilia; la qual subito disse : Della mia
parzialità non dovreste voi do- lervi; pur, poi che senza ragion lo fate,
daremo una parte di questo onor, che voi chiamate fatica, ad un altro; — e,
rivoltasi a messer Federigo Fregoso, Voi, disse, proponeste il gioco del
Cortegiano; però è ancor ragionevole che a voi tocchi il dirne una parte : e
questo sarà il satisfare alla do- manda del signor MagniGco, dechiarando in
qual modo e maniera e tempo il Cortegiano debba usar le sue buone con- dizioni,
ed operar quelle cose che ’l Conte ha detto che se gli convien sapere. — Allora
messer Federico, Signora, dis- se, volendo voi separare il modo e ’l tempo e la
maniera delle buone condizioni e ben operare del Cortegiano , volete separar
quello che separar non si può, perchè queste cose son quelle che fanno le
condizioni buone e l’operar buono. Però, avendo il Conte detto tanto e cosi
bene, ed ancor par- lalo qualche cosa di queste circostanze, e preparatosi nel-
l’animo il resto che egli avea a dire , era pur ragionevole che seguitasse
insin al fine. — Rispose la signora Emilia : Fate voi conto d’essere il Conte,
e dite quello che pensate che esso direbbe ; e cosi sarà satisfatto al tutto.
— LVl. Disse allor il Calhbta : Signori, poiché l’ora è tar-
Digitized by Googte IL COnTEGIANO. da, acciò che
messer Federico non abbia escusazione alcuna di non dir ciò che sa, credo che
sia buono differire il resto del ragionamento a domani ; e questo poco tempo
che ci avanza si dispensi in qualche altro piacer senza ambizione. — Cosi
confermando ognuno, impose la signora Duchessa a madonna Margherita e madonna
Costanza Fregosa, che danzassero. Onde subito Barletta, musico piacevolissimo e
danzator ec- cellente, che sempre tutta la corte teneva in festa, cominciò a
sonare suoi instrumenti; ed esse, presesi per mano, ed avendo prima danzato una
bassa, ballarono una roegarze con estrema grazia, e singoiar piacer di chi le
vide ; poi, per- chè già era passata gran pezza della notte, la signora Du-
chessa si levò in piedi: e cosi ognuno reverentemente presa lircnza, se ne
andarono a dormire. Digiti7ec! IL SECONDO LIBRO DEL
CORTEGIANO DKI, CO?(TE BALDEStR CASTIGI.IO>K A MESSER
ALFONSO ARIOSTO. 1. Non senza maraviglia ho piu voiic considerato,
oiiuc nasca un errore, il quale, perciò che universalmente ne’vec- cbi si vede,
creder si può che ad essi sia proprio e naturale: e questo è, che quasi tutti
laudano i tempi passali e biasi- mano i presenti , vituperando le azioni e i modi
nostri u tutto quello che essi nella lor gioventù non Tacevano ; aOer- mando
ancor, ogni buon costume e buona maniera di vive- re , ogni virtù, in somma
ogni cosa, andar sempre di mal in peggio. £ veramente par cosa molto aliena
dalla ragione e degna di maraviglia, che la età matura, la qual con la lunga
esperienza suol far nel resto il giudicio degli nomini più per- fetto, in
questo lo corrompa tanto, che non si avveggano, che se T mondo sempre andasse
peggiorando, e che i padri fossero generalmente migliori che i figlioli, molto
prima che ora saremmo giunti a quell’ ultimo grado di male, che peggiorar non
può. E pur vedemo , che non solamente ai di nostri, ma ancor nei tempi passati,
fu sempre questo vizio peculiar di quella età; il che per le scritture di molti
autori antichissimi chiaro si comprende, e massimamente dei Co- mici, iquaii
più che gli altri esprimeno la imagine della vita umana. La causa adunque di
questa falsa opinione nei vec- chi estimo io per me eh’ ella sia , perchè gli
anni fuggendo se ne porlan seco molle commodilà, e tra l’altre levano dal
sangue gran parte degli spiriti vitali; onde la compicssion si
Ti IL CORTEGIANO. inula , c (livengon debili gli
organi, [ler i quali l’anima opera le sue virtù. Però dei cori nostri in quel
tempo, come allo autunno le foglie degli alberi , caggiono i soavi fiori di
con- tento, e nel loco dei sereni e chiari pensieri entra la nubi- losa e
torbida tristizia, di mille calamità compagnata; di modo che non solamente il
corpo, ma I’ animo ancora è in- fermo; nè dei passati piaceri riserva altro che
una tenace memoria, e la imagine di quel caro tempo della tenera età, nella
quale quando ci ritrovamo, ci pare che sempre il cielo c la terra ed ogni cosa
faccia festa e rida intorno agli occhi nostri, e nel pensiero, come in un
delizioso e vago giardino, fiorisca la dolce primavera d’ allegrezza. Onde
forse saria utile, quando già nella fredda stagione comincia il sole della
nostra vita, spogliandoci di quei piaceri, andarsene verso l’occaso, perdere insieme
con essi ancor la loro memoria, c trovar, come disse Temistocle, un’arte che a
scordar inse- gnasse; perchè tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che
spesso ingannano ancora il giudicio della mente. Però panni che i vecchi siano
alla condizion di quelli, che partendosi dal porlo tengon gli occhi in terra, e
par loro che la nave stia ferma e la riva si parla, e pur è il contrario; chè
il por- to , e medesimamente il tempo ed i piaceri, restano nel suo stato, e
noi con la nave della mortalità fuggendo n’andiamo r un dopo l’altro per quel
procelloso mare che ogni cosa as- sorbe e devora, nè mai più ripigliar terra ci
è concesso, anzi, sempre da conlrarii venti combattuti, al fine in qualche sco-
glio la nave romperne. Per esser adunque l’animo senile sub- jello
disproporzionalo a molti piaceri, gustar non gli può; e come ai febricitanli ,
quando dai vapori corrotti hanno il palato guasto, pajono lutti i vini
amarissimi, benché preziosi e delicati siano: cosi ai vecchi per la loro
indisposizione, alla qual però non manca il desiderio , pajon i piaceri
insipidi e freddi, e mollo differenti da quelli che già provati aver si
ricordano, benché i piaceri in sè siano i medesimi; però, sentendosene privi ,
si dolgono , e biasimano il tempo pre- sente come malo, non discernendo che
quella mutazione da sè e non dal tempo procede ; e, per contrario , recandosi a
memoria i passali piaceri , si arrecano ancor il t£mpo nel LIBRO
SECONDO. 7j quale avuti gli hanno, e però lo laudano come
buono, per- chè pare che seco porli un odore di quello che in esso sen- liano
quando era presente ; perchè in elTctto gli animi no- stri hanno in odio tutte
le cose che state sono compagne de’ nostri dispiaceri, ed amano quelle che
state sono compa- gne dei piaceri. Onde accade , che ad uno amante è caris-
simo talor vedere una finestra, benché chiusa, perchè al- cuna volta quivi ara
avuto grazia di contemplar la sua don- na; medesimamente, vedere uno anello,
una lettera, un giardino o altro loco o qualsivoglia cosa, che gli paja esser
stata consapevol testimonio de’ suoi piaceri ; e , per lo con- trario, spesso
una camera ornatissima e bella sarà nojosa a chi dentro vi sia stato prigione,
o patito v’abbia qualche al- tro dispiacere. Ed ho già io conosciuto alcuni,
che mai non beveriano in un vaso simile a quello, nel quale già avessero,
essendo infermi, preso bevanda medicinale; perchè, cosi come quella finestra, o
l’anello o la lettera, all’ uno rappre- senta la dolce memoria che tanto gli
diletta, per parergli che quella già fosse una parte de’ suoi piaceri: cosi
all’altro la camera o ’l vaso par che insieme con la memoria rapporti la
infermità o la prigionia. Questa medesima cagion credo che mova i vecchi a
laudare il passato tempo, e biasimar il pre- sente. II. Però come del
resto , cosi parlano ancor delle corti, alTermando , quelle di che essi hanno
memoria esser state molto più eccellenti e piene d’uomini singolari , che non
son quelle che oggidì veggiamo; e subito che occorrono tai ra- gionamenti,
cominciano ad estollere con infinite laudi i Cor- tegiani del duca Filippo,
ovvero del duca Borso; e narrano i delti di Nicolò Piccinino; e ricordano che
in quei tempi non si saria trovato, se non rarissime volte, che si fosse fatto
un omicidio; e che non erano combattimenti, non insidie, non inganni, ma una
certa bontà fedele ed amorevole tra tutti, una sicurtà leale; e che nelle corti
allor regnavano tanti buoni costumi, tanta onestà, che i Corlegiani tutti erano
come religiosi; e guai a quello che avesse detto una mala parola all’ altro, o
fatto pur un segno men che onesto verso una donna: e per lo contrario dicono,
in questi tempi esser Digitized by Googic 7G
IL CORTEGIANO. tulio r opposito; e che non solamente tra i
Cortegiani è per> dato queir amor fraterno e quel viver costumato, ma che
nelle corti non regnano altro che invidie e malivolenze, mali costumi, e
dissolutissima vita in ogni sorte di vizii; le donne lascive senza vergogna,
gli uomini eOeminati. Dannano an- cora i vestimenti, come disonesti e troppo
molli. In somma riprendono infinite cose, tra le quali molte veramente meri-
tano riprensione, perchè non si può dir che tra noi non siano molti mali uomini
e scelerati, e che questa età nostra non sia assai più copiosa di vizii, che
quella che essi laudano. Farmi ben che mal discernano la causa di questa
diflcrenza, e che siano sciocchi ; perchè vorriano che al mondo fossero tutti i
beni senza male alcuno; il che è impossibile; perchè essendo il mal contrario
al bene, e ’l bene al male, è quasi necessa- rio che per la opposizione e per
un certo contrapeso l’ un sostenga e fortifichi l’altro, e mancando o crescendo
l’uoo cosi manchi o cresca l’ altro, perchè niuno contrario è senza r altro suo
contrario. Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le
ingiurie? la magnanimità, se non fossero li pusillanimi? la continenza, se non
fosse la incon- tinenza? la sanità, se non fosse la infermità? la verità, se
non fosse la bugia? la felicità, se non fossero le disgrazie? Però ben (lice
Socrate appresso Platone, maravigliarsi che Esopo non abbia fatto uno apologo,
nel quale finga, Dio, poiché non avea mai potuto unire il piacere e’i
dispiacere insieme, aver- gli attaccati con la estremità, di modo che ’l
principio del- r uno sia il fin dell’ altro; perchè vedemo, niuno piacer po-
terci mai esser grato, se ’l dispiacere non gli precede. Chi può aver caro il
riposo, se prima non ha sentilo raffanno della stracchezza? chi gusta il
mangiare, il bere e ’l dormi- re, se prima non ha palilo fame, sete e sonno? Credo
io adunque, che le passioni e le infermità sian date dalla natura agli uomini
non principalmente per fargli soggetti ad esse, perchè non par conveniente, che
quella che è madre d’ogni bene dovesse di suo proprio consiglio determinato
darci tanti mali ; ma facendo la natura la sanità, il piacere e gli altri
lieni, conscguentemente dietro a questi furono congiunte le infermità, i
dispiaceri e gli altri mali. Però, essendo le virtù LIBRO
SECONDO. 77 stale al mondo concesse per grazia e don
della natnra, subito i vizii, per quella concatenata contrarietà,
necessariamente le furono compagni ; di modo che sempre, crescendo o man- cando
r uno, forza è che cosi l’ altro cresca o manchi. 111. Però quando i
nostri vecchi laudano le corti pas- sate, perchè non aveano gli uomini cosi
viziosi come alcuni che hanno le nostre, non conoscono che quelle an- cor non
gli aveano cosi virtuosi come alcuni che hanno le nostre; il che non è
maraviglia: perchè niun male è tanto malo, quanto quello che nasce dal seme corrotto
del bene; e però producendo adesso la natura molto miglior in- gegni che non
facea allora , si come quelli che si voltano al bene fanno molto meglio che non
facean quelli suoi, cosi ancor quelli che si voltano al male fanno molto
peggio. Non è adunque da dire, che quelli che restavano di far male per non
saperlo fare, meritassero in quel caso laude alcuna; perchè avvenga che
facessero poco male, faceano però il peggio che sapeano. E che gli ingegni di
que’tempi fossero generalmente molto inferiori a que’che son ora, assai si può
conoscere da tutto quello che d’essi si vede, cosi nelle lettere, come nelle
pitture, statue, edificii, ed ogni altra cosa. Biasimano ancor questi vecchi in
noi molte cose che in sè non sono nè buone nè male, solamente perchè essi non
le faceano; e dicono, non convenirsi ai giovani passeggiar per le città a
cavallo, massimamente nelle mule; portar fodre di pelle, nè robe lunghe nel
verno; portar berretta, finché almeno non sia l’uomo giunto a diciotto anni, ed
altre tai cose: di che ve- ramente s’ingannano; perchè questi costumi, oltra
che sian commodi ed utili, son dalla consuetudine introdotti, ed uni-
versalmente piacciono, come allor piacea l’ andar in giornea con le calze
aperte e scarpette pulite, e, per esser galante, portar tutto di un sparvieri
in pugno senza proposito, e ballar senza toccar la man della donna, ed usar
molti altri modi, i quali, come or sariano goffissimi, allor erano prezzati
assai. Però sia licito ancor a noi seguitar la consuetudine de’ no- stri tempi,
senza esser calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare,
dicono: Io aveva vent’anni, che ancor doimiva con mia madre e mie sorelle, nè
seppi ivi a ( Digitized by Google 78
IL CORTEGIANO. gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i
rancinlli non hanno appena asciutto il capo, che sanno più malizie che in
que’tempi non sapeano gli uomini fatti: nè si avveggono, che dicendo cosi,
confermano! nostri fanciulli aver più ingegno, che non aveano i loro vecchi.
Cessino adunque di biasimare i tempi nostri, come pieni di vizii, perchè
levando quelli, levariano ancora le virtù; e ricordinsi, che tra i buoni anti-
chi, nel tempo che fiorivano al mondo quegli animi gloriosi e veramente divini
in ogni virtù, e gli ingegni più che umani, trovavansi ancor molti
sceleratissimi; i quali, se vivessero, tanto sariano tra i nostri mali
eccellenti nel male, quanto que’ buoni nel bene: e di ciò fanno piena fede
tutte le istorie. IV. bla a questi vecchi penso che ornai a bastanza sia
ri- sposto. Però lascieremo questo discorso, forse ormai troppo diffuso, ma non
in tutto fuor di proposito; e bastandoci aver dimostrato, le corti de’ nostri
tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi,
attenderemo ai ragionamenti avuti sopra il Cortegiano, per i quali assai
facilmente comprender si può, in che grado tra l’ altre corti fosse quella d’
Urbino, e quale era quel Principe e quella Si- gnora a cui servivano cosi
nobili spiriti, e come fortunati si poteano dir tutti quelli, che in tal commercio
viveano. V. Venuto adunque il seguente giorno, tra i cavalieri e le donne
della corte furono molti e diversi ragionamenti so- pra la disputazion della
precedente sera; il che in gran parte nasceva perchè il signor Prefetto, avido
di sapere ciò che detto s’era, quasi ad ognun ne dimandava, e, come suol sempre
intervenire, variamente gli era risposto; però che al- cuni laudavano una cosa,
alcuni un’ altra, ed ancor tra molti era discordia della sentenza propria del
Conte, chè ad ognuno non erano restate nella memoria cosi compiutamente le cose
dette. Però di questo quasi tutto ’l giorno si parlò; e come prima incominciò a
farsi notte, volse il signor Prefetto che si mangiasse, e tutti i gentiluomini
condusse seco a cena; e subito fornito di mangiare, n’andò alla stanza della
signora Duchessa; la quale vedendo tanta compagnia, e più per tempo che
consueto non era, disse: Gran peso parmi, mcsscr Federico, che sia quello che
posto è sopra le spalle vostre, Di: UDRÒ SECONDO 79
e grande aspellazion quella a cui corrisponder dovete. — Quivi, non
aspettando che messer Federico rispondesse: E che gran peso è perù questo? —
disse 1’ Unico Abetino: Chi è tanto sciocco, che quando sa fare una cosa non la
faccia a tempo conveniente? — Cosi di questo parlandosi, ognuno si pose a
sedere nel loco o modo usato, con attentissima aspet- tazion del proposto
ragionamento. VI. Allora messer Fkdebico, rivolto all’ Unico, A voi
adunque non par, disse, signor Unico, che faticosa parte e gran carico mi sia
imposto questa sera, avendo a dimostrare in qual modo e maniera e tempo debba
il Cortegiano osar le sue buone condizioni, ed operar quelle cose che già s’è
detto convenirsegli? — A me non par gran cosa, rispose I’Unico; e credo che
basti tutto questo, dir che’l Cortegiano sia di buon giudicio, come jersera ben
disse il Conte essere neces- sario; ed essendo cosi, penso che senza altri
precetti debba poter usare quello che egli sa a tempo e con buona maniera: il
che volere più minutamente ridurre in regola, saria troppo difiQcile e forse
superfluo; perchè non so qual sia tanto inetto, che volesse venire a maneggiar
l’arme quando gli altri fossero nella musica; ovvero andasse per le strade
ballando la more- sca, avvenga che ottimamente far lo sapesse; ovvero andando a
confortar una madre, a cui fosse morto il figliolo, comin- ciasse a dir
piacevolezze e far l’ arguto. Certo questo a niun gentiluomo, credo,
inierverria, che non fosse in tutto pazzo. — A me par, signor Unico, disse
quivi messer Federico, che voi andiate troppo in su le estremità: perchè
intervien qual- che volta esser inetto di modo che non cosi facilmente si
conosce, e gli errori non son tutti pari: e potrà occorrere che r uomo si
astenerà da una sciocchezza publica e troppo chiara, come saria quel che voi
dite d'andar ballando la mo- resca in piazza, e non saprà poi astenersi di
laudar sè stesso fuor di proposito, d’ usar una prosunzion fastidiosa, di dir
talor una parola pensando di far ridere, la qual, per esser detta fuor di
tempo, riuscirà fredda e senza grazia alcuna. E spesso questi errori son
coperti d’un certo velo, che scorger non gli lascia da chi gli fa, se con
diligenza non vi si mira; e benché per molte cause la vista nostra poco
disccrna, |Mir Digiiized by Google 80 IL
CORTEGIANO. sopra lutto per 1’ ambizione divien tenebrosa : chè
ognun vo- lentier si mostra in quello che si persuade di sapere, o vera o falsa
che sia quella persuasione. Però il governarsi bene in questo, parmi che
consista in una certa prudenza e giudicio di elezione, e conoscere il più e ’l
meno che nelle cose si accresce e scema per operarle opportunamente o fuor di
sta- gione. E benché il Cortegian sia di cosi buon giudicio che possa discemere
queste differenze, non è però che più facile non gli sia conseguir quello che cerca
essendogli aperto il pensiero con qualche precetto, e mostratogli le vie e
quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al
generale. VII. Avendo adunque il Conte jersera con tanta copia e bel modo
ragionato della Corlegiania, in me veramente ha mosso non poco timor e dubio di
non poter cosi ben satisfare a questa nobil audienza in quello che a me tocca a
dire, come esso ha fatto in quello che a lui toccava. Pur per farmi par- tecipe
più eh’ io posso della sua laude, ed esser sicuro di non errare almen in questa
parte, non gli contradirò in cosa al- cuna. Onde, consentendo con le opinioni
sue, ed, oltre al re- sto, circa la nobililà del Cortegiano, e lo ingegno, eia
dispo- sìzion del corpo e grazia dell’aspetto, dico, che per acquistar laude
meritamente e buona estimazione appresso ognuno, e grazia da quei signori ai
quali serve, parmi necessario che e’ sappia componere tutta la vita sua e
valersi delle sue buone qualità universalmente nella conversazion di tuffi gli
uomini senza acquistarne invidia: il che quanto in sé difBciI sia, con- siderar
si può dalla rarità di quelli che a tal termine giunger si veggono; perchè in
vero lotti da natura siamo pronti più a biasimar gli errori, che a laudar le
cose ben fatte, e par che per una certa innata malignità molti, ancor che
chiara- mente conoscano il bene, si sforzino con ogni studio ed in- dustria di
trovarci dentro o errore, o almen similitudine d’er- rore. Però è necessario,
che '1 nostro Cortegiano in ogni sua operazion sia cauto, e ciò che dice o fa
sempre accompagni con prudenza; e non solamente ponga cura d’aver in sé parti c
condizioni eccellenti, ma il tenor della vita sua ordini con tal disposizione,
che ’l tutto corrisponda a queste parti, c si Digilizod by Google
LIBRO SECONDO 81 vegga il medesimo esser sempre
ed in ogni cosa tal che non discordi da sè stesso, ma faccia un corpo solo di
tutte queste buone condizioni; di sorte che ogni suo atto risulti e sia com-
posto di -tutte le virtù, come dicono i Stoici esser officio di chi è savio:
benché però in ogni operazion sempre una virtù è la principale; ma tutte sono
talmente tra sè concatenate, che vanno ad un fine, e ad ogni eifelto tutte
possono concor- rere e servire. Però bisogna che sappia valersene, e per lo
paragone e quasi contrarietà dell' una talor far che l’ a ltra sia più
chiaramente conosciuta: come i buoni pittori, i quali con r ombra fanno
apparerò e mostrano i lumi de’ rilievi ; e cosi col lume profondano l’ombre dei
piani, e compagnano i colori diversi insieme di modo, che per quella diversità
l’uno e r altro meglio si dimostra, e 'I posar delle figure contrario l’ una
all’ altra le ajuta a far quell’ officio che è intenzion del pittore. Onde la
mansuetudine è molto maravigliosa in un gen- tiluomo il qual sia valente e
sforzato nell’arme; e come quella fierezza par maggiore accompagnata dalla
modestia, cosi la modestia accresce e più compar per la fierezza. Però il par-
lar poco, il far assai, e ’l non laudar sè stesso delle opere lan- devoli,
dissimulandole di buon modo, accresce l’una e l’altra virtù in persona che
discretamente sappia usar questa manie- ra ; e cosi intervien di tutte 1’ altre
buone qualità. Voglio adunque che ’l nostro Cortegiano in ciò che egli faccia o
dica usi alcune regole universali, le quali io estimo che brevemente contengano
lutto quello che a me s’appartiene di dire; e per la prima e più importante,
fugga, come ben ricordò il Conte jersera, sopra tutto raiTellazione. Appresso,
consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice, e ’l loco dove la fa, in
pre- senza di cui, a che tempo, la causa perchè la fa, la età sua, la
professione, il fine dove tende, e i mezzi che a quello con- dor lo possono; e
cosi con queste avvertenze s’accomodi dis- cretamente a tutto quello che fare o
dir vuole. — Vili. Poi che cosi ebbe detto messer Federico, parve che si
fermasse un poco. Allor subito. Queste vostre regole, disse il signor Mobello
dì Obtonì, a me par che poco insegnino ; ed io per me tanto ne so ora, quanto
prima che voi ce le mo- straste; benché mi ricordi aucor qualche altra volta
averle Digitized by Google 82 IL
CORTEGIANO. udite da* frati co’ quali confessato mi sono, e parmi
che le chiamino le circostanze. ~ Rise allor messer Federico , e disse : Se ben
vi ricorda, volse jersera il Conte che la prima profession del Cortegiano fosse
quella dell’ arme , e larga- mente parlò di che modo far la doveva; |>erò
questo non re- plicaremo più. Pur sotto la nostra regola si ()olrà ancor in-
tendere, che ritrovandosi il Cortegiano nella scaramuzza o fatto d’ arme o
battaglia di terra, o in altre cose tali, dee dis- cretamente procurar
d’appartarsi dalla moltitudine, e quelle cose segnalate ed ardite che ha da
fare farle con minor com- pagnia che può, ed al cospetto di tutti i più nobili
ed estimati uomini che siano nell’esercito, e massimamente alla presenza e, se
possibii è, inanzi agli occhi proprii del suo re o di quel signore a cui serve;
perchè in vero è ben conveniente valersi dello cose ben fatte. Ed io estimo,
che siccome è male cer- car gloria falsa e di quello che non si merita, cosi
sia ancor male defraudar sè stesso del debito onore, e non cercarne quella
laude, che sola è vero premio delle virtuose fatiche. Ed io ricordami aver già
conosciuti di quelli, che, avvenga che fossero valenti, pur in questa parte
erano grossieri ; e cosi metteano la vita a pericolo per andar a pigliar una
man- dra di pecore, come per esser i primi che montassero le mura d’ una terra
combattuta: il che non farà il nostro Cortegiano, se terrà a memoria la causa
che lo conduce alla guerra, che dee esser solamente l’onore. E se poi si
ritroverà armeggiare nei spettacoli publici, giostrando, torneando, o giocando
a canne, o facendo qualsivoglia altro esercizio della persona ; ricordandosi il
loco ove si trova, ed in presenza di cui, pro- curerà esser nell’arme non meno
attilato e leggiadro che si- curo, e pascer gli occhi dei spettatori di tutte
le cose che gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà cura d’ aver
cavallo con vaghi guarniracnti, abiti ben intesi, motti appro- priati, ed
invenzioni ingeniose, che a sè tirino gli occhi de’ circostanti, come calamita
il ferro. Non sarà mai degli ultimi che compariscano a mostrarsi, sapendo che i
popoli, o mas- simamente le donne, mirano con molto maggior attenzione i primi
che gli ultimi ; i)crchè gli occhi e gli animi, che nel principio son avidi di
quella novità, notano ogni minuta cosa. UBRO SECONDO.
83 c di quella fanno impressione ; poi per la continuazione
non solamente si saziano, ma ancora si stancano. Però fu un no- bile istrione
antico, il qual per questo rispetto sempre voleva nelle fabule esser il primo
che a recitare uscisse. Così ancor, parlando pur d’ arme, il nostro Cortegiano
avrà risguardo alla profession di coloro con chi parla, ed a questo accomo-
darassi ; altramente ancor parlandone con nomini, altramente con donne : e se
vorrà toccar qualche cosa che sia in lande sua propria, lo farà
dissimulatamente, come a caso e per trànsito, e con quella discrezione ed
avvertenza, che jeri ci mostrò il conte Ludovico. IX. Non vi par ora,
signor Morello, che le nostre regole possano insegnar qualche cosa? Non vi par
che quello amico nostro, del qual pochi di sono vi parlai, s’avesse in tutto
scordato con chi parlava e perchè, quando, per intertenere una gentildonna, la
quale per prima mai più non aveva ve- duta, nei principio del ragionar le
cominciò a dire che aveva morti tanti uomini, e come era fiero, e sapea giocar
di spada a due mani? nè se le levò da canto, che venne a volerle in- segnar
come s’ avessero a riparar alcuni colpi d’azza essendo armato, e come
disarmato, ed a mostrar le prese di pugna- le ; di modo che quella meschina
stava in sulla croce, e par- vele un’ ora mill’ anni levarselo da canto,
temendo quasi che non ammazzasse lei ancora come quegli altri. In questi errori
incorrono coloro che non hanno riguardo alle circostanze, che voi dite aver
intese dai frati. Dico adunque, che degli esercizii del corpo sono alcuni
che quasi mai non si fanno se non in publìco, come il gio- strare, il torneare,
il giocare a canne, e gli altri tutti che dependono dall’ arme. Avendosi
adunque in questi da adope- rare il nostro Cortegiano, prima ha da procurar
d’esser tanto bene ad ordine di cavalli, d’arme e d’abbigliamenti, che nulla
gli manchi; e non sentendosi ben assettato del tutto, non vi si metta per modo
alcuno: perchè, non facendo bene, non si può escnsare che questa non sia la
profession sua. Ap- presso dee considerar molto, in presenza di chi si mostra,
e quali siano i compagni; perchè non saria conveniente che un gentiluomo
andasse ad onorare con la persona sua una festa I
Digitir ^ Coogie 84 IL CORTEGIANO.
di contado, dove i spettatori ed i compagni fossero gente ignobile.
— X. Disse allor il signor Gasparo Palla vicino: Nel paese nostro di
Lombardia non s’hanno questi rispetti; anzi molti gentiluomini giovani
trovansi, che le feste ballano tutto ’l di nel sole coi villani, e con essi
giocano a lanciar la barra, lot- tare, correre e saltare: ed io non credo che
sìa male, perchè ivi non si fa paragone della nobilità, ma della forza e
destrez- za, nelle quai cose spesso gli nomini di villa non vaglion meno che i
nobili; e par che quella domestichezza abbia in sè una certa liberalità
amabile. — Quel ballar nel sole, rispose mes- ser Federico, a me non piace per
modo alcuno, nè so che guadagno vi si trovi. Ma chi vuol pur lottar, correr e
saltar coi villani, dee, al parer mìo, farlo in modo di provarsi, e, come si
suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l’uomo esser quasi
sicuro di vincere: altramente non vi si metta; perchè sta troppo male e troppo
è brutta cosa e fuor della dignità vedere un gentiluomo vinto da un villano, e
massimamente alla lotta: però credo io che sia ben aste- nersene, almeno in
presenza di molti, perchè il guadagno nel vincere è pochissimo, e la perdita
nell’esser vinto è gran- dissima. Fassi ancor il gioco della palla quasi sempre
in pu- blico; ed è uno di que’ spettacoli , a coi la moltitudine ap- porta
assai ornamento. Voglio adunque che questo e tutti gli altri, dall’ armeggiar
in fuora, faccia il nostro Cortegiano come cosa che sua professione non sia, e
di che mostri non cercar o aspettar lande alcuna, nè si conósca che molto stu-
dio 0 tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia; nè sia come alcuni
che si dilettano di musica, e parlando con chi si sia, sempre che si fa qualche
pausa nei ragiona- menti, cominciano sotto voce a cantare; altri, camminando
per le strade e per le chiese vanno sempre ballando; altri, incontrandosi in piazza
o dove si sia con qualche amico, si metton subito in atto di giocar di spada o
di lottare, secondo che più si dilettano. — Quivi disse messer Cesare Gonzaga:
Meglio fa un cardinale giovane che avemo in Roma, il qual, perchè si sente
ajutante della persona, conduce tutti quelli che lo vanno a visitare , ancorché
mai più non sii abbia ve- LIBRO SECONDO. 85
duli, in un suo giardino, ed invitagli con grandissima in- slanza a
spogliarsi in giuppone e giocar seco a saltare. — XI. Rise messer
Fedebico; poi soggiunse: Sono alcuni altri esercizi!, che far si possono nel
publico e nel privato, come è il danzare ; ed a questo estimo io che debba aver
ri- spetto il Cortegiano : perché danzando in presenza di molti ed in loco
pieno di popolo parmì che si gli convenga servare una certa dignità, temperata
però con leggiadra ed aerosa dolcezza di movimenti; e benché si senta
leggierissimo, e che abbia tempo e misura assai , non entri in quelle prestezze
dei piedi e duplicati rebattimenti , i quali veggiamo che nel nostro Barletta
stanno benissimo, e forse in un gentiluomo sariano poco convenienti: benché in
camera privatamente, come or . noi ci troviamo , penso che licito gii sìa e
questo , e ballar moresche e brandi ; ma in publico non cosi , fuorché trave-
stito, e benché fosse di modo che ciascun lo conoscesse, non dà noja ; anzi per
mostrarsi in tai cose nei spettacoli pu- blici, con arme e senza arme, non è
miglior via di quella; perché lo esser travestito porta seco una certa libertà
e licen- za, la quale tra l’ altre cose fa che l’ uomo può pigliare forma di
quello in che si sente valere, ed usar diligenza ed attila- tura circa la
princìpal intenzione della cosa in che mostrar si vuole, ed una certa
sprezzatura circa quello che non im- porta, il che accresce molto la grazia :
come saria vestirsi un giovane da vecchio , ben però con abito disciolto, per
potersi mostrare nella gagliardia ; un cavaliero in forma di pastor selvatico o
altro tale abito, ma con perfetto cavallo, e leg- giadramente acconcio secondo quella
intenzione: perché su- bito r animo de’ circostanti corre ad imaginar quello
che agli occhi al primo aspetto s’ appresenta ; e vedendo poi riu- scir molto
maggior cosa che non prometteva quell’abito, si diletta c piglia piacere.
Però ad un principe in tai giochi e spettacoli, ove inter- venga fìzione di
falsi visaggi, non si converria il voler man- tener la persona del principe
proprio, perché quel piacere che dalla novità viene ai spettatori mancheria in
gran parte, chè ad alcuno non é nuovo che il prìncipe sia il principe; ed esso,
sapendosi che. nUre allo esser principe, vuol aver an- 8
DigitnKxJ by Google 86 IL
CORTEGIANO. cor forma di principe, perde la libertà di far tutte
quelle cose che sono fuor della dignità di principe; e se in questi giochi
fosse contenzione alcuna, massimamente con arme, poria ancor far credere di
voler tener la persona di principe per non esser battuto, ma riguardato dagli
altri; oltra che, facen- do nei giochi quel medesimo che dee far da dovero
quando fosse bisogno, levaria l’ autorità al vero, e parerla quasi che ancor
quello fosse gioco: ma in tal caso, spogliandosi il prin- cipe la persona di
principe, e mescolandosi egualmente con i minori di sé, ben però di modo che
possa esser conosciuto, col rifiutar la grandezza piglia un’altra maggior
grandezza, che è il voler avanzar gli altri non d’autorità ma di virtù, e
mostrar che ’l valor suo non è accresciuto dallo esser principe. XII.
Dico adunque che ’l Cortegiano dee in questi spel- (acoli d’arme aver la
medesima avvertenza, secondo il grado suo. Nel volteggiar poi a cavallo,
lottar, correr e saltare, pia- ccmi molto fuggir la moltitudine della plebe, o
almeno la- sciarsi veder rarissime volle; perchè non è al mondo cosa tanto
eccellente, della quale gli ignoranti non si sazieno, e non lengan poco conto,
vedendola spesso. Il medesimo giu- dico della musica : però non voglio che ’l
nostro Cortegiano faccia come molti, che subito che son giunti ove che sia, e
alla presenza ancor di signori de’ quali non abbiano notizia alcuna, senza
lasciarsi mollo pregare, si mettono a far ciò che sanno, e spesso ancor quel
che non sanno; di modo che par che solamente per quello elTelto siano andati a
farsi ve- dere, e che quella sia la loro principal professione. Venga adunque il
Cortegiano a far musica, come a cosa per passar tempo, e quasi sforzalo, e non
in presenza di gente ignobile, nè di gran moltitudine; e benché sappia ed
intenda ciò che fa, in questo ancor vogUo che dissimuli il studio e la fatica
che è necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e mostri estimar
poco in sè stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia
estimar assai dagli altri.— XIII. AJlor il signor Gàspar Palla vicino,
molle sorti di musica, disse, si Irovan, cosi di voci vive, come d’ instru-
menti: però a me piacerebbe intender qual sia la miglior Ira tutte, ed a che
tempo debba il Cortegiano operarla. — Bella LIBRO
SECONDO. 87 musica, rispose messer Fkdbrico, parmi il
cantar bene a li- bro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto più il
cantare alla viola , perché tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con
mollo maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e 1’ aria non essendo
occupate le orecchie in più che in una sol voce, e meglio ancor vi si disceme
ogni pic- colo errore; il che non accade cantando in compagnia, per- ché l’ uno
ajuta 1’ altro. Sia sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per
recitare; il che tanto di venustà ed etS- cacia aggiunge alle parole , che é
gran maraviglia. Sono an- cor armoniosi tutti gli instrumenli da tasti, perché
hanno le consonanze mollo perfelle, e con facilità vi si possono far molte cose
che empiono 1’ animo della musical dolcezza. E non meno diletta la musica delle
quattro viole da arco, la qual é soavissima ed artificiosa. Dà ornamento e
grazia assai la voce umana a lutti questi instrumenli, de’ quali voglio che al
nostro Corlegian basti aver notizia: e quanto più però in essi sarà eccellente,
tanto sarà meglio; senza impacciarsi molto di quelli che Minerva rifiutò ad
Alcibiade, perché pare che abbiano del schifo. 11 tempo poi nel quale usar si
pos- sono queste sorti di musica estimo io che sia, sempre che r uomo si trova
in una domestica e cara compagnia, quando altre faccende non vi sono; ma sopra
tutto conviensi in pre- senza di donne,, perché quegli aspetti indolciscono gli
animi di chi ode, e più i fanno penetrabili dalla soavità della mu- sica, e
ancor svegliano i spirili di chi la fa: piacemi ben, come ancor ho detto, che
si fugga la moltitudine, e massi- mamente degl’ ignobili. Ma il condimento del
tutto bisogna che sia la discrezione: perché in effetto saria impossibile ima-
ginar tutti i casi che occorrono; e se il Corlegiano sarà giu- sto giudice di
sé stesso, s’accommoderà bene ai tempi, e cono- scerà quando gli animi degli
auditori saranno disposti ad udire, e quando no ; conoscerà l’ età sua: ohé in
vero non ai conviene e dispare assai vedere un uomo di qualche grado, vecchio,
canuto e senza denti, pien di rughe, con una viola in braccio sonando, cantare
in mezzo d’una compagnia di donne, avvenga ancor che mediocremente lo facesse:
e que- sto, perché il più delle volle cantando si dicon parole amo^
Digitized by Google IL CORTEGIANO. 88 rose,
e ne’ vecchi l’amor è cosa ridicola; benché qualche volta paja che egli si
diletti, tra gli altri suoi miracoli, d’ac- cendere in dispetto degli anni i
cori agghiacciati. — XIV, Rispose allora il MAcmnco : Non private, messer
Federico, i poveri vecchi di questo piacere ; perchè io già ho conosciuti
uomini di tempo, che hanno voci perfettissime, e mani dispostissime agl’
instrumenti, molto più che alcuni gio- vani. — Non vogho, disse messer
Federico, privare i vecchi di questo piacere, ma voglio ben privar voi e queste
donne del ridervi di quella inezia ; e se vorranno i vecchi cantare alla viola,
faccianlo in secreto, e solamente per levarsi del- r animo qne’ travagliosi
pensieri e gravi molestie di che la vita nostra è piena, e per gustar quella
divinità ch’io credo che nella musica sentivano Pitagora e Socrate. E se bene
non la eserciteranno, per aver fattone già nell’ animo un certo abito la
gustaran molto più udendola, che chi non avesse cognizione: perchè, si come
spesso le braccia d’un fabro, debile nel resto, per esser più esercitate sono
più gagliarde che quelle d’ un altro uomo robusto, ma non assueto a fati- car
le braccia, cosi le orecchie esercitate nell’armonia molto meglio e più presto
la dìscerneno, e con molto maggior pia- cer la giudicano, che l’ altre, per
buone ed acute che siano, non essendo versate nelle varietà delle consonanze
musicali; perchè quelle modulazioni non entrano, ma senza lasciare gusto di sè
via trapassano da canto all’ orecchie non assuete d’ adirle : avvenga che
insino alle fiere sentano qualche di- lettazion della melodia. Questo è adunque
il piacer, che si conviene ai vecchi pigliare della musica. Il medesimo dico
del danzare ; perchè in vero questi esercizii si deono lasciare prima che dalla
età siamo sforzati a nostro dispetto lasciar- gli. — Meglio è adunque , rispose
quivi il signor Morello quasi adiralo, escludere tutti i vecchi, e dir che
solamente i giovani abbiam da esser chiamati Cortegiani. — Rise allor messer
Federico, e disse rjVedele voi, signor Morello, che quelli che amano queste
cose, se non son giovani, si studiano d’ apparare; e però si tingono i capelli,
e fannosi la barba due volte la settimana: e ciò procede, che la natura tacita-
mente loro dice, che tali cose non si convengono se non
Dir;---; LIBRO SECONDO. 89 a’
giovani. — Risero tutte le donne, perchè ciascuna com- prese che quelle parole
toccavano al signor Morello; ed esso parve che un poco se ne turbasse.
XV. Ma sono ben degli altri intertenimenti con donne, sosgiunse subito messer
Fedeb^co, che si convengono ai vec- chi. — E quali? disse il signor Mobello;
dir le favole? — E questo ancor, rispose messer Feoebico. Ma ogni età, come
sapete, porla seco i suoi pensieri, ed ha qualche peculiar virtù e qualche
peculiar vizio ; chè i vecchi, come che siano ordinariamente prudenti più che i
giovani, più continenti e più sagaci, sono anco poi più parlatori, avari,
diSlcili, timidi; sempre gridano in casa, asperi ai figlioli, vogliono che
ognun faccia a modo loro: e per contrario i giovani, animosi, libe- rali,
sinceri, ma pronti alle risse, volubili, che amano e dis- amano in un punto,
dati a tutti i lor piaceri, nimici a chi ìor ricorda il bene. Ma di tutte le
età la virile è più tempe- rata, che già ha lasciato le male parli della
gioventù, ed an- cor non è pervenuta a quelle della vecchiezza. Questi adun-
que, posti quasi nelle estremità, bisogna che con la ragion sappiano correggere
i vizii che la natura porge. Però deono i vecchi guardarsi dal molto laudar sè
stessi, e dalfaltrc coso viziose che avemo detto esser loro proprie, e valersi
di quella prudenza e cognizion che per lungo uso avranno acquietata, ed esser
quasi oracoli a cui ognun vada per consìglio, ed aver grazia in dir quelle cose
che sanno, accommodatamente ai pro- positi, accompagnando la gravità degli anni
con una certa temperata e faceta piacevolezza. In questo modo saranno buoni
Cortegiani, ed interterrannosi bene con uomini e con donne, ed in ogni tempo
saranno gratissimi, senza cantare o danzare; e quando occorrerà il bisogno,
mostreranno il va- lor loro nelle cose d’importanza. XVI. Questo medesimo
rispetto e giudicio abbian i gio- vani, non già di tener lo stile dei vecchi,
chè quello che all’uno conviene non converrebbe in lutto all’altro, e suolsi
dir che ne’ giovani troppo saviezza è mal segno, ma di cor- regger in sè i
vizii naturali. Però a me piace mollo veder un giovane, e massimamente nell’
arme, che abbia un poco del grave e del taciturno ; che stia sopra di sè, senza
que’ modi 8 * ?cd by Google 90 IL
CORTEGIANO. inquieti che spesso in tal età si veggono ; perchè par
che ab- hian non so che di più che gli altri giovani. Oltre a ciò quella *
maniera cosi riposata ha in sè una certa fierezza riguardevo- le, perché par
mossa non da ira ina da giudicio, e più presto governata dalla ragione che
dallo appetito: e questa quasi sempre in tutti gli uomini di gran core si
conosce; e mede- simamente vedemola negli animali bruti, che hanno sopra gli
altri nobilitò e fortezza, come nello leone e nella aquila : nè ciò è fuor di
ragione, perchè quel movimento impetuoso c subito, senza parole o altra
dimostrazion di collera, che con tutta la forza unitamente in un tratto, quasi
co'me scop- pio di bombarda, erompe dalla quiete, che è il suo contrario, è
molto più violento e furioso che quello che, crescendo per gradi, si riscalda a
poco a poco. Però questi che, quando son per far qualche impresa, parlan tanto
e saltano, né posson star fermi, pare che in quelle tali cose si svampino; e,
come ben dice il nostro messer Pietro Monte, fanno come i fan- ciulli, che andando
di notte per paura cantano, quasi che con quel cantare da sè stessi si facciano
animo. Cosi adunque come in un giovane la gioventù riposata e matura è molto
laudevole, perché par che la leggerezza, che è vizio peculiar di quella età,
sia temperata e corretta, cosi in un vecchio è da estimare assai la vecchiezza
verde e viva, perchè pare che ’l vigor dell’ animo sia tanto, che riscaldi e
dia forza a quella debile e fredda età, e la mantenga in quello stato me-
diocre, che è la miglior parte della vita nostra. XVII. Ma in somma, non
bastaranno ancor tutte queste condizioni nel nostro Cortegiano per acquistar
quella univer- sa! grazia de’ signori, cavalieri e donne, se non arà insieme
una gentil e amabile maniera nel conversare cotidiano: e di questo credo
veramente che sia ditlìcile dar regola alcuna, per le infinite e varie cose che
occorrono nel conversare, es- sendo che tra tutti gli uomini del mondo non si
trovano dui, che siano d’animo totalmente simili. Però chi ha da accom- modarsi
nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio, e,
conoscendo le differenze dell’uno e dell’altro, ogni di muti stile e modo,
secondo la natura di quelli con chi a conversar si mette. Né io per me altre
regole LIBRO SECONDO. 91 circa ciò dar gli
saprei, eccello le già date, le quali sin da fanciullo, confessandosi, imparò
il nostro signor Morello. — Rise quivi la signora Emilia, e disse : Voi fughile
troppo la fatica, messer Federico: ma non vi verrà fatto» ckò pur avete da dire
fin che I’ ora sia d’ andare a lètto. — B s^io. Signo- ra, non avessi che dire?
— rispose messer Federico. Disse la signora Emilia: Qui si vedrà il vostro
ingegno ; e se è vero quello eh* io già ho inteso, essersi trovato uomo tanto
inge- gnoso ed eloquente, che non gli sia mancalo subjetto per comporre un
libro in laude d’ una mosca, altri in laude della febre quartana, un altro in
laude del calvìzio : non dà il core a voi ancor di saper trovar che dire per
una sera sopra la Cortegiania? — Ormai, rispose messer Federico, tanto ne avemo
ragionato, che ne sariano fatti doi libri ; ma poi che non mi vale escusazione,
dirò pur fin che a voi paja eh’ io abbia satisfatto, se non all’ obligo, almeno
al poter mio. XYIII. lo estimo che la conversazione, alla quale dee
principalmente attendere il Cortegìano con ogni suo studio per farla grata, sia
quella che averà col suo principe; e ben- ché questo nome di conversare importi
una certa parità, che pare che non possa cader tra ’l signore e '1 servitore,
por noi per ora la chiamaremo cosi. Voglio adunque che ’l Corlegia- no, oltre
lo aver fatto ed ogni di far conoscere ad ognuno, sé esser di quel valore che
già avemo detto, si volti con tutti i pensieri e forze dell’ animo suo ad amare
e quasi adorare il principe a chi serve, sopra ogni altra cosa ; e le voglie
sue e costumi e modi, lutti indirizzi a compiacerlo. — Quivi non aspettando
più, disse Pietro da Napoli : Di questi Gorlegiani oggidì trovarannosi assai,
perchè mi pare che in poche pa- role ci abbiate dipinto un nobile adulatore. —
Voi v’ ingan- nate assai, rispose messer Federico; perchè gli adulatori non
amano i signori nè gli amici, il che io vi dico che voglio che sia
principalmente nel nostro Cortegiano ; e ’l compiacere e secondar le voglie di
quello a chi si serve si può far senza adulare, perché io intendo delle voglie
che siano ragionevoli ed oneste, ovvero di quelle che in sé non son nè buone nè
male, come saria il giocare, darsi più ad uno esercizio ohe ad un altro ; ed a
questo voglio che il Cortegiano s’ accom- Digitized by Google
02 IL CORTEGIAXO. modi, sebbcn da natura sua vi
fosse alieno, di modo che, sempre che ’l signore lo vegga, pensi che a parlar
gli abbia di cosa che gli sia grata : il che interverrà, se in costui sarà il buon
giudicio per conoscere ciò che piace al principe, e Io ingegno e la prudenza
per saperscgli accommodare, e la de- liberala volontà per farsi piacer quello
che forse da natura gli dispiacesse; ed avendo queste avvertenze, inanzi al
prin- cipe non starà mai di mala voglia nè melanconico, nè cosi taciturno, come
molti che par che tenghino briga coi patro- ni, che è cosa veramente odiosa.
Non sarà maledico, e spe- cialmente dei suoi signori; il che spesso interviene,
chè pare che nelle corti sia una procella che porli seco questa condi- zione,
che sempre quelli che sono più beneficati dai signori, e da bassissimo loco
ridotti in alto stato, sempre si dolgono e dicono mal d’essi: il che è
disconveniente, non solamente a questi tali, ma ancor a quelli che fossero mal
trattati. Non usarà il nostro Corlegiano prosunzion sciocca ; non sarà ap-
portator di nuove fastidiose ; non sarà inavvertito in dir ta- lor parole che
offendano in loco di voler compiacere ; non sarà ostinato e contenzioso, come
alcuni, che par che non godano d’altro che d’essere molesti e fastidiosi a
guisa di mosche, e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno
senza rispetto ; non sarà cianciatore, vano o bugiar- do, vantatore nè
adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, e massimamente in publico,
quella reverenza e rispetto che si conviene al servitor verso il signor; e non
farà come molti, i quali, incontrandosi con qualsivoglia gran principe, se pur
una sol volta gli hanno parlalo, se gli fanno inanti con un certo aspetto
ridente e da amico, cosi come se volessero accarezzar un suo equale, o dar
favor ad un minor di sè. Rarissime volte o quasi mai non domanderà al signor
cosa alcuna per sè stesso, acciò che quel signor avendo ri- spetto di negarla
cosi a lui stesso, talor non la conceda con fastidio, che è molto peggio.
Domandando ancor per altri, osserverà discretamente i tempi, e domanderà cose
oneste e ragionevoli; ed assetlarà talmente la petizion sua, levandone quelle
parti che esso conoscerà poter dispiacere e facilitando con destrezza le diflìcollà,
che ’l signor la concederà sempre, / LIBRO
SECONDO. 93 0 se par la negherà, non crederà aver
olTeso colai a chi non ha voluto compiacere : perchè spesso i signori, poi che
hanno negato una grazia a chi con molta importunità la domanda, pensano che
colui che l’ ha domandata con tanta instanza la desiderasse molto ; onde, non
avendo potato ottenerla, debba voler male a chi glie l’ ha negata ; e per
questa credenza essi cominciano ad odiar quel tale, e mai più noi posson ve-
der con buon occhio. XIX. Non cercherà d’ intromettersi in camera o nei
lo- chi secreti col signor suo non essendo richiesto , sebben sarà di molta
autorità; perchè spesso i signori, quando stanno privatamente, amano una certa
libertà di dire e far ciò che lor piace, e però non vogliono essere nè vedati
nè uditi da persona da cui possano esser giudicati ; ed è ben conveniente. Onde
quelli che biasimano i signori che tengono in camera persone di non molto
valore in altre cose che in sapergli ben servire alla persona, panni che
facciano errore, perchè non so per qual causa essi non debbano aver quella
libertà per relasciare gli animi loro, che noi ancor volemo per rclasciar
1 nostri. Ma se’l Cortegiano, consueto di trattar cose impor- tanti, si ritrova
poi secretamente in camera, dee vestirsi un’ altra persona, e difTerir le cose
severe ad altro loco e tempo, ed attendere a ragionamenti piacevoli e grati al
signor suo, per non impedirgli quel riposo d’ animo. Ma in questo ed in ogni
altra cosa sopra tutto abbia cura di non venirgli a fa- stidio, ed aspetti che
i favori gli siano otièrti più presto, che uccellargli cosi scopertamente come
fan molti, che tanto avidi ne sono, che pare che, non conseguendogli , abbiano
da per- der la vita; e se per sorte hanno qualche disfavore, ovvero veggono
altri esser favoriti, restano con tanta angonia, che dissimular per modo alcuno
non possono quella invidia: onde fanno ridere di sè ognuno, e spesso sono causa
che i signori dian favore a chi si sia, solamente per far loro dispetto. So poi
ancor si ritrovano in favor che passi la mediocrità, tanto s’ inebriano in
esso, che restano impediti d’ allegrezza; nè par che sappian ciò che si far
delle mani nè dei piedi, e quasi stanno per chiamar la brigata che venga a
vedergli e con- gratularsi seco, come di cosa che non siano consueti mai
Diy ; uy VI' oogle 94 IL
CORTEGIANO. più d’avere. Di questa sorte non voglio che sia il
nostro Cor- tegiano. Voglio ben che ami i favori, ma non però gli estimi tanto,
che non paja poter ancor star senz’ essi; e quando gli consegue non mostri d’
esservi dentro nuovo nè forestiero, nè maravigliarsi che gli siano offerti; nè
gli rifiuti di quel modo che fanno alcuni, che per vera ignoranza restano d’ac-
cetlargli, e cosi fanno vedere ai circonstanti che se ne cono- scono indegni.
Dee ben l’ uomo star sempre un poco più ri- messo che non comfjorta il grado
suo; non accettar così facilmente i favori ed onori che gli sono offerti, e
rifiutarli modestamente, mostrando estimargli assai, con tal modo però, che dia
occasione a chi gli offerisce d’ offerirgli con molto maggior instanza; perchè
quanto più resistenza con tal modo s’ usa nello acccttórgli, tanto più pare a
quel principe che gli concede d’ esser estimato, e che la grazia che fa tanto
sia maggiore, quanto più colui che la riceve mostra apprezzarla e più di essa
tenersi onorato. E questi son i veri e sodi fa- vori, e che fanno l’uomo esser
estimato da chi di fuor li vede; perchè, non essendo mendicati, ognun presume
che nascano da vera virtù; e tanto più, quanto sono accompa- gnali dalla
modestia. — XX. Disse allor messer Cesabk Gonzaga : Farmi che ab- biale
rubalo questo passo allo Evangelio, dove dice: Quando tei imilalo a nozxe, va,
ed assellali nell’infimo loco, acciò che venendo colui che l’ ha invilato,
dica; Amico, ascendi più su; e cosi li sarà onore alla presenza dei
convitali. — Rise messer Federico, e disse: Troppo gran sacrilegio sarebbe
rubare allo Evangelio; ma voi siete più dotto nella Sacra Scrittura ch’io non
mi pensava; — poi soggiunse: Vedete come a gran pe- ricolo si mettano talor
quelli che temerariamente inanzi ad un signore entrano in ragionamento, senza
che altri li ricer- chi; e spesso quel signore, per far loro scorno, non
risponde e volge il capo ad un’altra mano, e se pur ris|>onde loro, ognun
vede che lo fa con fastidio. Per aver adunque favor dai signori, non è miglior
via che meritargli; nè bisogna che r uomo si confidi, vedendo un altro che sia
grato ad un prin- cipe per qualsivoglia cosa, di dover, per imitarlo, esso
ancor medesimamente venire a quel grado: perchè ad ognun non
Digitized by CpQglc LIBRO SECONDO. 95
si convien ogni cosa; e trovarassi talor un uomo, il qual da natura sarà
tanto pronto alle facezie, che ciò che dirà por- terà seco il riso, e parerà
che sia nato solamente per quello: e s’ nn altro che abbia maniera di gravità,
avvenga che sia di buonissimo ingegno, vorrà mettersi a farii medesimo, sarà
freddissimo e disgraziato, di sorte che farà stomaco a chi r udirà; e riuscirà
appunto quell’ asinof, che ad imitazion del cane volca scherzar col patrone.
Però bisogna che ognun conosca sé stesso e le forze sue, ed a quello
s’accommodi, e consideri quali cose ha da imitare e quali no. — X\I.
Prima che più avanti passate, disse quivi Vincen- zio Calhetz, s’ io ho ben
inteso , parmi che dianzi abbiate detto che la miglior via per conseguir favori
sia il meritargli; e che più presto dee il Cortegiano aspettar che gli siano
of- ferti, che prosuntuosamente ricercargli. Io dubito assai che questa regola
sia poco al proposito, c parmi che la esperienza ci faccia molto ben chiari del
contrario: perchè oggidì po- chissimi sono favoriti da’ signori, eccetto i
prosuntuosi ; e so che voi potete esser buon testimonio d’alcuni, che,
ritrovan- dosi in poca grazia dei lor principi , solamente con la prosun- zione
si son loro fatti grati; ma quelli che per modestia siano ascesi, io per me non
conosco, ed a voi ancor do spazio di pensarvi , e credo che pochi ne troverete.
E se considerato la corte di Francia, la qual oggidì è una delle più nobili di
cristianità, troverete che tutti quelli che in essa hanno gra- zia universale,
tengon del presuntuoso; c non solamente l’uno con l’altro, ma col re medesimo.
— Questo non dite già, ri- spose messer Federico; anzi in Francia sono modestissimi
e cortesi gentiluomini: vero è che usano una certa libertà e do- mestichezza
senza cerimonia, la qual ad essi è propria e na- turale; e però non si dee
chiamar presunzione, perchè in quella sua cosi fatta maniera, benché rìdano, e
piglino pia- cere dei presuntuosi, pur apprezzano molto quelli che loro pajono
aver in sè valore e modestia. — Rispose il Calmetà: Guardate i Spagnoli, i
quali par che siano maestri della Cortegiania, e considerale quanti ne trovate,
che con donne e con signori non siano presuntuosissimi ; e tanto più de’Fran-
zesi, quanto che nel primo aspetto mostrano grandissima Digitized
by Gdogle 96 IL CORTEGIANO. modestia: e
veramente in ciò sono discreti, perché, come ho detto, i signori de’ nostri
tempi tutti favoriscono que’ soli che hanno tai costumi. — XXII. Rispose
allor messcr Fkbebico: Non voglio già comportar, messer Vincenzio, che voi
questa nota diate ai signori de’ nostri tempi; perchè por ancor molti sono che
amano la modestia, ia quale io non dico però che sola basti per far l’ uom
grato: dico ben, che quando è congiunta con un gran valore, onora assai chi la
possedè; e se ella di sè stessa tace, l’ opere laudevoli parlano largamente, e
son molto più maravigliose che se fossero compagnatc dalla prosanzio- ne e temerità.
Non voglio già negar che non si trovino molti Spagnoli prosuntuosi; dico ben,
che quelli che sono assai esti- mali, per il più sono modestissimi. Riirovansi
poi ancor alcun’ altri tanto freddi, che fuggono il consorzio degli uomini
trop- po fuor di modo, e passano un certo grado di mediocrità, tal che si fanno
estimare o troppo timidi o troppo superbi; c questi per niente non laudo, nè
voglio che la modestia sia tanto asciutta ed arida, che diventi rusticità. Ma
sia il Corte- gìano, quando gli vien in proposito, facondo, e nei discorsi de’
stali prudente e savio, cd abbia tanto giudicio, che sappia accommodaréi ai
costumi delle nazioni ove si rilrova;poi nelle cose più basse sia piacevole, e
ragioni ben d’ ogni cosa ; ma sopra tutto tenda sempre al bene: non invidioso,
non maldi- cente; nè mai s’induca a cercar grazia o favor per via viziosa, nè
per mezzo di mala sorte. — Disse allora il Calheta: Io v’ assicuro che tutte
l’altre vie son molto più dubiose e più lunghe che non è questa che voi
biasimate; perchè oggidì, per replicarlo un’ altra volta , i signori non amano
se non que’ che son volli a tal cammino. — Non dite cosi, rispose allor messcr
Federico, perchè questo sarebbe troppo chiaro argomento, che i signori de’
nostri tempi fossero lutti viziosi c mali; il che non è, perchè pur se ne
ritrovano alcuni buo- ni. Ma se ’l nostro Cortegiano per sorte sua si troverà
esser a servizio d’un che sia vizioso e maligno, subito che lo co- nosca se ne
levi, per non provar quello estremo affanno che sentono tulli i buoni che
serveno ai mali. — Bisogna pregar Dio, rispose il Calmeta, che ce gli dia
buoni, perchè quando Digitized by Google LIBRO
SECONDO. 97 8* hanno, è forza patirgli (ali quali sono
; perchè infiniti ri- spetti astringono chi è gentilnomo, poi che ha cominciato
a servire ad un patrone, a non lasciarlo; ma la disgrazia con- siste nel
principio: e sono i Cortegiani in questo caso alla condizion di que’
malavventurati uccelli, che nascono in trista valle. — A me pare, disse messer
Federico, che ’l de- bito debba valer più che tutti i rispetti; e pur che un
gentil- uomo non lasci il patrone quando fosse in su la guerra o in qualche
avversità, di sorte che si potesse credere che ciò fa- cesse per secondar la
fortuna, o per parergli che gli mancasse quel mezzo del qual potesse trarre
utilità, da ogni altro tem- po credo che possa con ragion e debba levarsi da
quella ser- vitù, che tra i buoni sia per dargli vergogna; perchè ognun presume
che chi serve ai buoni sìa buono , e chi serve ai mali sia malo. — XXIIl.
Vorrei, disse allor il signor Ludovico Pio, che voi mi chiariste un dubio eh’
io ho nella mente; il qual’ è, se un gentiluomo, mentre che serve ad un
principe, è obli- gato ad ubedìrgli in tutte le cose che gli comanda , ancor
che fossero disoneste e vituperose. — In cose disoneste non sia- mo noi
obligati ad ubedire a persona alcuna, — rispose mes- ser Federico. E come,
replicò il signor Ludovico, s’ io starò al servizio d’ un principe il qual mi
(ratti bene, c si cenfidi eh’ io debba far per lui ciò che far si può,
comandan- domi ch’io vada ad ammazzare un uomo, o far qualsivoglia altra cosa,
debbo io rifiutar di farla? — Voi dovete, rispose messer Federico, ubedire al
signor vostro in tutte le cose che a lui sono utili ed onorevoli, non in quelle
che gli sono di danno e di vergogna: però se esso vi comandasse che face- ste
un tradimento, non solamente non sete obligato a farlo ^ ma sete obligato a non
farlo, e per voi stesso, e per non es- ser ministro della vergogna del signor
vostro. Vero è che molte cose pajono al primo aspetto buone che sono male , e
molte pajono male e pur son buone. Però è licito talor per servizio de’ suoi
signori ammazzare non un uomo ma diece milia, e far molte altre cose, le quali,
a chi non le conside- rasse come si dee, pareriano male , e pur non sono. — Ri-
spose allor il signor Gaspar Pallavicino: Deh , per vostra fè, t»
Digitiz ed by Google IL CORTEGIANO. 98
ragionate an poco sopra questo, ed insegnateci come si pos- san discerner le
cose veramente buone dalle apparenti. — Per- donatemi, disse messer Fedbbico;
io non voglio entrar qua, chè troppo ci saria che dire, ma il tutto si rimetta
alla discre- zion vostra. — XXIV. Chiaritemi almen un altro dubio, —
replicò il signor Gasparo. E che dubio? — disse messer Federico. Que- sto,
rispose il signor Gasparo. Vorrei sapere, essendomi im- posto da un mio signor
terminatamentc quello eh’ io abbia a fare in una impresa o negozio di
qualsivoglia sorte, s’ io, ri- trovandomi in fallo, e parendomi con l’operare più
o meno 0 allrimenli di quello che m’ è stato imposto, poter fare suc- cedere la
cosa più prosperamente o con più utilità di chi m’ha dato tal carico, debbo io
governarmi secondo quella prima norma senza passar i termini del comandamento,
o por far quello che a me pare esser meglio? — Kisiiose allora messer Federico:
Io, circa questo, vi darei la sentenza con lo esem- pio di Manlio Torquato, che
in tal caso per troppo pietà uc- cise il figliolo , se lo estimassi degno di
molta laude , che in vero non l’ estimo; benché ancor non oso biasimarlo,
contra la opinion di tanti secoli: perchè senza dubio è assai pericolosa cosa
desviare dai comandamenti de’ suoi maggiori, confidan- dosi più del giudicio di
sé stessi che di quegli ai quali ragio- nevolmente s'ha da ubedire; perchè se
per sorte il pensier vicn fallilo, e la cosa succeda male, incorre l’uomo
noll’er- ror della disubedienza, e ruina quello che ha da far senza via alcuna
di escusazione o speranza di perdono; se ancor la cosa vien secondo il
desiderio, bisogna laudarne la ventura, e contentarsene: pur con tal modo
s’introduce una usanza d’estimar poco i comandamenti de’ superiori ; e per
esempio di quello a cui sarà successo bene , il quale forse sarà pru- dente ed
ara discorso con ragione, ed ancor sarà stato aiu- talo dalla fortuna, vorranno
poi mille altri ignoranti e leg- gieri pigliar sicurtà nelle cose
importantissime di far al lor modo, e, per mostrar d’ esser savii od aver
autorità, desviar dai comandamenti de’signori: il che è malissima cosa, e spesso
causa d’ infiniti errori. Ma io estimo che in tal caso debba quello a cui tocca
considerar maturamente, e quasi porre io LIBRO SECONDO.
99 bilancia il bene e la commodllà che gli è per venire del
fare centra il comandamento, ponendo che ’l disegno suo gli suc- ceda secondo
la speranza; dall’ altra banda, contrapcsare il male e la incommodità che glie
ne nasce se per sorte, con- trafacendo al comandamento, la cosa gli vien mal
fatta: c conoscendo che '1 danno possa esser maggiore e di più impor- tanza
succedendo il male, che la utilità succedendo il bene, dee astenersene, e
servar apuntino quello che imposto gli è; e per contrario, se la utilità è per
esser di più im|)ortanza succedendo il bene, che '1 danno succedendo il male,
credo che possa ragionevolmente mettersi a far quello che più la ragione e’I
giudicio suo gli detta, e lasciar un poco da canto quella propria forma del
comandamento; per fare come i buoni mercatanti, li quali per guadagnare l’
assai Avventu- rano il poco, ma non l’assai per guadagnar il poco. Laudo ben
che sopra tutto abbia rispetto alla natura di quel signore a cui serve, e
secondo quella si governi; perchè se fosse cosi austera, come di molti che se
ne trovano, io non lo con- sigliare! mai, se amico mio fosse, che mutasse in
parte alcu- na r ordine datogli: acciò che non gl’ intravenisse quel che si
scrive esser intervenuto ad un maestro ingegnerò d’ Ate- niesi, al quale,
essendo Publio Crasso Muziano in Asia, e volendo combattere una terra, mandò a
domandare un de’dui alberi da nave che esso in Atene avea veduto, per far uno
ariete da battere il muro, e disse voler il maggiore. L’ inge- gnerò, come
quello che era iutendenlissimo, conobbe quel maggiore esser poco a proposito
per tal ctTetto; e per esser il minore più facile a portare, ed ancor più
conveniente a far quella machina, mandollo a Muziano. Esso, intendendo come la
cosa era ita, fecesi venir quel povero ingegnerò, e doman- datogli, perchè non
l’avea ubedito, non volendo ammettere ragion alcuna che gli dicesse, lo fece
spogliar nudo, e bat- tere e frustare con verghe tanto che si mori, parendogli
che in loco d’ ubedirlo avesse voluto consigliarlo: si che con questi cosi
severi uomini bisogna usar molto rispetto. X\Y. Ma, lasciamo da canto
ornai questa pratica de’si- gnori, c vengasi alla conversazione coi pari o poco
diseguali; chè ancor a questa bisogna allendere, ijcr esser univcrsal-
Digiii.;Qd by Google 100 IL CORTEGIANO.
mente più frequentala, e trovarsi l’uomo più spesso in que- sta che in
quella de’ signori. Benché son alcuni sciocchi, che se fossero in compagnia del
maggior amico che abbiano al mondo, incontrandosi con un meglio vestito, subito
a quel s’attaccano; se poi gli ne occorre un altro meglio, fanno pur il
medesimo. £ quando poi il principe passa per le piazze, chiese o altri lochi
publici, a forza di cubiti si fanno far strada a tutti, tanto che se gli
mettono al costato ; c se ben non hanno che dirgli, pur lor voglion parlare, e
tengono lunga la diceria, e rideno, e batteno le mani e ’l capo, per mostrar
ben aver faccende d’importanza, acciò che ’l popolo gli vegga in favore. Ma poi
che questi tali non si degnano di parlare se non coi signori, io non voglio che
noi degnamo parlar d’ essi. — XXVI. Allora il MagniBco Jdliano, Vorrei,
disse, mes- scr Federico, poiché avete fatto menzion di questi che s’ac-
compagnano cosi volontieri coi ben vestiti, che ci mostraste di qual maniera si
debba vestire il Cortegiano, e che abito più se gli convenga, e circa tutto l’
ornamento del corpo, in che modo debba governarsi ; perchè in questo veggiamo
in- finite varietà : e chi si vestp alta franzese, chi alla spagnola, chi vuol
parer Tedesco; né ci mancano ancor di quelli che si vestono alla foggia de’
Turchi ; chi porta la barba, chi no. Saria adunque ben fatto, saper in questa
confusione eleggere il meglio. — Disse messer Fedebico: Io in vero non saprei
dar regola determinata circa il vestire, se non che l’ uom s’accomodasse alla
consuetudine dei più; e poiché, come voi dite, questa consuetudine è tanto varia,
e che gl’italiani tanto son vaghi d’abigliarsi alle altrui fogge, credo che ad
ognuno sia licito vestirsi a modo suo. Ma io non so per qual fato in- tervenga
che la Italia non abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per
italiano ; che benché lo aver posto in usanza questi nuovi faccia parer quelli
primi gotlìssimi, pur quelli forse erano segno di libertà, come questi son
stati au- gurio di servitù ; il qual ormai parmi assai chiaramente adem- piuto.
E come siscrive, che, avendo Dario, l’anno prima che combattesse con
Alessandro, fatto acconciar la spada che egli portava a canto, la quale era
persiana, alla foggia di Mace- LIBRO SECONDO. 101
donia, fu interpretato dagl’ indovini che questo signiGcava, che coloro,
nella foggia de’ quali Dario aveva tramutato la forma della spada persiana,
vernano a dominar la Persia ; cosi r aver noi mutati gli abiti italiani negli
stranieri panni che signiGcasse, tutti quegli, negli abili de’quali i nostrf
erano trasformati, dover venire a subjugarci; il che è stato troppo più che
vero, cbè ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda: tanto che
poco più resta che predare, e pur ancor di predar non si resta. XXVII. Ma
non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio : però ben sarà dir
degli abiti del nostro Cortegia- no ; i quali io estimo che, pur che non siano
fuor della con- suetudine, nè contrarii alla protessione, possano per lo resto
tutti star bene, purché satisfacciano a chi gli porta. Vero è eh’ io per me
amerei che non fossero estremi in alcuna par- te, come talor suol essere il
franzese in troppo grandezza, e ’l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e
l’uno e l’al- tro corretti e ridotti in miglior forma dagl’ Italiani. Piacemi
ancor sempre, che tendano un poco più al grave e riposato, che al vano: però
parmi che maggior grazia abbia nei vesti- menti il color nero, che alcun altro;
e se pur non è nero, che almen tenda al scoro: e questo intendo del vestir
ordina- rio, perchè non è dubio che sopra l’ arme più si convengan colori
aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi.
Medesimamente nei spettacoli pnblici di feste, di giochi, di mascare, e di lai
cose ; perchè cosi divi- sati porlan seco una certa vivezza ed alacrità, che in
vero ben s’ accompagna con l’ armi e giochi : ma nel resto, vorrei che
mostrassino quel riposo che mollo serva la nazion spagnola, perchè le cose
estrinseche spesso fan testimonio delle intrin- seche. — Allor disse messer
Cesare Gonzaga : Questo a me daria poca noja, perchè, se un genliluom nelle
altre cose vale, il vestire non gli accresce nè scema mai reputazione. — Ri-
spose messer Federico : Voi dite il vero. Pur qual è di noi che, vedendo
passeggiar un gentiluomo con una roba adosso quartata di diversi colori, ovvero
con tante slringhette e fet- tuzze annodate e fregi traversali, non Io tenesse
per pazzo o per buffone? — Nè pazzo, disse messer Pietro Bembo, nè buf- 0
* Digiiized by Google 102 IL
CORTEGIANO. fone sarebbe cosini tenuto da chi fosse qualche tempo
vivalo nella Lombardia, perchè cosi vanno tatti. — Adunque, ri- spose la
signora Duchessa ridendo, se cosi vanno lutti, op- porre non se i'ii dee per
vizio, essendo a loro questo abito tanto* conveniente e proprio, quanto ai
Veneziani il portar le maniche a corneo, ed a’ Fiorentini il cappuzzo. — Non
parlo io, disse mcsser Fedbhico, più della Lombardia che de- gli altri lochi,
perchè d’ogni nazion se ne trovano e di scioc- chi e d’avveduti. Ma per dir cii
che mi par d’importanza nel vestire, voglio che ’l nostro Cortegiano in tutto
l’abito sia pulito e delicato, ed abbia una certa conformità di mode- sta
attilatura, ma non però di maniera feminile o vana, nè più in una cosa che
nell’altra, come molti ne vederne, che pongon tanto studio nella capigliara, che
si scordano il re- sto; altri fan professione di denti, altri di barba, altri
di borzacchini, altri di berrette, altri di cuffie; e cosi intervien che quelle
poche cose più colle pajono lor prestale, e tulle r altre che sono
sciocchissime si conoscono per le loro. E questo tal costume voglio che fugga
il nostro Cortegiano, per mio consiglio ; aggiugnendovi ancor, che debba fra sè
stesso deliberar ciò che vuol parere, e di quella sorte che desidera esser
estimato, della medesima vestirsi, e far che gli abili lo ajutino ad esser
tenuto per tale ancor da quelli che non l’odono parlare, nè veggono far
operazione alcuna. — XXVllI. A me non pare, disse allor il signor Gaspab
Pal- LAviciNO, che si convenga, nè ancorché s’usi tra persone di valore,
giudicar la condizion degli uomini agli abili, e non alle parole ed alle opere,
perchè molli s’ ingannariano ; nè senza causa dicesi quel proverbio, che 1’
abito non fa il mo- naco. — Non dico io, rispose messer Federico, che per que-
sto solo s’abbiano a far i giudici! resoluti delle condizion de- gli uomini, nè
che più non si conoscano per le parole e per r opere che per gli abili : dico
ben, che ancor l’ abito non è piccolo argomento della fantasia di chilo porla,
avvenga che talor possa esser falso ; e non solamente questo, ma tutti i modi e
costumi, oltre all’ opere e parole, sono giudicio delle qualità di colui in cui
si veggono. — E che cose trovate voi, rispose il signor Gasparo,
sop<"> le uuali noi possiam far giu- Digitlzed by
Google LIBRO SECONDO. 103 dicio, che non
siano nè parole nè opere? — Disse allor mes- ser Federico: Voi siete troppo
sottile loico. Ma per dirvi come io intendo, si trovano alcune operazioni, che,
poi che son fat- te, restano ancora , come l’ edificare, scrivere ed altre
simi- li ; altre non rèstano, come quelle di che io voglio ora inten- dere :
però non chiamo in questo proposito che *1 passeggia- re, ridere, guardare, e
tai cose, siano operazioni'; e pur tutto questo di fuori dà notizia spesso di
quel dentro. Ditemi, non faceste voi giudicio che fosse nn vano e leggier uomo
quello amico nostro, del quale ragionammo pur questa mattina, sa- bito che lo
vedeste passeggiar con quel torzer di capo, dime- nandosi lutto, ed invitando
con aspetto benigno la brigata a cavarsegli la berretta? Cosi ancora quando
vedete uno che guarda troppo intento con gli occhi stupidi a foggia d’insen-
sato, 0 che rida cosi scioccamente come que’ mutoli gozzuti delle montagne di
Bergamo, avvenga che non parli o faccia altro, non lo tenete voi per un gran
babuasso? Vedete adunque che questi modi e costumi, che io non intendo per ora
che siano operazioni, fanno in gran parte che gli nomini sian conosciuti.
XXIX. Ma un’altra cosa parrai che dia e lievi molto la riputazione, e questa è
la elezion degli amici coi quali si ha I da tenere intrinseca pratica ;
perchè indubitatamente la rà- gion vuol, che di quelli che sono con stretta
amicizia ed in- dissolnbil compagnia congiunti, siano ancor le volontà, gli
animi, i giudicii e gl’ ingegni conformi. Cosi chi conversa con ignoranti o
mali, è tenuto per ignorante o mate; e per contra- rio chi conversa con buoni e
savii e discreti, è tenuto per tale: chè da natura par che ogni cosa volentieri
si congiunga col suo simile. Però gran riguardo credo che si convenga aver nel cominciar
queste amicizie, perchè di dui stretti amici chi conosce l’uno, subito imagina
l’ altro esser della medesi- ma condizione. — Rispose allor messer Pietro Bembo
: Del ristringersi in amicizia cosi unanime, come voi dite, parmi veramente che
si debba aver assai riguardo, non solamente per r acquistar o perdere la
riputazione, ma perchè oggidì pochissimi veri amici si trovano, nè credo che
più siano al mondo quei Piladi ed Oresti, Tese! e Pirìtoi, nè Scipioni •
by Google IL CORTEGIANO. 104
Lelii; anzi non so per qual deslin interviene ogni di, che dui amici , quali
saranno vivuli in cordialissimo amore moli’ anni, pur al fine l’un l’altro in
qualche modo s’ingan- nano, o per malignità, o per invidia, o per leggerezza, o
per qualche altra mala causa; e ciascun dà la colpa al compagno di quello, che
forse l’uno e l’altro la merita. Però essendo a me intervenuto più d’una volta
l’ esser ingannato da chi più amava, e da chi sopra ogni altra persona aveva
confidenza d’ esser amato, ho pensato talor da me a me, che sia ben non fidarsi
mai di persona del mondo, nè darsi cosi in preda ad amico, per caro ed amato
che sia, che senza riservo l’ uomo gli communichi tutti i suoi pensieri come
farebbe a sè stesso; perchè negli animi nostri sono tante latebre e tanti
recessi, che impossibil è che prudenza umana possa conoscer quelle simulazioni,
che dentro nascose vi sono. Credo adunque che ben sia, amare e servire l’un più
che l’altro, secondo i me- riti e ’l valore; ma non però assicurarsi tanto con
questa dolce esca d’amicizia, che poi lardi se n’abbiamo a pentire. — XXX.
Allor messer Fedebico, Veramente, disse, molto maggior saria la perdila che ’l
guadagno, se del consorzio umano si levasse quel supremo grado d’amicizia, che,
secondo me, ci dà quanto di bene ha in sè la vita nostra ; e però io per alcun
modo non voglio consentirvi che ragionevol sia, anzi mi daria il core di
concludervi, e con ragioni evidentis- sime, che senza questa perfetta amicizia
gli uomini sariano mollo più infelici che tutti gli altri animali ; e se alcuni
gua- stano, come profani, questo santo nome d’ amicizia, non è però da
estirparla cosi degli animi nostri, e per colpa dei mali privar i buoni di
tanta felicità ; ed io per me estimo, che qui tra noi sia più di un par di
amici, l’amor dei quali sia indissolubile e senza inganno alcuno, e per durar
fin alla morte con le voglie conformi, non meno che se fossero que- gli antichi
che voi dianzi avete nominati ; e cosi interviene quando, oltre alla
inclinazion che nasce dalle stelle, l’ uomo s’ elegge amico a sè simile di
costumi ; e ’l lutto intendo che sia tra buoni e virtuosi, perchè l’amicizia
de’ mali non è amicizia. Laudo ben che questo nodo cosi stretto non com- prenda
0 leghi più che dui, che altramente forse saria peri- LIBRO SECONDO.
105 coloso; perchè, come sapete, più difficilmente
s’accordano (re instrumenli di musica insieme, che dui. Vorrei adunque che ’l
nostro Cortegiano avesse un precipuo e cordial amico, se possibii fosse, di
quella sorte che detto avemo; poi, se- condo ’l valore e meriti, amasse,
onorasse ed osservasse tutti gli altri, e sempre procurasse d’intertenersi più
con gli esti- mali e nobili e conosciuti per buoni, che con gl’ ignobili e di
poco pregio ; di maniera che esso ancor da loro fosse amato ed onorato: e
questo gli verrà fatto se sarà cortese, umano, liberale, affabile e dolce in
compagnia, officioso e diligente nel servire e nell’ aver cura dell’utile ed
onor degli amici cosi assenti come presenti, sopportando i lor difetti naturali
e sopportabili , senza rompersi con essi per piccol causa , e correggendo in sè
stesso quelli che amorevolmente gli sa- ranno ricordati ; non si anteponendo
mai agli altri con cer- car i primi e i più onorali lochi; nè con fare come
alcuni, che par che sprezzino il mondo, e vogliano con una certa austerità
molesta dar legge ad ognuno; ed, oltre allo essere contenziosi in ogni minima
cosa e fuor di tempo, riprender ciò che essi non fanno, e sempre cercar causa
di lamentarsi degli amici: il che è cosa odiosissima. — XXXI. Quivi
essendosi fermalo di parlare messer Fede- rico, Vorrei, disse il signor Gasparo
Pallavicino, che voi ra- gionaste un poco più minutamente di questo conversar
con gli amici, che non fate; chè in vero vi tenete molto al ge- nerale, e quasi
ci mostrate le cose per transito. — Come per transito? rispose messer Federico.
Vorreste voi forse che io vi dicessi ancor le parole proprie che si avessero ad
usare? Non vi par adunque che abbiamo ragionalo a bastanza di questo? — A
bastanza parmi, rispose il signor Gasparo. Pur desidero io d’intendere qualche
particolarità ancor della foggia dell’ interlenersi con uomini e con donne : la
qual cosa a me par di molla importanza, considerato che ’l più del tempo in ciò
si dispensa nelle corti ; e se questa fosse sem- pre uniforme, presto verrina
fastidio. — A me pare, rispose messer Federico, che noi abbiam dato al
Cortegiano cogni- zion di tante cose, che molto ben può variar la conversazio-
ne, ed accommodarsi alle qualità delie persone con le quai Digitized
by Google 106 IL CORTEGIANO. ha da
conversare, presupponendo che egli sia di buon giodi- cio, e con quello si
governi, e secondo i tempi lalor intenda nelle cose gravi, talor nelle feste e
giochi. — £ che giochi? — disse il signor Gaspibo. Rispose allor messer
Fedebico riden- do : Dimandiamone consiglio a fra Seratino, che ogni di ne
trova de’ nuovi. — Senza motteggiare, replicò il signor Ga- sparo, parvi che
sia vìzio nel Cortcgiano il giocare alle carte ed ai dadi? — A me no, disse
messer Federico, eccetto a cui noi facesse troppo assiduamente e per quello
lasciasse l’altre cose di maggior importanza, o veramente non per altro che per
vincer danari, ed ingannasse il compagno, e perdendo mostrasse dolore e
dispiacere tanto grande, che fosse argo- mento d' avarizia. — Rispose il signor
Gasparo: £ che dite del gioco de’scacchi? — Quello certo è gentile
intertenimento ed ingegnoso, disse messer Federico, ma parrai che un sol
difetto vi si trovi; e questo è, che si può saperne troppo, di modo che a cui
vuol esser eccellente nel gioco de’scacchi credo bisogni consumarvi molto
tempo, e mettervi tanto stu- dio, quanto se volesse imparar qualche nobii
scienza, o far qualsivoglia altra cosa ben d’ importanza ; e pur in ultimo con
tanta fatica non sa altro che un gioco : però in questo l>enso che
intervenga una cosa rarissima, cioè che la medio- crità sia più laudevole che
la eccellenza. — Rispose il si- gnor Gasparo: Molli Spagnoli trovansi
eccellenti io questo ed in molli altri giochi, i quali però non vi mettono
molto stu- dio, nè ancor lascian di far 1’ altre cose. — Credete, rispose
messer Federico, che gran studio vi mettano, benché dissi- mulatamente. Ma
quegli altri giochi che voi dite, oltre agli scacchi, forse sono come molli eh’
io ne ho veduti far pur di poco momento, i quali uou serveno se non a far
maravigliare il vulgo; (lerò a me non |>areche meritino altra laude nè al-
tro premio, che quello che diede Alessandro Magno a colui, che, stando assai
lontano, cosi ben intìlzavai ceci in un ago. XXXII. Ma perchè par che la
fortuna, come in molle altre cose, cosi ancor abbia grandissima forza nelle
opinioni degli uomini, vedesi lalor che uu gentiluomo, per ben con- dizionalo
che egli sia e dotato di molte grazie, sarà poco grato ad un signore, e, come
si dice, non gli arà sangue; c ipiesto m . LIBRO
SECONDO. 107 senza cassa alcuna che si possa comprendere: però giungendo
alla presenza di quello, e non essendo dagli altri per prima eonosciolo, benché
sia arguto e pronto nelle risposte, e si mostri bene nei gesti, nelle maniere,
nelle parole, ed in ciò che si conviene, quel signore poco mostrarà d’
estimarlo, anzi più presto gli farà qualche scorno; e da questo nascerà che gli
altri subito s’accommodaranno alla volontà del signore, e ad ognun parerà che
quel tale non vaglia, né sarà persóna che r apprezzi o stimi, o rida de’ suoi
detti piacevoli, o ne tenga conto alcuno ; anzi cominciaranno tutti a burlarlo,
e dargli la caccia ; né a quel meschino basteran buone rispo- ste, nè pigliar
le cose come dette per gioco, ché inaino a’paggi se gli metteranno attorno, di
sorte che, se fosse il più valo- roso uomo del mondo, sarà forza che resti
impedito e burla- to. £ per contrario, se ’l principe si mostrarà inclinato ad
un ignorantissimo, che non sappia né dir nè fare, saranno spesso i costumi ed i
modi di quello, per sciocchi ed inetti che sia- no, laudati con le esclamazioni
e stupore da ognuno, e pa- rerà che tutta la corte lo ammiri ed osservi, e
ch’ognun rida de’ suoi motti, e di certe arguzie contadinesche e fredde, che
più presto dovrian mover vomito che riso : tanto son fermi ed ostinati gli
uomini nelle opinioni che nascono da’ favori e disfavori de’ signori. Però
voglio che ’l nostro Cortegiano, il meglio che può, oltre al valore, s’ ajuti
ancor con ingegno ed arte ; e sempre che ha d’ andare in loco dove sìa nuovo e
non conosciuto, procuri che prima vi vada la buona opinion di sé che la
persona, e faccia che ivi s’ intenda che esso in altri lochi, appresso altri
signori, donne e cavalieri, sia ben estimato; perché quella fama che par che
nasca da molli gindicii genera una certa ferma credenza di valore, che poi,
trovando gli animi cosi disposti e preparati, facilmente con l’ opere si
mantiene ed accresce : olirà che si fugge quel fa- stidio eh’ io sento quando
mi viene domandato chi sono, e quale è il nome mio. — XXXIII. Io non so
come questo giovi, rispose messer Bebnabdo Bibibnz; perchè a me più volte é
intervenuto, e, credo, a molt’ altri, che avendomi formato nell’ animo, per
detto di persone di giudicio, una cosa esser di molta eccel-
Digitizedby Google 108 IL CORTEGIANO.
lenza, prima che vedala l’ abbia, vedendola poi assai mi è mancala, c di
gran lunga restalo son ingannalo di quello eh’ io cslimava ; e ciò d’ allro non
è proceduto che dali'avcr troppo credulo alla fama, ed aver fallo nell’ animo
mio un tanto gran concetto, che, misurandolo poi col vero, rclTetlo, avvenga
che sia sialo grande ed eccellente, alla comparazion di quello che imaginato
aveva m’ è parso piccolissimo. Cosi dubito ancor che possa intervenir del
Cortegiano. Però non so come sia bene dar queste aspettazioni, e mandar inanzi
quella fama ; perchè gli animi nostri s|>esso formano cose alle quali
impossibii è poi corrispondere, c cosi più se ne |)erde che non si guadagna. —
Quivi disse messer Fedbkicu: Le coso che a voi, ed a moli’ altri riescono
minori assai che la fama, son per il più di sorte, che l’ occhio al primo
as)>ctto le può giudicare; come se voi non sarete mai stalo a Napoli o a Ro-
ma, sentendone ragionar tanto imaginarele più assai di quello che forse poi
alla vista vi riuscirà ; ma delle condizioni de- gli uomini non intervicn cosi,
perche quello che si vede di fuori è il meno. Però se ’l primo giorno, sentendo
ragionare un gentiluomo, non comprenderete che in lui sia quel valore che
avevate prima imaginato, non cosi presto vi spogliacele della buona opinione
come in quelle cose delie quali l'occhio subito è giudice, ma aspeltarcle di di
in di scoprir qualche altra nascosta virtù, tenendo j>ur ferma sempre quella
impres- sione che v’è nata dalle parole di tanti; ed essendo poi que- sto (come
io presuppongo che sia il nostro Cortegiano) cosi ben qualificalo, ogn’ora
meglio vi confermarà a creder a quella fama, perchè con 1’ opere ve ne «larà
causa, e voi sempre estimarete qualche cosa più di quello che vederele.
XXXIV. E certo non si può negar che queste prime im- pressioni non abbiano
grandissima forza, e che molla cura aver non vi si debba; ed acciò che
comjirendiale quanto im- portino, dicovi che io ho a’ miei di conosciuto un
gentiluo- mo, il quale, avvenga che fosse di assai gentil aspetto e di modesti
costumi, ed ancor valesse nell’ arme, non era però in alcuna di queste
condizioni tanto eccellente, che non se gli Irovassino molli pari, ed ancor
superiori: pur, come la sorto sua volse, inlervenne che una donna si vollò ad
amarlo fcr- Digitized by Google LIBRO SECONDO.
109 ventissimamente, e crescendo ogni dì qnesto amore per la
dlmoslrazion di correspondenza che faceva il giovane, e non vi essendo modo
alcun da potersi parlare insieme, spinta la donna da troppo passione scoperse
il sno desiderio ad un’ al- tra donna, per mezzo della quale sperava qualche
commodi- tà. Questa né di nobilità nè di bellezza non era punto infe- rior alla
prima; onde intervenne che sentendo ragionare così aflettuosamente di questo
giovane, il qual essa mai non aveva veduto, e conoscendo che quella donna, la
quale ella sapeva ch’era discretissima e d’ ottimo giudicio, l’amava estrema-
mente, subito imaginò che costui fosse il più bello e '1 più savio e ’l più
discreto ed in somma il più degno uomo da es- ser amalo, che al mondo si
trovasse ; e cosi, senza vederlo, tanto fieramente se ne innamorò, che non per
l’ amica sua ma per sé stessa cominciò a far ogni opera per acquistarlo, s farlo
a sé corrispondente in amore : il che con poca fatica le venne fatto, perchè in
vero era donna più presto da esser pregata, che da pregare altrui. Or udite bel
caso. Non molto tempo appresso occorse che una lettera, la qual scrivea que-
sta ultima donna allo amante, pervenne in mano d’ un’altra pnr nobilissima, e
di costumi e di bellezza rarissima, la qual essendo, come è il più delle donne,
curiosa e cupida di saper secreti, e massimamente d’ altre donne, aperse questa
lette- ra, e leggendola, comprese ch’era scritta con estremo alTetlo d’ amore;
e le parole dolci e piene di foco che ella lesse, pri- ma la mossero a
compassion di quella donna, perché mollo ben sapea da chi veniva la lettera ed
a cui andava; poi tanta hrza ebbero, che rivolgendole nell’ animo, e
considerando di che sorte doveva esser colui che avea potuto indnr quella donna
a tanto amore, subito essa ancor se ne innamorò ; e fece quella lettera forse
maggior effetto, che non averia fatto se dal giovane a lei fosse stala mandata.
E come talor inter- viene, che ’l veneno in qualche vivanda preparalo per un
si- gnore ammazza il primo che ’l gusta, cosi questa meschina, per esser troppo
ingorda, bevvè quel veneno amoroso che per altrui era preparato. Che vi debbo
io dire? la cosa fu as- sai palese, ed andò di modo, che molte donne, oltre a
queste, parte per far dispetto all’altre, parte per far come l’ altre, po-
to Digitized by Google IL CORTEGIANO.
110 sero ogni industria e studio per goder dell’ amore di
costai , e ne fecero per un tempo alla grappa, come i fanciulli delle cerase: e
tutto procedette dalla prima opinione che prese quella donna, vedendolo tanto
amato da un’ altra. — XXXV. Or quivi ridendo rispose il signor Gaspabo
Pal- LAviciNo: Voi per confermare il parer vostro con ragione, m'allegate opere
di donne, le quali per lo più son fuori d’ ogni ragione; e se voi voleste dir
ogni cosa, questo cosi favorito da tante donne dovea essere un nescio e da poco
uomo in eflelto; perchè usanza loro è sempre attaccarsi ai peggiori, e, come le
pecore, far quello che veggon far alla prima, o bene o male che si sia: oltra
che son tanto invidiose Ira sé, che se costui fosse stato un mostro, pur
averian voluto rubarselo r una all’ altra. — Quivi molti cominciarono, e quasi
lutti a voler conlradire al signor Gasparo ; ma la signora Ducurssa im|K>se
silenzio a lutti; poi, pur ridendo, disse: Se ’l mal che voi dite delle donne
non fosse tanto alieno dalla verità, che nel dirlo piuttosto desse carico e
vergogna a chi lo dice che ad esse, io lasciare! che vi fosse risposto; ma non
voglio che col conlradirvi con tante ragioni come si poria, siale rimosso da
questo mal costume, acciò che del peccato vostro abbiate gravissima pena; la
qual sarà la mala opinion che di voi pi- gliaran tulli quelli, che di tal modo
vi sentiranno ragionare. — Allor messer Feubbico, Non dito, signor Gasparo,
rispose, che le donne siano cosi fuor di ragione, se beo lalor si mo- veno ad
amar più per 1’ altrui giudicio che per lo loro ; per- chè i signori e molli
savii uomini spesso fanno il medesimo; e, se licito è dir il vero, voi stesso e
noi altri tutti molle vol- le, ed ora ancor, credemo più all’ altrui opinione
che alla no- stra propria. E che sia ’l vero, non è ancor mollo tempo, che
essendo appresenlati qui alcuni versi sotto ’l nome del San- nazaro, a tulli
parvero mollo eccellenti, e furono laudati con le maraviglie ed esclamazioni ;
poi, sapendosi per certo che erano di un altro, persero subito la reputazione,
e parvero inen che mediocri. E cantandosi pur in* presenza delia si- gnora
Duchessa un mottetto, non piacque mai nè fu estimato per buono, fin che non si
soj>pe che quella era com|>osizion di Josquin de Prie. Ma che più chiaro
segno volete voi delia Digitized by Google LIBRO
SECONDO. IH forza della opinione? Non vi ricordale che,
bevendo voi slesso d’ un medesimo vino, dicevole lalor che era perfellissimo ,
lalor insipidissimo? e qneslo, perchè a voi era persuaso che eran dui vini, l’
un di Riviera di Genoa e l’allro di que- slo paese; e poi ancor che fu scoperto
l’errore, per modo al- cuno non volevate crederlo: tanto fermamente era
confermata nell’ animo vostro quella falsa opinione, la qual però dalle al-
trui parole nasceva. XXXVl. Deve adunque il Coiiegiano por molta cura nei
principi!, di dar buona impression di sé, e considerar come dannosa e mortai
cosa sia lo incorrer nel contrario : ed a tal pericolo stanno più che gli altri
quei che voglion far profes- sion d’ esser molto piacevoli, ed aversi con
queste sue piace- volezze acquistato una certa libertà, per la qual lor
convenga e sia licito e fare e dire ciò che loro occorre cosi senza pen- sarvi.
Però spesso questi tali entrano in certe cose, delle quai non sapendo uscire,
voglion poi ajntarsi col far riderete quello ancor fanno cosi disgraziatamente
che non riesce: tanto che inducono in grandissimo fastidio chi gli vede ed ode,
ed essi restano freddissimi. Alcuna volta, pensando per quello esser arguti e
faceti, in presenza d’onorate donne, e spesso a quelle medesime, si mettono a
dir sporchissime e disoneste parole; e quanto più le veggono arrossire, tanto
più si tengon buon Cortegiani, e tuttavia ridono, e godono tra sé di cosi belia
vir- tù, come lor par avere. Ma per ninna altra causa fanno tante pecoragini,
che per esser estimati buon compagni: questo è quel nome solo che lor pare
degno di laude, e del quale più che di niun altro essi si vantano; e per
acquistarlo si di- con le più scorrette e vituperose villanie del mondo. Spesso
s’ urtano giù per le scale, si dan de’ legni e de’ mattoni l’ un r altro nelle
reni, mettonsi pugni di polvere negli occhi, fan- nosi minar i cavalli adosso
ne’ fossi o giù di qualche poggio; a tavola poi, minestre, sapori, gelatine,
tutte si danno nel volto : e poi'ridono ; e chi di queste cose sa far più,
quello per mcglior Cortogiano o più galante da sé stesso s’apprezsa, e pargli
aver guadagnalo gran gloria; e se lalor invitano a colai sue piacevolezze un
gentiluomo, e che egli non voglia usar questi scherzi selvatichi, subito dicono
eh’ egli si tien 112 IL CORTEGIANO. troppo
savio c gran maestro, e che non è buon compagno. Ma io vi vo’ dir peggio. Sono
alcuni che contrastano e mettono il prezzo a chi può mangiare e bere più
stomacose c fetide cose; e trovante tanto aborrenti dai sensi umani, che impossibil
è ricordarle senza grandissimo fastidio. — XXXVIl. E che cose possono esser
queste? - disse il signor Ludovico Pio. Rispose messer Federico: Fatevele dire
al marchese Febus, che spesso l’ha vedute in Francia, e forse gli è
intervennto. — Rispose il marchese Febus : lo non ho veduto far cosa in Francia
di queste, che non si faccia ancor in Italia; ma ben ciò che hanno di buon
gl’ltaliaiy nei vesti- menti, nel festeggiare, banchettare, armeggiare, ed in
ogni altra cosa che a Cortegian si convenga, tutto l’ hanno dai Franzesi. — Non
dico io, rispose messer Federico, che an- cor tra Franzesi non si trovino dei
gentilissimi e modesti cavalieri; ed io per me n’ho conosciuti molli veramente
de- gni d’ogni laude; ma por alcuni se ne trovan poco riguar- dati; e, parlando
generalmente, a me par che con gli Italiani più si confaccian nei costumi i
Spagnoli che i Franzesi, per- chè quella gravità riposata peculiar deti
Spagnoli mi par molto più conveniente a noi altri, che la pronta vivacità, la
qual nella nazion franzese quasi in ogni movimento si conosce; il che in essi
non disdice, anzi ha grazia, perchè loro è cosi na- turale e propria, che non
si vede in loro atTcttazione alcuna. Trovansi ben molti Italiani che vorriano
pur sforzarsi d’imi- tare quella maniera; e non sanno far altro che crollar la
te- sta parlando, e far riverenze in traverso di mala grazia, e quando
passeggian per la terra camminar tanto forte, che i slalTleri non possano lor
tener drieto: e con questi modi par loro esser buon Franzesi, ed aver di quella
libertà; la qual cosa in vero rare volte riesce, eccetto a quelli che son
nutriti in Francia e da fanciulli hanno presa quella maniera. 11 me- desimo
intervien del saper diverse lingue ; il che io laudo molto nel Cortegiano, e
massimamente la spagnola e la fran- zese: perchè il commercio dell’ una e dell’
altra nazione è molto frequente in Italia, e con noi sono queste due più con-
formi che alcuna deU’altre;e que’dui principi, per esser po- tentissimi nella
guerra e splendidissimi nella pace, sempre Digitized by
Gelale LIBRO SECONDO. 113 hanno la corte
piena di nobili cavalieri, che per tutto ’l mondo si spargono; ed a noi pur
bisogna conversar con loro. XXXVIII. Or io non voglio seguitar più minutamente
in dir cose troppo note, come che ’l nostro Cortegian non debba far profession
d’ esser gran mangiatore, nè bevitore, nè dissoluto in alcun mal costume, nè
laido e mal assettato nel vivere, con certi modi da contadino, che chiamano la
zappa e l' aratro mille miglia di lontano; perchè chi è di tal sorte, non
solamente non s’ ha da sperar che divenga buon Cortegiano, ma non se gli può
dar esercizio conveniente, al- tro che di pascer le pecore. E, per concluder,
dico, che buon saria che ’l Cortegian sapesse perfettamente ciò che detto avemo
convenirsigli, di sorte che tutto ’l possibile a lui fosse facile, ed ognuno di
lui si maravigliasse, esso di niuno; in- tendendo però che in questo non fosse
una certa durezza su- perba ed inumana, come hanno alcuni, che mostrano non
maravigliarsi delle cose che fanno gli altri, perchè essi pre- sumon poterle
far molto meglio, e col tacere le disprezzano, come indegne che di lor si parli
; e quasi voglion far segno che niuno altro sia non che lor pari, ma por capace
d’inten- dere la profondità del saper loro. Però deve il Cortegian fug- gir
questi modi odiosi, e con umanità e benivolenza laudar ancor le buone opere
degli altri ; e benché esso si senta am- mirabile, e di gran lunga superior a
tutti, mostrar però di non estimarsi per tale. Ma perchè nella natura umana raris-
sime volte e forse mai non si trovano queste così compito perfezioni, non dee
1’ uomo che si sente in qualche parto manco difTidarsi però di sè stesso, nè
perder la speranza di giungere a buon grado, avvenga che non possa conseguir
quella perfetta e suprema eccellenza dove egli aspira; per- chè in ogni arte
son molti lochi, oltr’ al primo, landevoli ; e chi tende alla sommità, rare
volte interviene che non passi il mezzo. Voglio adunque che ’l nostro
Cortegiano, se in qual- che cosa, olir’ all’ arme, si trovarà eccellente, se ne
vaglia e se ne onori di buon modo ; e sia tanto discreto e di buon giu- dicio,
che sappia tirar con destrezza o proposito le persone a vedere ed udir quello,
in che a lui par d’essere eccellente, 10 ' Digitized by
Googl 114 IL COBTEGIANO. mostrando sempre
farlo non per ostentazione, ma a caso, c pregato d’ altrui più presto che di
volontà sua ; ed in ogni cosa che egli abbia da far o dire, se possibii è,
sempre venga premeditato e preparato, mostrando però il tutto esser all’
improvìso. Ma le cose nelle guai si sente mediocre, toc- chi per transito,
senza fondarsici molto, ma di modo, che si possa credere che più assai ne
sappia di ciò ch’egli mostra: come talor alcuni poeti che accennavano cose sottilissime
di filosofìa 0 d’ altre scienze, e per avventura n’ intendevan poco. Di quello
poi di che si conosce totalmente ignorante non voglio che mai faccia
professione alcuna, nè cerchi d’ac- quislarne fama; anzi, dove occorre,
chiaramente confessi di non saperne. — XXXIX. Questo, disse il Calheta,
non arebbe fallo Ni- colelto, il quale essendo eccellentissimo filosofo, nè
sapendo più leggi che volare, benché un Podestà di Padoa avesse do- liberafo
dargli di quelle una lettura, non volse mai, a per- suasion di molti scolari, desingannar
quel Podestà e confes- sargli di non saperne, sempre dicendo, non si accordar
in questo con la opinione di Socrate, nè esser cosa da filosofo il dir mai di
non sapere. — Non dico io, rispose messer Fe- derico, che ’l Cortcgian da sè
stesso, senza che altri lo ri- cerchi, vada a dir di non sapere ; chè a me
ancor non piace questa sciocchezza d’ accusar o disfavorir sè medesimo : c però
talor mi rido di certi uomini, che ancor senza necessità narrano volentieri
alcune cose, le quali, benché forse siano intervenute senza colpa loro, portan
però seco un’ ombra d’infamia; come faceva un cavalier che lutti conoscete, il
qual sempre che udiva far mcnzion del fatto d’ arme che si fece in Pafmegiana
contra ’l re Carlo, subito cominciava a dir in che modo egli era fuggito, nè
parca che di quella gior- nata altro avesse veduto o inteso; parlandosi poi
d’una certa giostra famosa, contava pur sempre come egli era caduto; o spesso
ancor parca che nei ragionamenti andasse cercando di far venire a proposito il
poter narrar che una notte, an- dando a parlar ad una donna, avca ricevuto di
molte basto- nate. Queste sciócchezze non voglio io che dica il nostro Cor-
tegieno, ma parai lieh che olTerendoscli occasion di mostrarsi r'
■ - by Googli. LIBRO SECONDO. 115
in cosa di che non sappia punto, debba fuggirla; e se pur la necessità lo
stringe, confessar chiaramente di non saperne, più presto che mettersi a quel
rischio: e cosi fuggirà un bia- simo che oggidì meritano molli, i quali, non so
per qual loro perverso instinto o giudicio fuor di ragione sempre si met- tono
a far quel che non sanno, e lascian quel che sanno. £, per confermazion di
questo, io conosco uno eccellenlissimu musico, il qual, lasciala la musica, s’
é dato totalmente a compor versi, e credesi in quello esser grandissimo uomo, c
fa ridere ognun di sé, e ornai ha perduta ancor la musica. (Jn altro de’ primi
pittori del mondo sprezza quell’ arte dove ó rarissimo, ed èssi posto ad
imparar filosofìa ; nella quale ha cosi strani concetti e nuove chimere, che
esso con tutta la sua pittura non sapria dcpingerle. E di questi tali, infìnili
si trovano. Son bene alcuni, i quali, conoscendosi avere eccel- lenza in una
cosa, fanno principal professione d’un’altra, della qual però non sono
ignoranti; ma ogni volta che loro occorre mostrarsi in quella dove si senton
valere, si mostran gagliar- damente ; e vien lor talor fatto che la brigata,
vedendogli valor tanto in quello che non è sua professione, estima che vaglian
molto più in quello di che fan professione. Quest’ar- te, s’ella è compagnala
da buon giudicio, non mi dis|>iacc punto. — XL. Rispose allor il
signor Gaspar Pallavicino : Que- sta a me non par arte, ma vero inganno ; nè
credo che si convenga, a chi vuol esser uomo da bene, mai lo ingannare. —
Questo, disse messer Federico, è più presto un ornamento il quale accompagna
quella cosa che colui fa, che inganno ; e se pur è inganno, non è da biasimare.
Non direte voi anco- ra, che di dui che maneggian I’ arme quel che batte il
com- pagno lo inganna ? e questo è perchè ha più arie che l’ al- tro. E se voi
avete una gioja, la qual dislegala mostri esser bella, venendo poi alle mani d’
un buon oreGce, che col le- garla bene la faccia [>arer molto più bella, non
direte voi che quello orefice inganna gli occhi di chi la vede? e pur dì quello
inganno merita laude, perchè col buon giudicio c con l’ arte le maestrevoli
mani spesso aggiungon grazia ed orna- mento allo avorio ovvero allo argento,
ovvero ad una bella 116 IL CORTEGIANO.
pietra circondandola di Gn oro. Non diciamo adunque che r arte o tal
inganno, se pur voi Io volete cosi chiamare, me- riti biasimo alcuno. Non è
ancor'disconveniente che un uomo che si senta valere in una cosa, cerchi
destramente occasion di mostrarsi in quella, e medesimamente nasconda le parti
che gli pajan poco laudevoli, il tutto però con una certa av- vertita
dissimulazione. Non vi ricorda come, senza mostrar di cercarle, ben pigliava
l’occasioni il re Ferrando di spo- gliarsi talor in giupponc? e questo, perchè
si sentiva dispo- sitissimo ; e perchè non avea troppo buone mani, rare volto o
quasi mai non si cavava i guanti? e pochi erano che di questa sua avvertenza
s’accorgessero. Farmi ancor aver letto che Julio Cesare portasse volentieri la
laurea, per nascondere il calvizie. Ma circa questi modi bisogna esser molto
pru- dente e di buon giudicio, per non uscire de’ termini ; perchè molte volte
l’uomo per fuggir un errore incorre nell’altro, c per voler acquistar laude
acquista biasimo. XLl. È adunque securissima cosa, nel modo del vivere e
nel conversare, governarsi sempre con una certa onesta mediocrità, che nel vero
è grandissimo e fermissimo scudo centra la invidia, la qual si dee fuggir
quanto più si può. Vo- glio ancor che ’l nostro Cortegiano si guardi di non acquistar
nome di bugiardo, nè di vano; il che talor interviene a que- gli ancora che noi
meritano : però ne’ suoi ragionamenti sia sempre avvertito di non uscir della
verisimilitudine, e di non dir ancor troppo spesso quelle verità che hanno
faccia di menzogna, come molti che non parlan mai se non di mira- coli, e
voglion esser di tanta autorità, che ogni incrcdibil cosa a loro sia creduta.
Altri nel principio d’ una amicìzia, per acquistar grazia col nuovo amico, il
primo di che gli parlano giurano non aver persona al mondo che più amino
;hclui, e che vorrebben volontier morir per fargli servizio, e lai cose fuor di
ragione ; e quando da luì si partono, fanno le viste di piangere, e di non
poter dir parola |)cr dolore ; cosi, per voler esser tenuti troppo amorevoli,
si fanno esti- mar bugiardi, e sciocchi adulatori. Ma troppo lungo e fati- coso
saria voler discorrer tulli i vizii che possono occorrere nel modo del
conversare: i>erò per quello eh’ io desidero net Digitized by
Googk- UBRO SECONDO. 117 Corlegiano basii
dire, oltre alle cose già dette, eh’ el sia tale, che mai non gii manchin
ragionamenti buoni, e commodati a quelli co’ quali parla, e sappia con una
certa dolcezza re* crear gli animi degli auditori, e con motti piacevoli e
face- zie discretamente indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai
a fastidio o por a saziare, continuamente diletlL XLII. lo penso che
ormai la signora Emilia mi darà li- cenza di tacere ; la qual cosa s’ ella mi
negarà, io per le pa- role mie medesime sarò convinto non esser quel buon
Corte- gìano di cui ho parlato ; ché non solamente i buoni ragiona- menti, i
quali nè mo nè forse mai da me avete uditi, ma ancor questi miei, come voglia
che si siano, in lotto mi mancano. — Allor disse, ridendo, il signor Prefetto:
lo non voglio che questa falsa opinion resti nell’animo d’ alcun di noi, che
voi non siate buonissimo Gorlegiano; ché certo il desi- derio vostro di tacere
più presto procede dal voler fuggir fatica, che da mancarvi ragionamenti. Però,
acciò che non paja che in compagnia cosi degna come è questa , e ragio- namento
tanto eccellente, si sia lasciato a drieto parte alcu- na, siate contento d'
insegnarci come abbiamo ad usar le facezie, delle quali avete or fatta
menzione, e mostrarci l’arte che s’appartiene a tolta questa sorte di parlar
piace- vole, per indurre riso e festa con gentil modo, perchè in vero a me pare
che importi assai, e molto si convenga al Cortegiano. — Signor mio, rispose
allor messer Federico, le facezie e i motti sono più presto dono e grazia di
natura che d’arte; ma bene in questo si trovano alcune nazioni pronte più r una
che l’ altra, come i Toscani, che in vero sono acu- tissimi. Pare ancor che ai
Spagnoli sia assai proprio il mot- teggiare. Trovansi ben però molli, e di
queste e d’ ogni al- tra nazione, i quali per troppo loquacità passan talor i
ter- mini, e diventano insulsi ed inetti, perchè non han rispetto alla sorte
delle persone con le quai parlano, al loco ove si trovano, al tempo, alla
gravità ed alla modestia che essi pro- pri! mantenere devriano. — XLllI.
Allor il signor Prefetto rispose: Voi negate che nelle facezie sia arte alcuna;
e pur, dicendo mal di que’ che non servano in esse la modestia e gravità, e non
hanno ri- Digitized by Coogle 118 IL
CORTEGIANO. spetto al tempo ed alle persone con le qnai parlano,
parmi che dimostriate che ancor questo insegnar si possa, ed ab- bia in sè
qualche disciplina. — Queste regole, Signor mio, rispose messer Fedebico, son
tanto universali, che ad ogni cosa si confanno e giovano. Ma io ho detto nelle
facezie non esser arte, perchè di due sorti solamente parmi che se ne trovino;
delle quai l'nna s’ estende nel ragionar lungo e con- tinuato; come si vede di
alcun’ uomini, che con tanto buona grazia e cosi piacevolmente narrano ed
esprimono una cosa che sia loro intervenuta, o veduta o udita l’abbiano, che
coi gesti e con le parole la mettono inanzi agli occhi, e quasi la fan toccar
con mano: e questa forse, per non ci aver altro vocabolo, si poria chiamar
festività, ovvero urbanità. L’altra sorte di facezie è brevis^ma, e consiste
solamente nei detti pronti ed acuti, come spesso tra noi se n’odono, e de’ mor-
daci; nè senza quel poco di puntura par che abbian grazia: e questi presso agli
antichi ancor si nominavano detti; adesso alcuni le chiamano arguzie. Dico
adunque che nel primo modo, che è quella festiva narrazione, non è bisogno arte
alcuna, perchè la natura medesima crea e forma gli uomini alti a narrare
piacevolmente; e dà loro il volto, i ge- sti, la voce e le parole appropriato
ad imitar ciò che voglio- no. Nell’ altro, delle arguzie, che può far 1’ arte?
con ciò sia cosa che quel salso dello dee esser uscito ed aver dato in brocca,
prima che paja che colui che lo dice v’ abbia potuto pensate; altramente è
freddo, e non ha del buono. Però esti- mo, che ’l tutto sia opera dell’ ingegno
e della natura. — Ri- pre.se allor le parole messer Pietro Bembo, e disse: Il
signor Prefetto non vi nega quello che voi dite , cioè che la natura e lo
ingegno non abbiano le prime parli, massimamente circa la invenzione; ma certo
è che nell’animo di ciascu- no, sia pur r uomo di quanto buono ingegno può
essere, na- scono dei concetti buoni e mali, e più e meno ; ma il giudi- ciò
poi e l’ arte i lima e corregge, e fa elezione dei buoni e rifiuta i mali.
Però, lasciando quello che s’appartiene allo ingegno, dechiaraleci quello che
consìste nell’ arte : cioè, delle facezie e dei molti che inducono a ridere,
quai son convenienti al Cortegiano e quai no, ed in qual tempo o
blgitireSTjy C o< v g . LIBRO SECONDO. HQ modo si debbano
osare; cbè questo è quello che ’l signor Prefetto v’ addimanda. — XLIV.
AUor messer Federico, pur ridendo, disse: Non è alcun qui di noi al qual io non
ceda in ogni cosa, e mas* simamente nell’ esser faceto ; eccetto se forse le
sciocchezze, che spesso fanno rider altrui più che i bei detti, no» fossero
esse ancora accettale per facezie. — E cosi, voltandosi al conte Ludovico ed a
messer Bernardo Bibiena, disse: Eccovi i maestri di questo; dai quali, s’io ho
da parlare de’ delti giocosi, bisogna che prima impari ciò che m’abbia a
dire. Rispose il conte Lunorico: A me pare che già cominciate ad usar
quello di che dite non saper niente, cioè di voler far ridere questi signori,
burlando messer Bernardo e me; per- chè ognun di lor sa, che quello di che ci
laudate, in voi è molto più eccellentemente. Però se siete faticalo, meglio è
dimandar grazia alia signora Duchessa, che faccia differire il resto del
ragionamento a domani, che voler eoa inganni sulterfugger la fatica. —
Cominciava messer Federico a ri- spondere ; ma la signora Emilia subito l’
interruppe e disse: Non è r ordine, che la disputa se ne vada in laude vostra;
basta che tutti siete molto ben conosciuti. Ma perchè ancor mi ricordo che voi,
Conte, jersera mi deste impntazionè eh’ io non partiva egualmente le fatiche,
sarà bene che roes- ser Federico si riposi un poco, e ’l carico del parlar
delle facezie daremo a messer Bernardo Bibiena, perchè non so- lamente nel
ragionar contìnuo lo conoscemo facetissimo, ma avemo a memoria che di questa
materia più volte ci ha pro- messo voler scrivere, e però possiam creder che
già molto ben vi abbia pensalo, e per questo debba compiutamente sa- 'tisfarci.
Poi, parlato che si sìa delle facezie, messer Federico seguirà in quello che
dir gli avanza del Cortegiano. — Allor messer Federilo disse: Signora, non so
ciò che più mi avan- zi ; ma io, a guisa di viandante già stanco dalla fatica
del lungo camminare a mezzo giorno, rìposerommi nel ragionar di messer Bernardo
al suon delle sue parole, come sotto qualche amenissimo ed ombroso albero al
mormorar soave d’un vivo fonte; poi forse, un poco ristorato, potrò dir qual-
che altra eosa — Rispose, ridendo, messer Bernardo: S’io Digitized
by Googl 120 IL CORTEGIANO. vi mostro il
capo, vedcrete che ombra si può aspettar dalle foglie del mio albero. Di
sentire il mormorio di quel fonte vivo, forse vi verrà fatto, perch’io fui già
converso in un fonte, non d’ alcuno degli antichi Dei, ma dal nostro Fra
Mariano, c da indi in qua mai non m’ è mancala l’acqua. — Allor ognun cominciò
a ridere, perchè questa piacevolezza, di che messer Bernardo intendeva, essendo
intervenuta in Roma alla presenza di Galeotto cardinale di san Pietro in
Vincola, a tutti era notissima. XLV. Cessato il riso, disse la signora
Emilia: Lasciale voi adesso il farci ridere con l’ operar le facezie, c a noi
in- segnate come l’abbiamo ad usare, e donde si cavino, e tutto quello che
sopra questa materia voi conoscete. E, per non perder più tempo, cominciale
ornai. — Dubito, disse messer Bernabdo, che l’ora sia tarda; ed acciò che ’l
mio parlar di facezie non sia infaceto e fastidioso, forse buon sarà difle-
rirlo insino a domani. — Quivi subito risposero molti, non esser ancor, nè a
gran pezza, l’ora consueta di dar fine al ragionare. Allora, rivoltandosi
messer Bernardo alla signora Duchessa ed alla signora Emilia, lo non voglio
fuggir, dis- se, questa fatica; bench’io, come soglio maravigliarmi del-
l’audacia di color che osano cantar alla viola in presenza del nostro Jacomo
Sansecondo, cosi non devrei in presenza d’auditori che mollo meglio inlendon
quello che io ho a dire che io stesso, ragionar delle facezie. Pur, per non dar
causa ad alcuno di questi signori di ricusar cosa che imposta loro sia, dirò
quanto più brevemente mi sarà possibile ciò che mi occorre circa le cose che
movono il riso ; il qual tanto a noi è proprio, che per descriver l’ uomo, si
suol dir che egli è un animai risibile : perchè questo riso solamente negli
uomini si vede, ed è quasi sempre testimonio d’ una certa ilarità che dentro si
sente nell’ animo, il qual da na- tura è tirato al piacere, ed appetisce il
riposo e ’l recrearsi ; onde veggiamo multe cose dagli uomini ritrovate per
questo effetto, come le feste, e tante varie sorti di spettacoli. E per- chè
noi amiamo que’ che son causa di tal nostra recreazio- ne, usavano i re
antichi, i Romani, gli Ateniesi, e molli al- tri, per acquistar la benivolenza
dei popoli, e pascer gli occhi Digitized b^^yogle LIBRO
SECONDO. 121 e gli aninai della moltitadine, far magni
teatri ed altri pa- blici edificii ; ed ivi mostrar nuovi giochi, corsi di
cavalli e di carrette, combattimenti, strani animali, comedie, trage- die e
moresche ; nè da tal vista erano alieni i severi fìlosoG, che spesso e coi spettacoli
di tal sorte e conviti rilasciavano gli animi affaticati in quegli alti lor
discorsi e divini pensie- ri ; la qual cosa volentier fanno ancor tutte le
qualità d’ uo- mini: ché non solamente i lavoratori de’ campi, i marinari, e
tutti quelli che hanno dori ed asperi esercizii alle mani, ma i santi
religiosi, i prigionieri che d’ ora in ora aspettano la morte, por vanno
cercando qualche rimedio e medicina per recrearsi. Tutto quello adunque che
move il riso, ^ilara r animo e dà piacere, nè lascia che in quel punto l’ uomo
si ricordi delle nojose molestie, delle quali la vita nostra è piena. Però a
tutti, come vedete, il riso è gratissimo, ed è molto da laudare chi lo move a
tempo e di buon modo. Ma che cosa sia questo rìso, e dove stia, ed in che modo
talor occupi le vene, gli occhi, la bocca e i fianchi, e par che ci voglia far
scoppiare, tanto che per forza che vi mettiamo, non è possibile tenerlo,
lasciarò disputare a Democrito; il quale, se forse ancor lo promettesse, non lo
saprebbe dire. XLVI. Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i
ridicoli consiste in una certa deformità; perchè solamente si ride di quelle
cose che hanno in sè disconvenienza, e par che stian male, senza però star
male. Io non so altrimenti dicbiarirlo; ma se voi da voi stessi pensale,
vederete che quasi sempre quel di che si ride è una cosa che non si con- viene,
e pur non sta male. Quali adunque siano quei modi che debba usar il Cortegiano
per mover il riso, e fin a che termine, sforzeromroi di dirvi, per quanto mi mostrerà
il mio gindicio ; perchè il far rider sempre non si convìeu al Cortegiano, nè
ancor di quel modo che fanno i pazzi e gl’ imbriachi, ed i sciocchi ed inetti,
e medesimamente i buffoni ; e benché nelle corti queste sorti d’ nomini par che
si ricbieggano, pur non meritano esser chiamali Cortegiani, ma ciascun per lo
nome suo, ed estimati tali quai sono. 11 termine e misura di far ridere
mordendo bisogna ancor es- 11 Digitized by Google
122 IL CORTEGIANO. ser diligentemente
considerato, e chi sia qoello che si mor- de ; perchè non s’ induce riso col
dileggiar un mìsero e cala- mitoso, nè ancora un ribaldo e sceleralo publico:
perchè questi par che meritino maggior castigo che Tesser burlati; e gli animi
umani non sono inclinati a beffar i miseri, ec- cetto se quei tali nella sua
infelicità non si vantassero, e fossero superbi e prosuntuosi. Decsi ancora
aver rispetto a quei che sono universalmente grati ed amati da ognuno e
potenti, perchè talor col dileggiar questi poria T uom acqui- starsi inimicizie
pericolose. Però conveniente cosa è beffare e ridersi dei vizii collocati in
pcisonc nè misere tanto che movano compassione, nè tanto scelerate che paja che
meri- tino esser condennate a pena capitale, nè tanto grandi che un loro picco!
sdegno possa far gran danno. XLVll. Avete ancor a sapere, che dai lochi
donde si cavano motti da ridere, si posson medesimamente cavare sentenze gravi,
per laudare e per biasimare, e talor con le medesime parole: come, per laudar
un uomo liberale, che metta la roba sua in commune con gli amici, suolsi dire
che ciò eh’ egli ha non è suo ; il medesimo si può dir per biasi- mo d’ uno che
abbia rubalo, o per altre male arti acquistalo quel che tiene. Dicesi ancor:
Colei è una donna d' assai, — volendola laudar di prudenza e bontà; il medesimo
poria dir chi volesse biasimarla, accennando che fosse donna di mollL Ma più
spesso occorre servirsi dei medesimi lochi a questo proposito, che delle
medesime parole : come a questi di, stando a messa in una chiesa tre cavalieri
ed una signora, alla quale serviva d’ amore uno dei tre, comparve un povero
mendico, e postosi avanti alla signora, cominciolle a doman- dare elimosiua ; e
cosi con molla importunità e voce lamen- tevole gemendo replicò più volte la
sua domanda: pur con lutto questo, essa non gli diede mai elimosina, nè ancor
gliela negò con fargli segno che s’ andasse con Dio, ma stette sem- pre sopra
di sè, come se pensasse in altro. Disse allor il ca- valier inamorato a' dui
compagni : Vedete ciò eh’ io posso sperare dalla mia signora, che è tanto
crudele, che non so- lamente non dà elimosina a quel poveretto ignudo morto di
fame, che con tanta passion e tante volle a lei la domanda,
Digilized by GoogU LIBRO SECONDO. 125
ma ncm gli dà par licenza ; lanlo gode di vedersi inanzi ona persona che
languisca in miseria, e in van le domandi mer- cede. — Rispose un dei dui :
Questa non è crudeltà, ma un tacito ammaestramento di questa signora a voi, per
farvi co- noscere che essa non compiace mai a chi le domanda con molla importunità.
— Rispose l’altro : Anzi è un avvertirlo, che ancor eh’ ella non dia quello che
se le domanda, pur le piace d’ esserne pregala. — Eccovi , dal non aver quella
signora dato licenza ai povero , nacque un detto di se- vero biasimo, uno di
modesta laude, cd un altro di gioco mordace. XLVIII. Tornando adunque a
dechiarire le sorti delle facezie appartenenti al proposito nostro, dico che,
secondo me, di tre maniere se ne trovano, avvenga che messer Fe- derico
solamente di due abbia fatto menzione: cioè di quella urbana e piacevole
narrazion continuata, che consiste nel- r effetto d’ una cosa ; e della subita
ed arguta prontezza, che consiste in un detto solo. Però noi ve ne giungeremo
la terza sorte, che chiamamo burle; nelle quali intervengon le nar- razioni
lunghe, e i detti brevi, ed ancor qualche operazione. Quelle prime adunque, che
consistono nel parlar continualo, son di maniera tale, quasi che 1’ uomo
racconti una novella. £, per darvi un esempio : In que’ proprii giorni che mori
papa Alessandro Sesto, e fu crealo Pio Terzo, essendo in Roma e ne! palazzo
messer Antonio Agnello, vostro mantuano, si- gnora Duchessa, e ragionando
appunto della morte dell’ano e creazion dell’ altro, e di ciò facendo varii
giudici! con certi suoi amici, disse: Signori, fin al tempo di Catullo
comincia- rono le porte a parlare senza lingua ed udir senza orecchie, ed in
tal modo scoprir gli adulterii; ora, se ben gli uomini non sono di tanto valor
com’ erano in que’ tempi, forse che le porte, delle quai molte, almen qui in Roma,
si fanno do’ marmi antichi, hanno la medesima virtù che aveano al- lora ; ed io
per me credo che queste due ci saprian chiarir lutti i nostri dubii, se noi da
loro i volessimo sapere. — Al- lor quei gentiluomini stettero assai sospesi, ed
aspettavano dove la cosa avesse a riuscire; quando messer Antonio, se- guitando
pur r andar inan:fi e ’ndielro, alzò gli occhi, come Digitized by
Google 124 IL CORTEGIANO. all’ improviso,
ad una delie due porte della sala nella qnal passeggiavano, e fermatosi un
poco, mostrò col dito a’ com- pagni la inscrizion di quella, che era il nome di
papa Ales- sandro, nel Gn del quale era un V ed I, perché signiGcas- se, come
sapete. Sesto ; e disse : Eccovi che questa porla dice: Ales$andro papa vi, che
vuol signiGcare, che è stalo papa per la forza che egli ha osata, e più dì
quella si è va- luto che della ragione. Or veggiamo se da quest’ altra pote-
rne intender qualche cosa del nuovo pontiGce; — e voltatosi, come per ventura,
a quell’ altra porla, mostri la inscrizione d’nn N, dui PP, ed un V, che
signiBcava Nieolaut Papa Quinlus; e subito disse: Oimé male nove ; eccovi che
questa -dice : Nifiii Papa Valel. — XLIX. Or vedete come questa sorte di
facezie ha delle elegante e del buono, come si conviene ad non? di corte, o
vero 0 fìnto che sia quello che si narra ; perché in tal caso è licito fingere
quanto all’uom piace, senza colpa ; e dicendo la verità, adornarla con qualche
bugietta, crescendo o dimi- nuendo secondo ’l bisogno. Ma la grazia perfetia e
vera virtù di questo è il dimostrar tanto bene e senza fatica, cosi coi gesti
come con le parole, quello che l’ uomo vuole esprimere, che a quelli che odono
paja vedersi inanzi agli occhi far le cose che sì narrano. E tanta forza ha
questo modo cosi espresso, che talor adorna e fa piacer sommamente una cosa,
che in sé stessa non sarà molto faceta né ìngeniosa. E ben- ché a queste
narrazioni si ricerchino ì gesti, e quella etlica- cia che ha la voce viva, pur
ancor in scritto qualche volta si conosce la lor virtù. Chi non ride quando,
nella ottava àiornata delle sue Cento Novelle, narra Giovan Boccaccio, •come
ben sì sforzava di cantare un Chirie ed un Sanctus il prete di Varlungo quando
sentia la Belcolore in chiesa? Pia- cevoli narrazioni sono ancora in quelle di
Calandrino, ed in molle altre. Della medesima sorte pare che sia il far ridere
contrafacendo o imitando, come noi vogliam dire; nella qual cosa fin qui non ho
veduto alcuno più eccellente di messer Roberlo nostro da Bari. — L.
Questa non sarà poca lande, disse messer Kobkkto, se fosse vera, perch’io certo
m’ingegnerei d’ imitare più Digitized by Google LIBRO
SECONDO. 125 presto il ben che ’l male, e s’ io potes»
assimigliarmi ad al Clini ch’io conosco, mi terrei per molto felice; ma dubito
non saper imitare altro che le cose che fanno ridere, le quali voi dianzi avete
detto che consistono in vizio. — Rispose messer Bernabdo : In vizio si, ma che
non sta male. E sa per dovete, che questa imitazione di che noi parliamo non '
può essere senza ingegno ; perché, oltre alla maniera d’ ac- commodar le parole
e i gesti, e mettere inanzi agli occhi de- gli auditori il volto e i costumi di
colui di cui si parla, biso- gna essere prudente, ed aver molto rispetto al
loco, al tempo, ed alle persone con le quali si parla, e non descendere alla
buffoneria, n^ uscire de’ termini ; le quai cose voi mirabil- mente osservate,
e però estimo che tutte le conosciate. Chò in vero ad un gentiluomo non si
converria fare i volti pian- gere e ridere, far le voci, lottare da sé a sé, come
fa Berto, vestirsi da contadino in presenza d’ognuno, come Strascino; e tai
cose, che in essi son convenientissime, per ^ser quella la lor professione. Ha
a noi bisogna per transito e nascosa- . mente rubar questa imitazione, servando
sempre la dignità del gentiluomo, senza dir parole sporche o far atti men che
onesti , senza disforcersi il viso o la persona cosi senza rite- gno ; ma far i
movimenti d’ un certo modo, che chi ode e vede per le parole e gesti nostri
imagini molto più di quello « che vede ed ode, e perciò s’induca a
ridere. Deesi ancor fug- gir in questa imitazione d’ esser troppo mordace nel
ripren- dere, massimamente le deformità del volto o della persona; ché si come
i vizii del corpo danno spesso bella materia di ridere a chi discretamente se
ne vale, cosi l’usar questo modo troppo acerbamente é cosa non sol da buffone,
ma an- cor da inimico. Però bisogna, benché diSìcil sia, circa que- sto tener,
come ho detto, la maniera del nostro messer Ro- berto, che ognun contrafà, e
non senza pungerl’in quelle cose dove hanno difetti, ed in presenza d’ essi
medesimi ; e . pur ninno se ne turba, né par che possa averlo per male : e di
questo non ne darò esempio alcuno, perché ogni di in esso tutti ne vederne
inhnili. LI. Induce ancor molto a ridere, che pur si contiene eotto la
narrazione, il recitar con buona grazia alcuni difetti tf
Dj-jiti7ed by Googli: 126 IL CORTEGIANO.
d’altri, mediocri però, e non degni di maggior supplicio, come le
sciocchezze lalor semplici, lalor accompagnate da un poco di pazzia pronta e
mordace ; medesimamente certe af- fettazioni estreme : talor una grande e ben
composta bugia. Come narrò pochi di sono messer Cesare nostro una bella
sciocchezza, che fu, che ritrovandosi, alla presenza del Po- destà di questa
terra, vide venire un contadino a dolersi che gli era stalo rubato un asino; il
qual, poi che ebbe detto della povertà sua e dell’ inganno fattogli da quel
ladro, per far più grave la perdila sua, disse: Messere, se voi aveste veduto
il mio asino, ancor più conoscereste quanto io ho ragion di dolermi; chè quando
aveva il suo basto adosso, parea pro- priamente un Tullio. — Ed un de’ nostri
incontrandosi in una matta di capre, inanzi alle quali era un gran becco, si
fermò, e con un volto maraviglioso disse : Guardate bel bec- co I pare un san
Paolo. — Un altro dico il signor Gasparo aver conosciuto, il qual per essere
antico servitore del duca Ercole di Ferrara, gli avea offerto dui suoi piccoli
figlioli per paggi; e questi, prima che potessero venirlo a servire, erano
tulli dui morti : la qual cosa intendendo il signore, amore- volmente si dolse
col padre, dicendo che gli pesava mollo, perchè in avergli veduti una sol volta
gli eran parsi molto belli e discreti figlioli; il padre gli rispose : Signor
mio, voi non avete veduto nulla ; ché da pochi giorni in qua erano riusciti
mollo più belli o virtuosi eh’ io non arei mai potato credere, e già cantavano
insieme come dui sparvieri. — E stando a questi di un dottor de’ nostri a
vedere uno, che |>er giustizia era frustato intorno alla piazza, ed avendone
com- passione, perchè ’l meschino, benché lo spalle fieramente gli
sanguinassero, andava così lentamente come se avesse pas- seggialo a piacere
per passar tempo, gli disse : Cammina, po- veretto, ed esci presto di questo
affanno. — Allor il buon uomo rivolto, guardandolo quasi con maraviglia, stette
un poco senza parlare, poi disse ; Quando sarai frustalo tu, an- derai a modo
tuo ; eh’ io adesso voglio andar al mio. — Do- vete ancora ricordarvi quella
sciocchezza, che poco fa rac- contò il signor Duca di quell’abbate; il quale
essendo pre- sente un di che ’l duca Federico ragionava di ciò che si
Digitized by Google LIBHO SECONDO. 127
dovesse far di cosi gran quantità di terreno, come s* era ca- vata per
far i fondamenti di questo palazzo, che tuttavia si lavorava, disse: Signor
mio, io ho pensalo henissimo dove e’ s’abbia a mettere. Ordinale che si faccia
una grandissima fossa, e quivi riponeresi potrà, senza altro impedimento. —
Rispose il duca Federico, non senza risa: E dove metteremo noi quel terreno che
si caverà di questa fossa?— Soggiunse l’abbate: Fatela far tanto grande, che
l’uno e l’altro vi^ stia. — Cosi, benché il Dnca più volle replicasse, che
quanto, la fossa si facea maggiore, tanto più terren si cavava, mai non gli
potè caper nel cervello eh’ ella non si potesse far tanto grande, che l’uno e
1’ altro metter non vi si potesse, nè mai rispose altro se non : Fatela tanto
maggiore. — Or vedete, che buona estimativa avea questo abbate. — Lll.
Disse allor messer Pietro Bembo: £ perchè non dite voi quella del vostro
commissario fiorentino? il qual era assediato nella Castellina dai duca di
Calavria, e dentro essendosi trovato un giorno certi passatori avvelenati, che
erano stali tirali dal campo; scrisse al Duca, che se la guerra s’ aveva da far
cori crudele, esso ancor farebbe por il medi- carne in su le pallette dell’
artigliarla, e poi chi n'avesse il peggio, suo danno — Rise messer Bernardo, e
disse: Mes- ser Pietro, se voi non stale cheto, io dirò tutte quelle che
10 stesso ho vedute e udite de’ vostri Veneziani, che non son poche, e
massimamente quando voglion fare il cavalcato- re. — Non dite, di grazia,
rispose messer Pietro, che io ne tacerò due altre hcllissime che so de’
Fiorentini. — Disse messer Bernardo: Deono esser più presto Sanesi, che spesso
vi cadeno. Come a questi di uno, sentendo leggere in consi- glio certe lettere,
nelle quali, per non dir tante volte il no- me di colui di chi si parlava era
replicato questo termine, 11 prelibalo, disse a colui che leggeva:
Fermatevi un poco qui, e ditemi ; cotesto Prelibalo, è egli amico del nostro
commune? — Rise messer Pietro, poi disse: Io parlo de’Fio- rentini, e non de’
Sanesi. — Dite adunque liberamente, sog- giunse la signora Ehii.ia, e non
abbiale tanti rispetti. — Se- guitò messer Pietro: Quando i signori Fiorentini
faceano la guerra conira Pisani, trovaronsi talor per le molte spese
Digitized by Gdogle 128 IL CORTEGIANO.
esausti di denari ; e parlandosi un giorno in consiglio del modo di
trovarne per i bisogni che occorreano, dopo l’ es- sersi proposto molti
partiti, disse un cittadino de’ più anti- chi: lo ho pensato dui modi, per li
quali senza molto im- pazzo presto potrem trovar buona somma di denari ; e di
questi l’uno è, che noi, perchè non avemo le più vive in- trate che le gabelle
delle porte di Firenze, secondo che v’ abbiam undeci porte, subito ve ne
facciam far undeci al- tre, e cosi raddoppieremo quella entrala. L’altro modo
è, che si dia ordine che subito in Pistoja e Prato s’aprino le zecche, nè più
nè meno come in Firenze, e quivi non si faccia altro, giorno e notte, che
batter denari, e tatti siano ducati d’oro; e questo partito, secondo me, è più
breve, e ancor di minor spesa. — LUI. Risesi mollo del sottil avvedimento
di questo cit- tadino ; e, racchetato il riso, disse la signora Emilia : Com-
portarete voi, mcsscr Bernardo, che messer Pietro burli così i Fiorentini,
senza farne vendetta? — Rispose, pur ridendo, messer Bebnabdo: Io gli perdono
questa ingiuria, perchè s’ egli m’ ha fatto dispiacere in burlar i Fiorentini,
hammi compiaciuto in obedir voi , il che io ancor farei sempre. — Disse allor
messer Cesabe : Bella grosseria udi’ dir io da un Bresciano, il quale essendo
stato quest’ anno a Venezia alla festa dell'Ascensione, in presenza mia narrava
a certi suoi compagni le belle cose che v’ avea vedute; e quante mercan- zie, e
quanti argenti, speziane, panni e drappi v’erano; poi la Signoria con gran
pompa esser uscita a sposar il mare in Bucenloro, sopra il quale erano tanti
gentiluomini ben ve- stiti, tanti suoni e canti, che parea un paradiso; e
diman- dandogli un di que’suoi compagni, che sorte di musica più gli era
piaciuta di quelle che avea udite, disse: Tutte eran buone ; pur tra 1’ altre
io vidi un sonar con certa tromba strana, che ad ogni tratto se ne ficcava in
gola più di dui palmi, e poi subito la cavava, e di nuovo la reficcava; che non
vedeste mai la più gran maraviglia. — Risero allora lutti, conoscendo il |)azzo
pensier di colui, che s’avea ima- ginato che quel sonatore si ficcasse nella
gola quella parto del trombone, che rientrando si nasconde. —
Digitized by C'-’Csh LIBRO SECONDO. 129
LIV. Soggiunse allor messer Bernardo: Le affettazioni poi mediocn fanno
fastidio ; ma quando son fuor di misura, inducono da ridere assai : come talor
se ne sentono di bocca d’ alcuni circa la grandezza, circa l’ esser ralente,
circa la nobilità; talor di donne circa la bellezza, circa la delicatura. Come
a questi giorni fece una gentildonna, la qual stando in una gran festa di mala
voglia e sopra di sè, le fu domanda- to a che pensava, che star la facesse cosi
mal contenta; ed essa rispose: Io pensava ad una cosa, che sempre che mi si
ricorda mi dà grandissima noja, nè levar me la posso del co- re; e questo è,
che avendo il di del gindicio universale tutti i corpi a resuscitare e comparir
ignudi inanzi al tribu- nal di Cristo, io non posso tolerar l’ affanno che
sento, pen- sando che il mio ancor abbia ad esser veduto ignudo. — Que- ste
tali affettazioni, perchè passano il grado, inducono più riso che fastidio.
Quelle belle bugie mo, cosi ben assettate, come movano a ridere, tutti lo
sapete. E quell’amico nostro, che non ce ne lassa mancare, a questi di me ne
raccontò una molto eccellente. — LV. Disse allora il MagniGco Joliano:
Sia come si vuo- le, nè più eccellente nè più sottile non può ella esser di
quella che l’ altro giorno per cosa certissima affermava un nostro Toscano,
mercatante lucchese.— Ditela, — soggiunse la signora Dochessa. Rispose il Magnifico
Joliano, ridendo : Questo mercatante, siccome egli dice, ritrovandosi una volta
in Polonia, deliberò di comperare una quantità di zibellini, coh opinion di
portargli in Italia e fame un gran guadagno; e dopo molte pratiche, non potendo
egli stesso in persona andar in Moscovia, per la guerra che era tra ’l re di
Polo- nia e ’l duca di Moscovia, per mezzo d’ alcuni del paese or- dinò che un
giorno determinalo certi mercatanti moscoviti coi lor zibellini venissero ai
confini di Polonia, e promise esso ancor di trovarvisi, per praticar la cosa.
Andando adunque il Lucchese coi suoi compagni verso Moscovia, giunse al
Boriatene, il qual trovò lutto duro di ghiaccio co- me un marmo, e vide che i
Moscoviti, li quali per lo so- spetto della guerra dubitavano essi ancor de’
Poloni, erano già su r altra riva, ma non s’accostavano, se non quanto
era Digitized by Coogle IL COnTEGIANO.
130 largo il 6amc. Così conosciutisi l’nn l’aKro, dopo alcuni cen-
ni, li Moscoviti cominciarono a parlar alto, e domandar il prezzo che volevano
dei loro zibellini, ma tanto era estremo il freddo, che non erano intesi ;
perchè le parole, prima che 'giungessero all’ altra riva, dove era questo
Lucchese e i saoi interpreti, si gielavano in aria, e vi restavano ghiacciate e
prese di modo, che quei Poloni che sapeano il costume, pre- sero per partilo di
far un gran foco proprio al mezzo del fiume, |)6rchè, al lor parere, quello era
il termine dove giun- geva la voce ancor calda prima che ella fosse dal
ghiaccio intercetta; od ancora il fiume era tanto sodo, che ben poteva
sostenere il foco. Onde, fatto questo, le parole, che per spa- zio d’ un' ora
erano state ghiacciale, cominciarono a lique- farsi e discender giù mormorando,
come la neve dai monti il maggio; e cosi subito furono intese benissimo, benché
già gli uomini di là fossero parliti : ma perchè a lui parve che quelle parole
dimandassero troppo gran prezzo per i zibel- lini, non volle accettare il
mercato, e cosi se ne ritornò senza. — LVI. Risero allora lutti: e messer
Bbrnabdo, In vero, disse, quella eh’ io voglio raccontarvi non è tanto sottile
; pur è bella, ed è questa. Parlandosi pochi di sono del paese 0 Mondo
novamente trovato dai marinari portoghesi, e dei varii animali e d’altre cose
che essi di colà in Portogallo ri- portano, quello amico del qual v’ho dello
atfermò, aver ve- duto una scimia di forma diversissima da quelle che noi sia-
mo usali di vedere, la quale giocava a scacchi eccellenlissi- mamente ; e, tra
l’ altre volte, un di essendo inanzi al re di Portogallo il gentiluom che
portala l’avea, e giocando con lei a scacchi, la scimia fece alcuni tratti
sottilissimi, di sorte che lo strinse molto ; in ultimo gli diede scaccomalto :
per- ’ebè il gentiluomo turbato, come soglion esser lutti quelli che 'perdono a
quel gioco, prese in mano il re, che era assai ^grande, come usano i
Portoghesi, e diede in su la lesta alla scimia una grande scaccata; la qual
subito saltò da banda, lamentandosi forte, e parea che domandasse ragiono al re
del torlo che le era fallo. Il gentiluomo poi la reinvilò a giocare; essa
avendo alquanto ricusalo con cenni, pur si Digitized by f'
igle LIBRO SECONDO. % 131 pose a
giocar di nnovo, e, come Taltra volta avea fatto, cosi questa ancora lo ridusse
a mal termine : in ultimo, vedendo la scimia poter dar scaccomalto al
genliluom, con una nuova malizia volse assicurarsi di non esser più battala ; e
cheta- mente, senza mostrar che fosse suo fatto, pose la man de- stra sotto '1
cubito sinistro del gentiluomo, il qual esso per delicatura riposava sopra un
guancialetto di taffettà, e pre- stamente levatoglielo, in un medesimo tempo
con la man si- nistra gliel diede matto di pedina, e con la destra si pose il
guancialetto in capo, per farsi scudo alle percosse; poi fece un salto inanti
al re allegramente, quasi per testimonio della vittoria sua. Or vedete se
questa scimia era savia, avveduta e prudente. — Allora messcr Cesare Gonzaga,
Questa, è for- za, disse, che tra l’ altre scimie fosse dottore, e di molta an-
torità; e penso che la Republica delle Scimie Indiane la man- dasse in
Portogallo per acquistar reputazione in paese inco- gnito. — Allora ognun rise
e della bugia, e della aggiunta fattagli per messer Cesare. LVII. Cosi,
seguitando il ragionamento, disse messer Bernardo: Avete adunque inteso delle
facezie che sono nel- r effetto e parlar continualo, ciò che m’occorre; perciò
ora è ben dire di quelle che consistono in un detto solo, ed hanno quella
pronta acutezza posta brevemente nella sentenza o nella parola: e siccome in
quella prima sorte di parlar fe- stivo s’ ha da fuggir, narrando ed imitando,
di rassìmig liarsi ai buffoni c parasiti, ed a quelli che inducono altrui a
ridere l>er le lor sciocchezze ; cosi in questo breve devesi guardare il
Cortegiano di non parer maligno e velenoso, e dir motti ed arguzie solamente
per far dispetto e dar nel core; |)erché tali uomini spesso per difetto della
lingua meritamente hanno castigo in tutto ’l corpo. LVllI. Delle facezie
adunque pronte, che stanno in un breve detto, quelle sono acutissime, che nascono
dalla am- biguità ; benché non sempre inducono a ridere, perchè più presto sono
laudate per ingeiiiose che per ridicole : come pochi di sono disse il nostro
messer Annibai Paleoito ad uno che gli proponea un maestro per insegnar
grammatica a’ suoi tìglioli, e poi che gliel’ ebbe laudalo |)er molto
dotto. Digitìzed by Google 132 IL
CORTEGIANO. venendo al salario disse, che olire ai denari volea nna
ca- mera fornita per abitare c dormire, perchè esso non avea letto: allor
messer Annibai subito rispose : £ come può egli esser dotto, se non ha letto? —
Eccovi come ben si valse del vario signifìcalo di quel non aver letto. Ma
perché questi motti ambigui hanno molto dcH’acuto, per pigliar l’ uomo le
parole in significalo diverso da quello che le pigliano tutti gli altri, pare,
come ho detto, che più presto movano mara- viglia che riso, eccetto quando sono
congiunti con altra ma- niera di delti. Quella sorte adunque di motti che più
s’ usa per far ridere è quando noi aspettiamo d’udir una cosa, e colui che
risponde ne dice un’ altra, e chiamasi fuor d' opi- nione. E se a questo è
congiunto lo ambiguo, il motto di- venta salsissimo; come l’altr’jeri,
disputandosi di fare un bel mattonato nel camerino della signora Duchessa, dopo
molte parole voi, Joanni Cristoforo, diceste: Se noi potessi- mo avere il
vescovo di Potenza, e farlo ben spianare, saria molto a proposito, perchè egli
è il più bel matto nato eh’ io vedessi mai. — Ognun rise mollo, perché
dividendo quella parola malto nato faceste lo ambiguo ; poi dicendo che si
avesse a spianare un vescovo, e metterlo per pavimento d’un camerino, fu fuor
di opinione di chi ascoltava ; cosi riuscì il motto argutissimo e
risibile. LIX. Ma dei molti ambigui sono molle sorti ; però bi- sogna
essere avvertito, ed uccellar soltilissimamcnte alle pa- role, e fuggir quelle
che fanno il molto freddo, o che paja che siano tirate per i capelli; ovvero,
secondo che avemo detto, che abbian troppo dello acerbo. Come ritrovandosi al-
cuni compagni in casa d’un loro amico, il quale era cieco da un occhio, e
invitando quel cieco la compagnia a restar quivi a desinare, lutti si partirono
eccello uno; il qual dis- se: Ed io vi restarò, perché veggo esserci vuoto il
loco per uno ; — e cosi col dito mostrò quella cassa d’ occhio vuota. Vedete
che questo è acerbo e discorlese troppo, perchè morse colui senza causa, e
senza esser stalo esso prima punto, e disse quello che dir si poria conira
tutti i ciechi ; c tal cose universali non dilettano, perchè pare che possano
essere |>ensale. E di questa sorte fu quel detto ad un senza
LIBRO SECONDO. 133 naso : E dove appicchi la gli occhiali? — o : Con che
fiuti (u r anno le rose? — LX. Ma tra gli altri molti, quegli hanno
bonissima gra- zia, che nascono quando dal ragionar mordace del compagno l’uomo
piglia le medesime parole nel medesimo senso, e conlra di lui le rivolge,
pungendolo con le sue proprie ar- me ; come un litigante, a cui in presenza del
giudice dal suo avversario fu detto: Che baji tu? — subito rispose: Perchè
veggo un ladro. — E di questa sorte fu ancor, quando Ga- leotto da Narni,
passando per Siena, si fermò in una strada a domandar dell’ ostarla ; e
vedendolo un Senese cosi corpu- lento come era, disse ridendo: Gli altri
portano le bolgie dietro, e costai le porta davanti. — Galeotto subito rispose:
Cosi si fa in terra di ladri. — LXL Un’ altra sorte è ancor, che
chiamiamo bitchizzi, e questa consiste nel mutare ovvero accrescere o minuire
una lettera o sillaba; come colui che disse: Tu dei esser più dotto nella
lingua latrina che nella greca. — Ed a voi , Si- gnora, fu scritto nel titolo
d’ una lettera : Alla signora Emi- lia Impia. — E ancora faceta cosa interporre
un verso o più, pigliandolo in altro proposito che quello che lo piglia l’ au-
tore, o qualche altro detto volgato ; talor al medesimo pro- posito, ma mutando
qualche parola : come disse un gentil- uomo che avea una bratta e dispiacevole
moglie, essendogli dimandato come stava , rispose : Pensalo tu , chè Puriarum
maxima juxla me cubai. — E messer Jeronimo Donato, an- dando alle Stazioni di
Roma la Quadragesima insieme con molli altri gentiluomini, s’ incontrò in una
brigala di belle donne romane, e dicendo uno di quei gentiluomini : Quel
calum steìlas, lot habet tua Roma puellas; — subito soggiunse : Pascua
quolque hados, tot habet tua Roma cincedos, — mostrando una compagnia di
giovani, che dall’ altra banda venivano. Disse ancora messer Marc’ Antonio
dalla Torre al vescovo di Padoa di questo modo. Essendo un monasterio di donne
in Padoa sotto la cura d’ un religioso estimato 12 134
IL C0RTE6IAN0. molto di bona vita e dotto, intervenne che ’l
padre, prati- cando nel monasterio domesticamente, e confessando spesso le
madri, cinque d’esse, che altrettante non ve n’ erano, s’ ingravidorono ; e
scoperta la cosa, il Padre volse fuggire, e non seppe ; il vescovo lo fece
pigliare, ed esso subito con- fessò, per tentazion del diavolo aver ingravidate
quelle cin- que monache ; di modo che monsignor il vescovo era deli- beratissimo
castigarlo acerbamente. E perchè costui era dotto, avea molti amici, i quali
tutti fecer prova d’ajutarlo, e con gli altri ancor andò messer Marc’Antonio al
vescovo per impetrargli qualche perdono. Il vescovo per modo alcuno non gli
voleva udire; alfine, facendo pur essi ìnstanza, e raccomandando il reo, ed
escusandolo per la commodità del loco, per la fragilità umana, e per molte
altre cause, disse il vescovo : Io non ne voglio far niente, perchè di questo
ho io a render ragione a Dio ; — e replicando essi, disse il ve- scovo: Che responderò
io a Dio il di del giudicio quando mi dirà : Hedde ralionem villicalionis luce?
— rispose allor su- bito mcs.ser Marc’ Antonio: Monsignor mio, quello che dice
lo Evangelio : Domine, quinque talenta Iradiditti mihi; ecce alia quinque
superlucralus $um. — Allora il vescovo non si potè tenere di ridere, e mitigò
assai l’ira sua e la pena pre- parala al malfattore. LXll. È
medesimamente bello interpretare i nomi e fìn- ger qualche cosa , perchè colui
di chi si parla si chiami cosi, ovvero perchè una qualche cosa si faccia; come
pochi * di sono domandando il Proto da Luca, il qual, come sapete, è molto
piacevole, il vescovato di Caglio, il papa gli rispose: Non sai tu che Caglio
in lingua spagnola vuol dire laccio? e tu sei un cianciatore ; però non si
converria ad un vescovo non poter mai nominare il suo titolo senza dir bugia ;
or ca- glia adunque. — Quivi diede il Proto una risposta, la quale, ancor che
non fosse di questa sorte, non fu però men bella della proposta ; ché avendo
replicato la domanda sua più volle, e vedendo che non giovava, in ultimo disse
: Padre Santo, se la Santità Vostra mi dà questo vescovato, non sarà senza sua
ntilità, perch’ io le la.sciarò dui otllcii. — E che of- fici! hai tu da
lasciare? — disse il papa. Rispose il Proto : lo Digitized by ■
jli LIBRO SECONDO. 155 lasciarò l’ officio
grande, e quello della Madonna. — Allora non potè il papa, ancor che fosse
severissimo, tenersi di ri- dere. Un altro ancor a Padoa disse, che Calfurnio
si doman- dava cosi, perchè solea scaldare i forni. £ domandando io un giorno a
Fedra, perchè era, che facendo la Chiesa il vener santo orazioni non solamenla
per i Cristiani, ma ancor per i Pagani e per i Giudei, non si facea menzione
dei Cardinali, come dei Vescovi e d’ altri Prelati, risposemi, che i Cardi-
nali s’intendevano in quella orazione che dice: Oremus prò hosreliàs el
scùmalieis. E ’l conte Ludovico nostro disse, che io riprendeva una signora che
usava un certo liscio che molto lucea, perchè in quel volto, quando era acconcio,
cosi vedeva me stesso come nello specchio ; e però, per esser brutto, non avrei
voluto vedermi. Di questo modo fu quello di messcr Ca- millo Palleotto a messer
Antonio Porcaro, il qual parlando d’un suo compagno, che confessandosi diceva
al sacerdote che digiunava volentieri, ed andava alle messe ed agli officii
divini, e facea tutti i beni del mondo, disse : Costai in loco d’ accusarsi si
lauda ; — a cui rispose messer Camillo : Anzi si confessa di queste cose,
perchè pensa che il farle sia gran peccato. — Non vi ricorda, come ben disse l’
altro giorno il signor Prefetto? quando Giovantomaso Galeotto si maravi- gliava
d’ un che domandava ducento ducali d’ un cavallo ; perchè dicendo Giovantomaso
che non valeva un quattrino, e che, tra gli altri difetti, fuggiva dall’ arme
tanto, che non era possibile farglielo accostare, disse il signor Prefetto (vo-
lendo riprender colui di viltà) : Se ’l cavallo ha questa parte di fuggir dall’
arme, maravegliomi che egli non ne domandi mille ducali. — > LXlll.
Dicesi ancora qualche volta una parola medesi- ma, ma ad altro fin di quello
che s’ usa. Come essendo il si- gnor Duca per passar un fiume rapidissimo, e
dicendo ad un trombetta : Passa; — il trombetta si voltò con la berretta in
mano, e con alto di reverenza disse : Passi la Signoria Vo- stra. — È ancor
piacevol maniera di molleggiare, quando l’uomo par che pigli le parole e non la
sentenza di colui che ragiona; come quest’ anno un Tedesco a Roma, incontrando
osa sera il nostro messer Filippo Beroaldo, del qual era dl-
Digilized by Googk* IL CORTEGIANO. 136
.cepole, disse: Domine magisler, Deus del vobis bonumsero; i ’l Beroaldo sobilo
rispose ; Tibi malum cito. — Essendo an- ;or a tavola col Gran Capitano Diego
de Chignones, disse un litro Spagnolo, che pur vi mangiava, per domandar da
bere : Vino ;-rispose Diego, T no io conocisles,-poT mordere co- lui d’ esser
marrano. Disser ancor messer Jacomo Sadoleto al Beroaldo, che affermava voler
in ogni modo andare a Bolo- sna: Che causa v’induce cosi adesso lasciar Roma,
doveson tanti piaceri, per andar a Bologna, che tutta è involta nei travagli? -
Rispose il Beroaldo: Per tre conti m’è forza andar a Bologna, - e già aveva
alzati tre dita della man si- nistra per assignar tre cause dell’ andata sua ;
quando mes- ser Jacomo subito interruppe, e disse : Questi tre conti che vi
fanno andare a Bologna sono, l’ uno il conte Ludovico da san Bonifacio , l’
altro il conte Ercole Rangone, il terzo il conte de’ Popoli. — Ognun allora
rise, perchè questi tre conti eran stati discepoli del Beroaldo, e bei giovani,
e studiavano in Bologna. Di questa sorte di motti adunque assai si ride, perchè
portan seco risposte contrarie a quello che l’ uomo aspetta d’ udire , e
naturalmente dilettaci in tai cose il nostro errore medesimo ; dal quale quando
ci troviamo ingannati di quello che aspettiamo, ridemo. LXIV. Ma i modi
del parlare e le Bgure che hanno gra- zia, i ragionamenti gravi e severi, quasi
sempre ancor stanno ben nelle facezie e giochi. Vedete che le parole
contraposte danno ornamento assai, quando una clausola contraria s’ op- pone
all’altra. 11 medesimo modo spesso è facetissimo. Come un Genoese, il quale era
molto prodigo nello spendere, es- sendo ripreso da un usurario avarissimo che
gli disse : E quando cessarai tu mai di gittar via le lue facoltà? — Allor,
rispose, che tu di rubar quelle d’ altri. — E perchè, come già avemo detto, dai
lochi donde si cavano facezie che mordano, dai medesimi spesso si possono cavar
delti gravi che laudi- no, per r uno e l’ altro effetto è mollo grazioso e
gentil mo- do quando l’ uomo consente o conferma quello che dice co- lui che
parla, ma lo interpreta altramente di quello che esso intende. Come a questi
giorni, dicendo un prete di villa la messa ai suoi popolani, dopo l’aver
publicalo le feste di quella Digitized Google LIBRO
SECONDO. 137 settimana, cominciò in nome del popolo la
confession gene- rale; e dicendo: Io ho peccalo in mal fare, in mal dire, in
mal pensare, — e quel che seguila, facendo menzion di tulli i peccati mortali ;
un compare, e molto domestico del prete, per burlarlo disse ai circostanti:
Sialo testimonii tutti di quello che per sua bocca confessa aver fallo, perch’
io in- tendo notificarlo al vescovo. — Questo medesimo modo usò Sallaza dalla
Pedrada per onorar una signora, con la quale parlando, poi che l’ebbe laudala,
oltre le virtuose condizioni, ancor di bellezza, ed essa rispostogli che non
meritava tal laudo, per esser già vecchia, le disse : Signora, quello che di
vecchio avete, non è altro che lo assomigliarvi agli angeli, che furono le
prime e più antiche creature che mai for- masse Dio. — LXV. Molto servono
ancor cosi i detti giocosi per pun- gere, come i detti gravi per laudar, le
metafore bene accom- modate, e massimamente se son risposte, e se colui che ri-
sponde persiste nella medesima metafora detta dall’ altro. E di questo modo fu
risposto a messer Palla de’ Strozzi, il quale essendo forauscito di Fiorenza ,
e mandandovi un suo per al- tri negozi!, gli disse, quasi minacciando: Dirai da
mia parte a Cosimo de’ Medici, che la gallina cova. — Il messo fece
l’ambasciata impostagli; e Cosimo, senza pensarvi, subito gli rispose : E tu da
mia parte dirai a messer Palla, che le gal- line mal possono covar fuor del
nido. — Con una metafora laudò ancor messer Camillo Porcaro gentilmente il
signor Marc’ Antonio Colonna; il quale avendo inteso, che messer Camillo in una
sua orazione aveva celebrato alcuni signori italiani famosi nell’arme, e, tra
gli altri, d’esso aveva fatto onoratissima menzione, dopo l’averlo ringrazialo,
gli disse: Voi, messer Camillo, avete fallo degli amici vostri, quello che de’
suoi denari talor fanno alcuni mercatanti, li quali quando si ritrovano aver
qualche ducato falso, per spazzarlo pongon quel solo tra molti buoni, ed in tal
modo lo spende- rlo; cosi voi per onorarmi, bench’io poco vaglia, m’avete posto
in compagnia di cosi virtuosi ed eccellenti signori, ch’io col merito loro
forsi passerò per buono. — Rispose al- lor messer Camillo : Quelli che
falsìfican li ducati sogliono 12 * Digiti' ed by
138 IL CORTEGIANO. cosi ben dorargli, che all’
occhio pajon mollo più belli che i buoni ; però se cosi si trovassero
alchimisti d’ uomini, come sì trovano de’ ducati, ragion sarebbe sospettar che
voi foste falso, essendo, come sete, di molto più bello e lucido metallo, che
alcun degli altri. — Eccovi che questo loco è communc all’ una e l’ altra sorte
di motti; e cosi sono moli’ altri, dei quali si potrebbon dar infiniti esempi!,
o massimamente in delti gravi ; come quello che disse il Gran Capitano, il
quale, essendosi posto a tavola, ed essendo giù occupali tutti i lo- chi, vide
che in piedi erano restati dui gentiluomini ilaliaoi, i quali avean servilo
nella guerra molto bene ; e subito esso medesimo si levò, e fece levar tutti
gli altri e far loco a que’ doi, e disse : Lasciate sentare a mangiar questi
signori, che se essi non fossero stati, noi altri non aremmo ora che man-
giare. — Disse ancor a Diego Garzia, che lo confortava a le- varsi d’ un loco
pericoloso, dove batteva l’artiglìaria : Dapoi che Dio non ha messo paura
nell’animo vostro, non la vo- gliate voi metter nel mio. — £ ’l re Luigi, che
oggi è re di Francia, essendogli, poco dapoi che fu crealo re, detto che allor
era il tempo di castigar i suoi nemici, che lo aveano tanto offeso mentre era
duca d’Orliens, rispose, che non toc- cava al re di Francia vendicar l’ingiurie
fatte al duca d’Orliens. LWI. Si morde ancora spesso facetamente con una
certa gravità senza indur riso; come disse Gein Ottomani, fratello del Gran
Turco, essendo prigione in Roma, che 'I giostrare, come noi usiamo in Italia,
gli parca troppo per scherzare, e poco per far da dovere. E disse, essendogli
re- ferito quanto il re Ferendo minore fosse agile e disposto della persona nel
correre, saltare, volteggiare e lai cose ; che nel suo paese i schiavi facevano
questi esercìzii, ma i signori im- paravano da fanciulli la liberalità, e di
questa si laudavano. Quasi ancora di tal maniera, ma un poco più ridicolo, fu
quello che disse l’ arcivescovo di Fiorenza al cardinale Ales- sandrino: che
gli uomini non hanno altro che la roba, il corpo e l’anima; la roba è ior posta
in travaglio dai juriscon- sulU, il corpo dai medici, e l’anima dai teologi. —
Rispose allor il Magnifico Juliano: A questo giunger si potrebbe quello che
diceva Nicotetto, cioè che di raro si trova mai ju- LIBRO SECONDO.
139 rìsconsoUo che litighi, nè medico che pigli medicina, nè teo- logo
che sia buon cristiano. — LXVII. Rise messer Bernardo, poi soggiunse: Di
questi sono inhniti esempii, delti da gran signori ed nomini gravis- simi. Ma
ridesi ancora spesso delle comparazioni, come scrisse il nostro Pistoja a
Serafino : Rimanda il valigion che l’ assi- miglia; — chè, se ben vi ricordate.
Serafino s’ assimigliava molto ad una valigia. Sono ancora alcuni che si
dilettano di comparar uomini e donne a cavalli, a cani, ad uccelli, e spesso a
casse, a scanni, a carri, a candelieri; il che lalor I ha grazia, talor è
freddissimo. Però in questo bisogna consi- { derare il loco, il tempo, le
persone, e l’ altre cose che già tante volle avemo detto. — Allor il signor
Gaspar Pallavi- GINO, Piacevole comparazione, disse, fu quella che fece il si-
gnor Giovanni Gonzaga nostro, di Alessandro Magno al si- gnor Alessandro suo
figliolo. — Io non lo so, — rispose mes- ser Bernardo. Disse il signor Gasparo:
Giocava il signor Gio- vanni a tre dadi, e, come è sua usanza, aveva perduto
molti ducati, e tottavia perdea; ed il ngaor Alessandro suo figliolo, il quale,
ancor che sia fancinOo, non gioca men volentieri che ’l padre, stava con molta
attenzione mirandolo, e parea tutto tristo. 11 conte di Pianella, che con molti
altri gentiluo- mini era presente, disse: Eccovi, signore, che ’l signor Ales-
sandro sta mal contento della vostra perdita, e si strugge aspettando pur che
vinciate, per aver qualche cosa di vinta ; però cavatelo di questa angonia, e
prima che perdiate il re- sto, donategli almen un ducato, acciò che esso ancor
possa andare a giocare co’ suoi compagni. — Disse allor il signor Giovanni: Voi
v’ingannate, perchè Alessandro non pensa a cosi piccol cosa ; ma, come si
scrive che Alessandro Magno, mentre che era fanciullo, intendendo che Filippo
suo padre; avea vinto una gran battaglia ed acquistato un certo regno, cominciò
a piangere,, ed essendogli domandato perchè pian- geva, rispose, perchè
dubitava che suo padre vincerebbe tanto paese, che non lasciarebbe che vincere
a lui : cosi ora Alessandro mio figliolo si duole e sta per pianger vedendo
ch’io suo padre perdo, perchè dubita eh’ io perda tanto, che non lasci che
perder a lui.— Digitized by Google nicsst;!
liisn.^Auuu. - — -...-oo-— — -— sia impio ; chè la cosa passa poi al
voler esser arguto nel biastcmare, e studiare di trovar in ciò nuovi modi :
onde di quello che 1’ uomo mcrila non solamente biasimo ma grave castigo, par
che ne cerchi gloria ; il che è cosa abominevole: e però questi tali, che
voglion mostrar di esser faceti con poca reverenza di Dio, meritano esser
cacciati dal consorzio d’ogni gentiluomo. Nè meno quelli che son osceni e
sporchi nel parlare, c che in presenza di donne non hanno rispetto alcuno, e
pare che non piglino altro piacer che di farle aros- sire di vergogna, e sopra
di questo vanno cercando motti ed arguzie. Come quest’ anno in Ferrara ad un
convito in pre- senza di molte gentildonne ritrovandosi un Fiorentino ed un
Sanese, ì quali per lo più, come sapete, sono nemici ; disso il Sanese per
mordere il Fiorentino: Noi abbiam maritalo Siena allo imperatore, ed
avemoglidato Fiorenza indola; — e questo disse, perchè di que’ di s’ era
ragionalo che Sanesi avean dato una certa quantità di danari allo imperatore,
cil ' esso aveva tolto la lor protezione. Rispose subito il Fiorenti-
.. no : Siena sarà la prima cavalcata (alla franzese, ma disse il
vocabolo italiano); poi la dote si litigherà a bell’ agio. — Ve- dete che il
motto fu ingenioso, ma, per esser in presenza di „ donne, diventò osceno
e non conveniente. — L\1X. Allora il signor Gaspah Paliavicino, Le donne,
disse, non hanno piacere di sentir ragionar d altro; e voi volete levargliele.
Ed io per me sonomi trovato ad arossirmi di vergogna per parole detterai da
donne, mollo più spesso che da nomini. — Di queste tai donne non parlo io,
dissa messerBERHARDo; ma di quelle virtuose, che meritano reve- renza ed onore
da ogni gentiluomo. — Disse il signor Gaspa- ro : Bisogneria ritrovare una
sottil regola per conoscerle, perchè il più delle volle quelle che sono in
apparenza le mi- gliori, in effetto sono il contrario. — Allor messcr Bernardo
ridendo disse : Se qui presente non fosse il signor Magnifico nostro, il quale
in ogni loco è allegato per protetlor delle don- ne, io pigliare! l’ impresa di
rispondervi ; ma non voglio far ingiuria a lui. — Quivi la signora Emilia, pur
ridendo, disr Digitized by Google ge : L.e don
accusatore Gasparo in suo Tvou av che da matT (5 ttBRO
SECONDO. ... ragionamene dell, donne, o seguicaie LXX. M.
MOf'^ disse, onaai r»Sroii avp?!I signor» possono motCm arguti • ^
molti lochi onde cavar * quanto sono hanno tanto più grazi»‘ cor
mou- allr. _ M «na teUa narrazione. P^_ socre o per n» itinirg ' quando,
o per accreT mente la '''®^’®'niilituj* *^he eccedono incredibii
disse Mario da me; e di questa sorte fu quclJa ~ aranti’ ao/na, che
prelato, che si tenea fani** hasaava per non , egli entrava in San Pietro
s' Disse ancora il V t*e della lesta nell’ architravo della porf /ore era
tanto nagnifìco nostro qui, che Golpino suo sery^ soU'tI foco per magro e
secco, che una mattina, so/Ba»,j*' lo camino insin^..^®*^®®aderIo,
era stato portato dal fumo su . . . . 'd pe,. ad una di quel
®'“a; ed essendosi per sorte traversato"^ che non era voì^
^•nestrcne, aveva avuto tanto di ventura A A» n VIA in.SiPmo TVIgcì» n
/«/««» »_ ’ Augastino Beva;^ '“«'eme con esso. Disse ancor
mess, luto vendere il avaro, il qual non aveva vo fera molto
avvi/^"° mentre che era caro, vedendo che pò/ cr‘
della sua camer^ '^ìlo, per disperazione s’ impiccò ad un trav^
pilo, corse, e vi(% ’ "" sentito n ^ . il patron
impiccato, e prestamente tagliò a fune, e cosi dalla morte ; dapoi
l’avaro, tornato va Oat ^^nel servitor gli pagasse la sua fané che
ta- gliala gli aNta.\li questa sorte pare ancor che sia quello che disse
Lorenzo de’ JVfcdici ad un butTon freddo : Non mi fare- ste ridere se mi
so(jg(i(.ngti, — E medesimamente rispose ad MTV a\V.TO scÀocto, \\ quale una
mattina l’avea trovato in ietto mollo lardi, e ^\\ rimproverava il dormir
tanto, dicendo- gli*. lo a quest’ ora sono stato in Mercato Nuovo e Vec- chio,
poi fuor della Porta a San Gallo, intorno alle mura a far esercizio, ed ho
fallo miU’alIre co.se; e voi ancor dormi- " 'e? — Disse allora H-orenzo:
Più vale quello che ho sognato D i g i ltfoO by Google
IL CORTEGIANO. che avele fallo in quattro voi. ^
”"LXXl'Va»crb««o, -l»»»-!» '=»» ""•«•isposla l „o«. LXxl.
riprendere non voglia. Come il “os?ra essendo a tavola con molli
genl.luom.ni un d’essi, dapoi che ebbe mangialo tulio un minestro, disse:
Signor Marchese, perdonatemi e cosi dello, cominciò a sorbire uuel brodo che
gli era avanialo. Allora il Marchese subilo disse : Domanda i>ur perdono ai
porci, chè a me non fai lu ingiuria alcuna. — Disse ancora messer Nicolò
Leoiiico, per tassar un tiranno eh’ avea falsamente fama di liberale: Pensale
quanta liberalità regna in costui, che non solameule dona la roba sua, ma ancor
1’ alimi. — LXXll. Assai genlil modo di facezie è ancor quello che
consiste in una certa dissimulazione, quando si dice una co- ga, e tacitamente
se ne intende un’altra; non dico già di quella maniera totalmente contraria,
come so ad un nano si dicesse gigante, e ad un negro bianco, ovvero ad un brut-
tissimo bellissimo, perchè son troppo manifeste contrarietà, benché queste
ancor'alcuna volta fanno ridere ; ma quando con un parlar severo e grave
giocando si dice piacevolmente quello che non s’ha in animo. Come dicendo un
geuliltiomo una espressa bugia a messer Auguslin Foglielta, ed aOérman- dola
con eOìcacia, perché gli parca pur che esso assai dilQ- cilmeute la credesse,
disse in ultimo messer Auguslino: Gen- tiluomo, se mai spero aver piacer da
voi, fatemi tanta grazia che siale conlenlo, eh’ io non creda cosa che
voi diciate. Keplicando pur costui, e con sacramento, esser la verità, in
fine disse: Poiché voi pur cosi volete, io lo crederò jier amor vostro,
perché in vero io farei ancor maggior cosa jier voi. Quasi di questa
sorte disse don Joaiini di tardona d’uno che gl voleva partir di Roma: Al
|>aror mio, costui pensa male; perchè ó tanto sccleralo, che stando in Roma
ancor col tempo potria esser cardinale. - Di questa sorte è ancor queUo che
disse Alfonso Santacroce; il qual avendo avuto poco pri- ma alcuni oltraggi dal
Cardinale di Pavia, e passeggiando fuori di Rologna con alcuni gentiluomini
presso al loco dove gl fa la giustizia, e vedendovi un uomo poco prima
impic- Di ' Google calo, se gli tanto forte c=^ fare
col Care; V seco.vdo. rse'nn? '"’ co pare
tnoU ^ ^«"VenientTaVl™^®^'® <»el|* ironì> e salsa, e puc»s«,
»« «om.n, grandi, perchè è erave vere. Però n» «=» Ili cose giocose ed
ancor nelle se_ come Catone, ®®*pione Àr • P'’\^^iioaati, 1’ hanno usata
questa dicesi e «ser o.-, . dicano minore ; ma sopra luUi jJ stri tempi
il re» Alfonso Socrate fìlosofo, ed a* no- nna mattina p«^ *" hiangia '
Aragona ; il quale essendo ne\\\ ò\V\ evea.^ per j/ molle preziose anella
eh© cosi le diede a quello”? nello lavar delle mani, ^ rar chi
fosse. Quei ^ ;® Peima gli occorse, quasi senza tnì- sto cura a cui date
pg *^''*^®ce pensò che ’l re non avesse po.. importanza, facit esse, e che, per
i pensieri di niaggioj. in questo p/à si ^ fosse che in ludo se Io
scordasse: e<j domandava ; e ^ onfermó, vedendo che *1 re più non le
Urne mai parola^ -landò giorni e settimane o mesi senza seq vicino all’ anno
pensò di certo esser .sicuro. E cosi essendo pur quando il res^ « questo
gli era occorso, un* altra mattina mano per pigliti^ mangiare, si ra presentò,
e porse r orecchio, gli cìg ; allora il re, accoslatosegli buone
per un aìt^ Baslinti le prime, chè queste saran gnosoegrave, e ^ -Vedete come
il mollo è salso, Alessandro. ^egno veramente della magnanimità LXXIV.
Siir^ ^ ■^.ile a questa maniera che tende all ironie© è ancora un altro
modo, quando con oneste parole si nomina tQ'ìa. Come disse il Gran Capitano ad
un sao genVòuwcMi, 'A Q^ale dopo la giornata della Cirignoia, e quando le cose
già ^rano in securo, gli venne incontro ar- mato riccamente qvtgnlo dir si
possa, come apparecchialo di tOTCvbaUetft •, ed aWr^r il Gran Capitano, rivolto
a don Ugo di Cardoua, disse*.* "Kon abbiate ormai più paura di tormento di
mare, cbè Santo Ermo è comparito ; — e con quella one- sta parolaio punse,
perchè sapete che Santo Ermo sempre ai marinari appar dopo la tempesta, e dà
segno di tranquil- lità ; e cosi volse dire il Gran Capitano, che essendo
compa- IL COBTEGIANO. ' .-..«ma era segno Che » pericolo già
era in luUo passalo, ^ssen ciUadim di molla aulorilà, Fi.«n..,nco«^
gU .aima„d6 sa...: 0:“*,;,, « ,»»> »«»' - «a, di Fiorenza.
Rispose il signor OUaviano . non lo conosco .nllrimcnli, ma sempre l’ho sentilo
ricordare per un sollecito soldato ; - disse allor un altro Fiorentino : edete
come egli è sollecito, che si parte prima che domandi licenza LXXV.
Arguti molli son ancor quelli, quando del par- lar proprio del compagno 1’ uomo
cava quello che esso non vorria; e di lai modo intendo che rispose il signor
duca no- stro a quel castellano che perdè San Leo, quando questo stalo fu tolto
da papa Alessandro e dato al duca Valentino; c fu, che essendo il signor duca
in Venezia in quel tempo ch’io ho dello, venivano di continuo molti de’ suoi
sudditi a dargli secrelamente notizia come passavan le cose del sialo, e fra
gli altri vennevi ancor questo castellano ; il quale dopo Faversi escusato il
meglio che seppe, dando la colpa alla sua disgrazia, disse : Signor, non
dubitale, ché ancor mi basta l’animo di far di modo, che si potrà recuperar San
Leo. — Allor rispose il signor Duca : Non ti aflaticar più in questo ; che già
il perderlo è sialo un far di modo, che ’I si possa recuperare. — Son alcun’
altri delti, quando un uomo, cono- sciuto per ingenioso, dice una cosa che par
che proceda da sciocchezza. Come l’altro giorno disse messer Camillo Pal-
Icotto d’uno: Questo pazzo, subito che ha comincialo ad ar- ricchire, si è
morto. — È simile a questo modo una certa dissimulazion salsa ed acuta, quando
un uomo, come ho detto, prudente, mostra non intender quello che intende. Come
disse il marchese Federico di Mantua, il quale, es- sendo stimolalo da un
fastidioso, che si lamentava che al- cuni suoi vicini con lacci gli pigliavano
i colombi della sua colorahara, e tuttavia in mano ne lenea uno impiccalo per
un piè insieme col laccio, che cosi morto trovalo l’aveva, gl. rispose che si
provederia. Il fastidioso non solamente una volta ma molle replicando questo
suo danno, col mostrar sempre il colombo cosi impiccato, dicea pur : E che vi
par • Digitized by Google f LIBRQ SECONDO. .
cosa? - Il marchese ia ,j, P®*" n*en*e quel colombo non *fe^da
cTe«^=^ **e ch?’f essendosi impiccalo da sè sles- ’ A disperalo. - Quasi
di lai modo fu *^”®' ^ rasa. «3’p Ennio; che essendo andato Sci-
pione a ^ per parlargli, e chiamandol giù dalla anie gli rispose che egli
non era in casa; e Scipione nd\»3Cianifeg(3jjjgjjjg^ che Ennio
proprio avea delio alla fan ® ® ®**’egli non era in casa: cosi si partì
T^on mollo ap^JR-esso venne Ennio a casa di Scipione, e pup medesimameim lo
chiamava stando da basso; a cui Scipione 5^Va. NOc» e esimo rispose, che non
era in casa. Allora Ennio, ome non conosco io, rispose, la voce Ina? —
Disse ;;%‘"fante tua discorlese; l’ altro giorno io credetti Jere a
me stesso^ ^ ”®" ^"ss* casa, e ora tu noi vuoi cre-
I.JCXVI. medesima cosa ^«Cor belìo, quando uno vien morso in qaeijg
j Ajonso esso prima ha morso il compagno; come esscn gp Carino alla corte
di Spagna, ed avendo com- ®®®*® . ^"ori giovenili e non di molta
importanza, p^j, comandamenio ^ prigione, e quivi lasciato una
nolle. 11^ ^^gnente ne fu trailo, o cosi venendo a pg, lazzo la mallina y
giunse nella sala dove eran molti cavalieri e dame; e rii prigionia, disse la
signora BoadiUa: Signor a me mollo pesava di questa vostra
disavventura, miti quelli che vi conoscono pensava- no che '1 re dove^
impiccare. — Allora Alonso subito. Signora, disse, io ancor ebbi gran
paura di questo; par aveva mi dimandaste per manto. — Vedete come aucslo ^
aiCXsNo ingenioso; perchè in Spagna, come ancor rmoHÌ al.ri lochi, usanza 6 che
quando a. mena ano alle forche, se una me»-elrice publica l’addimanda P
doAvascalUa nàU. r^i questo modo rispose ancor Rafaello p.t- uo\\Aì.v,o“ i aua
i, per farlo dire, lore a to\ cattoal. aooi f he egli ave. tm.,
Vatsavano >n an Paolo, dicendo che quelle <lne ' dove erano aan Pie
Allora Rafaello subilo disse; Xrrirho" Tn.aq.vìg.lalei ;hé lo quesH
ho fallo a soai- Digitized by Googl IL VA i aa
credere che san Pielro e àan Paolo uo studio, perchè ««cor in cielo cosi rossi
, per ver- rixVll Sono ancor arguti quei molti che hanno in sé ^ ri»
nascosta sospixion di ridere; come lamentandosi un raVlo motto, e piangendo sua
mogUe, che da ^ sles^ s'era un fico impiccala, un altro se gli accostò, e,
tiratolo per ,a veste, disse; Fratello, potrei io per grazia grandissima aver
un rametto di quel fico, per inserire in qualche albero del- 1’ orto mio? — Son
alcuni altri motti pazienti, e detti lenta- mente con una certa gravità; come,
portando un contadino una cassa in spalla, urlò Catone con essa, poi disse:
Guar- jji ^ Rispose Catone; Hai tu altro in spalla che quella cas- Ridesi ancor
quando un uomo, avendo fallo un erro- re per rimediarlo dice una cosa a sommo
studio, che par sciocca, e pur tende a quel fine che esso disegna, e con quella
s’ajnla per non restar impedito. Come a questi di, in consi- ,t\ìo di Fiorenza
ritrovandosi doi nemici, come spesso inter- viene in queste republiche, l’ uno
d’essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; e quello che gli sedeva
vicino,, per ride- re, benché ’l suo avversario, che era di casa Alamanni, non
parlasse né avesse parlalo, toccandolo col cubilo lo risvegliò, c disse; Non
odi tu ciò che U tal dice? rispondi, chè i Signori domandan del parer tuo. —
Allor l’Alloviti, tutto sonnacchio- so e senza pensar altro, si levò in piedi e
disse; Signori, io dico tulio i* contrario di quello che ha detto TAIamanni. —
IVbpose l’ Alamanni: Oh, io non ho dello nulla. — Subito disse l'AUoviti; Di
quello che tu dirai. — Disse ancor di questo modo maestro Serafino, medico
vostro urbinate, ad un con- tadino, il qual, avendo avuta una gran percossa in
un occhio di sorte che in vero glielo avea cavato, deliberò pur d’aul dar per
rimedio a maestro Serafino; ed esso vedendolo, ben- ché conoscesse esser
impossibile il guarirlo, per cavargli de- nari delle mani, come quella percossa
gU avea cavato l’occhio della lesta, gli promise largamente di guarirlo; e cosi
ogni di gli addimandava denari, aflermando che fra cinque o Li dì comincmria a
riaverla vista. U poyer contadiuo ^ dava quel I
Digitized by Google LIBRO SECONDO. 147
poco che «''®; pur, vedendo che la cosa andava in lungo, comi»®**
medico, e dir che non sentiva miglio- ramene® ^ discernea con quell’ occhio più
che se tvoTv V *Vulo in capo. In ultimo, vedendo maestro Se-
iiiscciuea con qaeii occnio più che se „„„ - - — ' ••* capo. In ultimo,
vedendo maestro Se- rafme cYvc pi,j potea trargli di mano, disse:
Fratello mio, bisogna av^ *” Pazienza: tu hai perduto 1’ occhio, nè più
v’aè rimedio alc*^ ® voglia che lo non perdi anco queir ni- tro. — Ude*:» ®
questo il contadino, si mise a piangere e do- lersi fotte, disse: Maestro, voi
m’avete assassinato e ru- balo i mio' ci ^oari: io mi lamenterò al signor
Duca; — e facea i maggiori s®'*'|di del mondo. Allora maestro SeraQno in col-
\e,va., «-"y ‘Popparsi, Ah villan traditor, disse, dunque tu ancor
vorresti aver dui occhi, come hanno i cittadini e gj, uomini da bene? vattene
in malora: — e queste parole ac- coatpagn^ con tanta furia, che quel povero
contadino spa. ventato si ^ ^ andò con Dio, credei,- <•»« f 'Xyl t
torto. LXXyi^€ È anco bello quando si dech.ara una cosa, « si iaierpreta
^.orte di bpagna com- parendo nna Q^aiiina a pahwzo un cavaliero, il
*1“®’®®;» brut- tissimo» ® i* *^Oglie, che era bellissima, n aliti di
damasco bianco, disse la Reina ad Che vi par, di questi dui? — Signora, rispose
Alon- so, parrai che q ^ damo e questo Io jirichiro. aooor Rafael
do-Paza. Prior di ch’egli scriveva ad una sna signora, ,i
^‘Ipiaacrinodell causa mtpeMr, barrai, diss^ c _ ^ perché ognun,,
®®“® nrpslalo al Prior diece mila aapea Toloaa aveva „„„ ,„,ava
a.„d„ ducati; ed esso, esser 8*'®“ ^„uando si dà una ammoni- di
rendergli- A questo *' jjo pur dissimulalamenle. ;U vzx t»™» aolioo. il
,..l ara Come à\ss« „oUo sapere,® per mezzo pur di Co- assav ricco,
ma di non m ^ dimandando gimo aveva cosimo , che modo gli parca che
egli costui nel governarsi bene in questo suo odicio, avesse a
tenere p Digiti^“J by Gòogle It CORTEO! ANO. . 4o
• 1 - • vpsli di rosato, e parla poco. — Di qae- riTrrlc fJ’qucUo
che disse il conte Ludovico ad uno che volea passar incognito per un certo loco
pericoloso , e non sapea come travestirsi; ed essendone rispose-
Vestili da dottore, o di qualche altro abito da savio — Disse ancor Giannotto
de’ Pazzi ad un che volea far un sajo d’arme dei più diversi colori che sapesse
trovare: Piglia pa- role ed opre del Cardinale di Pavia. — LXXIX. Ridesi
ancor d’ alcune cose discrepanti; come disse uno l’ altro giorno a messer
Antonio Rizzo d’ un certo Forlivese; Pensale s’ è pazzo, che ha nome
Bartolomnico I?d un altro; Tu cerchi un'maeslro Stalla, e non hai caval-
li: ed, A costui non manca però altro che la roba e ’l cer- vello. — E d’
alcun’ altre che pajon consentanee; come, a questi di, essendo stalo suspicione
che uno amico nostro avesse fatto fare una rcnunzia falsa d’ un benefìcio,
essendo poi malato un altro prole, disse Antonio Torello a quel (ale: Che slai
tua far, che non mandi per quel tuo nolaro, e vedi di carpir quest’ altro
beneficio? — Medesimamente d’ alcune che non sono consentanee; come l’ altro
giorno avendo il papa mandalo per messer Jean Luca da Ponlreraolo e per messer
Domenico dalla Porla, i quali, come sapete, son tutti dui gobbi, e fattogli
Auditori, dicendo voler indrizzarc la Rota, disse messer Latin Juvenale: Nostro
Signore s’ingan- na, volendo con dui torti indrizznr la Rota. LXXX. Ridesi
ancor spesso quandol’uomoconcede quel/o che se gli dice, ed ancor più, ma
mostra intenderlo allramen (c. Come, essendo il capitan Peralla già condotto in
campo por combattere con Aldana, e domandando il capitan Mohrr rb^ era palnno
d’ Aldana a Peralla il sacramento, previ 0 meant, che lo guardassero da esser
ferito; iS -? nl“™cvolio^e^^tcuL'?nThe"aVéI^^^ pungerlo che
fosse marrano, disse; Non sto, che senza giurare credo che non abbiale VlT a in
Cristo. _É ancor bello usar le riaforc ! T proposili; conio il noslro maeslro
Marc’ Am . Bollon da Cesena, che Io slimolava con
parotcT|{;tlon''Bolt » t ( I I
Digitized by Google Ione, lu sai libro
secondo. ancor inals/rn®^ «ar ^*«ed,a e di varii alT «««Posto
«n»-, :«;» «.-• A„ir ’ aT,!' “xr ° *«- i49 “■■*'•
fe»«.ret- i^er oomedia la. — Ed av-
moUo \oT\ ptir a T''^^ bisognerannc» nia; ^ — risposa tua tragedia
■ spesso «■ H' "' una nascosta »«&ni6ca,LJ‘’t parola,
nella quale i sì yogli.. Co«»« a quello cha par™"!* A’nxv
cap\lan» ■» i] «oalo '"ofelto qui, sentendo rag/onar«v PCtAuVo, eA a.11or
pjjj. s’saoi di il più delle volte h colui che ragionava*^ P®** avventura
avea vinto; e diceod* quella terra s’ era vés/-,^ entrata che egli avea fatta i
** mogi, yf^ualport^y '‘o nn bellissimo sajo di velluto che ** Pretèf/o.*
X>ee e«sk ®empre dopo le vittorie; disse il sigfjS' talor si rispont/ì^
Ouoyo. — JVon meno induce il riso, qaaad *” /«irte, orrer si a quello che non
ha detto colui con cui „? non ha /atto, 0 mostra creder che abbia fat-to quello
dato a visitare ^ — ^ si «.'■wucia qUeJIO c |.
®vea fare. Come Andrea Coscia, essendo an° e lo Vo pose a sedere.
*“anda, per obedire io sederò; — e cosi LXXXU. R f. zia accasa sè qnando
I’ uomo con buona g^j,. lasciava stare im w ?* il quale
discortesemente**^ Signorìa me lo «“« sedea, disse: Poiché Vost-,
fcriavirl»* ^1 a • • a jl . _ ■m si dicendo io al cap^
qualche errore; come V altro giorno, avea nn canelIancO®"®"
Monsignor mio P che dicea messa più presto di lui, mi ri- spose; None gjj
accostatomisi all’ orecchio, disse \n 'n'^ou dico un terzo delle secrete.
— ftag/n Crivello ancor, essendo stato morto un prete a Milano, do- mandò il
benefìcio Duca, il qual pure slava in opinion di darlo ad nn altro, -^iagin in
ultimo, vedendo che altra ragio- ne non %\\ ve\ea, 1E come? disse; s’io ho
fatto amazzar il prete, perchè non mi volete voi dar il beneficio? — Ha gra-
zia ancor spesso desiderare quelle cose che non possono es- sere; come r altro
giorno un dei nostri, vedendo questi si- gnori che tatù giocatvano d’arme, ed
esso slava colcafo sopra un letto, disse: Ob come mi piacerla, che ancor questo
fosse 43 ’ Digiti- jd iiy C'nogU _ — ' ju J gTU
.., esercizio da valenle uomo e buon soldalol — È ancor bel modo e
salso di parlare, e massiniameule in persone gravi e d’ aulorilà, rispondere al
contrario di quello che vorria colui con chi si parla, ma lentamente, e quasi
con una certa con- siderazione dubiosa e sospesa. Come già il re Alfonso pruno
tl’ Araaona, avendo donalo ad un suo servitore arme, cavalli c veslimenli,
perchè gli avea detto che la notte avanU s^ enava che Sua Altezza gli dava
tutte quelle cose; e non molto ,H,i dicendogli pur il medesimo servitore, che
<1!*^ ‘.otte avea sognato che gli dava una buona quantità di Gorin
d’oro, gli rispose: Non crediate da mo inanzi ai sogni, chè „oo sono
veritevoli.-Di questa sorte rispose ancor d papa al vescovo di Cervia, il qual,
per tentar la volontà sua, gli disse: Padre Santo, per tutta «orna e per lo si
dice, che Vostra Santità mi fa governatore. - Allor il pa. Lasciategli dire,
rispose, che son ribaldi; non dubitate, che non è vero niente.—
m^iii LXXXllI. Potrei forse ancor, signori, raccorre naolU altri lochi,
donde si cavano motU ridicoli; come le con timidità, con maraviglia, con
minaccia, fuor d ord.n , con troppo coUera; oltra di questo, certi casi
^^a tervenuU inducono il riso; lalor la taciturnità, con una wrla
maraviglia; talor il medesimo ridere senza proposito, ma a ormai aver
detto a bastanza, perchè te facezie che me pare oim drche avemo
ragionato. Quelle poi che sono ncll’etret- t avvenga che abbian inOnite parti,
pur si riducono a po- chi capi: ma nell’ una e nell’ altra sorte la principal
cosa è Io ingannar la opinion, e rispondere altramente che quello che aspetta
l’auditore; ed è forza, se la facezia ha d’aver grazia, sia condita di quello
inganno, o dissimulare o beffare o riprendere o comparare, o qual altro modo
voglia usar l’uomo. E benché le facezie inducano tutte a ridere, fanno però
ancor in questo ridere diversi effetti: perchè alcune hanno in sè una certa
eleganza e piacevolezza modesta, altre pun- gono talor copertamente, talor
publico, altre hanno del lasci- vetto, altre fanno ridere subito che s’ odono,
altre quanto (tiù vi si (lensa, altre col riso fanno ancor arrossire, altre
indù- cono nn poco disposizion tl spesso i libro
secondo. ^ «n/ini «Jan ’■**>« in tutti i modi
^Jegii auditori, perché I s’ha da considera «gii
afll fermili, ehe, q a e ,„„„ “ '".lo .T"
"■•«'■.’ina, Ia„,„ mcruuisco.— ® atiungue il Corf^n.-
p,ù e dir piacevolea= =me ri.pe,,„ J e di non esser,,, ^ «empo,
alle persone, al gr? fastidio, tutto il giorno, j‘„ ché in vero •tn star
sen» su „ ' »'ag»onamenti , e senza pi !I?,Ìl.Hàndo anco»- di chiamato
facei Guardando anuw » w, non esupr », # ^ .acci S latito
acerbo e mordace, c] «\ faceva conosci^ ,.,;r ma/irrr. ’ ver
con odSo raa»iifes(o. „„5,. !_ ^“"Sendo senza causa, o
imprudenza; ovvero Parsone troppo potenti, che ,^Plx> miserò,
che è se'eJeraie, che ^ ^''^ ^‘sere, che è crudeltà; ovve dan
cfuelli che esso ver dicendo cose che ofTeti « 1 t w^yy%'^TJ€f A. Morris
o/TV»n/J#>r'o A ig^noroiizs perchè si irav/irja rorria
offendere, che é ignoranz yunser senza r/sp^ Cum che si credon esser
obligafi a dir la cosa conte ruolfy ogni volta che possono, vada pur poi
punger osa ^ 1? I ■ parola argutan^ ^ ‘ra questi tali son
quelli, che perdine •V il ch^^*®> guardan di macular ronord’uua
una nobil donna; _ , • IJJC1 castigo,
perchè m J. ^ fT, - ^ malissima cosa, e degna di
gravissimo . caso le donne sono nel numero dei miseri, e per
*a ciò essere mordale , ché non hanno Rvroe ^ *^Jersi. Ma, oltre a questi
rispetti, biso, gna che co ut esser piacevole e faceto, sia formato
d’ una certa tia ti ‘ ^ sorti di piacevolezze, ed a quelle accomodo . j
gf,gn e ’l volto; il quale qoanl’ è più grav'G e severo e saldo, tanto
più fa le cose che argute. "V -oi , messer Federico, che
pensaste di ri- posarvi sotto questo sfi*gHato albero e nei miei secchi ragio-
namenti, credo che nes siate pentito, e vi paja esser entrato *c\V osVetta
<i’t "MonVe t\ore : però ben sarà che, a guisa di ^ralico corrten, per
fuggir un tristo albergo, vi leviate un .. icmno che 1 ’ ordinario, e
seguitiale il canimin poco più per tempo vnelrO — -Anzi,
tisi vuoiti- penso di starvi piu che prima non aveva cono io venuto
, i - i . Bouu ^ però r/poscrommi pur ancor nn a (an(o die voi
^lehb^aj)^ 7 ragic^uamenio proposto, del quale avete burle; e di
ciò non è buono che questa compagnia sia de- fraudata da voi. Ma si come circa
le faceiie ci gvete inse- gnato molle beile cose, e fattoci audaci nello
usarle, per esem- pio di lami singolari ingegni e grand’ uomini, e principi e
re e papi, credo medesimamente che nelle burle ci darete tanto ardimento, che
pigliaremo segurlà di metterne in opera qualch’nna ancor centra di voi. —
Allora messer Bebnabdo ridendo. Voi non sarete, disse, i primi; ma forse non vi
verrà fatto, perchè ornai tante n’ ho ricevute, che mi guar- do da ogni cosa;
come i cani, che, scottati dall’ acqua calda, hanno paura della fredda. Por,
poiché di questo ancor vo- lete eh’ io dica , penso potermene espedire con
poche parole. LXXXV. E parlili che la burla non sia altro, che un inganno
amichevole di cose che non offendano, o almen po- co; e si come nelle facezie
il dir centra l’aspettazione, cosi nelle burle il far conira l’aspettazione
induce riso. E queste tanto più piacciono e sono laudate, quanto piu banno
dello ingenioso e modesto; perchè chi vuol burlar senza ri- spetto spesso
offende, e poi ne nascono disordini e gravi ini- micizie. Ma i lochi donde
cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie. Perù, per non
replicarli, dico sola- mente, che di due sorti burle si trovano, ciascuna delle
quali in più parli poi divider si poria. L’ una è, quando s’ inganna
ingeniosamenle con bel modo e piacevolezza chi si sia; l’al- tra quando si
tende quasi una reto, e mostra un poco d’esca, talché l’uomo corre ad
ingannarsi da sè stesso. 11 primo modo è tale, quale fu la burla che a questi
di due gran signore, ch’io non voglio nominare, ebbero per mezzo d’uno Spa-
gnuolo chiamato Castiglio. — Allora la signora Duchessa, E perchè, disse, non
le volete voi nominare? — Rispose mes- ser Bebnardo: Non vorrei che lo avessero
a male. — Replicò la signora Duchessa ridendo: Non si disconvien talor usare lo
burle ancor coi gran signori; ed io già ho udito molle es- serne state fatte al
Duca Federico, al Re Alfonso d Arago- na, alla Reina donna Isabella di Spagna, ed
a molti altri gran principi; ed essi non solamente non lo aver avuto a male, ma
aver premialo largamente i burlatori. — Rispose Digitized by
Google Né f-JBno secondo. o. — vi pi*ace^'^
quesfa speranza 1© . AUor soggiunse la 1 not
iTjesser Beiin.4.i narò io. CWKSS*^- iviivji ^ -“-IO messer s' 5
?nora j; „o, c\.c TveUa *e e,,i Pochi di , ^oeco Tier se*r— w iz,,,
'"'ondo capKù un cor,i ..i:_ gaixii»»'''' 1 — — ui un Boniiiii
*^®P**" oonladin b( tanto ben divisa * « Ui cortegiano, i,
che, avvenga cimo usalo 50/3^^?** ^“'ialaincni sapesse far altro «estie^o
da eh ® ^ guardar buoi, , saria stato «-«uufo ’ ' avesse sentilo
rasi se^doTtVa qu^ cavaire^^r" . ' --Uo^e de, f-P'!a‘o
u ragi cosi e CaslìsVvo, \n%en\c*sissinj^ ^dmale
Borgia, che si chiauiav più accorto coricgia„o ^,1 r danzatore, ballalore,
, estremo desiderio di m tutta Spagna , vennero h c dopo Io
onorevoli ^iccoer^^'’ ® mandarono per esso; ciarono a parlargli ° ’^iìzc,
Io fecero sedere, e comin- d’ ognuno; e poc/n Sbandissimo riguardo in
presenza che non sapessero ban di quelli che si trovavano presenti,
Però vedendos/ c/r^^ costui era un vaccaro bergamasco. • e\lo c
tanto l’ ^ ^“*^**® signore J’inlertenevano con tanto r^*to più che ’l
buc:>^*®''®'ano, furono Io risa grandissime; . * .,07 sempre
parlava del suo nativo buHa aveano gentiluomini die faceano la bu 1
detto a queste signore, die costui, tra l’ altre ^ /oa^ hurlatore, e
parlava eccellentemente (ulte le '”»“^'^.^^^^‘^^/njauienle lombardo
contadino: di sorte che sempre e -^o che fingesse; o spesso si voltavano
r una con ^^^^rte maraviglie, e diceano: Udito gran coulvafa <^^ucsla
lingua! — In sonimti, tanto durò questo ta^v^’a^vcvcxvVo , che ad ognuno dolcano
gli fianchi per Io rìsa; e fu forza eVv^i esso medesimo desse tanti conlrase-
gni della sua nobililà, che pur in ultimo queste signore, ma con S)b0.n fatica,
credettero ch’el fo.sse quello che egli era. D\ questa sorte burle ogni
di reggiamo; ma tra V altre quelle son piacevoli, che al principio
spaventano, ^ oi riescono in cosa sccura; perchè il medesimo burlato si
^'d di sè stesso, vedendosi aver avuto paura di niente. Co- mc^essendo io una
notte alloggiato in Paglia, inlcrvenne che nella medesima oslexm ov’eio io,
erano ancor tre altri Digitized by Coogle Bi misero,
come spesso si fa, a giocare: cosi non v anuo molto che uno dei dui Pistoiesi,
perdendo il resto, resto senza un quattrino, di modo che cominciò a disperarsi,
e maleilire e l.iastemare fieramente; e cosi rinegando, se n’andò a dormire.
Gli altri dui avendo alquanto giocato, deliberarono fare una burla a questo che
era ito al letto. Onde, sentendo che esso già dormiva, spensero lutti i lumi, e
velarono i foco; poi si misero a parlar allo, e far i maggiori rumori del mondo,
mostrando venire a contenzion del gioco, dicendo uno: Tu hai tolto la carta di
sotto; -1’ altro negandolo, con dire : E tu hai invitato sopra flusso; il gioco
vadi a monte; e colai cose, con tanto strepilo, che colui che dormiva si ri-
svegliò ; e sentendo che costoro giocavano e parlavano cosi come se vedessero
le carte, un poco aperse gli occhi, e non vedendo lume alcuno in camera, disse:
E che diavol farete voi tutta notte di gridare? - Poi subito si rimise giù,
come r*r dormire. I dui compagni non gli diedero altrimenti risposta ma
seguitarono l’ordine suo; di modo che svegliato, cominciò a maravigliarsi; e
vedendo non era nè foco nè splendor alcuno, e che pur coslor g cavano e
contendevano, disse: E come potete voi veder 1 carte senza lume? - Rispose uno
delli dnlo la vista insieme con li denari: non vedi tu, se qui ab biam due
candele? — Levossi quello che era in letto su le bragia, o quasi adirato,
disse: O eh’ io sono ebriaco o cie- Z o yoi dite le bugie. - Li dui levaronsi,
ed andarono al letto tentoni, ridendo, e mostrando di credere che colui si
facesse beffe di loro; ed esso pur replicava: Io dico che non vi veggo. — In
ultimo li dui cominciarono a mostrar di ma- ravigliarsi forte, e l’uno disse
all’ altro: Oimè, parmi eh el dica da dovero: dà qua quella candela, e veggiamo
se forse gli si fosse intorbidata la vista. — Allor quel meschino tenne per
fermo d’ esser diventalo cieco, e piangendo dirottamente disse: O fratelli
miei, io son cieco; — e subito cominciò a chiamar la Nostra Donna di Loreto, e
pregarla che gli per- donasse le biaslemme e le maledizioni che gli aveva date
per aver perduto i denari. 1 dui compagni pur lo conforta- vano, e
dicevanc ^ ^ po8«sihii» u egli è una fantas^^^ Che r hai pos a ‘ìnVa“ *'*
■ ..libava 1 ’ altro, fi m capo. — OimA _ ^-'BRO
SECONDO. ^ ^ Roti ,. licava i; .uro . qaeaia „„„ é
ia"*^'. ~ a Vf^co : “ «vuU oThi Tn ^®egli e
diceanol*!^^ ' diss«r„. ..V misericordia a Dio. aUrimenVi
cVve se hai pur la vista r altro : Guarda ct> belli I e chi poria c tuttavia
piangea pa In ultimo costoro fe. — - uisse^^. a uio. Donna di
Loreto de »«lan,e„,^ sca|.T.a ““a'"'® c il miglior rimedio e *ie g; ed
ignudo .che questo é der di qualche medico, ^ ^ altre terre vicine, per
ve- oossibile. — Allora qoe, » mancciremo di cosa alcuna letta, a con
infìDÌi& ^acri^j subito s' inginocchiò nel aver'biastemata, fece ®
amarissima penitenza dello gira Signora di' ZeO/Te/^ ® solcane d’andare ignudo
a No- 10 e Boa maagiar offerirle un pajo d’ occhi d'argen- giunar
pane *1 mercore, né ova il venere, e di- g'annra se gli conce^;^* ®gm
sabbato ad onore di Nostra compagni, entrali in recuperar la vista. I
dui ^ „„„ ip altra camera, accesero un lume, e se ne venne ^
aualv», ®^8i®r risa del mondo davanti a que- sto povere o , » benché fosse
libero di cosi grande affanno, come -Pensare, pur era tanto attonito
della passata ^ ^ ^ solamcole non potea ridere, ma né pur parlare;
e n non faceano altro che stimo- larlo, dicendo, che era ^oijUggjo a pagar
tutti questi voti, per- chè avea ottenuta la gl^ azia domandata. ^ — ^tra
sorte di burle, quando l’uomo inganna sé stesso, darò io altro esempio, se non
quello che a me intervenne, non è gran tempo : perché a questo carnevai
passalo. Monsignor mio di San Pietro ad Vincala, 11 qual sa come lo mi
piglio piacer, quando son maschera, a‘ K lar Frali avendo prima ben ordinato
ciò che fare in- tèndeva vennè insieme un di con Monsignor d’Aragona ed ^1 i
altri cardinali a certe Gneslre in Banchi, mostrando voler star
quivi a veder passar le maschere, come é usanza d'
Boina lo essendo maschera, passai, e vedendo un Frale 156
IL CORTEGIANO. sospeso, giudicai aver
:osV da un canto g^^Uo^i corsi come un famelico trovala la ima veni
, jomandatoRli chi egli era, ert falcone “''^^^-"“^’J^^^rcloscerlo,
e con molte parole esso risposlom, mostra barigello 1’ andava cer-
''alcune male informazioni che <1* erano avu- e cLforlarlo che venisse
meco ins.no a a cancellarla, ché io quivi lo salvarei. 11 Frale, pauroso e
lutto tremante, parca che non sapesse che si fare, e dicea dubitar, se si
dilungava (l i San Celso, d’ esser preso, lo pur facendogli buon animo, gii
dissi tanto, che mi montò in groppa; ed allor a me parvo d’ aver appien compilo
il mio disegno : cosi subito cominciai a rimettere il cavallo per Banchi, il
quat andava saltellando, e traendo calci. Iinaginale or voi, che bella vista
facea un Frate in groppa d’ una maschera, col volare del mantello e scuotere il
capo inanzi c ’ndrieto, che sempre parca che an- dasse per cadere. Con questo bel
spettacolo cominciarono que’ signori a tirarci ova dalle finestre, poi tulli i
banchieri, e quante persone v’ erano; di modo che non con maggior- impeto cadde
dal ciclo mai la grandine, come da quelle fine- stre cadcano l’ova, le quali
per la maggior parie sopra di me venivano; ed io per esser maschera non mi
curava, e pareami che quelle risa fossero tulle per lo Frale e non per me; c
per questo più volle tornai .nunzi e’iidieiro per Ban- chi, sempre con quella
furia alle spalle: benché il Frale quasi piangendo mi pregava eh’ io lo
lasciassi scendere, e non facessi questa vergogna all’ alalo ; poi di nascoslo
il . i- baldo si facea dar ova ad alcuni slafiìeri posii quivi per que- sto
efletlo, e mostrando tenermi sirello per non cadere me le schiacciava nel
petto, spesso in sul capo, c lalor in su la fronte medesima ; lanlo ch’io era
tulio consumalo. In ultimo quando ognuno era slanco e di ridere c di tirar ova,
mi saltò d. groppa, e calatosi indietro lo scapolaro, mostrò una gran zazzara,
e disse: Alesser Bernardo, io son un famiglio di stalla di San Pietro ad \
incula, c son quello che Kovcrna il vostro muletto. - Allor io non so qual
maggiore avessi ó dolore o.rao vergogna; pur, per men male, mi posi a fu-irc-
verso casa, c la matlina scgucnle non osava comparerérma le risa di
questa, quasi insino ades rìnovaVo iV rider* modo di burlare cavano
facezie, c alia fare una cos ^tBRO SECO.\DO. 15
^ solamente il hi /> durate. — * seguente, m Cosi . ^
Pian.” f “ = * «cor Che credere che 1* nomo , uomo
vo tendo io in sul «te di «s dando insieme ccm wi dopo cena,
e an- crammo l’un 1’ ^ ^ -“in- volessimo-, e quest -*=• perche adir
il se lottare quel ponve non fes-se Persona, « dui Franzesi, i
quali vedenrf ®'ando cosi, sopragiunsero tJarono che cosa era, e ^ "
9«estp nostro' debatlo, diman- oi volerci spartire, con Ajulatem/,
dissi, sj^^ HfJestione da dovero. Allor io tosto, certi tempi di iarra h chè
questo povero gentiluomo a che adesso si vorria ^ mancamento di cervello ; ed
ecco quei dui corsero, e ■^^***' 8'*tar dal ponte nel fiume. — Allora liMimo-
ed esso, seir^ ^o presero Cesare, e tenevanlo stret- ner ch’io era pazzo,
meltea piu forza per sv joro dalle mani , e costoro tanto più Io s
* sorte, che la brigata cominciò a ve- dere ^ ognun corse; e quanto più il
buon fl":Z loZa, chè già cominciava en- trare in co ^ più gente
sopragiungea ; e per la forza grande c metteva, estimavano fermamente
che volesse saltar nel ^ qyggj^ jq stringevan più: di XùQdc che una
gran b — a-igala d’ uomini lo portarono di peso )W\j vivkvj — «-» —
•• • - r — r all’ ?>t^’i’®^/gliato e senza berretta, pallido
dalla ■m •■_ rvCt V» A ^ _ ^1 : m O ■ ^ 1, ... all <=*
• collera e dalla vergogvia , chè non gli valse mai cosa che dicesse, tra
perchè quei Franzesi non lo intendevano, tra ecchè io ancor condocsendogli all’
osteria sempre andava dolendomi deWa dvsaNN Cintura del poverello, che fosse
cosi impaz2Ul^ come avcmo detto, delle burle si poria ma basti il
replicare, che i lochi ondosi parlar delle facezie. Deg li esempii poi
^TrZo^ZnJlJ, ché «gni di ne veggiamo; e tra e« u
T 158 IL CORTEGIANO. altri , molti
piacevoli ne sono nelle Novelle dei Bocc» come quelle che facevano Bruno e
BufTalmacco al «n landnno ed a Maestro Simone, e molle altre di doni veramente
sono ingeniose e belle. Molti uomini ni/’ di questa sorte ricordomi ancor aver
conosciuti a H e ira Padoa uno scolar siciliano, chiamalo il qual vedendo
una volta un contadino che aveva di grossi capponi, fingendo volergli comperare
fece eon esso e disse che andasse a casa seco, chè, olire al 20, gli darebbe da
far colazione : e cosi Io condusse in dove era un campanile, il quale è diviso
dalla chiesi r"" ohe andar V. s. può d’ intorno; e proprio ad una
delle ^ ,ro facce del campanile rispondeva una slradella ^ Quivi Ponzio avendo
prima pensalo ciò che for intenT"'*' disse al conlad.no : Io ho giocalo
questi capponi con compagno 11 qual d.ce che questa torre circonda ben aT vanta
piedi, ed io dico di no; e appunto allora quand-Tr trovai aveva comperato
questo spago per misurarla- ni a prima che andiamo a casa, voglio chiarirmi chi
di noi ’ vinto:- e cosi dicendo, trassesi della manica quel spai/ e diello da
un capo in mano al contadine, e disse- Dà ou ^ ’ e tolse i capponi, e prese il
spago dall’altro capo- e^/’~ misurar volesse, cominciò a circondar la torre
aven’rin’„ fatto affermar il contadino e tener il spago dalla era opposta a
quella faccia che rispondeva nella sil^radeM»” alla quale come esso fu giunto,
cosi ficcò un chiodo nm’ muro, a CUI annodò il spago; e lasciatolo in lai
clielo cheto se n’ andò per quella siradetta coi ra » contadino per buon
spazio stette fermo asnetla ? colui finisse di misurare; in ullirno, poi rho
m" ° aedo. Che fate vai '«lo? _ ’»"« ebbe (|Uclio che tenea lo
spago non era Ponzio ma ' fitto nel muro, il qual solo gli restò per paBam//*!!
poni. Di questa sorte fece Ponzio infinite burle" M ir sono ancora stati
uomini piacevoli di tal mani Gonella, il Meliolo in quei tempi, ed ora il
nosTro f viano, e frate Serafino qui, e molti che tutti m in vero, questo modo
è lodevole in uomini che "“a 'acciailo Digitized by
Google LIBRO SECONDO. i59 altra professione; ma
le burle del Corlegiano par che si debbano allontanar un poco più dalla
scurrilità. Deesi ancora guardar che le burle non passino alla barraria; come
ve- demo molli mali uomini che vanno per lo mondo con di- verse astuzie per
guadagnar denari, fingendo or una cosa ed or un’ altra : e che non siano anco
troppo acerbe ; e sopra tutto aver rispetto e reverenza, cosi in questo come in
tutte r altre cose, alle donne, e massimamente dove in- tervenga oflesa della
onestà. — XC. Allora il signor Gasparo, Per certo, disse, messer
Bernardo, voi sete pur troppo parziale a queste donne. E perchè volete voi che
più ris|>eUo abbiano gli uomini alle donne, che le donne agli uomini? Non
dee a noi forse esser tanto caro 1’ onor nostro, quanto ad esse il loro? A voi
pare adunque che le donne debban pungere e con parole e con beffe gli uomini in
ogni cosa senza riservo alcuno, e gli uo- mini se ne stiano muti, e le
ringrazino da vantaggio? — Ri- spose allor messer Bernardo: Non dico io cho le
donne non debbano aver nelle facezie e nelle burle quei rispetti agli nomini
che avemo già delti: dico ben che esse possono con più licenza morder gli
uomini di poca onestà, che non pos- sono gli uomini mordere esse ; e questo
perchè noi stessi avemo fatta una legge, che in noi non sia vizio nè manca-
mento nè infamia alcuna la vita dissoluta, e nelle donne sia tanto estremo obbrobrio
e vergogna, che quella di chi una volta si parla male, o falsa o vera che sia
la calunnia che se le dà, sia per sempre vituperala. Però essendo il parlar
deir onestà delle donne tanto pericolosa cosa d’ offenderlo gravemente, dico
che doverne morderle in altro, e astenerci da questo ; perchè pungendo la
facezia o la burla troppo acerbamente, esce del termine che già avemo detto
conve- nirsi a gentiluomo. — XCI. Quivi, facendo un poco di pausa messer
Bernardo, disse il signor Ottavian Fhegoso ridendo: Il signor Gaspar potrebbe
rispondervi, che questa legge che voi allegate che noi stessi avemo fatta non è
forse cosi fuor di ragione come a voi pare; perchè essendo le donne animali
imiJerleltissi- mi, e di poca o ninna dignità a rispetto degli uomini, biso-
Digiti. — ■ by Google 160 IL CORTEGIANO.
gnava, poi che da sè non erano capaci di far alto alcuno virtuoso, che
con la vergogna e timor d’ infamia si ponesse loro un freno, che quasi per
forza in esse introducesse qual- che buona qualità ; e parve che più necessaria
loro fosse la continenza che alcuna altra, per aver certezza dei figlioli: onde
è stato forza con tutti gl’ ingegni ed arti e vie possi- bili far le donne
continenti, e quasi conceder loro che in tutte r altre cose siano di poco valore,
e che sempre fac- ciano il contrario di ciò che devriano. Però essendo lor li-
cito far tutti gli altri errori senza biasimo, se noi le vor- remo mordere di
quei difetti i quali, come avemo detto, tutti ad esse sono conceduti, e però a
loro non sono disconve- nienti nè esse se ne curano, non moveremo mai il riso;
perchè già voi avete detto che ’l riso si move con alcune cose che son
disconvenienti. — XCII. Allorla signora Dcciiessa, In questo modo, disse,
signor Ottaviano, parlate delle donne; e poi vi dolete che esse non v’amino? —
Di questo non mi doglio io, rispose il signor Ottaviano, anzi le ringrazio,
poiché con lo amar- mi non m’ obligano ad amar loro; nè parlo di mia opinio-
ne, ma dico che ’l signor Gasparo potrebbe allegar queste ragioni. — Disse
messer Bernardo: Gran guadagno in vero fariano le donne se potessero
riconciliarsi con dui suoi tanto gran nemici, quanto siete voi e ’l signor
Gasparo. — Io non son lor nemico, rispose il signor Gasparo, ma voi siete ben
nemico degli uomini ; chè se pur volete che le donne non siano mordute circa
questa onestà, dovreste mettere una legge ad esse ancor, che non mordessero gli
uomini in quello che a noi cosi è vergogna, come alle donne la incon- tinenza.
E perchè non fu cosi conveniente ad Alonso Carillo la risposta che diede alla
signora Boadilla della speranza che avea di camparla vita, perchè essa lo
pigliasse per ma- rito; come a lei la proposta, che ognun che lo conoscea pen-
sava che '1 Re lo avesse da far impiccare I E perchè non fu cosi licito a Riciardo
Minatoli gabbar la moglie di Fifip- pello e farla venir a quel bagno, come a
Beatrice far uscire del letto Egano suo marito, e fargli dare delle bastonale
da Anichino, poi che un gran pezzo con lui giaciuta si fu? E
Digilized by Google LIBRO SECONDO. ÌG1
queir altra che si legò lo spago al dito del piede, e fece cre- der al
marito proprio non esser dessa ? Poiché voi dite che quelle burle di donne nel
Jovan Boccaccio son cosi inge- niosc e belle. — xeni. Allora messer
Bkrnardo ridendo, Signori, disse, essendo stalo la parte mia solamente disputar
delle facezie, io non intendo passar quel termine; e già penso aver detto,
perchè a me non paja conveniente morder le donne né in delti nè in falli circa
l’onestà, e ancor ad esse aver posto regola, che non pungan gli uomini dove lor
duole. Dico ben che delle burle e motti che voi, signor Gasparo, alle- gate,
quello che disse Alonso alla signora Boadilla, avvenga che tocchi un poco la
onestà, non mi dispiace, perchè è ti- ralo assai da lontano, ed è tanto occulto
che si può inten- dere semplicemente, di modo che esso polea dissimularlo, ed
alTermare non l’aver dello a quel fine. Un altro ne disse al parer mio
disconveniente molto; e questo fu, che passando la Bcina davanti la casa pur
della signora Boadilla, vide Alonso la porla tutta dipinta con carboni, di
quegli animali disonesti che si dipingono per Posterie in tante forme; ed
accostatosi alla Contessa di Castagneto, disse: Eccovi, Signo- ra, le teste
delle fiere che ogni giorno ammazza la signora Boadilla alla caccia. — Vedete
che questo , avvenga che sia ìngeniosa metafora, e ben tolta dai cacciatori,
che hanno per gloria aver attaccale alle lor porle molte teste di Qere, pur è
scurrile c vergognoso : olirà che non fu risposta; cliò il rispondere ha molto
più del cortese, perchè par che ruomo sia provocalo; e forza è che sia all’
improviso. Ma, tornando a proposito delle burle delle donne, non dico io che
faccian bene ad ingannar i mariti, ma dico che alcuni di quegl* in- ganni che
recita Jovan Boccaccio delle donne son belli ed ingeniosi assai, e massimamente
quelli che voi proprio avete delti. Ma, secondo me, la burla di Riciardo
Minutoli passa il termine, ed ò più acerba assai che quella di Bea- trice, chè
mollo più tolse Riciardo Minatoli alla moglie di l’ilippello, che non tolse
Beatrice ad Egano suo nriarito; perchè Riciardo con quello inganno sforzò colei
, o feccia far di se stessa quello che ella non voleva; e Beatrice
Digitized by G?>ogl<’ 162 IL COHTEGIANO.
ingannò suo marito per far essa di sé slessa quello che le piaceva.
XCIV. AUor il signor Gaspabo, Per ninna altra causa, disse, si può escusar
Beatrice, eccetto che per amore ; il che si deve cosi ammettere negli uomini,
come nelle donne. —Allora messer Bebnardo, In vero, rispose, grande escusazione
d’ogni fallo porlan seco le passioni d’ amore ; nientedimeno io per me giudico
che un gentiluomo di valore il qual ami, debba, cosi in questo come in tutte 1’
altre cose, esser sincero e ve- ridico ; e se è vero che sia viltà e mancamento
tanto abomi- nevole r esser traditore ancora contra un nemico , conside- rate
quanto più si deve estimar grave tal errore contra per- sona che s’ami: ed io
credo che ogni gentil innamorato toleri tante fatiche, tante vigilie, si
sottoponga'a tanti pericoli, sparga tante lacrime, usi tanti modi e vie di
compiacere l'amala donna, non per acquistarne principalmente il corpo, ma per
vincer la ròcca di quell’ animo, spezzare quei duris- simi diamanti, scaldar
que’ freddi ghiacci, che spesso ne’ de- licati petti stanno di queste donne; e
questo credo sia il vero e sodo piacere, e ’l fine dove tende la intenzione d’
un nobii coro: e certo io per me amerei meglio, essendo innamoralo, conoscer
chiaramente che quella a cui io servissi mi reda- masse di core e m’ avesse
donalo l’ animo, senza averne mai altra salisfazìono, che goderla ed averne
ogni copia contra sua voglia; ché in tal caso a me pareria esser patrone d’un
corpo morto. Però quelli che conseguono i suoi desiderii per mezzo di queste
burle, che forse piuttosto tradimenti che burle chiamar si portano, fanno
ingiuria ad altri; né con lutto ciò han quella salisfazione che in amor
desiderar si deve possedendo il corpo senza la volontà. Il medesimo dico d’al-
cun’ altri, che in amore osano incantesmi, malie, e talor forza, talor
sonniferi, e simili cose; e sappiale, che li doni ancora molto diminuiscono i
piaceri d’amore , perché r uomo può star in dubio di non essere amato , ma che
quella donna faccia dimostrazion d’ amarlo per trarne uti- lità. Però vedete gli
amori di gran donne essere estimati perchò par che non possano proceder d'
altra causa che da proprio e vero amore, né si dee credere che una gran
si- Digitized by Googlt LIBRO secondo. *«*>
minore, «e un 163 non l’ ama gnora mai
dimostri amare veramente. — XCV. Allor il signor Gasp ar, Io non
ne^^o la intentione, le fatiche e i pericoli de^l' *^spose, che
debbano aver principalmente il fin suo •ndrizzatr'°i7*' ■ dell’animo più
che del corpo della donna ^ * '"'Ito- • • -u_ : ma dico
ria che questi inganni, che voi negli uomini
chiama(e"^r"*j° menti e nelle donne burle, son ottimi mezzi per già
*^^*^*" questo fine, perchè sempre chi possedè il corpo dell^T*^^ * è
ancora signor dell’animo; e, se ben vi ricorda la di Filippello, dopo tanto rammarico
per Io inganno da Riciardo, conoscendo quanto più saporiti fossero ' h • deir
amante che quei del marito, voltata la sua durez dolce amore verso Riciardo,
lencrissimamente da quel *** inanzi I’ amò. Eccovi che quello che non aveva
potuto^f”*^”^ sollicito frequcnlare, i doni, e tant’ altri segni cosi I mente
dimostrati, in poco d’ora fece lo star con lei Qr dete che pur questa burla, o
tradimento, come vogliate fu buona via per acquistar la ròcca di quell* animo.
^ ai messer Bkrnardo, Voi, disse, fate un presupposto mo; chè se le donne
dessero sempre 1’ animo a chi lor ,*.*®*'" il corpo, non se ne trovaria
alcuna che non amasse n rito più che altra persona del mondo; il che si vede ìq
trario. Ma Jovan Boccaccio era, come sete ancor v gran torto nemico delle
donne. — ^ XCVI. Rispose il signor Gaspar: Io non son già raico; ma ben
pochi uomini di valersi trovano, che gon mente tengan conto alcuno di donne, se
ben lalor per ' che suo disegno mostrano il conlrario. — Rispose messer
Bernardo: Voi non solamente fate ingiuria allea ne, ma ancor a lutti gli uomini
che 1’ hanno in reveren ”* nienledimeno io, come ho dello, non voglio per ora
usd' del mio primo proposito delle burle, ed entrar in iaiprej’^ cosi
difficile, come sarebbe il difender le donne conira voi* che sete grandissimo
guerriero: però darò fine a questo mio ragionamento, il qual forse è stalo
mollo piu lungo che non bisognava, ma certo men piacevole che voi non
aspettavate E poi eh io veggio le donne si arsi cosi chete, e sopportar lo
Digitized by 164 IL CORTEGIANO.
ingiurie da voi cosi pazicnlemenlc come fanno, estimaró da mo inanzi
esser vera una parte di quello che ha detto il si- gnor Ottaviano, cioè che
esse non si curano che di lor sia detto male in ogni altra cosa , pur che non
siano mordute di poca onestà. — Allora una gran parte di quelle donne, ben per
averle la signora Duchessa fatto cosi cenno, si levarono in piedi, e ridendo
tutte corsero verso il signor Gasparo, come per dargli delle busse, e farne
come le Baccanti d’Or- feo, tuttavia dicendo: Ora vedrete, se ci curiamo che dì
noi si dica male. — XCVII. Cosi, tra per le rìsa, tra per lo levarsi
ognun in piedi, parve che ’l sonno, il quale ornai occupava gli occhi c l’animo
d’ alcuni, si partisse; ma il signor Gaspabo co- minciò a dire: Eccovi, che per
non aver ragione voglion valersi della forza, ed a questo modo finire il
ragionamento, dan- doci, come si suol dire, una licenza bracciesca. — Allor,
Non vi verrà fatto, rispose la signora Euilia; che, poiché avete veduto messer
Bernardo stanco del lungo ragionare, avete cominciato a dir tanto mal delle
donne, con opinione di non aver chi vi contradica; ma noi metteremo in campo un
ca- valier più fresco, che combatterà con voi, acciò che l’error vostro non sia
cosi lungamente impunito. — Cosi, rivoltan- dosi al Magnifico Juliano, il qual
fin allora poco parlato avea, disse: Voi sete estimato protcllor dell’onor
delle donne; però adesso è tempo che dimostriate non aver acquistalo questo
nome falsamente: o so per lo adielro di tal professione avete mai avuto
remunerazione alcuna, ora pensar dovete, repri- mendo cosi acerbo nemico
nostro, d’obligarvi molto più tutte le donne, e tanto, che, avvenga che mai non
si faccia altro che pagarvi, pur l’obligo debba sempre restar vivo, nò mai si
possa finir di pagare. — XCVIII. Allora il Magnifico Joluno, Signora mia,
ri- spose, parmi che voi facciate molto onore al vostro nemico, e pochissimo al
vostro difensore; perchè certo insin a qui ninna cosa ha detta il signor
Gasparo contro le donne, che messer Bernardo non gli abbia ottimamente
risposto; e credo che ognun di noi conosca, che al Cortegiano si convien aver
grandissima reverenza alle donne, e che chi è discreto e cor-
Digitized by Google libro secondo. i6o lese non
deve mai scherzando „è da dovere: per6 il Palese veri.à è noasi un
metter dubio nell ,,«« i ben che ’l Zr^or Ottaviano sia un poco uscito de
termini . dicendo che le'donne sono animali itnpcrfeUissim, , e non capaci di far
atto alcuno virtuoso, e di poca luna dignità a rispetto de- siti uomini: e
perchè spesso si a fedo a coloro che hanno molta autorità, se ben non
dicono cosi compitamente il vero, od ancor quando parlano da befle, hassi
il signor Gaspar lasciato indur dalle parole del signor Ottaviano a dire che
Rii uomini savii d’esse non tengon conto alcuno; il che è fal- sissimo; anzi,
pochi uomini di valore ho io mai conosciuti, che non amino ed osservino le
donne: la virtù delle quali, è conseguentemente la dignità, estimo io che non
sia punto infcrior a quella degli uomini. Nientedimeno, se si avesse da venire
a questa contenzione, la causa delle donno averehbe brandissimo disfavore;
perchè questi signori hanno formato un Cortegiano tanto eccellente, e con tante
divine condizio- ni, che chi averà il pensiero a considerarlo tale, injaginerà
i meriti delle donne non poter aggiungere a quel termine Ma, se la cosa avesse
da esser pari, bisognarebbe prima che un tanto ingenioso e tanto eloquente
quanto sono il confo Ludovico e raesser Federico, formasse una Donna di Palazzo
con tutte le perfezioni appartenenti a donna, cosi come essi - hanno formato il
Cortegiano con le perfezioni appartenenti ad uomo; ed allor se quel che
difendesse la lor causa fosse d’ingegno c d’eloquenza mediocre, penso che, per
esser ajulalo dalla verità, dimoslreria chiaramente, che le donne son così
virtuose come gli uomini.— Rispose la signora £,, 1 - ma:
Anzi molto più; e che cosi sia femina, e ’l vizio maschio.
— XCIX. Rise allor il signor Gaspaho, c voltatosi a messcr Nicolò Frigio,
Che ne credete voi. Frigio? — disse. Rispose il Frigio: Io ho compassione al
signor Magnifìco, il quale, ingannalo dalle promesse e lusinghe della signora
Emilia, è incorso in errore di dir quello di che io in suo servizio mi
vergogno. — Rispose la signora Emilia, pur ridendo; Rcn vi vergognarete voi di
voi stesso quando vedrete il signor Ga- Digiii.’ìd by Google
166 IL CORTEGIANO. Sparo, convinto, confessar il
suo e ’l vostro errore, e doman- dar quel perdono, che noi non gli vorremo
concedere. — Allora la signora Duchessa: Per esser l’ ora mollo larda, vo-
glio, disse, che differiamo il lullo a domani; lanlo più per- chè mi i>ar
ben fallo pigliar il consiglio del signor Magnifico: cioè che, prima che si
venga a qoesla dispula, cosi si formi una Donna di Palazzo con lulle le
perfezioni, come hanno formalo quesli signori il perielio Corlegiano. —
Signora, disse allor la signora Emiua, Dio voglia che noi non ci abbal- liamo a
dar quesla impresa a qualche congiuralo col signor Gasparo, che ci formi una Corlegiana
che non sappia far al- tro che la cucina e filare. — Disse il Fhigio: Ben è
queslo il suo proprio officio. — Allor la signora Duchessa, lo voglio, disse,
confidarmi del signor Magnifico, il qual, per esser di (juello ingegno e
giudicio che son cerla, imaginerà quella perfezion maggiore che desiderar si
può in donna, ed cspri- meralla ancor ben con le parole, e cosi averemo che
opporre alle false calunnie del signor Gasparo. — C. Signora mia, rispose
il Magnifico, io non so come buon consiglio sia il voslro, impormi impresa di
lanla im- porlanza, ch’io in vero non mi vi senio suflicienle; nè sono io come
il Conte e messer Federico, i quali con la eloquenza sua hanno formato un
Corlegiano che mai non fu nè forse può essere. Pur se a voi piace eh’ io abbia
questo carico, sia almen con quei palli che hanno avuti quest altri signori;
cioè che ognun possa dove gli parerà conlradirmi , eh’ io questo estiinarò non
conlradizione, ma ajulo; c forse col cor- reggere gli errori miei, scoprirassi
quella perfezion della Donna di Palazzo, che si cerca. — Io spero, rispose la
si- gnora Duchessa, che ’l voslro ragionamento sarà tale, che poco vi si potrà
contradire. Sicché, mellele pur 1’ animo a questo sol pensiero, e formateci una
tal donna, che questi nostri avversarli si vergognino a dir eh’ ella non sia
pari di virtù al Corlegiano: del quale ben sarà che messer Federico non ragioni
più, chè pur troppo l’ha adornalo, avendogli massimamente da esser dato
paragone d’ una donna. — A me. Signora, disse allor messer Fedeeico, ormai poco
o niente avanza che dir sopra il Corlegiano; e quello che pen-
Digitized b, ^';^oglc libro secondo. • 167 :r e
vr- re:. presa riverenlemenle licenza dalla signora Duchessa, ciascun si
fu alla stanza sna. — ^gitized by Googl 1C8
IL TERZO LIBRO DEL CORTEGIANO, DEL COATE DiLDESiR CASTIGLIOXB
A MESSEII ALFOxNSO ARIOSTO. 1. Leggasi che Pilagora
soltilissimamenle e con bel modo trovò la misura del corpo d’ Ercole; e questo,
che sa- pendosi, quel spazio nel quale ogni cinque anni si celebra- van i
gio.chi Olimpici in Acaja presso Elide inanzi al tempio di Giove Olimpico esser
stato misurato da Ercole, e fatto un stadio di seicento e venticinque piedi,
de’ suoi proprii; e gli altri stadii, che per tutta Grecia dai posteri poi furono
instituiti, esser medesimamente di seicento e venticinque piedi, ma con tutto
ciò alquanto più corti di quello: Pilagora facilmente conobbe a quella
proporzion quanto il piè d’ Er- cole fosse stato maggior degli altri piedi
umani; c cosi, intesa la misura del piede, a quella comprese, tutto ’l corpo d’
Er- cole tanto esser stato di grandezza superiore agli altri uomini
proporzionalmente, quanto quel stadio agli altri stadii. Voi adunque, messer
Alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto ’l corpo
potete chiaramente co- noscer quanto la corte d’ Urbino fosse a tutte 1’ altre
della Italia superiore, considerando quanto i giochi, lì quali son ri- trovati
per recrear gli animi affaticati dalle faccende più ar- due, fossero a quelli che
s’usano nell’ altre corti della Italia superiori. E se queste eran tali,
imaginate quali eran poi r altre operazion virtuose, ov’eran gli animi intenti
e total- mente dediti; e di questo io conndenlemente ardisco di par- lare con
speranza d’esser creduto, non laudando cose tanto Digilized by Go('
jle icy approvar libro terzo. antiche che
mi sia licito e possendo appro, quant’io ragiono col enzia"!^*” ,
*'®"**"* degni di fede, che vivono ancora, e presenzialmente
hanno veduto e conosciuto la vita e i costumi clie m quella casa
fiorirono un tempo; ed io mi tengo obligato, per quanto posso, di sfor- zarmi
con ogni studio vendicar da la mortai oblivione questa chiara memoria, e
scrivendo tarla vivere negli animi dei posteri. Onde forse per T avvenire non
mancherà chi per questo ancor porli invidia al secol nostro; chè non è alcun
che legga le maravigliose cose degli antichi , che nell’ animo suo non formi
una certa maggior opinion di coloro di chi si scrive, che non pare che possano
esprimer quei libri, av- venga che divinamente siano scritti. Cosi noi
desideramo che tulli quelli, nelle cui mani verrà questa nostra fatica, se pur
mai sarà di tanto favor degna che da nobili cavalieri e valorose donne meriti
esser veduta, presumano e per fermo tengano, la Corte d’ Urbino esser stala
molto più eccellente ed ornata d’uomini singolari, che noi non potemo scrivendo
esprimere; e se in noi fosse tanta eloquenza, quanto i„ era valore, non aremmo
bisogno d’altro testimonio per che alle parole nostre fosse da quelli che non
riiaiino vedm dato piena fede. 11. Essendosi adunque ridoUa
il seguente giorno all’ora consueta la compagnia al solilo loco, e postasi con
silenz/ó a sedere, rivolse ognun gli occhi a messer Federico ed al Magiiitico
Jtiliano, aspellando qual di lor desse principio a ragionare. Onde la Signora
Duchessa, essendo stala alqua„jó chela, Signor Magnifico, disse, ognun desidera
veder questa vostra Donna ben ornala; e se non ce la mostrate di (al modo che
le sue bellezze lulle si veggano, cstimaremo che ne siate geloso. — Rispose il
Magnifico: Signora, se io Ja tenessi per bella, la moslrarci senza altri
ornamenti, c di quel modo che volse veder Paris le Ire Dee; ma se queste donne,
che pur lo sanno fare, non mi ajulano ad acconciar- la, io dubito che non
solamente il Signor Gasparo e ’l Frigio ma tulli quest’ altri signori aranno
giusta causa di dirne male. Però, mentre che ella sta pur in qualche opinioii
di bel- lezza, forse siirà meglio lenerla occulta, e veder quello che
170 IL CORTEGIANO. avanza a messer
Federico a dir del Corlegiano, che senza dubio è mollo più bello che non può
esser la mia Donna. — ()uello eh’ io mi aveva posto in animo, rispose messer
Fede- nico, non è tanto appartenente al Corlegiano, che non si. jiossa lasciar
senza danno alcuno; anzi è quasi diversa ma-l leria da quella che sin qui s’è
ragionala. — E che cosa è egli adunque? — disse la signora Duchessa. Rispose
messer Federico: Io m’era deliberato, per quanto poteva, di chia- rir le cause
di queste compagnie ed ordini di cavalieri falli . da gran principi sotto
diverse insegne: com' è quel di San Michele nella casa di Francia; quel del
Garlier, che è sotto il nome di San Giorgio, nella casa d’Inghilterra; il
Toison d’ oro in quella di Borgogna: ed in che modo si diano queste dignità, e
come se ne privino quelli che lo meritano; onde siano nate, chi ne siano stati
gli autori, ed a che fine I’ ab- biano insliluite: perchè pur nelle gran corti
son questi cava- lieri sempre onorali. Pensava ancor, se ’l tempo mi fosse bastato,
oltre alla diversità de’ costumi che s’usano nelle corti de’ principi cristiani
nel servirgli, nel festeggiare, e farsi vedere nei spettacoli publici, parlar
medesimamente qualche cosa di quella del Gran Turco, ma mollo più parti-
colarmente di quella del Sofi re di Persia: chè, avendo io inteso da mercatanti
che lungamente son stali in quel pae- se, gli uomini nobili di là esser mollo
valorosi e di gentil co- stumi, ed usar nel conversar I un con I altro, nel
servir donne, cd in tulle le sue azioni molta cortesia e molla dis- crezione,
e, quando occorre, nell’arme, nei giochi e nelle feste molla grandezza, molla
liberalità e leggiadria, sonomi dilettato di saper quali siano in queste cose i
modi di che essi più s’appressano, in che consisleno le lor pompe ed al-
tilalure d’abiti e d’arme; in che siano da noi diversi ed in che conformi; che
maniera d’ iniertenimenti usino le lor donne, e con quanta modestia favoriscano
chi le serve per amore. Ma invero non è ora conveniente entrar in questo ragionamento,
essendovi massimamente altro che dire, e mollo più al nostro proposito che
questo. — III. Anzi, disse il signor Gasparo, e questo e molte al- tre
cose son più al proposito, che ’l formar questa Donna di Digitized
by Google ' UBftO TIìKZO. VnW7.*o; atteso che le ««« date per
Io - lejrlano , servono ancor a a na, i>erchè cosi deve ella er
rispetto ai tempi e lochi , Per quanto com- Ina la sua imbecillità, luti»
quegli alln modi di che tanto ri ragionato, come il Cortegiano. E però in loco
di questo, nn sarebbe forse stalo male insegnar qualche particolarità U alleile
che appartengono al servizio della persona del Prin- irve che pur al Cortegian
si convien saperle, ed aver grazia farle; o veramente dir del modo che s’ abbia
a tener ne- lli eserlizii del corpo, e come cavalcare, maneggiar Tarme, lottare
ed in che consiste la dilTicolta di queste operazioni.— Disse ’allor la
signora Dbchessa ridendo: I Signori non si servono alla persona di cosi
eccellente Cortegiano, come è onesto- gli esercizii poi del corpo, e forze e
destrezze della ^rsona, lasciaremo che messer Pietro Monte nostro abbia
cura d’ insegnar, quando gli parerà tempo più commodo; oerchè ora il Magnifico
non bada parlar d’ altro che di que- sta Donna, della qual parrai che voi già
cominciate aver paura e però vorreste farci uscir di proposito. — Rispose u
FbigiÒ-. Certo è, che ira|>ertinenle e fuor di proposito è ora il parlar di
donne, restando massimamente ancora che dire del Cortegiano, perchè non si
devria mescolar una cosa con T altra. — Voi sete in grande errore, rispose
messer Cesar Gonzìoa; perchè come corte alcuna, per grande che ella sia, non
può aver ornamento o splendore in sé né allegria senza donne, nè Cortegiano
alcun essere aggraziato, p/ace. vole o ardito , nè fa mai opera leggiadra di
cavalleria, se non mosso dalla pratica e dall’ amore e piacer di donne: cosi
an- cora il ragionar del Cortegiano è sempre imperfettissimo , se le donne,
interponendovisi, non danno lor parte di quella urazia, con la quale fanno
perfetta ed adornano la Cortegia- nia. — Rise il signor Ottaviano, e disse:
Eccovi un poco di quell’esca che fa impazzir gli uomini. — IV. Allor il
signor Magnifico, voltatosi alla signora Duchessa, Signora, disse, poiché pur
cosi a voi piace, io dirò quello che m’occorre, ma con grandissimo dubio di non
satisfare; e certo mollo minor fatica mi saria formar una Si- gnora che
meritasse esser regina del mondo , che una per- Dir:
IL COKTEUIANO. 1 72 fetta Cortegiana: perchè di questa
non so io da che pigliarne lo esempio ; ma della regina non mi bisogneria andar
troppo lontano, c solamente basteriami imaginar le divine condi- zioni cl'una
Signora ch’io conosco, e, quelle contemplando, indrizzar tutti i pcnsier mici
ad esprimer chiaramente con le parole quello che molti veggon con gli occhi; e
quando al- tro non potessi, lei nominando solamente, avrei satisfatto aU’obligo
mio. — Disse allora la signora Duchessa: Non uscite dei termini, signor
Magnifico, ma attendete all’ordine dato, e formale la Donna di Palazzo, acciò
che questa cosi nobil Signora abbia chi possa degnamente servirla. — Seguitò il
lo adunque. Signora, acciò che si vegga che i comandamenti vostri possono
indurmi a provar di far quello ancora ch’io non so fare, dirò di questa Donna
eccellente come io la vorrei; e formata ch’io l’averòa modo mio, non potendo
poi averne altra , lerrolla come mia a guisa di Pigmalione. E perchè il signor
Gaspar ha dello , che le me- desime regole che son date per lo Corlegiano,
serveno ancor alla Donna: io son di diversa opinione; chè , benché alcune
qualità siano communi, e cosi necessarie all’uomo come alla donna, sono poi
alcun’altre che più si convengono alla donna che all’ uomo , ed alcune
convenienti all’ uomo , dalle quali essa deve in lutto esser aliena. Il medesimo
dico degli eser- cii ii corpo ; ma sopra lutto parmi che nei modi, manie- re ,
parole, gesti , portamenti suoi, debba la donna essere motto dissimile dall’
uomo; perchè come ad esso conviene mostrar una certa virilità soda e ferma ,
cosi alla donna sla ber* over una tenerezza molle e delicata, con maniera in
ogni suo movimento di dolcezza feminile, che nell’ andar e stare ed**" ciò
che si voglia sempre la faccia parer donna, senza sire» alcuna d’ uomo.
Aggiungendo adunque questa avV®*"*®”^® ohe regole che questi signori
hanno insegnato al Coft®8*®oo, penso ben che di molte di quelle ella debba po-
lenti servire, ed ornarsi d'ottime condizioni, come dice il sigr»®*"
^ospor; perchè molle virtù dell’ animo estimo io die siar**^ donna necessarie
cosi come all’ uomo; medesinia- mer»^® nobilità, il fuggire l’ alTellazionc,
l’csscr aggraziala da operazion sue, l’ esser di buoni costumi,
ubbo tekzo. 175 mgeniosa, prudente, invidiosa,
„o„ „a|o_ ,„?a, non vana, non . sapersi g™d . conservar la grazia
delia sua Signora anar e conservai ■« s-""— ^ e <li
(»•(: „i: aUri , far bene ed ^li esercizi,- che si con- vengono
alle donne. Parrai ben he ,n le, sia poi più neces- saria la bellezza che nel
Corlegiano perchè in vero moI(o manca a quella donna a cui manca la bellezza.
Deve ancor esser più circonspella, ed aver piu riguardo di non dar oc casion
che di sè si dica male, e far di modo che non sola- mente non sia macchiata di
colpa, ma nè anco di sospizio- ne , perchè la donna non ha tante vie da
difendersi dallo false calunnie, come ha 1' uomo. Ma perchè il conte Ludo- vico
ha esplicalo mollo minutamente la principal profession del Corlegiano , ed ha
voluto eh’ ella sia quella dell’ arme • panni ancora conveniente dir, secondo
il mio giudicio, qua[ sia quella della Donna di Palazzo: alla qual cosa quando
io averò satisfallo, pensarommi d’ esser uscito della maggior parte del mio
debito. V. Lasciando adunque quelle virtù dell’ animo che io hanno da
esser communi col Corlegiano, coìrne la prudenza la magnanimità, la continenza,
e molle altre; e medesima' mente quelle condizioni che si convengono a tutte le
donne' come r esser buona e discreta , il saper governar le facoltà del marito
e la casa sua e i figlioli quando è maritata tulle quelle parli che si richieggono
ad una buona madre famiglia: dico, che a quella che vive in corte parrai conve-
nirsi sopra ogni altra cosa una certa affabilità piacevole, p^r la qual sappia
gentilmente interlenere ogni sorte d’ uomo con ragionamenti grati ed onesti, ed
accoramodali al tempo e loco , ed alla qualità di quella persona con cui
parlerà , ac compagnando coi costumi placidi e modesti , e con quella onestà
che sempre ha da componer tulle le sue azioni , una pronta vivacità d’ingegno ,
donde si mostri aliena da ogni grosseria ; ma con lai maniera di bontà , che si
faccia esti- mar non men pudica, prudente ed umana, che piacevole, ar- guta e
discreta: e però le bisogna tener una certa mediocrità diflicilc, e quasi
composta di cose contrarie, e giugneracerli termini appunto, ma non passargli.
Non dove adunque que- t5- Digitized b, C- -Ogl IL
COKTEGIAISO. 174 sta Donna , per volersi far estimar buona ed
onesta , esser tanto ritrosa e mostrar tanto d’aborrire e le compagnie e i ragionamenti
ancor un poco lascivi, che ritrovandovisi se ne levi ; i>ercliè facilmente
si poria |>ensar ch’ella fìngesse d’es- scr tanto austera per nascondere di
sé quello ch’ella dubi- tasse eh’ altri potesse risapere ; e i costumi cosi
selvatichi son sempre odiosi. Non deve tampoco , per mostrar d’ esser libera c
piacevole , dir parole disoneste , nè usar una certa domestichezza intemperata
e senza freno, e modi da far cre- der di sè quello che forse non è ; ma
ritrovandosi a tai ra- gionamenti , deve ascoltargli con un poco di rossore e ver-
gogna. Medesimamente fuggir un errore , nel quale io ho veduto incorrer molte ;
che è, il dire ed ascoltare volentieri chi dice mal d’ altre donne : perchè
quelle che, udendo nar- rar modi disonesti d’altre donne , se ne turbano e
mostrano non credere , ed estimar quasi un mostro che una donna sia impudica,
danno argomento che, parendo lor quel di- fetto tanto enorme, esse non lo
commettano ; ma quelle che van sempre investigando gii amori dell’altre, e gli
narrano cosi minutamente e con tanta festa , par che lor n’ abbiano invidia, e
che desiderino che ognun lo sappia , acciò che il medesimo ad esse non sia
ascritto per errore; e cosi vengon in certi risi, con certi modi, che fanno
testimonio che allor scnton sommo piacere. £ di qui nasce che gli uomini, ben- ché
ascoltino volentieri, per lo più delle volle le tcDgono in mala opinione,
od hanno lor pochissimo riguar- do, ® que’modi siano invitali a
pas®^*" “vanti , e spesso poi scorrono a termini che dan loro meritamente
infamia, ed in ultimo le estimano cosi po- co, cl*e non curano il lor
commercio, anzi le hanno in fasti- dio • P®*" cuuirurio, non è uomo tanto
procace ed insolen- te, che non abbia riverenza a quello che sono
estimale buone ed oneste; perchè quella gravità temperata di sapere e bontà è
qi*nsi un scudo contra la insolenza e bestialità dei proson- tuo^i ; ‘>“‘1®
vede che una parola, un riso, un atto di lieni- volon**» P®>' minimo ch’egli
sia, d’ una donna onesta, è più appcczzalu *1“ ognuno, che tulle le
demostrazioni e carezze di cj nelle che cosi senza riservo mostran poca
vergogna; e Digitized by Google UUHO TKUZO.
non sono impudiche, con risi dissoluti, cilà, insolenza, e lai
costui»» scarriU , fanno 1 7ò ®on la loqua- segno d’es-
E perchè le parole sotto le quali non è subjello di qualche importanza
son vane e puerili , bisogna che la Donna di Palazzo, oltre al giudicio di
conoscere la qualità di colui con cui parla, per intertenerlo gentilmente,
abbia notizia di molte cose; e sappia, parlando, elegger quelle che sono a
proposito della condizion di colui con cui parla , e sia cauta in non dir talor
non volendo parole che lo olTendano. Si quardi, laudando sé stessa
indiscretamente, ovvero con l’es. ser troppo prolissa, non gli eenerar
fastidio. Non vada me- scolando nei ragionamenti piacevoli e da riilere cose di
i^ra- vilà , nè meno nei gravi facezie e burle. Non mostri inelia mente di
saper quello che non sa, ma con modestia cerchi d’onorarsi di quello che sa,
fuggendo, come si è dello paf. feltazione in ogni cosa. In questo modo sarà
ella ornala di buoni costumi, e gli esercizii del corpo convenienti a donna
farà con suprema grazia , e i ragionamenti suoi saranno co piosi, e pieni di
prudenza, onestà e piacevolezza; e cosi sari essa non solamente amala ma
reverita da tutto ’l mondo forse degna d’ esser agguagliata a questo gran
Corlegij,nJj ® cosi delle condizioni deiranimo come di quelle del corpo -J VII.
Avendo insin qui dello il Magnifico , si lacqu^ stette sopra di sé , quasi come
avesse posto line ai suo ra gionamenlo. Disse allora il signor Gasparo: Voi
avete vera mente , signor Magnifico , molto adornala questa Donna e fattola di
eccellente condizione : nientedimeno parmi che vi siale tenuto assai al
generale, e nominato in lei alcune cose tanto grandi , che credo vi siale vergognato
di chiarirle • e più presto le avete desiderale, a guisa di quelli che bramano
talor cose impossibili e sopranalurali , che insegnale. Però j vorrei che ci
dichiariste un poco meglio quai siano gli eser- cizii del corpo convenienti a
Donna di Palazzo , e di che modo ella debba interlencre, e quai sian queste
molte cose (li che voi dite che le si conviene aver notizia; e se la pru-
denza, la magnanimità, la continenza, e quelle molle altre virlù che avete
detto, infendele che abbian ad ajularla soia- iti- Jd by
Googli 176 IL CORTEGIANO. menlo circa il governo
della casa, dei figlioli e della fami- glia; il che però voi non volele che sia
la sua prima profes- sione: o veramente allo inlerlenere, e far aggraziatamente
questi esercizii del corpo; e per vostra fé guardate a non mettere queste
povere virtù a cosi vile officio, che abbiano da vergognarsene. — Rise il
Magnifico, e disse: Pur non * potete far, signor Gasparo, che non mostriate mal
animo ^ verso le donne; ma in vero a me pareva aver detto assai, e massimamente
presso a tali auditori; ché non penso già che sia alcun qui che non conosca,
che, circa gli esercizii del corpo, alla donna non si convien armeggiare,
cavalcare, giocare alla palla, lottare, e molte altre cose che si conven- gono
agli uomini. — Disse allora I’Unico Aretino : Appresso gli antichi s’ usava che
le donne lottavano nude con gli uo- mini; ma noi avemo perduta questa buona
usanza insieme con molt’ altre. — Soggiunse messer Cesare Gonzaga: Ed io a’
miei dì ho veduto donne giocare alla palla, maneggiar l’arme, cavalcare, andare
a caccia, e far quasi tutti gli esercizii che possa fare un cavaliere.
Vili. Rispose il Magnifico : Poi eh’ io posso formar que- sta Donna a modo mio,
non solamente non voglio ch’ella usi questi esercizii virili cosi robusti ed
asperi, ma voglio che quegli ancora che son convenienti a donna faccia con ri-
guardo, e con quella molle dclicatura che avemo detto con- venirsele ; e però
nel danzar non vorrei vederla usar movi- menti troppo gagliardi e sforzati, nè
meno nel cantar o so- nar quelle diminuzioni forti e replicate, che mostrano
più arte che dolcezza : medesimamente gl’ instrumenti di musica che ella usa,
secondo me, debbono esser conformi a que- sta intenzione. Imaginatevi come
disgraziata cosa saria veder una donna sonare tamburi, piffari o trombe, o
altri tali instrumenti ; e questo perchè la loro asprezza nasconde e leva
quella soave mansuetudine, che tanto adorna ogni alto che faccia la donna. Perù
quando ella viene a danzar o far musica di che sorte sì sia, deve indurvisi con
lasciarsene alquanto pregare, e con una certa timidità, che mostri quella
nobile vergogna che è contraria della impudenza. Deve an- ror accoimnodar gli
abiti a questa intenzione, e vestirsi di Digitized by Google
luì IVO ’TKHzo „ e le^sriera \r^ '77 aver più cura
^e//a a/fe donne WVo e deln o ^ ^^nne ni, e diverse soT^‘ questa
donn, fi.dtó« di conosce' 1“»l sono <I“es« »l,/„- »'er ftam, o Hù
acconimodati a quegl, csercieli eh' elu, ,„r«" di fare in qoe\ punto, e di
quelli servirsi: e conoscendo in sè una beUezza vaga ed allegra, deve ajuiar/a
coi movimen- ti, con le parole e con gli abiti, che tulli tendano allo alle-
gro ; cosi come un’ altra , che si senta aver maniera man- sueta e grave, deve
ancor accompagnarla coi modi di quella sorte, per accrescer quello
che è dono della natura. Cosi es- sendo un poco più grassa o più magra del
ragionevole, o bianca o bruna, ajularsi con gli abili, ma dissimulatamente più
che sia possibile; e tenendosi delicata e polita, mostrar sempre di non
mettervi studio o diligenza alcuna. IX. E perché il signor Gasparo
domanda' ancor, quai siano queste molte cose di che ella deve aver notizia, e
di che modo intertenere, e se le virtù deono servire a questo interlenimento;
dico che voglio che ella abbia cognizìon di ciò che questi signori han voluto
che sappia il Cortegiano; e di quelli csercizii che avemo detto che a lei non
si convengo- no, voglio che ella n’abbia almen quel giudìcio che possono aver
delle cose coloro che non le oprano: e questo per saper laudare ed apprezzar i
cavalieri più e meno, secondo i meri- (i. E per replicar in parie in poche
parole quello che già s’è dolio, voglio che questa Donna abbia notizia di
lettere, di musica, di pittura, e sappia danzar e festeggiare; accompa- gnando
con quella discreta modestia e col dar buona opinion <li sè ancora le altre
avvertenze che son siale insegnale al Corlegiano. E cosi sarà nel conversare,
nel ridere, nel gio- care, nel molleggiare, in somma in ogni cosa , gratissima;
ed inlertenerà accoramodalamente, e con molti e facezie convenienti a lei, ogni
persona che le occorrerà. E bene e la continenza, la magnanimità, la
temperanza, la fortezza d’animo, la prudenza e le altre virtù paja che non
impor lino allo intertenere, io voglio che eli tulle sia ornata, non tanto per
lo inlcrlencrc, benché perù ancor a questo i>os: servire, quanto per esser
virtuosa , ed acciò clie qncs c Digitized by Gii'ogl».
178 II' COUTEGIANO. la faccian tale che meriti esser onorata, e che
ogni sua ope- razion sia di quelle composta. X. Maravigliomi pur,
disse allora ridendo il signor Ga- SPAB, che poiché date alle donne e le
lettere e la continen- za e la magnanimità e la temi>eranza, che non
vogliate an- cor che esse governino le città, e faccian le leggi, e condu- cano
gli eserciti; e gli uomini si stiano in cucina o a (ìlare. — Rispose il
Magnifico, pur ridendo: Forse che questo an- cora non sarebbe male; poi
soggiunse: Non sapete voi che Platone, il quale in vero non era molto amico
delle don- ne, dà loro la custodia della città; e tutti gli altri ofiìcii mar-
ziali dà agli uomini? Non credete voi che molte se ne tro- vassero, che
saprebbon cosi ben governar le città e gli eserciti, come si faccian gli
uomini? Ma io non ho lor daU questi oflìcii, perchè formo una Donna di Palazzo,
non una Regina. Conosco ben che voi vorreste tacitamente rinovar quella falsa
calunnia, che jeri diede il signor Ottaviano alle donne; cioè, che siano
animali imiierfettissimi, e non capaci di far allo alcun virtuoso, e di
pochissimo valore e di niuna dignità, a rispetto degli uomini: ma in vero ed
esso e voi sa- reste io grandissimo errore se pensaste questo. XI. Disse
allora il signor Gaspab: lo non voglio rino- var le coso già delle, ma voi ben
vorreste indurmi a dir qualche parola che offendesse l’ animo di queste
signore, per farmele nemiche, cosi come voi col lusingarle falsamente volete
guadagnar la toro grazia. Ma esse sono tanto discrete sopra le altre, che amano
più la verità, ancora che non sia tanto in suo favore, che le laudi false; nè
hanno a male, che altri dica che gli uomini siano di maggior dignità, e confes-
saranno che voi avete dello gran miracoli, ed attribuito alla Donna di Palazzo
alcune impossibilità ridicole, e tante vir- tù, che Socrate e Catone e tulli i
lìlosoli del mondo vi sono per niente; chè, a dir pur il vero, maravigliomi che
non abbiate avuto vergogna a passar i termini di tanto. Chè ben bastar vi dovea
far questa Donna di Palazzo bella, discreta, bnesta, affabile, e che saiiesse
inlerlencre, senza incorrere in infamia, con danze, musiche, giochi, risi,
molli, c Pat- ire cose che ogni di vedemo che s’ usano in corte; ma il
vo- Digitized by Google ^Uilvo .^iondiluUe
Ics ^ ^ Vette dat eogn'^ volte si soq «“'•'^«'rJe ancm »«. »e“ j, „é
«,pp„«,„ appena ascoVWr » mo anima/i im- perfelli, e per conse?
ente d, minor dig„Uà che gii uomini, e non capaci di q«e"« ''«'tu che sono
essi, non voglio io al- trimenti affermare, perchè il valor di queste signore
basla- ria a farmi mentire: dico ben che uomini saoien (issimi hanno
enu Ciucia**'*--' . - -- Dasia- ria a farmi mentire: dico ben che
uomini sapientissimi hanno lasciato scritto che la natura, perciò che sempre
iiilende e discena far le cose più perfette, se potesse, produrria conti-
nuamente uomini; c quando nasce una donna, è difetto o er- ror della
natura, e conira quello che essa vorrebbe fare: co- me si vede ancor d’uno che
nasce cieco, zoppo, o con qualche altro mancamento, e negli arbori molti frulli
che non maturano mai: cosi la donna si può dire animai prodotto a sorte e per
caso; e che questo sia, vedete 1’ operazion del- l’uomo e della donna, e da
quelle pigliate argomento della perfezion dell’uno e dell’ altro. Nientedimeno,
essendo que- sti difetti delle donne colpa di natura che 1’ ha prodotte tali,
non devemo per questo odiarle, nè mancar di aver loro quel rispetto che vi si
conviene; ma estimarle da più di quello che elle si siano, parrai
error manifesto. — XII. Aspettava il Magnifico Juliano che ’l signor
Gaspa- ro seguitasse più oltre; ma vedendo che già Iacea, disse: Della
imperfezion delle donne parmi che abbiate addotto una freddissima ragione; alla
quale, benché non si convenga forse ora entrar in queste sottilità, rispondo,
secondo il parer di chi sa e secondo la verità, che la sostanza in qualsivoglia
cosa non può in sé ricevere il più o il meno: chè, come niun sasso può esser
più perfettamente sasso che un altro quanto alla es- senza del sasso, nè un
legno più perfettamente legno che l’altro, cosi un uomo non può essere più
jierfellamenle u^ ino che 1’ altro; c conseguentemente non sarà il maschio più
perfetto che la femina, quanlo alla sostanza sua formale, per- ché r uno e r
altro si comprende sotto la specie dell’ uomo, c quello in che l’uno dall’
allro son ditTercnli è cosa acciden- tale, e non essenziale. Se mi direte
atlunque che l’ uomo sia più perfetto che la donna.se non quanlo alla essenza,
almcn Digitized by Google 180 IL
COHTKGIANU. Quanto agli accidenti; rispondo, che questi accidenti bisogna
che consistano o nel corpo o nell’ animo: se nel corpo, per esser l’uomo più
robusto, più agile, pm leggiero, o più tole- rante di fatiche, dico che questo
è argomento di pochissima perfezione, perchè tra gli uomini medesimi quelli che
hanno queste qualità più che gli altri non son per quelle più esti- mati; e
nelle guerre, dove son la maggior parte delle opere laboriose e di forza, i più
gagliardi non son però i più pre- giali: se nell’ animo, dico che tutte le cose
che possono in- tendere gli uomini, le medesime possono intendere ancor le
donne; e dove penetra l’ inlelletlo del uno, può penetrare eziandio
quello dell’ altra. — XIII. Quivi avendo il Magnifico Juuano fatto un
poco di pausa, soggiunse ridendo: Non sapete voi, che in filosofia si tiene
questa proposizione; che quelli che son molli di car- ne, sono alti della
mente? perciò non e dubio, che le donne, per esser più molli di carne, sono
ancor piu atte della men- te, e d’ingegno più accommodato alle speculazioni che
gli uomini. — Poi seguitò: Ma, lasciando questo, perchè voi di- ceste ch’io
pigliassi argomento della perfezion dell’un e dell’ altro dalle opere, dico, se
voi considerale gli elfelli della natura, Irovarete ch’ella produce le donne
tali come sono, non a caso, ma accommodale al fine necessario: cliè benché le
faccia del corjio non «agliarde e d’animo placido, con molle altre qualità
contrarie a quelle degli uomini, pur le condizioni dell’ uno c dell’ altro
tendono ad un sol line con- cernente alla medesima utilità. Chè secondo che per
quella debole fievolezza le donne son meno animose, per la medesi- ma sono
ancor poi più caute: però le madri nutriscono i figlio- li, i padri gli
ammaestrano, e con la fortezza acquistano di fuori quello, che esse con la
sedulilà conservano in casa, che non è minor laude. Se considerate poi l’
istorie antiche (ben- ché gli uomini sempre siano stali parcissimi nello
scrivere le laudi dello donne) e le moderne, trovarete che continua- mente la
virtù è stala tra le donne cosi come tra gli uomini; e che ancor soiiosi
trovate di quelle che hanno mosso delle guerre, c conseguitone gloriose
vittorie; governalo i regni con somma prudenza e giustizia, e fallo lutto
quello che s’ali- Digitized by Google . t-lBIVO
terzo. accusalo e difeso manzi ai ^ ’C' eIoquentjssimamente?De/-
;^pere manuali sana lungo «arrare, nè cJi ciò bisogna far leslimonio. Se
adunque nella sostanza essenziale 1' uomo non è più perfello della donna , «é
meno negli accidenti; e di fluesto, olire la ragione, veggonsi gli effetti: non
so in che qacsla saa perte^ione. XIV. E perche voi diceste che intento
della natura é sempre di produr le cose più perfette, e però, s* ella potes- se
sempre produrria l’uonao, e che il predar la donna è piu prèsto errore o
difetto della natura che intenzione: rispondo, che questo lotalmenle si nega;
nè so come possiate dire che la natura non intenda produr le donne, senza le
quali la spe- cie umana conservar non si può, di che più che d’ogni altra cosa
è desiderosa essa natura. Perciò col mezzo di questa *^oropagnia di maschio e
di femina produco i Gglioli, i quali ^ ndono i bcneficii ricevuti in puerizia
ai padri già vecchi, bè gli nutriscono, poi gli rinovano col generar essi an-
fìgliolì, dai quali aspettano in vecchiezza ricever '*uelto, che essendo giovani
ai padri hanno prestato; onde ornatura, quasi tornando in circolo, adempie la
eternità, ed lai modo dona la immortalità ai mortali. Essendo adunque ucslo
tanto necessaria la donna quanto T uomo, non vedo ”cr qual causa 1’ una sia
falla a caso più che 1’ altro. È ben ■ero che la natura intende sempre produr
le cose più perfet- te e però intende produr 1’ uomo in specie sua, ma non più
màschio che femina; anzi, se sempre producesse maschio, faria una imperfezione;
perchè come del corpo e dell’anima visulta un composito più nobile che le sue
parti, che è I’ uo- mo: cosi della compagnia di maschio e di femina risulta un
composito conservativo della specie umana, senza il quale le parli si
deslruiriano. E però maschio e femina da natura son sempre insieme, nè può
esser l’un senza l’altro: cosi quello non si dee chiamar maschio che non ha la
femina, secondo la difiìnizionc dell’uno c dell’allro; nè femina quella che non
ha il maschio. E perché un sesso solo dimostra ira- ■ic
Googk- ^g2 IL CORTEGIANO. perfezione, attribuiscono gli
antichi teologi V uno e V altro a Dio: onde Orfeo disse che Jove era maschio e
femina; e leg- gesi nella Sacra Scrittura che Dio fornnò gli uomini maschio e
femina a sua similitudine; e spesso i poeti, parlando dei Dei, confondono il sesso.
— XV. Allora il Signor Gaspabo, Io non vorrei, disse, che noi entrassimo
in tali sollililà, perchè queste donne non c’in- tenderanno; e benché io vi
risponda con ottime ragioni, esse crederanno, o almen mostraranno di credere,
eh’ io abbia il torto, e subito daranno la sentenza a suo modo. Pur, poiché noi
vi siamo entrati, dirò questo solo, che, come sapete es- ser opinion d’uomini
sapientissimi, I’ s’assimiglia alla forma, la donna alla materia; e però, cosi
come la forma é più perfetta che la materia, anzi le dà I essere, cosi l’uomo è
più perfetto assai che la donna. E ricor orni aver già udito che un gran
filosofo in certi suoi problemi dice: Onde é che naturalmente la donna ama
sempre qo® uomo che è stato il primo a ricever da lei amorosi piaceri? e per
contrario r uomo ha in odio quella donna che è stata la prima a con- giungersi
in tal modo con lui? — e, soggiungendo la causa, atTcrma, questo essere perché
in tal atto la donna riceve dal- l’uomo perfezione, e l’uomo dalla donna
imperfezione; e però ognun ama naturalmente quella cosa che lo fa perfetto, ed
odia quella che lo fa imperfetto. Ed, oltre a ciò, grande argomento della
perfezion dell' uomo e della imperfezion della donna è, che universalmente ogni
donna desidera esser uo- mo, per un certo instinto di natura, che le insegna
deside- rar la sua perfezione. — XVI. Rispose subito il Magnifico
Jcliano: Le meschine non desiderano Tesser uomo per farsi più perfette, ma per
aver libertà, c fuggir quel dominio che gli uomini si hanno vendicato sopra
esse per sua propria autorità. E la similitu- dine che voi date della materia e
forma non si confà in ogni cosa; perché non così è fatta perfetta la donna
dall’uomo, come la materia dalla forma: perché la materia riceve I’ es- ser
dalla forma e senza essa star non può, anzi quanto più di materia hanno le
forme tanto più hanno d’ imperfezio- ne, e separate da essa son perfettissime;
ma la donna non LIBI TERZO. 185 .
daU’ uomo , »«UI cosi come essa é fan» riceve lo ancor fa V>^ rfetlo
lui; onde V una J r fella da Im» ^ generare 9 la qual cosa far n ^
f:m tarfv”" poi m àonna verso >l primo 00 n cui sia siala , e
dell* odio del- , nomo verso la pruna donna , non darò io già a quello che
LTvoslro Fdosofo ne* suoi problemi, ma alla fermezza e h'IHà della donna, ed
alla ioslabilità dell’ uomo: né senza **.' naturale; perchè essendoli maschio
calido, nalural- da quella qualità piglia la leggerezza, il molo e la in-
”**brtà- c, per conlrario, la donna dalla frigidità la quiete * tà
ferma, e più Asse impressioni. — ^*^*%Vll- Allora la signora Emilia rivolta al
si signor Magni- materie e forme, e maschi e femiiie, e
parlale di modo giate inteso; perchè noi avemo udilo e mollo ben inteso
Per amor di Dio, disse, uscite una volta di queste vo- fico, .
4“ iAf*YT 1 A _ O Tiri £1 C.é' Il I a (Vim mA a . 1 ! >» n . 1 ...
sire che »•«»' detto il signor Ottaviano e ’l signor Ga- . tna or
non intendemo già in che modo voi ci difeu- sparo, questo mi par un uscir di
proposito, e lasciar diate. D ^ d’ognuno quella mala impressione, che di
noi nell questi nostri nemici. — Non ci date questo no- banno ora^
rispose il signor Gaspar, chè più presto si ®®’ . g gl signor Magnifico, il
qual col dar laudi false alle mostra che per esse non ne sian di vere. — Soggìun-
JnriANo: Non dubitate. Signora, che al lutto ** '• onderà; ma io non voglio dir
villania agli uomini cosi si come hanno fatto essi alle donne; e so per
senza „ alcuno che scrivesse i nostri ragionamenti, «nri6 ^ ^ »
vorrei che poi »n loco dove fossero intese queste male- forme, si
vedessero senza risposta gli argomenti e le • ni che il signor Gasparo conira
di voi adduce. — Non signor Magnifico, disse allora il signor Gasparo, come
gggm negar potrete, che l’uomo per le qualità naturali '"n sia più perfetto
che la donna, la quale è frigida di sua ”omples8Ìone, e l’ uomo caUdo; e mollo
più nobile e più jier- fello è il caldo che’l freddo, per essere attivo e
produttivo; e come sapete, i cieli qua giù tra noi infondono il caldo so-
lamente, e non il freddo, il quale non entra nelle opere della
Digitized by Google IL CORTEGIANO.
torà; e però \o esser le donne frigide di complessione, credo - 0 sia
causa della viltà e Umidità loro. — \V111. Ancor volete, rispose il
Magnifico Juliano, pur ^i-ar nelle sollililà; ma vederete che ogni volta peggio
ve ^^verrà: e che così sia, udite. Io vi confesso che la cali- in sè è più
perfetta che la frigidità; ma questo non se- nelle cose miste e composite,
perchè, se cosi fosse, quel * pO che più caldo fosse, quel saria più perfetto;
il che è ^ ^ perchè i corpi temperali son perfettissimi. Dicovi an-
^ che la donna è di coraplession frigida in
comparazion * » uomo, il quale per troppo caldo è distante dal
Icmpera- * ^to; ma, quanto in sè, è temperata, o almen più
propinqua ^ ^ ^inperamcnto che non è l’uomo, perchè ha in sè quel- li
.^ido proporzionalo al calor naturale che nell’ uomo per Y ^opP* siccità più
presto si risolve e si consuma. Ha ancor Aa. tal frigidità che resiste e
conforta il calor naturale, e Io vicino al temperamento; e nell’ uomo il
superfluo caldo fa ^to riduce il calor naturale all’ultimo grado, il quale,
-andogli il nutrimento, pur si risolve; e però, perchè ^joniini nel generar si
diseccano più che le donne, spesso ?'*jgj.yiene che son meno vivaci che esse:
onde questa per- ione ancor si può attribuire alle donne, che, vivendo più
gamente che gli nomini, eseguiscono più quello che è in- della natura che gli
uomini. Del calore che infondono •*^*icli sopra noi non si parla ora, perchè è
equivoco a quello ' ^che ragioniamo; chè essendo conservativo di tutte le
cose ^ nInVin luna . rnei raltio <<nn,n r..n.l.l» che
SO" gotto ’l globo della luna, cosi calde come fredde,
non lauo*'*'" ’ anali rapresentano tosto ie specie allo
intelletto, perturbano facilmente per le cose estrinseche. Ve esser
contrario al freddo. Ma la timidità nelle donne, llvvenga che dimostri qualche
imperfezione, nasce però da iaudabil causa, che è la sottilità e prontezza dei
spiriti, i i^edercte ben molle volle alcuni, che non hanno paura nè
di morie nè d’ altro, nè con tulio ciò si possono chiamare ardili, perchè non
conoscono il pericolo, e vanno come insensati dove ve- dono la strada, e non
pensano più; e questo procede da una certa grossezza di spirili ottusi: però
non si può dire che un pazzo sia animoso; ma la vera magnanimità viene da
una Digitized by GuOgle 185 estimare più '
. benché si i^‘b;‘»^*=*o terzo, t:^»rminata volontà Hi
r«» «- -norie ma„ires,a, eoeer di“l conosca 1 «
sentimenti non restino impe- tanlo saWo, clmes si spavcnlino,
ma faccian rotficio loro circa il dis- e pensare, così come se fossero
qaietissimi. Di questa do; e e d’ animo diti nè
"^""le^avetno veduto ed inteso esser molli grand’ nomini; me^ “
unente tnoUe donne, le quali, e negli antichi secoli e “ resenti, hanno
mostrato grandezza d’animo, e fallo al mondo effetti degni d’ infinita laude,
non men che s’abbian fatto «ti aomini’ ~“ Aìlo*' il Frigio, Quegli
effetti, disse, cominciarono do la pT**®*^ donna errando fece altrui errar
conira Dio, eredità lasciò all’ umana generazion la morte, gli af- ® g I dolori
, e tutte le miserie e calamità che oggidì al ^*"”do si sentono. — Rispose
il Magnifico Juliano: Poiché sacrestia ancor vi giova d’ entrare, non sapete voi,
che Il error medesiroamente fu corretto da una Donna, che •1^® ° molto maggior
utilità che quella non n’ avea fatto CI app modo che la colpa che fu
pagata con tai meriti si danno, j^jj^jggjma? Ma io non voglio or dirvi
quanto di di- ® .®, le creature umane siano inferiori alla Vergine 8®' a
Signora, per non mescolar le cose divine in questi ragionamenti; nè raccontar
quante donne con in- costanza s’abbiano lasciato crudelmente ammazzare dai lo
nome di Cristo, nè quelle che con scienza dis- 4 i nnTU pc* * do
hanno confuso tanti idolatri: e se mi diceste, che era miracolo e grazia dello
Spirito Santo, dico che virtù merita più lande, che quella che è approvala per
" Emonio di Dio. Molte altre ancor , delle quali tanto non si ìona, da voi
stesso potete vedere, massimamente leggen- ggn ’jeronimo, che alcune de’ suoi
tempi celebra con tan- te maravigliose laudi , che ben penano bastar a
qualsivoglia santissimo uomo. XX. Pensale poi quante altre ci sono stale
delle quali non si fa menzione alcuna, perché le meschine stanno chiuso senza
quella pomposa superbia di cercare appresso il volgo nome di santità, come
fanno oggidì moli’ uomini ipocriti ma- ^ 0 Digitized by
Google IL CORTEGIANO. A * ti » i quaU , scordati
o più presto facendo poco caso della \0d^ 'fia di Cristo, che vuole che
quando 1 ’ uom digiuna si ^\oL^^ la faccia perchè non paja che digiuni, e
comanda che ,^joni, le elemosine e 1 ’ altre buone opere si facciano jg ^ ^
piazza, nè in sinagoghe, ma in secreto, tanto che la noi* ^^i»'*9ha non
sappia della destra , aflfermano, non esser ina*^ mondo che’l dar buon
esempio: e cosi, col torlo e gli occhi bassi, spargendo fama di non voler
a donne, nè mangiar altro che erbe crude, alTumali, toniche
squarciale, gabbano i semplici; che non si pari coti ,
^(1 poi da falsar testamenti, mettere inimicizie mortali ^fito e moglie,
e talor veneno, usar malie, incanti ed ribalderia; e poi allegano una certa
autorità di gUO ^pO che dice. Si non caste lamen caule; e par
loro con medicare ogni gran male, e con buona ragione per- qu«^ a
chi non è ben cauto, che lutti i peccati, per gravi facilmente perdona Iddio,
pur che stiano secreti, eh© ^ fiasca il mal esempio. Cosi, con un velo di
santità e con ® ® gecretezza, spesso tulli i lor pensieri volgono a conta-
?!ioare il casto animo di qualche donna; spesso a seminare fratelli; a
governare stali; estollere l’uno e deprimer *^.^'ilro‘ far decapitare,
incarcerare e proscrivere uomini; ^ * r ministri delle scelerilà e quasi
de|H>silarii delle rubane fanno molli principi. Altri senza vergogna si
dilettano arer morbidi e freschi, con la colica ben rasa, e ben ve- ^ • ed
alzano nel passeggiar la tonica per mostrar le calze ' e la disposiiion
della persona nel far le riverenze. Ajfri usano certi sguardi e movimenti
ancor nel celebrar la messa, per i quali presumeno essere aggraziali, e farsi
mi- ™ re^ l^lalvagi e scelerali uomini, alienissimi non solamente dalla
religione, ma d ogni buon costume; e quando la lor vita dissoluta è lor
rimproverata, si fan beffe e ridonai di chi lor ne parla, e quasi si ascrivono
i vizii a laude. — AUora la signora Emilia: Tanto piacer, disse, avete di dir
mal de’ frali, che fuor d’ ogni proposito siete entralo in questo ragiona-
mento. Ma voi fate grandissimo male a mormorar dei reli- giosi, e senza ulililù
alcuna vi caricale la coscienza: che se non fossero quelli che pregano Dio
|>er noi altri, aiemmo terzo. 187
,, flageH» *he non avemo r- ancor mono ^ disse = Com,. . ^ *^'8®
a«ora ina»»*”- — Ri i.,.ixKO, e disse = Come avele voi
c- eh’ io frali nona **“°*'®» ®o*i ben indovinato c . ^ chiama
" fallo il nomef noa in » ® mormorare “i parlo io ben apcrlo o
oh . aratale; aè dioo dai dei malvagi c rei, e dea qudJj ancor non parlo
la mille- di ciò ch’io 80. Or non parlale de’ frali, rispose mora
Emilia; ch’io per me estimo grave jieccalo l’ascoi- e però io, ver non
ascollarvi, levarummi di qui ^vi. Son contento, disse il Magnifico
Juliano, non par- ma sinaa parte la signora larvi, .
XX-1. Son , r . ’ ■ — " r""*" lar piò questo; ma,
tornando alle laudi delle doune, dico he’l signor Gasparo non mi Iroverà uomo
alcun singolare, ch’io non vi trovi la moglie, ^figliola, o sorella, di merito
eguale e talor superiore: olirà che molte son state causa di 'ntinili beni ai
loro uomini, e lalor hanno corretto di molti loro errori. Però essendo, come
avemo dimostrato, le donne ^aluralniente capaci di quelle medesime virtù che
son gii " mini , essendosene più volte veduto gli efietli, non so **”rchè,*
dando loro io quello che è possibile che abbiano e ^*^8so 'hanno avuto e
tuttavia hanno, debba esser estimato d^ miracoli, come m’ ha opposto il signor
Gasparo; atteso he sempre sono stale al mondo, ed ora ancor sono, donne cosi
vicine alla Donna di Palazzo che ho formata io, come uoniiai vicini all’
uomo che hanno formato questi signori Disse allora il signor Gasparo;
Quelle ragioni che hanno la esperienza in contrario, non mi pajon buone; e
certo s’io vi addimandassi quali siano o siano siale queste gran donne tanto
degne di laude, quanto gli uomini grandi ai quali son stale moglie, sorelle o
figliole, o che siano loro stale causa di bene alcuno, o quelle che abbiano
corretto i loro errori, penso che reslaresle impedito. — XXll- Veramente,
ris|)ose il Magnifico Juliano, niuna altra cosa poria farmi restar
im(>edito, eccetto la moltitudi- ne- e se’l tempo rui bastasse, vi conlarei
a questo propo- sito la istoria d’ Ottavia moglie di Marc’ Antonio e sorella
d> Augusto; quella di Porcia figliola di Catone e moglie di rviiolln fli
GrBÌri iimalÌA rii 'IaITOqItìÌO PrìSCOZ silo la istoria d’ Ottavia
moglie di Marc’ Antonio e sorella d> Augusto; quella di Porcia figliola di
Catone e moglie di Bruto; quella di Gaja Cecilia moglie di Tarquinio Prisco;
quella di Cornelia figliola di Scipione; e d’ inljnile allre che
188 IL CORTEGIANO. sono notissime: e non
solamente delle nostre, ma ancora delle barbare; come di quella Alessandra,
moglie pur d’Ales- sandro re de’ Giudei, la quale dopo la morte del marito, ve-
dendo i popoli accesi di furore, e già corsi all’arme per am- mazzare doi
figlioli che di lui le erano restati, per vendetta dellR crudele e dura servitù
nella quale il padre sempre gli avea tenuti, fu tale , che subito mitigò quel
giusto sdegno, c con prudenza in un punto fece benivoli ai figlioli quegli
g^iiTii che ’l padre con infinite ingiurie in moli’ anni avea falli loro
inimicissimi. — DitCcalmen, rispose la signora Emi- lia » come ella fece. —
Disse il Magnifico: Questa, vedendo i fìj?li°ii in tanto pericolo , incontenente
fece gitlare il corpo (j» Alessandro in mezzo della (piazza; poi, chiamali a
sèi cit- tadini» disse, che sapea gli animi loro esser accesi di giuslis- sit»o
sdegno contea suo marito, perchè le crudeli ingiurie che esso iniquamente gli
avea falle lo meritavano; e che come mentre era vivo avrebbe sempre voluto
poterlo far rimanere tal scelerata vita, cosi adesso era apparecchiala a farne
fede, c loro ajutar a castigamelo cosi morto, per quanto si poto®» ® P®*"®
®i pigliassero quel corpo, e lo faccssino mangiar ai cani, e lo straziassero
con que’ modi più crudeli che ima- gijjar sapeano: ma ben gli pregava che
avessero compassione a «jnegli innocenti fanciulli, i quali non potevano non
che ave*" ™a pur esser consa|)Cvoli delle male opere del j re. Di
tanta ctllcacia furono queste parole, che ’l fiero sj^gno già conceputo negli
animi di tutto quel popolo, subito joiligalo, e converso in cosi pialoso
alTcllo, che non sola- m^?***® ‘l‘®°acordia elessero quei figlioli per loro
signori, ma al corpo del morto diedero onoratissima sepoltura. — Q^ivi fece il
Magnifico un poco di pausa; poi soggiunse: sapete voi, che la moglie e le
sorelle di Mitridate rao- gjj.jirono molto minor paura della morte, che
Mitridate? e la Asdrubale, che Asdrubale? Non sapete che Armo- nia» fio'*®*®
Jeron siracusano, volse morire nell’incendio dell^ patria sua? — Allor il
FniGio, Dove vada ostinazione, cprlo ù, disse, che talor si trovano alcune
donne che mai noo mulariano proposito; come quella che non polendo più jir ni
marito forbeci, con le mani glie ne facca segno. — ^ptized by
G terzo. 189 Kise À' f e disse: La
ostina- a f'"® >r»«-*-uoso s, dee chiamar costanza; lione cWa
Epica v» , liberlina romana, che essendo come fu gran cori giura centra
di Nerone, fu di consapcvo e ^ slraxi£it£i con tutti i più asperi
tormenti (anta costanza possano, mai non palesò alcuno dei com- che
’®*^*?^gdesinio pericolo molti nobili cavalieri e sena- plici; c accusarono fratelli,
amici, e le più care ed (ori limiJa”' avessero al mondo. Che direte voi
di inliro® P®*" • chiamava Leona? in onor della quale eli
queir jnanzi alla porla della ròcca una leona j^teniesi 11*^5?“®»
pcr dimoslrar in lei la costante virtù dibronzo perchè essendo essa
medesiinamenle con- (IcU^ - «oorrinir»?» r»r\r»lrf» i (irnnnt non Ql
Qnnvi^nf/i c\ la morte della congiura conira i tiranni,
non sapcYole grandi uomini suoi amici, c per la lorinenli fosse
lacerala, mai non pa- infinili c congiurali. — Disse allor madonna
Marghe- Icsò aleno ^ Pnrmi che voi narriate Ironno brevemente
RITA si spaventò c benché con jlcuno narriate troppo
brevemente RITA GoN* ^ .yjfiuose falle da donne; chè se ben questi
nostri queste op^ ^^^ lede, mostrano non .«.Amici ■ !«««« qucsi»^
y^i(e e ielle, mostrano non saperle, e vor- ncini®^ I perdesse la
memoria: ma se fato che noi riJìtlO ^ 'lirvtnn a» nA farf^mO OflOrG. —
~ riano .gj^jiamo, almen ce ne faremo onore. — altre le >n
Juliano, Piacerai , risposo. Or •dirvi d’una, la qual fece quello che io
credo che ’l io voglio medesimo confessarà che fanno pochissimi ' signor
In Massilia fu già una consuetudine, uomini; ^ gi,e Grecia fosse
Iraporlala, la quale era, la ‘1““'°,* niente si servava veneno temperato
con cicuta, e elle pumic* jgiiario ^ ei,i approvava al senato doversi le-
inccuevas ;„„„mmo(lo che in essa sentisse, ov co ner
qualche incommodo che in essa sentisse, ov- la vita, i
'^""P"L‘avea o troppo prospera gustalo, in quella non voràsse o
questa non mutasse. Rilrovandos. adunque rfo ?òmp=».- - Qxivi il F..™, non
aspoll-ondo cho I Ma- ® Lo Joliano passasse piò avanli, Quoslo mi par, disse,
<cLrona qualche luuga fabula. - Allora i Magnirico C.r voluilosi ridondo a
madonna Mar*hcr,l.a, Eccovi, disse, chc’l Frigio non mi lascia parlare, lo
vocia or C\, ^oci C'JOglc 190 IL
CORTEGIANO. tarri d’una donna, la quale avendo dimostrate al senato
che ragionevolmente dovea morire, allegra e senza timor alcuno tolse in
presenza di Sesto Pompeo il veneno, con tanta co- stanza d’animo, e cosi
prudenti ed amorevoli ricordi ai suoi, che Pom|>eo e tulli gli altri, che
videro in una donna tanto sapere e sicurezza nel tremendo passo della morte ,
restarono non senza lacrime confusi di molta maraviglia. — XXV. Allora il
signor Gasparo, ridendo. Io ancora mi ricordo, disse, aver letto una
orazione, nella quale un infe- lice marito domanda licenza al senato di morire,
ed approva averne giusta cagione, per non poter tolerare il continuo fa- stidio
del cianciare di sua moglie, e più presto vuol bere quel veneno, che voi dite
che si servava publicamente per tali ef- fetti, che le parole della moglie. —
Rispose il Magnifico Jd- LiA>o: Quante meschine donne ariano giusta causa di
doman- dar licenza di morir, per non poter tolerare, non dirò le male parole,
ma i malissimi fatti dei mariti! ch’io alcune ne co- nosco, che in questo mondo
patiscono le pene che si dicono esser nell’inferno. — Non credete voi, rispose
il signor Ga- sparo, che molti mariti ancor siano che dalle mogli hanno tal
tormento, che ogni ora desiderano la morte? — E che dis- piacere, disse il
Magnifico, possono far le mogli ai mariti, che cosi senza rimedio come son
quelli che fanno i ma- riti alle mogli? le quali, se non per amore, almen per
timor sono ossequenti ai mariti. — Certo è, disse il signor Gaspar, che Q*^cl
poco che lalor fanno di bene procede da timore, perché poche ne sono al mondo
che nel secreto dell’animo suo F>cn abbiano in odio il marito. — Anzi in
contrario, ri- spo^ il Magnifico; e se ben vi ricorda quanto avete letto, jg
tutte le istorie si conosce che quasi sempre le mogli amano i niariti più che
essi le mogli. Quando vedeste voi o leggeste mai che un marito facesse verso la
moglie un tal segno d’amo- re 1 fece quella Camma verso suo marito? — lo non
so, rjgpose il signor Gaspar, chi si fosse costei, nè che segno la 0Ì
facesse. — Nè io, — disse il Frigio. Rispose il Magnifi- ca s Uditelo; e voi,
madonna Margherita, mettete cura di te- nerlo a memoria. XXVI. Questa
Camma fu una bellissima giovane, or- Digitized by C-iogle
terzo. 191 .. imta niodcslia e «:es«UI costumi, che non
men per ”* .! chTper la maraviiriiosa ; e sopra Ta^e S on '*
chiamava Su intervenne che «« «' « &enl,Juomo, il quale era di
Sito maggior stalo che S.watto, e quasi tiranno di quella . dovr abitavano,
s’i«arooro di questa giovane; e dopo . lungamenle Icnlalo per ogni via e modo
d’acquistar- * Ilo in vano, persuadendosi che Io amor che essa por- ® ì* marito
fosse la sola cagione che ostasse a’ suoi desi- ammaliar questo Sinatto. Cosi
poi sollicilando ^mcnte, non ne potè mai Irar altro frutto che quello continna
fallo; onde, crescendo ogni di più questo che pr* jg^ibcrò torta per
moglie, benché essa di stato gli amore^oU^ inf®*'*®’^®" t^osi richiesti li
parenti di lei da Sino- ^*?***^^ hè cosi si chiamava lo innamoralo),
cominciarono a derla a contentarsi di questo, mostrandole, il consen- persua
jjblc assai, e ’l negarlo pericoloso per lei e per tutti ^^Essa poi ebbe
alquanto contradetto, rispose in esser contenta. 1 parenti fecero
intendere la nuova uUnno» qual allegro sopra modo, procurò che subito si
* aero le nozze. Venato adnnqne l’ano e Taltro a que- Ilo solennemente
nel tempio di Diana, Camma fece ® certa bevanda dolce, la quale essa avea
compo- porlar (javanli al simulacro di Diana in presenza di Si- bevvè la
metà; poi di sua mano, perchè questo norige^^^^^ s’usava di fare, diede il
rimanente allo sposo; il 1 tulio lo bevvè. Camma come vide il disegno suo riu-
tutta lieta appiè della imagine di Diana s’inginocchiò, **^dis^’ fi fi®®* conosci
lo intrinseco del cor mio, sia- ® . testimonio, come difiicilmente dopo
che ’l mio caro ”” sorte mori, contenuta mi sia di non mi dar la morte, e
quanta fatica abbia sofferto il dolore di star in questo a vita, nella quale
non ho sentito alcuno altro bene o **^cere, fuor che la speranza di quella
vendetta che or .mi U-ovo aver conseguila: però allegra e contenta vado a
trovar la dolce compagnia di quella anima, che in vita ed in morte t>iù che
me stessa ho sempre amala. E tu, scelerato, che pen- sasti esser mio marito, in
iscambio del letto nuziale dà or- 192 IL
CORTEGIANO. dine che apparecchialo ti sia il sepolcro, ch’io di te
fo sa- crificio all’ombra di Sinallo. — Sbigottito Sinorige di queste parole, e
già sentendo la virtù del veneno che lo perturbava, cercò molli rimedii; ma non
valsero: ed ebbe Camma di tanto la fortuna favorevole, o altro che si fosse,
che inanzi che essa morisse, seppe che Sinorige era morto. La qual cosa
intendendo, contentissima si pose al letto con gli occhi al cielo, chiamando
sempre il nome di Sinalto, e dicendo: 0 dolcissimo consorte, or ch’io ho dato
per gli aitimi doni alla tua morte e lacrime e vendetta, nù veggio che più
altra cosa qui a far per te mi resti, fuggo il mondo, e questa senza le crudel
vita, la quale per te solo già mi fu cara. Vicmmi adunque incontra, signor mio,
ed accogli così volonlieri que- sta anima, come essa volentieri a te ne viene:
— e di questo modo parlando, e con le braccia aperte, quasi che in quel punto
abbracciar lo volesse , se ne mori. Ór dite. Frigio , che vi par di questa? —
Rispose il Fbigio: Farmi che voi vorre- ste far piangere queste donne. Ma
poniamo che questo ancor fosse vero, io vi dico che lai donne non si trovano
più al mondo. — XXVII. Disse il Magnifico: Si trovan si; e che sia ve- ro,
udite. A’dì miei fu in Pisa un gentiluomo, il cui nome era messer Tomaso; non
mi ricordo di qual famiglia, ancora che da mio padre , che fu suo grande amico
, sentissi più volle ricordarla. Questo messer Tomaso adunque, passando uo di
sopra un piccolo legnello da Pisa in Sicilia per sue bi- sogne, fu soprapreso
d’ alcune fuste de’ Mori, che gli furono adesso cosi all’improviso, che quelli
che governavano il le* gncllo non se n’accorsero; e benché gli uomini che
dentro ‘iifnndessino assai, pur, per esser essi pochi, e gl» inimici molli, il
legnetto con quanti v’eran sopra rimase noi P® ®i Mori, chi ferito e chi sano,
secondo la sorte, e cjon essi messer Tomaso, il qual s’ era portato
valorosamen- te, morto di sua mano un fratello d’un dei capitani di «luehe
fuste. Della qual cosa il Capitanio sdegnato, come poss®*® pensare, della
perdila del fratello, volse costui jier suo prigioniwo; e battendolo e
straziandolo ogni giorno. Io condusse in arberia, dove in gran miseria aveva
deliberalo Digitized by Google terzo. . . .«sua
capavo o * S^an pena. Gli altri lutti, chi lenerlo m vita ^„-aUra via,
«rtirono in capo d'un tempo liberi perunaecb casa, e riporli» reno alla moglie,
che Madonna avea i » é?Mi, la dura vita e ’l grand’af- Argentina a Tomaso
viveva ed era continuamente senza speranza , se Dio miracolosamente non
per vive qualcosa poi che essa e loro furono chiariti, l'ajulava. j^pri
modi di liberarlo, e dove esso medesimo lenialiac di morire, intervenne che una
solerle tanto Vingegno e l’ardir d’un suo fìgliolo, che Paolo, che non
ebbe risguardo a niuna sorte dì pietà svegliò si
chiama^ deiibcrò o morir o liberar il padre: la qual cosa pericolo, di modo che
lo condusse cosi cautamente, gli >cnnc Ligorno, die si risapesse in
Baiberia eh’ e’ che partito. Quindi raesser Tomaso sicuro, scrisse
alla fosse di intendere la libcrazion sua, e dove era, e nioghe»
gegucnte sperava di vederla. La buona e gentil * .^r,(Tiunta da tanta e non
pensata allegrezza di do- resto, e per pietà e per virtù del
figliolo, vedere il ver quale amava tanto, e già credea fermamente non
marito» vederlo : letta la lettera, alzò gli occhi al cie- dover il nome
del marito, cadde morta in terra; nè lo, c, c « che se le facessero, la
fuggita anima più ri- mai con ^ Crudel spettacolo , e bastante a temperar
le tornò ne - rilrarle dal desiderar troppo efllcacemente volontà
umane , e cnverchic allcgro^^® i ” XXVllL Disse allora ridendo il
Frigio: Che sapete voi, non morisse di dispiacere, intendendo che ’l marilo
ch’c a n^ — Rispose il Magnifico: Perchè il resto della tornava _ accordava con
questo; anzi penso che quel- viia sua n^^^ polendo tolerarc lo
indugio di vederlo con gli corpo, quello abbandonasse, e traila dal desiderio
subito dove , leggendo quella lettera , era volalo il — Disse il signor
Gasparo: Può esser che questa pensi iroppo amorevole, perchè le donne in ogni
cosa pmnre s’allaccano allo estremo, che è male; e vedete, che «or
essere troppo amorevole fece male a s6 stessa, ed al ma- pcr esse ^ I _
amaiiludinc il piacere di 17 rlto, ed ai figliob, ai quali
converse in 194 IL CORTEGIANO. quella
pericolosa e desiderala liberazione. Però non dovete già allegar questa per una
di quelle donne, che sono stale causa di tanti beni. — Rispose il Magnifico: Io
la allego per una di quelle che fanno testimonio, che si trovino mogli che
amino i mariti; chè di quelle che siano state causa di molli beni al mondo
potrei dirvi un numero infinito, e narrarvi delle tanto antiche che quasi pajon
fabule, e di quelle che appresso agli uomini sono state inventrici di lai cose,
che hanno meritato esser estimate Dee, come Pallade, Cerere; o delle Sibille,
per bocca delle quali Dio tante volte ha par- lato e rivelato al mondo le cose
che aveano a venire; e di quelle che hanno insegnalo a grandissimi uomini ,
come Aspa- sia e Diotima, la quale ancora con sacriiìcii prolungò dieci anni il
tempo d’una peste che aveva da venire in Atene. Po- trei dirvi di Nicoslrala,
madre d’ Evandro, la quale mostrò le lettere ai Latini; o d'un'alira donna
ancor, che fu maestra di Pindaro lirico; e di Corinna e di Saffo, che furono
eccel- lentissimo in poesia: ma io non voglio cercar le cose tanto lontane.
Dicovi ben, lasciando il resto, che della grandezza di Roma furono forse non
minor causa le donne che gli uo- mini. — Questo, disse il signor Gasparo,
sarebbe bello da intendere. — XXIX. Rispose il Magnifico: Or uditelo.
Dopo la espu- gnazion di Troja molti Trojani, che a tanta ruina avanzaro- no,
fuggirono chi ad una via chi ad un’altra; dei quali una parte, che da molte
procelle furono battuti, vennero in Ita- lia, nella contrata ove il Tevere
entra in mare. Cosi discesi in terra per cercar de’ bisogni loro, cominciarono
a scorrere il paese: le donne, che orano restate nelle navi, pensarono tra sè
un utile consiglio, il qual ponesse fine al pericoloso e lungo error maritimo ,
ed in loco della perduta patria una nuova loro ne recuperasse; e, consultale
insieme, essendo absenti gli uomini, abriisciarono le navi; e la prima che tal
opera cominciò, si chiamava Roma. Pur temendo la iracon- dia dogli uomini i
quali ritornavano, andarono conira essi; ed alcune i mariti, alcune 1 suoi
congiunti di sangue abbrac- ciando e basciaiido con segno di bcnivolenza ,
mitigarono quel primo impeto; poi manifestarono loro quietamente la
Digitized by Googli LIBRO TERZO. 193 causa
del lor prudente pensiero. Onde i Trojani, si per la necessità, si per esser
benignamente accettati dai paesani, furono contentissimi tìi ciò che le donne
avean fatto, e quivi abitarono coi Latini, nel loco dove poi fu Roma ; e da
questo processe il costume antico appresso i Romani , che le donne incontrando
basciavano i parenti. Or vedete quanto queste donne giovassero a dar principio
a Roma. XXX. Nè meno gfiovarono aUo augumcnto di queIJa le donne sabine,
che si facessero le trojane al principio: chè avendosi Romolo concitato
generale inimicizia di tutti i suoi vicini per la rapina che fece delle lor
donne, fu travaglialo di guerre da ogni banda; delle quali, per esser uomo
val<^ roso, tosto s’espedl con vittoria, eccetto di quella de’Sabini, che fu
grandissima , perchè Tito Tazio re de’ Sabini era va- lentissimo e savio r onde
essendo stato fatto uno acerbo fatto d’arme tra Romani c Sabini, con gravissimo
danno dell’ una e dell’altra parte, e<l apparecchiandosi nuova e crudcl bat-
taglia, le donne sabine, vestite di nero, co capelli sparsi e lacerati,
piangendo , meste, senza timore dell’ arme che già erano per ferir mosse ,
vennero nel mezzo tra i padri e i ma riti, pregandogli die non volessero
macclùarsi le mani del sangue de’ soceri e dei generi; e se pur erano mal
conlenli di tal paventato, voltassero l’arme conira esse, chè molto
meglio loro era il morire che vivere vedove, o senza padri e fratelli, e
ricordarsi ebe i suoi GgUoli fossero nati di chi loro avesse morti i lor
p»adri, o che esse fossero nate di chi lor avesse morti i lor mariti. Con
questi gemili piangendo, mo le di loro nelle braccia noriavano i suoi piccoli
figliobni, dei quali già alcuni cominciavano a snodar la lingua, e parca che
chiamar volessero e far festa agli avoli loro; ai qua i c donne .Boslrand» i
^ ... .. p.eu , . c-;- — mollo accrebbe quest
IL. CORTEGIANO. 196 delle saggle e magnanime donne ; ie
quali in (an(o da Ro- molo furono remunerate, che, dividendo il popolo in
trenta curie, a quelle pose i nomi delle donne Sabine. — XXXI. Quivi
essendosi un poco il Magnifico Jdliano fermato, e vedendo che ’l signor Gasparo
non parlava. Non vi par, disse, che queste donne fossero causa di bene agli loro
uomini, e giovassero alla grandezza di Roma? — Rispose il signor Gasparo: In
vero queste furono degne di molta laude; ma se voi cosi voleste dir gli errori
delle donne come le buone opere, non areste taciuto che in questa guerra di
Tito Tazio una donna tradì Roma, ed insegnò la strada ai nemici d’oc- cupar il
Capìtolio, onde poco mancò che i Romani tutti non fossero distrutti. — Rispose
il Magnifico Juliano: Voi mi fate menzion d’ona sola donna mala, ed io a voi
d’infinite buo- ne; ed, oltre le già dette, io potrei addurvi al mio proposito
mille altri esempli delle utilità fatte a Roma dalle donne, e dirvi perchè già
fosse edificato un tempio a Venere Armala, ed un altro a Venere Calva, e come
ordinata la festa delle Anelile a Junone, perché le anelile già liberarono Roma
dalle insidie de’ nemici. Ma, lasciando tutte queste cose, quel ma- gnanimo
fatto d’aver scoperto la congiurazion di Calilina, di che tanto si lauda
Cicerone, non ebbe egli principalmente origine da una vii femina? la quale per
questo si porla dir che fosse stata causa di lutto ’l bene che si vanta Cice-
rone aver fatto alla republica romana. E so ’l tempo mi ba- stasse, vi
mostrarci forse ancor le donne spesso aver cor- retto di molti errori degli
uomini; ma temo che questo mio ragionamento ormai sia troppo lungo e fastidioso
: perchè avendo, secondo il poter mio, satisfatto al carico datomi da queste
signore, penso di dar loco a chi dica cose piu degne d’esser udite, che non
posso dir io. — XXXII. Allor la signora Emilia, Non defraudale, disse, le
donne di quelle vere laudi che loro sono debite; e ricorda- tevi che se ’l
signor Gasparo, ed ancor forse il signor Otta- viano, vi odono con fastidio,
noi, c tulli quest’ altri signori, vi adiamo con piacere. — Il Magnifico pur
volca por fine, ma (ulte le donne cominciarono a pregarlo che dicesse: onde
egli ridendo. Per non mi provocar, disse, per nemico il si-
Digitized by Go(^Ie LIBRO TERZO. 197
gnor Gaspar più di quello che egli si sia, dirò brevemenlo d* alcune che
mi occorrono alla memoria, lasciandone molte eh’ io potrei dire; poi
soggiunse: Essendo Filippo di De- metrio intorno alls città di Chio, ed
avendola assediata, mandò un bando , che a tatti i servi che della città
foggiva- oo, ed a sé venissero, prometteva la libertà, e le mogli dei ior
patroni. Fu tanto lo sdegno delle donne per cosi ignomi- nioso bando, che con
l’ arme vennero alle mura, e tanto fe- rocemente combatterono, che in poco
tempo scacciarono Fi- lippo con vergogna e danno; il che non aveano potato far
gli aomini. Queste medesime donne essendo coi lor mariti, padri e fratelli, che
andavano in esilio, pervenute in Leuco- nm, fecero an atto non men glorioso di
questo: chè gli Eri- *roi, che ivi erano co’ suoi confederati, mossero guerra a
questi Chij; li quali non potendo contrastare, tolsero patto coi ginppon solo *
o la camiscia uscir della città. Intendendo c donne cosi vituperoso accordo, si
dolsero, rimproverali* egli che lasciando l’ arme uscissero come ignudi tra
nemici; e rispondendo essi , già aver stabilito il patto, dissero che
Imitassero Io scudo e la lanza e lasciassero i panni, e rispon- dessero ai
nemici , questo essere il loro abito. E cosi facendo essi per consiglio delle
lor donne ricopersero in gran parte la vergogna, che in tutto fuggir non
poteano. Avendo an- cor Ciro in un Tatto d’arme rotto un esercito di Persiani,
essi in fuga correndo verso la città incontrarono te lor donne fuor della
noria^ :»/.nnira. dissero: Dove fuor della porla, le quali fattesi
loro incontra, dissero: Dove uggite voi, vili uomini? vnlnto voi forso
nascondervi in Digitized by Googli IL
CORTEGIANO. 198 laudi di donne; ed intendere dì molte
Spartane, che hanno avuta cara la morte gloriosa dei figlioli ; e dì quelle che
gli hanno rifiutati, o morti esse medesime, quando gli hanno veduti usar viltà.
Poi, come le donne Saguntine nella ruina della patria loro prendessero l’ arme
contra le genti d’An- nibale; e come essendo lo esercito de’ Tedeschi superato
da Mario, le lor donne, non potendo ottener grazia di vìver li- bere in Roma al
servizio delle Vergini Vestali, tutte s’am- mazzassero insieme coi lor piccoli
fìgliolini; e di mille altre, delle quali tutte le istorie antiche son piene. —
Allora il si- gnor Gasfzbo, Deh, signor Magnifico, disse, Dio sa come passarono
quelle cose; perchè que’ secoli son tanto da noi lontani, che molle bugie si
posson dire, e non v’ è chi le ri- provi. — XXXiV. Disse il Hasinrico: Se
in ogni tempo vorrete misurare il valor delle donne con quel de^ uomini, trova-
rete che elle non son mai state nè ancor sono adesso di virtù punto iofmiorì
agli uomini: chè, lasciando quei tanto anti- chi, se venite al tempo che i Goti
regnarono in Italia, tro- verete tra loro essere stata una regina Amalasunta,
che go- vernò lungamente con maravigliosa prudenza; poi Teodo- linda, regina
de’ Longobardi, di singoiar virtù; Teodora, greca imperatrice; ed in Italia fra
molte altre fu singolaris- sima signora la contessa Matilda, delle laudi della
quale la- Bciarò parlare al conte Ludovico , perché fu della case sua. — Anzi,
disse il Conte, a voi tocca, perché sapete ben che non conviene che l’ uomo
laudi lo cose sue proprie. — Sog- giunse il Maunuico: e quante donne famose ne’
tempi pas- sati trovate voi di questa nobilissima casa di Montefeltrol quante
della casa Gonzaga, da Esle, de’ Pili Se de’ tempi presenti poi parlare
vorremo, non ci bisogna cercar esempli troppo di lontano, che gli avemo in
casa. Ma io non voglio ajalarmi di quelle che in presenza vedemo, acciò che voi
non mostriate consentirmi per cortesia quello che in alcun modo negar non mi
potete. E, per uscir dì Italia, ricordatevi che a’ di nostri avemo Veduto Anna
regina di Francia, grandis- sima Bìgoora non meno di virtù che di stalo; che se
di giu- stizia e clemenza, liberalità e santità di vita, comparare la
LIBRO TERZO. 199 vorrete alli re Carlo e Ludovico,
deU’unoe dell’aUro de’qualì fu moglie, non la Irovarete punto inferiore d’
essi. Vedete madonna Margherita, figliola di Massimiliano imperatore, la quale
con somma prudenza e giustizia inaino a qui ha go- vernato e tuttora governa il
stato suo. XXXV. Ma, lasciando a parte tutte T altre, ditemi. Si- gnor
Gaspar, qual re o qual principe è stato a’ nostri di cd ancor moli' anni prima
in cristianità, che meriti esser com- l|arato alla regina Isabella di Spagna? —
Rispose il signor fi*8PARo: Il re Ferrando suo marito. — Soggiunse il Magm-
Fico: Questo non negherò io; chè, poiché la Regina lo giudicò *lcgno d’esser
suo marito, e tanto lo amò ed osservò, non si può diro ch’el non meritasse d’
esserle comparato; ben credo ‘‘he la ripulazion eh* egli ebbe da lei fosse dote
non minor che’J regno di Castiglia. — Anzi, rispose il signor Gaspar, l‘enso io
che di molte opere del re Ferrando fosse taudata la •■egina Isabella
A.llor il Magnifico, Se i popoli di Spagna, disse, i signori, i privali,
gli uomini e le donne, poveri e Ticchi, non si sor» t-utti accordati a voler
naentire in laude di lei, non è stato a' lempi nostri al mondo più chiaro
esempio di vera bontà, di grandezza d’animo, di prudenza, di reli- gione,
d’onestà, di cortesia, di Ubcralilà, in somma d’ ogni virtù, che la regina
Isabella; e benché la fama di quella si- gnora in ogni loco e presso ad ogni
nazione sia grandissima, quelli che con lei vissero e furono presenti alle sue
azioni lutti affermano, questa fama esser nata dalla virtù e menti di lei. E
chi vorràcuusiCer^m foperesue, facilmente esser cosi il vero: ché , lasciando
infinite cose che fan di questo, e potrebborasi dire se fosse nostro sa che
quando essa «menare trovò la maggior parte di Castiglia occupata da*
crandr- nientedimeno il tutto recu- però cosi giustificatanaeot* e con lai
modo, che i “«J™! che ne furono privati Mg restarono affeiionaUssimi, ,»
r, regni sJi con quanlo .nino e ! ,ri «.ta « P»* da potentissimi
mimi osi - ” aMimamcnle a lei «« ‘ dar 1’ onor del glorio^^ ’ ® regno di
Granata; che in cosi lunga e dmìciM oslmaU, c by
Googlr IL CORTEGIANO. 200 comballevano per le
facoltà, per la vita, per la legge sua, cd, al parer loro, per Dio, mostrò
sempre col consiglio e con la persona propria tanta virtù, che forse a’ tempi
nostri po- chi principi hanno avuto ardire non che di imitarla, ma pur d’averle
invidia. Oltre a ciò, affermano tutti quegli che la co- nobbero, essere stato
in lei tanto divina maniera di gover- nare, che parea quasi che solamente la
volontà sua bastasse, perchè senza altro strepito ognuno facesse quello che
dove- va; tal che appena osavano gli nomini in casa sua propria e secretamente
far cosa che pcnsassino che a lei avesse da dis- piacere: e di questo in gran
parte fu causa il maraviglioso giudicio eh’ ella ebbe in conoscere ed eleggere
i ministri atti a quelli ofTìcii nei quali intendeva d’ adoperargli; e cosi ben
seppe congiungerc il rigor della giustizia con la mansuetu- dine della clemenza
c la liberalità, che alcun buono a’ suoi di non fu che si dolesse d’ esser poco
remuneralo, nò alcun malo d’ esser troppo castigato. Onde nei popoli verso di
lei nacque una somma riverenza, composta d’amore e timore; la quale negli animi
di tutti ancor sta cosi stabilita, che par quasi che aspettino che essa dal
cielo i miri, e di lassù debba darle laude o biasimo; e perciò col nome suo e
coi modi da lei ordinali si governano ancor que’ regni, di maniera che, benché
la vita sia mancata, vive l’ autorità, come rota che, lungamente con impelo
voltata, gira ancor per buon spazio da sè, benché altri più non la mova.
Considerale oltre di que- sto, signor Gasparo, che a’ nostri tempi tutti gli
uomini grandi di Spagna c famosi in qualsivoglia cosa, sono stali creati dalla
regina Isabella; e Gonsalvo Ferrando, Gran Ca- pitano, molto più di questo si
prezzava, che di tutte le sue famose vittorie, e di quelle egregie e virtuose
opere, che in pace ed in guerra fatto I’ hanno cosi chiaro cd illustre, che se
la fama non è ingratissima, sempre al mondo publicherà le immortali sue lode, c
farà fede, che alla età nostra pochi re o gran principi avemo avuti, i quali
stali non siano da lui di magnanimità, sapere, e d’ogni virtù superali.
XXXVI. Ritornando adunque in Italia dico, che ancor qui non ci mancano
eccellentissime signore; che in Napoli avemo due singoiar regine; e poco fa pur
in Napoli mori l’al- Digitized LffiRO
TERZO. 201 tra regina d’Ongaria, (anto eccellente signora
quanto voi sa- late, e bastante di far paragone allo invitto e glorioso re
Mattia Corvino, suo marito. Medesimamente la duchessa Isabella d’Aragona »
degna sorella del re Ferrando di Napoli ; la quale, come oro nel foco, cosi
nelle procelle di fortnna ha mostrata la virtù e *1 valor suo. Se nella
Lombardia verrete, v’occorrerà la signora Isabella marchesa di Manina; alle ec-
cellentissime virti!i della quale ingiuria si faria parlando cosi sobriamente,
come saria forza in questo loco a chi pur vo- lesse parlarne. Pesami ancora che
tutti non abbiate cono- sciuta la duchessa Beatrice di Milano sua sorella, per
non RVer mai piij g nn a T*a vigliarvi di ingegno di donna. E la du- chessa
Eleonora d’ Aragona, duchessa di Ferrara, e madre. *Jl’ana e l’altra di queste
due signore eh’ io v’ho nomina- le» fu tale, che lo eecellentissime sne virtù
faceano buon te- stimonio a tutto '1 mondo, che essa non solamente era de-
figliola di Re , ma che meritava esser regina di mollo maggior stato dm© *mon
aveano posseduto tutti i suoi anteces- sori. E, per dirvi «i* mm’ altra, quanti
uomini, conoscete voi al mondo, che avessero toleralo gli acerbi colpi della
fortuna cosi moderafamemmt.e , come ha fatto la regina Isabella di Na- poli? la
quale, dopto la perdita del regno, lo esilio e morte del re Federico suo marito,
e duo figlioli, e la prigionia del Duca di Calabria suo primogenito, pur ancor
si dimo- stra esser regina, e, ai tal modo sopporla i calamitosi in- commodi
della misera povertà, che ad ognuno fa fede che, ancor che ella abbia mutalo
fortuna, non ha mutalo con- dizione Lascio ai «ominar influite altre donne di
basso gra<lo; come molle Pisane, che alla di- fesa della lor patria eonira
Fiorentini hanno Bimi Ra^a I, — semP''’ ale aUe don"® voi
ste«, o'.nó;«. oompveoOo'» che Digitized by Google IL
CORTEGIANO. 202 esse per il più non sono di valore o meriti
inferiori ai padri, fratelli e mariti loro; e che molte sono state causa di
bene agli uomini, e spesso hanno corretto di molti loro errori; e se adesso non
si trovano al mondo quelle gran regine, che vadano a subjngare paesi lontani, e
facciano magni edifìcii, piramidi e città, come quella Tomiris, regina di
Scizia, Ar- temisia, Zenobia, Semìramis o Cleopatra, non ci son ancor uomini
come Cesare, Alessandro, Scipione, Lucullo, e quegli altri imperatori romani.
— XXXVII. Non dite cosi, rispose allora ridendo il Fal- cio, chè adesso
più che mai si trovan donne come Cleopatra o Semìramis; e se già non hanno
tanti siati, forze e ricchez- ze, loro non manca però la buona volontà di
imitarle almen nel darsi piacere, e satisfare più che possano a tutti i suoi
appetiti. — Disse il MagniCco Jdliano: Voi volete pur, Fri- gio, uscire de’
termini; ma se si trovano alcune Cleopalre, non mancano infiniti Sardanapali;
che è assai peggio. — Non fate, disse allor il signor Gasparo, queste
comparazio- ni, nè crediate già che gli uomini siano più incontinenti che le
donne; e quando ancor fossero, non sarebbe peggio, per- ché dalla incontinenza
delle donne nascono infiniti mali, che non nascono da quella degli uomini: e
però, come jeri fu dello, èssi prudentemente ordinato, che ad esse sia licito
senza biasimo mancar in tutte l’altre cose, acciò che possano mettere ogni lor
forza per manlenerse in questa sola virtù della castità, senza la quale i
figlioli sariano incerti, o quello legame che stringe tutto ’i mondo per lo
sangue, e per amar naturalmente ciascun quello che ha prodotto, si
discioglieria: |ierò alle donne più si disdice la vita dissoluta che agli uo-
mini , i quali non portano nove mesi i figlioli in corpo. — XXXV III.
Allora il Maonìpico, Questi, rispose, veramente sono belli argomenti che voi
fate, e non so perchè non gli inel- tiale in scritto. Ma, ditemi, per qual
causa non s’è ordinalo, che negli uomini cosi sia vituperosa cosa la vita
dissoluta come nelle donne, atteso che se essi sono da natura più virtuosi e di
maggior valore, più facilmente ancora |>oriano mante- nersi in questa virtù
della continenza, e i figlioli nè più nè meno sariano certi; chè sebben le
donne fossero lascive, Digitized by Google LIBRO
TERZO. 205 pnrcliè gli uomini fossero continenti e non
consentissero alla lascivia delle donno, esse da sè a sé e senza altro ajoto
già non ponan generare. Ma se volete dir il vero, voi ancor co- noscete che noi
di nostra autorità ci averne vendicato una li- cenza, per la guaio volerne che
i naedesimi peccati in noi siano leggerissimi, © talor meritino laude, e nelle
donne non possano a bastanza essere castigali se non con una vitupe- *^a morte,
o almen perpetua infamia. Però, poiché questa opinion è invalsa , parrai che
conveniente cosa sia castigar oncor acerbamente quelli che con bugie dànno
infamia alte ed estimo eli' ogni nobil cavaliere sia obligato a di- . sempre
con 1 * arme, dove bisogna, la verità, e mas- simaroenle quando conosce qualche
donna esser falsamente ca odiala di poca onestà. — XXXIX. Ed io, rispose
ridendo il signor Gaspabo, non 0 amente affermo esser debito d’ ogni nobil
cavaliere quello estimo gran cortesia e gentilezza coprir ffua c e errore, ove
per disgrazia, o troppo amore, una donna a incorsa ; e cosi veder potete eh’ io
tengo più la parte delle onne, dove la ragion nae lo comporta, che non fate
voi. Non ®cgo già cho gli Uomini non si abbiano preso nn poco di li- bertà ; e
questo perché» sanno, che per la opinion universale ad essi la vita dissoluta
non porta così infamia come alle donne; le quali, la imbecillità del sesso,
sono molto più inclinate agli appetiti che gli uomini, e se talor si
astengono dal satisfare ai suoi desiderii, lo fanno per vergogna, non mchè la
volontà uo« sia loro prontissima: e però gli uomini hanno posto loro il t i or
d’ infamia per un freno che le tenga quasi per forza in questa virtù,
senza la quale, per dir il vero, ariano poco d’ il mondo non ha utilità dalle
donne, se nou h> ’u^eraro dei figUoli. Ma ciò non i aZ governano le
città, gU e«rm. . . . - » ^er lo aeneraro aei - intervien
degli uom i „ i , i ® ^ governano le città, gU esercì- ti, e fanno tante
altre «ose d* importanza: il che, po. che vm volete cosi, non vogl io sanessero
far le donne; basta che non Io faur»o - iT'^^^Indo è occorso agli nomini
far paragon della continer,*^ " hanno superato le donne in questa, virtù
come auoo^ ’ ! ii,o hencliè voi non lo con- s»tia(c. E,l io circa „ .ogto
rccHatrì •.«« I»'»”» Digttized by Google IL
CORTEGIANO. 204r fabule quante avete fatto voi, e rimettovi
alla continenza solamente di dui grandissimi signori giovani, e su la vittoria,
quale suol far insolenti ancora gli uomini bassissimi: edel- 1 » uino è quella
d’Alessandro Magno verso le donne bellissime Dario, nemico e vinto; l’altra di
Scipione, a cui, essendo ventiquattro anni, ed avendo in Ispagna vinto per
forza mia città, fu condotta una bellissima e nobilissima giovane, presa tra
moli’ altre; ed intendendo Scipione, questa esser sposa d’ un signor del paese,
non solamente s’astenne da Qgtii allo disonesto verso di lei, ma immaculala la
rese al marito, facendole di sopra un ricco dono. Potrei dirvi di Se- nocrale,
il quale fu tanto continente, che una bellissima donna cssendosegli colcala
accanto ignuda, e facendogli tulle le carezze, ed usando lutti i modi che
sapea, delle quai cose era bonissima maestra, non ebbe forza mai di far che mo-
strasse pur un minimo segno d’ impudicizia, avvenga che ella in questo
dispensasse tutta una notte; e di Pericle, che udendo solamente uno che laudava
con troppo efiìcacia la bellezza d’un fanciullo, lo riprese agramente; e di
moli’ altri continentissimi di lor propria volontà, e non per vergogna o paura
di castigo, da che sono indotte la maggior parte di quelle donne che in tal
virtù si mantengono: le quali però ancor con tutto questo meritano esser
laudate assai, e chi falsamente dà loro infamia (l’impudicizia è degno, come
avete detto, di gravissima punizione. — XL. Allora messer Cesare, il qual
per buon spazio ta- ciuto avca. Pensate, disse, di che modo parla il signor Ga-
sparo a biasimo delle donne, quando queste son quelle coso eh’ ei dice in laude
loro. Ma se ’l signor MagniGco mi con- cede eh’ io possa in loco suo rispondergli
alcune poche cose circa quanto egli, al parer mio, falsamente ha detto conira
le donne, sarà bene per 1’ uno c per l’ altro : perchè esso si riposerà un
poco, e meglio poi potrà seguitare in dir qualche altra eccellenza della Donna
di Palazzo; ed io mi terrò per molla grazia l’ aver occasione di far insieme
con lui questo olTìcio di buon cavaliere, cioè difender la verità. — Anzi ve nc
priego, ris|K>sc il signor Magnifico; chè già a me parca aver satisfatto,
secondo le forze mie, a quanto io doveva, e DIgitized by
Google LIBRO TERZO. 205 che questo ragionanaenlo
fosse ormai faor del proposito aio.— Soggiunse inesser Cesare: Non voglio già
parlar della uliiijà che ha il mondo dalle donne, oltre al generar i figlioli:
per- chè a bastanza s’ ó dimostrato, quanto esse siano necessarie non solamente
all’ esser ma ancor al ben esser nostro ; ma dico, signor Gaspar, che se esse
sono, come voi dite, più inclinate agli appetiti che gli uomini, e con tatto
questo se ne astengono più che gli uomini, il che voi stesso consentite: sono
tanto più degne di laude, quanto il sesso loro è men orlo per resistere agli
appetiti naturali ; e se dite che lo anno per vergogna , parmi che in loco d’
una virtù sola no late lor due; chè se in esse più può la vergogna che 1’ ap-
petito, e perciò si astengono dalle cose mal fatte, estimo che questa vergogna,
che in fine non è altro che timor d’infa- ®*a, sia nna rarissima virtù, e da
pochissimi uomini posse- ota. £ s io potessi senza infinito vituperio degli
uomini dire come molti d’essi siano immersi nella impudenza, che è il ^«lo
contrario a questa virtù, contaminarei queste sante pi^chie che m’ascoltano: e
per il più questi tali ingiuriosi ® io ed alla natuara sono uomini già vecchi,
i quali fan pro- fessione chi di sacerdozio, chi di filosofia, chi delle santo
teggi; e governano lo republiche con quella severità Cato- niana nel viso, cho
p»romelte tutta la integrità del mondo; e sempre allegano, il «esso feminile
esser incontinentissimo: nè mai essi d’altro si dolgon piìb che del mancar loro
il vi- gor naturale per poter satisfare ai loro abominevoli deside- ni, I quali
loro restano ancor nell’animo, quando già la na- tura h nega al corpo ; « però
spesso trovano modi dove lo forze non sono necessarie. XLI. Ma io
non 'voglio dir più avanti; e bastami che mi consentiate che le donne si
astengano più dalla vita impn- dica che gli uomini ; « certo è che d’altro
freno non sono ritenute, che da quello che esse stesse si mettono: e che
sia vero, la più Darlo — . „„ custodite con troppo ielle che men
pudì- <3 ai manli p ^ ► gualche bber ■ ^ deside- rio d’
onore, del ouaì'^ ol I conosciute, più parte di stretta guardia, o
batto t^s' che che quelle che ha nn. alle donno 206
IL CORTEGIANO. fanno più stima che della vita propria; e se
volete dir il vero, osmun di noi ha veduto giovani nobilissimi, discreti,
savii, valenti c belli, aver dispensato molt’anni amando, senza la- sciare
adrieto cosa alcuna di sollecitudine, di doni, di preghi, di lacrime, in somma
di ciò che imaginar si può ; e tutto in vano. £ se a me non si potesse dire,
che le qualità mie non meritarono mai eh’ io fossi amalo, allegherei il
testimonio di me stesso, che più d’ una volta per la immutabile e troppo severa
onestà d’ una donna fui vicino alla morte. — Rispose il signor Gaspabo : Non vi
maravigliate di questo : perchè le donne che son pregale sempre negano di
compiacer chi le prega ; e quelle che non son pregate, pregano altrui. — XLII.
Disse messer Cesabe: io non ho mai conosciuti questi, che siano dalle donne pregati;
ma si ben molli, li quali, vedendosi aver in vano tentato e speso il tempo
scioc- camente, ricorrono a questa nobil vendetta, e dicono aver avuto
abondanza di quello che solamente s’hanno imaginato; e par loro che il dir male
e trovar invenzioni, acciò che di qualche nobil donna per lo volgo si levino
fabule vituperose, sia una sorte di corlegiania. Ma questi tali, che di qualche
donna di prezzo villanamente si dònno vanto, o vero o falso, meritano castigo e
supplicio gravissimo; e se talor loro vien dato, non si può dir quanto siano da
laudar quelli che tale oflìcio fanno. Chè se dicon bugie, qual scelerità può
esser maggiore, che privar con inganno una valorosa donna di quello che essa
più che la vita estima? e non per altra causa, che por quella che la devria
fare d’ infinite laudi celebrata? So ancora dicon vero, qual pena poria bastare
a chi è cosi perfido, che renda tanta ingratitudine per premio ad una donna, la
qual, vinta dalle false lusinghe, dalle lacrime finte, dai preghi continui, dai
lamenti, dalle arti, insidie e perjnrii, s’ ha lascialo indurre ad amar troppo;
poi, senza riservo, s’ è data incautamente in preda a cosi maligno spirto? Ma,
per rispondervi ancor a questa inaudita continenza d’Alessandro e rii Scipione,
che avete allegala, dico ch’io non voglio ne- gjjre che e l’uno e l’altro non
facesse allo degno di molla lau<lo; nientedimeno, acciò che non possiate
dire che per raccontarvi cose antiche io vi narri fabule, voglio
allegarvi LIBRO TERZO. 207 una doQoa de’ nostri
tempi di bassa condizione, la qaaJ mo slrò molto maggior continenza che questi
dui grand’ uomini XLln. Dico adunque, che io già conobbi una bella e elicata
giovane, il nome della quale non vi dico, per non ar materia di dir male a
molti ignoranti, i quali subito che jntendono una donna esser inamorata, ne fan
mal concetto. Vuesta adunque essendo lungamente amata da un nobile e R
condizionato giiovane, si volse con tutto l’animo e cor suo ad amar lui ; e di
questo non solamente io, al quale essa ' sua volontà og^ni cosa conQdentemènte
dicea, non altri- menti che 8’ io non dirò fratello ma una sua intima sorella
®*nto, ma tutti quelli che la vedeano in presenza del- smato giovano, erano ben
chiarì della sua passione. Cosi nmando essa ferventissimamente quanto amar
possa nn amo- nevolissiino animo, durò dui anni in tanta continenza, che *****
non fece segno alcuno a questo giovane d’ amarlo, se *wn quelli che nasconder
nonpotea; nè mai parlar gli volse, n a lui accetta lettere, uè presenti, che
dell’uno e dei- altro non passai va. mai giorno che non fosse sollecitala: e
quanto lo desiderasse, io ben lo. so ; che se talor nascosa- *nente potea aver
cosa che del giovane fosse stata , la tenea Jn tante delizie, che parca che da
quella le nascesse la vita . bene: n4> pur mai in tanto tempo d’altro
com- piacer gli volse che di vederlo e di lasciarsi vedere, e qual- cne
volta intervenendo alle feste publiche ballar con lui, come con gli altri. ^
perchè le condizioni dell’ uno e dell’al- tro erano assai con>renienti, essa
e’I giovane desideravano Che un tanto amor terminasse felicemente, ed esser
insieme manto e moglie. H medesimo desideravano tutti gli altri uo- n
anat città, eccello il crudel padre d. lei ; Il qual per una pervo*-sa e
strana opinion volse maritarla ad co”n*i r i*» ciò dalla infelice
fanciuUa non fu con altro contradette, «ho con amarissime lacrime. Ed
sendo successo cosi Itaralo matrimonio, con molla compassion di quel
paneetl"' teJperazion dei poveri amanti, non bastò però quest ai ® Soriana
per estirpare cosi fondato amor dei co»- - ^^^•‘cossa di t dopo
ancor per spazio di venga che essa pruden- Digìtized by
Googlc IL COnXEGIANO. 208 tissimamenle lo
dissimulasse, e per ogni via cercasse di (ron- car que’ dcsiderii, che ormai
erano senza speranza. Ed in questo tempo seguitò sempre la sua ostinata volontà
delta continenza; c vedendo che onestamente aver non potea colui che essa
adorava al mondo, elesse non volerlo a modo al- cuno, e seguitar il suo costume
di non accettare ambasciate, nè doni, nè pur sguardi suoi; e con questa
terminata volontà la meschina, vinta dal crudelissimo affanno, e divenuta per
la lunga passione estenuatissima, in capo di tre anni se nc mori ; e prima
volse ritìutare i contenti e piacer suoi tanto desiderati, in ultimo la vita
propria, che la onestà. Nè le man- cavan modi e vie da satisfarsi
secretissimamenle, c senza pericoli d’infamia o d’altra perdita alcuna; e pur
si astenne da quello che tanto da sé desiderava, e di che tanto era con-
tinuamente stimolala da quella persona, che sola al mondo desiderava di
compiacere: nè a ciò si mosse per paura, o per alcun altro rispetto, che per lo
solo amore della vera virtù. Che direte voi d’ un’ altra? la quale in sei mesi
quasi ogni notte giacque con un suo carissimo innamorato ; nientedi- meno , in
un giardino copioso di dolcissimi fruiti, invitata dall’ardentissimo suo
proprio desiderio, e da’ preghi e la- crime di chi più che la propria vita le
era caro, s’astenne dal gustargli ; e, benché fosse presa e legala ignuda nella
stretta catena di quelle amale braccia, non si rese mai per vinta, ma con.servò
immaculato il fior della onestà sua ? XLIV. Parvi, signor Gasparo, che
questi sian alti di continenza eguali a quella d’ Alessandro? il quale ,
ardentis- simaraente inamorato non delle donne di Dario , ma di quella fama e
grandezza che lo spronava coi stimoli della gloria a patir fatiche e pericoli
per farsi immortale, non che le altre cose ma la propria vita sprezzava per
acquistar no- me sopra lutti gli nomini; e noi ci maravigliamo che con lai
pensieri nel core s’astenesse da una cosa la qual molto non desiderava? chè,
per non aver mai più veduto quelle donne, non è possibile che in un punto
l’amasse, ma ben forse 1‘ tiborriva, per rispetto di Dario suo nemico; ed in
(al caso os^ni suo allo lascivo verso di quelle saria stalo ingiuria e non
amore: e però non è gran cosa che Alessandro, il quale Digitized by
Go< '' le LIBRO TERZO. S09
non meno con la magnanimità che con Tarme vinse il mon- 00, 8 * astenesse
da far ingiaria a femine. La continenza an- cor di Scipione è veramente da
laudar assai ; nientedimeno w ben considerate , non è da aguagliare a quella di
queste ue donne; perchè esso ancora medesimamente si astenne a cosa non
desiderata , essendo in paese nemico , capitano aoovo, nel principio d’ una
impresa importantissima; avendo nella patria lasciato tanta aspettazion di sèj
ed avendo an- cor a rendere conto a giudici severissimi, i quali spesso ca-
'Savano non solamente i grandi ma i pìccolissimi errori ; ® Ira essi
sapea averne de’nìmici; conoscendo ancor che, se ramente avesse fatto, per
esser quella donna nobilissima ® od un nobilissimo signor maritata, potea
concitarsi tanti nemici e talmente , clie molto gli arian prolungala e forse •n
fallo tolta la vittoria. Cosi per tante cause e di tanta im- porlanza s’astenne
da un leggiera e dannoso appetito, mo- strando continenza ed una liberale
integrità: la quale, come SI scrive, gli diede tutti gli animi di quo’ popoli ,
e gli valse n a fro esercito espugnar con bonivolenza i cori, che orse
per forza d* arme sariauo siati inespugnabili; sicchà «lueslo piuttosto «ra
stratagcma militare dir si poria, che pura continenza: avvenga ancora che la
fama di questo non sia molto sincera, i^ercliè alcuni scritlori d’autorità
affer- mano, questa giovane esser stata da Scipione goduta in amorose delizie;
ma di quello che vi dico io, dubio alcuno non è. ... il is-azco : Dovete
averlo trovalo negli Evan- geli!. _ Io stesso vedalo , rispose messer Cesare e
^rò Cli?" certezza che non polele aver nè voi nè altri che
Alcibiade si levasse dal letto di Socrale non altri- rnent. che si facciano i
dal letto dei padri ; chè pur strano loco e tempo fi ietto e la notte per
contemplar quella pura bellezza , qù Jsi alcnn desiderio
disono«t;«^ mamente amando piu label- is... dell’ anta, ebo “I vecchi ,
ancor che sia corpo, „„„ ,i potea già trovar miglior esemiDi*^^^ ^
continenza degli uomi- IL CORTEGIANO. 210 dii ,
aslrelto cd obligalo dalla profession sua, che é la filoso- fia, la quale
consiste nei buoni coslumi e non nelle parole , vecchio, esausto del vigor
naturale, non polendo nè mo- strando segno di potere , s’ astenne da una femina
publica , la quale por questo nome solo polea venirgli a fastidio. Più crederei
che fosse stalo continente, se qualche segno di ri- sentirsi avesse dimostralo
, ed in tal termine usato la conti- nenza; ovvero astenutosi da quello che i
vecchi più deside- rano che le battaglie di Venere, cioè dal vino: ma per com-
probar ben la continenza senile, scrivesi che di questo era pieno e grave. E
qual cosa dir si può più aliena dalla conti- nenza d’ un vecchio, che la
ebrietà? o se lo astenerse dalle cose venereo in quella pigra e fredda olà
merita tanta lau- de , quanta ne deve meritar in una tenera giovane , come
quelle due di chi dianzi v’ ho detto? dello quali 1’ una impo- nendo durissimo
leggi a lutti i sensi suoi, non solamente agli occhi negava la sua luce, ma
toglieva al core quei pensieri, che soli lungamente erano stati dolcissimo cibo
per tenerlo in vita; l’altra, ardente inaraorata, ritrovandosi tante volle sola
nelle braccia di quello che più assai che tutto ’l resto del mondo amava,
contro sè stessa e conira colui che più che sè stessa le era caro combattendo,
vincea quello ar- dente desiderio che spesso ha vinto e vince tanti savii uo-
mini- Non vi pare ora, signor Gasparo, che dovessino i scrit- tori vergognarsi
di far memoria di Senocrate in questo caso, e chiamarlo per continente? che chi
potesse sa]>ere, io met- terei pegno che esso tutta quella notte sino al
giorno seguente ad ora di desinare dormi come morto, sepolto nel vino; nè mai ,
por stropicciar che gli facesse quella femina, potè aprir qli occhi, come se
fosse stalo allopialo.— XhVl. Quivi rìsero lutti gli uomini e donne; e la
si- 3Dora Emilia, pur ridendo. Veramente, disse, signor Ga- sparo, se vi
pensate un poco meglio, credo che Irovarele ancor qualche altro bello esempio
di continenza simile a que- Ris|>ose messer Cesahb : Non vi l»ar.
Signora , che l>ello esempio di continenza sia quell’ altro che egli
ha alle- gato di Pericle? Maravigliomi ben ch’el non abbia ancor ri. cordalo la
continenza e quel bel detto che si scrive di colui, r „
-«ibyCo^Ie LIBRO TERZO. 21 i a chi Una donna
domandò troppo gran prezzo por una not- te, ed esso le rispose , che non
comprava così caro il pen- tirsi. — Rideasi tullavia; e messer Cksark avendo
alquanto taciuto. Signor Gasparo, disse, perdonatenai s’io dico il vero, perchè
in somma queste sono le miracoloso continenze che di sè stessi scrivono gli
uomini, accusando per incontinenti le donne, nelle quali ogni disi veggono
inGnitì segni di con- tinenza; ché cerio se ben considerate, non è ròcca tanto
inespugnabile nò cosi ben difesa, che essendo combattuta eon la millesima parie
delle machine ed insidie, che per espugnar il costante animo d’una donna
s’adoprano, non si rendesse al primo assalto. Quanti creati da signori, e da
®ssi fatti ricchi o posti in grandissima estimazione, avendo Relle mani le lor
fortezze e ròcche, onde dependeva tolto 1 stato e la vita ed ogni ben loro,
senza vergogna o cura d’es- ser chiamati traditori le hanno pertìdamenle per
avarizia date a chi non doveanol e Rio volesse che a di nostri di questi tali
fosse tanta carestia, che non avessimo molto mag- gior fatica a ritro-var
qualcuno che in tal caso abbia fatto quello che dovea , che nominar quelli che
hanno mancato. Non vedemo noi la ni’ altri che vanno ogni di ammazzando uomini
per le scl'V'e , e scorrendo per mare , solamente per rubar danari? Quanti
prelati vendono le cose della chiesa di RioI quanti juriscnnsulti falsilìcano
testamenti! quanti per- jurii fanno, quan t ■ falsi leslimonii, solamente per
aver de-- nari! quanti medici avvelenano gl’ infermi per tal causai quanti poi
per paura della morte fanno cose vihssimel E pur a lune queste cosi eOicaci e
dure battaglie spesso «s.sle una tenera e delicata vane • chè molte sonosi
trovale, le quali hanno eletto la morie niù’nresto che perder
VoBeslà.- XI VII A 11^ . piu presivi V, • „ d sse, messer XLVII.
Allora il signor Gasvaro, Quesi®' "' ’ Cesare, credo che- non n al
mondo oggnii- — R‘»PO“ covi ben questo cf» a vogh e trovansi, che
in fai caso non si cura n ^ *•' Ed or m’ occorre nell’ammo, che
quando Capua fC * Sa dai Franzesi, che ancora non è tanto ,0^0
memoria, una bella „ j no ^ .^Jonna capuana css feiRck-vane
, Digitized by Google IL CORTEGUNO. 212 condoUa
faor di casa saa, dove era stala presa da una com- pagnia di Guasconi, quando
giunse al fiume che passa per Capua fìnse volersi attaccare una scarpa , tanto
che colui che la menava un poco la lasciò, ed essa subito si gittò nel fiume.
Che direte voi d’una contadinella, che non molti mesi fa, a Gazuolo in
Mantoana, essendo ita con una sua sorella a raccorre spìche ne’campi, vinta
dalla sete entrò in una casa |ier bere dell’acqua; dove il patron della casa,
che giovane era , vedendola assai bella e sola, presala in braccio, prima con
buone parole poi con minacce cercò d' indurla a far i suoi piaceri; e
contrastando essa sempre più ostinatamente, in ultimo con molle battiture e per
forza la vinse. Essa cosi scapigfìst^ e piangendo ritornò nel campo alla
sorella , nè mai, P®r mollo ch’ella le facesse instanza, dir volse che dis-
piacere avesse ricevuto in quella casa; ma tuttavia, cam- minando verso l’albergo,
e mostrando di racchetarsi a poco a poco e parlar senza perturbazione alcuna,
le diede certe coroni‘ss‘0"*') poi, giunta che fu sopra Oglio, che è il
fiume che passa accanto Gazuolo , allontanatasi un poco dalla so- rella, la
quale non sapea nè imaginava ciò ch’ella si volesse fare, subito vi sigillò
dentro. La sorella dolente e piangendo l’ andava secondando quanto più polca
lungo la riva del fiu- me, che assai velocemente la portava all’ ingiù; ed ogni
volta che la meschina risorgeva sopra l’acqua, la sorella le gil- java una
corda che seco aveva recala per legar le spiche; e benché la corda più d’una
volta le pervenisse alle mani, per- chè pur era ancor vicina alla ripa, la
costante e delil)erala fanciulla sempre la rifiutava e dilungava da sé; c cosi
fug- gendo ogni soccorso che dar le potea vita, in poco spazio ebbe la morte:
nè fu questa mossa dalla nobilita di sangue, nè da paura di più crudcl morte o
d’ infamia, ma solamente dal dolore della perduta verginità. Or di qui
|>otele compren- der, quante altre donne facciano atti degnissimi di memoria
che non si sanno, poiché avendo questa, tre di sono, si può dir fallo un tanto
testimonio della sua virtù, non si parla di lei, nè pur se ne sa il nome. Ma se
non sopragiungea in quei lemjio la morte del vescovo di Mantua zio della
signora Duchessa nostra, ben saria adesso quella ripa d’ Oglio , nel
LIBRO TERZO. 213 loco onde ella si gittò, ornala
d un bellissimo sepolcro, per memoria di cosi gloriosa anima, che meritava
tanto più chiara fama dopo la morte, quanto in men nobii corpo vi- vendo era
abitala* ■ XL.VI1L Quivi fece naesser Cesare un poco di pausa ; poi
soggiunse: A’ miei di ancora in Roma intervenne un si- mil caso; e fu che una
bella e nobii giovane romana , es- sendo lungamente seguitata da uno che molto
mostrava amarla, non volse mai, non che d’altro, ma d’ un sguardo solo
compiacergli; di modo che costui per forza di denari corruppe una sua fante; la
quale, desiderosa di satisfarlo per toccarne più denari , persuase alla
patrona, che un certo giorno non mollo celebrato andasse a visitar la chiesa di
santo Sebastiano: ed avendo il tutto fallo intendere allo amante, e mostratogli
ciò che fardovea, condusse la giovane in una di quelle grolle oscure che
soglion visitar quasi tutti quei che vanno a santo Sebastiano; ed in questa
tacitamente s’era nascosto prima il giovane: il quale, ritrovandosi solo con
quella che amava tanto , cominciò con tutti i modi a pregarla più dolcemente
che seppe , che volesse avergli com- passione , e mutar la sua passala durezza
in amore ; ma poi che vide tutti i prieghi esser vani, si volse alle minacce*
non giovando ancora queste , cominciò a batterla neramente- in ultimo, essendo
in ferma disposizion d’ ottener lo intento suo, se non altrimenti, per forza ,
ed in ciò operando il soc- corso della malvagia femina che quivi l’aveva
condotta, mai non potè tanto fare che essa consentisse; anzi e con parole e con
fatti, benché poche forze avesse, la meschina giovane si difendeva quanto le
era possibile: di modo che tra per lo sdegno conceputo, vedendosi non poter
ottener quello che volea , tra per la paura che non forse i parenti di lei, se
ri- sapeano la cosa, gli ne facessino portar la pena, questo sce- lerato,
ajutato dalla fante, la qual del medesimo dubitava, affogò la malavventurata
giovane, e quivi la lasciò; e fuggi- tosi, procurò di non esser trovalo. La
fante, dallo error suo medesimo acciecata, non seppe fuggire, e presa per
alcuni indicii, confessò ogni cosa; onde ne fu come meritava casti- gala. Il
corpo della costante e nobii donna con grandissimo Digilized
by 214 IL CORTEGIANO. onore fu levalo di
quella grotta, e portato alia sepoltura in Roma, con una corona in lesta di
lauro, accompagnalo da un numero infinito d’uomini e di donne; tra’ quali non
fu alcuno che a casa riportasse gli occhi senza lacrime ; e cosi universalmente
da lutto ’l popolo fu quella rara anima non raen pianta che laudala.
XL1\. Ma per parlarvi di quelle che voi stesso cono- scete, non vi ricorda aver
inteso che andando la signora Fe- lice dalla Rovere a Saona, e dubitando che
alcune vele che si erano scoperte fossero legni di Papa Alessandro che la
seguitassero, s’apparecchiò con ferma deliberazione se si accostavano, e che
rimedia non vi fosse di fuga , di gillarsi nel mare: e questo non si può già
credere che lo facesse per leggerezza, perchè voi cosi come alcun altro
conoscete ben di quanto ingegno e prudenza sia accompagnala la sin- goiar
bellezza di quella signora. Non posso pur lacere una parola della signora
Duchessa nostra, la quale essendo vi- vula quindeci anni in compagnia del
marito come vedoa , non solamente è stata costante di non palesar mai questo a
persona del mondo, ma essendo dai suoi propri! stimolata ad uscir di questa
viduità, elesse più presto patir esilio, po- vertà, ed ogn’ altra sorte d’
infelicità, che accettar quello che a tutti gli altri parca gran grazia e
prosperità di forlu- — e seguitando pur messer Cesare circa questo, disse
la signora Duchessa: Parlate d’altro, e non entrale più in tal proposito, chè
assai dell’ altre cose avete che dire. — Sog- giunse messer Cesabe: So pur che
questo non mi negherete, signor Gasparo, nè voi. Frigio. — Non già, rispose il
Falcio; ma ona non fa numero. — L. Disse allora messer Cesabe: Vero è che
questi cosi grandi effetti occorrono in poche donne: pur ancora quelle che
resistono alle battaglie d’ amore, tutte sono miracolose; e quelle che talor
restano vinte, sono degne di molla com- passione: chè certo i stimoli degli
amanti, le arti che usa- no , > lecci che tendono, son tanti e cosi
continui, che troppa maraviglia è che una tenera fanciulla fuggir gli possa.
Qual giorno, qual’ ora passa mai , che quella combattuta giovane non amante
sollecitata con denari, con presenti , e Dr- --dL, LIBRO
TERZO^ 215 con tatto quelle cos® che inaaginar sa che
le abbiano a pia- cere? A qual tempo affacciar mai si pnò alla finestra , che
sempre non veda passar I’ ostinato amante, con silenzio di parole ma con gli
occhi che parlano, col viso afllitto e lan- guido, con quegli accesi sospiri,
spesso con abondantissime lacrime? Quando mai si parte di casa per andar a
chiesa o ad altro loco, che questo sempre non le sia inanzi, e ad ogni voltar
di contrata non se le affronti con quella trista passion dipinta negli occhi ,
che par che allor allora aspetti la morte? Lascio tante attilature, invenzioni,
motti, imprese, feste, balli, giochi, maschere, giostre, torniamenti; le quai
coso essa conosce tutte esser fatte per sé. La notte poi mai risve- gliarsi non
sa, che non oda musica, o almen quello inquieto spirito intorno alle mura della
casa gittar sospiri e voci la- mentevoli. Se per avventura parlar vuole con una
delle sue fanti , quella , già corrotta per denari , subito ha apparec- chialo
un presentuzzo, una lettera, un sonetto, o tal cosa, da darle per parte dello
amante; e quivi entrando a pro- posito, le fa intendere quanto arde questo
meschino, come non cura la propria vita per servirla; e come da lei ninna cosa
ricerca men che onesta, e che solamente desidera par- larle. Quivi a tutte le
difficoltà si trovano rimedii , chiavi contrafatte, scale di corde, sonniferi;
la cosa si dipinge di poco momento; dannosi esempli di molt’ altre che fanno
as- sai peggio; di modo che ogni cosa tanto si fa facile, che essa ninna altra
fatica ha, che di dire: Io son contenta; -- e se pur la poverella per un tempo
resiste, tanti stimoli |e aggiungono, tanti modi trovano, che col continuo
battere rompono ciò che le osta. E molti sono che, vedendo le blan- dizie non
giovargli, si voltano alle minacce, e dicono volerle publicar per quelle che
non sono ai lor mariti. Altri patteg- giano arditamente coi padri, e spesso coi
mariti, i quali, per denari o per aver favori, danno le proprie figliole e
mogli in preda conira la lor voglia. Altri cercano con incanti e ma- lie tor
loro quella libertà che Dio all’ anime ha concessa : di che si vedono mirabili
effetti. Ma io non saprei ridire in mill’anni tutte le insidie che oprano gli
uomini per indur le donne alle lor voglie, che son infinite; ed, oltre a quelle
Digilized^yjliooglt- IL CORTEGIANO. 216 che
ciascnn per sè slesso ritrova, non è ancora mancato chi abbia ingeniosamente
conaposlo libri, e postovi ogni stu- dio , per insegnar di che modo in questo
si abbiano ad in- gannar le donne. Or pensate come da tante reti possano es-
ser sicure queste semplici colombe, da cosi dolce esca invi- tale. E che gran
cosa è adunque, se una donna, veggendosi tanto amata ed adorata moli’ anni da
un bello , nobile ed accostumalo giovane, il quale mille volte il giorno si
mette a pericolo della morte per servirle, nè mai pensa altro che di
compiacerle, con quel continuo battere, che fa che l’acqua spezza i durissimi
marmi, s’induce finalmente ad amarlo, e, vinta da questa passione , lo contenta
di quello che voi dite che essa, per la imbecillità del sesso, naturalmente
molto più desidera che l’amante? Parvi che questo error sia tanto grave, che
quella meschina, che con tante lusinghe è stata presa, non meriti almen quel
perdono, che spesso agli omi- cidi, ai ladri, assassini e traditori si concede?
Vorrete voi che questo sia vizio tanto enorme, che, per trovarsi che qual- che
donna in esso incorre, il sesso delle donne debba esser sprezzalo in lutto, e
tenuto universalmente privo di conti- nenza, non avendo rispetto che molle se
ne trovano invit- tissime, che ai continui stimoli d’ amore sono adamantine, o
salde nella lor infinita costanza più che i scogli all’onde del mare? —
LI. Allora il signor Gasparo, essendosi fermato roesser Cesare di parlare ,
cominciava per rispondere; ma il signor Ottaviano ridendo. Deh per amor di Dio,
disse, datigliela vinta, eh’ io conosco che voi farete poco fruito ; e parrai
vedere che v’ acquisterete non solamente tutte queste donne per inimiche, ma
ancora la maggior parte degli uomini. — Rise il signor Gasparo, e disse: Anzi
ben gran causa hanno le donne di ringraziarmi; perchè s’io non avessi contra-
detto al signor Magnifico ed a messer Cesare, non si sa- riano intese tante
laudi che essi hanno loro date. — Allora messer Cesare, Le laudi, disse, che il
signor Magnifico ed io a verno date alle donne, ed ancora molle altre, erano
notissime, però sono state superflue. Chi non sa che senza le donno sentir non
si può contento o satisfazione alcuna Digitized by Google
LIBRO TERZO. 217 in tolta questa nostra vita, la qoale senza
esse saria msfica e priva d’ ogni dolcezza, e più aspera che quella dell’al-
pestre fiere? Chi non sa che le donne sole levano de’nostri cori tutti li vili
e bassi pensieri, gli affanni, le miserie, e quelle torbide tristezze che così
spesso loro sono compagne? E se vorremo ben considerar il vero, conosceremo an-
cora, che, circa la cognizion delle cose grandi, non desviano gli ingegni, anzi
gli svegliano; ed alla guerra fanno gli uo- mini senza paura ed arditi sopra
modo. E certo impossibii è che nel cuor d’uomo, nel qual sia entrato una volta
fiamma d’amore, regni mai più viltà; perchè chi ama desidera sem- pre farsi
amabile più che può, e teme sempre non gli inter- venga qualche vergogna che lo
possa far estimar poco da chi esso desidera esser estimato assai; nè cura
d’andare mille volte il siorno alla morte, per mostrar d’esser degno di quel-
i’amore: però chi potesse far un esercito d’innamorati, li quali combattessero
in presenza delle donne da loro amale, vincerla tutto ’l mondo, salvo so contra
questo in opposi to- non fosse un altro esercito medesimamente innamoralo. E.
crediate di certo, che l’aver contrastato Troja dieci anni a. tutta Grecia, non
procedette d’altro che d’ alcuni innamorati, li quali, quando erano per uscir a
combattere, s’armavano in presenza delle lor donne, e spesso esse medesime gli
aju- tavano, enei partir diceano lor qualche parola che gl’ infiam- mava, e gli
facea più che uomini; poi nel combatfere sa- peano esser dalle lor donne mirati
dalle mora e dalle torri ^ onde loro parea che ogni ardir che mostravano, ogni
prova chefaceano, da esse riportasse laude: il che loro era il mag^ gior premio
che aver potessero al mondo. Sono molli che estimano, la vittoria dei re di
Spagna Ferrando ed Isabella contra il re di Granala esser proceduta gran parte
dalle don- ne; chè il più delle volte quando usciva l’esercito di Spagna per
affrontar grinimici, usciva ancora la regina Isabella con tutte le sue
damigelle, e quivi si ritrovavano molli nobili ca- valieri innamorali; li quali
fin che giungeano al loco di ve-, der grinimici, sempre andavano parlando con
le lor donne: poi, pigliando licenza ciascun dalla sua, in presenza loro an-
davano ad incontrar gl’ inimici con quell’ animo feroce che iO
IL CORTEGIANO. 218 dava loro amore, e ’l desiderio di
far conoscere alle sue si- enore che erano servile da uomini valorosi ; onde
molle volle Irovaronsi pochissimi cavalieri spagnoli mellere in fuga od alla
morie iiifinilo numero di Mori, mercè delle genlili ed amale donne. Però non
so, signor Gasparo, qual perverso giudicio v’abbia indollo a biasimar le
donne. LII. Non vcdele voi, che di lulli gli csercizii graziosi e che
piacene al mondo a niun allro s’ha da allribuire la cau- sa, se alle donne no?
Chi sludia di danzare e ballar leggia- dramenle per allro, che per compiacere a
donne? Chi in- londe nella dolcezza della musica per allra causa, che per
quesla? Chi a compor versi, almen nella lingua volgare, se non per esprimere
quegli affelli che dalle donne sono causa- li? Pensale di quanli nobilissimi
poemi saremmo privi, e nella lingua greca e nella Ialina, so le donno fossero
siale da’poeli poco eslimale. Ma, lasciando lulU gli altri, non sa- ria
grandissima perdila se messer Francesco Petrarca, il qual cosi divinamenle
scrisse in quesla nostra lingua gli amor suoi, avesse volto l’animo solamente
alle cose Ialine, come aria fallo se l’amor di Madonna Laura da ciò non
l’avesse talor desvialo? Non vi nomino i chiari ingegni che sono ora al mondo,
e qui presenti, che ogni di partoriscono qualche nobil fruito , e pur pigliano
subjelto solamenle dalle !;ellezze o virtù delle donne, fedele che Salomone,
volendo t cri vere mislicamenle cose altissime e divine, per coprirle (l’un
grazioso velo Anse un ardente ed affettuoso dialogo d'uno iuamoralo con la sua
donna, parendogli non poter trovar «jua giù Ira noi similitudine alcuna più
conveniente o confor- me alle cose divine, che l’amor verso le donne; ed in tal
modo volse darci un poco d’odor di quella divinità, che esso e per scienza e
per grazia più che gli altri conoscea. Però non bisognava, signor Gasparo,
disputar di questo, o almen con tante parole: ma voi col conlradire alta verità
avete im- pedito, che non si sieno intese miirallre coso bolle ed impor- tanti
circa la perfezion della Donna di Palazzo. Rispose il signor Gaspabo: Io credo
che allro non vi si pos.sa dire; pur .se a voi i>arc che il signor Magnifico
non l’abbia adornala a bastanza di buone condizioni, il difollo non è stato il
suo. - ::i by ('- > LIBRO TERZO
219 ma di dii ha fallo che più virtù non siano al mondo ; percfaò
esso le ha dale tutte quelle che vi sono. — Disse la signora Dcchkssa ridendo;
Or vedrete, che ’l signor Magnifico par ancor ne ritroverà qualche altra. —
Rispose il Masnifico: In vero, Signora, a me par d'aver detto assai, e, quanto
per me, contenlomi di questa mia Donna; e se questi signori non la voglion cosi
falla, lassinla a me. — LUI. Quivi tacendo ognuno, disse messer Federico:
Signor Magnifico, per stimolarvi a dir qualche altra cosa voglio pur farvi una
domanda circa quello che avete voluto che sia la principal professione della
Donna di Palazzo, ed è questa: ch’io desidero intendere, come ella debba
interte- nersi circa una particolarità che mi par importantissima ; chè, benché
le eccellenti condizioni da voi attribuitele includino ingegno, sapere,
giudicio, desterilà, modestia, e tanl’ altre virtù, per le quali ella dee
ragionevolmente saper intertenere ogni persona e ad ogni proposito, estimo io
però che più che alcuna altra cosa le bisogni saper quello che appartiene ai
ragionamenti d’amore ; perchè, secondo che ogni gentil cava- liero usa per
instrumento d’acquistar grazia di donne quei nobili esercizii, altilalure e bei
costumi che a verno nominali a ‘questo effetto adopra medesimamente le parole;
e non solo quando è astretto da passione, ma ancora spesso per far onore a
quella donna con cui parla ; parendogli che ’l mo etrar d’amarla sia un
testimonio che ella ne sia degna, e che la bellezza e meriti suoi sian tanti,
che sforzino ognuno a servirla. Però vorrei sapere, come debba questa donna
circa tal proposito interfenersi discretamente, e come rispondere a ehi l’ama
veramente, e come a chi ne fa dimoslrazion falsa; e se dee dissimular
d’intendere, o corrispondere, o rifiuta- re, e come governarsi.— LIV.
Allor il signor Magnifico, Bisogneria prima, dis- se, insegnarle a conoscer
quelli che simulan d’amare, e quelli che amano veramente; poi, del
corrispondere in amore o no, credo che non si debba governar per voglia
d’altrui, che di sé stessa. — Disse messer Federico: Insegnatele adunque quai
siano i più certi e sicuri segni per discernere l’amor falso dal vero , e di
qnal testimonio ella si debba contenUr per Digitized by
Googlr 220 IL CORTEGIANO. esser ben chiara
dell’ amor^ mostratole. — Rispose ridendo il Magnifico: Io non lo so, perchè
gli uomini oggidì sono tanto astuti, che fanno infinite dimostrazion false, e
talor piangono quando hanno ben gran voglia di ridere; però bisogneria
mandargli all’ Isola Ferma, sotto l’arco dei leali innamorati. Ma acciò che
questa mia Donna, della quale a me convien aver particolar proiezione per esser
mia creatura, non in- corra in quegli errori eh’ io ho veduto incorrere moli
altre, io direi ch’ella non fosse facile a creder d’esser amata; nè facesse
come alcune, che non solamente non mostrano di non intendere chi lor parla
d’amore, ancora che coperta- mente, ma alla prima parola accettano tutte le
laudi che lor son date, ovver le negano d’un certo modo, che è più pre- sto un
invitare d’amore quelli coi quali parlano, che ritrarsi. Però la maniera, dell’
interlenersi nei ragionamenti d amore, ' eh’ io voglio che usi la mia
Donna di Palazzo, sarà il rifiu- tar di creder sempre, che chi le parla
d'amore, 1 ami però, e se quel gentiluomo sarà, come pur molli se ne trovano,
pre- suntuoso, e che le parli con poco rispetto, essa gli darà tal risposta,
ch’el conoscerà chiaramente che le fa dispiacere; se ancora sarà discreto, ed
usarà termini modesti e parole d’amore copertamente, con quel gentil modo che
io credo che faria il Corlegiano formalo da questi signori, la donna mostrerà
non l’intendere, e tirerà le parole ad altro signifi- cato, cercando sempre
modestamente, con quello ingegno e prudenza che già s’ è dello convenirsele,
uscir di quel pro- posito. Se ancor il ragionamento sarà tale, eh’ ella non
possa simular di non intendere, piglierà il lutto' come iier burla, mostrando
di conoscere che ciò se le dica più presto per onc^ varia che perchè cosi sia,
estenuando i meriti suoi, ed attri- buendo a cortesia di quel gentiluomo le
laudi che esso le da- rà; ed in tal modo si farà tener per discreta, e sarà più
sicura dagl’ inganni. Di questo modo |>armi che debba inler- tenersila Donna
di Palazzo circa i rasionamcnli d’amore.— LV. Allora messer Federico, Signor
Magnifico, disse, voi ragionate di questa cosa, come che sia necessario che
lutti quelli che parlano d’amore con donne dicano le bugie, e cer- chino
d’ingannarle; il che se così fosse, direi che i vostri do-
L.'fQitiZGd by Ct» ■ LIBRO TERZO. 221
comenti fossero buoni ; ma se questo cavalier che interliene ama veramente, e
sente quella passion che tanto affligge talor i cori umani, non considerate voi
in qnal pena, in qual cala- mità e morte lo ponete, volendo che la donna non
gli creda mai cosa che dica a questo proposito? Dunque i scongiuri, le lacrime
e tanl’ altri segni , non debbono aver fona alcuna? Guardale, signor Magnifico,
cbe non si estimi che, olire alia naturale crudeltà che hanno in sé molte di
queste donne, voi ne insegnale loro ancora di più. —Rispose il Magnifico*
Io ho dello non di chi ama, ma di chi interliene con ragio- namenti amorosi,
nella qual cosa una delle più necessarie condizioni è, che mai non manchino
parole; e gl’inamorali veri, come hanno il core ardente, così hanno la lingua
fred- da, col parlar rotto, e subito silenzio; però forse non saria falsa
proposizione il dire : Chi ama assai , parla poco. Pur di questo credo che non
si possa dar certa regola, per la diver- 9ità dei costumi degli uomini ; nè
altro dir saprei, se non che la donna sia ben cauta, e sempre abbia a memoria,
cbe con molto minor pericolo posson gli nomini mostrar d’amare, che le donne.
— LVI. Disse il signor Gaspaeo ridendo : Non volete voi signor Magnifico,
che questa vostra così eccellente Donna essa ancora ami , almen quando conosce
veramente esser amata? Atteso che se ’l Cortegiano non fosse redamato, non è
già credibile che continuasse in amare lei; e cosi le man- cheriano molte
grazie, e massimamente quella servitù e ri- verenza, con la quale osservano e
quasi adorano gli amanti la virtù delle donne amate — Di questo, rispose il
Magnifi- co, non la voglio consigliare io; dico ben che lo amar come voi ora
intendete estimo che convenga solamente alle donno ' non maritate ; perchè
quando questo amore nou può termi- nare in matrimonio, è forza che la donna
n’abbia sempre quel remorso e stimolo che s’ha delle cose illicite, e si metta
a pericolo di macular quella fama d’onestà che tanto l’im- porta. — Rispose
allora messer Federico ridendo: Questa vo- stra opinion, signor Magnifico, mi
par mollo austera, e penso che l’abbiate imparata da qualche predicalor, di
quelli che * riprendono le donne inam orale de’ secolari per averne essi
-to’ Digilized by GOogle IL COHTEeiANO.
22“2 miglior parte ; e parmi che imponiate troppo dare leggi alle
maritate, perchè molte se ne trovano, alle quali i mariti senza causa portano
grandissimo odio, e le ofTendono grave- mente, talor amando altre donne, talor
facendo loro tutti i dispiaceri che sanno imaginare; alcune sono dai padri
mari- tale per forza a vecchi, infermi, schifi e stomacosi, che le fan vivere
in continua miseria. E se a queste tali fosse licito fare il divorzio, e
separarsi da quelli co’ quali sono mal con- giunte, non saria forse da
comportar loro che amassero altri che ’l marito; ma quando, o per le stelle
nemiche, o per la diversità delle complessioni, o per qualche altro acci-
«lenle, occorre che nel letto, che dovrebbe esser nido di concordia e d’amore,
sparge la maledetta furia infernale il seme del suo veneno, che poi produce lo
sdegno, il so- spetto e le pungenti spino dell’ odio che tormenta quelle
infelici anime, legato crudelmente nella indissolubil ca- tena insino alla
morte: perchè non volete voi, che a quella donna sia licito cercar qualche
refrigerio a cosi duro fla- gello, e dar ad altri quello che dal marito è non
solamente sprezzalo, ma aborrilo? Penso ben, che quelle che hanno i mariti
convenienti, e da essi sono amale, non debbano fargli ingiuria; ma l’ altre,
non amando chi ama loro, fanno ingiuria a sè stesse. — Anzi a sè stesse fanno
ingiuria amando altri che il marito, rispose il Magnifico. Pur, perchè molte
volte il non amare non è in arbitrio nostro, se alia Donna di Palazzo occorrerà
questo infortunio, che l’odio del marito o l’amor d’altri la induca ad amare,
voglio che ella ninna altra cosa allo amante conceda eccetto che l’animo; nè
mai gli faccia dimostrazion alcuna certa d’amore, nè con parole, nò con gesti,
nò per altro modo, talché esso possa esserne sicuro. — LVIl. Allora
messer Robebto da Bari, pur ridendo. Io. <lisse, signor MagniGco, m’appello
di questa vostra senten- za, e penso che arerò molti compagni ; ma poiché pur
vo- lete insegnar questa rusticità, per dir cosi, alle maritate, vo- lete voi
che le non maritale siano esse ancora cosi crudeli e discorlesi? e che non
compiacciano almen in qualche cosa i loro amanti? — Se la mia Donna di Palazzo,
rispose il signor Digitized by Googic LlBnO TERZO.
225 MagiwJCo, non sara maritala, avendo d’amare, voglio che ella
ami ano col qaale possa marilarsi ; né repnlarò già errore che ella gl* faccia
qaalche segno d amore: della qual cosa vo- glio insegnarle nna regola
aniversale con poche parole, acciò che ella possa ancora con poca fatica
tenerla a memoria ; e questa è, che ella faccia latte le dimostrazioni d’amore
a chi l’ama, eccetto quelle che potessero indur nell’ animo del- l’amante
speranza di conseguir da lei cosa alcuna disonesta. Ed a questo bisogna molto
avvertire, perchè è uno errore dove incorrono infinite donne, le quali per
l’ordinario niu- n’ altra cosa desiderano più che Tesser belle : e perché lo
avere molti inamorati ad esse par testimonio della lor bellezza, mettono ogni
studio per guadagnarne più che possono ; però scorrono spesso in costumi poco
moderati, e, lasciando quella modestia temperala che tanto lor si conviene,
usano certi sguardi procaci, con parole scurrili ed alti pieni d’impuden- za,
parendo lor che per questo siano vedute ed udite volon- lieri, e che con tai
modi si facciano amare: il che è falso; perchè le dimostrazioni che si fan loro
nascono d’nn appe- tito mosso da opinion di facilità, non d’amore. Però voglio
che la mia Donna di Palazzo non con modi disonesti paja quasi che s’offerisca a
chi la vuole, ed uccelli più che può gli occhi e la volontà di chi la mira, ma
coi merili e virtuosi costumi suoi, con la venustà, con la grazia, induca nell’
ani- mo di chi la vede quello amor vero che si deve a (atte le cose amabili, e
quel rispetto che leva sempre la speranza di chi pensa a cosa disonesta. Colui
adunque che sarà da (al donna amato, ragionevolmente dovrà contentarsi d’ogoi
mi- nima dimostrazione, ed apprezzar più da lei un sol sguardo con affetto
d’amore, che Tessere in tutto signor d’ogni altra; ed io a cosi fatta Donna non
saprei aggiunger cosa alcuna, se non che ella fosse amata da cosi eccellente
Cortegiano come hanno formato questi signori, e che essa ancor amasse lui,
acciò che e l’uno e T altro avesse totalmente la sua per- fezione. —
LVIII. Avendo infin qui detto il signor Magnifico, la- ccasi ; quando il signor
Gasparo ridendo, Or, disse, non po- trete già dolervi che ’I signor Magnifico
non abbia formalo 224 IL CORTEGIANO.
! ì { I I f la Donna di
Palazzo eccellentissima ; e da mo, se una lai se ne trova, io dico ben che ella
merita esser estimata eguale al Cortegiano. — Rispose la signora Emilia: Io
m’obligo tro- varla, sempre che voi troverete il Cortegiano. — Soggiunse messer
Roberto : Veramente negar non si può, che la Donna formata dal signor MagniGco
non sia perfettissima; nientedi- meno in queste ultime condizioni appartenenti
allo amore parmi pur che esso l’abbia fatta un poco troppo austera,
massimamente volendo che con le parole, gesti e modi suoi ella levi in tutto la
speranza allo amante, e lo confermi più che ella può nella disperazione ; chè,
come ognun sa, li de- siderii umani non si estendono a quelle cose, delle quali
non s’ha qualche speranza. £ benché già si siano trovate alcune donne, le
quali. Torsi superbe per la bellezza e valor loro, la prima parola che hanno
delta a chi lor ha parlato d’amore è stata che non pensino aver mai da lor cosa
che vogliano, pur con lo aspetto e con le accoglienze sono lor poi state un
poco più graziose, di modo che con gli alti benigni hanno temperato in parte le
parole superbe; ma se questa Donna e con gli alti e con le parole e coi modi
leva in lutto la speranza, credo che ’l nostro Cortegiano, se egli sarà savio,
non l’amerà mai, e cosi essa averà questa imperfezion, di trovarsi senza
amante. — LIX. Allora il signor Magnifico, Non voglio, disse, che la mia
Donna di Palazzo levi la speranza d’ogni cosa, ma delle cose disoneste, le
quali , se ’l Cortegiano sarà tanto cor- tese e discreto come 1’ hanno formalo
questi signori, non sofamenle non le spererà, ma pur non le desiderarà; perchè
se la bellezza, i cosluAii, l’ingegno, la bontà, il sapere, la modestia, e
tante altre virtuose condizioni che alla donna avemo date, saranno la causa
dell’ amor del Cortegiano verso lei, necessariamente il fin ancora di questo
amore sarà vir- tuoso: e se la nobilitò, il valor nell’arme, nelle lettere,
nella musica, la gentilezza. Tesser nel parlar, nel conversar pien di fante
grazie, saranno i mezzi coi quali il Cortegiano acquistarà T amor della donna,
bisognerà che ’l fin di quello amore sia della qualità che sono i naezzi per li
quali ad esso si perviene; olirà che, secondo che al mondo si trovano di-
by ijOOglv LIBRO TERZO. 22o verse maniere
di t>®Hezze, cosi si trovano ancora diversi dc- eiderii d’ uomini ; e però
iiitervien che molli, vedendo una donna di quella bellezza grave, che andando,
stando, mot- leguiando, scherzando, e facendo ciò che si voglia, tempera sempre
talmente tutti i modi suoi, che induce una certa ri- verenza 'a chi la mira, si
spaventano, nè osano servirle* e più presto, tratti dalla speranza, amano
quelle vaghe e lusin- ghevoli, tanto delicate e tenere, che nelle parole, negli
atti e nel mirar mostrano una certa passion languidelta, che pro- mette pAter
facilmente incorrere e convertirsi in amore. Al- cuni, per esser sicuri
dagl’inganni, amano certe altre tanto libere e degli occhi e delle parole e dei
movimenti, che fan ciò che prima lor viene in animo, con una certa semplicità
che non nasconde i pensicr suoi. Non mancano ancor molli altri animi generosi,
i quali, parendo loro che la virtù con- sista circa la ditlìcollà, e che troppo
dolce vittoria sia il vincer quello che ad altri pare inespugnabile, si voltano
fa- cilmente ad amar lo bellezze di quelle donne, che negli oc- chi, nelle
parole e nei modi mostrano più austera severità che 1’ altre, per far
testimonio che ’l valor loro può sforzare un animo ostinato, e indur ad amar
ancor le voglie ritroso e rubelle d’ amore. Però questi tanto conQdenli di sé
stessi perchè si tengono securi di non lasciarsi ingannare, amano ancor
volentieri certe donne, che con sagacità ed arte pare che nella bellezza
coprano mille astuzie; o veramente al- cun’allre, che hanno congiunta con la
bellezza una maniera sdegnosetta di poche parole, pochi risi, con modo quasi
d’ap- prezzar poco qualunque le miri o le serva. Trovansi. poi certi altri, che
non degnano amar se non donne che ncl- r aspetto, nel parlare, ed in lutti i
movimenti suoi, portino tutta la leggiadria, tulli i gentil costumi, tutto ’l
sapere e tutte le grazie unitamente cumulale, come un sol fior com- posto di
tulle le eccellenze del mondo. Sicché, se la mia Donna di Palazzo averà
carestia di quegli amori mossi da mala speranza, non per questo reslarà senza
amante; perchè non le mancberan quei che saranno mossi e dai meriti di lei, e
dalla contìdenza del valor di sé stessi, per lo quale si cono- sccran degni d’
essere da lei amali. — Digilized by 226 IL
CORTEGIANO. LX. Messer Roberto por contraddicea, ma la sifirnora
Dgcuessa gli diede il torlo, confermando la ragion del signor Magnifico ; poi
soggiunse : Noi non abbiam causa di dolersi del signor MagniGco, perché in vero
estimo che la Donna di Palazzo da lui formata possa star al paragon del
Cortegia- no, ed ancor con qualche vantaggio; perché le ha insegnalo ad amare,
il che non han fallo questi signori al suo Corte- giano. — Allora 1’ Unico
Aretino, Ben é conveniente, disse, insegnar alle donne lo amare, perchè rare
volle ho io veduto alcuna che far lo sappia: ché quasi sempre tolte accompa-
gnano la lor licllezza con la crudeltà ed ingratitudine verso quelli che più
fedelmente le servono, e che per nobililà, gen- tilezza e virtù merilariano
premio de’ loro amori; e spesso poi si danno in preda ad uomini sciocchissimi e
vili e da poco, e che non solamente non le amano, ma le odiano. Però, per
schifar questi cosi enormi errori, forai era ben in- segnare loro prima il far
elezione di chi meritasse essere amalo, e poi lo amarlo; il che degli uomini
non é necessa- rio, che pur troppo per sé stessi lo sanno: ed io ne posso es-
ser buon testimonio; perchè lo amare a me non fu mai inse- gnalo, se non dalla
divina bellezza e divinissimi costumi d’ona Signora, talmente che nell’arbitrio
mio non è stato il non adorarla, nonché eh’ io in ciò abbia avuto bisogno
d’arleo maestro alcuno; e credo che'l medesimo intervenga a tutti quelli che
amano veramente: però piuttosto m con- verria insegnar al Cortegiano il farsi
amare, che lo amare. — LXI. Allora la signora Emilia, Or di questo adunque
ragionale, disse, signor Unico. — Rispose I’ Unico: Panni che la ragion
vorrebbe che col servire e compiacer le donne s’acquistasse la lor grazia; ma
quello di che esse si tengon servite e compiaciute, credo che bisogni impararlo
dalle me- desime donne, le quali spesso desideran cose tanto strane, che non è
uomo che le imaginasse, e talor esse medesime non sanno ciò che si desiderino;
perciò è bene che voi, Signora, che sete donna, o ragionevolmente dovete saper
quello che piace alle donne, pigliate questa fatica, per far al mondo una tanta
utilità. — Allor disse la signora Emilia: Lo esser voi gratissimo
universalmente alle donne, è buono ar- UBRO TERZO.
227 momento che sappiate lutti i modi per U qnaii s’ acquista la
lor grazia; però è pur conveniente che voi l’insegnate Signora, rispose
1’ U«ico, io non saprei dar ricordo più utile ad uno amante, che i procurar che
voi non aveste antorìtà con quella donna, la grazia della quale esso cercasse;
per- chè qualche buona condizione, che pur è parato al mondo talor che in me
sia, col più sincero amore che fosse mai, non hanno avuto tanta forza di far
eh’ io fossi amato, quanta voi di far che fossi odiato. — LXII. Rispose
allora la signora Emu.ià: Signor Unico, guardimi Dio pur di pensar, non che
operar mai, cosa perchè foste odiato ; chè, oltre ch’io farei quello che non
debbo, sa- rei estimata di poco giudici©, tentando lo impossibile; ma io,
poiché voi mi stimolate con questo modo a parlare di quello che piace alle
donne, parlerò; e se vi dispiacerà, da- tene la colpa a voi stesso. Estimo io
adunque, che chi ha da esser amato, debba amare ed esser amabile, e che queste
due cose bastino per acquistar la grazia delle donne. Ora, per rispondere a
quello di che voi m’accusale, dico che ognun sa e vede che voi siete
amabilissimo ; ma che amiate cosi sinceramente come dite sto io assai dubiosa,
e forse an- cora gli altri ; perchè l' esser voi troppo amabile, ha causato che
siete stato amato da molte donne, ed i gran flumi divisi in più parti divengono
piccoli rivi; cosi ancora l’amor diviso in più che in un objelto, ha poca
forza: ma questi vostri con- tinui lamenti, ed accusare in quelle donne che
avete servite la ingratitudine, la qual non è verìsimile, atteso tanti vostri
meriti, è una certa sorte di secrelezza, per nasconder le gra- zie, i contenti
e piaceri da voi conseguiti in amore, ed assi- curar quelle donne che v’ amano
e che vi si son date in pre- da, che non le publichiale; e però esse ancora si
contentano che voi cosi apertamente con altre moslriale amori falsi, per
coprire i lor veri : onde se quelle donne, che voi ora mostrale' d’amare, non
son cosi facili a crederlo come vorreste, inter- viene perché questa vostra
arie in amore comincia ad esser conosciuta, non perch’ io vi faccia odiare. —
LXlll. Allori] signor Umeo, Io, disse, non voglio allrv* meoti tentar di
confutar le parole vostre, perchè ormai par- — ■.©igitizecl
by"G6ogle IL CORTEGIANO. 228 mi cosi
fatale il non esser credulo a me la verità, come l’es- ger credulo a voi la
bugìa. — Dite pur, signor Unico, rispose la Emilia, che voi non amate così come
vorreste che fosse credulo; che se amaste, tulli i desiderii vostri
sariano di conipi'ieer la donna amata, e voler quel medesimo che 03<;a
vuole: chè questa è la legge d’amore; ma il vostro tanto dolervi di lei denota
qualche inganno, come ho detto, o vera- mente fa testimonio che voi volete
quello che essa non vuole. yVnzi» disse il signor Umco, voglio io ben
quello che essa vuole: che è argomento ch’io l’amo; ma dolgomi perchè
essa non vuol quello che voglio io: che è segno che non mi ama, secondo la
medesima legge che voi avete allegata. — Rispose la signora Emilia; Quello che
comincia ad amare, deve an cora cominciare a compiacere ed accommodarsi
totalmente alle voglia della cosa amala, e con quelle governar le sue; e far
che i propri! desiderii siano servi, e che l’anima sua isicssa sia come
obediente ancilla, nè pensi mai ad altro che a trasformarsi, se possibil fosse,
in quella della cosa amala, e questo reputar per sua somma felicità; perchè
cosi fan quelli che amano veramente. — Appunto la mia somma felicità, disse il
signor Unico, sarebbe se una voglia sola governasse la sua e la mia anima. — A
voi sta di farlo, rispose la si- gnora Emilia- Allora messer Bernardo,
interrompendo, Certo ^ disse che chi ama veramente, tutti i suoi pensieri,
senza che d’aùri gl* mostralo, indrizzi^a servire e compiacere la donna amala?
ma perché talor queste amorevoli servitù non son ben conosciute, credo che,
oltre allo amare e ser- vire sia necessario fare ancor qualche altra
dimostrazione di questo amore tanto chiara, che la donna non possa dissimular
di conoscere d’essere amata ; ma con tanta mode- stia però, che non paja che se
le abbia poca riverenza. E perciò voi, Signora, che avete cominciato a dir come
1 ani- ma dello amante dee essere obediente ancilla alla amata, in- segnate
ancor, di grazia, questo secreto, il quale mi pare importantissimo. — Bise
messer Cesare, e disse: Se lo amante è tanto modesto che abbia vergogna di
dirgliene, scrivagliele. — Soggiunse la signora Emilia; Anzi, se è tanto
discreto ro- Diail ized bv Goo libro terzo.
229 me conviene, prima «he lo faccia inleodere aita donna, de- vesi
assecurar di non offenderla. — Disse allora il signor Gii- spABo: A tutte le
donne piace Tesser pregate d’amore, ancor che avessero intenzione di negar
quello che loro si domanda. — Rispose il magnifico Juliano: Voi v’ingannate
mollo; nè io consigliarci il Cortegiano che usasse mai questo termine, se non
fosse ben certo di non aver repulsa. — LXV. E che cosa deve egli adunque
fare? — disse il signor Gasparo. Soggiunse il Magnifico: Se pur vuole scrivere
o par- lare, farlo con tanta modestia e cosi cautamente, che le pa- role primo
tentino T animo, e tocchino tanto ambiguamente la volontà di lei, che le
lascino modo ed un certo esito di po- ter simulare di non conoscere, che quei
ragionamenti impor- tino amore, acciò che se trova difficoltà possa ritrarsi, e
mo- strar d’aver parlato o scritto d’altro fine, per goder quelle domestiche
carezze ed accoglienze con sicurtà, che spesso le donne concedono a chi par
loro che le pigli per amicizia; poi le negano, subito che s’accorgono che siano
ricevute pei- di- moslrazion d’amore. Onde quelli che son troppo precipiti, e
si avventurano cosi prosunluosamente con certe furie ed osfi- nazioni, spesso
le perdono, e meritamente; perché ad ogni nobil donna pare sempre di essere
poco estimata da chi senza rispetto la ricerca d’amore prima che T abbia
servita. LXVl. Però, secondo me, quella via che deve pigliar il
Cortegiano per far noto Tamor suo alla Donna parrai che sia il mostrargliele
coi modi più presto che con le parole; chè veramente talor più affetto d’amor
si conosce in un sospiro in un rispetto, in un timore, che in mille parole; poi
far che gli occhi siano que’fldi messaggieri, che portino Tambasciale del core;
perchè spesso con maggior efficacia raostran quello che dentro vi è di
passione, che la lingua propria o lettere o altri messi: di modo che non
solamente scoprono i pensieri, ma spesso accendono amore nel cor della persona
amata; perchè que’vivi spirti che escono per gli occhi, per esser ge- nerati
presso al core, entrando ancor negli occhi, dove sono indrìzzati , come saetta
al segno , naturalmente penetrano al core come a sua stanza, ed ivi si
confondono con quegli altri spirli, e, con quella sottilissima natura di sangue
che hanno 20 IL CORTEGIANO. 230 seco,
infeUano il sangue vicino al core, dove son pervenuti,- e lo riscaldano e
fannolo a sè simile, ed alto a ricevere la impression di quella imagine che
seco hanno portata; onde a poco a poco andando e ritornando questi messaggieri
la via ]>cr gli occhi al core, e riportando l’esca e ’l focile di bellezza e
di grazia, accendono col vento del desiderio quel foco che tanto arde, e mai
non finisce di consumare, perchè sempre gli apportano materia di speranza per
nutrirlo. Però ben dir si può, che gli occhi siano guida in amore, massimamente
se sono graziosi e soavi; neri di quella chiara e dolce negrezza, ovvero
azzurri; allegri e ridenti, e cosi grati e penetranti nel mirar, come alcuni,
nei quali par che quelle vie che danno esito ai spiriti siano tanto profonde,
che per esse si vegga insino al core. Gli occhi adunque stanno nascosi, come
alla guerra soldati insidiatori in aguato,- e se la forma di tutto ’l corpo è
bella e ben composta, tira a sè ed alletta chi da lon- tan la mira, fin a tanto
che s’accosti; e subito che è vicino, gli occhi saettano, ed atTatturano come
venefici; e massima- mente quando per dritta linea mandano i raggi suoi negli
oc- chi della cosa amata in temiK) che essi facciano il medesimo; pierchè i
spirili s’incontrano, ed in quel dolce intoppo l’un piglia le qualità
dell’altro, come si vede d’un occhio infer- mo, che guardando fisamente in un
sano gli dà la sua in- fermità: sicché a me pare che ’l nostro Cortegiano possa
di questo modo manifestare in gran parte l’amor alla sua Donna. Vero è che gli
occhi, se non son governali con arte, molte volle scoprono più gli amorosi
desiderii a cui l’uom men vor- ria, perchè fuor per essi quasi visibilmente
traluceno quelle ardenti passioni, le quali volendo ramante palesar solamente
alla cosa amata, spesso palesa ancor a cui più desiderarebbe nasconderle. Però
chi non ha perduto il fren della ragione si governa cautamente, ed osserva i
tempi, i lochi, e quando Ikisogna s’aslien da quel cosi intento mirare, ancora
che sia dolcissimo cibo; perchè troppo dura cosa è un amor publico. LWII.
Rispose il conte Lodovico: Talor ancora l’esser publico non nuoce, perchè in
tal caso gli uomini spesso esti- mano che quegli amori non tendano al fine che
ogni amante desidera, vedendo che poca cura sì ponga per coprirli, nè
Digitized by Google LIBHO TiìflZO. 231 jj
faccia caso che si sappiano o no; e però col non negar si mendica l*uom una
certa libertà di poter publicamente par! c* se“*a sospetto con la
cosa^amata; il che non av- viene a quegli che cercano d’esser secreti,
perchè pare che speri"®» e siano ricini a qualche gran premio, il quale
non >^riaa® che altri risapesse. Ho io ancor veduto nascere ar- denti®S‘*“®
amore nel core d’una donna verso uno, a cui per póma non avea pur una minima
affezione, solamente per in- tendere che opinione di molti fosse che s’amassero
insieme; e causa di questo credo io che fosse, che quel giudicio cosi uni-
versale le parca bastante testimonio per farle credere che co- tal fosse degno
dell’amor suo, e parea quasi che la fama le por- tasse l’ambasciate per parte
dell’amante molto più vere e più degne d’esser credute, che nonaria potuto far
esso medesimo con lettere o con parole, ovvero altra persona per lui. Però
questa voce publica non solamente talor non nuoce, ma giova. —Rispose il
Magnifico : Gli amori de’ quali la fama è ministra son assai pericolosi di far
che 1’ uomo sia mostralo a dito- e però chi ha da camminar per questa strada
cautamente bi- sogna che dimostri aver nell’ animo mollo minor foco 'che non
ha, e contentarsi di quello che gli par poco, e dissimu- lar i desiderii, le
gelosie, gli affanni ei piaceri suoi, e rider spesso con la bocca quando il cor
piange, e mostrar d’esset prodigo di quello di che è avarissimo ; e queste cose
son tanto difficili da fare, che quasi sono impossibilL però se ’l nostro
Corlegiano volesse usar del mio consiglio, io lo confor- tarci a tener secreti
gli amor suoi. — LXVllI. Allora messer Bebnardo, Bisogna, disse, adun-
que che voi questo gli insegnate, e parmi che non sia dì piccola importanza;
perchè, oltre ai cenni, che talor alcuni cosi copertamente fanno, che quasi
senza movimento alcuno quella persona che essi desiderano nel volto e negli
occhi lor legge ciò che hanno nel core, ho io talor udito tra dui ina- morati
un lungo e libero ragionamento d’ amore, dal quale non poteano però i
circostanti intender chiaramente parli- cularilate alcuna, nè certificarsi che
fosse d’amore: e questo per la discrezione ed avvertenza di chi ragionava;
perchè, senza far dimostrazione alcuna d’ aver dls^^lacctc è’ essere
Digitized by Giioglc 252 IL COHTKGIANO.
I ascoltati, dicevano secretamente quelle sole parole che im-
portavano, ed altamente tutte 1’ altre, che si poteano accom- modare a diversi
propesiti. — Allora messer Fedebico, Il par- lar, disse, cosi minatamente di
queste avvertenze di secre- tezza, sarebbe uno andar drieto all’ infinito ;
però io vorrei piuttosto che si ragionasse un poco, come debba lo amante
mantenersi la grazia della sua donna, il che mi par molto piò necessario.
— LXiX. Rispose il Magnitico : Credo che que’ mezzi che vogliono per
acquistarla, vagliano ancor per mantenerla ; e tutto questo consiste in
compiacer la donna amala senza of- fenderla mai : però saria ditficile darne
regola ferma; perchè per infiniti modi chi non è ben discreto fa errori talora
che pajon piccoli, nientedimeno offendono gravemente l’animo della donna ; e
questo inlervien, più che agli altri, a quei che sono astretti dalla passione:
come alcuni, che sempre che hanno modo di parlare a quella donna che amano, si
lamen- tano e dolgono cosi acerbamente, e voglion spesso cose tanto
impossibili, che per quella importunità vengon a fastidio. Al- tri, se son
punti da qualche gelosia, si lascian di tal modo trapportar dal dolore, che
senza rìsguardo scorrono in dir mal di quello di chi hanno sospetto, e talor
senza colpa di colui, ed ancor della donna, e non vogliono eh’ ella gli parli,
o pnr volga gli occhi a quella parte ove egli è ; e spesso con questi modi non
solamente offendon quella donna, ma son causa eh’ ella s’ induca ad amarlo :
perché ’l timore che mostra talor d’avere uno amante, che la sua donna non
lasci lui per quell’auro, dimostra che esso si conosce inferior di me- riti e
di valor a colui, e con questa opinione la donna si move ad amarlo, ed,
accorgendosi che per mettergliele in disgrazia se ne dica male, ancor che sia
vero, non lo crede, e tuttavia l’ama più. — LXX. Allora messer Cesare
ridendo. Io, disse, confesso non esser tanto savio, che potessi astenermi di
dir male d’un mio rivale, salvo se voi non m’ insegnaste qualche altro mi-
glior modo da minarlo. — Rispose ridendo il signor Magni- fico : Dicesi in
proverbio, che quando il nemico è nell’ acqua inaino alla cintura, se gli deve
porger la mano, e levarlo del Digitized by Google LIBRO
TERZO. 233 pericolo ma quando v’è inaino al mento, mettergli il piede in
sul capo, e sommergerlo tosto. Però sono alcuni che que- sto fanno co’ suoi
rivali, e fin che non hanno modo ben si- curo di minargli, vanno dissimnlando,
e piuttosto si mostran loro amici che altrimenti; poi se la occasion s’
offerisce lor tale, che conosran poter precipitargli con certa ruìna, dicen-
done tutti i mali, o veri o falsi che siano, lo fanno senza ri servo, con arte,
inganni, e con tolte le vie che sanno imagi- nare. Ma perchè a me non piacerla
mai che ’l nostro Corte- giano usasse inganno alcuno, vorrei che levasse la grazia
deir amica al suo rivale non con altra arte che con l’ amare, col servire', e
con 1’ essere virtuoso, valente, discreto e mo- desto; in somma col meritar più
di lui, e con 1’ esser in ogni cosa avvertito e prudente, guardandosi da alcune
sciocchezze inette, nelle quali spesso incorrono molti ignoranti, e per di-
verse vie : chè già ho io conosciuti alcuni, che, scrivendo e parlando a donne,
usano sempre parole di Politilo, e tanto stanno in su la sottilità della
retorica, che quelle si diffidano di sé stesse, e si tengon per ignorantissime,
e par loro un’ora mill’anni finir quel ragionamento, e levarsegli da- vanti;
altri si vantano senza modo; altri dicono spesso cose che tornano a biasimo e
danno di sè stessi: come alcuni, dei quali io soglio ridermi, che fan
profession d’inamorati, e talor dicono in presenza di donne : Io non trovai mai
donna che m’ amasse ; — e non si accorgono che quelle che gli odono subito fan
giudicio che questo non possa nascere d’al- tra causa, se non perché non
meritino nè esser amati, nè pur l’acqua che bevono, e gli tengon per uomini da
poco, nè gli amerebbono per tutto l’oro del mondo; parendo loro che se gli
amassero sarebbono da meno che tutte l’ altre che non gli hanno amati. Altri,
per concitar odio a qualche suo rivale, son tanto sciocchi, che pur in presenza
di donne di- cono: Il tale è il più fortunato uomo del mondo ; che già non è
bello, nè discreto, né valente, nè sa fare o dire più che gli altri, e por
tutte le donile l’amano e gli eorron drieto;— e così mostrando avergli invidia
di questa felicità, ancora che colui nè in aspetto né in opere si mostri essere
amabile, fanno credere che egli abbia in sè qualche cosa secreta, per 20
* Digiiized by Google 234 IL CORTIGIANO.
la quale meriti l’amor di tante donne; onde quelle che di lui . aenton
ragionare di tal modo, esse ancora per questa credenza si movono molto più ad
amarlo. — LXXI. Rise allor il Conte Ludovico, e disse: Io vi pro- metto,
che queste grosserie non userà mai il Cortegiano di- screto per acquistar
grazia con donne. — Rispose messer Cs- siRE Gonzaga: Nè men queli’allra che a’
miei di usò un gentiluomo di molla estimazione, il qual io non voglio nomi-
nare per onore degli uomini. — Rispose la signora Duchessa: Dite almen ciò che
egli fece. — Soggiunse messer Cesare: Costui essendo amalo da una gran signora,
richiesto da lei venne secretamenle in quella terra ove essa era; e poiché la
ebbe veduta, e fu stato seco a ragionare quanto essa e ’l tempo comportarono,
partendosi con molle amare lacrime e sospiri, l>er testimonio dell’estremo
dolor ch’egli sentiva di tal parli- la, le supplicò ch’ella tenesse continua
memoria di lui; e poi soggiunse, che gli facesse pagar l’osteria, perchè
essendo stato richiesto da lei, gli parea ragione che della sua venula non vi
sentisse s{)esa alcuna. — Allora tutte le donne comin- ciarono a ridere, e dir
che costui era indegnissimo d’esser chiamalo gentiluomo; e molti si
vergognavano per quella ver- gogna che esso meritamente aria sentila, se mai
per tempo alcuno avesse preso tanto d’intelletto, che avesse potuto co- noscere
un suo cosi vitu|)croso fallo. Voltossi allor il signor Gaspar a messer Cesare,
e disse: Era meglio restar di nar- rar questa cosa per onor delle donne, che di
nominar colui jier onor degli nomini; che ben potete imaginare che buon
giutlicio avea quella gran signora, amando un animale cosi irrazionale, e forse
ancora che di molli che la servivano aveva eletto questo per lo più discreto,
lasciando adrieto e dando disfavore a chi costui non saria stalo degno
famiglio.— Rise il conto Ludovico, e disse: Chi sa che questo non fosse
discreto nell’allr® cose, e peccasse solamente in osterie? Ma molle volte por
soverchio amore gli uomini fanno gran sciocchez- ze; c se volete dir il vero,
forse che a voi lalor è occorso farne P'o d’una J^XXtl. Risjiose ridendo
messer Cesare: Per vostra fè, non scopriamo i nostri errori. — Pur bisogna
scoprirli, rispose UBBO terzo 235 il signor Gaspako, per
sapergli correggere; — poi soggiunse: Voi, signor MagniGco, or che ’l Corlegian
si sa guadagnare e mantener la grazia della sua signora, e tórla ai suo rivale,
sete debilor d’insegnaili a tener secreti gli amori suoi.— Ri- spose il
Magnifico: A me par d’aver detto assai: però fate mo che un altro parli di
questa secretezza. — Allora messer itemardo e tutti gli altri cominciarono di
nuovo a fargli in- stanza; e '1 Magnifico ridendo. Voi, disse, volete tentarmi;
troppo sete tutti ammaestrali in amore : pur, se desiderate saperne più, andate
e si vi leggete Ovidio. — E come, disse messer Bbbnardo, debb’ io sperare che i
suoi precetti vagliano in amore, poiché conforta e dice esser benissimo, che 1
uom in presenza della innamorata finga d’esser imbriaco? (vedete che bella
maniera d’acquistar grazia!) ed allega per un bel modo di far intendere, stando
a convito, ad una donna d’es- sere inamorato, lo intingere un dito nel vino, e
scriverlo in su la tavola. — Risposo il Magnifico ridendo : In que tempi non
era vizio. — E però, disse messer Bbrnardo, non dispia- cendo agii uomini di
qne’ tempi questa cosa tanto sordida, è da credere che non avessero cosi gentil
maniera di servir donne in amore come abbiam noi ; ma non lasciamo il pro-
posito nostro primo, d’insegnar a tener l’amor secreto. LXXllI. Allor il
Magnifico, Secondo me, disse, per tener l’amor secreto bisogna fuggir le cause
'che lo publica- no, le quali sono molle, ma una principale, che é il voler
esser troppo secreto, e non fidarsi di persona alcuna: perchè ogni amante
desidera far conoscer le sue passioni alla amala, ed essendo solo è sforzalo a
far molle più dimostrazioni e più etBcaci, che se da qualche amorevole e fedele
amico fosse ajutato; perchè le dimostrazioni che lo amante islesso £a j danno
molto maggior sospetto, che quelle che fa per inler-, nuDzii: e perchè gli
animi umani sono naturalmente curiosi, di sapere, subito che ano alieno
comincia a sospettare, mette tanta diligenza, che conosce il vero, e
conoscintolo, non ha rispetto di publicarlo, anzi talor gli piace; il che non
inter- viene dell’ amico, il qual, oltre che ajuti di favore e di con- siglio,
spesso rimedia quegli errori che fa il cieco inamora- to, e sempre procura la
secretezza, e provede a molle cose Digitized by Googic
236 ‘ It CORTEGIANO. alle quali esso proveder non può; olire cfae
grandissimo re- frigerio si sente dicendo le passioni e sfogandole con amico
cordiale, e medesimamente accresce mollo i piaceri il poter comunicargli.
— LXXIV. Disse allor il signor Gasparo: Un’altra causa publica molto più
gli amori clic questa. — E quale? — rispose il Magnifico. — Soggiunse il signor
Gaspar: La vana ambizione congiunta con pazzia e crudeltà delle donne, le
quali, come voi stesso avete detto, procurano quanto più possono d’aver gran
numero d’inaroorati, e tutti, se possibil fosse, vorriano che ardessero, c
fatti cenere, dopo morte tornassero vivi per morir un’altra volta; e benché
esse ancor amino, pur go- dono del tormento degli amanti, perchè estimano che
’l do- lore, le afflizioni e ’l chiamar ognor la morte, sia il vero testimonio
che esse siano amate, e possano con la loro bel- lezza far gli uomini miseri e
beali, c dargli morte e vita co- me loro piace; onde di questo sol cibo si
pascono, e tanto avide ne sono, che acciò che non manchi loro, non conten- tano
nè disperano mai gli amanti del tutto; ma per mante- nergli continuamente negli
affanni e nel desiderio usano una certa imperiosa austerità di minacce
mescolate con speran- za, e vogliono che una loro parola, un sguardo, un cenno
sia da essi riputalo per somma felicità; e per farsi tener pudiche e caste, non
solamente dagli amanti ma ancor da tutti gli altri, procurano che questi loro
modi asperi o discorlesi siano publicì, acciò che ognun pensi che, poiché cosi
mal trattano quelli che son degni d’essere amati, mollo pegtgio debbano trattar
gl’indegni: e spesso sotto questa credenza, pensandosi esser sicure con tal’
arte dall infa- mia , si giaccno tutte le notti con uomini vilissimi, e da esse
appena conosciuti, di modo che per godere delle calamità e continui lamenti di
qualche nobil cavaliere e da esse ama- lo, negano a sé stesse que’ piaceri che
forse con qualche escusa*'®" Potrebbono conseguire; e sono causa che ’l
po- vero amante per vera disperazion è sforzalo usar modi donde »' publica
quello che con ogni industria s’averia a tener secrelissimo. Alcun’ altre sono,
le quali se con inganni possono indurre molti a credere d’esser da loro amali,
nulri- Didilized b\ LIBRO TERZO. 237 scono Ira
essi le gelosie, col fa*" carezze e favore all’uoo in presenza dell’ altro
; e quando veggon che quello ancor che esse più amano già si confida d’csser
amato per le dimostra- zioni fattegli, spesso con parole ambigue e sdegni
simulali lo sospendono, e gli trafiggono il core, mostrando non curarlo e
volersi in tutto donare all’allro; onde nascono odii, inimi- cizie ed infiniti
scandali e mine manifeste, perchè forza è mostrar l’estrema passion che in tal
caso l’uom sente, ancor che alia donna ne risulti biasimo ed infamia. Altre,
non con- iente di questo solo tormento della gelosia, dopo che l’amante ha
fatto tulli i lestimonii d’amore e di fedel servitù, ed esse ricevuti l’hanno
con qualche segno di corrispondere in beni- volenza, senza proposito e quando
men s’aspetta cominciano a star sopra di sè, e mostrano di credere che egli sia
intie- pidito, e fingendo nuovi sospetti di non esser amate, accen- nano
volersi in ogni modo alienar da lui : onde per questi in- convenienti il
meschino per vera forza è necessitalo a ritor- nare da capo, • far le
dimostrazioni, come se allora comin- ciasse a servire; o tutto di passeggiar
per la contrada, e quando la donna si parte di casa accompagnarla alla chiesa
ed in ogni loco ove ella vada, non voltar mai gli occhi in al- tra parte: e
quivi si ritorna ai pianti, ai sospiri, allo star di mala voglia; e quando se
le può parlare, ai scongiuri, alle biasleme, alle disperazioni, ed a lutti quei
furori, a che gl’infelici inamorati son condotti da queste fiere, che hanno più
sete di sangue che le tigri. LXXV. Queste lai dolorose dimostrazioni son
troppo ve- dute e conosciute, e spesso più dagli altri che da chi le cau- sa ;
ed in tal modo in pochi di son tanto publiche, che non si può far un passo né
un minimo segno, che non sia da mille occhi notato. Intervien poi, che mollo
prima che siano tra essi i piaceri d’amore, sono creduti e giudicali da lutto
’l mondo, perchè esse, quando pur veggono che ramante già vicino alla morte,
vinto dalla crudeltà e dai strazi! usatigli delibera determinatamente e da
dovero di ritirarsi, allora cominciano a dimostrar d’amarlo di core, e fargli
tulli i pia- ceri, e donarsegli, acciò che essendogli mancalo quell’ ar- dente
desiderio, il frullo d’amor gli sia ancor men gralo, e DiùitizaJ
Googir 238 IL CORTEGIANO. ad esse abbia
minor obligazione, per far ben ogni cosa al contrario. Ed essendo già tal amore
notissimo, sono ancor in que’ tempi poi notissimi tutti gli etTetti che da quel
procedo- no; cosi restano esse disonorate, e lo amante si trova aver perduto il
tempo e le fatiche, ed abbreviatosi la vita negli affanni, senza frutto o
piacer alcuno; per aver conseguito i suoi desiderii non quando gli sariano
stati tanto grati che l’arian fatto felicissimo, ma quando poco o niente gli
apprez- zava, per esser il cor già tanto da quelle amare passioni mor-
tifìcato, che non tenea sentimento più per gustar diletto o contentezza che se
gli offerisse. — LXXVI. Allor il signor Ottaviano ridendo, Voi, disse,
siete stato cheto un pezzo e retirato dal dir mal delle donne; |K>i le avete
cosi ben tocche, che par che abbiale aspettato per ripigliar forza, come quei
che si tirano a drielo per dar maggior incontro ; e veramente avete torto, ed
oramai do- vreste e.sser mitigato. — Rise la signora Emilia, e rivolta alla
signora Duchessa, Eccovi, disse. Signora, che i nostri av- versarii cominciano
a rompersi e dissentir l’un dall’ altro. — Non mi date questo nome, rispose il
signor Ottaviano, per- ch’ io non son vostro avversario ; èromi lien
dispiaciuta que- sta contenzione, non perchè m’ increscesse vederne la vitto-
ria in favor delle donne, ma perchè ha indotto il signor (iasparo a calunniarle
più che non dovea, e ’l signor Magni- fico e messer Cesare a laudarle forse un
poco più che ’l de- bito ; oltre che per la lunghezza del ragionamento avemo
fierdulo d’intender moli’ altre belle cose, che restavano a dirsi del
Cortegiano. ; — Eccovi, disse la signora Emilia, che pur siete nostro
avversario; e perciò vi dispiace il ragionamento passato, nè vorreste che si
fosse formalo questa cosi eccel- lente Donna di Palazzo: non perchè vi fosse
altro che dire sopri! it Corlegiano, |)crchè già questi signori han dello
quanto sapeano, nè voi, credo, nè altri iwtrebhc aggiungervi I>iù cosa
alcuna; ma per la invidia che avete all’ onor delle donne-' — I^XXVII.
Certo è, risjiose il signor Oitaviano, che, ol- tre allo dette sopra il
Cortegiano, io ne desiderare! molle altre ; 1*“*’ P®'ché ognun si contenta eh’
ci sia tale, io ancora I Digitized by ^ -j
J LIBRO TERZO. 239 me ne contento; nè in
altra cosa lo malarei, se non in farlo un poco più amico delle donne che non è
il signor Gaspar, ma forse non tanto quanto è alcuno di questi altri
signori. Allora la signora Duchessa, Bisogna, disse, in ogni modo che noi
veggiamo, se l’ingegno vostro è tantoché basti a dar maggior perfezione al
Cortegiano, che non han dato questi 8/gnori. Però siate contento di dir ciò che
n’avete in animo: a/lrimenti noi pensaremo che nè voi ancora sappiate aggiun-
gergK più di quello che s’ è detto, ma che abbiate voluto de- Iraere alte laudi
della Donna di Palazzo, parendovi ch’ella sia eguale al Cortegiano, il quale
perciò voi vorreste che si credesse che potesse esser molto più perfetto che
quello che hanno formato questi signori. — Rise il signor Ottaviano, e disse:
Le laudi e biasimi dati alle donne più del debito hanno tanto piene l’orecchie
e l’animo di chi ode, che non han la- scialo loco che altra cosa star vi possa
; oltra di questo, se- condo me, l’ora è molto tarda. — Adunque, disse la
signora Duchessa, aspettando insino a domani aremo più tempo; e quelle laudi e
biasimi che voi dite esser stati dati alle donne dell’una parte e Tallra troppo
eccessivamente, frattanto usci- ranno dell’ animo di questi signori, di modo
che por saranno capaci di quella verità che voi direte Cosi parlando la
si- gnora Duchessa, levossi in piedi, e cortesemente donando licenza a
tutti, si ritrasse nella stanza sua più secreta, ed ognuno si fu a
dormire. Digitized by Google IL QUARTO LIBRO DEL
CORTEGIANO OH COTTO BlUJMàK ClSTIGUOm A MESSER ALFONSO ARIOSTO.
I Pensando io di scrivere i ragionamenli che la quarla sera dono le
narrale nei precedenti libri s’ebbero, sento tra Tarii diUrsi uno amaro
pensiero che nell’an.nao m. percu^ te e delle miserie umane e nostre sperarne
fallaci ncorde- vo’le mi fa; e come spesso la fortuna a mexzo il corso talor
presso al fine rompa i nostri fragili e vani disegni, talor U immerga prima che
pur veder da lontano possano il ^rto. ?o”namf aSunque a memoria che, non molto
tempo dapo che questi ragionamenli passarono, privò morte la casa nostra di tre
rarissimi gentiluomini, quando di p «nera età e speranza d’onore più fiorivano.
E di questi i pri- fu il signor Gaspar Pallavicino, il quale essendo stalo da “
- acuta infermità combattuto, e più che una volta ridotto all’estremo, benché
l’animo fosse di tanto vigore che per un rèm^i^enesse i spirili in quel corpo a
dispetto d. mor e pur ■n età mollo immatura forni il suo naturai corso; perdila
gra •lissima non solamente nella casa nostra, ed agli amici e iw- ««ti suoi, ma
alla patria ed a tutta la Lombardia. Non mollo resse mori messer Cesare
Gonzaga, il quale a tolti coloro aveano di lui notizia lasciò acerba e dolorosa
memoria A Ila sua morte; perchè, produccndo la natura cosi rare volle me fa
tali uomini, pareva pur conveniente che di questo tosto non ci privasse: chè
certo dir si può, che messer Cesare ci fosse appunto ritolto quando cominciava
a mostrar Digitized by Google LIBRO QUAUTO. 24]
di sé più che la speranza, ecj esser estimato quanto merita- vano le sue ottime
qualità; perchè già con molte virtuose fa- tiche avea fatto buon testimonio del
suo valore, il quale ri- splendeva , oltre alla nobilita del sangue, dell'
ornamento ancora delle lettere e d’arme, e d’ogni laudabjl costume; tal che,
per la bontà, per l’ingegno, per Tanimo e per lo saper suo non era cosa tanto
grande, che di lui aspettar non si po- tesse. Non passò molto, che messer
Roberto da Bari esso an- cor morendo molto dispiacer diede a tutta la casa;
perchè ragionevole pareva che ognun si dolesse della morte d’un giovane di
buoni costumi, piacevole, e di bellezza d’aspetto o disposizion delta persona
rarissimo, in complession tanto prosperosa e gagliarda quanto desiderar si
potesse. II. Questi adunque se vivuti fossero, penso che sariano giunti a
grado, che ariano ad ognuno che conosciuti gli avesse potuto dimostrar chiaro
argomento, quanto la Corte d Urbino fosse degna di lande, e come di nobili
cavalieri ornala; il che fatto hanno quasi tutti gli altri, che in essa creali
si so- no; chè veramente del Cavai Trojano non uscirono tanti si- gnori e
capitani , quanti di questa casa usciti sono uomini per virtù singolari, e da
ognuno sommamente pregiati. Chè, come sapete, messer Federico Frcgoso fu fatto
arcivescovo di Salerno; il conte Ludovico, vescovo di Bajous; il signor
Ottaviano, duce di Genova; messer Bernardo Bibiena, car- dinale di Santa Maria
in Portico; messer Pietro Bembo, se- cretano di Papa Leone; il signor MagniGco
al ducato di Ne- mours ed a quella grandezza ascese dove or si trova; il si-
gnor Francesco Maria Rovere, prefetto di Roma, fu esso ancora fatte duca d’
Urbino: benché molto maggior laude at- tribuir si possa alla casa dove nutrito
fu, che in essa sia riu- scito cosi saro ed eccellente signore in ogni qualità
di virtù come or si vede, che dello esser pervenuto al ducato d’Ur- bino; nè
credo che di ciò piccol causa sia stata la nobile compagnia, dove in continua
conversazione sempre ha ve- duto ed udito lodevoli costumi. Però parmi che
quella causa, o sia per ventura o per favore delle stelle, che ha cosi lun-
gamente concesso ottimi signori ad Urbino, pur ancora duri, e produca i
medesimi effetti ; e però sperar si può che ancor 21
Digitized by Google 212 IL CORTEGIANO.
la buona forlupa debba secondar tanto queste opere virtuose, che la
felicità della casa e dello stato non solamente non sia per mancare, ma più
presto di giorno in giorno per accre- scersi: e già se ne conoscono molti
chiari segni, tra i quali estimo il precipuo Tesserci stata concessa dal cielo
una tal signora, com’è la signora Eleonora Gonzaga, duchessa nuo- va; che se
mai furono in un corpo solo congiunti sapere, gra- zia, bellezza, ingegno,
maniere accorte, umanità, ed ogni altro gentil costume; in questa tanto sono
uniti, che ne risulta una catena, che ogni suo movimento di tutte queste condizioni
insieme compone ed adorna. Seguitiamo adunque i ragiona- menti del nostro
Cortegiano, con speranza che dopo noi non debbano mancare di quelli che piglino
chiari ed onorati esem- pii di virtù dalla Corte presente d’ Urbino, cosi come
or noi facciamo dalla passata. HI. Parve adunque, secondo che ’l signor
Gasparo Palla- vicino raccontar soleva, che ’l seguente giorno, dopo i ragio-
namenti contenuti nel precedente Libro, il signor Ottaviano fosse poco veduto;
perché molti estimarono che egli fosse re- tirato, per poter senza impedimento
pensar bene a ciò che diro avesse: però, essendo all’ora consueta ridottasi la
com- pagnia alla signora Duchessa, bisognò con diligenza far cer- car il signor
Ottaviano, il quale non comparse per buon spa- zio; di modo che molli cavalieri
e d.-imigclle della corte cominciarono a danzare ed attendere ad altri piaceri,
con opinion che per quella sera più non s’avesse a ragionar del Cortegiano. E
già tutti erano occupati, chi in una cosa chi in un’altra, quando il signor
Ottaviano giunse quasi più non aspettalo; e vedendo che messer Cesare Gonzaga
e’I signor Gaspar danzavano, avendo fatto riverenza verso la signora Duchessa,
disse ridendo: Io aspettava pur d’udir an- cor questa sera il signor Gaspar dir
qualche mal delle don- ne; ma vedendolo danzar con una, penso ch’egli abbia
fatto la pace con tutte; e piacemi che la lite o per dir meglio il ragionamento
del Cortegiano sia terminato cosi. — Termi- nalo non è già, rispose la signora
Dcciiessa; perch’ io non son cosi nemica degli uomini, come voi siete delle
donne; e perciò non voglio che ’l Cortegiano sia defraudalo del suo
LIBRO QUABTO. 243 debilo onore, c di quelli ornamenli che voi
stesso jersera gli prometteste; — e cosi parlando, ordinò che tutti, finita
quella danza, si mettessero a sedere al modo usato: il che fu fallo; e stando
ognuno con molla attenzione, disse il signor Ottà- viANo: Signora, poiché
l’aver io desiderato molt’altre buone qualità nel Cortegiano si batleggia per
proméssa ch'io le ab- bia a dire, son contento parlarne, non già con opinion di
dir tulio quello che dir vi si poria, ma solamente tanto che ba- sti per levar
dell’ animo vostro quello che jerscra opposto mi' fu, cioè, ch’io abbia così
dello piuttosto per delraere alle laudi della Donna di Palazzo, con far credere
falsamente che altre eccellenze si possano attribuire al Cortegiano, e con tal
arte fargliele superiore, che perchè cosi sia; però, peraccom- modarmi ancor
all’ora , che è più larda che non suole quando si dà principio al ragionare,
sarò breve. IV. Così, continuando il ragionamento di questi signori, il
qual in tutto approvo e confermo, dico, che delle cose che noi chiamiamo buone
sono alcune che semplicemente e per sè stesse sempre son buone, come la
temperanza, la fortezza, la sanità, e tutte le virtù che partoriscono
tranquillità agli animi; altre che per diversi rispetti e per lo fine al quale
s’ indrizzano son buone, come le leggi, la liberalità, le ric- chezze, ed altre
simili- Estimo io adunque, che ’I Cortegiano perfetto, di quel modo che
descritto l’ hanno il conte Ludo- vico e messer Federico, possa esser veramente
buona cosa, e degna di laude ; non però semplicemente nè per sè, ma per
rispetto del fine al quale può essere indrizzato : chè in vero se con l’essere
nobile, aggraziato e piacevole, ed esperto in tanti esercizii , il Cortegiano
non producesse altro fruito che r esser tale per sé stesso, non estimarsi che
per conse- guir questa perfezion di Cortegiania dovesse 1’ uomo ragio-
nevolmente mettervi tanto studio e fatica, quanto è neces- sario a chi la vuole
acquistare; anzi direi, che molle di quelle condizioni che se gli sono
attribuite, come il danzar, festeggiar, cantar e giocare, fossero leggerezze e
vanità, ed in un uomo di grado piuttosto degne di biasimo che di lau- de:
perchè queste attilature, imprese, motti, ed altre lai cose che appartengono ad
inlertcni menti di donne e d’amóri, an- Digitlzed by Google
IL COUTEGIANO. 244 cora che forse a moHi allri paja il
contrario, spesso non fanno altro che effeminar gli animi, corromper la
gioventù, e ri- durla a vita lascivissima; onde nascono poi questi effetti, che
’l nome italiano è ridotto in obbrobrio, nè si ritrovano se non pochi che osino
non dirò morire, ma pur entrare in un pericolo. E certo inHnitc altre cose sono,
le quali, mel- tendovisi industria e studio, partoririano molto maggior utilità
e nella pace e nella guerra, che questa tal Cortegiania per sè sola ; ma se le
operazioni del Cortegiano sono indirizzale a quel buon fine che debbono e eh’
io intendo, parmi ben , che non solamente non siano dannose o vane, ma
utilissi- me e degne d’ infinita laude. V. 11 fin adunque del perfetto
Cortegiano , del quale in- sino a qui non s’ è parlato , estimo io che sia il
guadagnarsi, per mezzo delle condizioni allrihuitegli da questi signori,
talmente la bcnivolenza e l’ animo di quel principe a cui serve, che possa
dirgli e sempre gli dica la verità d ogni cosa che ad esso convenga sapere,
senza timor o pericolo di dispiacergli; e conoscendo la mente di quello inclinata
a far cosa non conveniente, ardisca di conlradirgli, e col gen- til modo
valersi della grazia acquistata con le sue buone qua- lità per rimoverlo da
ogni intenzion viziosa, ed indurlo al cammìn della virtù; e cosi avendo il
Cortegiano in sè la bontà, come gli hanno attribuita questi signori, accompa-
gnata con la prontezza d’ ingegno e piacevolezza, e con la prudenza e notizia
di lettere e di tante altre cose: saprà in ogni proposito destramente far
vedere al suo principe, quanto onore ed utile nasca a lui ed alli suoi dalla
giustizia, dalla liberalità, dalla magnanimità, dalla mansuetudine, e dall’
altre virtù che si convengono a buon principe; e, per contrario, quanta infamia
e danno proceda dai vizii oppositi a queste. Però io estimo che come la musica,
le feste, i gio- chi e r altre condizioni piacevoli son quasi il fiore, cosi lo
indurre o ajutare il suo principe al bene, e spaventarlo dal male, sia il vero
frutto della Cortegiania. E perchè la laude del ben far consiste precipuamente
in due cose, delle quai r una 6 lo eleggersi un fine dove tenda la intenzion
nostra, che sia veramente buono; l’altra il saper ritrovar mozzi op-
« Digitized by Google LIBBO QUAHTO. porlani
ed àuì pgp condursi a questo buon fine designalo : certo è che l’animo di colui,
che pensa di far che ’J suo principe non sia d’ alcuno ingannato, nè ascolti
gli adulatori, nè i maledici e bugiardi, e conosca il bene e ’l male, ed al- r
uno porti amore, all’ altro odio, tende ad ottinio fine. VJ., Parrai
ancora che le condizioni attribuite al Corte- giaao da questi signori, possano
esser buon mezzo da per- venirvi ; e questo, perchè dei molti errori eh’ oggidì
veggia- mo in molti dei nostri principi, i maggiori sono la ignoranza, e la
persuasion di sè stessi ; e la radice di questi dui mali non è altro che la
bugia: il qual vizio meritamente è odioso a Dio ed agli uomini, e più nocivo ai
principi che alcun al- tro ; perchè essi più che d’ ogni altra cosa hanno
carestia di quello di che più che d’ ogni altra cosa saria bisogno che avessero
abondanza, cioè di chi dica loro il vero e ricordi il bene: perchè gli inimici
non son stimolati dall’ amore a far questi ofilcii, anzi han piacere che vivano
sceleratamente nè mai si correggano; dall’ altro canto, non osano calunniargli
publicamenle per timor d’ esser castigati: degli amici poi, pochi sono che
abbiano libero adito ad essi, © quelli pochi han riguardo a riprendergli dei
loro errori cosi liberamente come riprendono i privati , e spesso, per
guadagnar grazia e avore, non attendono ad altro che a propor cose che dilet-
tino e dian piacer all’ animo loro, ancora che siano male e disoneste; di modo
che d’amici divengono adulatori, e, per trarre utilità da quel stretto
commercio, parlano ed oprano grappe a compiacenza, e per lo più fannosi la
strada con le ugie, le quali nell’ animo del principe partoriscono la igno-
ranza non solamente delle cose estrinseche, ma ancor di sé 8 esso, e ^questa
dir si può la maggior e la più enorme bugia I tutte 1 altre, perchè l’animo
ignorante inganna sè stesso, c mentisce dentro a sè medesimo. VII.
Da questo interviene che i signori, oltre al non in- endere mai il vero di cosa
alcuna, inebriali da quella licen- perla seco il dominio, e dalla abondanza ha
^ nei piaceri, tanto s’iugannano e lanlo n ir!”*i- corrotto, veggendosi
sempre obedili e quasi ado, all con (anta riverenza e laude, senza mai
non che ri- 21 * IL CORTEGIANO.
■2-i6 prensione ma pur conlradizione, che da quesla ignoranza pas-
sano ad una estrema persuasion di sè slessi, talmente che |K)inoii ammettono
consiglio nè parer d’altri; e perchè cre- dono che ’l saper regnare sia
facilissima cosa, e per conse- tiuirla non bisogni allr’arteo disciplina che la
sola forza, voUan l’animo e lutti i suoi pensieri a mantener quella po- tenza
che hanno, estimando che la vera felicità sia il poter ciò che si vuole. Però
alcuni hanno in odio la ragione e la giustizia, parendo loro che ella sia un
certo freno ed un modo che lor potesse ridurre in servitù, e diminuir loro quel
bene e salisfazione che hanno di regnare, se volessero ser- varla ; e che il
loro dominio non fosse perfetto nè integro, se essi fossero conslrelli ad
obedire al debito ed all’ onesto, per- chè pensano che chi obbedisce non sia
veramente signore. Però andando drieto a questi principii, e lasciandosi
Irappor- tare dalla persuasion di sè stessi, divengon superbi, e col volto
imperioso e costumi austeri, con veste pompose, oro e gemme, e col non
lasciarsi quasi mai vedere in publico, cre- dono acquistar autorità tra gli
uomini, ed esser quasi tenuti Dei; c questi sono, al parer mio, come i colossi
che l’anno passalo fur fatti a Roma il di della festa di piazza d’Agone, che di
fuori mostravano similitudine di grandi uomini e cavalli trion- fanti, e dentro
erano pieni di stoppa e di strozzi. Ma i prin- cipi di questa sorte sono tanto
peggiori , quanto che i colossi per la loro medesima gravità ponderosa si
soslengon ritti; ed essi, perchè dentro sono mal contrapesali, e senza misura
posti sopra basi inequali, per la propria gravità minano sè stessi, e da uno
orrore incorrono in infiniti; perchè la igno- ranza loro, accompagnala da
quella falsa opinion di non po- ter errare, e che la potenza che hanno proceda
dal lor sapere, induce loro per ogni via, giusta o ingiusta, ad occupar stati audacemente,
pur che possano. Vili. Ma se deliberassero di sapere e di far quello che
debbono, cosi conlraslariano per non regnare, come contra- stano per regnare ;
perchè conosceriano quanto enorme e perniciosa cosa sia, che i sudditi, che han
da esser governali, siano più savii che i principi, che hanno da governare. Ec-
covi che In ignoranza della musica, del danzare, del cavai- libro
quarto. 247 care non nuoce ad alcuno ; nicnledinaeno, chi non è musico si
vergogna nò osa cantare in presenza d’altrui, o danzar chi non sa, e chi non si
lien ben a cavallo di cavalcare ; ma dal non sapere governare i popoli nascon
tanti mali, morti, de- slruzioni, incendii, mine, che si pad dir la più morlal
peste che si trovi sopra la terra; e por alcuni principi ignorantis- simi dei
governi non si vergognano di mettersi a governar, non dirò in presenza di
quattro o di sei uomini, ma al co- spetto di tutto ’l mondo; perchè il grado
loro è posto tanto in alto, che tutti gli occhi ad essi mirano, e però non che
i grandi ma i piccolissimi lor difetti sempre sono notati: come si scrive che
Gimone era calunniato che amava il vino, Sci- pione il sonno, Lucullo i
convivi!. Ma piacesse a Dio, che i principi di questi nostri tempi
accompagnassero i peccali loro con tante virtù, con quante accompagnavano
quegli antichi ; i quali, se ben in qualche cosa erravano, non fuggivano però i
ricordi e documenti di chi loro parca bastante a correggere quegli errori, anzi
cercavano con ogni instanza dicomponer la vita sua sotto la norma d’uomini singolari
; come Epami- nonda di Lisia Pitagorico, Agesilao di Senofonte, Scipio- ne di
Panezio, ed inhniti altri. Ma se ad alcuni de’ nostri principi venisse inanti
un severo filosofo, o chi si sia, il qual apertamente e senza arte alcuna
volesse mostrar loro quella orrida faccia della vera virtù, ed insegnar loro i
buoni co- stumi, e qual vita debba esser quella d’ un buon principe, -son certo
che al primo aspetto lo aborririano come un aspi- de, o veramente se ne fariano
beffe come di cosa vilissima. IX. Dico adunque che, poi che oggidì i
principi son tanto corrotti dalle male consuetudini, e dalla ignoranza e falsa
persuasione di sé stessi, e che tanto è diflìcile il dar loro notizia della
verità ed indurgli alla virtù, e che gli uo- mini con le bugie ed adulazioni e
con cosi viziosi modi cer- cano d’entrar loro in grazia; il Corlegiano, per
mezzo di quelle gentil qualità che date gli hanno il conte Ludovico e messer
Federico, può facilmente e deve procurar d’acqui- starsi la benivolenza, ed
adescar tanto l’animo del suo prin- cipe, che si faccia adito libei'o e sicuro
di parlargli d’ogni cosa senza esser inulesto ; e se egli sarà tale come s’è
detto, Digìtized by Googic 248 IL
CORTEGIANO. con poca fatica gli verrà fallo, o cosi potrà aprirgli
sempre la verità di tutte le cose con destrezza; olirà di questo, a poco a poco
infondergli nell’ animo la bontà, ed insegnargli la continenza, la fortezza, la
giustizia, la temperanza, fa- cendogli gustar quanta dolcezza sia coperta da
quella poca amaritudine, che al primo aspetto s’offerisce a chi contrasta ai
vizii; li quali sempre sono dannosi, dispiacevoli, ed ac- compagnali dalla
infamia e biasimo, cosi come le virtù sono utili, gioconde e piene di laude ;
ed a queste eccitarlo con l^esempio dei celebrali capitani e d’altri nomini
eccellenti, ai quali gli antichi usavano di far statue di bronzo e di mar- mo,
e talor d’oro, e collocarle ne’ lochi publici, cosi per onor di quegli, come
per lo stimolo degli altri, che per ùna one- sta invidia avessero da sforzarsi
di giungere essi ancor a quella gloria. X. In questo modo per la austera
strada della virtù po- trà condurlo, quasi adornandola di fronde ombrose e
spar- gendola di vaghi Cori, per temperar la noja del faticoso cammino a chi è
di forze debile; ed or con musica, or con arme e cavalli, or con versi, or con
ragionamenti d’amore, e con tutti que’ modi che hanno delti questi signori,
tener continuamente quell’ animo occupato in piacere onesto, im- primendogli
però ancora sempre, come ho dello, in compa- gnia di queste illecebre, qualche
costume virtuoso, ed ingan- nandolo con inganno salutifero; come i cauti
medici, li quali spesso, volendo dar a’ fanciulli infermi e troppo delicati me-
dicina di sapore amaro, circondano l’orificio del vaso di qualche dolce
liquore. Adoprando adunque a tal effetto il Corlegiano questo velo di piacere
in ogni tempo, in ogni loco ed in ogni esercizio conseguirà il suo fine, e
meriterà molto maggior laude e premio, che pfer qualsivoglia altra buona opera
che far potesse al mondo; perchè non è bene alcuno che cosi universalmente
giovi come il buon principe, nè male che cosi universalmente neccia come il mal
principe: però non è ancora pena tanto atroce e crudele, che fosso bastante
castigo a quei scelerati cortegiani, che dei modi gentili e piacevoli e delle
buone condizioni si vagliano a mal fine, c per mezzo di quelle ccrcan la grazia
dei loro principi, c per -Digit» LIBRO QUARTO.
2i9 corroiop®*'?^* c disviargli dalla vìa della virtù ed indurgli al
vizio» chè questi tali dir si può, che non un vaso dove un solo abbia da bere,
ma il fonte publico del quale usi tulio ’l popolo, infettano di mortai veneno.
— XI. Taceasi il signor Ottaviano, come se più avanti par- lar non avesse
voluto; ma il signor Gasparo, A me non par, signor Ottaviano, disse, che questa
bontà d’animo, e la con- tinenza e r altre virtù, che voi volete che ’l
Corlegiano mo- stri al suo signore, imparar si possano; ma penso che agli
uomini che l’ hanno siano date dalla natura e da Dio. E che cosi sia, vedete
che non è alcun tanto scelerato e dj mala sorte al mondo, nè cosi intemperante
ed ingiusto, che es- sendone dimandalo confessi d’esser tale; anzi ognuno, per
malvagio che sia, ha piacer d’esser tenuto giusto, continente e buono: il che
non interverrebbe, se queste virtù imparar si potessero; perchè non è vergogna
il non saper quello in che non s’ha posto studio, ma bene par biasimo non aver
quello di che da natura devemo esser ornati. Perù ognuno si sforza di
nascondere i difetti naturali, cosi dell’animo come ancora del corpo; il che si
vede nei ciechi, zoppi, torli, ed altri stroppiali o bruiti; chè benché questi
mancamenti si possano imputare alla natura, pur ad ognuno dispiace sentirgli in
sé stesso, perchè pare che per testimonio della medesima na- tura l’uomo abbia
quel difetto, quasi per un sigili® ® segno della sua malizia. Conferma ancor la
mia opinion quell* fa- bula che si dice d’Epìmeteo, il qual seppe cosi m»!
distri- buir le doli della natura agli uomini, che gli lasciò mollo piu
bisognosi d’ogni cosa che tutti gli altri animali: onde Pro- meteo rubò quella
artiCciosa sapienza da Minerva e cano, per la quale gli uomini trovano il
vivere; aveano però la sapienza civile di congregarsi insieme nello città, e
saper vivere moralmente, per esser questa nella ròcca di Jove guardala da
custodi sagacissimi i q®*!' spaventavano Prometeo, che non osava loro
accostarsi; Jove, avendo compassione alla miseria degli uomio*» * non
polendo star uniti per mancamento della virtù civile erano lacerali dalle Aere,
mandò Mercurio in terra a pori*' la giustizia e la vergogna, acciò che queste
due cose ornas- Digilized by Google 1 230
IL COHTEGIANO. sero le città, e colligassero insieme i cittadini; e volse
che a quegli fosser date non come l’ altre arti, nelle quali un pe- rito basta
per molti ignoranti, come è la medicina, ma che in ciascun fossero impresse; e
ordinò una legge, che tutti quelli che erano senza giustizia e vergogna
fossero, come pestiferi alle città, csterminati e morti. Eccovi adunque, si-
gnor Ottaviano, che queste virtù sono da Dio concesso agli uomini, e non s’
imparano, ma sono naturali. — XII. Allor il signor Ottaviano, quasi
ridendo. Voi adun- que, signor Gasparo, disse, volete che gli uomini sian cosi
infelici e di cosi perverso giudicio, che abbiano con la indu- stria trovato
arte per far mansueti gl’ingegni delle fiere, orsi, lupi, leoni, e possano con
quella insegnare ad un vago augello volar ad arbitrio dell’ uomo, e tornar
dalle selve e dalla sua naturai libertà volontariamente ai lacci ed alla ser-
vitù: e con la medesima industria non possano o non vo- gliano trovar arti, con
le quali giovino a sé stessi, e con di- ligcnza c studio faccian l’animo suo
migliore? Questo, al parer mio, sarebbe come se i medici studiassero con ogni diligenza
d’avere solamente l’arte da sanare il mal dell’ un- gie, e lo lattumc dei
fanciulli, e lasciassero la cura delle febri, della pleuresia, e dell’altro
infermità gravi; il che quanto fosse fuor di ragione, ognun può considerare.
Estimo io adunque, che le virtù morali in noi non siano totalmente da natura,
perchè ninna cosa si può mai assuefare a quello che le è naturalmente
contrario; come si vede d’ un sasso, il qual se ben dieccmilia volle fosse
gittate all’insù, mai non s’ assuefaria andarvi da sè: però se a noi le virtù
fossero cosi naturali come la gravità al sasso, non ci assuefaremmo mai al
vizio. Nè meno sono i vizii naturali di questo modo, perchè non potremmo esser
mai virtuosi; c troppo iniquità e sciocchezza saria castigar gli uomini di que’difelli,
che pro- ccdossero da natura senza nostra colpa; o questo error com- mcttcriano
lo leggi, le quali non dànno supplicio ai malfat- tori |>or io error
passalo, perchè non si può far che quello che è fatto non sia fatto, ma hanno
rispetto allo avvenire, acciò che chi ha errato non erri più, ovvero col mal
esem- pio non dia causa ad altrui d’errare; c cosi pur estimano
LIBRO QUARTO. 231 cl,e le virtù imparar si possano: il che è
verissimo; perché noi siamo nati atti a riceverle, e medesimaraenle i vizii, e
però dell’ano e l’ altro in noi si fa l’abito con la consuetu- dine, di modo
che prima operiamo le virtù o i vizii, poi siamo virtuosi o viziosi. Il
contrario si conosce nelle cose che ci son date dalla natura, che prima avemo
la potenza d’opera- re, poi operiamo: come è nei sensi; chè prima polemo ve-
dere, udire, toccare, poi vedemo, udiamo e tocchiamo; ben- ché però ancora
molte di queste operazioni s’ adornano con la disciplina. Onde i buoni
pedagoghi non solamente inse- gnano lettere ai fanciulli, ma ancora buoni modi
ed onesti nel mangiare, bere, parlare, andare, con certi gesti accom-
modati. XIII. Però, come nell’ altre arti, cosi ancora nelle virtù è
necessario aver maestro, il qual con dottrina e buoni ri- cordi susciti e
risvegli in noi quelle virtù morali, delle quali avemo il seme incluso e
sepolto nell’anima, e come buono agricoltore le coltivi e loro apra la via,
levandoci d’intorno le spine e ’l loglio degli appetiti, i quali spesso tanto
adom- brano e soffocan gli animi nostri, che fiorir non gli lasciano, nè produr
quei -felici frutti, che soli si dovriano desiderar che nascessero nei cori
umani. Di questo modo adunque è naturai in ciascun di noi la giustizia e la
vergogna-, la qual voi dite che Jove mandò in terra a tutti gli uomini ; ma
siccome un corpo senza occhi, per robusto che sia, se si muove ad un qualche
termine spesso falla, cosi la radice di queste virtù potenzialmente ingenite
negli animi nostri , se non ajutafa dalla disciplina, spesso si risolve in
nulla; perché se si deve ridurre in atto, ed all’abito suo perfetto, non si
contenta, come s’è detto, della natura sola, ma ha bisogno della arti- ficiosa
consuetudine e della ragione, la quale purificò* ® lucidi quell’ anima,
levandole il tenebroso velo <1®»» ranza, dalla qual quasi lutti gli errori
degli uomini no: chè se il bene e ’l male fossero ben conosciuti ed intesi,
ognuno sempre eleggeria il bene, e fuggiria il male- P®*"* virtù si può
quasi dir una prudenza ed un saper eleggere il bene, e ’l vizio una imprudenza
ed ignoranza che induce a giudicar falsamente; perchè non eleggono niai gl*
uomini il Digitized by Google 25“2 IL
CORTEGIANO. male con opinion che sia male, ma s’ingannano per una
certa similitudine di bene. — XIV. Rispose allor il signor Gaspabo: Son
però molli, i quali conoscono chiaramente che fanno male, e pur lo fan- no; e
questo perchè estimano più il piacer presente che sen- tono, che ’l castigo che
dubilan che gli ne abbia da venire: come i ladri, gli omicidi, ed altri tali. —
Disse il signor Ot- ta vi aso: 11 vero piacere è sempre buono, e ’l vero dolor
malo; però questi s’ ingannano togliendo il piacer falso per lo vero, e ’l vero
dolor per lo falso; onde spesso per i falsi piaceri incorrono nei veri
dispiaceri. Quell’arte adunque che insegna a discerner questa verità dal falso,
pur si può impa- rare; e la virtù, per la quale eleggerne quello che è vera-
mente bene, non quello che falsamente esser appare, si può chiamar vera
scienza, e più giovevole alla vita umana che alcun’aura, perchè leva la
ignoranza, dalla quale, come ho detto, nascono tutti i mali. — XV. Allora
messer Pietbo Bembo, Non so, disse, signor Ottaviano, come consentir vi debba
il signor Gasparo, che dalla ignoranza nascano tutti i mali; e che non siano
multi, ì (inali |)cccando sanno veramente che peccano, nè si ingan- nano punto
nel vero piacere, nè ancor nel vero dolore: per- chè certo è che quei che sono
incontinenti giudican con ra- gione e dirittamente, e sanno che quello a che
dalle cupi- dità sono stimolati centra il dovere è male, e però resistono ed
oppongon la ragione all’appetito, onde ne nasce la batta- glia del piacere e
del dolore centra il giudicio; in ultimo la ragion, vinta dall’appetito troppo
i>ossente, s’abbandona, come nave che per un spazio di tempo si difende
dalle pro- celle di mare, al fin, percossa da troppo furioso impeto de’ venti,
spezzate rancore e sarte, si lascia trapportar ad arbitrio di fortuna, senza
operar timone, o magisterio alcuno di calamita per salvarsi. Gl’incontinenti
adunque commetton gli errori con un certo ambiguo rimorso, e quasi al lor di-
spetto; il che non furiano, se non saiiessero che quel che fanno è male, ma
senza contrasto di ragione andariano to- talmente profusi drieto all’appetito,
ed allor non incontinen- ti, ma intemperati sariano; il che è molto peggio:
però la Digitizeo 1 libro quarto. 255
incontinenza si dice esser vizio diminoto, perchè ha in sé parte di ragione; e
medesimamente la continenza, virtù im- perfetta, perchè ha in sè parte
d’affetto: perciò in questo parmi che non si possa dir che gli errori degli
incontinenti procedano da ignoranza , o che essi s’ ingannino e che non
pecchino, sapendo che veramente peccano. — XVI. Rispose il signor
Ottàviano: In vero, messer Pie- tro, l’argomento vostro è buono; nientedimeno,
secondo me, è più apparente che vero, perché benché gl’incontinenti pecchino
con quella ambiguità, e che la ragione nell’ animo loro contrasti con
l’appetito, e lor paja che quel che è male sia male, pur non ne hanno perfetta
cognizione, nè lo sanno cosi intieramente come saria bisogno: però in essi di
questo è più presto una debile opinione che certa scienza, ondo consentono che
la ragion sia vinta dallo affetto; ma se ne avessero vera scienza, non è dubio
che non errariano: per- chè sempre quella cosa per la quale l’ appetito vince
la ra- gione è ignoranza, nè può mai la vera scienza esser superata dallo
affetto, il quale dal corpo, e non dall’animo, deriva; e se dalla ragione è ben
retto e governato, diventa virtù, e se -altrimenti, diventa vizio; ma tanta
forza ha la ragione, che sempre si fa obedire al senso, e con
maravigliosi modi e vie penetra, pur che la ignoranza non occupi quello che
essa aver dovria; di modo che, benché i spiriti o i nervi e l’ossa non abbiano
ragione in sé, pur quando nasce in *1“^' movimento dell’animo, quasi che ’l
pensiero sproni e Muoia la briglia ai spirili, tutte le membra s’apparecchi»®®’
‘ al corso, le mani a pigliar o a fare ciò che 1’ animo pensa, e questo ancora
si conosce manifestamente in molti» li non sapendo, talora mangiano qualche
cibo stomacoso e Mhi-- fo, ma cosi ben acconcio che al gusto lor pare
delicalissi®®’ poi, risapendo che cosa era, non solamente hanno dolore «
fastidio nell’ animo, ma ’l corpo accordan si ®®' giudicio della mente, che per
forza vomitano quel cibo. — XVII. Seguitava ancor il signor Ottaviano il
ragio- namento; ma il Magnifico Juliano interrompendolo > Sig®®*^ Ottaviano,
disse, se bene ho inteso, voi avete dell® continenza è virtù imperfetta, perchè
ha in sè 22 DigittzecTByT^OOgle IL
CORTEGUNO. 254 fello; ed a me pare che quella virtù la quale,
essendo nel- r animo nostro discordia tra la ragione e l’ appetito, com- balle
e dà la villoria alla ragione, si debba estimar più perfetta che quella che
vince non avendo cupidità nè alTetlo alcuno che le contrasti ; perchè pare che
quell’ animo non si astenga dal male per virtù, ma resti di farlo perchè non ne
abbia volontà. — AUor il signor Ottaviano, Qual, disse, esti- marcste voi
capitan di più valore, o quello che combattendo apertamente si mette a
pericolo, e pur vince gl’inimici, o quello che per virtù e saper suo lor toglie
le forze, riducen- dogli a termine che non possan combattere, e cosi senza bat-
taglia o pericolo alcun gli vince ? — Quello, disse il Magnifico JuLiANO, che
più sicuramente vince, senza dubio è più da lo- dare, pur che questa vittoria
cosi certa non proceda dalla dapocaggine degli inimici. — Risposo il signor
Ottaviano : Ben avete giudicato; e però dicevi, che la continenza comparar si
può ad un capitano che combatte virilmente, e, benché gl’ini- mici sian forti e
potenti, pur gli vince, non però senza gran ditllcoltà e pericolo ; ma la
temperanza libera da ogni per- turbazione- è simile a quel capitano, che senza
contrasto vince e regna, ed avendo in quell’ animo dove si ritrova non so-
lamente sedato ma in tutto estinto il foco delle cupidità, come buon principe
in guerra civile, distrugge i sediziosi nemici intrinsechi, e dona lo scettro e
dominio intiero alla ragione. Cosi questa virtù non sforzando l’animo, ma
infondendogli [>er vie placidissime una veemente persuasione che lo inclina
alla onestà, lo rende quieto e pien di riposo, in tutto eguale o ben misurato,
e da ogni canto composto d’ una certa con- cordia con sè stesso, che lo adorna
di cosi serena tranquil- lità che mai non si turba, ed in tutto diviene
obedienlissimo alla ragione, e pronto di volgere ad essa ogni suo movimento, c
seguirla ovunque condor lo voglia, senza repugnanza al- cuna; come tenero
agnello, che corre, sta e va sempre presso alla madre, e solamente secondo
quella si move. Questa virtù adunque è perfettissima, e conviensi massimamente
ai prin- cipi, perchè da lei ne nascono molte altre. XVI li. Allora
messer Cesar Gonzaga, Non so, disse, qiiai virtù convenienti a sienore possano
nascere da questa Digitized by • m libro
quarto. 255 lètoperanza, essendo quella che leva gli affeUi dell’ animo,
cono® voi dite: il che forse si converria a qualche monaco o ereDOÌl3? ma non
so già come ad un principe magnanimo, liberale e valente nell’ arme si
convenisse il non aver mai, per cosa che se gli facesse, nè ira nè odio nè
benivolenza nè sdegno nè cupidità nè affetto alcuno, e come senza questo aver
potesse autorità tra popoli o tra soldati. — Rispose il si • gnor Ottaviano: Io
non ho dello che la temperanza levi to- talmente e avella degli animi umani gli
alleili, nè ben saria il farlo, perchè negli affetti ancora sono alcune parti
buone; ma quello che negli affetti è perverso e renitente allo onesto, riduce
ad obedire alla ragione. Però non è conveniente, per levar le perturbazioni,
estirpargli affetti in tutto; chè questo saria come se per fuggir la ebrietà,
si facesse un editto che ninno bevesse vino, o perchè talor correndo l’uomo
cade, si interdicesse ad ognuno il correre. Elccovi che quelli che do- mano i
cavalli non gli vietano il correre e saltare, ma vo- glion che lo facciano a
tempo, e ad obedienza del cavaliere. Cdi affetti adunque, modificati dalla
temperanza, sono favo- revoli alla virtù, come l’ ira che ajuta la fortezza,
l’odio cen- tra i Bcelerati ajuta la giustizia, e medesimamente V altre virtù
sono ajutale dagli afiettì; li quali se fossero in tutto le- vati, lasciariano
la ragione debilissima e languida, di modo che poco operar potrebbe, come
governalor di nave abbandonato da’ venti in gran calma. Non vi maravigliale
adunq“®> ser Cesare, s’io ho detto che dalla temper anz a nascono molte
altre virtù; chè quando un animo è concorde di questa ar- monia, per mezzo
della ragione poi facilmente riceve la vera fortezza, la quale lo fa intrepido
e sicuro da ogni pericolo, e quasi sopra le passioni umane; non meno la
giusti***’ gine incorrotta, amica della modestia e del bene • regi**» '■ tolte
l’ altre virtù, perchè insegna a far quello che ** e fuggir quello che si dee fuggire;
e però è perfelt***’®*’ chè per essa si fan l’ opere dell’ altre virtù, ed è
giovevole a chi la possedè, e per sè stesso, e per gli altri ; seO** ** ’
come si dice, Jove istesso non poria ben governar® sno. La magnanimità ancora
succede a queste e tutte 1® maggiori; ma essa sola star non può, perchè
chi Digitized by GoÒglc IL CORTEGIANO.
256 Ira virtù, non può esser magnanimo. Di queste è poi guida
la prudenza, la qual consiste in un certo giudicio d’ elegger bene. Ed in tal
felice catena ancora sono colligate la libe- ralità, la magnificenza, la
cupidità di onore, la mansuetudi- ne, la piacevolezza, la affabilità, e molte
altre che or non è tempo di dire. Ma se ’l nostro Cortegiano farà quello che avcmo
detto, tutte le ritroverà nell’animo del suo principe, ed ogni di ne vedrà
nascer tanti vaghi fiori e frutti, quanti non hanno tutti i deliziosi giardini
del mondo; e tra sé stesso sentirà grandissimo contento, ricordandosi avergli
donato non quello che donano i sciocchi, che è oro o argento, vasi, veste e tai
cose, delle quali chi le dona n’ ha grandissima ca- restia e chi le riceve
grandissima abondanza, ma quella virtù che forse tra tutte le cose umane è la
maggiore e la più rara, cioè la maniera e ’l modo di governar e di regnare come
si dee ; il che solo bastarla per far gli uomini felici, e ridur un’ altra
volta al mondo quella età d’ oro che si scrive esser siala quando già Saturno
regnava. — XIX. Quivi avendo fatto il signor Ottaviano un poco di pausa
come per riposarsi, disse il signor Gaspabe: Qual esti- mate voi, signor
Ottaviano, più felice dominio, e più bastante a ridur al mondo quella età d’oro
di che avete fallo men- zione, 0 ’l regno d’un cosi buon principe, o ’l governo
d’una buona republica ? — Rispose il signor Ottaviano : Io prepor- rei sempre
il regno del buon principe, perché è dominio più secondo la natura, e, se è
licito comparar le cose piccole alle infinite, più simile a quello di Dio, il
qual uno e solo go- verna r universo. Ma lasciando questo, vedete che in ciò
che si fa con arte umana, come gli eserciti, i gran navigli, gli edifici! ed
altre cose simili, il tutto si riferisce ad un solo, che a modo suo governa ;
medesimamente nel corpo nostro tutte le membra s’affaticano e adopransi ad
arbitrio del core. Olirà di questo, par conveniente, che i popoli siano così
governati da un principe, come ancora molli animali, ai quali la natura insegna
questa obedienza come cosa saluberrima. Eccovi che i cervi, le grue e molli
altri uccelli quando fanno passaggio, scono ; e le api quagi
sempre si prepongono un principe, il qual seguono ed obedi- scono ; e le
api q„j,gj discorso di ragione e con tanta ri- Digitized by -
■ libro quarto. 257 ver®®*® osservano il loro re, con qnanla
i più osservanti po- poli del mondo ; e però tutto questo è grandissimo
argomento, che ’i dominio dei principi sia più secondo la natura che quello
delle republiche. — "XX. Allora messer Pibtbo Bbmbo, Ed a me par,
disse, che, essendoci la libertà data da Dio per supremo dono, non sìa . ragionevole
che ella ci sia levata, nè che un uomo più del- 1’ altro ne sia partecipe : il
che interviene sotto il dominio de' principi, li quali tengono per il più li
sudditi in strettis- sima servitù ; ma nelle republiche bene instituite si
serva pur questa libertà : oltra che e nei gindicii e nelle delibera- zioni più
spesso interviene che '1 parer d’ on solo sia falso che quel di molti; perchè
la perturbazione, o per ira o per sdegno o per cupidità, più facilmente entra
nell’ animo d’nn solo che della moltitudine, la quale, quasi come una gran
quantità d’ acqua, meno è snbjetta alla corruzione che la pic- cola. Dico
ancora, che lo esempio degli animali non mi par che si confaccia; perchè e li
cervi e le grne e gli nitri non sempre si prepongono a seguitare ed obedir un
medesimo, anzi mutano e variano, dando questo dominio or ad uno or ad un altro,
ed in tal modo viene ad esser più presto forma di republica che di regno ; e
questa si può chiamare vera ed cqnale libertà, quando quelli che talor
comandano, obedi- scono poi ancora. L’ esempio medesimamente delle api non mi
par simile, perchè quel loro re non è della loro medesima specie ; e però chi
volesse dar agli nomini un verannente de- gno signore, bisognaria trovario
d’un’ altra specie, e di piu eccellente natura che umana, se gli nomini
ragionevolmente r avessero da obedire, come gli armenti che obediscono non ad
uno animale suo simile, ma ad nn pastore, i* *1”®^® ^ uomo, e d’ una specie più
degna che la loro. Per qne®^® estimo io, signor Ottaviano, che '1 governo della
republica sia più desidarabile che quello del re. — XXI. Allor il signor
Ottaviano, Contra la opiu*®®® stra, messer Pietro, disse, voglio solamente
addurre ona ra- gione; la quale è, che dei modi di governar bene i pop®** *‘‘®
sorti solamente si ritrovano: l’una è il regno ; l’altra il governo dei buoni,
che chiamavano gli antichi ottimati* l’®****® 22 - Digitized
by Google IL CORTEGIANO. 4&8 minislrazione
popolare: e la Irausgressione e vizio contra- rio, per dir cosi , dove ciascuno
di questi governi incorre guastandosi e corronapendosi , è quando il regno
diventa ti- rannide, e quando il governo dei buoni si muta in quello di pochi
potenti e non buoni , e quando l’ amministrazion po- polare è occupata dalla
plebe, che, confondendo gli ordini, permette il governo del tutto ad arbitrio
della moltitudine. Di questi tre governi mali certo è che la tirannide è il
pes- simo di tutti, come per molte ragioni si poria provare; resta adunque che
dei tre buoni il regno sia l’ ottimo , perchè è contrario al pessimo: che, come
sapete, glietTetti delle cause contrarie sono essi ancora Ira sè contrarii.
Ora, circa quello che avete detto della libertà, rispondo, che la vera libertà
non si deve diro.che sia il vivere come l’ uomo vuole , ma il vivere secondo le
buone leggi: nè meno naturale ed utile B necessario è l’obedire, che si sia il
comandare; ed alcune Mse.sono nate, e cosi distinte ed ordinale da natura al
co- mandare, come alcune altre all’obedire. Vero è che sono due modi di
signoreggiare: 1’ uno imperioso e violento , come quello dei patroni ai
schiavi, e di questo comanda l’anima al corpo; l'altro più mite e placido, come
quello dei buoni principi, per via deUe leggi ai cittadini, e di questo comanda
la ragiono allo appetito: c Tono e l’altro di questi due modi ò utile, perchè
il corpo è nato da natura atto ad obedire al- r anima, e cosi Tappetilo alla
ragione. Sono ancora molti uomini, Toperazion de’ quali versano solamente circa
T uso del corpo; e questi tali tanto son differenti dai virtuosi , quanto
l’anima dal corpo, e pur per essere animali razio- nali tanto partecipano della
ragione, quanto che solamente Jn conoscono, ma non |a posseggono nò fruiscono.
Questi adunque sono naturalmente servi, e meglio è ad essi e più utile T
obedire che ’l comandare. — XXII. Disse allor il aignor Gaspàr: Ai
discreti c virtuo- si, e che non sono da natura servi, di che modo si ha adun-
que a comandare? — Rispose il signor Ottavuno: Di quel placido comandamento
regio e civile; ed a tali è hen fallo dar lalor T amministrazione di quei
magistrali di che sono capaci, acciò che possano essi ancora comamlare , o
govcr- Digitized by I libro QUABTOi
259 tiare i men saviì di sè, di modo però che ’l principal go- verno dependa
tulio dal supremo principe. E perché avele detto, che più facil cosa è che la
mente d’nn solo si corrompa che quella di molli, dico che è ancora più facil
cosa trovar un buono e savio che molli; e buono e savio si deve esti- mare che
possa esser nn re di nobil stirpe, inclinalo alle virtù dal suo naturai
instinto e dalla famosa memoria dei suoi antecessori, ed instiluilo di buoni
costumi; e se non sarà d’ un’ altra specie più che umana, come voi avete detto
di quello delle afii , essendo ajulato dagli ammaestramenti e dalla edocazione
ed arte del Corlegiano, formato da questi signori tanto prudente e buono, sarà
giustissimo, continen- tissimo, temperatissimo, fortissimo e sapientissimo,
pien di liberalità, magnificenza, religione e clemenza; in somma sarà
gloriosissimo, c carissimo agli uomini ed a Dio, per la cui grazia acquisterà
quella virtù eroica, che lo farà eccedere i termini della umanità, e dir si
potrà più presto senaideo che uomo mortale: perchè Dio si diletta, ed è
protetlor non di quo' principi che vogliono imitarlo col mostrare gran potenza
e farsi adorare dagli nomini, ma di quelli che oltre alla po- tenza per la
quale possono, si sforzano di farsegli simili an- cor con la bontà e sapienza,
perla quale vogliano e sappiano far bene ed esser suoi ministri, distribuendo a
salute dei mortali i beni e i doni che essi da lui ricevono. P«rò, cosi come
nel ciclo il sole e la luna e le altre stelle mostrano al mondo, quasi come in
specchio, una certa d* Dio, cosi in terra mollo più simile imagine
qnc'hoon principi che l’amano e reveriscono, e mostrano ai popoli la splendida
tace della sua giustizia, acconapa*?"®^® nna ombra di quella ragione ed
intellelto divino; e questi tali partecipa delia onestà, equità, giusti*»® ®
bontà 8na,o di quegli altri felici beni ch’io nominar non so, h quali
rapresentano al mondo molto più chiaro lesliù»®*»’® divinità che la loce del
sole, o il continuo volger J®* vario corso delie stelle. XXIII. Son
adunque li popoli da Dio comwese» ^ custodia de’principi, li quali per questo
debbono averne di- ligente cura, per rendergline ragione , cotne buoni vicari»
« d bv 260 IL CORTEGIANO.
SUO signore, ed amargli ed estimar lor proprio ogni bene e male che gli
intervenga, e procurar sopra ogni altra cosa la felicità loro. Perù deve il
principe non solamente esser buo- no, ma ancora far buoni gli altri; come quel
squadro che adoprano gli architetti, che non solamente in sè è dritto e giusto,
ma ancor indrizza e fa giuste tutte le cose a che viene accostalo. E grandissimo
argomento è che ’l principe sia buono quando i popoli son buoni, perchè la vita
del prin- cipe è legge e maestra dei cittadini, e forza è che dai costu- mi di
quello dipendan tutti gli altri; nè si conviene a chi è ignorante insegnare, nè
a chi è inordinato ordinare , nè a chi cade rilevare altrui. Però se ’l
principe ha da far ben questi olTicii, bisogna ch’egli ponga ogni studio e
diligenza per sapere; poi formi dentro a sè stesso ed osservi immuta- t
bilmente in ogni cosa la legge della ragione, non scritta in carte o in
metallo, ma scolpila nell’animo suo proprio, ac- ciò che gli sìa sempre non che
familiare ma intrinseca , e con esso viva come parte di lui; perchè giorno e
notte in ogni loco e tempo lo ammonisca e gli parli dentro al core, levandogli
quelle perturbazioni che sentono gli animi intem- perati, li quali per esser
oppressi da un canto quasi da pro- fondissimo sonno della ignoranza, dall’
altro da travaglio che riceveno dai loro perversi e ciechi dcsidcriì, sono
agitali da furore inquieto, come talor chi dorme da strane ed orrìbili visioni.
XXIV. Aggiungendosi poi maggior potenza al mal vo- lere, si v’aggiunge ancora
maggior molestia; e quando il principe può ciò che vuole, allorè gran pericolo
che non vo- glia quello che non deve. Però ben disse Bìante, che i ma- gistrali
dimostrano quali sian gli uomini: chè come i vasi mentre son vóti, benché
abbiano qualche fissnra, mal si pos- sono conoscere, ma se liquore dentro vi si
mette, subito mo- strano da qual banda sia il vìzio; cosi gli animi corrotti e
guasti rare volte scoprono i loro difetti, se non quando s’em- piono
d’autorità; perchè allor non bastano per sopportare il grave peso della
potenza, e perciò s’abbandonano, e versano da ogni canto le enpidità, la
superbia, la iracondia, la inso- lenza, e quei coslunai tirannici che hanno dentro;
onde senza Digitized by Google LIBRO QUARTO. 261
risguardo perseguono i buoni e i savii, ed esallano i mali „è comportano che
nelle città siano amicizie, compagnie’ nè intelligenze fra 1 cittadini, ma
nutriscono gli esploratori’ accasatori, omicidiali, acciò che spaventino e
facciano dive- nir gli uomini pusillanimi, e spargono discordie per tenergli
disgianti e debili;- e da questi modi procedono poi infiniti danni e ruine ai
miseri popoli , e spesso crudel morte o al- men timor continuo ai medesimi
tiranni: perché i buoni principi temono non per sè ma per quelli a’quali
comanda- no, e li tiranni temono quelli medesimi a’quali comanda- no; però,
quanto a maggior numero di gente comandano e son più potenti, tanto più temono
ed hanno più nemici. Co- me credete voi che si spaventasse e stesse con 1*
animo so- speso quel Clearco, tiranno di Ponto, ogni volta che andava nella
piazza o nel teatro, o a qualche convito o altro loco poblico? che, come si
scrive, dormiva chioso in una cassa; ovver quell’auro Aristodemo Argivo? il
qual a sè stesso del letto aveva fatta quasi una prigione: chè nel palazzo suo
te- nea una piccola stanza sospesa in aria, ed alta tanto che con scala andar
vi si bisognava; e quivi con una sua femina dormiva, la madre della quale la
notte ne levava la scala, la mattina ve la rimetteva. Contraria vita in tutto a
questa deve adunque esser quella del buon principe, libera e sicu- ra, e tanto
cara ai cittadini quanto la loro propria , ed or- dinala di modo che partecipi
dell’altiva c della contemplati- va, quanto si conviene per beneficio dei
popoli. — XXV. Allor il signor Gaspab, E qual, disse, di queste due vite,
signor Ottaviano, parvi che più s’ appartenga al principe? — Rispose il signor
Ottaviano, ridendo: Voi forse pensate, ch’io mi persuada esser quello
eccellente Cortegiano che deve saper tante cose, e servirsene a quel buon fine
ch’io ho detto; ma ricordatevi, che questi signori l’hanno formalo con molte
condizioni che non sono in me: però procuriamo prima di trovarlo, chè io a lui
mi rimetto e di quesl®» e tutte l’allre cose che s’appartengono a- buon
principe- — Allora il signor Gaspar, Penso, disse, che delle condi- zioni
atlribuile al Cortegiano alcune a voi mancano, sia più presto la musica e ’l
danzar e l’ altre di ca imponenza , Dlgitized by Google
262 U- CORTEGIANO. che quelle che appartengono alla inslituzion del
principe, ed a questo One della Corlegiania. — Rispose il signor Otta- viano;
Non sono di poca importanza tutte quelle che giovano al guadagnar la grazia del
principe, il che è necessario, co- me avemo detto, prima che ’l Cortegiano si
aventuri a’ vo- lergli insegnar la virtù; la qual estimo avervi mostrato che
imparar si può, e che tanto giova, quanto nuoce la ignoran- za , dalla quale,
nascono tutti i peccati, e massimamente quella falsa persuasion che l’uom
piglia di sé stesso: però panni d’aver detto a bastanza, e forse più ch’io non
aveva promesso. — Allora U signora Dochbssa, Noi saremo, disse, tanto più
tenuti alla cortesia vostra, quanto la satisfazionè avanzerà la promessa; però
non v’incresca dir quello che vi pare sopra la dimanda del signor Gaspar; e,
per vostra fé , diteci ancora tutto quello che voi insegnareste al vostro prin-
cipe 8’egU avesse bisogno d’ammaestramenti, e presuppone- tevi d’avervi
acquistato compitamente la grazia sua, tanto che yi sia licito dirgU
liberamente ciò che vi viene in animo - XXVI. Rise il signor Ottaviano e disse:
S’io avessi la grazia di qualche principe ch’io conosco, e li dicessi libera-
mente il parer mio, dubito che presto la perderei; olirà che per insegnarli
bisoperia ch’io prima imparassi. Pur poiché a voi piace ch’io risponda ancora
circa questo al signor Ga- spar, dico che a me pare che i principi debbano
attendere all' una e l’altra delle due vile, ma più però alla contempla- tiva»
P®*^®*»* qnesta '« “si è divisa in due parli: delle quali l’tina consiste nel
conoscer bene e giudicare; l’altra nel co- mandare drittamente e con quei modi
che si convengono, e ragionevoli, e quello di che hanno autorità, e co-
mandarle a chi ragionevolmente ha da obediro, e nei lochi e tomP» appartenenti;
e di questo parlava il duca Federico quando diceva, che chi sa comandare è
sempre obedilo: e'I comandare è sempre il principal ofTicio de’ principi, li
quali debt>nno però ancor spesso veder con gli occhi ed esser pre- senti
a**® “ecuzioni, « secondo i tempi e i bisogni ancora lalov ®P®rar essi stessi;
e tutto questo pur partecipa della azic»nc* d fin della vita attiva dove esser
la contempla- tiva , no“e della guerra la pace, il riposo dette falictic.
libro ftDARTO. 263 XXVII. Però è ancor officio del buon principe
inalilaire ialmeole i popoli suoi e con tai leggi ed ordini , che possano
viver® nell'ozio e nella pace, senza pericolo e con dignità, e godere laudevolmente
questo fine delle sue azioni che deve esser la quiete; perchè sonosi trovate
spesso molte republiche e principi , li quali nella guerra sempre sono stati
fiorentissi- mi e grandi, e subito che hanno avuta la pace sono ìli in mina e
hanno perduto la grandezza e ’l splendore, come il ferro non esercitato; e
questo non per altro è intervenuto, che per non aver buona insti luzion di
vivere nella pace, nè , saper fruire il bene dell’ozio; e lo star sempre in
guerra, senza cercar di pervenire al fine della pace, non è licito; benché
estimano alcuni principi, il loro intento dover esser principalmente il
dominare ai suoi vicini, e però nutriscono i popoli in una bellicosa ferità di
rapine, d’omicidii e tai co- se, e lor dànno premii per provocarla, e la
chiamano virtù. Onde fu già costume fra i Sciti , che chi non avesse morto un
suo nemico non |)olesse bere ne’ conviti solenni alla tazza che si portava
intorno alti compagni. In altri lochi s’ osava indrizzare intorno il sepolcro
tanti obelisci , quanti nemici avea morti quello che era sepolto ; e tutte
queste cose ed ah tre simili si faceano per far gli uomini bellicosi, solamente
per dominare agli altri: il che era quasi impossibile, P®*' ser impresa
infinita, insino a tanto che non s’avesse snbjugalo tutto ’l mondo; e poco
ragionevole, secondo la Icgg® ^**1* natura, la qual non vuole che negli altri a
noi piaccia quello che in noi stessi ci dispiace. Però debbon ì principi far i
poli bellicosi non per cupidità di dominare , ma per poi®*' fendere sè stessi e
li medesimi popoli da chi volesse ridurgh in servitù, ovver fargli ingiuria in
parte alcuna; ovver per .discacciar i tiranni, e governar bene quei popoli ®I*®
fossero mal trattati, ovvero per ridurre in servitù quelli ®**® tali da natura,
che meritassero esser fatti servi ®®® in*®**' zione di governargli bene e dar
loro l'ozio e *ì riposo ® 1^ pace: ed a questo fine ancora debbono essere
indria*®!® 1® leggi e tolti gli ordini della giustizia, col punir » per od», ma
perchè non siano mali ed acciò che n®n i®P®* discano la tranquillità dei buoni;
perchè in vero è cosa enorm® Digilized by Google IL
CORTEGIANO. 264 e degna di biasimo, nella guerra, che in sé è
mala, mo- strarsi gli nomini valorosi e savii; e nella pace e quiete, che è
buona, mostrarsi ignoranti e tanto da poco, che non sappiano godere il bene.
Come adunque nella guerra debbono ntcnder i popoli nelle virtù utili e
necessarie per conse- guirne il fine, che è la pace; cosi nella pace, per
conseguirne ancor il suo fine, che è la tranquillità, debbono intendere nelle
oneste, le quali sono il fine delle utili: ed in tal modo li sudditi saranno
buoni, e’I principe arà mollo più da lau- dare e premiare che da castigare; e
’l dominio per li sudditi e per lo principe sarà felicissimo, non imperioso,
come di padrone al servo, ma dolce e placido, come di buon padre a buon
figliolo. — XXVIII. Allor il signor Gaspab, Volentieri, disse, sa- prei
quali sono queste virtù utili e necessarie nella guerra, e quali le oneste
nella pace. — Rispose il signor Ottaviano : Tulle son buone e giovevoli, perchè
tendono a buon fine; pur nella guerra precipuamente vai quella vera fortezza,
che fa l’animo esento dalle passioni, talmente che non solo non teme li
pericoli, ma pur non li cura; medesimamente la co- stanza, e quella pazienza
tolerante, con l’animo saldo ed im- perturbato a tulle le percosse di fortuna.
Conviensi ancora nella guerra e sempre aver tutte le virtù che tendono all’one-
sto, come la giustizia, la continenza, la temperanza; ma molto più nella paco e
nell’ ozio, perchè spesso gli uomini posti nella prosperità e nell’ozio, quando
la fortuna seconda loro arride, divengono ingiusti, intemperati, e lasciansi
corrompere dai piaceri: perù quelli che sono in tale stalo hanno grandissimo
bisogno di queste virtù, perchè l’ozio troppo facilmente in- duce mali costumi
negli animi umani. Onde anticamente si diceva in proverbio, che ai servi non si
dee dar ozio; e ere-, desi Piramidi d’Egitto fossero fatte per tener i
popoli in esercizio, perchè ad ognuno lo essere assueto a tolerar fa-
tiche è utilissimo. Sono ancor molle altre virtù tutte giovevo- li , ma h®^fi
P®r l’ aver detto insin qui; chè s’ io sapessi inse- gnar al mio principe, ed
instituirlo di tale e cosi virtuosa edu- cazione come avemo disegnata,
facendolo, senza più mi cre- derei assai bene aver conseguito il fine del buon
Gorlegiano. — DIgitized by libro quarto.
XXIX. Allor il signor Gaspar, Signor Ou« • perchè raoKo avete laudato la buona
educazioni quasi di credere che questa sia principal causa d’i virtuoso e
buono, vorrei sapere se quella instiluzio^ ZT da far il Corleg.ano nel suo
prìncipe deve esser comLl ^ dalla consuetudine, e quasi dai costumi cotidiani ^
S* senza che esso se ne avvegga, lo assuefacciano al ben fer'! 0 se pur
se gl. deve dar principio col mostrargli con ragion ’ la qualità del bene e del
male, e con fargli conoscere, prima che si metta in cammino, qualsia la buona
via e da seguita- re, e quale la mala e da fuggire: in somma, se in quell’ani-
mo si deve prima introdurre e fondar le virtù con la ragione ed intelligenza,
ovver con la consuetudine. — Disse il signor Ottaviano: \oi mi mettete in
troppo lungo ragionamento; pur acciò che non vi paja eh’ io manchi per non
voler rispon- dere alle dimando vostre, dico, che secondo che l’animo e’I corpo
in noi sono due cose, così ancora l’anima è divisa in due parti, delle quali
l’una ha in sé la ragione, l’altra Tap- petilo. Come adunque nella generazione
il corpo precedo 1 anima, cosi la parte irrazionale dell’anima precede la
razio- nale: il che si comprende chiaramente nei fanciulli > ne’ quali quasi
subito che son nati si vedeno Tira e la concnpiscenza, ma poi con spazio di
tempo appare la ragione. Però devesi prima pigliare cura del corpo che
dell’anima, poi prima del- l’appetito che della ragione; ma la cura del corpo
per rispetto dell’anima, e dell’appetito per rispetto della ragione: chè se-
condo che la virtù intellettiva si fa perfetta con la dottrina, cosi la morale
si fa con la consuetudine. Devesi adunque far prima la erudizione con la
consuetudine , la qual può gover- nare gh appetiti non ancora capaci di
ra<»ione e con quel buon uso indrizzargli al bene; poi slabilireli con la
intelli- genza, la quale benché più lardi mostri il suo lui»e, pur dà modo di
fruir più perfettamente le virtù a chi ha bene insti- tuito l’animo dai
costumi, nei quali, al parer mio, consiste il XXX. Disse il signor Gaspar
: Prima eh*, nassiate più avanti, vorrei saper che cura si deve aver /.orno,
perchè avete dello che prima devemo averla di quello che deU’ani-
23 Digilized by Google IL
CORTEGIANO. 266 rea. — Dimandatene, rispose il signor
Ottìvuno ridendo, a questi, che lo nutriscon bene e son grassi e freschi; che 1
mio, come vedete, non è troppo ben curato. Pur ancora di questo si poria dir
largamente, come del tempo conveniente del maritarsi, acciò che i figlioli non
fossero troppo vicini nè troppo lontani alla età paterna; degli esercizi! e
della edu- cazione subito che sono nati e nel resto della età, per fargli ben
disposti, prosperosi e gagliardi. — Rispose il signor Ga- spar: Quello che più
piaceria alle donne per far i Gglioli ben disposti e belli , secondo me saria
quella communità che d’ esse vuol Platone nella sua Republica , e di quel modo.
Allora la signora Emilia ridendo, Non è ne’ palli, disse, che ritor- niate a
dir mal delle donne. — Io, risposo il signor Gaspah, mi presumo dar lor gran
laude, dicendo che desiderino che s’ introduca un costume approvato da un tanto
uomo. — Disse ridendo messer Cesare Gonzasa: Veggiamo se tra li docu- menti del
signor Ottaviano, che non so se per ancora gli abbia delti tulli, questo
potesse aver loco, e se ben fosse che ’l principe ne facesse una legge. —
Quelli pochi eh io ho delti, rispose il signor Ottaviano, forse porian bastare
per far un principe buono, come posson esser quelli che si usano oggidì; benché
chi volesse veder la cosa più minutamente, averia ancora molto più che dire. —
Soggiunse la signora Do- cuessa: Poiché non ci costa altro che parole,
dichiarateci, Iter vostra fé, tutto quello che v’occorreria in animo da in-
segnar al vostro principe. — Rispose il signor Ottaviano: Molte altre
cose. Signora, gl’ insegnarei, pur eh’ io lo sapessi; e tra l’ altre, elm dei
suoi sudditi eleggesse un numero di gentiluomini e dei più nobili e savìi, coi
quali consultasse ogni cosa, e loro desse autorità e libera licenza, che del
lotto senza risguardo dir gli potessero il parer loro ; e con essi tenesse tal
manie- ra, che tutti s’accorgessero che d’ogni cosa safier volesse la verità,
ed avesse in odio ogni bugia; ed oltre a questo con- siglio de’ nobili,
ricordarci che fossero eletti tra ’l popolo altri di minor grado, dei quali si
facesse un consiglio popolare, che communicasse col consìglio de’ nobili le
occorrenze della città appartenenti al publico ed al privalo : ed in tal modo
si Digitized by 267 Libro
quarto. facesse del principe, come di capo, e dei nobiK e dei popola- ri,
come di membri, on corpo solo unito insieme, il governo del quale nascesse
principalmente dal principe, nientedimeno partecipasse ancora degli altri ; e
cosi aria questo stato forma cil f <rrkVAn»ni KnAMi X Tk « • ..
n • 1 V W| di tre governi buoni, che è il Regno, gli OtUmali
e ’I Po- polo. XXXII. Appresso, gli mostrarei, che delle cure che
al principe s’appartengono, la piu importante é quella della giu- stizia; per
la conservazion della quale si debbono eleggere nei magistrali i sa vii e gli
approvati nomini, la prudenza de’ quali sia ché quali
sia vera prudenza accompagnata dalla bontà, per" altrimenti non è prudenza
ma astuzia ; e quando questa ontà manca, sempre Farle e sottilità dei causidici
non ® ^ -■««icuica, sempre l arte e sotlili(à dei causidici nou ro
che ruina e calamità delle leggi e dei giudicii, c ^ogni loro errore si ha da
dare a chi gli ha posti in oflicio- . “ errore SI na aa aare a cni
gii na putn» *•» rei come dalla giustizia ancora depende quella pietà
verso debita a tutti, e massimaraenle ai principi, ri ^ ® on amarlo sopra
ogni altra cosa, ed a lui come a e indrizzar tulle le sue azioni; e, come dicea
Seno ^ onorarlo ed amarlo sempre, ma molto più quando prosperità, per aver poi
più ragionevolmente confidc ^ ^cV' domandargli grazia quando sono in qualche
avversila ^*™P*^sibile è governar bene nè sé stesso nè a r "“uossioue
è governar bene nè sè stesso “ V ajuto di Dio; u quale ai buoni alcuna volta
manda ® ^ or una per ministra sua, che gli rilievi da gravi «ro
per ministra sua, che gli rilievi da gravi h-* r a avversa, per non gli
lasciar addormeafare spenta tanto che si scordino di lui, o della pm e
corregge spesso la mala fortuna, come tc Zdadi col menar ben le - 1
rei ancora di ricordare al principe che ^ee® «S‘c‘in“; ““ "b
dal“alle 1® » *'iaa e ®*>» pnidénx® boooato'"*^ ^ e la vera
rpiìfrì/inA eanrv.Ai-kV.c ..«..An-u la — C-i \ C
divina r> «uia» pru«*- »>aona «Dio n *
'"®*'®‘‘®%*one, avrebbe ancora ^Y>e pro»l? ' ' ®'“ H d»al eempre
gli accreie?*-®”*^ il in pace ed in gue,ra.
AXXIII. Appresso direi, IDOli en<v: ^ come dovcs®® -tìi»
” ìnnraAi- — --VV1CSSU airej, come doves=’^ »>er
le Digitized by Google IL
CORTEGIANO. 208 giure e mille aliti mali: nè meno in troppo
libertà, per non esser vilipeso ; da che procede la vita licenziosa e dissoluta
dei popoli, le rapine, i furti, gli omicidii, senza timor alcuno delle leggi ;
spesso la mina ed esizio totale della città e dei regni. Appresso, come dovesse
amare i propinqui di grado in grado, servando tra lutti in certe cose una pare
equalità, come nella giustizia e nella libertà ; ed in alcune altre una
ragionevole inequalità, come nell’ esser liberale, nel remu- nerare, nel
distribuir gli onori c dignità secondo la inequa- lilà dei meriti, li quali
sempre debbono non avanzare ma esser avanzali dalle remunerazioni; e che in tal
modo sa- rebbe nonché amato ma quasi adorato dai sudditi; nè biso- gneria che
esso per custodia della vita sua si commettesse a forestieri, chè i suoi per
utilità di sè stessi con la propria la cuslodiriano, ed ognun volentieri
obediria alle leggi, quando vedessero che esso medesimo obedisse, c fosse quasi
custode ed esecutore incorruttibile di quelle ; ed in tal modo, circa questo,
darebbe cosi ferma impression di sè, che se ben ta- lor occorresse conlrafarle
in qualche cosa, ognun conosceria che si facesse a buon fine, e ’l medesimo
rispetto e riverenza s’aria al voler suo, che alle proprie leggi: e così sarian
gli animi dei cittadini talmente temperali, che i buoni non cer- cariano aver
più del bisogno, c i mali non poriano; perchè molte volle le eccessive
ricchezze son causa di gran ruina; come nella povera Italia, la quale è stala e
tuttavia è pred.a esposta a genti strane, si per lo mal governo, come perle
molte ricchezze di che è piena. Però ben saria che la mag- gior parte dei
cittadini fossero né mollo ricchi nè molto po- veri, perchè i troppo ricchi
spesso divengon superbi e leme- rarii; i poveri, vili c fraudolenti; ma li
mediocri non fanno insìdie agli altri, e vivono securi di non essere insidiati:
ed essendo questi mediocri maggior numero, sono ancora più potenti ; e però nè
i poveri nè i ricchi possono conspirar cen- tra il principe, ovvero conira gli
altri, nè far sedizioni; onde per schifar questo male è saluberrima cosa
mantenere univer- salmente la mediocrità. XXXIV. Direi adunque, che usar
dovesse questi e molli altri rimedii opportuni, ]>crché nella raciilc dei
sudditi non Digrtlzed by ‘«attjen, ^ die ' ' ««a iorn
che <^«» “;:^t Vare ,• ®<// r/corw^^'^'^ce ^ ® *^“''''®ainor»
* poco; per- ^ aoie,„ suj^dchen ^>“r pr^a ^“an/o **aa ^ ©
<^e7/a ^ ®9®iWo, e ,#~ *®se di conser »°. " ■“«£ “» ^ù:, ?'■“ ‘
•>'■>* "" ^‘*“'•906 P'‘> S"'’ 2e» "
®''‘'*/7 f * 9ueiu T^‘'''> tanio J i qu; Hc, 7^ |,„oo; ‘'"'•po nè
cT*?» utili; •atti i ^^Av, ®?o/ » ®®*<o 'I I*enso io a- si» *
*0(irfv^0; e ^®co ' 7ua/e (ufi: - ’ d*8ses , .**'®*‘foo ® ©Oa ** Pochi li
». * ^*^<ldili fc>ss >«8o N: ®'>«orr®'^. >«ulasse i7
' *‘aO''os7ri^®*><i ™*S»iaja d ar ’®oo ^6 vanno
Digiri :..-J Lv, -- jlt IL CORTEGIANO. 270,
gli governassero, e da essi fossero obediti, fossero di pastori divenali gran
signori? Vedete adunque che non la moltitu- dine dei sudditi, ma il valor fa
grandi li principi. — XXXVI. Erano stali per buon spazio attentissimi al
ra- gionamento del signor Ottaviano la signora Duchessa e la si- gnora Emilia,
e lutti gli altri; ma avendo quivi esso fatto un poco di pausa, come d’aver
dato fine al suo ragionamento, disse messer Cesahk Gonzaga: Veramente, signor
Ottaviano, non si può dire che i documenti vostri non sian buoni ed uti-
nientedimeno io crederei, che se voi formaste con quelli il vostro principe,
più presto meritareste nome di buon mae- stro di scola cho di buon Cortegiano,
ed esso più presto di buon governatore che di gran principe. Non dico già che
cura dei signori non debba essere che i popoli siano ben retti con giustizia e
buone consuetudini ; nientedimeno ad essi parmi che basti eleggere buoni
ministri per eseguir queste (ai cose, e che ’l vero officio loro sia poi molto
maggiore. Però s’io mi sentissi esser quell’ eccellente Cortegiano che hanno
formato questi signori, ed aver la grazia del mio prin- cipe, certo è ch’io non
lo indurrei mai a cosa alcuna vizio- sa ; ma, per conseguir quel buon fine che
voi dite, ed io confermo dover esser il frutto delle fatiche ed azioni del Cor-
tegiano, cercherei d’imprimergli nell’animo una certa gran- dezza, con quel
splendor regale e con una prontezza d’ani- mo e valore invitto nell’ arme, cho
lo facesse amare e reverir da ognuno di tal sorte, che per questo
principalmente fosse famoso c chiaro al mondo. Direi ancor che corapagnar do-
vesse con la grandezza una domestica mansuetudine, con quella umanità dolce ed
amabile, e buona maniera d’acca- rezzare e i sudditi e i stranieri
discretamente, più c meno, secondo i meriti, servando però sempre la maestà
conve- niente al grado suo, che non gli lasciasse in parte alcuna diminuire
l’autorità per troppo bassezza, nè meno gli con- citasse odio per troppo
austera severità ; dovesse essere li- beralissimo e splendido, e donar ad
ognuno senza riservo, perchè Dio, come si dice, è tesauriero dei principi
liberali; far conviti magnifici, feste, giochi, spettacoli publici; aver gran
numero di cavalli eccellenti, per utilità nella guerra e Digitized
by Googk' ® “»«« " '’««« L'”"'- «»/ ' ^^eaio yen/:
‘^®Vra„ ’ e y fare yj** ,®'>aori co ^ '«*• ma signor ’J a „
®'^Oor i? ^^fpopo/T^ ®*ratf ’ "*• là D 1/ rf e ®ocof <y.- *^o
re *n va j J0//0 Wr, a S:s'■<^^ 'C:- “ c:"; '* '‘«
c,”“: '■'•* ^,;^“;»-o .1», ■'•«■'.a. , 5 ‘;s;r C;";-». r;,:rs
^*^f|fo . ^05/ , ® avea /à^ ^ece 41 <i«, <^'KaJia :'“■"«
.0»i! *''“'>*■ Sf f; pili, *'^®or *^*^*®*®vo 0(j« * che ^'Pe „ 7
'®»''ano ®**«ndro ji# ^ *»are: oene pj!,'*‘er„ ^,’'®vy/re Pace e «* 7 .”
“« Cr»'-»7r? “-«X 0.,?»iv,r «!.?« al,„ " ““'®= <=hé.e
1 a '''*»al?*"*o°^“ ^“'"'"cl,’.” °a?'o| 'i® ®
vln.Ìr ij - ***** '** ‘*"®*‘* e ;*'0»/0 ««Kbon» f„;
il 3. ■ '*"“■“ a"”’ ^?*''«*>'*«<o "^'■ler„ '’
»'-®‘**»°n„ hi ”^®aoo I® **rocusto e Se ^®''|Je(’ tiranni
crac ® e mortai g^uei rìdi Digitized by
Googl 272 IL CORTEGIANO. sii magnanimi
Eroi; e però per aver liberato il mondo da cosi intolerabili mostri (che
altramente non si debbon no> minare i tiranni], ad Ercole furon fatti i
tempii e i sacritìcii e dati gli onori divini; perchè il beneficio di estirpare
i ti- ranni è tanto giovevole al mondo, che chi lo fa merita molto maggior
premio, che lutto quello che si conviene ad un mortale. E di coloro che voi
avete nominati, non vi par che Alessandro giovasse con le sue vittorie ai
vinti, avendo in- sliluite di tanti buoni costumi quelle barbare genti che su-
però, che di fiere gli fece uomini? edificò tante belle città in paesi mal
abitali, introducendovi il viver morale; e quasi congiungendo l’Asia e l’Europa
col vincolo dell’ amicizia c delle sante leggi: di modo che più felici furono i
vinti da lui, che gli altri; perchè ad alcuni mostrò i matrimonii, ad altri
l’agricoltura, ad altri la religione, ad altri il non ucci- dere ma il nutrir i
padri già vecchi, ad altri lo astenersi dal congiungersi con le madri, e mille
altre cose che si porian dir in testimonio del giovamento che fecero al mondo
le sue vittorie. XXXVIII. Ma, lasciando gli antichi, qual più nobile e
gloriosa impresa e più giovevole potrebbe essere, che se i Cristiani voltassero
le forze loro a subjugar gl’infedeli? non vi parrebbe che questa guerra,
succedendo prosperamente, ed essendo causa di ridurre dalla falsa setta di
Maumet al lume della verità cristiana tante migliaja d’uomini , fosse per
giovare cosi ai vinti come ai vincitori? E veramente, co- me già Temistocle,
essendo discaccialo dalla patria sua o raccolto dal re di Persia e da lui
accarezzato ed onoralo con infiniti e ricchissimi doni, ai suoi disse: Amici,
minati era- vamo noi, se non ruinavamo; — cosi ben poriano allor con ragion
dire il medesimo ancora i Turchi e i Mori , perché nella perdita loro saria la
lor salute. Questa felicità adunque spero che ancor vedremo, se da Dio ne Ila
conceduto il vi- ver tanto, che alla corona di Francia pervenga Monsignor
d’Angolem, il quale tanta speranza mostra di sè, quanta, mo quarta sera, disse
il signor Magnifico; ed a quella d’In- ghilterra il signor don Enrico ,
principe di Waglia , che or cresce sotto il magno padre in ogni sorte di virtù,
come te- Digitized by Googk LIBRO QUARTO.
27, nero rampollo sotto l'ombra d'arbore eccellente « frutti,
per rinovarlo molto più bello e più fecotZ d Oa tempo; chè, comedi là
scrive il nostro Cast • ” più largamente promette di dire al suo ritorno, p
e natura in questo signore abbia voluto far prova la OOllolTA FiHr
in iin nr\«»nn e /\1 rv é n n f a .^ru. 1 I v-k «va a collocando in
un corpo solo tante eccellenze, qy_ *lessa, riano per adornarne infiniti. —
Disse allora messe ^osta- no JIibiena: Grandissima speranza ancor
di sé proi»» ^***^'*®' Carlo, principe di Spagna, il quale non essendo ® decimo
anno della sua età, dimostra già tanto gianlo così certi
indizii di bontà, di prudenza, di modesti°^^^”° ® ^paniiailà e d’ogni virtù,
che se l’imperio di crisjj * come s’estima, nelle sue mani, creder si può
®*curare il nome di molti imperatori antichi, ej lana ai famosi che mai
siano stati al mondo aliarsi XXXIX. Soggiunse il signor Ottaviano:
Credo ® ® lati e cosi divini principi siano da Dio mandai' • ® tu/
fatti simili della età giovcnilc, della poien,* *®*‘*'a, del stato,
della bellezza e disposizion del ® siano ancor a uueslo buon voler
concorri;. ar- siano ancor a questo buon voler
concordi- ® fin Or... ■ . _ > e ®***“lazione alcuna esser
deve mai tra essi, ">vj'dia ^ Voler ciascuno esser il primo e più
fervente ^ gloriosa impresa. Ma lasciamo questo rar»/* ®”'®ato
gloriosa impresa. j\ia lasciamo questo rar»; ‘"laic ^*'*Jiaino
3l nostro. Dico adunque, messer Tot > s© «I. - ^ , A ^^sare. ok_
. ®se che voi -volete che faccia il principe son cran^’ sg 8ne di
molta laude; ma dovete intendere, che se che le «auucy
ijuci uuYcie Jiiteiiucrei ci)0 oa ^ p a^.**®^° cb' io bo dello che ha da
sapere, e non ha*/ dim**”® quel modo, ed indrizzato al camnjìnnH ■<Bo„
. '■ini, saprà esser magnanimo, liberale, giusi/ '^**^*^ gli’
P*""**®”*® » ® avere alcuna altra qualità di quelle O©
a|* ^ » v«* ^A^UUd dillo ^UtlJlia Q| {IiiaII nò per altro vorrei che
fosse tale *^**** «cane condizioni: chè si comequell’i chlT so“°** ****^'
architetti, cosi quegli che dona'**' ®^no®:** P«-chè la virtù non Lece m
' ^/ > e molt* sono . ““i aa al- rr’V'l®Sa™robbi''d’a/?;!
® ®®*‘ la robba d’altri. ^ « cosi son libe- • I dànno a cui
non debbono a all.. in calamità e ,■ . "«“o, e ® *®® ria
quegli a’ quali sono obli gali ■ ino con una certi* »«-., • • j- *
naala grazia e quasi dispetto , tal igU I
274 n. COBTEGIANO. che si conosce che lo fan per forza; altri non
solamente non son secreti, ma chiamano i testimoni e quasi fanno bandire le sue
liberalità; altri pazzamente vuotano in un tratto quel fonte della liberalità,
tanto che poi non si può usar più. XL. Però in questo, come nell’altre
cose, bisogna sa- pere e governarsi con quella prudenza, che è necessaria com-
pagna a tutte le virtù; le quali, per esser mediocrità, sono vicine alli dui
estremi, che sono viiii; onde chi non sa, fa- cilmente incorre in essi: perchè
cosi come è diQicile nel cir- colo trovare il punto del centro, che è il mezzo,
cosi è diffi- cile trovare il punto della virtù posta nel mezzo delli dui
estremi, viziosi l’uno per lo troppo, 1’ altro per lo poco , ed a questi siamo,
or all’ uno or all’ altro, inclinati: e ciò si co- nosce per lo piacere e per
lo dispiacere che in noi si sente ; chè per 1’ uno facciamo quello che non
devemo , per l’ altro lasciamo di far quello che deveremmo; benché il piacere è
molto più pericoloso, perchè facilmente il giudicio nostro da quello si lascia
corrompere. Ma perchè il conoscere quanto sia r uom lontano dal centro della
virtù è cosa diffìcile, de- vemo ritirarci a poco a poco da noi stessi alla
contraria parte di quello estremo al qual conoscemo esser inclinati , come
fanno quelli che indrizzano i legni distorti; chè in tal modo s’ accosi aremo
alla virtù, la quale, come ho detto, consiste in quel punto della mediocrità: onde
interviene che noi per molti modi erriamo, e per un solo facciamo l’ officio e
debito nostro; cosi come gli arcieri, che per una via sola dànno nella brocca,
e per molte fallano il segno. Però spesso un principe, per voler esser umano ed
affabile, fa infinite cose fuor del decoro, e si avvilisce tanto che è
disprczzato; al- cun altro, per servar quella maestà grave con autorità con-
veniente, diviene austero ed intolerabile; alcun, per esser tenuto eloquente,
entra in mille strane maniere e lunghi cir- cuiti di parole affettate,
ascoltando sé stesso tanto, che gli altri per fastidio ascoltar non lo
possono. XLl. Si che non chiamate, messer Cesare , per minu- zia cosa
alcuna che possa migliorare un principe in qualsi- voglia parte, per minima che
ella sia; nè pensate già ch'io estimi che voi biasmiatc i miei documenti,
dicendo che con Digitized by Googic LIBRO QUARTO-
quélU piQUesto si formarla un duod groveraafore che n principe; chè non
si può forse dare maggior conveniente ad un principe, che chiamarlo buon ** re.
Però, se a me toccasse instilnirlo, vorrei che cura non solamente di governar
le cose già deit^^ baolto minori, ed intendesse tutte le particoJarii^ epparf^*
Denti a’suoi popoli quanto fosse possibile, nè mai credes<tó tanto nè tanto
si confidasse d’ alcun suo ministro, ^he a gael Solo rimettesse totalmente la
briglia e lo arbitrio dj governo; jierchè non è alcuno che sia altissimo a ®e.e
mollo maggior danno procede dalla credulità de'sjgnori dalla incredulità, la
qual non solamente talor ooa ooo- ma spesso sommamente giova: par in questo è
necessa- ‘I buon giudicio del principe, per conoscere chi merita" ®sser
credulo e chi no. Vorrei che avesse cura d'iniendere ® trioni, ed esser censore
de’ suoi ministri; di levare ed abre '^iar le j,,, ^^a i sudditi; di far far
pace Ira essi, ed allegar- g“ insieme de’ parentali; di far che la città fosse
(mja concorde in anoicizia, come una casa privata; popolo»- Povera,
quieta, piena di buoni artefici; di favor,y .• » ed aju tarli ancora con
denari ; d' esser onorevole nelle ospitalità verso i forestieri e verso i ^gj-
. eh tutte le superfluità: perchè spesso per gjj- ^ ® si fanao in queste
cose, benché pajano piccoli^ Je méi**° mina; però è ragionevole che '1 princi^
pg^ * troppo sontuosi ediflcii dei privali, ai convivii all g * ®®cessive
«ielle donne, al lusso, alle pompe nelle •* pji^®f**Dien(i, <5Ìie non è
altro che un argomento della *®J chè, oltre che spesso, per quella ambizione ed
' che si portene l'aaa all’ altra, dissipano le facoltà e la frasg^** «le*
oaakwiU, talor per una giojetta o qualche allr^ parare**^*® tale 'vendono la
pudicizia loro a chi la vuol com- -Allora measer Ssernabdo Bibiens,
ridendo, Signor e del disse, voi entrale nella parte del signor Gaspar ba
lita*^^'®' — Hàspose il signor Ottaviaho , pur ridendo: <l>rò p.^
flnila, cd io non voglio già rinovarla; però non delle donne, ma ritornerò al
mio principe. — Ri- Digitized by Googli: 276
IL CORTEGIANO. spose il Fbigio: Ben potete oramai lasciarlo,
e contentarvi ch’egli sia tale come l’avete formato; chè senza dubio più facil
cosa sarebbe trovare una donna con le condizioni dette dal signor Magnifico,
che un principe con le condizioni dette da voi; perù dubito che sia come la
republica di Platone , e che non siamo per vederne mai un tale, se non forse in
eie- Rispose il signor Ottaviano: Le cose possibili, benché siano
diflìcili , pur si può sperare che abbiano da essere ; perciò forse vedremolo
ancor a’nostri tempi in terra: chè benché i cieli siano tanto avari in produr
principi eccellenti, che a pena in molli secoli se ne vede uno, potrebbe questa
buona fortuna toccare a noi. — Disse allor il conte Ludovi- co: Io ne sto con
assai buona speranza; perchè, oltra quelli tre grandi che avemo nominali, dei
quali sperar si può ciò che s’ è detto convenirsi al supremo grado di perfetto
prin- cipe, ancora in Italia si ritrovano oggidì alcuni figlioli di si- gnori,
li quali, benché non siano per aver tanta potenza, forse suppliranno con la
virtù; e quello che tra tutti si mo- stra di meglior indole, e di sé promette
maggior speranza che alcun degli altri, parmi che sia il signor Federico
Gonzaga, primogenito del marchese di Manlua, ncpole della signora Duchessa
nostra qui; chè, olirà la gentilezza de’ costumi, e la discrezione che in cosi
tenera età dimostra, coloro che lo governano di lui dicono cose di maraviglia
circa l’essere ingenioso, cupido d’onore, magnanimo, cortese, liberale, amico
della giustizia; di modo che di cosi buon principio non si può se non aspettare
ottimo fine. — Allor il Frigio, Or non più, disse; pregheremo Dio di vedere
adempita que- sta vostra speranza. — XLIll. Quivi il signor Ottaviano,
rivolto alla signora Duchessa con maniera d’aver dato fine al suo ragionamen-
to, Eccovi, Signora, disse, quello che a dir m’occorre del fin del Cortegiano;
nella qual cosa s’io non arò satisfatto in lutto, baslarammi almen aver
dimostrato che qualche perfe- zion ancora dar se gli pelea olirà le cose delle
da questi si- gnori; li quali io estimo che abbiano pretermesso e questo, e
tutto quello ch’io potrei dire, non perchè non lo sai>cssero meglio di me,
ma per fuggir fatica; però lasciarò che essi Digitized by ,
LIBRO QUAHTO- 277 vadano continuando» se a
dir gli avanza cosa alcuog torà disse la signora Duchessa: Offra cJie l’ora è
che tosto sarà tempo di dar fine per cjnesfa sera, ^ par che noi debbiam
mescolare altro ragionamento Ole Con non
que- »to; nel quale voi avete raccolto tante varie e belle cose
iirca il line della Cortegiania si può dir che non ®°'a«nen(e
sto circa il line della Cortegiania si pud siate quel perfetto
Cortegiano che noi cerchiamo, e per instituir bene il vostro principe; ma , se
la fortuna** ^ sarà propizia, che debbiate ancor essercT ottimo Priuc/pg. che
saria con molta utilità della patria vostra. It/sg ^ J gnor Ottaviano, e disse:
Forse, Signora, s io fossi in jgi grado, a me ancor interverria quello che
suole *'*'tervenire a *oolii altri, li quali san meglio dire che fare. —
XLIV. Quivi essendosi replicato un poco di ragiona- «Jcnto Ira tutta la
compagnia confusamente, con alcung ' ^*'^fiitioni, pur a laude di quello che s’
era parlato, g 7 ancor non era l’ora d’andar a dormire, disse ridendo 1
.^fi’ni/ìco /ci.iANio; Signora, io son tanto nemico degl'igj, ' ”• >
elle in’é forza contradir al signor Ottaviano, ij gng| c^ser, Como io dubito,
congiurato secretamenle ggj . '^spar conira le donne, è incorso in dui
errori, second*^””*^ «'■andissimir dei quali l’uno è, che per preporre
guggj^ ®Siano alla Donna di Palazzo, e farlo eccedere qggj p*'* ch**^^
essa può g^iungere, l’ha preposto ancor al Princin™'"*
che •nconvenienl > ..a ^nneipe .-i
tissimo; l’altro, che gli ha dalo un (al (jg * Sempre è «JifTìcile e talor
impossibile che io conseguiggg’ Quando pur lo consegue, non si deve nominar per
fn ^f'ano ■ P®»- Corle- * — Io non intendo, disse la signora
Jìmiua, come si sto * o imjjossibile che ’l Cortegiano conseguisca
n*** posto*” meno come il signor Ottaviano l’abbia pre^ il siqn^*
principe. — Non gli consentile queste cose, ris^)se ®'prin”^ Ottav^iaivo,
perch’ io non ho preposto il Cortegiano esser ® cinca //fine della
Cortegiania non mi presumo ”®o»-so in errore alcuno. — Rispose allor il
Magnifico causji potete, signor Ottaviano, che sempre la late **
quale Io effetto è tale come egli è, non sia più in**”” ^ quello effetto
; però bisogna che ’l Cortegiano, ®lituzion del quale il principe ha da
esser di Unta 24 Digitiz^j by C'- >OgI« IL
CORTEGIANO. 278 eccellenza, sia più eccellente che quel principe;
ed in questo modo sarà ancora di più dignità che’l principe istesso; il che è
inconvenientissimo. Circa il fine poi della Corlegiania, quello che voi avete
detto può seguitare quando l’età del principe ò poco differente da quella del
Corlegiano, ma non però senza dilllcollà, perchè dove è poca differenza d’età,
ragionevol è che ancor poca ve ne sia di sapere; ma se ’l principe è vecchio e
’l Cortegian giovane, conveniente è che ’l principe vecchio sappia più che ’l
Cortegian giovane, e se questo non intervien sempre, intervien qualche volta;
ed allor il fine che voi avete attribuito al Corlegiano è im- possibile. Se
ancora il principe è giovane e ’l Cortegian vec- chio, ditlìcilmente il
Cortegian può guadagnarsi la mente del principe con quelle condizioni che voi
gli avete attribuite; chè, per dir il vero, l’armeggiare e gli altri esercizi!
della persona s’ appartengono a’ giovani , e non riescono ne’ vec- chi, e la
musica e le danze e feste e giochi e gli amori in quella età son cose ridicole;
e parrai che ad uno inslilutor della vita e costumi del principe, il qual deve
esser persona tanto grave e d’autorità, maturo negli anni e nella esperien- za,
e, se possibil fosse, buon filosofo, buon capitano, e quasi saper ogni cosa,
siano disconvenienlissime. Però chi instilui- sce il principe estimo io che non
s’ abbia da chiamar Corlc- giano, ma meriti mollo maggiore e più onorato nome.
Si che, signor Ottaviano, perdonatemi s’ io ho sco|>erlo questa vostra
fallacia, chè mi par esser tenuto a far cosi per l’onor della mia Donna; la
qual voi pur vorreste che fosse di minor dignità che questo vostro Corlegiano,
ed io noi voglio com- portare.' — XLV. Risc il signor Ottaviano, e disse:
SignorMàgnitico, più laude della Donna di Palazzo sarebbe lo esaltarla tanto
ch’ella fosse pari al Corlegiano, che abassar il Cortegian tanto che ’l sia
pari alla Donna di Palazzo ; che già non se- ria proibito alla Donna ancora
inslituir la sua Signora, e ten- der con essa a quel fino della Corlegiania
ch’io ho dello convenirsi al Cortegian col suo principe; ma voi cercate più di
biasimare il Corlegiano, che di laudar la Donna di Palaz- zo: però a me ancor
sarà lecito tener la ragione del Corlegia- Digitized by
libro quarto. tio. per rispondere anunqne alle vostre objez/oni
r^on ho dello chi» la inalìlnvirtno r ’ '**Co 279 non
ho dello che la instituzione del Cortegiaao la sola causa per la quale il
principe sia tale; percKA*^ non fosse inclinato da nalura ed atto a poter esse
** pura e ricordo del Cortegiano sarebbe indarno; indarno s’ alTalicaria ogni
buono agricoltore che si * *ocor ® coltivare e seminare d’ottimi grani, l’arena
*®ore, perchè quella lai sterilità in quel loco é nato,.*] * |Joando al buon
seme in terren fertile, con la oria e piogge convenienti alle stagioni s’
agg/u^gg a d/l/gre^jza della coltura umana, si vedon sempre igp ®**cora
**ascere abondantissimi frutti; nè però è che lo ag.*”*®”*® o sfa jg causa di
quelli, benché senza esso poco ^*^**1®^*®*’ S^ovassgj.^ £at(g jg gji^e cose.
Sono adunque molti ^*®®*® ® sar/an buoni, se eli animi loro fossero
ben sar/an buoni, se gli animi loro fossero ben parlo io, non
di quelli che sono come i| *’ ® ’ ® tanto da nalura alieni dai bnoni
costami, chg ®^®~ f ^'sc/piina alcuna per indar l’animo loro al
diVn»****” ™'O0. *‘1110 cam. gjj -E perchè, come già avemo detto, tali
• n». *** *" noi quali sono le nostre operazioni. « **
consisto la virtù. ® Cori, cam- l^nnc
1 i?uiiu IO nostre operazioni, g — 1, non è impossibil nè
maravi„i”* ^ ®P®“ il principe a molte virtù, coiha^ shzia^ ludrizzi
il principe a molte virtù, coinè i ” ‘essn ’ liberalità, la magnanimità, le
operazion rf i, * Oh» i_ j . .. ueiie quali fan
,®§iano indrizzi il prìncipe magnanii_.._, ._ g ne*^ • ^
grandezza sua facilmente può mettere ‘ 1 '•Mll <l’ope ** che non può
il Cortegiano, per non av” ® no, ® cosi il principe, indotto alla virtù
dal ''eie r»i«i virtuoso che '1 Cortegiano. Oltra f®rro. ^®*’ cole
che non taglia punto, pur fa ~ ancora che ’l Cortegiano institoLc^ ^
gnltà fon per questo s’ abbia a dir che egli «ia di !•!. o't •' O» q«e,.a
corfegi.! Him e ohe quando par il CorleuLnT "»Sq,u '
"Opinar V Crtógiunu, „,'r J° ;»» »eno é difliniin noti ®
'onsetguir un tal ” . r ®®“' ®“‘® ^«rteg.a- "'^«èanco in quel caso
VE .? H caso che voi avete allegato: perché no
Digitized by Google 280 IL CORTIGIANO.
86 ’l Cortegian è tanto giovane, che non sappia quello che s’è (letto
ch’egli ha da sapere, non accade |>ariarne, perché non è quel Corlegiano che
noi presupponemo, nè possibil è che chi ha da sapere tante cose, sia molto
giovane. £ se pur occorrerà che ’l principe sia cosi savio c buono da sé
stesso, che non abbia bisogno di ricordi nè consigli d’altri (benché questo è
tanto diflìcile quanto ognun sa), al Cortegian basterà esser tale, che se ’l
principe n’avesse bisogno, potesse farlo virtuoso; e con lo elTctto poi |)otrà
satisfare a quell’altra par- te, di non lasciarlo ingannare, e di ‘far che
sempre sappia la verità d’ogni cosa, c d’opporsi agli adulatori, ai maledici,
ed a lutti coloro che machinassero di corromper l’animo di quello con disonesti
piaceri; ed in tal modo conseguirà pur il suo fine in gran parte, ancora che
non lo metta totalmente in opera: il che non sarà ragion d’ imputargli per
difetto, restando di farlo per cosi buona causa; ché se uno eccellente medico
si ritrovasse in loco dove tutti gli uomini fossero sani, non per questo si
devria dir che quel medico, sebben non sanasse gl’ infermi, mancasse del suo
fine: però, siccome del medico deve essere intenzione la sanità degli uomini,
cosi del Corlegiano la virtù del suo principe; ed all’ uno c l’altro basta aver
questo fine intrinseco in potenza, quando il non produrlo estrinsecamente in
atto procede dal subjetlo al quale è indrizzato questo fine. Ma se ’l Cortegian
fosse tanto vec- chio, che non se gli convenisse esercitar la musica, le feste,
i giochi, l’arme, e 1’ altre prodezze della persona, non si può però ancor dire
che impossibile gli sia per quella via en- trare in grazia al suo principe; perchè
se la età leva l’op(v rar quelle cose, non leva l’ intenderle, ed, avendole
operale in gioventù, lo fa averne tanto più perfetto giudicio, e più
Iierfcltamente saperle insegnar al suo principe, quanto più notizia d’ogni cosa
portan seco gli anni e la esperiènza: od in questo modo il Cortegian vecchio,
ancora che non eser- citi le condizioni attribuitegli, conseguirà pur il suo
fine d’insliluir bene il principe. XLVII. E se non vorrete chiamarlo
Corlegiano, non mi dà noja; jMìrchè la natura non ha posto tal termine alle
dignità umane, che non si j) 0 ssa ascendere dall’ una all’ altra: |)erò
Pi<j C'-ìagle LIBHO QUAHTo, spesso I soldati
semplici divengon capitani, gn \ali re, e i sacerdoti papi, e i discepoli maestri
Pri- sieme con la dignità acquistano ancor il nome; onrf^ porla dir, che
’l divenir institutor del principe fog^ ® ai Cortegiano. Benché non so chi
abbia da rifiutar dei di perfetto Cortegiano, il quale, secondo me, ^
nome grandissima laude; e parmi che Onnero , secondo l di dui uomini
eccellentissimi per esempio della vita ^ ^ uno nelle azioni, che fu
Achille, 1* altro nelle p» ^oleranze, che fu Ulisse, cosi volesse ancora
formg ®®®ni e ^®ho Cortegiano, che fu quel Fenice, il qual, ^ P®r- *’®rrato i
suoi amori, e molte altre cose gioveniij ^®6r sialo mandato ad Achille da Peleo
suo padre Compagnia, e insegnargli a dire e fare: il che
®*®*'&*< '‘®> che ■’l fin che noi avemo disegnato al nostro c
■" ® penso che Arislolele e Platone si fossero ga ***" ®^_®uo.
^^^e di frt P.orlpirifinri nor^.liÀ ei /•!,.*» Sanati del
cipe '-on y^^lessandro JUagno, r altro coi re di Sic,i-
'"®> olBcio é di buon Cortegiano conoscer la natuj. ® P®r-
e l’inclinazion sue, e cosi, secondo i hisoijD^- P‘‘‘n- destrezza
entrar loro in grazia,"^”* ® o/k di.,..**’ vie che prestano l’adito
secor„ ®’'®®o «rio .. ... e Poi f _ — A ~ ' — — — — — — - —
— y alla virtù : Aristotele cosi ben conobbe la ®uod COSI nen
conoooe la nato y n- ®«iai****’ * destrezza cosi ben la secondò,
che 7,®** onorato più che padre; onde, fra moli, v_. ■^'®8sancIro in
teslininni,, o..o h,,,.:.... segni C#j© A j « ^ pcluivy viiut;, tid
mo/(i ''olctt f®®un<^ro in testimonio della sua benivolen»..
Slag^ira sua patria, già disfatla, fosse me^r'^®®’ ®o ®*®*®*o » oltre allo
indrizzar lui a quel fin o-i Miri, ?•/" '■«"> «he -I mondo fooo,
co„f ^'Vesse ®'““* come un sol popol"* ed *n amioiz/a e
concordia tra sé sotto un sK"’ ® ' •^«tne risplendesse communemenle
“ !un" '''■‘'i delj. f ®’ scienze naturali e ne//' «Uh„ animo
talntenlt^ ,. 1 ,.. , , .... ® "®«e Be7in’®®'‘«nentissimo, Tv4ro fil
f««-tis- '^'«solìa, die indur l’- "®" P" Pi* « r
Viver civile i popoli lanlo cflerali 2i* C‘‘
282 IL CORTEGUNU. come quelli che abitano Ballra
e Caucaso, la India, la Sci- aia, ed insegnar loro i malrimonii, l’
agricoltura, l’onorar i padri, astenersi dalle rapine e dagli omicidii e dagli
altri mal costumi, lo edificare tante città nobilissime in paesilon- tani, di
modo che infiniti uomini per quelle leggi furono ri- dotti dalla vita ferina
alla umana; e di queste cose in Ales- sandro fu autore Aristotele, usando i
modi di buon Cortegiano: il che non seppe far Calistene, ancorché Aristotele
glielo mostrasse; che, per voler esser puro filosofo, e cosi austero ministro
della nuda verità, senza mescolarvi la Cortegiania, perdè la vita, e non giovò
anzi diede infamia ad Alessandro. Per lo medesimo modo della Cortegiania
Platone formò Dione Siracusano ; ed avendo poi trovato quel Dionisio tiranno,
come un Ubro lutto pieno di mende e d’errori, e più presto biso- gnoso d’ una
universal litura che di mutazione o correzione alcuna, per non esser possibile
levargli quella tintura della tirannide, della qual tanto tempo già era
macchiato, non volse operarvi i modi della Cortegiania, parendogli che do-
vessero esser lutti indarno. 11 che ancora deve fare il nostro Cortegiano, se
per sorte si ritrova a servizio di principe di cosi mala natura, che sia
inveterato nei vizii, come li ftisici nella infermità; perchè in tal caso deve
levarsi da quella servitù, per non portar biasimo dello male opere del suo si-
gnore, e per non sentir quella noja che senton tutti i buoni che servono ai
mali. — XLVllI. Quivi essendosi fermato il signor Ottaviano di jarlaro,
disse il signor Gasp&k ; Io non aspettava già che ’l nostro Cortegiano
avesse tanto d’onore; ma poi che Aristo- tele 0 Platone son suoi compagni,
penso che niun più debba sdegnarsi di questo nome. Non so già però s’ io mi
creda, che \ristotele e Platone mai danzassero o fossero musici in sua vita, o
facessero altre opere di cavalleria. — Rispose il signor Ottaviano : Non è
quasi licito imaginar che questi dui spi- riti divini non sapessero ogni cosa,
e però creder si può che operassero ciò che s’ appartiene alla Cortegiania,
perché dove lor occorre ne scrivono di tal modo, che gli artefici medesi- mi
delle cose da loro scritte conoscono che le intendevano insino alle medolle ed
alle più intime radici. Onde non è da dir UDRÒ quarto. che al
Corlegiano o inslilutor del principe, come |„ chiamare, il qqal tenda a quel
buon fine che avem >»on 9i convengan tulle le condizioni attribuitegli
signori, ancora che fosse severissimo filosofo e ^ 9uesti sanlissimo, perchè
non repugnano alla bontà, alfa ^.®°®*uoii ai sapere, al valore, in ogni età, ed
in ogQ,- *®®*’®zio- loco. — '®oipo o XLIX. Allora il signor Gaspar,
Ricordami, disse 90esli signori jersera, ragionando delle condizioni ’ ®^®
Siano, volsero ch’egli fosso inamorato ; o perchè *Qendo quello che s’ è dello
ìnsin qui, si poria cavar óu*^^*****' ® usione, che '1 Corlegiano, il
quale col valore ed aotorir ® indnr il principe alla virtù, quasi
necessarianjg^j^ •®§i)a che sia vecchio, perchè rarissime volte il saper
^ nana/ ag/i anni, e massimamente in quelle cose che si con la esperienza: non
so come, essendo q,- ®» se gli convenga r essere inamorato; atteso gj,» sera s’
é detto, l’amor ne’ vecchi non riesce, e* ®^® ne’ giovani sono delizie,
cortesie ed chf ®We donne, in essi sono pazzie ed inezie ridico; Porò^
®sa partoriscono odio dalle donne, e beffe da r’ * ®® queste vostro
Aristotele, Corlegian vecch'^* *^***^*’ e facesse quelle cose che fanno i
giov^**’ cho^^-’’ alcuni che n’ avemo veduti a’ di nostri ”d gli f **
®®orderia <i' insegnar al suo principe, e forse i / *^/**^® drieto la baja,
e le donne ne trarrebbon”*^***^^* Poi^hA **®®*'® di boriarlo. — Allora il
signor Ory. trit ** altre condizioni, disse, attribuite al
che ancora che egli sia vecchio, non iamo ®® gli
debb disse r»»*i vario di questa felicità d’ amare. *'*>n
èj ®' 9 “or Gaspar, levargli questo amare é una 00 ^^* **” vivere felicemente
fuor di miseriate Non vi ricorda, signor ®*Pert„ . ® ^ Signor
Ottaviano, ancora ch’esrli sìa «...i» ano, ancora ch’egli sia
male ” J oia JlidIC Che 8 '®c® di sono, li quali
chiamano per dolci irò e e guerre o j tormenti che hanno dalle lor
Digitized by Google IL CORTEGfANO. 28 1
donne; onde domandò, che insegnato gli fosse la causa di questa dolcezza? Però
se il nostro Cortegiano, ancora che vecchio, s’accendesse di quegli amori che
son dolci senza amaritudine, non ne sentirebbe calamità o miseria alcuna ; ed
essendo savio, come noi presupponiamo, non s’ inganna- rla pensando che a lui
si convenisse tutto quello che si con- vien ai giovani; ma, amando, ameria
forse d’ un modo, che non solamente non gli portaria biasimo alcuno, ma molta
laude e somma felicità non compagnala da fastidio alcuno, il che rare volte e
quasi non mai interviene ai giovani; e cosi non lascieria d’insegnare al suo
principe, nè farebbe cosa che meritasse la baja da’ fanciulli. — Allor la
signora Dcciirssa, Piacemi, disse, messer Pietro, che voi questa sera abbiate
avuto poca fatica nei nostri ragionamenti, perchè ora con più securtà v’
imporremo il carico di parlare, ed inse- gnar al Cortegiano questo cosi felice
amore, che non ha seco nè biasimo nè dispiacere alcuno; che forse sarà una
delle più importanti ed utili condizioni che per ancora gli siano attribuite:
però dite, per vostra fè, lutto quello che ne sa- pcle. — Rise messer Pietro, c
disse: lo non vorrei. Signora, che ’l mio dir che ai vecchi sia licito lo
amare, fosse cagion di farmi tener per vecchio da queste donne ; però date pur
questa impresa ad un altro. — Rispose la signora Duchessa : Non dovete fuggir
d’esser riputato vecchio di sapere, sebben foste giovane d’anni; |)erù
dite, e non v’escusate più. Disse messer Pietro : Veramente, Signora,
avendo io da parlar di questa materia, bisognariami andar a domandar consiglio
allo Ere inita del mio Lavinello.— Allor la signora Emilia, quasi turbala, Messer
Pietro, disse, non è alcuno nella compagnia che sia più ùisobedicnte di voi;
però sarà ben che la signora Duchessa vi dia qualche castigo. ~ Disse messer
Pietro, pur ridendo: Non vi adirale meco. Signora, per amor di Dio; che iu dirò
ciò che voi vorrete. -Or dite adunque, — rispose la sijgnora Emilia. JA.
Allora me.sscr Pietro, avendo prima alquanto Ia- cinto» rassettatosi un poco,
come [icr parlar di cosa im- I*®»- dimostrar che i vecchi pos- no"
^tameiUe amar senza biasimo, ma lalcr più fcli- Digitized by
Googl^' LIUIIO ttUAHTo. cernente che i giovan», sarainmi
necessario far un ^""coa- discorso, per dichi^***** c e cosa è amore,
ed if* ^ ^rego^^ siste la felicità che possono aver gV inamorati; P^jgre cbo ad
ascoltarmi con attenzione, perchè spero fa^v» a”" qui non è uomo a
cui si disconvenga 1’ esser cor che egli avesse quindici o venti anni P'* fL^se
«nesscr Morello. -E quivi, essendosi alquanto riso, s»??' ^v\ch‘ Pietro: Dico
adunque che, secondo che das'*. \c ò diffiniin. Aiuor non è altro in d®®'
_ ac non « Ialiti ,, è diflìnilo, Amor non è altro che un
certo e u la bellezza; e perchè il desiderio non apP®';)-.oO «è è
cose conosciute, bisogna sempre che la cog**** e, che desiderio : il
quale per sua natura vuole d \o u,wa; cieco e non lo conosce. Però ha
cosi ordiu»*.iriù .qJ. ad ogni virtù conoscente sia <^onniu„ia un» ‘
ouoscere,;- e perchè nell’anima nostra son ^e „odi Tbrulii per lo senso,
per la ragione e per f inteU®*^ li aa\- sce Tappetilo, il qual a noi è
eommunecoP ^ jeAi’ ‘lo- dalla ragione nasce la elezione, che è oTOpf*^ icar
^o- T inlelletlo, per Io quale V nom senso "on ^ gel., nasce
la volontà. Così adunque coh»^,^ 5 Ìwe solaCiC*» nosce se non cose
sensibih, r appetii^ le ad altro desidera; e cosi come 1 intelletto non è
volontà alla contemplaz.on di cose intelligibni, q»*^’ di natura mente si
nutnsce d. beni spirituali. L’uoih^V,; può per naie, posto come mezzo fra
questi dui ;„o elezione, inclinandos. al senso ovvero eleV^h^^f Ietto,
accostarsi ai desideri! or dell' una or ^ ‘ Di questi modi adunque si può
desiderarla ^ universa! della quale si conviene a tutte le cos® ®
artifìciali che son composte con buona proporz*»”® e ** temperamento, quunto
comporla la lor natura- ^ Eli. Ma, parlando della bellezza che noi
intendena^^ ^ è quella solamente che appar nei corpi e massimanoe*** volli
umani, e muove questo ardente desiderio che no» miamo amore: diremo, che è un
flusso della bontà quale benché si spanda sopra tutte le cose create, lume del
sole, pur quando trova un volto Iwu misurato ^ J ^ posto con una cerla gioconda
concordia di colori disl»^ ttCcdA - Oigifized by
Google IL CORTECIANO. aiutali dai lumi e dall’ ombre e da una
ordinala disianza e termini di linee, vi s’infonde e si dimostra bellissimo, e
quel subjetto ove riluce adorna ed illumina d’ una grazia e splendor mirabile,
a guisa di raggio di sole che percola in un bel vaso d’oro terso e varialo di
preziose gemme; onde piacevolmente tira a sè gli occhi umani, e per quelli
pene- trando s’ imprime nell’ anima, e con una nuova soavità tutta la commove e
diletta, ed accendendola, da lei desiderar si fa. Essendo adunque l’anima presa
dal desiderio di fruir que- sta bellezza come cosa buona, se guidar si lascia
dal giudicio del senso incorre in gravissimi errori, e giudica che ’l corpo,
nel qual si vede la bellezza, sia la causa principal di quella, onde per
fruirla es’ima essere necessario l’unirsi intimamente più che può con quel
corpo; il che è falso: e però chi pensa, possedendo il corpo, fruir la bellezza,
s’inganna, e vien mosso non da vera cognizione per elezion di ragione, ma da
falsa opinion per l’ appetito del senso : onde il piacer che ne segue esso
ancora necessariamente è falso e mendoso. E perù in un de’ dui mali incorrono
tulli quegli amanti, che adem- piono le lor non oneste voglie con quelle donne
che amano: chè ovvero subito che son giunte al fin desideralo non sola- mente
senlon sazietà e fastidio, ma piglian odio alla cosa amata, quasi che l’
appetito si ripenla dell’ error suo, e rico- nosca l’ inganno fattogli dal
falso giudicio del senso , per lo ouale ha credulo che ’l mal sia bene; ovvero
restano nel me- dggjjjjo desiderio ed avidità, come quelli che non son giunti
veramente al fine che cercavano; e benché per la cieca opi- nione, nella quale
inebriati si sono, paja loro che in quel plinto sentano piacere, come talor gl’
infermi che sognano di f»er qualche chiaro fonte, nientedimeno non si
contentano s’ acquetano. E i>erchè dal possedere il lien desideralo nasco
sempre quiete e salisfazione nell’ animo del possesso- ri ^ se quello fosse il
vero e buon fine del loro desiderio, pos- ge/lendolo restariano quieti c
satisfalli ; il che non fanno : ingannali da quella similitudine, subito
ritornano al sfre- nato desiderio, e con la medesima molestia che prima senti-
vano si ritrovano nella furiosa ed ardentissima sete di (juello, cHo •»
«l'«rano di jiosscder perfettamente. Questi tali Di ■ . t
LIBRO quarto. inamorali adunq**® ^®ano 'ufelicissinnaroenic, grande
vero non conseguono mai li desiderii loro, il coese- infelicità ; ower,
»e g« conseguono, si trovano ^agg'®*’ guito il suo male, © finiscono le miserie
con ^ ji quest» miserie ; perchè ancora nel principio e nel amore altro -non si
sente giammai che q lori, stenti, fatiche : tl* modo che Tesser continue
lacrime e sospiri, il gaggio» y cs^®^ 'r ina- lamentarsi, il desiderar di
morire, in cissimo, son le condizioni che si dicono morali. „g\\e LUI. La
causa adunque di questa in umani è principalmente il senso , u «naie ^ g.
d®' è potentissimo, perchè 'I vigor della caft'^’.o .f aoP®' quella
stagione gli dà tanto di fona qo®** gC?® . . ^et- ragione, e però facilmente
induce Tanit»^ prig»®® lito; perchè ritrovandosi essa sommersa V governar
U rena, e, per esser applicata al ministerio ^oo P»«» .on DO. nriva della
contemplazion spiritual®’ aver cogn»» hiaramente la verità; onde, il
principi® bisogna che vada a,ùd»^ ■. al O
po, priva ueii» intender chiaramente aerila; onde P*’' il principia
. delle cose, bisogna che vada mendicando*»^- lo*» sensi, e però loro crede e
loro ai inchina ® Rigore che ascia, massimamente quando hanno taot® -iono
d’err^*^‘ ® la sforzano; e perchè essi son fallaci, la false opinioni. Onde
quasi sempre occorre dalla avvolti in questo amor sensuale in tutto fO*»,
j ^ ^ ne, e però si fanno indegni di fruir le dona amor ai suoi veri
soggetti; nè in amof sentono p ‘ fuor che i medesimi che sentono gli animali
irrazionai' t gli affanni mollo più gravi. Stando adunque posilo, il
quale è verissimo, dico che ’l contrario intef a quelli che sono nella
età pìà matura- che se quest» quando già l’animo non è tanto oppressa dal
peso ^ c quando il fcrvor naturale comincia ad intepidirsi, ^ dono
della bellezza e verso quella volgono il desideri** dato da razionai
elezione, non restano ingannali, c gono perfettamente la bellezza: e per»
dal possederla *Z0^ lor sempre bene; perchè la bellezza è buona e
conse^**^ Digitized by Google 1 288
IL GORTEGIANO. mente il vero amor di quella è buonissimo e
santissimo, e sempre produce effetti buoni neU’animo di quelli, che col fren
(Iella raeion correggono la nequizia del senso; il che molto più facilincnlc i
vecchi far possono che i giovani. LIV. Non è adunque fuor di ragione il
dire ancor, che i vecchi amar possano senza biasimo e più felicemente che i
tjio vani; pigliando però questo nome di vecchio non per de- cre|>*lo> nè
quando già gli organi del corpo son tanto debili, che l’anima per quelli non
può operar le sue virtù, ma quando il sap®’’ vigore. Non tacerò ancora
questo; che è ch’io estimo che, benché l’amor sensuale in ogni età sia malo,
pur ne’ giovani meriti escusazione, e forse in modo sia licito; chè se ben dà
loro affanni, peri- coli fatiche, c quelle infelicità che s’è detto, son
però molti che l>cr guadagnar la grazia delle donne amate fan cose
vir- . le quali benché non siano indrizzatc a buon fine, pur
tuoS*-' » ’ .... 1. son buone; e cosi di quel mollo amaro cavano un
poco di tlolc®» e per le avversità che sopportano in ultimo rico-
l’error suo. Come adunque estimo che quei giovani gforzan gli appetiti ed
amano con la ragione sian divini, . ^scnso quelli che vincer si lasciano
dall’aroor sensuale, jjl tanto per la imbecillità umana sono inclinati:
purché f* mostrino gentilezza, cortesia e valore, e le altre no- ”1
hanno dette questi signori; e quando non nella età giovciiile, in tutto
l’abbandonino, allonla- QOn E/*** " dosi da questo scnsual
desiderio, come dal più basso grado gcala l)cr la qual si può ascendere al vero
amore. Ma se ® , poi che son vecchi, nel freddo core conservano il foco
li appetiti, e sottopongon la ragion gagliarda al senso de- non si può dir
quanto siano da biasimare; chè, come . * perpetua infamia esser
connumcrati gli animali irrazionali, perchè i pensieri e i modi
del- sensuale son troppo disconvenienti alla età matura. * ^ L.V-
Quivi fece il liembo un poco di pausa, quasi come f ripoP®*’®'» ® si®ndo ognun
cheto, disse il signor Morello ®‘ trovasse un vecchio più disposto e ga- £ir‘lo
e di miglior aspetto che molti giovani, perchè non voi che a questo fosse
licito amar di quello amore Digitized by Google oh.r:'
^ ®Orares/ * *® foste esq *^^®^'Ce ^^chrs«a e t/- volete *o,
il g * veccli/ ''ecch-®®*»ie d/®'”" '* Con ’^Oole el. »■ "
costoro, non p <?Sso 1 e n* p. ^'«POse il signor Moa, sj
^®”*o/aod» eh ° ^’uo^ “esser Pietro Be; sia Recedo 'i e ^ Ì>o« *^®*^*®
modo, eh’ io per i Oon^^’^P^ così h ®^/or ®®dere qaesla bellezza, c
S"’ co^ co’®'® «n sogno. - Credete v. =he belle ^ic« ® Ipdovico, che
la bellezi -PorS*"' «'-»Pre?“'
»«..i^’“»^..‘°”’»-'P<.°T°.'^°’'“’>-i non ^'^cosi I. ® a//o„
°eaere qaesla bellezza, c ?u." " co’ *'»«n.0goo.- crede,*
V, Che *e//e ^icn ® Ipdovico, che la bellezi ^»PorT^"‘
««“pre"""® tp^J?Oa^® «iesser Pietro Bembo? - j <»en/^®’ ®^a
son . ir,?*'®»»^ ®>‘ an« ricórdomi aver v. ciopo”!."^ Voi crudeli
e dispettose; e pa **'®'ro B che perché la bellezza le i '’cech;
"®“ho cji .^Cfrec frisse il conto Ludovico , j e nó ® ®*e cosa'^®
^Or/®» nT®*' Perché non vi compia mess ^«rrete ,> desiderar la
bellezza J; ch^^! > e >'ni, vederle che „on chi** '
^'ovatf?'*®'' Si 'compiaceranno , Colin ^ On; . riehi, ®ep mi
lo< Ce'4c’>acc*. e^"; : 8»or >"v,eó " '■»«„
*»>,», *»«''»« *4e i ^ if'"»,! *'»>o„,; '>OcoI""o
ro®”<»0l,d. O '■*Wocter-< "'Oic ,?.''» .•„?'•« Sol '■'» a
V”®’-' «>C« cfte '» '« t;*® - '• . -I.™ ?»c°:
'Oo.o''®"»,,!.'’'"' /ir g®‘: “'T,'. ^ '’®»araJ'^'‘ che
/'Oh '«sii ®'*'’^'arap.^ii„ ^'■©hi, *^eti P'» sono ow 'iid , *^1
he//„ ^'^0 ancora ®iano >iio, « atti ad a r»
v^ «r“ m Digitized by Google 290
nate, c IL cobtegiano. Il naella vista graziosa sia
come Pesca nascosa sotto il Allora roesser Pietho Bembo, Non crediate, disse,
‘,“”,1 bellezza non sia sempre buona. -Quivi il conte Lu- novico , per
ritornar disse- Poiché ’l signor Morello non si cura di saper
quello per ritornar esso ancor al primo proposito, interruppe
Poi tanto gl’ importa, insegnatelo a me, e mostratemi come i vecchi
questa felicità d’amore, che non mi cu- di farmi tener vecchio, pur che mi
giovi.— j VII. Rise messcr Pietbo, e disse: lo voglio prima levar ,, ^niino di
questi signori l’error loro; poi a voi ancora sa- —Cosi ricominciando, Signori,
disse, io non vorrei tisfar - bellezza, che è cosa sacra, fosse alcun
‘^1’® ebe come profano e sacrilego incorresse nell’ ira di Dio : di che ’l
signor Morello e messer Federico siano am- ti e non perdano, come
Stesicoro, la visla, che è pena nientissima a chi disprezza la bellezza, dico
che da Dio conve bellezza, ed è come circolo, di cui la bontà è il cen-
nasc« jj„„ pu 5 esser circolo senza centro , non può Irò;
e P esse»* 1 ellezza senza bontà: onde rare volte
mala anima abita - e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bel ‘^"‘'.^irinseca,
e nei corpi è impressa quella grazia più e boni» • pcc carattere dell’anima,
per lo quale essa meno ^^^^jente è conosciuta, come negli alberi, ne’ quali la
estri»®® Qcji fa testimonio della bpntà dei frulli; e questo belle**® ^ interviene
nei corpi, come si vede che i Fisiono- medes**^^^ conoscono spesso i costumi e
talora i pensieri de- mi ^ - pi; e, che ò più, nelle bestie si comprende ancor
allo gli **®***j^ qualità dell’animo, il quale nel corpo esprime sè aspef*^®
che può. Pensale come chiaramente nella faccia stesso P* del cavallo,
dell’aquila si conosce l’ira, la ferocità del grbia; negli agnelli e nelle
colombe una pura e sem- e la ®®*^j^ocenza; la malizia astuta nelle volpi
e nei lupi, e plio» * j di tutti gli altri animali. cosi I brulli adunque
per lo più sono ancor mali, c li ^ jji; e dir si può che la bellezza sia
la faccia piace- i ^^iiegra, grata e desiderabile del bene; e la bruttezza,
oscura, molesta, dispiacevole e trista del male; e bell vol£?
» la ^*^*^giderale tulle le cose, Irovarele che sempre quelle
che se r»s Digitized by Gi M
□.ili, . . Il cj, J " «Ogni ’ ■iel «" i« '* '«rra o,„ *® w
«•- '®^es8o sosfeniii di ^ ^a- ®^^’ai<ra nar» òa-^**® eira ® *“®
Pes® ®ondo che *’ ®®»n illamina il tu»o, e ne/ 9“e 8/ei/e *!
^PProt^ da*”®’ Poi a poco a poco ascende ®*® cose /r *^"® ‘‘^''crsan,^^*^^
o piglia la sua luce, se- ®ooipog,^ co*f 'a»i(a e*’*® fa *® allonlana; e
l’allre cin- Pon Dar- ^®*'^a ** *J“el medesimo corso. Que- ®»^cora lao,
«<ar ii,». ***«*! t„*^®*' 'a connession d’un ordino ®*»aoi jn,an^
®®^'ezza © ’ ®^»e mutandole pur un pun- ** “orno cfc ”?*■ ®osa n ?*'®*ià
*'“'narobbe il mondo; hanno f®*’*® de/ c„t®^ «i»r .IV <»e|| ’ ®»»e non
posson gl’ingegni il?” ® caso ^ ^ Pensale or della figura del- ffrl
*>»c;r *"®' ‘ofta^'’®s/a^®'ido; nel quale vedesi ogni *«»o al“?7® «•■
p*” fol Necessariamente per arte e I)rac7 coroé I? '® insieme «8*®^
beUissima; <*'■ 1 ‘ ®®«^i ? ej”^^*car q«*«* P'*» « uUIilà '
-t'rr IL GORTEGIANO. 290 nare, e che
quella vista graziosa sia come Fesca nascosa sotto l’amo. — Allora messer
Pietro Bembo, Non crediate, disse, che la bellezza non sia sempre buona. —
Quivi il conte Lu- dovico, per ritornar esso ancor al primo proposito,
interruppe e disse: Poiché ’l signor Morello non si cura di saper quello che
tanto gl’ importa, insegnatelo a me, c mostratemi come acquistino i vecchi
questa felicità d’amore, che non mi cu- rerò io di farmi tener vecchio, pur che
mi giovi. — LVII. Risc messer Pietro, e disse: Io voglio prima levar
dell’animo di questi signori l’error loro; poi a voi ancora sa- tisfarò. — Cosi
ricominciando, Signori, disse, io non vorrei che col dir mal della bellezza,
che è cosa sacra, fosse alcun di noi che come profano e sacrilego incorresse
nell’ira di Dio: però, acciò che ’l signor Morello e messer Federico siano am-
moniti, e non perdano, come Stcsicoro, la vista, che è pena convenientissima a
chi disprezza la bellezza, dico che da Dio nasce la bellezza, ed è come
circolo, di cui la bontà è il cen- tro; e però come non può esser circolo senza
centro, non può esser bellezza senza bontà: onde rare volte mala anima abita
bel corpo, e perciò la bellezza estrinseca è vero segno della bontà intrinseca,
e nei corpi è impressa quella grazia più e meno quasi per un carattere
dell’anima, per io quale essa estrinsecamente è conosciuta, come negli alberi,
ne’ quali la )>ellezza de’ fiori fa testimonio della bontà dei frutti; e
questo medesimo interviene nei corpi, come si vede che i Fisiono- mi al volto
conoscono spesso i costumi e talora i [lensieri de- gli uomini; c,clie è più ,
nelle bestie si comprende ancor allo aspetto la qualità dell’animo , il quale
nei corpo esprime sé stesso più che può. Pensate come chiaramente nella faccia
del leone, del cavallo, dcH’aquila si conosce l’ira, la ferocità c la superbia;
negli agnelli e nelle colombe una pura e sem- plice innocenza; la malizia
astuta nelle volpi e nei lupi, e cosi quasi di tutti gli altri animali.
LYllI. 1 bruiti adunque per lo più sono ancor mali, c li belli buoni: e dir si
può che la bellezza sia la faccia piace- vole, allegra, grata e desiderabile
del bene; e la bruttezza, la faccia oscura, molesta, dispiacevole e trista del
male; c se considerale tulle le cose, Irovarele che sempre quelle che
LIBRO QUARTO. 291 son buone ed nlili hanno ancora
grazia di bellezza. Eccovi il stalo di questa gran machina del mondo, la qual,
per sa- lute e conservazion d’ogni cosa creata è stata da Dio fa- bricata. 11
ciel rotondo, ornato di tanti divini lumi, e nel centro la terra circondata
dagli elementi, e dal suo peso istesso sostenuta; il sole, che girando illumina
il tutto, e nel verno s’accosta al più basso segno, poi a poco a poco ascende
all’altra parte; la luna, che da quello piglia la sua luce, se- condo che se le
appropinqua o se le allontana; e l’ altre cin- que stelle, che diversamente fan
quel medesimo corso. Que- ste cose tra sè han tanta forza per la connession
d’un ordine composto cosi necessariamente, che mutandole pur un pun- to, non
poriano star insieme, e ruinarebbe il mondo; hanno ancora tanta bellezza e grazia,
che non posson gl’ingegni umani ìmaginar cosa più bella. Pensate or della
figura del- l’uomo, che si può dir piccol mondo; nel quale vedesi ogni parte
del corpo esser composta necessariamente per arte e non a caso , e poi tutta la
forma insieme esser bellissima; tal che dilBcilmente si poria giudicar qual più
o utilità o grazia diano al volto umano ed al resto del corpo tutte le membra,
come gli occhi, il naso, la bocca, l’ orecchie, le braccia, il petto, e cosi l’
altre parti: il medesimo si può dir di tutti gli animali. Eccovi le penne negli
uccelli, le foglie e rami negli alberi , che dati gli sono da natura per
conser- var Tesser loro, e por hanno ancor grandissima vaghezza. Lasciate la
natura e vmiile all’arte. Qual cosa tanto è neces- saria nelle navi, quanto la
prora, i lati, le antenne, l’albe- ro, le vele, il timone, i remi, T ancore e
le sarte? tutte que- ste cose però hanno tanto di venustà, che par a chi le
mira che cosi siano trovale per piacere, come per utilità. Sosten- gon le
colonne e gli architravi le alle loggia e palazzi , nè però son meno piacevoli
agli occhi di chi le mira , che utili agli edificii. Quando prima cominciarono
gli uomini a edifi- care , posero nei tempii e nelle case quel colmo di mezzo ,
non perchè avessero gli edificii più di grazia, ma acciò che dell’ una parte e
T altra commodamente potessero discorrer Tacque; nientedimeno all’utile subito
fu congiunta la venu- stà, talché se sotto a quel cielo ove non cade grandine
o Digilized by Google 292 IL
CORTEGIANO. pioggia si fabricasse un tempio, non parrebbe che senza
il colmo aver potesse dignità o bellezza alcuna. LIX. Dassi adunque molla
laude , non che ad altro , al mondo, dicendo che gli è bello; laudasi, dicendo:
Bel cielo, bella terra, bel mare, bei fiumi, bei paesi, belle selve, al- 'neri,
giardini; belle città, bei tempii, case, eserciti. In som- ma, ad ogni cosa dà
supremo ornamento questa graziosa e sacra bellezza; e dir si può che ’l buono e
'1 bello, a qualche modo, siano una medesima cosa, e massimamente nei corpi
umani; della bellezza de’ quali la più propinqua causa estimo io ebe sia la
bellezza dell’ anima, che, come partecipe di quella vera bellezza divina ,
illustra e fa bello ciò eh’ ella tocca, e specialmente se quel corpo ov’ella
abita non è di cosi vii materia, ch’ella non possa imprimergli la sua qua-
lità; però la bellezza è il vero trofeo delia vittoria dell’ani- ma, quando
essa con la virtù divina signoreggia la natura materiale, e col suo lume vince
le tenebre del corpo. Non è adunque da dir che la bellezza faccia le donne
superbe o crudeli, benché cosi paja al signor Morello; nè ancor si deb- bono
imputare alle donne belle quelle inimicizie, morti, di- struzioni, di che son
causa gli appetiti immoderati degli uo- mini. Non negherò già che al mondo non
sia possibile trovar ancor delle belle donne impudiche, ma non è già che la
bellezza le incline alla impudicizia; anzi le rimove, e le in- duce alla via
dei costumi virtuosi, per la connession che ha la bellezza con la bontà; ma
talor la mala educazione, i con- tinui stimoli degli amanti, i doni, la povertà
, la speranza, gl’ inganni, il timore e mille altre cause, vincono la costanza
ancora delle belle e buone donne; e per queste o simili cause possono ancora
divenir scelerati gli uomini belli. — LX. Allora messer Cesab, Se è vero,
disse, quello che jeri allegò il signor Gaspar, non è dubio che le belle sono
più caste che le bruite. — E che cosa allegai? disse il si- gnor Gaspab. —
Rispose messer Cesare: Se ben mi ricor- do, voi diceste che le donne che son
pregate, sempre ne- gano di satisfare a chi le prega; e quelle che non son pre-
gate, pregano altrui. Certo è che le belle son sempre più pregale e sollecitale
d’amor che le brutte; dunque le belle Digilized by LIBRO
QUARTO. 295 sempre negano, e conseguentemente son più
caste che le brutte, le quali non essendo pregate pregano altrui. — Rise il
Bembo, e disse: A questo argomento risponder non si pnò. — Poi soggiunse:
Interviene ancor spesso, che come gli altri nostri sensi , cosi la vista s’
inganna , e giudica per bello un volto che in vero non è bello; e perchè negli
occhi ed in tutto l’aspetto d’alcune donne si vede talor nna certa lascivia
dipinta con blandizie disoneste, molti, ai quali tal maniera piace, perchè lor
promette facilità di conseguire ciò che desiderano, la chiamano bellezza: ma in
vero è una im- pudenza fucata , indegna di cosi onorato e santo nome. —
Tacevasi messer Pietro Bembo, e quei signori pur lo stimo- lavano a dir più
oltre di questo amore, e del modo di fruire veramente la bellezza; ed esso in
ultimo, A me par, disse, assai chiaramente aver dimostrato che più felicemente
pos- san amar i vecchi che i giovani; il che fu mio presupposto: però non mi si
conviene entrar più avanti. — Rispose il conte Ludovico: Meglio avete
dimostrato la infelicità de’gio- vani che la felicità de' vecchi, ai quali, per
ancor non avete insegnato che cammin abbìan da seguitare in questo loro amore,
ma solamente detto che si lascio guidare alia ra- gione; e da molti è riputato
impossibile, che amor stia con la ragione. — L\I. Il Bembo pur cercava di
por fine al ragionamen- to, ma la signora Duchessa lo pregò che dicesse; ed
esso cosi rincominciò: Troppo infelice sarebbe la natura umana, se l’anima
nostra, nella qual facilmente può nascere questo cosi ardente desiderio, fosse
sforzata a nutrirlo sol di quello che le è commnne con le bestie, e non potesse
volgerlo a quella altra nobil parte che a lei è propria; però, poiché a voi pur
cosi piace, non voglio fuggir di ragionar di questo nobil soggetto. E perchè mi
conosco indegno di parlar dei santissimi misterii d’amore, prego lui che muova
il pensiero e la lingua mia, tanto ch’io possa mostrar a questo eccel- lente
Cortegiano amar fuor della consnetndine del profano volgo; e cosi com’io insin
da puerizia tutta la mia vita gli ho dedicata, siano or ancor le mie parole
conformi a questa intenzione, ed a laude di lui. Dico adunque che, poiché
la A#iticd by Google IL CORTEGIANO.
294 natura umana nella età giorenile tanto è inclinata al senso,
conceder si può al Cortegiano, mentre che è giovane, l’amar aensualmente; ma se
poi ancor negli anni più maturi per sorte s’accende di questo amoroso
desiderio, deve esser ben cauto, e guardarsi di non ingannar sé stesso,
lasciandosi indur in quelle calamità che ne’ giovani meritano più com- passione
che biasimo, e per contrario ne’ vecchi più biasimo che compassione.
LXII. Però quando qualche grazioso aspetto di bella donna lor s’ appresenta,
compagnato da leggiadri costumi o gentil maniere, tale che esso, come esperto
in amore, cono- sca il sangue suo aver conformità con quello; subito che s’ac-
corge che gli occhi suoi rapiscano quella imagine e la portino al core, e che
l’anima cominci con piacer a contemplarla, e sentir in sé quello influsso che
la commove ed a poco a poco la riscalda, e che quei vivi spiriti che scinlillan
fuor per gli occhi tuttavia aggiungan nuova esca al foco: deve in questo
principio provedere di presto rimedio, e risvegliar la ragione, e di quella
armar la ròcca del cor suo; e talmente chiuder i passi al senso ed agli
appetiti, che nè per forza nè per inganno entrar vi possano. Cosi, se la fiamma
s’estingue, estinguesi ancor il pericolo; ma s’ ella persevera o cresce , deve
allor il Cortegiano, sentendosi preso, deliberarsi total- mente di fuggir ogni
bruttezza deiramor volgare, e cosi en- trar nella divina strada amorosa con la
guida della ragione; e prima considerar che ’l corpo , ove quella bellezza
risplen- de, non è il fonte ond’ ella nasce, anzi che la bellezza , per esser
cosa incorporea, e, come avemo detto, un raggio di- vino, perde molto della sua
dignità trovandosi congiunta con quel snbjetto vile e corruttibile; perchè
tanto più è perfetta quanto men di lui partecipa, e da quello in tutto separata
è perfettissima; e che cosi come udir non si può col palato, nè odorar con
l’orecchie, non si può ancor in modo alcuno fruir la bellezza nè satisfar al
desiderio ch'ella eccita negli ani- mi nostri col tatto, ma con quel senso del
qual essa bel- lezza è vero objetto, che è la virtù visiva. Rimovasi adunque
dal cieco giudicio del senso, e godasi con gli occhi quel splen- dore, quella
grazia, quelle faville amoros<^ i risi, i modi e Digitized by
< .LIBRÒ QUARTO. 295 tatti gli altri
piacevoli ornamenti della bellezza ; medesima- mente con l’audilo la soavità
della voce, il concento delle parole, T armonia della musica (se musica è la
donna ama- ta); e cosi pascerà di dolcissimo cibo l’anima per la via di questi
dui sensi , i quali tengon poco del corporeo , e son . ministri della ragione,
senza passar col desiderio verso il corpo ad appetito alcuno men cbe onesto.
Appresso osservi, compiaccia ed onori con ogni riverenza la sua donna, e più
che sé stesso la tenga cara, e tutti i commodi e piaceri suoi preponga ai
proprii, ed in lei ami non meno la behezza d^ r animo che quella del corpo;
però tenga cara di non la- sciarla incorrere in errore alcuno, ma con le
ammonizioni e buoni ricordi cerchi sempre d’indurla alia modestia , alla
temperanza , alla vera onestà; e faccia che in lei non abbian mai loco se non
pensieri candidi ed alieni da ogni bruttezza di vizii; e cosi seminando virtù
nel giardin di quel beH’anb- mo, raccorrà ancora frutti di^ bellissimi costumi,
e gostara- glì con mirabii diletto; e questo sarà il vero generare ed esprimere
la bellezza nella bellezza , il che da alcuni si dice essere il fin d* amore,
in tal modo sarà il nostro Cortegiano gratissimo alla sua donna, ed essa sempre
se gli mostrerà ossequente, dolce ed affabile, e cosi desiderosa di compiacer-
gli, come d’ esser da lui amata; e le voglie dell’un e dell’al- tro saranno
onestissime e concordi, ed essi conseguente- meiile saranno felicissimi.
— LXIII. Quivi il signor Morbllo, Il generar, disse, la bellezza nella
bellezza con effetto, sareU>e il generar un bd figliolo in una bella donna ;
ed a me parerla molto più chiaro segno ch’ella amasse l’amante compiacendo! di
questo, che di quella afihbilità cbe voi dite. — Rise il Bembo, e disse: Non
bisogna, signor Morello, uscir de’ termini; nò piccoli segni d’amar fa la
donna, quando all’ amante dona la bel- lezza, cbe è cosi preziosa cosa, e per
le vie che son adito all’anima, cioè la vista e lo andito, manda i sguardi
degli occhi suoi, la imagine del volto, la voce, le parole, che pe- netran
dentro al core dell’ amante, e gli fan testimonio def- l’amor suo. — Disse il
signor Mobbllo: 1 sguardi e le parole possono essere e spesso son testimonii
falù; però chi non ha Digifeéd by Cooglc 296
n. CORTEGIANO, miglior pegno d’amore, al mio gindicio, è mal
sicaro: e ve- ramente io aspettava pur che voi faceste questa vostra donna un
poco più cortese e liberale verso il Cortegiano, che non ha fatto il signor
Magnifico la sua ; ma parmi che tulli dui siate alla condizione di quei
giudici, che dànno la sentenza conira i suoi per parer savii. — > LXI
V. Disse il Bembo : Ben voglio io che assai più cor- tese sìa questa donna al
mio Cortegiano non giovane, che non è quella del signor Magnifico al giovane ;
e ragionevol- mente, perchè il mio non desidera se non cose oneste, e però può
la donna concedergliele tulle senza biasimo ; ma la donna del signor Magnifico,
che non è cosi sicura della mo- destia del giovane, deve concedergli solamente
le oneste, e negargli le disoneste : però più felice è il mio, a cui si con-
cede ciò ch’ei dimanda, che l’altro, a cui parte si concede e parte si nega. Ed
acciò che ancor meglio conosciate che l’amor razionale è più felice che’l
sensuale, dico che le me- desime cose nel sensuale si debbono talor negare, e
nel ra- zionale concedere, perchè in questo son disoneste, ed in quello oneste:
però la donna, per compiacer al suo amante buono, oltre il concedergli i risi
piacevoli, i ragionamenti domestici e secreti, il motteggiare, scherzare,
toccar la ma- no, può venir ancor ragionevolmente e senza biasimo insin al
bascio, il che nell’ amor sensuale, secondo le regole del signor Magnifico, non
è licito ; perchè per esser il bascio congiungimento e del corpo e dell’anima,
pericolo è che l’amante sensuale non inclini più alla parte del corpo che a
quella dell’anima; ma ramante razionale conosce che, an- cora che la bocca sia
parte del corpo, nientedimeno per .quella si dà esito alle parole, che sono
interpreti dciranima, ed a quello intrinseco anelilo che si chiama pur esso
ancor anima ; e perciò si diletta d’unir la sua bocca con quella della donna
amala col bascio, non per moversi a desiderio alcuno disoneslo, ma perchè sente
che quello legame è un aprir l’adito alle anime, che tratte dal desiderio l’una
dell’ altra si trasfondano alternamente ancor l’una nel corpo dell’ altra, e
talmente si mescolino insieme, che ognun dì loro abbia due anime, ed una sola
di quelle due cosi composta regga quasi LIBRO QUARTO.
297 dui corpi : onde il bascio si può più preslo dir
congiungimento d’anima che di corpo, perchè in quella ha (anta forza, che la
tira a sé, e quasi la separa dal corpo ; per questo tutti gl’inamorati casti
desiderano il bascio, come congiungi- mento d’anima ; e però il divinamente
inamorato Platone dice, che basciando vennegli l’anima ai labri per uscir del
corpo. £ perchè il separarsi l’anima dalle cose sensibili, e totalmente unirsi
alle intelligibili , si può denotar per lo ba- scio, dice Salomone nel suo
divino libro delia Cantica: Ba- tcimi col bascio della sua bocca, per dimostrar
desiderio che l’anima sua sia rapita dall’ amor divino alla contempiazion della
bellezza celeste di tal modo, che unendosi intimamente a quella abbandoni il
corpo. — LXV. Stavano lutti attentissimi al ragionamento del Bembo; ed
esso, avendo fatto on poco di pausa, e vedendo che altri non parlava, disse:
Poiché m’avete fatto comin- ciare a mostrar l’amor felice al nostro Cortegiano
non gio- vane, voglio pur condurlo un poco più avanti ; perchè ’l star in
questo termine è pericoloso assai , atteso che, come più volte s’è detto,
l’anima è inclinatissima ai sensi; e benché la ragion col discorso elegga bene,
e conosca quella bellezza non nascer dal corpo, e però ponga freno ai desidera
non onesti, pur il contemplarla sempre in quel corpo spesso pre- verle il vero
giudicio ; e quando altro male non ne avvenis- se, il star assente dalla cosa
amala porla seco molta passio- ne, perchè lo influsso di quella bellezza,
quando è presente, dona mirabil diletto all’amante, e riscaldandogli il core
ris- veglia e liquefa alcune virtù sopite c congelate nell’anima, le quali
nutrite dal calore amoroso si diflbndono, e van pul- lulando intorno al core, e
mandano fuor per gli occhi quei spiriti, che son vapori sottilissimi, fatti
della più pura e lu- cida parte del sangue, i quali ricevono la imagine della
bel- lezza, e la formano con mille varii ornamenti ; onde l’anima si diletta, e
con una certa maraviglia si spaventa e por go- de, e, quasi stupefatta, insieme
col piacere sente quel timore c riverenza che alle cose sacre aver si suole, e
parie d’esser nel suo paradiso. LXYI. L’amante adunque che considera la
bellezza so- 298 IL CORTEGIAXO. lamenle nel
corpo, perde questo bene e questa felicità subito che la donna amata,
assentandosi, lascia gli occhi senza il suo splendore, e conseguentemente
l’anima viduala del suo bene; perchè, essendo la bellezza lontana, quell’
influsso amo- roso non riscalda il core come faceva in presenza, onde i meati
restano aridi e secchi, e pur la memoria della bellezza move un poco quelle
virtù dell’anima, talmente che cercano di dilTondere i spiriti; ed essi,
trovando le vìe otturate, non hanno esito, e pur cercano d’uscire, e cosi con
quei stimoli rinchiusi pungon l’anima, e dannole passione acerbissima, come a’
fanciulli quando dalle tenere gingive cominciano a nascere i denti: e di qua
procedono le lacrime, i sospiri, gli affanni e i tormenti degli amanti, perché
l’anima sempre s’af- fligge e travaglia, e quasi diventa furiosa, finché quella
cara bellezza se le appresenta un’altra volta; ed allor subito s’acqueta e
respira, ed a quella tutta intenta si nutrisce di cibo dolcissimo, né mai da
cosi soave spettacolo partir vor- ria Per fuggir adunque il tormento di questa
assenza, o go- der la bellezza senza passione, bisogna che ’l Corlegiano con
l’ajuto della ragione revochi in tutto il desiderio dal corpo alla bellezza
sola, e, quanto più può, la contempli in sé stessa semplice e pura, e dentro
nella imaginazione la formi astratta da ogni materia; e cosi la faccia amica e
cara all’anima sua, ed ivi la goda, e seco l’abbia giorno e notte, in ogni
tempo e loco, senza dubio di perderla mai; tornandosi sempre a memoria, che ’l
corpo è cosa diversissima dalla bellezza, e non solamente non l’accresce, ma le
diminuisce la sua per- fezione. Di questo modo sarà il nostro Cortegiano non
gio- vane fuor di tutto le amaritudini e calamità che senton quasi sempre i
giovani, come le gelosie, i sospetti, li sdegni, l’ire, le dis|>erazioni, e
certi furor pieni di rabbia, dai quali spesso son indotti a tanto errore, che
alcuni non solamente ballon quello donne che amano, ma levano la vita a sé
stessi; non farà ingiuria a marito, padre, fratelli o parenti della donna
amala; non darà infamia a lei; non sarà sforzalo dì raffrenar talor con tanta
difficoltà gli occhi e la lingua per non scofìrir i suoi desideri ad altri; non
di tolerar le passioni nelle par- tite, nè delle assenze: ché chiuso nel core
si porterà sempre LIBRO QUARTO. 299 seco il
8QO prezioso tesoro; ed ancora per virtù della imagi- nazione si formerà dentro
in sè stesso quella bellezza molto più bella che in effetto non sarà.
LXVII. Ma tra questi beni troveranne lo amante un al- tro ancor assai maggiore,
se egli vorrà servirsi di questo amore come d’un grado per ascendere ad un
altro molto più sublime; il che gli succederà, se tra sè andrà considerando,
come stretto legame sia il star sempre impedito nel contem- plar la bellezza
d’nn corpo solo; e però, per uscir di questo cosi angusto termine, aggiungerà
nel pensier suo a poco a poco tanti ornamenti, che cumulando insieme tutte le
bel- lezze farà un concetto universale, e ridurrà la moltitudinè d’esse alla
unità di quella sola, che generalmente sopra la umana natura si spande; e cosi
non più la bellezza partico- lar d’nna donna, ma quella universale che tutti i
corpi ador- na, contemplarà; onde, offuscato da questo maggior lume, non curerà
il minore, ed ardendo in più eccellente fiamma, poco estimerà quello che prima
avea tanto apprezzato. Questo grado d’amore, benché sia molto nobile, e tale
che pochi vi aggiungono, non però ancor si può chiamar perfetto, perchè per
esser la imaginazione potenza organica, e non aver co- gnizione se non per quei
principii che le son somministrati dai sensi, non è in tutto purgata delle
tenebre materiali ; e però, benché consideri quella bellezza universale
astratta ed in sè sola, pur non la discerne ben chiaramente, nè senza qualche
ambiguità , per la convenienza che hanno i fantasmi col corpo; onde quelli che
pervengono a questo amore sono come i teneri augelli che cominciano a vestirsi
di piume, che, benché con l’ale debili si levino un poco a volo, pur non osano
allontanarsi molto dal nido, nè commettersi a’ venti ed al ciel aperto.
LXVIII. Quando adunque il nostro Cortegìano sarà giunto a questo termine, benché
assai felice amante dir si possa a rispetto di quelli che son sommersi nella
miseria del- l’amor sensuale, non però voglio che si conienti, ma ardita- mente
passi più avanti, seguendo per la sublime strada drìeto alla guida che lo
conduce al termine della vera felici- tà; e cosi in loco d’uscir di sè stesso
col pensiero, come bi- Digitiz ed by Google IL
CORTEGIANO. 500 sogna che faccia chi vuoi considerar la
bellezza corporale, si rivolga in sé slesso per contemplar quella che si vede
con gli occhi della mente, li quali allor cominciano ad esser acuti e
perspicaci, quando quelli del corpo perdono il fior della loro vaghezza: però
l'anima, aliena dai vizii, purgala dai sludii della vera filosofia, versala
nella vita spirituale, ed esercitala nelle cose dell’ intelletto , rivolgendosi
alla contemplazion della sua propria sostanza, quasi da profondissimo sonno
ris- vegliala apre quegli occhi che tulli hanno e pochi adopra- no, e vede in
sé stessa un raggio di quel lume che é la vera imagine della bellezza angelica
a lei comraunicala, della quale essa poi communica al corpo una debil’ombra;
però, divenuta cieca alle cose terrene, si fa oculatissima alle cele- sti; e
lalor, quando le virtù molivc del corpo si trovano dalla assidua contemplazione
astratte, ovvero dal sonno legale, non essendo da quelle impedita , sente un
certo odor nascoso della vera bellezza angelica, e rapita dal splendor di
quella luce comincia ad infiammarsi, e tanto avidamente le segue, che quasi
diviene ebria e fuor di sé stessa, per desiderio d’unirsi con quella, parendole
aver trovalo l’orma di Dio, nella contemplazion del quale, come nel suo beato
fine, cerca di riposarsi; e però, ardendo in questa felicissima fiam- ma, si
leva alla sua più nobil parte, che è rinlellello; e quivi, non più adombrata
dalla oscura notte delle cose ter- rene, vede la bellezza divina; ma non però
ancor in tutto la gode perfettamente, perchè la contempla solo nel suo parti-
colar iniellello, il qual non può esser capace della immensa bellezza
universale. Onde, non ben contento di questo bene- ficio, amore dona all’anima
maggior felicità; che, secondo che dalla bellezza parlicolar d’un corpo la
guida alla bellezza universal di tutti i corpi, cosi in ultimo grado di
perfezione dallo intelletto parlicolar la guida allo iniellello universale.
Quindi l’anima, accesa nel santissimo foco del vero amor divino, vola ad unirsi
con la natura angelica, e non solamente in tutto abbandona il senso, ma più non
ha bisogno del dis- corso della ragione; che, trasformata in angelo, intende
tutte le cose intelligibili, e senza velo o nube alcuna, vede l’ampio mare
della pura bellezza divina, ed in sè lo riceve, e gode UDRÒ
QUARTO. 501 quella suprema felicità che dai sensi è
incomprensihile. LXIX. Se adunque le bellezze, che tutto di con questi
nostri tenebrosi occhi vedemo nei corpi corruttibili, che non son però altro
che sogni ed ombre tenuissime di bellezza, ci pajon tanto belle e graziose, che
in noi spesso acccndon foco ardentissimo, e con tanto diletto, che reputiamo ninna
feli- cità potersi agguagliar a quella che talor sentemo per un sol sguardo che
ci venga dall’ amala vista d’una donna : che fe- lice maraviglia, che bealo
stupore pensiamo noi che sia quello, che occupa le anime che pervengono alla
visione della bellezza divina 1 che dolce fiamma, che incendio soave creder si
dee che sia quello, che nasce dal fonte della su- prema e vera bellezza 1 che è
principio d’ ogni altra bellezza, che mai non cresce, nè scema: sempre bella, e
per sè me- desima, tanto in una parte, quanto nell’ altra, semplicissima; a sé
stessa solamente simile, e di ninna altra partecipe ; ma talmente bella, che
tulle le altre cose belle son belle perchè da lei partecipan la sua bellezza.
Questa è quella bellezza in- distinta dalla somma bontà, che con la sua luce
chiama e tira a sè tutte le cose; e non solamente alle intellettuali dona r
intelletto, alle razionali la ragione, alle sensuali il senso e r appetito di
vivere, ma alle piante ancora ed ai sassi com- munica, come un vestigio di sè
stessa, il molo, e quello in- slinto naturale delle lor proprietà. Tanto
adunque è mag- giore e più felice questo amor degli altri, quanto la causa che
lo move è più eccellente; e però, come il foco materiale alTìna l’oro, cosi
questo foco santissimo nelle anime distrugge o consuma ciò che v’ è di mortale,
e vivifica e fa bella quella jiarle celeste, che in esse prima era dal senso
mortificata e sepolta. Questo è il Rogo, nel quale scrivono i poeti esser arso
Ercole nella sommità del monte Gela, e per tal incen- dio dopo morte esser
restato divino ed immortale ; questo è la ardente Rubo di Moisè, le Lingue
dipartite di foco, l’in- Cammalo Carro di Elia, il quale radoppia la grazia e
feli- cità nell’ anime di coloro che son degni di vederlo, quando, da questa terrestre
bassezza partendo, se ne vola verso il cielo. — Indrizziamo adunque tutti i
pensieri e le forze del- r anima nostra a questo santissimo lume, che ci mostra
la 2C Digitized by Coogle 502 • IL
CORTEGUNO. VI ) via che al ciel conduce; e
drieto a quello, spogliandoci gli alTelti che nel descendere ci eravamo
vestili, per la scala che nell’ infìmo grado tiene l’ ombra di bellezza
sensuale ascen- diamo alla sublime slanza ove abita la celeste, amabile e vera
bellezza, che nei secreti penetrali di Dio sta nascosta, acciò che gli occhi
profani veder non la possano : e quivi Irovare- mo felicissimo termine ai
nostri desiderii, vero riposo nelle fatiche, certo rimedio nelle miserie,
medicina saluberrima nelle infermità, porto sicurissimo nelle torbide procelle
del tempestoso mar di questa vita. LXX. Qual sarà adunque, o AMOR
santissimo, lingua mortai che degnamente laudar ti possa? Tu, bellissimo, buo-
nissimo, sapientissimo, dalla unione della bellezza e bontà e sapienza divina
derivi, ed in quella stai, ed a quella per quella come in circolo ritorni. Tu
dolcissimo vìncolo del mondo, mezzo tra le cose celesti e le terrene, con
benigno temperamento inclini le virtù superne al governo delle in- feriori, e,
rivolgendo le menti de’ mortali al suo principio, con quello le congiungi. Tu
di concordia unisci gli elementi, muovi la natura a produrre, e ciò che nasce
alla succession della vita. Tu le cose separate aduni, alle imperfette dai la
perfezione, alle dissimili la similitudine, alle inimiche l’ ami- cìzia, alla
terra i frulli, al mar la tranquillità, al cielo il lume vitale. Tu padre sei
do’ veri piaceri, delle grazie, della pace, della mansuetudine e benivolenza,
inimico della rustica fe- rità, della ignavia, in somma principio e fine d’ogni
bene. E i>erchè abitar ti diletti il fior dei bei corpi e bello anime, e di
là talor mostrarti un poco agli occhi ed alle menti di quelli che degni son di
vederti, penso che or qui fra noi sia la tua stanza. Però degnali, Signor,
d’udir i nostri prieghi, infondi te stesso nei nostri cori, e col splendor del
tuo san- tìssimo foco illumina le nostre tenebre, e come Odala guida in questo
cieco labirinto mostraci il vero cammino. Correggi tu la falsità dei sensi, e
dopo ’l lungo vaneggiare donaci il vero e sodo bene; facci sentir quegli odori
spirituali che vivi- lìcan le virtù dell* inlellcllo, ed udir l’ armonia
celeste tal- mente concordante, che in noi non abbia loco più alcuna dis-
cordia di passione; inebriaci tu a quel fonte inesausto di Di. ''ed
by Googic, LIBRO QUARTO. 503 contentezza
che sempre diletta e mai non sazia, ed a chi beè delle sne vive e limpide acque
dà gusto di vera beatitudine; purga tu coi raggi della tua luce gli occhi
nostri dalla cali- ginosa ignoranza, acciò che più non apprezzino bellezza mor-
tale, e conoscano che le cose che prima veder loro [»rea non sono, e quelle che
non vedeano veramente sono; accetta r anime nostre, che a te s’ ofTeriscono in
sacrificio ; abbni- sciale in quella viva 6amma che consuma ogni bruttezza ma-
teriale, acciò che in tutto separate dal corpo, con perpetuo e dolcissimo
legame s’uniscano con la bellezza divina, e noi da noi stessi alienati, come
veri amanti, nello amato possiam trasformarsi, e levandone da terra esser
ammessi al convi- vio degli angeli, dove, pasciuti d’ ambrosia e néttare immor-
tale, in ultimo moriamo di felicissima e vital morte, come già morirono quegli
antichi padri, l’ anime dei quali tu con ar- dentissima virtù di contemplazione
rapisti dal corpose con- giungesti con Dio. — LXXI. Avendo il Bembo insin
qui parlato con tanta veemenza, che quasi pareva astratto e fuor di sé, stavasi
cheto e immobile, tenendo gli occhi verso il cielo, come stu- pido; quando la
signora Ehiua, la quale insieme con gli al- tri era stata sempre attentissima ascoltando
il ragionamento, lo prese per la falda della roba, e scuotendolo un poco,
disse: Guardate, messer Pietro, che con questi pensieri a voi an- cora non si
separi l’ anima dal corpo. — Signora, rispose mes- ser Pietro, non saria questo
il primo miracolo, che amor abbia in me operato. — Allora la signora Duchessa e
tutti gli altri cominciarono di nuovo a far instanza al Bembo che se- guitasse
il ragionamento: e ad ognun parea quasi sentirsi nell’ animo una certa
scintilla di quell’ amor divino che lo stimolasse, e tolti desideravano d’udir
più oltre; ma il Bembo, Signori, soggiunse, io ho detto quello che '1 sacro
furor amo- roso improvisamenle m’ ha dettato; ora che par più non m’ aspiri,
non saprei che dire: e penso che amor non voglia che più avanti siano scoperti
i suoi secreti, né che il Corte- giano passi quel grado che ad esso è piaciuto
eh’ io gli mostri ; e perciò non è forse licito parlar più di questa materia.
— LXXII. Veramente, disse la signora Dochessa, se’lCor-
Digitized by Googlc 504 IL CORTEGIANO.
legiano non giovane sarà (ale che seguitar possa il cammino che voi gli
avete mostrato, ragionevolmente dovrà con- tentarsi di (anta felicità, e non
aver invidia al giovane. — Allora Riesser Cesare Gonzaga, La strada, disse, che
a questa felicità conduce parmi tanto erta, che a gran pena credo che andar vi
si jiossa. — Soggiunse il signor Gaspar: 1/ andarvi credo che agli uomini sia
difficile, ma alle donne impossibile. — Rise la signora Emilia, e disse: Signor
Gaspar, se (ante volte ritornate al farci ingiuria, vi prometto che non vi si
perdonerà più. — Rispose il signor Gaspar: Ingiuria non vi si fa, dicendo che
l’ anime delle donne non sono tanto purgate dalle passioni come quelle
<legli uomini, nè versate nelle contemplazioni, come ha detto inesscr Pietro
che è necessario che sian quelle che hanno da gustar l’amor divino. Però non si
legge che donna alcuna abbia avuta questa grazia, ma si molti uomini, come
Plato- ne, Socrate c Plotino e moK’ altri; e de’ nostri tanti santi Padri, come
san Francesco, a cui un ardente spirito amo- roso impresse il sacratissimo
sigillo delle cinque piaghe; nò altro che virtù d’ amor poteva rapire san Paolo
apostolo alla visione di quei secreti, di che non è licito all’ uom parlare; nè
mostrar a san Stefano i cieli aperti. — Quivi rispose il Magnifico Juuano: Non
saranno in questo le donne punto .superate dagli uomini: perchè Socrate istcsso
confessa, tutti i misterìi amorosi che egli sapeva essergli stati rivelati da
una donna, che fu quella Diotima; e 1’ angelo che col foco d’ amor impiagò san
Francesco, del medesimo carattere ha fatto ancor degne alcune donne alla età
nostra. Dovete an- cor ricordarvi, che a santa Maria Magdaicna furono rimessi
molti peccati perchè ella amò molto, e forse non con minor grazia che san Paolo
fu ella multe volte rapita dall’ amor angelico al terzo cielo; e di tante
altre, le quali, come jeri più diffusamente narrai, per amor del nome di Cristo
non hanno curato la vita, nè temuto i slrazii nè alcuna maniera di morte, per
orribile e crudele che ella fosse; c non erano, come vuole messer Pietro che
sia il suo Cortegiano, vecchie, ma fanciulle tenere e delicate, ed in quella
età nella quale esso dice che si deve comportar agli uomini Tainor
sensuale.— Digilized ^y_G( LIBRO QUARTO.
505 LXXIII. Il signor Gaspar cominciava a prepararsi per
rispondere; ma la signora Duchessa, Di questo, disse, sia giudice messer Pietro
Bembo, e stiasi alla sua sentenza, se le donne sono cosi capaci dell’ amor
divino come gli uomini, o no. Ma perchè la lite tra voi potrebbe esser troppo
lunga, sarà ben a differirla inaino a domani. — Anzi a questa sera, disse
messer Cesare Gonzaga. — E come a questa sera? disse la signora Duchessa. —
Rispose messer Cesare: Perchè già è di giorno; — e mostrolle la luce che
incominciava ad entrar per le Cssure delle finestre. Allora ognuno si levò in
piedi con molla maraviglia, perchè non pareva che i ragio- namenti fossero
durali più del consueto; ma per Tessersi in- cominciati molto piu lardi, e per
la loro piacevolezza, aveano ingannalo quei signori tanto, che non s’ erano ac-
corti del fuggir dell’ ore; nè era alcuno che negli occhi sen- tisse gravezza
di sonno: il che quasi sempre interviene, quando T ora consueta del dormire si
passa in vigilia. Aperte adun- que le finestre da quella banda del palazzo che
riguarda Palla cima del monte di Cairi, videro già esser nata in oriente una
bella aurora di color di rose, e tutte le stelle sparile, fuor che la dolce
governalrice del ciel di Venere, che della notte e del giorno tiene i confini;
dalla qual parea che spirasse un’aura soave, che di mordente fresco empiendo
l’aria, cominciava tra le mormoranti selve de’ colli vicini a risvegliar dolci
concenti dei vaghi augelli. Onde lutti avendo con riverenza preso commiato dalla
signora Duchessa, s’in- viarono verso le lor stanze senza lume di torchi,
bastando lor quello del giorno; e quando già erano per uscir della ca- mera,
voltossi il signor Prefetto alla signora Duchessa, e disse: Signora, per
terminar la lite tra ’l signor Gaspar e ’l signor Magnifico, veniremo col
giudice questa sera più per tempo che non si fece jeri. — Rispose la signora
Emilia: Con patto che se ’l signor Gaspar vorrà accusar le donne, e dar loro,
come è suo costume, qualche falsa calunnia, esso ancora dia sicurtà di star a
ragione, perch’io lo allego so- spetto fugitivo. — 2(j-
Digilized by Google Digitized by Google 507
ALCUNI PASSI DEL CORTEGIANO UIYEHSI DALLO STAMPATO, illAni DR
MANOSCRITTI ORIGINALI DALL’ABBATE PIERiNTONIO SEDASSI. PROEMIO DEL
CORTEGIANO A MESSER ALFONSO ARIOSTO Fra me stesso lungamente ho
dubitato, mcsser Alfonso carissimo, qual di due cose più diOicil mi fosse; o il
negarvi quello che con tanta instanza e per parte di un tanto Re più volte mi
avete richiesto, o il farlo. Perchè da un canto pa- revami durissimo negare
alcuna cosa, e massimamente lau- devole, a persona che io amo sommamente, e da
chi som- mamente mi conosco essere amato; aggiungendosi il desiderio e
comandamento di cosi alto e virtuoso principe : dall’ altro ancor pigliare
impresa, la quale io conoscessi non poter per- fettamente condurre a fine, non
mi pareva convenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si
devono. Al Gne dopo molti pensieri ho eletto più presto esser tenuto poco prudente
ed amorevole per compiacervi, che savio e poco amorevole per non
compiacervi. Voi adunque mi ricercate che io scriva, qual sia al pa- rer
mio quella forma perfetta e carattere di Cortegiania, che più si convenga a
gentiluomo che viva in corte di principi, e che possa e sappia perfettamente
servirli con dignità in ogni cosa laudevole, acquistandone grazia da essi e da
tutti gli altri; in somma, di che sorte debba essere quello che me- riti
chiamarsi perfetto Cortegiano, tanto che cosa alcuna non vi manchi. 11 che
veramente dilGcilissima cosa è tra tante varietà di costumi, che si usano nelle
corti di Cristianità, eleggere la più perfetta forma e quasi il fior di questa
Corte- giania; perchè la consuetudine fa a noi spesso le medesimo
Digilized by Google 508 IL CORTEGIANO.
cose piacere e dispiacere; onde (alor procede che li costumi, gli abili,
riti e modi che un tempo sono stali in prezzo, divengono vili; per contrario li
vili divengono pregiati. Però si vede chiaramente, che l’ uso più che la ragione
ha forza d’ introdurre cose nuove tra noi, e cancellare 1’ antiche, delle quali
chi cerca giudicare la perfezione, spesso s’in- ganna. Conoscendo io adunque
questa e moli’ altre ditlìcul- tali nella materia pro|)ostami a scrivere, sono
sforzato a fare un poco di cscusazione, e render testimonio, ch’io a tal im-
presa posto mi sono per non poter disdire, e più presto con volontà di
esperimcntare, che con speranza di condurla a line: il che se non mi verrà
fatto, voglio che ognuno in- tenda, questo errore essermi commune con voi,
acciò che ’l biasimo che avvenire me n’ha sia anco diviso con voi; per- chè non
minor colpa si dee estimare la vostra, l’avermi imposto carico alle mie forze
disuguale, che a me Io averla accettato. Ma penso che l’errore del giudicio mio
debba es- ser compensato con la laude d’ avere obedito alle vertuose voglie del
Re Cristianissimo, al quale non obedire saria grave fallo; attesoché felici
chiamar si possono tulli quelli, a’quali esso comanda. E se a Sua Maestà è
parso eh’ io a tal’ opra sia sofTicienle, troppo prosonzione sarebbe la mia,
volere col negarlo correggere e quasi condennare il giudicio suo, il quale
poiria, quando io mai non fossi, farmi bastante ad ogni dillìcile impresa;
tanto sarebbe lo stimolo di ben fare e tanta la eonfidenzia di me stesso che io
pigliarci, sapendo tale opinione di me essere nell’alto core del maggior Re,
che già gran tempo sia stato tra Cristiani. Però siccome molla laude mi serà il
verificare questa credenza, molto maggior biasimo mi saria lo ingannarla, per
la ingiuria ch’io al mondo farcì, essendo causa che errasse colui il quale pare
che errar non |)ossa, per essere dotato di quelle divine condizioni, che cosi
rade volle in terra tra’ mortali si ritro- vano. Io adunque assai felice mi
chiamo, essendo nato a tempo che lecito mi sia vedere un cosi chiaro Principe,
che d’ogni virlulc e di famosa grandezza possi non solamente agguagliare gli
più celebrali che mai siano vìssi al mondo, ma ancor superarli.
Digiii'od by Google VARIANTI. 309 E piaccia
a Dio, che questo animo eccelso e glorioso rivolga gli alti suoi pensieri a
danni degli perfidi avversarii di Cristo; chè in vero un tanto Principe
ragionevolmente sdegnar si deve di vincere minor nemico che un re di Asia e
tutto r Oriente, e far minor effetto che rimover dal mondo una cosi inveterata
e potente setta, com’é la Maomettana. Nè ad altro più si conviene vendicare le
ingiurie fatte alla fede di Cristo, che al Re Cristianissimo; e se questo nome
meritamente si hanno acquistato i suoi maggiori con le glo- riose opere , e con
tante vittorie che sempre saranno cele- bratissime, esso deve chiaramente
mostrare a tutto il mondo di essere degno successore non solamente dello stato
e del nome, ma ancora delle vertuti. E certo niente di più hanno avuto di
grandezza, di regno, di tesoro, di uomini, li altri regi di Francia, che
s’abbia questo; forse molto meno di valor d’animo e di buona fortuna, sotto
l’ale della quale sempre felicemente combatteranno tutti quelli che seguir lo
vogliono: e pur tante volte hanno portate le lor vittoriose insegne in Oriente,
con gravissimo danno degl’Infideli. Chè, lasciando li maravigliosi falli di
Carlo Magno, molli altri prin- cipi della nazione franzese, come Goltifredo,
Balduino, Ugo, passorno in .\sia, e per forza d’arme soggiogorno dal Bo- sforo
e Propontide fino allo Egitto, e nella santa città di Jerusalem posero la sede
del suo regno. Ragione è adunque, che questo magnanimo principe s’indirizzi a
tanta gloria non per esempi! alieni, ma domestici, e segua gli onorati vestigi
de’ suoi maggiori : dalli quali se l’ Asia è stata con l’arme acquistata, e
molti anni posseduta, non so come esso essendo vero erede, possa restar di non
recuperarla dalle mani di chi con tanta ignominia del nome cristiano la tiene
oc- cupata. E se lo acceso desiderio di gloria dentro nel magna- nimo cuor del
Cristianissimo cosi si nutrisce, come a lutto il mondo pare, debbesi sforzar di
provedere, che una tal occasione di farsi immortale non gli sia di mano tolta:
per- chè ninna espedizione al mondo ha in sè tanto di laude e di onore, e cosi
poco di fatica. Né dirò quanto più vaglia la nostra milizia che la loro, e come
in quella regione siano pochissimi lochi forti, e che tutta la Grecia e la
maggior Digìtized by Google 310 IL
CORTEGIANO. parte dell’ Asia sia piena di Cristiani, li quali non
aspettano altro nè altro con tante lacrime giorno e notte pregano Dio, che
levarsi dal collo il giogo gravissimo di cosi misera ser- vitale. Potria adunque,
per questi e per altri rispetti, una cosi onorata preda movere 1’ animo di
qualch’ altro polente Principe; come già videro i padri nostri Mattia Corvino
di (Jngaria, il quale con dodici mila Ungaci ruppe e disfece sessantamila
Turchi, ed entrato nel lor paese con foco e ferro in gran parte lo rovinò, e
con essi sempre mantenne mortai guerra, e cosi spesso li vinse e con tanta
uccisione, che non osavano pur accostarsi al Danubio. Ma oltre gli altri
stimoli che punger devono il cor del Cristianissimo, non è ancor asciutto il
sangue di quelli poveri Franzesi, che al- l’età nostra cosi crudelmente e con
tanti inganni furono morti a MeleUn da questi perfidi cani; nè conviene a Sua
Maestà lasciar quelle anime senza vendetta, e massimamente contea tali e cosi
universali inimici. £ se ’l re d’Aragona, che ancor vive, cosi luneamente ha
avuta guerra con Infi- deli, c per forza subjugato il reame di Granala, e
ridottolo alla fede di Cristo ; dipoi, mandalo esercito di là dal mare, con
tanto onor della nazion spagnuola e danno de’ Mori, ha preso per forza porti e
nobilissime città d’ Africa: che pensiam noi che debba fare il Cristianissimo,
giovane magnanimo, potentissimo, sull’ arme, avendo inanzi agli occhi una mollo
più gloriosa impresa, cioè tutta l’Asia, e la recufieraziono del Sepolcro di
Cristo, della quale tante volte dagli suoi mag- giori gli è stato mostralo il
cammino? Segnasi dunque ormai dove chiama il ciclo e la fortuna, e le meschine
voci degli afflitti popoli cristiani di Grecia ed Asia, li quali tosto che il
nome solo di Pranza giunga tra loro, levarannosi in arme, ed apriranno il
cammino a quella benavventnrala vittoria, che agli vincitori darà fama
immortale, ed agli vinti eterna salute: di modo che al Cristianissimo più
presto incontra si verrà con feste, pompe, doni ed infinite ricchezze, delle
quali più eh’ altra parte del mondo quella regione è piena, che con armi.
E certamente già parmi vedere quel tanto desiderato giorno, che ’l
Cristianissimo, dopo l’avcr traversalo tanti paesi.
VARIA>TI. 3H tanti mari, e vinto tante barbare
e strane nazioni, e dilata- to lo imperio e il nome suo per tutto il mondo,
giungerà agli confini di Jerusalem. Qual felicità sarà che si possa aggua-
gliare a quella, che Sua Maestà nell’animo tra sé dentro sentirà? Dopoi, quando
cominciaranno da lontano apparire le alte torri della Santa Città, che
pensieri, che voglie, che devoti affetti saranno quelli, che fioriranno nel suo
magna- nimo core! Che allegrezza in tutto lo esercito, il quale già in-
ginocchiato parmi vedere con aita voce e pietose lacrime sa- lutare ed adorare
le benedette mura e la Santa Terra, nella quale con tanti divini misterii fu il
principio della salute no- stra! Quando poi in mezzo di tanti principi in abito
regale a cavallo ornato accosterassi a quelle porte, e con le sue proprie mani
onoratamente dentro vi riporterà come da lun- go esilio quella Croce, che già
tanto tempo II è stala vilipesa e in obbrobrio; appresso con la medesima pompa
ed ordine armato, e senza pur levarsi di dosso la polvere o il sudor del
cammino, se n’ andrà al sacralissimo Sepolcro di Cristo, ed ivi prostrato in
terra con tanta riverenza umilmente ado- rerà quel loco, ove giacque morto
Colui che a tutto ’l mondo diede la vita: qual cor umano allor sarà, che in sé
possa ca- lare tanta allegrezza? qual animo che non desideri finir la vita, per
non corrompere mai più questa dolcezza di qualche amaritudine? che fiumi
vedransi di devotissime lacrime! che gusto d’immortale consolazione si sentirà!
come parranno leggeri e dolci le passate fatiche del lungo cammino e della
guerra! Questa è la vera gloria e vero trionfo, conveniente all’altezza di cosi
nobii animo; questa è la scala per salire alla immortalitate in terra e in
cielo. Ben desiderare si deb- bono li regni, i tesori, le grandezze, per
poterne trar cosi onesti e gloriosi frutti. 0 felicissimo ciascuno che
potrà aver grazia, se non di vedere ed essere presente a cosi divino
spettacolo, almen sentirne li ragionamenti da chi veduto l’arà! E certo niun
altro desiderio mai sarammi tanto stabilito nel core, nè con maggior instanza
dimanderò grazia a Dio, che di potere a tale impresa servire il Cristianissimo,
vedendo con gli occhi pro[irii e forse scrivendo una parte di così gloriosi
fatti, e ac- 1 312 Jl- CORTEGIANO. compagnando
con l’ arme l’ alla persona, i)er servigio della quale molla gloria e grazia mi
sera spendere quesla vila, che più nobil fine aver non poiria. E benché io sia
cerlissimo nè con la |)enna nè con l’arme poter mai accrescer laude a tanta
laude, come nè ancor i picciol rivi accrescono acqua al mare: pur penso che’l
buon volere mio debba meritar commendazione; perchè Dio così ha grato un denaro
offer- toli di buon core da un povero mendico, come un gran te- soro da un
ricco signore. Frattanto se per sorte, messer Alfonso mio, vi parrà mai
trovare il Cristianissimo disposto a rilassar l’ animo dalli maggiori pensieri,
e quasi ad abbassar la mente e rivolgere gli occhi alle cose terrene: allor non
v’ incresca pigliar pena di fargli fede, come io, per quanto mi hanno concesso
le de- bil forze mie, sonomi sforzato di obedirlo, scrivendo questi libri del
Cortegiano; li quali quando io saprò essere pur so- lamente giunti al suo
cospetto, crederommi di quesla fatica avere conseguilo grandissimo
premio. ALTRO PROEMIO DEL CORTEGIANO tratto dalla prima boxza
dell’Autore. Non .senza molla maraviglia può l’ uomo considerare , quanto
la natura, cosi nelle cose grandi come nelle piccole , di varietà si diletti. E
cominciando da questa màchina del mondo, la quale contiene tutte le cose creale,
veggiamo nel suo infinito corso sempre volgere il cielo; e benché con per-
petuo ordine par che giri, pure in quell’ordine ha tante mu- tazioni, che prima
passano molte e molle migliaja d’anni, ch’esse in quel proprio sito si ritrovi,
ove una volta è stalo. Veggiamo poi li continui successi della notte al giorno,
della estate alla primavera, dello inverno allo autunno, e le sta- gioni varie
degli tempi, pioggie, sereni, freddi, caldi, ap- presso la permislione degli
quattro principii, che noi chia- miamo clementi; il flusso de* quali fa che la
corruzione di una VARIANTI. 313 cosa sia
generazione di un’ altra, onde procede il nascimento ed incremento di tante
erbe, piante, arbori, e di tanti vani animali in terra ed in mare, e ancor la
destruzione di essi. Queste medesime varietà reggiamo net piccol mondo che è r
uomo; chè tra tanto numero d’ uomini, li quali tutti sono di una medesima
forma, non si possano trovare due, che to- talmente siano tra sé simili nè di
volto nè di voce, e molto manco di animo. In noi è ancora il continovo successo
della notte al giorno, se non altrimenti, almen negli pensieri; ben- ché nello
spazio del nostro corso spesso le notti lunghissime e tenebrose senza lume di
stella alcuno proviamo, e molto più torbidi e nubilosi giorni che sereni. Cosi
in noi averne tutte le varieladi delle stagioni dell’ anno: chè nella tenera
età puerile reggiamo quasi Gorire una lieta primavera, piena di Gori e di
speranza, debole però e bisognosa di soccorso altrui, e spesso fallace;
sentimopoi lo ardente fervore esti- vo della gioventù, la quale già gagliarda
ci mostra frutti, ma non maturi, e le tenere raccolte in erba; appresso
succede 10 intepidito autunno della quieta virilità, il quale di noi
porge quegli più mézzi frulli, che in vita nostra sperare si possine; vien poi
il nivoso inverno della gelida vecchiezza, 11 quale in tutto di forza e
vigore, e di quegli beni che tanto al mondo si desiderano, ci spoglia, non meno
che si faccia Borea ed Ostro le conquassate e nude cime degli alberi nel più
eminente giogo dell’ Apennino. Ma oltre a queste ordi- narie e note varietà,
che la natura per suo consueto corso produce, veggiamo li siti de’ paesi per
lunghezza di tempo molarsi, e pigliare nuove forme; onde lo Egitto, che già fu
mare, ora è terra fertilissima ; Sicilia, già congiunta con Ita- lia, ora è dal
mare divisa; medesimamente Cipro con Soria, Euboea con Beozia; e molti lochi
che già furono insule, or sono terra continente; e molti Gumi, che ’l suo
antico corso hanno mutato. Non veggiamo noi il ghiaccio per ispazio di tempo
divenire cristallo? e negli altissimi monti spesso tro- varsi granchi e conche
marine già sassiGcate; la qual cosa è assai fermo argomento, in quella parte
essere altre volte stalo il mare? Che direm noi, che mi raccorda aver veduto un
legno, una parte del quale era pietra, e dove l’uno con 27
DigitizÓJ by Google 'i 314 lU
CORTEGIANO. rallro si congiungeva era una mistura, che nè legno nè
pie- tra dir si poteva, e pur era l’uno e l’altro! Vediamo tante nobilissime
città distrutte, Troja, Sparta, Micene, Atene; e moll’altre, che già fur vili,
ora essere fiorentissime. Roma, che già fu regina del mondo per la virtù
dell’arme, e temuta fin negli estremi confini della terra da tante barbare e
stra- ne nazioni, ora solo si nomina per la religione, ed è abitata da gente in
tutto alienissima dall’ arme. Lo emporio quasi di tutto il mondo, che un tempo
fu in Oriente, ora è trasferito alle parti di Occidente e Settentrione. E non
solamente nelle città, siti, e paesi si veggono queste mutazioni, ma negli co-
stumi ancora della vita umana; chè, olirà li diversi modi che ora si tengono da
quelli che soleano tenere gli antichi circa il governo delle republiche, e
delle cose dell' arte militare, dello espugnare e difendere le città, degli
abiti e vestimenti, di riti, leggi e instiluti d’ogui sorte, grandissima
diversità si conosce nel modo del conversare; e molti sono ora degli costumi
antichi, che fur già pregiati assai, che a noi pajono inetti e mal composti: e
ciò procede dall’ uso, il quale la na- tura come ministro adopra in introdurre
cose nuove tra noi e scancellare le antiche, e con l’usare e disusare fa le me-
desime a noi piacere e dispiacere, approbandole e riproban- dole non con altro
testimonio, che con la consuetudine. Però tra 1’ altre cose, che nate
sono a’Iempi oltre li quali noi abbiam notizia, e non molto da’ nostri secoli
lontani, veggiamo essere invalsa questa sorte d’ uomini che noi chia- miamo
Cortegiani , della qual cosa quasi per tutta cristia- nità si fa molta professione:
chè, comcchè da ogni tempo siano stati gli principi e gran signori da molli
servitori obediti, e sempre n’abbiano avuti dei più cari e meno cari, .
ingeniosi alcuni, alcuni sciocchi, chi grati per il valore del- l’arme, chi
nelle lettere, chi per la bellezza del corpo, molti per ninna di queste cause,
ma solo per una certa occulta con- formità di natura; non è però forsi mai per
lo addietro, se non da non molto tempo in qua, fattasi tra gli uomini pro-
fessione di questa Gortegiania, per dire cosi , e ridottasi quasi in arte e
disciplina come ora si vede; talmente che come d’ogn’ altra scienza, cosi ancor
di questa si potrebbono dare VARIANTI. 315
alcuni precedi, e mostrare le vie per cousegoirne il Gne , quale noi estimiamo
che sia il sapere e potere perfettamente servire e con dignità ogni gran
principe in ogni cosa lau- dabile, acquistandone grazia e laude da esso e da
tutti gli altri. E perch’ io ornai, vinto dalie continue preghiere
vostre, penso di scrivere, secondo il mio debole giudizio, quello che con tanta
instanza e lungamente m-avete richiesto, cioè quale sia quella perfetta forma e
carattere di Cortegiania , e diche sorte debba essere quello che meriti
chiamarsi perfetto Cor- legìano, tanto che nulla non vi manchi: sono sforzato
fare un poco di escusazione del mio forsi temerario proponimen- to, acciò che
ognuno intenda, me aver accettata questa im- presa più presto con volontà di
esperimentare, che conispe- ranza di condurla a Gne; ma voglio fare questo
piccolo testimonio, che io da voi sono stato sforzato a scrivere, acciò che
sendomi questo errore commone con voi, se io non potrò escusarmene a bastanza,
minor biasimo sarà il mio cosi di- viso, che non seria se tutto sopra di me
fosse; essendo non minor colpa la vostra d’ avermi imposto carico alle mie
forze diseguale, che a me lo averlo accettato. Temo ancora, s’io esprimo
quello che voi mi imponete, cioè questa perfetta forma di Cortegiano, la quale
io più presto spero poter dire che veder mai in alcuno, ritrarrò molti, i quali,
diffidandosi di poter giungere a questa perfe- zione, non si cureranno averne
parte alcuna; la qual cosa io non vorrei che accadesse, perchè in ogni arte
sono molti lochi oltre il primo laudevoli, e chi tende alla sommità rade volte
interviene che non passi la metà. Oltre che io non dico chi sia questo
Cortegiano, ma quale dovria essere quello per- fetto; U quale io non ho mai
veduto, e credo che mai non sia stato, e forsi mai non serà: pur patria essere.
La idea dunque di questo perfetto Cortegiano formaremo al meglio che si po-
trà, acciò che chi in questa mirerà, come buono arciero si sforzi d’ accostarsi
al segno, quanto 1’ occhio e il braccio suo gli comporterà: il che molto meglio
potrà fare proponendosi^ un obietto, che se non avesse la fantasia indrizzata
ad alcu- no terminato Gne. Ma difficilissimo è in ogni cosa esprimere
Dìgilized by Google IL CORTEGIANO. 316
quella più perfetta forma; e questo, per la varietà de’gindicii, come nell*
altre cose, cosi ancor in questa nostra materia: chè sono molli a cui serà
grato un nomo che parli assai, e quello chiameranno per piacevole; alcuni si
dilettaranno più della modestia; alcuni altri di un nomo più attivo; e già so-
nosi trovati di quelli che hanno avuti grati soli quelli che dicono mal d’
altri: e cosi ciascun lauda e vitupera secondo il parere suo, sempre' coprendo
il vizio col nome della propin- qua verlù, e la vertù col nome del propinquo
vizio; come un prosontuoso chiamarlo libero, un modesto arido, un nescio buono,
un scelerato prudente, e cosi nel resto. Pur io esti- mo in ogni cosa esser la
sua perfezione, avvegnaché nasco- sta, e questa potersi conoscere da chi di tal
cosa s’ intende. Ma, per venire a quello eh’ è nostra intenzione, ho pensato,
rinovando la grata memoria d’ un felice tempo, recitare certi ragionamenti atti
a quello che noi intendemo di scrivere; li quali sforzaròmmi a puntino, per
quanto la memoria mi com- porta, ricordare, acciò che conosciate quello che
abbiano giudicato e creduto di questa materia singnlarissimi uomini, i quali io
traigli altri ho conosciuti d’ ogni egregia laude me- ritévoli; , . '
MOTTO DI BERNARDO BIBIENA. (Lib. II, cap. LXIIl, paj. -155, lin. 55, dopo
Io parole Patti la Signoria Vottra. — ) Andando io ancor da Firenze a
Siena, ed essendo già l’ora tarda, dimandai un contadinello, s’ei credeva ch’io
po- . tessi entrare dentro della porta; ed esso subito, con volto meraviglioso
e sopra di sè, mi rispose: — E come dubitate voi di non potervi entrare? v’
entrarebbono due carri di fieno insieme. — DI PAPA GIULIO II. (Lib.
II, cap. LXin, pag. 156, lin. -18, dopo le parole in Bologna.] Quando
ancor il Papa a questi di andò a Bologna, giunto in Perugia, ad uno de’ suoi
antichi servitori mori una mula. Digitized by Googli
YABIANTI. 317 qnal sola avea. Gli altri compagni,
desiderosi che il Papa gii rifacesse questo danno coi donargliene un’altra,
subito gli io dissero. 11 Papa allora fecesi chiamar questo servitore, e
dimandogli come cosi gli era morta la mula , e di che male. Esso rispose : —
Padre Santo, credo sia stata la cru- dezza di queste acque di Perugia, che le
hanno generali dolori , onde ella si è morta. — Àllor il Papa , mostrando che
molto gl’ increscesse, e quasi che rimediare volesse, fatto chiamare il suo
maestro di stalla, in presenza di quello e di tutti gli altri , che aspettavano
certissimo che volesse coman- dare che se gli desse una mula, disse: — Noi
intendemo, che queste acque sono mollo crude e nocive alle bestie; però vo-
lemo che tu abbi rispetto alle nostre ; e perchè non patisca- no , fa che
bevino l’ acqua cotta. — DEL CONTE LUDOVICO DA CANOSSA. (Lib.II,
cap. LXXVIII,pag. 148, tin. 5, dopo le parole abito da tavio . — ) Disse
ancora ad un altro, che dicea che non osava andare a Napoli, perché sapeva
certo che quelle Regine non lo lascieriano di poi partire, e fariano guardare
li passi: — Tu le potrai gabbare benissimo; perchè esse hanq^ cincesso jjgp una
sua patente licenza a Monsignore di Aragona ai caccili buon numero di cavalli
del reame: e però tu ancor potrai metterli in frotta con quell’ altro bestie, e
passerai sicura- mente. — LODI DI FRANCESCO MARIA DELLA ROVERE.
(Lib.IV, cap.II,pag. 241 , Ilo. 27-35, invece delle parole il Signor Prancetco
Maria Rovere fino a lodevoli eottumi.) Fu ancora il signor Prefetto
Francesco Maria della Ro- vere fatto duca d’ Urbino; benché mollo maggior laude
at- tribuire si possa alla casa dove nutrito fu, che in essa sia riuscito cosi
raro ed eccellente signore in ogni qualità di virtù, come or si vede, che dello
essere pervenuto al ducalo d’ Urbino. Né credo che di ciò picciol causa sia
stala la no- bile e rara compagnia, dove in continua conversazione sem- pre ha
veduto ed udito lodevoli costumi ; chò in vero senza altro ajuto che di natura
non pare che credere si possa, che 27* Digilized by
Google IL CORTEGIANO. 318 ‘ in un giovane sia
congiunto con la grandezza dell’ animo un tanto maturo e prudente consiglio ,
cosi nell’ arme come nel governo de’ stati, e in tutti li discorsi umani : chè,
oltre la deliberata volontà ed inviolabile proponimento verso la giustizia, e
mill’ altre meravigliose condizioni, cbi vide mai in signore di età di ventitré
anni tanta continenza, che non solamente da ogni atto lascivo e disonesto si
astenga, ma dalle parole e da ogni cosa che generar ne potesse sospizione sia
alienissimo? Nò però questo è proceduto perch’ egli ab- bia r animo tanto
austero, che aborrisca quello che natural- mente ognuno desidera ; anzi di
teneri e dolcissimi costumi insieme con la modestia è tutto pieno. £ già più
eh’ una volta raccordomi averlo veduto fieramente d’amore acceso, ed in questa
passione aver fatto quello che cosi rare volte e con tanta dilTicoltà si fa,
che per impossibile da ognuno è giudicato: e questo è, lo essere inamorato e
savio, e met- ter legge e misura a quelli desiderii che patire non la pos-
sono; e non solamente negli gran signori, alti quali la libera commodità e la
vita deliziosa danno gran licenza e causa di peccare, ma spesso traporta e
sforza gli animi de’ poveri e ^^ssissii^i uqpiini ad incorrere in gravi errori.
Chi adunque può tanto' di sé stesso, che domini e governi con ragione gli
propri! appetiti, e massimamente quando hanno più forza, é ancor conveniente
credere, che possi e sappia con la me- desima ragione molto meglio governare
gli popoli, come ben se ne vede nel signor Duca esperienza. — LODI DI
FEDERICO GONZAGA, MARCHESE DI MANTOVA. (Lib. IV, cap. XLII, pag. 276,
lin. 7-29, iorece della parole Riipote il Signor Ottaviano &no a guelfa
vostra speranza . — ] Rispose il signor Ottaviano : Se il signor Prefetto
non fosse qui presente, io direi pur arditamente, che esso di sé stesso
promette ciò che desiderar si può di degno principe ; ma per fuggir ogni
sospetto di adulazione, non voglio lau- darlo in presenza. Dico bene, che se ’l
conte Ludovico nostro è cosi veridico come suole, un altro ne avemo ancora, del
quale con ragione sperar si deve tutto quello eh’ io ho dello convenirsi a quel
supremo grado di eccellenza: e questo non Digitized by
VARIANTI. 319 solamente è nato, ma comincia già a
mostrare della vertute e valor suo verissimi argomenti. — E qual è questo
felice signore? — rispose il Faisio. Disse il signor Ottaviano : Il Federico
Gonzaga, primogenito del Marchese di Mantua, ne- pote della signora Duchessa
qui. — Allor il conte Lodovico, Io, disse, confesso, non aver mai veduto
fanciullo, che in cosi tenera etate mostri maggior indole di questo, nè più
certa speranza di pervenire al colmo di quella virtule eroica che ha nominala
il signor Ottaviano : onde penso che non solamente nel dominio suo, ma in tutta
Italia, abbia da ri- novare il secol d’oro, del quale già tanto tempo fra gli
uo- mini non si vede più reliquia. Ed io essendo a questi di passati ito a
Mantua, feci quel giudicio di lui che si scrive che già fecero di Alessandro
certi ambasciatori del re di Persia; li quali, venuti alla corte di Filippo
essendo esso absenle, furono da Alessandro suo Ggliolo, che ancor era
fanciullo, ricevuti onoratissimamente; ed intertenendoli esso domesticamente ,
come si suole , non gli adimandò mai cosa alcuna puerile, come degli orli o
giardini, nè delle altre delizie del loro re, che in quei tempi erano
celebratis- sime ; ma solamente, quanta gente a piedi e quanta a ca- vallo
potesse mettere alla campagna il re di Persia, e che ordinanza e modo teneano
nel combattere, e in qual parte dello esercito slava la persona del re, e chi
stavano con lui, e come aveano modo di levar le vettovaglie alli nemicj che
venissero in Persia da una banda, e come dalFaltra, e come di fare che a sè non
mancassero, ed altre lai cose; di modo che quelli ambasciatori maravigliali
dissero: Il nostro si può chiamare meritamente ricco re, ma questo fanciullo
gran re ; — e inflno allora giudicorno, che avesse da essere quello che fu.
Cosi io non senza chiaro indizio presi di questo fan- ciullo suprema speranza;
chè, vedendolo ed udendolo ragio- nare, restai stupido, e parvemi comprender
che la natura l’ avesse prodotto attissimo ad ogni virtuosa grandezza. — Allor
il Fbisio, Or non più, disse; pregarem Dio di vedere adempita questa vostra
speranza; ma date oggimai loco agli altri di parlare. — 321
ANNOTAZIONI. Il passaggio di Papa Giulio li , dopo il quale
per quattro sere si finge tenuto il presente Dialogo del Corlegiano, ebbe luogo
ai primi di marzo dell’anno 1507; essendo il Castiglione allora ap- punto
ritornalo dal suo viaggio in Iiigbìlterra, dove era andato am- basciatore del
Duca d’Urbino Guidubaldo da Montefellro aire En- rico VII (vedi Lettere
Familiari, 27, 28 e 29). 11 Castiglione pose il suo Dialogo in quei giorni,
onde aver modo di introdurre a pren- dervi parte molli insigni personaggi che
non dimoravano abitual- mente in Urbino, ma che vi si trovarono in occasione di
quel pas- saggio: finse poi di essere tuttora assente, onde non trovarsi
astretto a farsi interlocutore nel Dialogo, o porsi in mezzo agli altri molo
spettatore. Gl’ Interlocutori del Dialogo sono i seguenti : .1 1.
Duchessa ELISABETTA i Lib. I, cap. 6,7, 12, 23, 32; Lib. II, cap. 5, 27, 33,
55, 85, 92, 99, 100; Lib. III, cap. 2-4, 49, 52, 60, 71, 77; Lib. IV, cap. 3,
25, 30, 43, 50, 5.5, 72, 73. Figliola di Federico e sorella di Francesco
Gonzaga marchese di Mantova,e moglie di Guidubaldo da Montefellro duca
d’Urbino; donna di singoiar bellezza e virtù. Mori nel gennajo 1526, mentre il
Casti- glione si trovava Nunzio in Ispagna. Delle sue ludi veggasi il Casti-
glione in più luoghi del Corlegiano e delle altre opere, il Dialogo del Bembo
De Duci6u.v Urbini, e le Annotazioni del Secassi alle Poe- sie Italiane e
Latine del nostro Autore. 2. EMILIA PIA » Lib. I, cap. 6, 7, 9, 1 2, 1 3,
23, 39, 50, 55; Lib. II, cap. 17, 44, 45, 52, 53, 69, 97, 98, 99; Lib. Ili,
cap. 17, 20, 22, 32, 46, 58, 61-64, 76; Lib. IV, cap. 30, 44, 50, 71-73.
Qnesta celebre principessa fu sorella di Ercole Pio signor di Carpi , e moglie
del conte Antonio di Montefellro , fratello naturale del duca Guidubaldo. Più
ampie notizie intorno a lei si veggano nelle Annotazioni del Secassi alla
stanza xxxv dell’Egloga Pastorale del Castiglione e del Gonzaga, il
Tirsi. Dìgitized by Google 322
ANNOTAZIONI. 3. CKSABE GO\X.%C.i.l: Lib. I, cap. 8,
13, 18, 23, 24, 28, 31, 53; Lib. II, cap. 10, 20, 27, 63, 56; Lib. Ili, cap. 3,
7, 40-52, 64, 70-72; Lib. IV, cap. 18, 30, 36, 60, 72, 73. c Cugino ed
intrinseco amico del conte Baldassarre. Questi » alla gloria dell’armi univa
con maraviglioso innesto l’ornamento * delle lettere, e una incredibile
prontezza e maturità di giudizio; » talché riuscì non inen valoroso guerriero,
che leggiadro poeta, e > grande ed accorto ministro. Dopo la morte del
duca Guidubaldo » fu con onoratissime condizioni trattenuto da Francesco Maria
della > Rovere, a cui prestò rilevanti servigli cosi in pace come in
guerra. 1 Ed avendo nel 1512 ridotta Bologna all’obedienza del Ponteflce, »
sovragiunto da una gagliarda febre, vi mori assai giovane, lasciando >
a tutti coloro die l’avevano conosciuto acerba e dolorosa memo* > ria
della sua morte, t Serassi. 4. Conte LUDOVICO CANOSSA i Lib. 1, cap. 13,
14, 16-22, 25-29, 31-47, 49-55; Lib. II, cap. 44; Lib. Ili, cap. 34, 67, 71 ;
Lib. IV, cap. 42, 55, 66, 60. Stretto parente del Castiglione, fu poscia
Nunzio Apostolico in Francia, vescovo di Tricarico e indi di Bajous, ed
ambasciatore del re Francesco 1 presso la Republica di Venezia. 6.
FEDERICO FREGOSOt Lib. I, cap. 12, 29-31, 37-39, 55; Lib. II, cap. 6-44, 84,
100; Lib. Ili, cap. 2, 63-56, 68; Lib. IV, cap. 66. Figliolo della
signora Gentile Feitria sorella del duca Guidu- baldo, ed amicissimo del
Castiglione. Fu poscia arcivescovo di Sa- lerno e cardinale. 6. OTTAVIANO
FREGOSOi Lib. I, cap. 10; Lib. II, cap. 91, 92; Lib. Ili, cap. 3, 51, 76, 77;
Lib. IV, cap. 3-10, 12-14, 16-19, 21-35, 37-49. Fratello del precedente;
fu poscia doge di Genova. Mori infe- licemente, prigione del Pescara. 7.
PIETRO BEMBO I Lib. I, cap. 11, 45; Lib. II, cap. 27, 29, 43, 52-54; Lib. IV,
cap. 15, 20, 50-54, 56-71. Fu il Bembo amicissimo del Castiglione,
essendosi conosciuti lungamente prima alla corte d’Urbino, poi in Roma durante
il pon- teUcato di Leone X, che lo nominò suo sei-retario. Il Castiglione gli
diede ad esaminare e correggere il suo Diai >go. Dopo la morte del
Castiglione, fu da papa Paolo ili crealo cardinale. Digitized by
Googl^ ANNOTAZIONI. 323 8. BERNARBO MVIZIB DA
BIBIEtVAi Lib. T,Cap.19, il, 31; Lib. II, cap. 33, 44-54, 56-90, 92-96; Lib.
HI, cap. 64, 68, 72; Lib. IV, cap. 38, 42. Preso dal cardinale
Giovanni de’ Medici a suo secretano , es- sendosi poscia efficacemente
adoperalo per farlo eleggere papa , que- sti, asceso al pontificato sotto il
nome di Leone X, lo creò cardinale sotto il titolo di Santa Maria in Punico. Fu
uomo di mollo ingegno, e sopratullo di maravigliosa destrezza nel maneggio
degli affari po- litici; adoperalo in varie importantissime legazioni, si
mostrò uno dei più gran ministri che avesse la Sede Apostolica. 9.
GASPARO PAELAVIClKOr Lib. I, cap. 6, 7, 15, 18, . 21, 31, 47; Lib. II, cap. 10,
13, 2.3, 24, 28, 31, 35, 40, 67, 69* 90, 92, 94-97, 99; Lib. III, cap. 3, 7,
10, 11, 15, 17, 21, 25, 28, 31, 3.3, 35, .37, 39, 41, 47, 51, 52, 56, 58, 64,
65, 71, 72, 74, 75; Lib. IV, cap. 11, 14, 19, 22, 25, 28-30, 35, 48, 49, 60,
72. Valente cavaliere, ed amicissimo del Castiglione, eh e da lui finge
essergli stati narrati questi ragionamenti sul Cortegiano tenutisi in sua
assenza. L’Autore compiange l’immatura morte del Pallavicino in principio del
Libro IV. 10. GIULIANO DE’ MEDICI detto IL MAGNIFICO t Lib. I, cap.
28, 31, 42, 48, 55; Lib. Il’ cap. 14, 26, 55, 66, 98, 100; Lib. Ili, cap. 2,
4-10, 12-1 4, 16-38, 40, 52, 54-57, 59, 64-67, 69, 70, 72-74; Lib. IV,
cap. 17, 44, 72. Figliolo di Lorenzo il Magnifico, e fratello del
cardinale Gio- vanni de’ Medici , che fu poscia Papa Leone X ; si tratteneva
allora alla corte d’ Urbino, Ove col formitor del Cortrgitao, Col
Bembo, e gli allri «acri al divo Apollo, Facea l’esilio suo meo duro e
strano. r A riosto, Satira IV.) Rientrato in Firenze nel 1512, fu
poscia capitan generale e gon- fatoniere di Santa Chiesa, e duca di Nemours;
ebbe in isposa Fili- berta di Savoja, zia di Francesco 1 re di Francia. Mori li
17 mar- zo 1516. Più ampie notizie kitomo al medesimo si troveranno nelle
Annotazioni del Serassi alla stanza xliii della Pastorale il Tirsi. 11.
BERNARDO ACCOLTI detto L’UNICO ARETINO i Lib. I, cap. 9; Lib. II, cap. 5,
6 ; Lib. Ili, cap. 7, 60-63. Bernardo Accolti d’ Arezzo, detto l’Unico
Aretino, di fama as- Dìgìl ized by Coogle 324
ANNOTAZIONI. sai maggiore vivendo che non presso ì posteri.
Fu tuttavia cavaliere assai leggiadro , versato nelle buone lettere , e
particolarmente nella poesia. Non si trattenne che di passaggio alla corte di
Urbino , poi- ché era Scrittore Apostolico ed Abhreviatore sotto Giulio
li. 43. FBìIlNCESCO IH.4R1A DELLA ROVERE, allora PREFETTO DI RO.TlAi Lib.
I, cap. 54, 55; Lib. Il.cap. 42, 43; Lib. IV, cap. 73. Francesco Maria
Bgliolo di Giovanni della Rovere, e di Giovanna sorella di Guidubaldo da
Montefeltro duca d’Urbino, nacque li 24 marzo 1491, c perciò al tempo nel quale
si finge tenuto il dialogo era giovane di soli sedici anni. Giulio II , suo zìo
, per assicurargli la successione al ducato d’Urbino, sì adoperò in modo, che
da Gui- duhaldo, il quale era senza prole, fu adottato per figliolo li 19 set-
tembre 1504; poscia, per ottenere l’appoggio anche della duchessa Elisabetta,
trattò che se gli desse per moglie Eleonora Gonzaga figliola di Francesco
marchese di Mantova , e nipote perciò di Elisa- betta; il qual matrimonio,
concbiuso e pubblicato il 3 marzo 1505, per la tenera età degli sposi non si
celebrò che il 25 novembre 1509, dopo che già Francesco Maria era succeduto al
morto Guidubal- do. Espulso l’anno 1516 da papa Leone X, che concesse quel du-
cato a Lorenzo de’ Medici suo nipote, si rifugiò a Goito nel Man- tovano.
L’anno seguente, con una mano di circa 9,000 soldati racco- gliticci di varie
nazioni, tentò di recuperare lo stato; ma costretto infine di abbandonare
l’impresa, si ricoverò nuovamente in quel di Mantova. Finalmente, morto appena
papa Leone (1521), posti insieme quattromila fanti e duemila cavalli, ajutato
dall’amore dei popoli, recuperò in breve spazio tutte le terre del ducato. Nel
1527, attempo della spedizione di Carlo Borbone contro Roma, era capi- tano
generale dell’esercito della Lega ; e vuoisi che ad arte lasciasse che le cose
del papa (ClementeVII) andassero in rovina, in vendetta dei danni recatigli
dalla famiglia dei Medici. Mori avvelenato ai 20 ot- tobre t558, in età di soli
47 anni. Di tale misfatto venne incolpato Ce- sare Fregoso, che, essendo
generale della fanteria veneziana, aveva avuto briga col Duca, supremo capitano
di quella Republica. 43. NICOLÒ FRIGIO o FRISIOi Lib. II, cap. 99; Lib.
Ili, cap. 3, 49, 22, 24-26, 28, 37, 45, 49; Lib. IV, cap. 42. 11 Bembo lo
dice uomo Germano , ma avveuo a’ eotlumi della Ilalia. Fu familiare dello
imperatore Massimiliano, a nome del^ quale si trovò al chiuder della lega di
Cambrai; uomo di grande esperienza negli affari, ma sopratutto d’ una bontà e
lealtà singolare. Tornato in Italia , entrò a’ servigi di Bernardino Carvajal
cardinale di Santa Croce; e passando per Urbino colla corte del Papa, vi si
fermò alcun tempo, e vi contrasse amicizia col Bembo e col Castiglione, il
quale ANNOTAZIONI. 325 già aveva
conosciuto circa due anni prima in Roma. (Cast. , Lett. /am., 2S.) Nel 1510 si
rese monaco nella Certosa di Napoli, e fu al- lora che il Bembo gli scrisse il
sonetto che incomincia: Fiitio, che gii di questi gente a quelli.
14. MORELLO OA ORTONAi Lib. I, cap. 34; Lib. II, cap. 8, 14, lo; Lib. IV, cap.
55, 63. Il più vecchio tra i cavalieri della corte di Urbino. Il Castiglione
nella Pastorale il Tirsi lo loda anche come poeta. 15. ROBERTO DA BABIi
Lib. II, cap. 50; Lib. Ili, cap. 67, 68. Amicissimo del Castiglione, che
di lui parla con molta lode e ne compiange la perdita nel proemio del Libro IV
del Cortegiano. Di lui parla il nostro Autore anche nella 58* delle Lettere
Familiari. 16. ERA SEBAFlKOt Lib. I, cap. 9. Burlatore faceto
(Corteg., II, cap. 89), e gran mangiatore (1, 28). 17. LLDOUCO MOs Lib.
I, cap. 46; Lib. II, cap. 23, 37. Figliolo di Lionello signore di Carpi ;
fu uomo di Chiesa. 1 8. OIOVANNl CRISTOFORO ROMANO: Lib i, cap.50.
Valente scultore , discepolo di Paolo Romano. Fu amico anche di Saba
Castiglione, il quale di lui cosi ne’ suoi Ricordi (Ricordo 109): « Oltra le
altre virtù, e massimamente delia musica, fu al suo tempo y> scultore
eccellente e famoso, e molto delicato e diligente , e mas- » simaroente per la
nobile ed ingegnosa sepoltura di Galeazzo Vis- I conte nella Certosa di Pavia.
E se non che nella età sua più verde > e più fiorita fu assalito
d’incurabile infermità, forse fra li due primi » (Michelangelo e Donatello)
suio sarebbe il terzo. i — Sul monu- mento di Galeazzo Visconte si legge :
IHOANNES CHRISTOPHORUS ROMANUS FACIEBAT. 19. VINCENZO CALMETA: Lib. I,
cap. 56; Lib. Il, cap. 21, 22, 39. Fu a’ suoi giorni poeta di poco
prezzo. Dolce. 20. PIETRO DA NAPOLI: Lib. I, cap. 46; Lib. II, cap.
18. Nè presso il nostro Autore nè altrove mi venne fatto di trovai;
menzione di costui fra gli uomini insigni di quella età. 28
Digilized by Google 326 ANNOTAZIONI.
81 . MARCHESE EEBCSi Lib. II, cap. 37. Di costui parimente non
trovai altro cenno che quello datoci dal nostro Autore in quest’opera, Lib. I,
cap. Si, e Lib. II, cap. 37. 22. COSTANZA FRECOSAi Lib. I, cap. 40.
Sorella di Ottaviano e di Federico Fregosì, e perciò nipote da sorella del duca
Guidubaldo. 23. MARGHERITA GONZAGA i Lib. Ili, cap. 23. Dama della
duchessa Elisabetta. Pag. 1, Un. 8. — che in quegli anni. Meno bene
le tre prime Aldine che io quegli anni. Pag. 1, Un. 18. — Donna
celebratissima per ingegno, per bel- lezza e per virtù, figliola di Fabrizio e
sorella di Ascanio Colonna, e moglie di Fernando d’Avalo marchese di
Pescara. Pag. 1, Un. 19- — Vedi la 299 fra le Lettere di Negozi! del Ca-
stiglione. Pag. 2, Un. 2. — Messer Alfonso Ariosto, gentiluomo bologne-
se, era cortegiano mollo favorito del cristianissimo re Francesco I, e grande
amico del Castiglione. Serassi. Pag. S, Un. S6. — Questa fu opinione di
molli, nata in parte dall’essere difalU il Castiglione adorno di quasi tutte le
doti, delle quali vuole fregiato il perfetto Cortegiano; onde anche l’Ariosto,
Canto XXXVll, st. viH. c’è il Bembo, c’è il Cappe!, c’è chi qual lai
Veggiamo ba tali i Cottegiao formati. Pag. 6, Un. S. — Questo è preso
gentilmente da Cicerone. Dolce. LIBRO PRIMO. Pag. 8, Un. SI.
— Allude al proemio del dialogo dell’Oralore. Dolce. Pag. 9. Un. SS. —
Vedi la descrizione di questo palazzo nel libro intitolato Versi e prose di
monsignor Bernardino Baldi da Ur- lino, abate di Guastalla; in Yenetia, 1S90,
in-4. Gaetano Volpi. Digitized by Google ANNOTAZIONI.
327 Pag. 10, Un. 7. — Imita Ovidio nel fine delle Trasformazioni. Dolce.
— Helamorpbos., lib. XV, v. 730, 751 : neqne enim de Ctesaris actis
Ulfttm majtts epns^ qnam quod pater extitit hnjus, Pag. 15, Un. 25. —
Tale usanza dura anche oggi In Sardegna; Vedi Lamarmora, Voyage en Sardaigne,
2« édition, voi. I, pag. 179 . Pag. 16, Un. 15. — Frate in Roma,
famigiiare del Castiglione. Delle sue facezie si fa cenno anche più sotto, Lib.
11, cap. 44. Sem- bra che, tra l’ailre stranezze, solesse fare l' elogio della
pazzia, ed augurarla altrui quasi buona ventura ; come appare e da questo pas-
so, e più chiaramente dal seguente di una fra le lettere del Casti- glione, che
per la prima volta diamo alla luce (Lettere di Negozi!, 174): c I medici
mi confortano a purgarmi diligentemente, « per essere queU’umore
melancolia di malissima sorte; benché > frate Mariano dice , che per modo
alcuno non mi debbo medicina- » re: che se per mia avventura questo umore mi
andasse alla testa, » io diventerei matto, e cosi avrei il miglior tempo che
avessi mai « in vita mia. * Pag. 17, Un. 36. — Questo sonetto fii per la
prinàa volta stam- palo dal Rovinio, nell’edizione del Cortegiano fhtta in
Lione 1562; indi dal Volpi nell’indice del Cortegiano, dove fu conservato nelle
edizioni posteriori ; esso è il seguente : CoDsrnti^ 0 mar di lielUita e
▼irtute» Cb*io, tervo tao, sia d*an gran duhio sciolto. L ’ Sp qual
porli nel candido volto, Significa mio Stento, o mia Salate? Sé
dimostra Soccorso o Servitale? Sospetto o Secanà? Secreto o Stolto?
Se Speme e Strido? te Salvo o Sepolto? Se le catene mie Strette o
Solate? Ch’io temo forte, che non faccia segno Di Superhia, Sospir,
Severitate, Siratio, Sangue, Sudor, Sapplicio e Sdegno. Ma, se loco
ha la pura ventate, Questo S dimostra, e con non poco ingegno, T7n
SOL Solo in belletaa e crudeltate. Pag. 18, Un. 50. — dolci li fa. Cosi
corresse il Dolce; le Al- dine e le altre antiche hanno dolci le fa. Pag.
SI, Un. 57. — Allude a quello che dice Orazio. Dolce. — Sermonum, «6. I, Sai.
IH, v. 41-55. Pag. SS. Un. 16. — se desvia. Le Aldine degli anni 1528,
1541, 1545, hanno «i desvia. Digitìzed by Google
I 528 ANNOTAZIONf. Pag. S2, Un. 32. — Imitato da
Orazk), Od. IV, 4, v. 29; J^or/ej creantnr fortihns et benis; Est
in juvencis, est in eqnis, patrum VirtttS, nee imbe/iem feroce*
Progenerant a quitte eolumbam. Pag. 23, Un. 22. — i giwUcii. Cosi le
Aldine degli anni 1528, 1553, 1358, 1543, e questa credo la vera lezione; le
Aldine del 1341 e 1347, i giudici. Pag. 27, Un. 2i. — si asUen da laudar.
Le Aldine degli an- ni 1341 e 1347, si astien di laudar. Pag. 30, Un.
3-51. — Questo passo intorno ai duelli fu con- servato intatto nell’edizione
espurgata dal Ciccarelli. Il Volpi nel- l’Indice, alle parole Combattimenti
privati o siano duelli, aggiunge la seguente Nota: < In essi non solo, come
consiglia l’autore, dee » il Cortegiano andar ritenuto, ma, se è buon
cristiano, li dee af- » fallo fuggire, per aderire all’insegnamento dell’Aposlolo
nella sua » II* lettera ai Corintii, al capo VI, di dover seguitar Cristo per
glo- > riam et ignobilitatem, per infamiam et bonam famam. » Pag. 31,
Un. 36. — compagnata. Cosi le Aldine del 1328, 1333, 1343, voce usata anche
altrove dal nostro Autore; le Aldine del 1358, 1341 e 1347, hanno
accompagnala. Pag. 33, Un. 24. — » guida. Cosi tutte le Aldine e le altre
an- tiche, ed è lombardismo usato più volte dall’ Autore. Simile forma troviamo
presso Dante, Inferno, cjinto V, v. 78: e la U chiama Per queir
amor che i tira, ed fi verranno. Il Dolce mutò ad arbitrio li guida,
lezione ripetuta nell’edizione dei Classici, c in quella del Silvestri. Simile
modo di dire troviamo nuovamente a carte 38, lin. 36; a carte 87, lin. 23; a
carte 118, lin. 34; a carte 123, lin. a carte 200, lin. 20. Pag. 39, Un.
5. — È da avvertire che la intenzion dell’Autore è appunto di rifiutar la
opinion del Bembo esprc.ssa nelle sue prose intorno alla lingua; dove forse si
potrebbe dire, che ambedue pec- cassero nel troppo, l’uno nell’ osservare, e
l’altro nello sprezzare. DOI.CE. Pag. 43, lin. 3. — Allude al celebre
verso di Orazio: Scribendi recte, sapere est prìncipinm et fons.
(De Arie Poelica, v. 309.) Non so astenermi dal notare qui ii grave
errore in che nella spiegazione dì questo verso è caduto il Botta, nella
prefazione alla continuazione della Storia del Guicciardini; dove, collegando
il rette col sapere, e non collo scribendi, d ripete a sazietà quell’
insulso AMNOTAZIOm. 329 rec/e
$apere, quasi fosse possibile sapere non reste. Al qnal proposito conviene
avvertire, che la voce italiana sopire corrisponde pinttosto alla latina scire,
e che manchiamo nella nostra lingua dì un voca- bolo che perfettamente esprima
il sapere dei latini. Forse, ma pare imperfettamente, si potrebbe tradurre per
aver senno. Pag. 4S, Hn. 1S. — Tolto da Cicerone. Dolce. Pag. 46,
Un. 12. — se gli trovi. Cosi corresse il Dolce; le Al- dine hanno, e forse il
Castiglione scrisse si gli trovi. Del resto, que* sto pensiero parimente è tolto
da Orazio: ut sili tfuivis Speret idem s sndet multum, frustraqne
Uboret, jituus idem. (De Arie Poeticai ▼. 340-SiS.) Pag. 47, Un. 2.
— italiana, commune. Così tutte le Aldine; il Dolce, tolta la virgola, scrisse,
forse non male, italiana commune. Pag. 47, Un. 53. — perchè dite, se
qualche. Cosi le Aldine de- gli anni 1K38, 1S4I, 1347; le altre, perchè dite,
che se qualche. Pag. 47, Un. 37. — Campidoglio si usa in rima dal
Petrarca nel primo capitolo del Trionfo d’ Amore. Gaetano Volpi. Pag. SO,
Un. 5. — nella maniera del cantare. Le Aldine degli anni 1328, 1338, 1341,
hanno nella maniera dal cantare. Pag. SO, Un. 14. — Intorno al Mantegna,
vedi la Parte II della Verona illustrata, del celebre signor marchese Scipione
Maffei, in-8, a carte 189. Volpi. Pag. 32, Un. 30, 33. — non direste voi
poi, che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Virgilio? Cosi
le Aldine del 1341 e del 1347 ; le altre Aldine, con manifesto errore, non
dire- ste voi poi, che Corrulio nella lingtta fosse pare a Cicerone, a Silio e
a Virgilio? Pag. S3, Un. 19. — attiche. Le Aldine degli anni 1341 e 1347,
antiche. Pag. SS, Un. 11. — non vi pare. Male le Aldine degli anni 1338,
1341, 1347, et t>» pare. Pag. 68, Un. 7, 8. — non estimandola tanto,
ragionevol cosa è ancor credere. Cosi corresse il Dolce; le edizioni anteriori
hanno non estimandola tanto ragionevol cosa, et ancor credere, tranne l’Al-
dina del 1347, che ha non estimandola tanto ragionevol cosa, è an- cor
credere. Pag. S9, Un. 34. — Il simile dice Cicerone nella orazione in
difesa di Archia poeta. Dolce. Pag. 60, Un. 29. Versi tratti dal sonetto
CXXXV de! Petrarca. 28 * Digìtized by Google 330
- ANNOTAZIONT. Pag. 65, Un. 4 ^ — che or sarta lungo a
dir. Ck») corresse il Volpi; le edizioni anteriori hanno che lor saria lungo a
dir. ' Pag. 65, Un. Ì7. — tener certo. Cosi scriviamo, colle Aldine degli
anni 1S38, iS4t, 1547; quelle del 1528, 1535, 1545, tener per • certo.
Pag. 65, Un. il. — 11 Volpi nota : s Anzi è certissimo per le > Divine scritture,
fra le quali basti il salmo 150. i Pag. 65, Un. 4. — tra gli oratori. Le
Aldine degli anni 1541 • 1547, tra oratori. Pag. 67, Un. 7. — anco.
Seguiamo la lezione delle Aldine de- gli anni 1541 e 1547 ; le altre
ancora. LIBRO SECONDO. Pag. 75, Un. SS. — È l’Oraziano
laudator temporis acti. (De Arte Poetica, v. 173.) Pag. 76, Un. S5. —
Plato in Phadone, ed. Henr. Stephani, Voi. I, pag. 60, B. Pag. 76, Un.
S8. — precede. Cosi le Aldine degli anni 1545 e 1547; male le quattro anteriori
procede. Pag. 78, Un; 7. — Forse il Signore alluse a ciò nella parabola
della zizania con quelle parole: Sinite utraque crescere usque ad messem.
Matlh. XIII, 30. Gaetano Volpi. Pag. 80, Un. SO. — Leggi la prima comedia
di T^mùo. Dolce, Pag. Si, Un. 15. — Comparazione tolta da Cicerone.
Dolce. Pag. 83, Un. SO. — atia. Le Aldine degli anni 1533, 1538, 1541,
1547, occhia; e forse cosi scrisse l’Autore. Pag. 84, Un. 6. — barra.
Male le Aldine degli anni 1528 e del 1545, bara. Pag. 88, Un. 57. —
Dubito che dir voglia due volte al giorno, come fanno alcuni zerbini d’ oggidì;
chè a ninno parrà certo sover- chio il Parsi la barba due volte la settimana.
Del resto, è degno di nota, che questa accusa appunto venne a’ suoi tempi fatta
da alcuni al Castiglione, come sappiamo dal Giovio, e dopo lui dal Harliani,
che ai Ungesse i capevi, e che sforsandosi di parer giovane, andasse
pulitamente vestito. Pag. 90, Un. S5. — Tratto dal Virgiliano: sed
cruda Deo viridisqne tenecUit. (Xn. VI, 3C4.) Digitìzed by
Google ANNOTAZIONI. 531 Pog. 91, Un. 2S. — forte. Così le
Aldine del IMI e del 1547; le altre forte. Pag. 9S. Un. 17.-— protuntion
tcioeca. Così l'ultima Aldina; le altre prosuntione sciocca. Pag. 94. Un.
SJ. — Lue. XIV, 8, 10. Pag. 94, Un. Si. — favor. Così le Aldine degli
anni 15il e 1547; le altre favore, il che non concorda col seguente meri-
targli. Pag. 98, Un. 19. — se lo estimassi. Così corresse il Volpi; le
edizioni anteriori hanno se lo estimasse. Pag. 103, Un. 10. — nel
vestire, voglio che 'I nostro Cortegia- no. Così le Aldine degli anni 1528,
1533 e 1545; le altre del vestire, voglio che ’l Cortegiano; e questa forse è
la vera lezione. Pag. 102, Un. 15. — di denti. Le Aldine degli anni 1523,
1533, 1545, de denti. Pag. ÌOS, Un. 16. — Bergamo abbonda nelle sue
montagne di certi scimuniti gozzuti e mutoli, per alimentare i quali colà nel
borgo Sant’Alessandro ha un ricco spedale detto la Maddalena. Gaetano
Volpi. Pag. 105, Un. 23, 24. — ragionaste. Le Aldine del 1541 c del 1547
, ragionassi. , Pag. 106, Un. 32. — Ossia una misura piena di ceci.
Pag. 107, Un. 15. — se gli metteranno. Così corresse il Volpi; le Aldine e le
altre antiche si gli metteranno, e così forse, con for- ma latina, scrisse il
nostro Autore. Pag. 110, Un. 4. — DI questi innamoramenti per fama vedi
esempio presso il Boccaccio, Giornata IV, Nov. IV, del Gerhino. Pag. Ilo,
Un. 58. — Josquin de Prez, nativo di Cambra!, o se- condo altri di Condé, ed
uno dei più valenti ingegni di che siasi vantata l'arte della musica, fu
maestro di cappella sotto Sisto IV (1471-1484), e più tardi alla corte di
Ludovico XII. Pag. 112, Un. 2. — vi vo’ dir. Le Aldine del 1538; 1541,
1547, vi voglio dir. Pag. 115, Un. 5, 6. — mettono. Così fra le Aldine la
sola del 1545; le altre menano. Pag 115, Un. 11. — Il Volpi congettura,
che qui il Castiglione accenni a Leonardo da Vinci. Pag. 115, Un. 20. —
che non è sua professione. Male le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, che è
sua professione. Digitized by Google 332
ANNOTAZIONI. Pag. 116, Un. 26. — Tolto da quello di
Dante: Sempre i quel ver che ha faccia di menzogna, Dee l’ uom
chiuder le labra , quanto ei punte , Però che senza colpa fa
vergogna. Jn/. XVI, 22. Pag. 116, Un. 53. — parlano. Le due prime
Aldine partano. Pag. 117, Un. 20. — Nel resto di questo Libro, ossia in
tutto il tratto relativo alle facezie, il nostro Autore segue principalmente
Cicerone, De Oratore, lib. II, cap. 54-71, e ne trae alcune regole G molli
esempli di facezie. Pag. 117, Un. 50. — quale. Le Aldine degli anni 1541
e 1547, questa. Pag. 118, Un. 15. — de’ mordaci. Meno bene le Aldine
degli anni 1541 e 1547, ne' mordaci. Pag. 125, Un. 7. — Allude al carme
LXVIl di Catullo. Pag. 123, Un. 32. — porle. Male l’Aldina del 1538
parte, e quelle del 1541 e 1547, parli. Pag. 125, Un. 16. — Poesie di
Strascino da Siena leggonsi nelle Raccolte di rime piacevoli. Giovanni Antonio
Volpi. Pag. 129. Un. 29. — la guerra che era tra ’l re. Le Aldine del
1538, 1541 e 1547, e tutte le edizioni posteriori fino al Volpi, omettono le
parole che era. Pag. 129, Un. 53. — di trovarvisi. Cosi Tanlica edizione
senza data, il Dolce, e le edizioni posteriori; le Aldine da trovarvisi.
Pag. 152, Un. 4. — Antonio Alamanni pure scherza nello stesso modo sopra un tal
vocabolo, in un sonetto a carte 82 delle rime del Burchiello dell’edizione
fiorentina 1568: Vomì costì dal Tilialdeo lapcssì S* un erodo, sema
legoe, esser può cotto; E se quel cb* c d*nn sol, può esser d’otto;
O te non può aver letto un che leggessi. Caetano Volpi. Pag. 132,
Un. 5. — di quel non aver letto. Male le due prime Aldine di qual non aver
letto. Pag. 135, Un. 11. — domandar dell'ostaria. Con supino errore le
Aldine degli anni 1538, 1541, 1547, domandar de l’historia. Pag. 133, Un.
14. — terra di ladri. Cosi primo il Dolce; le Al- dine terra de ladri.
Pag. 153, Un. 18. — lingua latrina. L’Aldina del 1547 e parec- chie posteriori
hanno, per errore, lingua latina. Digitìzed by Google
ANNOTAZIONI. 333 Pag. 133. Un. SS. — al medetimo
propotito. Così primo il Vol- pi; le due prime Aldine ad medesimo proposito; le
altre quattro a medesimo proposito ; il Dolce o un medesimo proposito.
Pag. 133, Un. SS. — Virgil., iEneid. VI, 605, 606: Furiarum maxima juxta
Àccubal. Pag. 133, Un. 30. — Verso d’ Oridio, Artis .imatoriae, 1,
39. Pag. 134, Un. 18. — Lue. IV, S. Pag. 134, Un. SO. — Matth. IIV,
SO. Pag. 135, Un. 3S. — Monsignor Saba Castiglione ne’ suoi Ri- cordi
insegna, clic nel guadare le acque e nel mangiare il cacio si ceda sempre il
primo luogo al compagno. Gaetano Volpi. Pag. 136, Un. 5. — Vino, disse
uno Spagnuolo alla tavola del gran Capitano, domandando da bere, la qual parola
in ispagnuolo può dir anche venne; e Diego de Chignones subito rispose V no lo
eonocistes; cioè (come dice il Dolce in una postilla) venne il Messia, e voi
non lo conosceste, perchè lo poneste in croce: volendolo cosi tas- sare
d’occulto ebraismo; come non di rado succede, che in Ispagna alligni tal razza
di gente. Gaetano Volpi. Pag. 136, Un. 6. — Letterato celebratissimo, fu
poscia secre- tano di Clemente VII e cardinale. Serassi. Pag. 137, Un.
11. — le disse. Le Aldine ed altre antiche gli disse, e forse così scrisse il
Castiglione. Pag. 137, Un. 33. — talor. Manca nelle Aldine degli anni
1541 e 1547. Pag. 138, Un. 1. — dorargli. Male le Aldine degli anni 1538,
1541 e 1547, dotargli. Pag. 139, Un. 7. — Il Volpi pensa che qui
s’intenda o fra Se- raOno, del quale, Lib. I, cap. 29, e Lib. Il, cap. 89; o
fra Serafino Aquilano, poeta celebre. Ma quel primo era presente, laddove le pa-
role qui se ben vi ricordate alludono a persona morta, o da lungo tempo
assente; e nulla v’ha qui che paja alludere al poeta Aquila- no. Nè questo
Serafino è qui detto frate ; e forse non è altri che il medico, del quale più
sotto, al cap. 77. Pag. 139, Un. S6. — cavatelo. Cosi emendò il Dolce; le
edi- zioni anteriori cavatilo. Pag. 140, Un. S8. — molto. Non male le
Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547, e molto. Pag. 141, Un. 30. — quello
che disse. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, quella che disse. Pag. 14S,
Un, 37. — diciate. Cosi primo il Dolce; le Aldine dicale. jilized
by Google 334 ANNOTAZIONI. Pag. H3, Un. 56.
— Santo Ermo, certo fuoco fatuo che ap- parisce in su le antenne delle navi
dopo le tempeste, ed è segno di tranquillità. Gaetano Volpi. Pag. 1i4,
Un. S3. — Tolto da quello che Fabio Massimo disse di Marco Livio, che aveva
lasciato occupare dai Cartaginesi Taran- to, ma che, avendo conservata e difesa
larOcca, si vantava che Ta- ranto era stato recuperato per opera sua : Poteri
se, opera Livii Ta- rentum receplum....; neque enim recipiundum fuissel, nisi
amissum foret. Livii, Histor. XXVII, xxv. Pag. 447. Un. 3. — con
quell'occhio. Le Aldine degli anni 1528, 1553, 1515, con quello occhio.
Pag. 447, Un. 34. — Lo scherzo nasce dal dividere in due la parola
damasco. Pag. 448, Un. 43. — maestro Stalla. Cosi le Aldine ed altre an-
tiche; il Dalce e le edizioni posteriori maestro di stalla, lezione priva di
sale e di senso. Pag. 448, Un. 37, — se gli dice. Cosi corresse il Dolce;
le Al- dine si gli dice. Pag. 4S0, Un. 30. — con minaccia. Le Aldine
degli anni l528, 1553, 1^, con minaccie. Pag. 4S0, Un. 3S. — escano. Cosi
le Aldine degli anni 1528, 1533, 1545; le altre escono. Pag. 454, Un. 5.
— inerttdiscono. Male le Aldine degli an- ni 1538, 1511, 1517, incrudeliscono;
lezione conservata anche dal Dolce. Pag. 454, Un. 34, 33. — dei miseri.
Le Aldine ed altre antiche di miseri. Pag. 454, Un. 33. — A MonteSore era
una magrissima bsteria, ita in proverbio. Gaetano Volpi. Pag. 453, Un. 4.
— di chi io intendo. Cosi l’edizione origina- le, e quella del 1515; l’Aldina
del 1533 di ch’io intendo; onde quelle del 1538, 1511, 1517, di che io
intendo. Pag. 458, Un. 44. — Fu forse quel di San Giacomo; non es-
sendocene altri che si possano circondare, ed essendo appunto di- rimpetto ad
esso una slradetta, che si chiama Scalfura. Gaetano Volpi. Pag. 458, Un.
33. — tenea lo spago. Le Aldine degli anni 1538, 1511, 1517, tenea o teneva il
spago, che forse è la vera scrittura del- l’Autore. Pag. 459, Un. 36. —
Notisi la voce calunnia, per imputazione maligna, ancorché vera.
Digilized by Gì ANNOTAZIONI. 335 Pag. 460,
Un. 49, SO. — Frase alquanto intricata; piò chiaro cscirebbe il senso mutando
l’ordine delle parole : poiché non m’obli- gano con lo amarmi ad amar
loro. Pag. 460, Un. 30, 34 ; pag. 464, Un. 4S, 48, S3. — In questo luogo
nelle Aldine, e quindi nelle altre edizioni, è scritto Boadiglia e Cariglio,
secondo la pronunzia spagnuola ; sopra a pag. 44S, Un. 19 25; pag. 147, Un. 24,
Boadilla e Carillo, secondo l’oitogralìa; e que- sta forma abbiamo preferto,
attenendoci alla consueludine del- r autore. Pag. 46i, Un. 46. —
braeciuca. Coa* le Aldine del 1533, del 1545, e l’edizione originale o del
1528, ma quesU con lettera majuscola Bracciesca; quelle del 1538, del 1541 e
del 1547, hanno braee$ca. Pag. 46S, Un. 36. — quello di che io. Male le
Aldine degli an- ni 1538, 1541 e 1547, quello che io. Pag. 466, Un. 44. —
Cortegiana. S’astiene l’autore di chiamare la Dama di Corte con questo nome,
chiamandola in vece Donna di Palagio; perchè Cortegiana per lo più è preso io
cattivo significato. Fra le Orazioni del nostro M. Sperone Speroni ve n’ha una
scritta ne’ giorni santi alle Cortegiane, per rimuoverle dalla pessima lor
(x>nsaeiudine. Alle volto però il (Astigliene è pur caduto in ciò che non
volea, chiamandola con un tal nome, come a carte 100 e 172 e forse in qualche
altro luogo. Gaetano Volpi. ’ Il Castiglione fa uso parimente di questa
voce nella Lettera 8 fra le Famigliar! : Io mi parto assai accarettato dalla
Illustrissi- ma Signora, che mi ha onorato ed accarenato assaissimo più
che non merito, e ’l medesimo tutte quest’ altre Donne Cortegiane e non Cor-
tegiane. Pag. 466, Un. 24. — non mi vi sento. Meno bene le Aldine de- gU
anni 1538, 1541, 1547, non mi sento. LIBRO TERZO. Pag.
468, Un. 4. — Preso da Aulo GeHio, lib. I, cap. 1. Pag. 469, Un. 23. —
Essendosi. Meno bene le Aldine' degli anni 1538, 1541, 1547, Essendo.
Pag. 470, Un. 8, 9. — di chiarir. Forse non male le Aldine degli anni 1541 e
1547, dichiarir. Pag. 470, Un. 30. — più s’appressano. Cosi le Aldine e
tutte le edizioni anteriori al Dolce; onde non osai ammettere la lezione da
questo Introdotta, e conservausi in tutte le edizioni posteriori, più *i
appreaano. Digitized by Google 336
ANNOTAZIONI. Pag. 170, Un. S3. — chi le serve. Così corresse
il Volpi; le Aldine e le altre antiche hanno chi li serve o chi gli
serve. Pag. 171, Un. 27. — nè fa. Cosi tutte le edizioni ; tuttavia forse
meglio si leggerebbe nè far. Pag. 172, Un. 17. — Pigmalione, secondo la
favola, s’inna- morò di una statua d’avorio da lui formata. Gaetano
Volpi. Pag. 174, Un. S. — ritrovandovisi. Le Aldine degli anni 1538, 1541
e 1547, trovandovisi. Pag. 176, Un. 37. — impudenta. Male le Aldine del
1538, 1541 e 1547, imprudenui. Pag. 177, Un. 8. — tendano. Cosi corresse
il Volpi ; le edizioni anteriori fendono. Pag. 186, Un. 19. — con questa
secrete%%a. Cosi le Aldine del 1528, 1533, 1538, 1515, l’edizione dei fratelli
Volpi, e le poste- riori; le Aldine del 1541 e del 1547, seguite dal Dolce e da
altri antichi, hanno con questa scelerate»*a, che forse è la vera
lezione. Pag. 188, Un. 55. — Novelletta nota, dì una moglie, che col-
lata in un pozzo dal marito che voleva indurla a cessare dal ripe- tere la
parola forbeci, pur persisteva, ancorché il marito la lasciasse attuifare a
mano a mano, e già essa fosse nell’acqua Ano alla gola; quando poi l’acqua le
soverchiò la bocca, e più non potè parlare, elevato il braccio, pur conirafaceva
colle dita il taglio delle forbeci. 11 marito non potè tenersi dal ridere in
vedere tanta ostinazione, c ritrasse la donna dal pozzo. Pag. 190, Un.
38. — Novella a lungo e leggiadramente nar- rata daU’Arìosto nell’Orlando
Furioso, Canto XXXVIl, stanza 44 e seguenti. Pag. 193, Un. 37. — ed al
marito. Le Aldine degli anni 1528 e 1545 omettono la voce ed. Pag. 196,
Un. 11. — Tarpea, che tradì la ròcca ai Sabini, i quali appena entrati
l’ammazzarono. Vedi Livio, lib. 1, cap. XI. Pag. 198, Un. 33. — E, per
uscir d'Italia. Cosi corresse il Dolce; le edizioni anteriori hanno et che per
uscir d’Italia. Pag. 202, Un. 11. — si Irovan donne. Nelle Aldine degli
an- ni 1538, 1541 e 1547 manca la voce donne. Pag. 208, Un. 18. — Se
l’opera del CortegiMO dovea correg- gersi e spurgarsi da tutto ciò che in
qualche maniera potes^ gua- stare i buoni costumi, ragion voleva che in questo
luogo principal- mente fosse corretta e spurgata. Con ciò sia che alcune altre
novel- le, motti e facezie, che in essa qua e là s’incontrano, per lo più hanno
sembianza di scherzi e di piacevolezze ; ma qui parlandosi con serietà
Digltized by Google ANNOTAZIONI. 337
si viene ad onorare colutolo d’immacolata, e si propone per esem- pio di
costanza e dì pudicizia una donna, che già si era data in preda all’amante, e
avendosi posta sotto de’ piedi l’ interna onestà, e di più la verecondia o
verginale o matronale, iacea copia lìberamente di sè medesima (dall’ ulUmo atto
in fuori) ad un uomo libidinoso e dissoluto. Noi avremmo volentieri tolto vìa
questo racconto scanda- loso; ma vedendo, non senza qualche maraviglia, che il
Ciccarelli r avea lasciato, deliberammo di lasciarlo noi parimente, ma di con-
futarlo altresì colla dovuta censura. Prima dunque d’ogni altra cosa noi
diciamo, esser questa narrazione se non falsa, almeno inverisi- mile affatto, e
perciò mancante d’ ogni autorità Certamente ne- gli antichi secoli della
Chiesa non si dovea prestar fede a Paolo Sa- mosateno vescovo di Antiochia, nè
agli altri chierici suoi seguaci, i quali, accecati dal diavolo, erano usati di
tenersi a flanco nel letto una 0 talor due vergini a Dio consacrate, scegliendo
dal numero di esse le più amabili e per gioventù c per bellezza, comechè
protestas- sero di non trascorrer giammai a verun atto d’impurità. Chi si
espone a rischio si manifesto di peccare, o non ama daddovero la castità, o
egli è stolido e prosuntuoso, mettendosi a tentar Dio. Imperciocché tanto è
possibile che due dì sesso diverso, inGanimati di scambievole amore,
conversando insieme da solo a solo, anzi nel medesimo letto, si astengano da
peccati carnali, quanto è possibile che il fuoco s’ac- costi alla paglia senza
abbruciarla ed incenerirla. Numquid potest homo (dice il Savio nei Proverbi!,
al capo sesto) abscondere ignem in sinu suo, ut vestimenta illius non ardeant?
aut ambulare super prunas, ut non comburantur plantce ejus? Sic qui ingreditur
ad mu- lierem proximi sui, non erit mundus cum tetigerit eam. Ma dato an- cor
che la donna di cui parla il Castiglione, per paura di morte o d’infamia, cosi
ferma fos.se nel suo proposito, che non permettesse in tanto tempo all’ amante
l’ ultimo sfogo de’ suoi sfrenati appetiti: si dovrà perciò ella chiamare uno
specchio di pudicizia, immacolata, illibata? Chi tal titolo volesse darle,
verrebbe a pesare la pudicizia e l’onestà, per cosi dire, colla stadera del
niugnajo, non colla bilan- cetta dell’oreflce. Queste virtù sono di tempera
dilicatissima, c so- migliano appunto a que’flori, che ad ogni fiato di
scirocco appassi- scono. La verginità e la continenza hanno lor sede
|>rincìpaìmente nell’animo; ma quando poi una donna non disdice aU’amante i
baci, gli abbracciamenti, e l’altre si fatte domestichezze, quand'anche più
oltre non passi, queste nobilissime doti già sono affatto dissipate e perdute, nè
altro di esse rimane che l’ombra sola e l’apparenza, la quale può bene
ingannare la corta vista degli uomini, ma non isfug- ^ gire gli occhi
penetranti ed acutissimi del grande Iddio. Omnis qui viderit mulierem ad
concupiscendum eam, jam mcechalus est eam in corde suo, grida il Signore nel
Vangelo (Matti). V, 32). Cosi ancora adunque mulier quae viderit virum ad
concupiscendum eum ; molto più quee tetigerit, quae amplexa fuerit, quae se
illi contreclandam urcebuerit. Costei, oltre ai propri! peccati, venne a farsi
complice 29 Digitized by Google 338
ANNOTAZIONI. de’ peccati ancor dell’ amante, i quali in si
lungo tempo saranno stati pressoché ìnnumerabili. È certamente da stupirsi,
come mi uomo dotto e prudente, qual era il conte Baldessar Castiglione, abbia
potuto prendere uii granchio si grosso, in materia di vera e soda virtù.
Convien però dire, ch’egli abbia servito in questo luogo al- r umore della
persona da esso introdotta a ragionare; dimostrando egli per altro in varie
parti di quest’opera sentimenti più giusti e più ragionevoli, e discorrendo del
dovere e dell’ onesto con sotti- gliezza mollo maggiore. Giovanni Antonio
Volpi. Pag. 210, Un. 30. — allvpiato. Le Aldine ed altre antiche al-
l’opiato; male il Dolce allopitalo. Pag. 211, Un. 2. — Tanti potnilere
non emo: risposta data da Demoslene a laide, famosa meretrice in Corinto.
Gaetano Volpi. Pag. 21i, Un. 4. — Imitato da quel di Tibullo, Eleg. I, 1,
65: Uh non juvenis poterit do funere quitquam Lumina, non virgo, ticca
rejerre domum. Pag. 21S, Un. 3. — sempre non veda. Le Aldine degli anni
1541 e 1547 , sempre non si veda. Pag. 216, Un. 2. — Allude al libro di
Ovidio Artis Amatoriae. Un simile argomento nello scorso secolo fu trattato in
Francia da Pietro Giuseppe Bernard, delllnate, conosciuto anclie sotto il nome
di Gentil Bernard. Pag. 220, Un. 3. — Di essa parla Bernardo Tasso
neH’Amadigi. Gaetano Volpi. Pag. 223, Un. 16. — circa le diflicoltà. Cosi
le Aldine degli anni 1538, 1541, 1547; quelle del 15^, 1533 e 1545, circa la
diffi- coltà. Pag. 228, Un. 13, li. — deve ancora cominciare a compiace-
re. L’Aldina del 1538, e dietro essa tutte, tranne l’Aldina del 1545, le
edizioni posteriori del secolo XVI e XVII, omettono le parole co- minciare a;
esse furono restituite dal Volpi, e conservale nelle se- guenti edizioni.
Pag. 230, Un. 9. — Tratto da quel verso di Properzio: Si neteit, ocnli
sunt in amore ducee. Dolce. Pag. 250, Un. 22. — piglia le qualità.
Cosi le Aldine degli unni 1541 e 1547; meno bene le altre piglia la
qualità. Pag. 232, Un. 13. — più che agU altri. Cosi l'Aldina del 1545;
le altre Aldine malamente più che gli altri. Pag. 233, Un. 17. — Di
costui vedi il Giornale de’ Letterati d’Italia. Volpi. Francesco Colonna,
religioso domenicano, pubblicò sullo il ti- DigWredby
ANNOTAZIOM. 53'J tolo di Poliphili
Hypnerotnmachia uno scritto pressoché impossibile ad intendersi, e (ler lingua
e per argomento. Mori nel 15i7, vecchio di 94 anni. Pag. 233, Un. 27. —
meritino. Le Aldine degli anni i338,j 1541 e 1547, meritano. Pag. 234.
Un. 29. — aveva. Male le Aldine degli anni 1558, 1541 e 1547 , avendo.
Pag. 239, Un. 20. — dell’una parte. Forse dali’una parte. LIBRO
QUARTO. Pag. 240, Un. 4. — Questa introduzione è imitata dal principio
del terzo libro De Oratore. Pag. 243, Un. 6. — batteggia. Cosi per
battena trovasi scritto in tutte le antiche edizioni, compresa la prima del
Dolce (1556) ; la quale forma crederei derivata piuttosto da vezzo o da
idiotismo di pronunzia, che non dall’aver forse l’autore, come sospetta il
Volpi, voluto alquanto contraffare per riverenza il verbo baitetiare. Il Dolce
nell’edizione del 1559 mutò ad arbitrio patteggia. La stessa scrittura
batteggiare troviamo presso il nostro autore nelle Lettere di Negozii 129 e
288. Similmente, come nota il Volpi, nelle note al Canto II del Paradiso di
Dante fatte dagli Accademici della Crusca si legge particulareggiare per
particularinare. Pag. 246, Un. 21. — In essa si facea un’annual festa a’
tempi dell’autore. Gaetano Volpi. Pag. 248, Un. 2S. — Tratto da quel
celebre passo di Lucrezio, De Natura Deorum, lib. IN, v. 11-17: JVnm
velati pueris absinthia tetra medentes Qnum dare conantur, prius orar pacala
eircam CoHtinpunt mellis dalci flavoqae liquore. Vi paeroram trtat impravida
ladi^cetur, Labrorum tenue j interea perpotet amarum Ahtinthi laticem,
deceptaque non capialar, Sed potìHt tali facto recreata valetcat.
Leggiadramente imitato dal Tasso in quei versi, Gerusalemme Liberata, Canto I,
st. 3: Così all’ egro faociul porgiamo aspersi Di soave licor gli orli
ilei vaso; Socchi amari, ingannato, intanto ci beve, E dall*
inganno suo vita riceve. Pag. 249, Un. 20. — si vede nei ciechi. Cosi le
Aldine degli anni 1558, 1541 e 1547; quelle del 1528, 1553, 1545, « vede dei
ciechi. Oigltlzed by 340
ANNOTAZIONI. Pag. SSS, Un. 53. — per salvarsi. Gl’
incontinenti adunque. Cosi corresse il Dolce nell’edizione del 1359; le
edizioni anteriori hanno per salvarsi. Incontinente adunque, tranne l’Aldina
del 1545, che ha per salvarsi incontinente. Adunque. Pag. SS4, Un. 22. —
delle cupidità. Non male le Aldine degli anni 1541 c 1547, della
cupidità. Pag. 2SS, Un. 11. — renitente. Con manifesto errore le Aldine
del 1541 e del 1347, retinente. Pag. 2SS, Un. 19. — modi^cati. Non è da
sprezzare la lezione delle Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547 ,
mundificaii. Pag. 2S6, Un. 23. — Lo stesso giudizio porta Cicerone in
varii luoghi, e particolarmente nel cap. xxxv del lib. 1 De Republica. Al regio
tuttavia antepone il governo composto e temperato dei tre, regio, degli
ottimati e popolare: Quartum quoddam genus reipublicae maxime probandum esse
sentio, quod est ex his, quae prima dùci, moderatum et permixlum tribus. De
Rep. I , xxix. Si- mile opinione, solo forse fra gli scrittori del secolo XVI,
espone il. nostro autore sotto la persona di Ottaviano Fregoso nel cap. 31 del
presente libro. Pag. 239, Un. 2. — dal supremo principe. Meno bene le due
pri- me Aldine e quella del 1545, da supremo principe. Pag. 239. Un. 18,
19. — ed è protellor non di que' principi che vogliono imitarlo col mostrare
gran patema. Preferiamo questa le- zione delle Aldine degli anni 1541 e 1547, a
quella delle altre Aldi- ne, che meno corrisponde al contesto, ed è proiettar
di que’principi che vogliono imitarlo non col mostrare gran patema. Pag.
261, Un. 3. — spargono. Meno bene, a parer nostro, spargano le Aldine del 1538,
1341 e 1547. Pag. 261, Un. 22. — in tutto a questa. Male le Aldine degli
anni 1528, 1553 e 1545, in tutto questa. Pag. 264, Un. 4, 3. — per conseguirne
il fine. Le Aldine degli anni 1541 e 1547, per conseguire il fine. Pag.
263, Un. ult. — devemo. Cosi fra le Aldine la sola del 1545 : le altre
deveno. Pag. 267, Un. 2. — come di membri. Cosi le Aldine degli anni
1538, 1541 e 1547; meno bene le altre come de membri. Pag. 267, Un. 23. —
A questo passo cosi nota il Volpi; « Quivi » più che in altro luogo spiega
l’autore il suo concetto intorno alla » Fortuna. Questo passo (che lasciò il
Cicearelli inUtto) se si fosse Il da lui, prima di spurgare il libro, ben
avvertito, ne avrebbe la- » sciati molti altri pure inulti. Vedi la nostra
ProtesU avanti il Cor- Digilized by Cooglc
ANNOTAZIONt. 341 > te{;iano. > Questa Protesta od
avviso, bastantemente prolisso, e che credemmo inutile di qui rapportare,
espone le opinioni di alcuni antichi autori e riferisce il noto passo di Dante
sulla Fortuna; e contiene la dichiarazione, che vediamo apposta a molti libri
stam- pati circa quel tempo in Italia, che l’autore fii buon catolico, e che se
talora parlò della Fortuna secondo l’ uso popolare, e alla foggia de' poeti e
degli altri scrittori gentili, sapeva per altro, non darsi altra fortuna che la
Divina Provvidenza, ec. — Difficilmente si tro- verà cosa più strana ed
insipida delle mutazioni introdotte dal Cic- carelli ovunque il Castiglione
nominò la fortuna; spesso fu pago di sostituire a questa voce alcun sinonimo, e
con un giro di parole fug- gire il nome e non la cosa. Pag. 268, Itn. 28.
— Conviene avvertire, che questa ed alcune altre regole di buon governo dettate
dal Castiglione convengono forse a piccoli stati, quali tuttora a quel tempo
erano molti nell’Italia supe- riore : ne’ grandi statfj soli oramai possibili,
la ricchezza dei cittadini è ricchezza e potenza dello stato intero. Pag.
269, Un. 3, 4. — sperano temano. Cosi tutte le edi- zioni ; si emendi o sperano
temono, ovvero sperino temano. Pag. 269, Un. 12. — non diventino potenti.
Cosi corresse il Dolce ; le Aldine e le altre antiche hanno non diventano
potenti. Pag. 271, Un. 8. — Vedi la lettera 6 fra quelle di diversi al
Castiglione, dove Rafaello d’Urbino parla di questa grande opera, della quale
da papa Giulio li gli era stata commessa la cura. Pag. 271, Un. 17. —
Bucefalia, città dell’ India, edihcata da Alessandro in memoria di Bucefalo suo
dilettissimo cavallo. Gae- tano Volpi. Pag. 271, Un. 18. — Atos, monte
posto fra la Macedonia e la Tracia, detto ora Monte Santo. Dinocrate (come
afferma Vitruvio nella , prefazione del libro li) ovvero Stasicrate (al dir di
Plutarco nella Vita d’Alessandro, e nel libro che scrisse Della virtù e fortuna
dello stesso) diede per consiglio ad Alessandro di ridurre il detto monte in
figura d’iin uomo, e di edificargli nella sinistra un’amplis- sima città capace
di dieci mila abitatori, e nella destra una gran coppa, nella quale si
raccogliessero tutti i fiumi che da quello deri- vano, d’onde poi sboccassero
in mare. Si compiacque Alessandro di si bella e magnifica idea; ma quando
intese che una tal città sa- rebbe senza territorio, e che dovrebbe alimentarsi
colle sole pre- visioni d’ oltre mare, ne abbandonò afiatto il pensiero,
comparando una tal oittà a un fanciullo che non può crescere per iscarsezza di
latte nella sua balia. Gaetano Volpi. Pag. 272, Un. 5S. — Fu poi
Francesco 1 re di Francia. Gae- tano Volpi. 29*
Digitized by Guogle 542 ANNOTAZIONI.
Pag. 272, Un. 37. — Fu poscia Enrico Vili, autore del Scisma d
Inghilterra. II magno padre quivi indicalo è Enrico VII, presso il quale poco
prima il Castiglione era stato mandato ambasciatore dal duca Guidubaldo.
Pag. 273, Un. 9. Questi fu poi Carlo V, e quivi gli vien pronosticalo
l’imperio. Gaetano Volpi. ' Pag. 274, Un. 19. ~ dal centro. L’Aldina del
1541 del centro. Pag. 276, Un. 20. — Di lui, che fu marchese e poi duca
di Mantova, avremo a parlare più volte nelle Annotazioni alle lettere del
nostro Autore. Pag. 279, Un. 29. — Allude a quello di Orazio, De
Arte poeti- ca, V. 304, 305: fnngar vice eotis, acutum
Reddere gua ferram vaUt, extors ipta secondi. Pag. 283, Un. 6. — al
valore. Forse è da preferirsi la lezione delle Aldine del 1541 e del 1547, al
valere. Pag. 28S, Un. 2. — Quanto discorre il Bemho nel restante di
questo libro in materia d’amore (eccetto l’ ultimo tratto, dove parla di Dio,
Spirito Santo, Amor sostanziale), è in massima parte derivato da Platone o da’
suoi commentatori, come appare anche dalle anno- tazioni, che conserviamo, del
Ciccarelli. Pag. 285, Un. 9. — Il Ficino, nel quarto capitolo sopra
il Con- vito di Platone, dice, tutti i filosofi concordarsi in questa
dilfinizion d’amore. Ciccabelli. Pag. 285, Un. 23. — Si raccoglie
tutto ciò da’ Platonici, i quali sogliono dire, la bellezza esser cosa
universale, e dividersi in tre specie: l’una è quella degli animi; l’altra dei
corpi , tanto dalla na- tura quanto dall’ arte fatti; la terza delle voci e
suoni. La prima con la mente, la seconda con gli occhi, l’ultima con le
orecchie dicono godersi. Ciccarelli. • — Vogliono i Platonici, che
II volto della di- vina bontà rispicnda nell’angelo, nell’anima e nel
corpo: in quello, come a esso più vicino, chiaramente; in quesU con minor
chiarez- M ; ma nel corpo un piccini raggio se ne veda, il quale da loro vien
domandato la bellezza del corpo: il che più si scopre in quel cor- po, le CUI
parti sono tra loro debitamente proporzionate. Cicca- RELLI*
Un. 16. — mosso non da vera cogninione. Meno bene le Aldine degli anni
1538, 1541 e 1547, mosso da non vera cogni- *tone. S86, Un. 33. — guello.
Le Aldine degli anni 1538, 1541. tot/, questo. ’ Digìtized by
Google ANNOTAZIONI. 343 Pag. $87, Un. 1. —
Qai si biasima con efficaci parole l’araor sensuale, siccome anco ciò si fa in
molte altre parti di questo Dia- logo. Questo istesso concetto è stato spiegato
da Giovan Boccaccio nel suo Labirinto, dicendo: Vedere adunque dovevi, Amore
essere una passione acceealriee dello animo, disviatrice dell’ ingegno, ingros-
salrice anii privatrice della memoria, dissipatrice delle terrene fa- cultati,
guastatrice delle forse del corpo, nemica della giovinessa, e della vecchiessa
morte, generatrice de’visii, abitatrice de’ vacui petti, cosa senso ragione e
sensa ordine e senso stabilità alcuna, visto delle menti non sane, e
sommergitrice dell’umana libertà. Vien teco medesimo le istorie antiche e le
cose moderne rivolgendo, e guarda di quante morti, di quanti disfacimenti, di
quante ruine ed estermina- sioni questa dannevole passione sia stata cagione.
CiCCARELLl. Pag. $87, Un. $4. — Quanto sieno fallaci i sensi, e come
spesso ci empiano di false opinioni, lo dimostra Socrate appresso Platone nel
Fedone. Ciccarelli. Png. $87, Un. $6. — ragione, e però. Le Aldine del
1541 e del 1547, ragione: però. Pag. 288, Un. S, 6. — che { vecchi. Così
il Dolce; le Aldine hanno che vecchi. Pag. $88, Un. 1$. — sia malo. Cosi
le Aldine del 1528, 1533, 1545; forse alcuno preferirà la lezione delle altre
Aldine, sia male. Pag. $88, Un. 1$. — meriti. Tutte le edizioni
merita. Pag. $88, Un. 31. — connumerati. Male le Aldine degli an- ni
1538, 1541 e 1547, commemorati. Pag. $89, Un. 8. — non l’intendo. Le
Aldine degli anni 1541 e 1547, non intendo. Pag. $90, Un. 1S. — Platone
nel Fedro riferisce , che Stesicoro perdè la vista per aver biasimato la
bellezza di Elena; la quale lo- dando poi, ricuperò la perduta luce.
Ciccarklli. Pag. $90, Un. 17. — Gli antichi filosofi posero nel centro la
bontà, e nel circolo la bellezza; la bontà in un centro solo, ma in quattro
circoli la bellezza. Questo centro dissero esser Dio; i quat- tro circoli
dissero esser la mente, l’anima, la natura, e la materia. Ciccarelli.
Pag. $90, Un. 19. — mala anima. Cioè indole; ed è ciò che forse intende il
Savio nella Sapienza al cap. Vili, v. 19, col dire: Soriilus sum animam bonam.
Gaetano Volpi. Pag. $90, Un. $4. — de’ fiori. Cosi corresse il Dolce; le
edi- zioni Aldine hanno di fiori. Pag. $90, Un. 33. — Il Ficino, nel
sesto libro ttella prima En- Digitized by Google
544 ANNOTAZIONI. ncade di Piotino, dice che gli animi
nostri seguitano il bello e fug- gono il brutto, poiché la bruttezza è una
orrida faccia del male, e la bellezza è un volto lusinghevole del bene.
Ciccarelli. Pag. S91, Un. 9. — se le allontana. Forse se ne
allontana. Pag. S91, Un. 53. — Tutto tolto da Cicerone. Dolce. Pag.
S92, Un. 12. — Piotino, nel sesto libro della Enneade prima, dice che l’anima
essendo cosa divina e bella, tutto quello che tocca e sopra che essa
signoreggia lo abbellisce, secondo la capacità della natura delle cose.
Ciccarelli. Pag. 293, Un. 33. — Maniere poetiche tolte da Platone; delle
quali abonda quel gran (ìlosofo. Caetano Volpi. Pag. 294, Un. 29. — I
Platonici affermano, che la bellezza è un raggio di divinità; di maniera che di
qui dicono nascere che gli amanti, ancorché alcune volte più potenti siano
delle cose amate, nondimeno prendono terrore e riverenza dall’ aspetto di esse.
Cic- CARELLI. Pag. 293, Un. 19. — Diotima, nel Convito appresso
Platone, dice ch’Amor é un appetito, col quale ciascheduno desidera che ’l bene
sia sempre seco: di qui nasce eh’ Amore sia un desiderio d’immor- talità; e
perchè non si può in questa vita conseguir immortalità, se non per via della
generazione , quindi ne avviene che amore abbia per One di generare il bello
nel bello, cioè il buono nel buono. Cic- CARELLI. V Pag. 296, Un. 19. —
.... Opinione de’Platonici, che vogliono convenirsi nell’ amor divino il bacio,
in quanto è segno della con- giunzion degli animi. Ciccarelli. Pag. 296,
Un. 28. — Questa è bella dottrina in teorica ; ma non dee ridursi alla pratica,
per lo pericolo che in quell’atto l’amor ragionevole non diventi sensuale.
Anzi, quanto generalmente peri- coloso sia questo amore, vien toccato dall’
Autor nostro per bocca del Bcmho in principio della seguente facciata. Gaetano
Volpi. Pag. 296, Un. 33. — Allude a quello che dicono i filosofi, che
Amore è una forza che congiunge e unisce. Ciccarelli. Pag. 297, Un. 23,
24. — preverte. Probabilmente perverte. Pag. 297, Un. 30. — Dicono i
Platonici, che l’occhio e lo spi- rito che ricevono l’cfBgie della cosa bella
sono a guisa di specchi, che per la presenza de’ corpi ritengono l' iraagine, e
per la assenza la perdono; e però gli amanti che amano solo la bellezza del
cor- po, nell’ assentarsi della cosa amata s’affliggono. La miglior parto di
queste cose si raccolgono da Ricino, nel capitolo sesto dell’Ora- zion sesta
che egli fa sopra il Convito di Platone. Ciccarelli. Digitized by
Google ANNOTAZIONI. 345 Pag. 298, Un. 15. — ei tormenti. Le
Aldine degli anni 1S38, iS4l e IS47, e tormenti. Pag. 298, Un. 27. —
l'accresce. Meglio cosi le Aldine degli anni 1538, 1541 e 1547; quelle del
1528, del 1533 e del 1545, le accresce. Pag. 299, Un. 12. — Diotima
presso Platone nel Convito in- segna, che si deve ascendere dalla bellezza d’un
corpo alla bellezza universale di più corpi. Ciccarelli. Pag. 299, Un.
54. — possa. Le Aldine, tranne quella del 1545, ed altre antiche, poesia; e
forse così scrisse l’autore. Pag. 299, Un. 56. — passi. Meno bene le
Aldine degli an- ni 1538, 1541 e 1547, «i passi. Pag. 500, Un. 4. —
Socrate nel Convito appresso Platone. Ctc- CARELLI. Pag. 500, Un.
€. — nella vita spirituale. Le Aldine degli an- ni 1538, 1541 e 1547, e le
edizioni a queste afiSni, comprese quelle del Dolce e del Ciccarelli, omettono
la parola vita. Pag. 500, Un. 10. — Dicono i Platonici, che la bellezza del
corpo è una ombra della bellezza dell’anima, e quella dell’anima è ombra di
quella dell’angelo, e questa è ombra della bellezza divina; nella maniera che
alcuni sogliono dire, che la luce del sole eh’ è nel- l’acqua è ombra di quella
che è nell’ aria, e quella dell’aria è om- bra a rispetto dello splendore del
fuoco; il quale parimente è un' ombra in comparazione della infinita luce che
nel corpo solare si vede. Ciccarelli. Pag. 500, Un. 16. — nascoso. Le
Aldine degli anni 1541 e 1547, nascosto. Pag. 501, Un. 6. — Diotima
appresso Platone nel suo Convito dice, che se gli uomini mentre mirano un bel
corpo sogliono ren- dersi molto maravigliosi, e, se possibil fosse, per
contemplarlo sem- pre, eleggerebbono starsi senza alcuna sorta di cibo : quanto
più fe- lice e maraviglioso dobbiamo creder che sia il vedere l’istessa bel-
lezza sincera, pura, intera, semplice, non contaminata da carne o da color
umano, nè d'altra sorte di mortai sordidezza macchiata? Ciccarelli. Pag.
501, Un. 20. — Platone nel suo Convivio. Ciccarelli. Pag. 502, Un. 11. —
Ragiona il Castiglione in fine di questo IV libro, per bocca di messer Pietro
Bembo, di molti amori tra sè diversi; come del sensuale, ch’egli disapprova, e
massime ne’ vec- chi, a’ quali più che a’ giovani si disdice; del depurato dai
sensi, del quale tra’ Gentili fu gran maestro Platone, le cui dottrine
volentieri * segue , e le cui maniere di esprimersi bene spesso usurpa il
nostro r i 1 Digitized by Google
346 ANNOTAZIONI. Autore, siugolanuente in questo
luogo (e di ciò potrà di leggieri ac- corgersi chiunque nella lettura de’
Dialoghi di quel Filosofo anche mezzanamente versato sia); poscia dello
spirituale, così propriamente detto, ovvero divino ; all’ ultimo del
sustanziale, cioè di Dio Spirito Santo, del quale ben due volte dice apertamente
il diletto Discepolo nel cap. IV della sua l‘ lettera, che Charilas est....
Questo passo.... è uno de’ più belli del Cortegiano, e in cui gareggia la
sublime elo- quenza colla sincera religione di questo gran cavaliere e
letterato. Gaetano Volpi. Pag. SOS, Un. S7. — La bellezza, anche de’
corpi, si è un rag- gio, come di sopra dicemmo, benché tenuissimo, della divina
bel- lezza. Ed è vero il concetto di Dante Alighieri là nel principio del suo
Paradiso; La gloria di Colui che tutto muove Per Tuoiverso penetra, e
rispleode In una parte più, e meno altrove. Giovaiìni Antonio
Volpi. Pag. 303, Un. 13. — Per T ambrosia e nettare qui s’intende la
visione e fruizione divina. Ciccarelli. Pag. 505, Un. 5S. — Ritorna di
nuovo a ragionare secondo i Platonici, i quali pongono quattro sorte di furore:
l’uno è delle poe- sie, l’altro dei misterii, il terzo de’ vaticinii, il quarto
degli amori, più potente ed eccellente di tutti gli altri. Ciccarelli.
Pag. 505, Un. 33. — ora che par più non m’aspiri. Preferiamo (|uesta lezione
delle Aldine del IS41 e del 1547, seguita dalla mag- gior parte deile antiche
edizioni, a quella delle altre Aldine, resti- tuita dai Volpi, e conservata
nelle edizioni posteriori, ora che par che più non m' aspiri. Pag. 30i,
Un. 8. — È detto per burla, che alle donne sia im- possibile il camminare per
la strada che conduce alla felicità ; e poco di sotto elBcaceraente si confuta.
Ciccarelli. Pag. 304, Un. SO. — Diotima, fra l’altre cose amorose eh’ in-
segnò a Socrate, come Platone riferisce, fu d’ ascendere per grado dalla
bellezza del corpo a quella dell’anima, e da quella alla bcl- 1,‘zza angelica,
donde poi alia somma bellezza divina si perveniva. Ciccarelli. Pag. 304,
Un. 31. — dall' amor. Cosi corresse il Dolce; le Al- dine e le altre antiche
dell’amor. Pag. 307, Un. 13.— Oa questo Proemio si vede, che il
Conte s'era indotto a scrivere il suo libro per compiacere al re di Francia , e
però Digitized by Guogle ANNOTAZIONI.
347 si stende alquanto nelle sue lodi ; ma essendosi poi dato
interamente al partito degl' Imperiali, non solo perchè cosi portava
l’interesse de’ suoi Principi, ma ancora per secondare il proprio genio, come
si vede in più luoghi delle sue lettere : cosi gli convenne levar via tutto
questo pezzo che apparteneva al re Francesco , tanto più che al linissimo suo
giudizio dovea questa digressione parer troppo lunga, e alquanto fuor di
proposito, massime sul principio del libro. Serassi. Pag. 318, Un. 6. —
Da ciò si comprende, che il Castiglione avea già stesa gran parte del suo Libro
nel 1514, in cui il duca Fran- cesco compiva appunto il ventitreesimo suo anno,
essendo nato li 24 marzo del 1491. Serassi. Più sopra, dal Proemio, dove
si parla di Ferdinando il Cattolico come tuttora vivente, appare che fu scritto
prima del geonajo 1516. Digitized by Google 349
CATALOGO CRONOLOGICO DI MOLTE FRA LE PRIIVGIPALI EDIZIONI DEL
GORTEGIANO DEL CONTE BALDESSAR CASTIGLIONE. * I. 1 528. Il
Libro del Cortegiano del Conte Baldessar Castiglione. ^ Nello stesso
frontispizio, dopo l’ àncora attortigliata dal Delfino, chiusa d’ ogni intorno
da linee , cosi si legge : Boui nel privilegio, et nella grafia ot- tenuta
dalla illutlrUtima Signoria che in quetta , ne in niun'altra citta del tuo
dominio li posta imprimere, ne altrove impretio vendere quello libro del
Cortegiano per x. anni lotto le pene in elio contenute. 11 libro è io
foglio, senza numerazione di pagine, io bel carattere tondo, chiamato testo
d’Aldo. In fine del volume ti legge : fn Venelia nelle caie d'Aldo nomano, et
d’Andrea d'Atola tuo suocero, nell' anno M- D. XXVIII. del mete d' Aprile. È la
prima edizione di quest’ opera; molti ne sono, particolar- mente in alcuni
fogli, gli errori tipografici. Intorno a questa edizione, vedi le Let- tere familiari
IIS e 114 del Castiglione, dalle quali pare che I’ edizione si traesse a mille
esemplari, oltre trenta in carta reale, ed uno io pergamena. II. 4528.
Ristampa fatta in Firenze per li eredi di Filippo di Giunta nelV anno M.
D. XXVIJI. del mese d^ Ottobre; in-8. a Nell’esemplare da noi posseduto
si vede impresso sotto al XXVIII il XXIX, e si crede, che il XXVIIl sovra
impresso sia della stampa, e non d’altro inchiostro ; mentre , per quanto sì
sia tentato di rimuoverlo, non c’ è stato rime- dio: onde si può cooghietturare
che veramente i Giunta lo ristampassero lo stesso anno 4528, e che volessero
poi cosi rimediare allo sbaglio d’ essersi malamente impresso il XXIX. »
Givtuto Volpi. III. 4531. Ristampa degli stessi Giunta di Firenze;
ìn-8. IV. 4634. In Parma, per Maestro Antonio di Viotti; in-8. In
fine si legge l’anno 4 532. t Qaecto Catalogo è fondato principalmeota,
ma con aggiunto e corresionif su quello inae- rito dai fratelli Volpi nella
loro ediiionc. 30 550 CATALOGO CRONOLOGICO V.
<532. 11 medesimo, nuovamente stampato, e con somma dili- genza
corretto. In Parma, per Maestro Antonio di Viotti, nell’anno M. D. XXXII. del
mese <f Aprile; in-8. • Cesare Aquilio, in una piccola prefazione ai
lettori, dè avviso che il Viotti aveva cominciato a farne altra edizione 1’
anno precedente, e che, essendogli convenuto lasciarne la revisione ad altra
persona , 1’ opera era uscita piena di errori : il che lo fe risolvere a
intraprenderne poscia la presente edizione, la qua- le, dice egli, in cola
alcuna, per minima eh' ella ti ita, non troverete dissi- mile dalla Veneziana.
• Gaetano Volpi. VI. < 533. Il libro del Cortegiano del Conte Baldesar
Castiglione. Segne l’àncora d’Aldo, ma non chiusa fra linee, e indi il
privilegio, come nella prima edizione. In fine si legge: In Venetia nelle caie
delti heredi d’Aldo nomano, et d' Andrea d' Aiolà luo tuocero, nel anno M. D.
XXXIII. del mete di maggio. L’edizione è in-8 piccolo, in carattere
corsivo ; contiene 21$ carie numerata da un sol lato, oltre un’ultima non
numerata, nella qnalesi ripete l’àncora d’Al- do. Nella carta 2, che segue
quella del frontespizio, si legge una lettera di Fran- eeteo Aiolano alle
gentili Donne, nella quale si dice, che il libro è dato più corretto del primo,
lecondo V etemplare iicritlo di mano propria d'etto Au- tore: in realtà
tuttavia i questa una mera ristampa dell’edizione originale, cor- rettine
soltanto gli evidenti errori tipografici. VII. Senza data. Il Libro del
Cortegiano del Conte Baldesar Ca- stiglione; in-<2 piccolo. Diciasette
sesterni, segnati colle lettere A-K. Edizione tratta dalla prece- dente j pare
stampata in Venezia; e forse perciò appunto non porta indicazione di tempo, di
luogo, nè nome di stampatore, perchè publicata durante il privile- gio degli
Aldi. Vili. <537. Tradotto in francese da Jehan Chaperon. A Paris,
chez Vincent Sertenas,M.D. XXXVII, in-8. u Du Verdier, Biblioth., pag. 67<.
» « Questa traduzione è poco stimata. • Gaetano Volpi. IX. <538.
Il libro del Cortegiano ec. (Sotto il titolo v’è una Si- rena coronata). In
Virtegia, per Vettor de’ Babani, e compa- gni. Nell anno M. D. XXXVIII. del
mese di Luglio; in-8. X. < 538. Il libro del Cortegiano del Conte
Baldesar Castiglione, novamente revisto. M D XXXVIII. Il
frontespizio è chiuso fra rabeschi, aventi al basto la torre, fiancheggiata
dalle lettere F T. In fine del libro si legge ; In Vtnegio nella caia di
Giovanni DELLE PRINCIPALI EDIZIONI DEL CORTEGIANO. 531
Paduano ttampatore Ad ùulantia et spesa del Nobile homo M. Federico Torresano
d’Asola, Nel armo della salutifera incamatione humana M D XXXYIll.
L’edizione è in ottavo piccolo, in carattere corsivo ; contiene 50 linee ogni
pa- gina ; le pagine non sono numerale. Questa edizione è fatta snlI’Aldina del
-1 555, ma in molli luoghi è migliorata , evidentemente coll’ajnto del
manoscritto origi- nale: sono tuttavia parecchie mntazioni , che sembrano al
tutto da attribnirri al caso, ed a negligenza degli editori. XI. 4538. Il
medesimo. In Vin^'o. Per Curzio Novo e fratelli; in-8. Edizione dedicata
dal Navo al Magnifico e Nobilissimo Aluigi Giorgio, Gentiluomo Vinitiano.
XII. 1539. Ristampa della suddetta colla stessa dedicazione. In Vinegia. Per
Alvise Tortis; in-8. XIII. 1539. Opera singularissima del Cortegiano in
brevità re- datta nuovamente per il Nobil Scipio Claudio Aprucese. MDXXXIX;
in-8. L’ abbreviatore dedica questo Compendio, che i di sole 1 5 carte,
ai Nobili Apnicesi. In tutto il libriccinolo non si legge il nome del
Castiglione, l’opera del quale è ridotta in compendio. XIV. 1541. R libro
del Cortegiano del Conte Baldesar Casti- glione, nuovamente stampato, et con
somma diligenza revi- sto. Segue r ancora d’ Aldo attortigliata dal deldno, e
po- scia la data M. D. XLI. In fine si legge: In Vinegia, nel- l'anno M. D.
XLI. In casa de' figliuoli d'Aldo; in-8. Bella e nitida edizione in
corsivo, di carte 1 95 numerate da un sol lato, oltre carte 5 in principio non
nnmerate, contenenti il frontespizio, e la dedica dell’Auto- re. L’edizione è
fatta sa qnella del Torresani del 1558, della quale questa è una ripetizione
pagina per pagina, e spesso linea per linea. 11 testo tuttavia ne è ta- lora
diverso, e le mntazioni appare esser fatto per la maggior parte mediante un
nuovo confronto coll’ originale dell’Autore. XV. 1541. Il Cortegiano del
Conte Baltassar Castiglione, nuo- vamente stampato, et con somma diligentia
revisto, con la sua Tauola di nuovo aggiunta. In Vinetia, Per Gabriel Jo- liio
de Ferrara. M. D. XXXXI. Cosi ha un primo frontespizio, dietro il quale
segne in cinque carte non numerate (oltre duo carte bianche) un indice delle
materie , non alfabetico, ma secondo l’ordine dell’Opera. Il quaderno
contenente quanto sopra, sembra Digitizetì by Google
35-2 CATALOGO CRONOLOGICO e»ere stato stampato ed
aggiunto posteriormente. Segna no nnovo fron- tespizio simile nel resto a
quello della precedente Aldina, ma collo stemma e col nome dello stampatore e
la data come nel primo frontespizio. L’edizione è una nitida ed accurata ristampa
della precedente Aldina, in simile formato , e ad essa risponde pagina per
pagina, ma non linea per linea, essendo in questa le pagine di sole linee 29.
Troransi tuttavia alcune leggiere varietà, che sembrano doversi attribuire ad
arbitrio od incuria dei correttori. XVI. 1544. Ristampa della precedente
edizione, in Venetia, Ap- presso Gabriel Giolito di Ferrarii. M D XLJIII,
in-8. — 1544. Vedi 1564. XVII. 1545. Il libro del Cortegiano del
Conte Baldessar Casti- glione, Nuovamente ristampato. Segue l’ àncora d’Aldo
in- chiusa in un fregio di forma ovale, e sotto: In Venetia, M. D. XLV. In fine
si legge: In Vinegia, nelV anno M. D. XLV. nelle case de’ figliuoli d^Aldo; in
fol. È una ristampa dell’ edizione originale , io slmile formato e
caratteri -, essa vi è ripetuta pagina per pagina e linea per linea. Anche il
testo seguito è quello della prima edizione, non delle due Aldine dei 1558 e
del 1541 ; ha tuttavia al- cune poche lezioni sue proprie. Vi sono corretti i
numerosi errori tipogra&ci del- l’edizione principe ; all’ incontro alcuni
pochi errori sfuggirono in questa, che non ai trovano in quella del 1528 j
come, a fol. gtt verso, Pascue per Patena. XVIII. 1 546. In Vinezia,per
Gabriel Jolito de’Ferrarii. M.D.XLVI, in-8. Bultell. pag. 225. XIX. 1
547. Il libro del Cortegiano del Conte Baldesar Castiglio- ne, di nuovo
rincontrato con F originale scritto di mano de V auttore: Con la tauola di
tutte le cose degne di notitia: et di più, con una brieve raccolta de le
conditioni, che si ri- cercano a perfetto Cortegiano, et a Donna di Palazzo.
Se- gue l’àncora d’Aldo fra ornati, e sotto M. D. XLVII. In fine si legge: In
Vinegia, nell’anno M. D. XLVII. In casa de’ figliuoli di Aldo; in-8. Pel
testo del Cortegiano, ossia fino a tutto il fui. 195, è una ristampa pa- gina
per pagina e linea per linea dell’ edizione del 1541 , correttine soltanto al-
cuni errori di stampa; le lezioni proprie di questa edizione sono poche, e di
poco rilievo. Seguono 16 carte non numerate, contenenti 1» una Tavola
alfabetica delle cote piU notabili, che nel libro del Cortegiano li ritrovano;
2® Condi- tioni et qualità de f Attorno et della Donna di Corte, brievemente
raccolte da tutto'l libro; 5® Il registro, la data, e l’àncora d’Aldo. Da
questa, o dall’Aldina del 1541 , 0 direttamente o indirettamente, derivano
tutte le edizioni posteriori. DELLE PRINCIPALI EDIZIONI DEL
CORTEGIANO.’ 553 Gao a quella del 1733. «Il chiarissimo P. Zeno.... ne
possedera un esemplare Il corredato di postille mss. di Alessandro Tassoni ; in
una carta bianca in fine del • quale si leggea manoscritto il Sonetto
dell’Unico Aretino sopra la S portata » in fronte dalla Duchessa
d’Drbino. • Gaetano Volpi. XX. 1547. En Vinecia, por Gabriel
de Ferrari, en italiano. « Index Lib. Prohib. et Expurg. Hisp.,
pag. 116. » « Dalla quale e da rarie altre edizioni si troncano pochi
passi solamente nel libro lì. • GAETANO Volpi. XXI. 1549. In Venezia,
appresso il Giolito. M. D. XLIX; in-12. XXII. 1549. Libro llamado el Corlesano, traduzido agora nuevamente en
nuestro vulgar Castellano por Boscan. M. D. XLIX; in-4. Non si
accenna nò il luogo dell’impressione, nò il nome dello stampatore. • Giovanni
Boscan, poeta insigne Spagnnolo, dedica questa sua traduzione Atta muy
magnifica Sennora Donna Geronima Palata de Almogavar; alla quale pure con altra
lettera lo accompagna Gardtauo de la Yega, poeta non meno celebre, e grande
amico del Boscan — Il libro ò stampato in carattere tondo tirante al gotico. •
GaetanO Volpi. XXIII. 1550. Il Cortegiano del Conte Baldessar
Castiglione, di nuovo rincontrato con l’originale scritto di mano de l’auto-
re. Con una brieve raccolta Mie conditioni, che si ricercano a perfetto
Cortegiano, et a Donna di Palazzo. In Lyone, appresso Guglielmo Rouillio. 1550;
in-12 piccolo. Bella ed accurata ristampa dell’Aldina del 1517.
XXrV. 1 551 . In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari e fratelli. M.
D. LI; in-12. XXV. 1 552. Corretto e riveduto da M. Lodovico Dolce. In
Vi- negia, appresso li Gioliti; in-8. XXVI. 1552. In Venezia, appresso
Domenico Giglio; in-12. XXVII. 1553. In Lyone, appresso Guglielmo
Rouillio, 1553; in-12 piccolo. Ristampa dell’edizione del 1550.
50* Digitized by Google 554 CATALOGO CRONOLOGICO
XXVIII. 1 556. Il libro del Cortegiano del Conte Baldessar Ca- stiglione.
Nuovamente con diligenza revisto per M. Lodo- vico Dolce, secondo V esemplare
del proprio auUore, e nel margine apostillato: con la tavola. In Vinegia,
appresso Gabriel Giolito de' Ferrari. M. D. LVI; in-8 piccolo. Precede la
dedica del Dolce Alla mag. e valoroia S. la S. Ifieolota Laica Gentildonna
Vicentina. In essa cosi l’editore: La guai opera (del Cortegiano) come che piti
volte eia etata impreisa dall'honoratist. S. Ga- briel Giolito, con quella
diligenza e correttione eh’ egli euol far tuare tn tutte le cose che eeeono
dalle tue stampe ; bora per maggior commodità di ciascuno che prende diletto
detta lettione di cosi degna fatica, ha voluto che io le faccia alcune
apostille, con aggiungervi u/na nuova Tavola, affine che ciascuno con
agevolezza possa trovar qualunque cosa più le aggradi- sce. Falso è ciò che si
asserisce nel fronteapiaio, che la edizione sia rovista secondo l'esemplare del
proprio Autore, se pare sotto questo nome non s’ in- tende qui semplicemente
alcuna dello Aldine: la maggior parte delle mutazioni o correzioni da lui
introdotte nel testo sono fatte ad arbitrio : la tavola della materie ' è mal
redatta, quantunque assai più diffusa che quelle delle {decedenti
adizioni. XXIX. 1 559. Ristampa somigliante, ma Con l’aggiunta degli ar-
gomenti. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari. M. D. LJX; in-8
piccolo. Gli Argomenti dei Libri comparvero per la prima volta in questa
edizio- ne. Le postille marginali sono a un di presso le stesse che nella
edizione pre- cedente, della quale nel resto qnesta è quasi una ripetizioue
pagina per pagina 0 linea per linea. Tuttavia anche nel testo il Dolce fece
alcuna nuove mutazioni , esse ancora ad arbitrio, e non col soccorso di alcun
manoscritto. L’edizione è dedicata Al Magnifico signor Giorgio Gradenieo; la quale
dedica è conser- vata nella maggior parte delle ediziom degli anni seguenti,
tratte dalia pre- sente del Dolce. ^ XXX. <559. Ristampa della
traduzione spagnpola del Boscan; Toledo, M. B- LIX, in-4. Niccol. Ant. Èibl.
Hisp. T. f, pag. 504. XXXI. 1560. Replica dell’edizione del Giolito del
1559, e pro- babilmente la stessa col frontispizio mutato. XXXII. 1561.
Ristampa della traduzione spagnuola del Boscan, In Anversa, presso la Vedova di
Martino Nuzio. M. D. LXI; in-8. Nicol. Ant., loc. cit. XXXIII. 1568. Il libro
del Cortegiano ecc., aggiuntavi la vita del Castiglione tratta dagli Elogi di
Paolo Giovio; in ri- mata (senza nome di stampatore); in-8.
Digìlized by Google DELLE PRINCIPALI EDIZIONI DEL
CORTEGIANO. 355 XXXIV. 1 562. n libro del Cortegiano eoe. revisto da M.
Lodo- vico Dolce sopra l’esemplare del proprio Autore; e nel margine annotato;
con una copiosissima Tavola. In Lione, appresso Guiglielmo Rovillio, 1562;
in-16. La Tavola è assai diversa da quella posta nelle precedenti
edizioni. In fine si legge il Sonetto dell’Unico Aretino sopra la S d’oro che
portava in fronte la Duchessa d’Urbino; il quale dico il Rovillio di aver
ritrovato mercè di M. Baccio Tinghi, ano amicissimo. XXXV. <562.
Ristampa dell’ultime del Giolito, in Venezia, ap- presso il Giolito, M. D.
LXII; in-12. XXXVI. 1 563. La stessa edizione, facilmente col principio
mu- tato; ivi; in-12. XXXVII. 1564. In mezzo a non dispregevole cornice
intagliata in legno: i? Cortegiano del C. Baldessar Castiglione nova- mente
stampato e con somma diligenza revisto; con la suo Tavola di nuovo aggiunta. M.
D. XLIV. Non si accenna nè il luogo, nè il nome dell’ impressore. In-8.
Abbiamo posto questa edizione sotto il IK64, benché porti la data del 1 544,
perchè, contenendo ^i argomenti a cadaun libro, deve necessariamente essere
posteriore a quella del Dolce del 4559. Del resto, un saggio della scorrezione
di questa edizione può aversi dal principio dell’Argomento del libro IV, dove
in vece di Kel Proemio leggesi Kel Petrarca. XXXVIII. 1 565. n libro del
Cortegiano ecc. secondo la revisione del Dolce; in Venezia, appresso Giovanni
Cavalcabovo; in-4 2. XXXIX. 4569. Aulicus Balthasaris Castilionei in
latinam lin- guam conversus ab Hieronimo Turlero; Witteberga; in-8. XL.
4574. In Vinecia por Gabriel de Ferrari, en Italiano, so crediamo all’Indice di
Spagna, a carte 446; benché il Volpi pensi che il detto Indice equivochi con
una delle se- guenti due edizioni. XLI. 4574. Ristampa somigliante a
quella del 4560; in Vene- zia, per Comin da Trino; in-8. XLII. 4574.
Altra; in Vinegia, appresso Domenico Farri, M. D. LXXIIII; iii-42.
Ristampa quesU pure dell’edizione del Dolce 4550. Dìgitized by
Google 5j6 catalogo cronologico XLIII. 1874. El Cortesan ecc. traduzido por Boscan. En Ambe- res. M. D. LXXFV;
in-8. Menars.
pag. 538. XLIV. 1577. Baldessaris Castilionii de Aulico, Joanne Bicio,
Hannoverensi, interprete, Libar primus. Argentorati, excu- debat Bernhardus
Fobinus, Anno M. D. LXXVII; in-8. n (radattore dedica il libro
all’Imperatore Rodolfo II con una lunga prefirione, nella quale dà inoltre
un’analisi di tutti i quattro Libri dell’Ope- ra. Dalle seguenti parole del
Negrini, tratte da’ suoi Elogi, a c. 425, pare cbe il Riccio abbia tradotto
l’Opera intera: ella rieece belliteitna nella Latina traduzione di Giovanni
Biceio; come nella lingua Catligliana parimente pare che eia nata in quello
idioma. XLV. 1577. Balthasaris Castilionis Comitis, de Curiali sive
Aulico Libri guatuor, ex Italico sermone in Latinum con- versi: Bartholomceo
Clerke Anglo Cantabrigiensi interpre- te. Novissime editi Lendini apud Henricum
Binneman typo- graphum; Anno Domini 1577; in-8; in carattere corsivo, e con
postille ne’ margini. Elegante traduzione, dedicata dal Clerke alla
Regina Elisabetta. Dalla de- dica e da varie lettere premesse alla traduzione,
le quali tutte portano la data del 4574, si poi congliietturare che questa sia
una ristampa. XLVI. 1580. Le Parfait Courtisan
du Corate Baltasar Castil- lonnois, es deux langues, respondant par deux
colomnes, l’une à Fautre, pour ceux qui veulent avoir Vintelligence de Fune
cFicelles. De la traduction de Gabriel Chapuis Tourangeau. A Lyon, par Loys
Cloquemin; in-8. Gabriel Chapuis fu nativo d’Ambuosa in Turena, e
intendentissimo della nostra lingua, dalla quale traslatò varii libri.
XLVII La stessa , italiana e francese , fu ristampata A Pa- ris, de
Fimprimerie de Nicola Borfou, senza data, in-8. XLVllI. 1584. n
Cortegiano del Conte Baldassarre Castiglione, riveduto e corretto da Antonio
Ciccar elli da Fuligni, Dot- tore in Teologia; con le Osservazioni sopra il IV
libro fatte dalFistesso. Al Sereniss. Sig. Duca d’ Urbino. Segue un bello scudo
con l’ armo de’ Duchi, e poi : In Venezia, ap- presso Bernardo Basa. M. D.
LXXXIV; in-8. Trovansi esemplari di questa edizione con variato
frontispizio, nel quale Digitiz^ by ^-oogli DELLE
PRINCIPALI EDIZIONI DEL CORTEGIANO. 557 «ODO omesse le psrole Con (e
Osservaxioni sopra il IV libro fall» dall' «stes- so, ed invece dell’emie
de’Dachi d’ Urbino è l’impresa del Basa, nna base di colonna: in essi altresì
leggasi la Dedicazione in più luoghi diflerente. Il Ciccarelli dedica
questa sua edizione a Francesco Maria II della Ro- vere duca d’Drbino ; dopo la
Dedica segue la Tavola delle materie, quasi af- fatto simile a quella del
Dolce; iodi alcuni Errori da emendarsi; finalmente nna Innga e diligente vita
del Castiglione scritta da Bernardino Marlìani (e non Mariani, come quivi
falsamente si legge), preceduta da una Prefazione al Lettore. Questa
edizione, fatta del resto so quella del Dolce dell’ anno i 53G, è, come dicesi,
espurgala; ed anni sono vidi in Parigi presso il chiarissimo Si- gnor Guglielmo
Libri l’esemplare stampato, cbe servi a questa edizione, che aveva manoscritte
a suoi luoghi le mutazioni fatte dal Ciccarelli, ed in fine l’approvazione
originale dell’ Inquisitore. Il modo tenuto dal Ciccarelli nello espurgare la
presente opera fu questo: cbe i pochi passi i quali por si tro- vano in questo
Dialogo pericolosi o poco morali, furono dal Correttore con- servati;
all’incontro si sforzò di togliere ogni menzione della fortuna, e sopratutto
ogni scherzo cbe avesse rapporto, anche lontano, a preti o frati. Alcune mutazioni
poi sono, dello quali sarebbe, credo, impossibile ren- der ragione: come nel
Libro III (cap. 47 della nostra edizione), dove alle pa- role del Castiglione
ornata d' un bellissimo sepolcro, per memoria di coti gloriosa anima, sostituì
quello ornata d’ un bellissimo marmo, per memo- ria di cosi casto e generoso
animo. I passi aggiunti o mutati dal Ciccarelli non sono io troppo buona
lingua, e l’edizione è deformata da molti errori di stampa, mancando spesso
parole ed anche mezzi periodi. XLIX. 1585. Ristampa della traduzione
francese del Cbapuis, A Lyon, par Jean Huguetan; in-8. L. 1587. In
Venezia, per Domenico Giglio; in-12. LI. 1599. Los nuevos del anno 1599:
8® Venecia, estan emenda- dos por Antonio Citarelli (sic). Index Lib. Prohib.
et Ex- purg. Hisp., pag. 116. LII. 1 606. Il Cortegiano del Conte
Baldassarre Castiglione. Ri- vedutto et corretto da Antonio Ciccarelli da
Fuligni, dot- tore in Teologia. Al Serenissimo Signor Duca tf Urbino. In
Venezia, MCDVI (sic). Appresso Gioanni Alberti; in-8. ' Brutta e
scorrettissima edizione. LUI. 1727. Il Cortegiano or
thè Courtier written by Conte Baldassar Castiglione, and a new version of thè
some into English. Together with several of his celebrated Pieces, as well
Latin as Italian, both m Prose and Verse. To which • — Digitizee by
Google Ó58 CATALOGO CRONOLOGICO is
preftx’d thè Life of thè Author. By A. P. Castiglione, of thè some Family.
London, printed by W. Bowyer, for thè Editor. M. DCC. XXVII;
in-8. Dirimpetto al frontespizio si vede un bel Ritratto dell’Autore,
cavato dal- l’ originalo di mano di Raffaello; coll’arme dei Castiglioni nel
giro dell’or- nato. Il libro è dedicato a Giorgio Re della Gran Brettagna, e la
lettera di de- dicazione è scritta prima in italiano, poi in inglese. Siegue il
Catalogo degli Associati; indi la vita dell’Autore, descritta di nuovo da A. P.
CasGglione nel- l’nna e nell’altra lingua, sopra i vestigi e della lunghezza di
quella del Mar- liani ; ma non apporta alcuna rara notizia. Il Cortegiano è
impresso in due co- lonne, l’una italiana e l’altra inglese. Seguono alcuni fra
gli scritti in prosa cd in verso, latini ed italiani, del Castiglione; ed in
fine una traduzione del- VAlcon in versi inglesi, lavorata dallo stesso A. P.
Castiglione. LIV. 1733. Opere volgari e latine del Conte Baldessar
Castiglio- ne Novellamente raccolte, ordinate, ricorrette ed illustrale, come
nella seguente Lettera può vedersi (nella lettera di De- dicazione), da dio.
Antonio, e Gaetano Volpi. Dedicate at- r eminentissimo e reverendissimo Signor
Cardinale Corne- lio Bentivoglio d’ Aragona, ministro per sua Maestà Catto-
lica alla Corte di Roma. In Padova. CIDIOCCXXXIII. Presso Giuseppe Cornino, Con
Licenza de’ Superiori, e col privilegio dell’ Eccellentissimo Senato Veneto;
in-4. Segue una lunga Lettera Dedicatoria, che serve di Prefazione all’
edi- zione; indi la Dedica dell’edizione del Ciccarelli, secondo l’esemplare
collo armi ducali; indi la Vita del Castiglione del Marliani, con note di
Gaetano Volpi; poscia parecchi scritti minori, relativi al Castiglione; indi
gli Argo- menti del Dolce ai IV libri del Cortegiano ; e finalmente un Avviso
degli Edi- tori al Lettore, su alcuni passi del Cortegiano cancellati dal
Ciecarclli, o da essi restituiti. Indi comincia il testo del Cortegiano: nel
libro III e nel IV sono aggiunte alcune note, sia dei fratelli Volpi, sia del
Ciccarelli. Segue l’In- dice alfabetico delle cose più notabili contenuto nel
Cortegiano, rifatto da Gae- tano Volpi. Indi comincia la seconda parte del
Volume, contenente le lettera c poesie del Castiglione allora conosciute, con
note, e coll’ aggiunta di vani scritti relativi al Castiglione ed alle sue
opere. In fine c un Catalogo di molle delle principali edtiioni del Cortegiano,
di Gaetano Volpi. Dopo la Tavola delle Materie, e dopo chiuso il Volume, è
aggiunta una Lettera non piit elampata del Conte Baldettar Castiglione a Papa
Leone X, communicata dopo finito il Volume ai fratelli Volpi dal Marchese
Scipione Maffei. Il Cortegiano è tratto dall’edizione del Ciccarelli
(1584), ma corretto me- diante un perpetuo e diligente confronto dell’Aldina
originale (1S28). Tranne poche eccezioni, non sono restituiti i passi omessi o
mutati dal Ciccarelli, ma le omissioni vcngonoinillcatccan asterischi, c le
mutazioni con carattere corsivo Digitized by Googl
DELLE PRINCIPALI EDIZIONI DEL CORTEGIANO. 359 Alcuno poobo fra le buone
lezioni proprie delle ultime Aldino ei trovano con- servate in questa edizione,
quali si trovavano presso il Dolce e il Ciccarclli j corressero inoltre i
fratelli Volpi alcuni pochi errori manifesti, diesi trovavano io tutte le
edizioni anteriori. Sebbene capace di maggior perfezione, sarebbe tuttavia
questa , se fosse intera , la migliore edizione ebe finora si abbia dei
Cortegiano. LV. 4766. n libro del Cortegiano del Conte Baldessar Casti-
glione, colla vita di lui scritta dal Sig. Abate Pierantonio Serassi. In
Padova. CIDIDCCLXVI. Appresso Giusepjìc Cornino. Con licenza de’ Superiori;
in-4. Dopo la dedica ÀI Nobile Signor Conte Antonmaria Borromeo Patri-
sio Padovano viene un avviso dello Stampatore, nel quale dice, questa edi-
zione del Cortegiano essere fedelmente ripetuta dalla precedente curala dai
signori Volpi ; aver tuttavia sostituito alla vita del Castiglione scritta dal
Mar- liani quella del Serassi, redatta coll’ajnto delle lettere inedite del
nostro Auto- re, delle quali promette la prossima publicazione. L’edizione è
nitida ed elegante, se non che sfuggirono in essa alcuni pochi, ma gravi,
errori di stampa, che non sì trovano in quella del 1753. Si trassero di questa
edizione alcuni esemplari col testo intero del Cortegiano, senza lo correzioni
del Ciccarclli, o le anuota- zioni di questo e dei Volpi. In questi esemplari,
assai rari, il Cortegiano fini- sce a pag. 300, laddove negli espurgati e colle
annotazioni finisce a pag. 303. LVI. 1771. n libro del Cortegiano del
Conte Baldessar Casti- glione, restituito finalmente alla sua prima integrità.
Im- presso in quest’anno CIO lOCC LXXI; in SI tomi in-8. Ab fine di
ciascun tomo si legge: iHPBE^so IN viCE-NZt Da giahbìitista TBIDRANINI MOSCA.
Questa edizione venne dedicata da un Giovanni-Vineon- zio Benini alla N. Donna
Morolina Comaro Gradinico, per lo seguenti ragioni, non saprei dire so più
adulatorie, o spccìosamento curioso. Un libro avvezzo, dice quel dedicante, sin
dai secolo tediceiimo a comparire lul teatro del mondo fregialo deU’illuitre
nome Chadikico (Vedi il n» XXIX), egli i quello. Eccellenza, ch'ora io mi fo l'onore
di pretentarvi. Voi avete tanto diritto tu quello libro, che non i egli un dono
ch’io vi faccia, ma un tributo ch'io vi rendo. Il veltro genio tubiime
l’inlereiiò a far nascere questa edizione, e la vostra felice potenza a farle
vedere la pub- blica luce. Altre volle ti vide una Gradinico a favorire la
famiglia del Conte da Castiglione, e due secoli e mezzo dopo si vede Voi a
proteggere i di lui scritti. Se tutte le donne fossero qual voi siete, la parte
di que- st'opera in cui cien formata La perfetta Dama non sarebbe stata già
scritta. Ma in quest’ opera appunto voi pure, Eccellenza, siete vivamente
rappresentata ec. — In quanto alle cure letterarie che vennero impiegate in
essa stampa, poco in verità conosciuta, ma che sappiamo essere stala in
pre- "Tngtirzèd by Google 360
CATALOGO CRONOLOGICO gio presao i dotti lombardi TÌggnti al
tempo dei padri nostri: essendoci maa> cala la commoditk di esaminarla, ci è
forza rimetterci alle parole di quegli stessi editori: • Eccovi.... l’Edizione
che vi si è con un manifesto fio dal- li l’anno scorso promessa....
L’appareochiarla, l’eseguirla, il pubblicarla, fu > tutto difficile.... Voi
ricevete piu di quello che vi fu promesso. 11 maoife- » sto non vi promise che
il testo del Cobteguno intero, e vi si è aggiunto • la Vita dell’autore,
e l’Indice ad ambedue i Tomi.... Si è copiata la prima • edizione d’Aldo
del 1528 tratta dall’Autografo Ms., e si è seguita la lezione • della
Volpi-Cominiaqa del 1753, riducendo alla lezione medesima ciò che » in quella
mancava, ed avendovi fatto ancora qualche picciolo migliora- li mento. • La
Vita dell’Autore, è quella scritta dal Serassi. LVII. 1 803. Il libro del
Cortegiano del Conte Baldessar Casti- glione. Volumi due. Milano, dalla
Tipografia dei Classici Italiani; anno 1803; in-8. Questa edizione, che
forma parte della Collezione Milanese dei Classici Italiani, è quanto alla Vita
del Castiglione ed al testo del Cortegiano una ri- stampa assai scorretta della
Cominiana del 1733 (per errore nell'Avviso degli Editori è detta del 1755), ma
coll’aggiunta dei passi omessi dal Ciccarelli e dai Volpi. LVIII.
1822. Il libro del Cortegiano del Conte Baldassar Castir- glione, edizione
formata sopra quella dC Aldo, 1528, riscon- trata con altre delle più riputate,
ed arricchita di un co- pioso indice delle materie. Milano, per Giovanni
Silvestri, M. DCCC. XXII; in-12. Per la vita dell’Autore e la prima metà
del Libro I l’ edizione è fatta so quella dei Classici, della quale si
conservano quasi tutti gli errori, coll’ ag- giunta di nuovi parecchi ; indi
dalla metà del Libro I il testo è, assai negli- gentemente, riscontrato colla
prima Aldina. L’indice dello materie è quello del Volpi, ma accresciuto. Del
resto, è questa di gran lunga la più scorretta di quante edizioni non mutilate
abbiamo del Cortegiano ; come apparirà dal se- guente indice dei principali
errori della medesima. ED. siLVESTBi errori Pag. II».
da emendarti 33, 17 quelli qnello 43
queste questo 30, 13 vili e moria TÌta 0
morte II neU’iQtmo nell' animo mio 63,
31 quanto quando 74* 7-8 l’biDDO, la qual
Tbaono, trovo «ma regola ulTeraatissi* ma, la qual 88. ult.
pigliarle pigliar le 100, 0>10 a Silio e a Virgilio
c Silio a Virgilio 113, 13 quatto questa
Digilized by Google ì DELLE PRINCIPALI EDIZIONI
DEL CORTEGIANO. 561 BD. SILVESTRI errori da emendarti
Pftf;. Un. 117, 21 td da 443,
15 o qQ&si , e quasi 445, 21 coodaci
conduce 1&5, 23 troppa paisiom; troppo
passione 6 falso salso 239, 25 ad
alta voce alla voce 244, 7 □Q maestro di stalla
un maestro Stilla 255, 22 essendo mascheralo essendo
maschera 291, li ancor più caute ancor poi più
caut<^ 294, 41 un istinto nn certo istinto
300, 31 fallo nome fatto il nome 304, 4
care intime care ed intime 319, 33 tianno fede
fanno fede 320, 5 poiché poi volete cosi poiciiò voi
volete così — , 3 essendosegU collocata accanto
essendosegli colcata accanto 329, 2 hastimi
bastami 344, 26 altro di oenpiaoerle altro die di compiacerlo
347, 3 del re di Spagna Ferrando ed Isabella dei re di Spagna
Ferrando ed Isabella 303, 8 questa questo
309, 43 di modo di tal modo 370, ♦7 non
nsasse usasse 375, 7 possono possano
370, 24 inliepido intiepidito 379, ;9
dell’altra l’altra 3B5, 8 che vi si porla die dir
vi si poria 396, ult. ma non hanno ma hanno
400, 17 separata superata 402, 9
combatta combatte 403, 3 possono possano
421, 45 dei sudditi dei suoi sudditi 431, 14
ai più famosi ai famosi 447, 5 ò nn farlo ed un
farlo — t 42 chiamano per dolci sdegni chiamano per
dolci li sdegni 461, 6 perchè e negli ocfhi e perchè
negli occhi — , 30 con ragione con la ragione
470, 15 concerto concetto — , 26 vi
ginngono vi aggiungono 475, 3 te a quella....
ritorni cd a quella.... ritorni - , 24 dei bei corpi e delle
anime dei bei corpi o belle aniimi Delle edizioni del
Corlegiano espurgate ad uso della ((iovenlù, che si publi- rarono
nel corso del presente secolo, non teniamo parola, perebù nessuna
sì di- stinguc per alcun proprio pregio. Digitized
by INDICE DELLE MATERIE COMTXMUTl NEL
CORTEGIANO DEL CONTE BALDESSAR CASTIGLIONE. A AIiI»tc,
sciocca opioionadi certo ALbatc, 127. Aliliracciace i parenti perchè,
incontran- dosi io essi, solessero le donne.ro- mane, 195. Abito
convenienle al Corteeiano, 101. 102 . ® Abito non fa il Monaco,
102. Abito proprio aveva anticamente l’Ita- lia, IM, Abiti come
debba adattarsi la donna 177. Abiti di diverse nazioni introdotti in
Italia, 100. Accorta esser dee la Donna di Palaaso, 220.
Accorletsa, difièrenledairinganoo, ii&. Accusar se medesimo non c
lodevole se non in qualche caso, 114. Alle volte, ma con buona grazia, fa ri*
aere, Achille impara musica da Chirone, ^ — In che fosse invidiato da
Ales- sandro, Sii.— Formalo nelle azioni da Omero, 2S1. Acqua,
similitudine tratta da essa, 2.^7 Adulatore, suo officio, -Hfi. Non
ama, SIL — Si fugga, ^ — Adu- latori perchè divengano gli uomini.
245,247. AfTibilila piacevole, ò il piu necessario K^silo nella Donna di
Palazzo, AllcUaziune dee fuggirsi, ^ — - BLui- mala nel Corlegiano, ^ ^
12i). ) — Nella Donna di Palazzo, i75, — Cagiona difelti nelle
donne, 54. — Come si fugga e nasconda, àà. — Affettazione di certi vani,
36 Affettazioni estreme muovono il riso, 129. Affetto deriva dal
corpo, e come diventi virtù o vizio, 253 Affetti non si debbono
svellere, ma temperare, 255. — Ajutano le virtù, iW. Affezione inganna
nel giudicare, £9^ Afflitti non gustano alle volle d' esser trattenuti
con facezie, 151. Affrica, vittorie io essa di Ferdinando il Cattolico re
d* Aragona, 310. Agesilao godeva d* esser ammonito da Senofonte,
247. Aggraziali nataralmeote, hanno in ciò bisogno di pochi
ammaestramenti, 33. Agone (d*j. (Vedi Piazza.) Agnello, comparato
colla temperanza, 254. Agnello (Antonio) Mantovano, suo giu- dizio sopra
due papi, 1 24. Agricoltura, bella similitudine tolta da essa, 279.
Alamanni. (Vedi Alloviii.) Alcibiade lodalo, 3 1 . — Pili ut a gl’istru-
menli da fiato, 87. — Amato one- stamente da Socrate, 209. Aldana
corabatlc con Peralta, 14R Alessandra moglie d* Alessandro Re dei Giudei;
fatto illustre di essa de- scritto. 188. Alessandria in Egitto faliricala
da Ales- sandro Magno, 271. Digilìzed by Google
36i INDICE DELLE MATERIE. Alessatidrioo
Cardinale, 138. Alessandro VI, papa per U forza, 1S4. Alessandro
Magno lodato, 27 1. — Pro* nostico cbe di lui fanciullo fanno li ambasciatori
del Re di Persia, 19. — Piange per non avere ancor vinto un sol mondo di
io6niti che avea udito ritrovarsi, 23. Disre* polo d’ Aristotele, 34. — Venera
Omero, 67. — ' Q^giito amasse e ono- rasse Apclle, 67, SA. — Perchè una I volta
piagnesse in udire le vittorie di Filippo suo padre, d39. Sua cootinensa, 20i.
— Estenuata, 208. Sue imprese, 272. — Quanto bene facesse a molti popoli
barbari, co- gl* insegnamenti d’ Aristotele, 281. 282. (Vedi Dario.)
Alessandro re de’Giudei, uomo crude- lissimo, d88. Alfonso Kd* Aragona,
ironicamente fa- ceto, l43* — Si compiacea d* esser burlato, 152. — Sua
risposta, 150, (Vedi Anclla.) Allegrezza; morte di Argentina gentil-
donna pisana proceduta da subita ed estrema allegrezza, 193. Altoviti
nemico d*un Alamanni ; casello ridicolo, 146. Amabilità produce amore,
227. Amalasunta regina de’Goti, lodata, 198. Amare; chi ama assai,
parla poco, 221. Con minor pericolo possono gli uomini mostrar d* amare
che le don- ne, ivi. Maniera di farsi amare da'principi, 267 e seg.
Amato; sue condizioni necessarie, 223. Amatori; loro differenti costumi,
i 8. Ambigui motti di varie sorte, 132. Ambiguità rende le facezie
acutissime e maravigliosc. 13i. Ambizione delle donne, 236. Amici
celebrati presso gli antichi, 1U3. Amici veri pochi si trovano, 103. Si
debbono eleggere con molto studio, ivi. Amici de’ principi come si
portino con essi per lo più, 245. Amicizia affettata. 116. — Amicizia non
dee tralasciarsi dì coltivare a cagio- ne de’falsi amici, 104. Ammonizioni
dissimulale quai siano. 147. * Amore; sua deffniziooe, 285. — . Non
I pare che possa stare rolla ragione, 293. Mezzi cattivi che
inducono amore, detestali, 162. — Ragiona- menti d’amore, e come in essi debba
diportarsi la Donna di Palazzo, 219, 220. — Amore di amicizia solo conviene alle
maritate, 222. — Amore ne* vecchi, ridicolo, 87. ■ — Amore publicoècosa
durissima; pur . qualche volta giova, 230. — Amor quieloe ragionevole,
accennalo, 284. — Sue lodi, 293. — E pericoloso ancli’esso, 220, 297. — Amor
sen- suale è malo in ogci età, 288. — Suoi mali effetti, 298. — Amor vero dal
falso è diffìcile a discernerst , 220. — Segni del vero, 221. — Danni e
pregiudici del falso, 286. — Amor verso la bellezza in astrat- f to, e
universale, 299. — Amore su- stanziale, cioè Io Spirito Santo, sue lodi, c suoi
maravigliosi effetti, 302 e seg. Ancille liberano Roma, 196. (Vedi Giu-
none.) Anconitani due che combattono insieme a Perugia, derisi, 3Q.
Anella; curioso fatto dicerie anella ru- bate ad Alfonso 1 d’ Aragona,
143. Angeli; come 1’ uomo con essi commu- nichi, 285. ~ Perchè ad essi
com- parata una bella, ancorché attempa- tai gentildonna, 137. Angolem
(d’) Monsignor, lodato, 56, 272. Anima I>ella, cagione per lo più
della bellezza de’ corpi, 292. — Anima, divisa in due parti, 265. — Sua cura,^W.
— Dee contemplar se me- desima, 300. — Anima, per indole, 290. — Anime delle
donne più in- gomlirate dalle passioni che quelle degli uomini, 304.
Animali luiperrettissimi a gran torto si dicon le donne, 179. Animali;
loro vario instioto come si conosca, 290. Animo; beni dell* animo e lor
natura, 269. L’ animo e non il corpo il vero amante tenta di possedere,
162. Animosi. (Vedi Ardili.) Anna regina di Francia, lodata,
198. Annibale scrisse un libro in greco, Anteo biasimato, 271 .
Anlkhi scrittori imitavano, ma non iti niQili/rfl by.(
INDICE DELLE MATERIE. Ogni cosa» 4^ — > Amichi si hanno in
maggior concetto da chi legge» di quello che sì rilevi dalla stessa lettura,
i69. Antichi stimavano molto la pittura e i pittori»
AntonellodaForli, lodato e motteggia* to, 144. Apelle» molto amato
e onorato da Ales* sandro» 62. — ■ A lui solo era lecito il dipingerlo, filL —
Perchè biasi- ihasse Proiogene» Api; loro re d* altra specie» S4L
Appetito; sua cura, Aragona (Monsignore di), ottiene liccn- sa di trarre
certo numero di cavalli del Reame di Napoli, 317. Aragona (re di). (Vedi
Ferdinando.) Arcieri, comparati a chi attende alle vir- tù, 224.
Arcivescovo dì Firenze ; suo detto, 138. Arditi e animosi veramente quai
sieno, 184. IM, Aretino, detto V Unico, propone il IV giuoco sopra
la lettera S che la Du- chessa d'Urbino portava io fronte, 12 .
Argentina, gentildonna pisana, quanto amasse M. Tommaso suo consorte, 193.
(Vedi Allegrezza.) Arguzia cosa sia. 118. Arguzia della Duchessa d’ Urbino
in difesa delle donne, HO- Ariosto (Alfonso), lodato,^.— A sua in- stanza
il Castiglione scrive il libro del CoTlegiano, 7^ 307, 315. Aristodemo
tiranno Argivo, dove dor- misse per timore, Aristotele ; institulore d*
Alessandro Magno, 52. — Perfetto Cortegìaoo del medesimo, 281, 282. — Quanto
amato e stimato da Ini. (Vedi Sta- cira.) Esso e Platone vogliono che Tuomo ben
disciplinato sfa anche musico, dìL (Vedi Arle6ci.) Arme; prima e prìndpal
professtonedel Cortegiano, 2^ 3|, 173. — Orna- mento, secondo il Bembo, dell’
altre sue virtuose qualità, GQ. — Se le armi superino in eccelleoea le let-
tere, 52. — Motto piacevole intor- no all' una e all' altra professione, 59. —
Armi ; sopra esse ronven- gooo colori aperti cd allegri, IDI 365
Armonia, 6gliola di Giéron Siracusano, e sua impresa» 188. Arrischiare;
chi si arrischia in guerra o per guadagno o per altra vìi ca- gione, merita d'
essere stimato raer- » catante vilissimo» 52. Arte, necessaria nelle
facezie, 118. ~ Arte, non dee apparire, 35. Artefici varii che cosa
ammirino in Pla- tone ed Aristotele, 282. Arlemiiia, lodata, 202.
Arti delle donne per mantenersi gli amanti, 236 e seg. Ascensione. (Vedi
Sposalizio.) Asco, vocabolo spagnuolo, cosa signiG- chi,lAL
Asdrnbale più di sua moglie teme la morte, 188. Asino comparato ad un
Tullio, 12G. Aspasia lodata, 194. As|jcltazione; far contra
l'aspettaztone, è la sostanza delle burle, 152. Aspetto nel Cortegiano
quale dovrebbe essere, 29. Astuzia è falsa prudenza, 267.
Atarantati, o sieoo morsicati dalla ta- rantola, come risanino, 15. (Vedi
Puglia.) Atene. (Vedi Peste.) Ateniesi; loro industrie per tenere
il popolo allegro, 120. 121. (Vedi Leona.) Atos, monte, 22JL
Attilature varie di Cortegiani biasima- le, ilU e seg. Avarizia d* alcuni
detestata, 2ti. Augelletti che cominciano a volare, con quali amanti
comparati, 299. Aurora, sua descrizione, 305. Autori imitali dal
Castiglione io que- st'opera. tanto degni quanto il Boc- caccio, 4.
Autorità de' principi quando sarebbe ri- spettala, 269. B Bario;
sua natura ed effetti, 296, 297. Baje; abondano di reliquie di antichi
ediGcÌ,22L Bajare. (Vedi Litigante.) Uar!)ari io gran numero
niantueriUicoii 51* Digitized by Google 5G6
■ gno, 272, 2&1 e icg, **' 7 » ' ^«»»‘ore celebre,
Bmiri» dee fuggì,,! da chi burla, <59. Bartolommeo. Molto TÌdicblo, nato
della di.crepania che pa„a tra que- ‘f“ * qual.ia.i ,jjtìa di pa». Basse
persone spesso d'alti doni di na- tura dotale, 2i. Bastonate «uie da un
gentiluomo, ipeiso da Ini scioccamente ricorda* te, 114, Battaglia *1
piacere e del dolore centra il giudicio, 252. BatU|^4uoi ferini abitatori
accennati, di Milano, lodata, BeccadeUo (Cesare) finto pano dal Bi- bicna
; curiosa novelluccia, 152. ““pal^ise."*" Belle cose
direrse, naturali e artificiali descritte, 290. “'"p«r,V9r
Belleisa è nome generico j e a quali 1 cose ella si conrenga, 285. 386
[ Che cosa sia, 29fl e seg. — El^ ! buona , ii»i. — L’ amor reto di essa
! e buonissimo, M. (Vedi Dio.) — | , / dal Bembo, — Suoi effetti,
292. — Oual sia •> «ra, 294, e quale la falsa, iW. (Vedi Generare.) — In due
modi SI può desiderare, 284. — I Belle.sa angelica, 300. _ Belle,,,. '
aslra^tta da colp, ,i dee amare, 299. Belleaia biasimata dal uonor
Morello, 282. (Vedi Morello.) _ uelk„a diTina, e suoi effetti, 292. —
Cagione d’immensa gioia, 3QL «ascosta aglioechi profani, 302. — Belle,.,
e ulilili. (Vedi Dtiliti Belle,,,.) — Belle,,, grave ed au- • era
spaventa per lo più gli amanti, alcuni perù ne invila, 225. — Bel-
'‘■T***'’'’* ‘i eonlcmpla cogli occhi della mente, 300. _ E cori
rnrel’,,.enle.iV|.’_ Belle,,!™; i •ente, 298. _ Belle,,, sopra tmto
j INDICE DELLE MATERIE. desiderata dalle donne, 223.
—Le fa superbe, 2M. - Necessaria alla Donna di Pala„o, 128. _ È j; diverse
sorte, 172. — Belle.,, urna- na , che consiste principalmente ne volti, che
cosa sia, 285. si a. Belvedere; strada in Roma, da chi fai,,
onesta, I7i. Bembo (Pietro) propone il VI giuoco; da chi dovrsbbe voler
l’amante che nascesse piuttosto lo sdegno della psrsona amata, da si, o
da essa, 1^ — Motteggiato destramente dal. 1 antere, 60. _ Non voleva
amici- 103, 104. — Secrelario di Papa Leo- ne X, 24L — Teme d’essere sti.
reato vecchio, 284, — Tassato di disobedien.a, c da chi, M. _ Sno ragionamento
intorno a varie specie di amore, 285. (Vedi Platone ) — Sua ora.ione allo
Spirito Santo, I 0 U 4 e «g, ’ Bene, quando ò vero, genera quieu
nel ! P^'Mtore, 286. -Bene senta male I uon può essere quaggiù,
Tfi. , Benevolensa de’ principi peschi acqui- I •*»• •> debba, ^2 e
seg. ™ i **”*?“* *»“de, consiste in due co- ; §e, 244 , Beni dimsi
d« procurare il principe ai sudditi, 269. * Beni infiniti cagionati dalle
donne, 187. Bergamasco contadino. (Vedi Castigtlo:) Bergamo abbonda nelle sue
montagne ^rli scimuniti go«uti e mutòli, Beroaldo (M. Filippo), sua
pronta e cu- nosa risposta ad un tedesco, 136
-Moueggiaiodalsadoleto.eper- • Berto ; bravo, 26. — Buffone, 124.
Bestialità di alcuni popoli abolite da Alesrtndro Magno, 272. Beva.tano (Agostino)
sua faccia d’un avaro, 14i. Biante; sua bell, .enten.a circa i Ma-
gistrati, 260. Biasimar troppo il rivale non è sicura cosa in amore, 2 ,
3 . 3 . Digiti- by Google INDICE DELLE MATERIE.
Biasimo; ramante non dee parlare io biasimo di se stesso, 233.
Biastrmare, benché facetamente, dete* stato, liQ. Bibieoa (Bernardo), che
fu poi Cardi* naie di Santa Maria in Portico, 241. ~ Lodalo, 2< Era di bello
aspet- to, 2& — Facetissimo, iÌ9. — Propose di scrivere un trattalo delle
Faceaie, ivi. — Credè, essendo ma- schera, di burlare un frate, ed in vece
restò burlato, 155, i56. Bidon; musico eccellente, 5£L Bischitai
che cosa sieno, 133. Boadilla, dama spagnuola, morde Al- fonso Carillo, e
qual risposta ne riportasse, 145, 160. — Motteg- giata un* altra volta , ma troppo
villanamente, dallo stesso, 161. Boccaccio; perchè non imitato dal Ca-
stiglione, Quando abbia scritto meglio, e come s* ingannò di giudi- ciò, ivi. ^
Vsò parole di varie na- tioni, ivi. — Altre pur oggi rifiu- tale, 42. —
Mirabile nelle circo- stante delle facete narrasioni, i24. — » Racconta di
belle e bruite burle, 168, 161. — Nemico delle donne, 163, Boccaccio e
Petrarca, se ora vivessero, lascerebbero d* usare molte parole, 42 j — Non al
debbono soli imitare, hL Bontè; per lo più non va scompagnata dalla
belletta, 290. Borgogna. (Vedi Cavalieri.) Boristene, fiume che
divide la Polonia dalla Moscovia, 129. Borso, duca. (Vedi
Cortegiani.) Bollon da Cesena; due volte, ma con diverse parole, allo
slesso proposito motteggiato, 148. Bracciesca licenza, 164. Bravure
non convengono al Cortegia- no, 26. Bresciano; qual sorta d*istrumcn(o
mu- sicale lodasse, e perchè, 128. Brulteata che cosa sia, 290.
Bucefalia, citta dell* India, edificata da Alessandro Magno, 271.
OurentoTo, navilio unico in Veneaia 128 . niiirooi; }>eochc stian
nelle corti, non 367 meritano d* esser chiamati Corte- giani,
l^L Bugia, detestata, 245. — ]] principe deve odiarla, 266. — Quanto gli
noccia, 245. — Qual sia la mag- gior di tutte, ivi. Bugie bene accozsatc
insieme, muovono il rìso, 129. Buonarroti (Micbelaogelo), pittore ec-
cellente, ^ 5iL — E scultor simi- le, 66. Buon compagni, alcuni lengonosè
stessi falsamente,!!!. (Vedi Scioccherie.) Burlatori alle volte premiati
da* princi- piai^ Burle ebe cosa sieno,' 123, 152. ^ Di quante sorte,
152. (Vedi Detti, ove ne ba gran copia, ed anche Novelle.) c
Caccia, conviene a* gran signori e ài huooi Cortegiani, 31 Cacciatori;
lor costume, 161. Cacco, biasimato, 271. Caglio, vocabolo spagnuolo,
che cosa significhi, 134. Caldo, più perfetto del freddo, 183.
Calfurnio; faceta interpretatione di tal nome, 135. Calidiia del maschio,
e suoicffitli, 183. Callistene, buon filosofo, ma cattivo Cortegiano,
282. — Quanto danno da ciò a lui e ad Alessandro Magno risultasse, ivi.
Calmela (Vincenzo), 7£L — Sua bella awertensa , 22. Calvizie, io lode di
esso fu scritto un libro, ^ Camma, suo maraviglioso amore verso il
marito, novella, 160 e seg. Campanile in Padova che diede la corri-
moditè al siciliano Ponzio scolare di far la burla de* capponi, 158. (Vedi
Capponi e Ponzio.) Canossa (da) conte Lodovico, eletto per formare il
pcr&tto Cortegiano, 20 c seg. ' — Facetissimo, 119. — . Sua faceta
risposta, 148. — Eloquen- tissimo, 165. — Della costui fami- glia fu la contessa
Matilda, 168.-^ Vescovo dì Bajous, 241. Cantare; perche cantino di notte
i fan- ciulli, 91L Digiiized by Google INDICE DELLE
MATEUIE. •G8 Cajnlaol antichi come veoissero onora- ti^ 2i$.—
Capitani antichi lette- ralL ^ «lieOero opera alla masica,' — Capitano
motteg- giato) lAS. Capitolio vuol che li dica>e non Cam- pidoglio, il
Cattigìione, A7. CapitolìO) tradito da Tarpea) i96. Cappellano.
(Vedi Messa.) Capponi rubati astutamente da certo PoDtio scolare
siciliano in Padova ad un contadino, -<58- (Vedi Cam- panile e
Ponaio.) CappuBio, proprio de* Fiorentini) 102. Capua saccheggiata
da* Francesi, 2 M . Capuana gentildonna, castissima; sua maravigliosa
costanza io morire per conservarsi intatta, 212. Cara (Marchetto) eccellente
cantore, Cardinal di Pavia motteggiato, iA2. 14d.ua.
Cardinale giovane, sua usanza singola- re, 84. — Cardinali, perchè non no-
minati nelle preghiere della Chiesa il venerdì santo, Altro motto contro
i medesimi. 142. ~ Altro di RaSaello d’Urbino, 145, 146. Carestia di ciò
di che avrebbero più bi- sogno, patiscono i principi, 24À> Carillo
(Alonso), sua acuta e mordace risposta alla signora Boadilla, che l’avea
motteggiato, 145. 161. — Altra faceta alla regina, 147. — Vii- lanamenie morde
la suddetta si- gnora Boadilla, 161. Carlo principe di Spagna, lodato,
273. Carlo re di Francia, lodato, lM.(Vedi Parmegiana.) Casi nuovi
muovono a riso, 150. Castellina; ano assedio accennato, 127.
Castigare non si dovriano gli uomini de*vizii, se fossero affatto naturali, 25lL(Vedi
Leggi.) Casiiglia; regno di Castiglia dato in dote da Isabella a
Ferrando, fu mi- nor della riputazione che ella gli diede, per cagione delle
maravigliose sue virtù, 199. — Fu avanti ad Isabella occupato da* grandi,
ivi, Castiglione (conte Baldessar) scrisse il libro del Corlegiano ad
istanza di Alfonso Ariosto, 7,307, 315. per suggerimento del redi
Francia, 308. — Perchè si movesse a pubbli- carlo, 1. •— Ribatte
alcune accuse mosse contro U suo libro, ìL — Quali norme si sia proposto nella
scelta delle parole, 4. — Sue opi- nioni intorno alla lingua ed alla or-
tograBa italiana, 3 e seg. 46 e seg. — Fu in Inghilterra, ^ 273 gua
modestia, 169. — Sua molta pietà, 267. — Biasima l*amor sensualg, 287.
Caitiglio spagnuolo, ottimo Cortegia- no; per tale è mostrato a certe gen-
tildonne un vaccaro bergamasco , 153. Castità necessaria tanto nelle
donne, quanto negli uomini, per la cetleaza de* figlioli, 202. Catilioa;
sua congiura scoperta da una donnicciuola, 196. (Vedi Cicerone, e
Donniccmola.) Catone ironicamente faceto, 143.— Sua curiosa domanda,
146. Catoniana severità, ft)5. Cairi; monte di Cairi, 305.
Cattivi non possono essere amici, 104. Cavalcatori non buoni, di qual
nasionc, 127. Cavaliere; officio suo è difender la ve- rità, 20 1.
Cavalieri del Gartier, sotto *1 nome di San Giorgio, nella casa d*lngliil-
terra, 170. Cavalieri del Toison d’oro, nella casa di Borgogna,
170. Cavalieri di S.in Michele, nella casa di Francia, 17Q. Cavallereschi
esercitiì ben praticati da alcune gentildonne, 126. Cavalli, come
debbansi disciplinare, 265. Cavalla; volteggiare a cavallo conviene al
Cortegiano, 32« Cavallo che fuggiva dall’arme qtiiniu dovesse stimarsi;
facezia acuta, 13i. Caucaso monte; suoi efferati abitatori,
2S2. Causa; dee esser maggior del suo effèt- to, 222. Causidiche
eloquenti furono alcune don- ‘ ne,16L Causidici; loro arte e sottilità
son l,i ruina delle leggi e dc’giudicii, 2t>7. Caule più degli uomini
perchè soglian esser le donib', IhO. by Google INDICE
DELLE MATEUIE. 369 Cauto e prudente debU’esscr il
Corle- giauo^ 8^ 115, 116. Centro; punto di esso difficile a litro- ▼arsi
nel circolo, 274. Cerere, lodata, 194. Cervi si prepongono un capo;
non tem- pre però lo stesso, 256. . Cervia; Vescovo di Cervia deluso dal
papa, 150. CIjie donae, o vogliam dire di Chio, liberano la patria, 1S2.
— Altra lor prodezxa io Leucoma, ivi, — Chii vinti dagli Ciilrei, ajulali dalle
lor donne a diminuire la vergogna della resa, 197. Chio assediato. (Vedi
Filippo.) Cbironc insegna musica adrAcbilIe, 63. Cianciatori,
biasimati, 92. Cibi stomacosi e schifi mangiati impru- dentemente, che
effiitto facciano ri- sapendosi, 253. Cicerone; imitato nel proemio
deirOra- tore dal Castiglione in quello del suo Cortegiano, 7 e ses. — Altrove
pure imitato, come a 119, 122. 132, 145, 151, 168 e seg., 240. — Sua dottrina
intorno airimitaaiune, 50. ~I1 Castiglione piglia da Cicerone varieavTcrteDte
circa le facesie. 1 18. 419. — Cicerone.moUo si lauda per avere disvelata la
congiura di Cati- lina; la quale scoperta però ebbe origine da una
donnicciuola, 196. Cicuta; veneno temperato con cicuta a qual fine
publicamente si conser- vasse in Massilia, 189. Cicco. (Vedi Giuocatore.)
Cieco d*un occhio; facexia insolente intorno ad esso, 132. Gimone tassato
di bevitore, 247. Cipro, già congiunta alla Soria, 313. Circe;
bella argomentazione lolla dalla favola di Circe, intorno alla gran- dezza vera
de’principi, 269. Circolo. (Vedi Centro.) Cirignola; sua giornata
accennata, 143. Ciro rompe i Persiani, 197. — Ma su- bito è rotto da
essi, per opera delle loro donne, ivi. Citta; si assegna da Platone nella
sua Republica alle donne da custodirsi, 17K. Buono stato di essa qual sia, 275.
— Come vada in ruina, ivi. — Città già lloriJc, ora distrut- te, o
cadute dalPaotico onore, 314. Civita Vecchia di che abbondi, 271.
Clearco, tiranno di Ponto, a che fosse indotto dal timore, 261.
Cleopatra, lodata, 202. Cognisiooi diverse necessarie alla Donna di
Palazzo, 177- Collera eccessiva cagiona il rìso, 150. Colombo
impiccato; facezia, 144. Colonna (Marco Antonio) lodato, 137.
Colonna (Vittoria) Marchesa di Pesca- ra, lodata, Colossi di stoppa e di
strassi comparali ii cattivi principi, 246. (Vedi prin- cipi.) Colpa primiera
perchè si chiami dalla Chiesa felice, 185. Comandare, esser comandati per
cx- ser governati^ dice 1* Autore, 269. — Comandare chi sa, è sempre obedito,
262. ~ Comandare a’ vir- tuosi come si debba, 258, 259. — > -T—Come comandi
Vanima al corpo, ivi. — La ragione all* appetito, ivi. Comandi
de’principi, Combattimenti privati, o sieno duelli, 30 .
Comici, esprimono Pimagine della vita umana, lA. Comedia di certo M.
Antonio motteg- giata, 149. Comparazioni facete quali esser debba- no,
139. Conipiacere si deve al principe. 91^ ^ £ necessario alPamante,
228. Complessiou temperata è quella della donna, 184. Commune
lingua qual fosse presso i Greci, per sentenza del Castiglione, 4L
Communirarc le sue passioni b uno sfogo di esse, 236. Communità delle
mogli introdotta da Platone nella sua republica, toccata per ischerzo, 266.
(Vedi Platone, c Mogli.) Concordia ed amore regnavano nella corte d*
Urbino, IL Confessione ; novelletta d* uno che si «lodava nel
confessarsi, 135. Confessor di Monache: avventura ga- lante, 134.
Conoscere in tre modi può Panima no- -Oìgitized by Googic
370 INDICE DELLE MATEKIE. stra, ^5. Ciascun
conosce l*er- ror (3el compagno, e non il suo, 16. CoDsalvo (Ferrando),
detto il granCa- pitano, da chi eletto; sue lodi, 200. — Suoi detti, 138.
Consuetudine buona quanto sia necea- saria, 2fiiL — Consuetodine, si dee
conservare nel parlare e nello scri- vere, 3. ~ Sua fona in tutte le sose, —
Maestra nelle lingue, 4^ — ■ Consuetudini male quanto im* porti al principe
tener lontane dai sudditi, 269. . Contadioella di Gasuolo io Mantova* na;
suo estremo amore verso la ca- stità, 21^ Conte di Pianella, 139.
CooteinpUtiva vita e più propria dei principi; è iu essi divisa ip due partì; b
il 6oe dell’attiva, S62. Cootemplaiione, c sua forsa, 300. Cootinensa,
Mrchè si chiami virtù im* perfetta, 253, 254. — ComparaU ad un capitano che si
mette a peri* colo d’ esser viuto, benché vinca, iVr. — Perché tanto si
ricerchi nelle donne, 1££L — Frequente e mìra« bile in esse, 210, 211. — Conli-
oenza maravigliosa dì donna giova* nc, 20L 208, 21IL Contrafare come si
debba, 125. Convenevolessa dee servarsi dal Corte- giano, 83.
Conversare; chi ha a conversare, dee guidarsi col gtudicio proprio, 92.^
Conversare cogli eguali come debba il Cortegiano, 105. Coraggiosi dove
spesso più sì conosca* no, Corinna poetessa eccellente, 194.
Cornelia 6g1iaola di Scipioue, lodata 187. Corpo; sua cura, 265. —
Qual debba essere, iVi, 266. — Non é il fonte della bellesza, 294, 298. — Ansi
la estenua è diminuisce, /pi. Correggere ; le donne hanno corretti molti
errori degli uomini, 187. Corrispondenze d’amore innocenti quai lieuo,
294, 295. Cortegiana, 1 66, HjL fVedi Donna ‘di Palazso.)
Cortegiauia, o sia profession del Corte- * giano, 243 e seg. (e in
mo/li nitri /rto;,'Ai.) ■ — E buona riguardo al fine, iV/. — Qual sia questo
fine, /W.— E arte nuova, 314. Cortegiano, opera del Castiglione; or*
casiooe che mosse l’Autore a scri- verla, L (Vedi Castiglione.)
Cortegiano e nome onorevolissimo, 28 1 — Cortegiano qual debba estere, 113 e
seg.— Dee fare tutto ciò che gli altri ianoocon maniere lodevoli, 32. — Dee
parlare e scriver bene. 42.— Dcbb* essere uomo da bene e intero, 55. — 'Come
debba adoperar la mu- sica, 64. — Dee saper disegnare, e aver cogniiion
di pittura, ivi. Come debba nortarsi co’signori. 95. — Come nelle
conversazioni, Ufi — Suo vero officio qual sia, 279, 28Q t — E buono non per
sé, ma I»er lo suo fine, 243 e seg. — Cor- tegiano tanto per/ètto com’é for-
mato io quest’ opera, non può ri- trovarsi, ^ 315 Varietà di giu- dizii
intorno alle qualità che costi- tuiscono il perfetto Cortegiano,3t6.
Corte^ani adulatori, e corruttori dei principi quanto gran castigo meri- tino,
24ss. Corlegiani del duca Borso, lodali. 25, — E del duca Filippo,
iV/. Coscia (Andrea) ; sua facezia, 449. Co%t buone; loro
distinzione, 243. Costanza. (Vedi Ostinazione.) Costumi buoni,
quanto nccessarii, 265. — Costumi da fuggirsi dal Corte- giano, 1Q5. — Costumi
vaiii nelle Corti di Cristianità, ^ Cole ebe non taglia, e pur fa acuto
il ferro, comparata al Cortegiano che ammaestra il suo principe, 279.
Credere; mostrar di creder fatta una cosa che dovea farsi, fa ridere,
149. Credula non debb’ esser la donna, 2^0 Credulità de’ principi
più dannosa che l’incredulità, 275. Crivello (Biagino); sua facezia,
149. Crotoue. (Vedi Fanciulle e Zeusì.) Crudeltà orribile d’no
giovane romann. 213. Curie trenta io Roma nominate da Ro. molo co* nomi
delle donne Sabine 196 * Dio Google INDICE DELLE
MATERIE. 571 (^tiriuso non debb’essere il Cortigiano
d'entrare nc* galiinelti de'princi- | pi, colà ritirati per attendere alla |
quiete dell* animo, B Damasco; sorta di drappo di seta, come
interpclrato da Alonso CariUo, 147. Deoari, fanno prevaricar molti, 211,
iM5. — Bella metafora tratta da una specie di denari falsi, i37. (Vedi
Fiorentino.) Dansare, ove e come si debba, 3S. 85. — «5» vprrbi 6 cosa
ridicola e discon- veniente, 88. Dario fa acconciar la sna spada persiana
alla macedonica, prima di combat- tere con Alessandro; ciò fa prono- stico di
servitù, iOO, Donne bellissime di Dario non toccò Ales- saodro, benché
giovane e vincitore, 204. ^ Deballo; rissa, contrasto, Ihl. |
Debito dee prevalere a tutti i rispetti, | Decrepiti si escindooo dall*
amare, 288. i Deformili non mala partorisce il riso, 12JL
Demetrio lascia di prender Rodi per non ^ abruriare una pittora dì
Protogene, Democrito disputa del rìso, d 21. Demostene, cosa
rispondesse ad Esebi- ne che avea tassate di poco alticbe j alcune parole in
una sua orastonc. Desiderare. (Vedi Impossibili.) Desiderìi strani
delle donne, 226. Detti ; cosa sieno presso gli antichi, i 1 8. — Per
esprimere chi operi meno | l>eac con riflessione che all* improv- I viso, 2L
» D*una sigoora ad un I millantatore di combattimenti, 2G, j 21. — Di due
sciocchi millantato- ; ri, 2^ — Di Alessaodro Magno sali* aver udito che vi
erano più i mondi, imi. D i Demostene sopra | alcuoe parole, do|>pio op-
j posto senso, i22. — Verso una si- | gnora che, senza parlare, venne tac-
| ciata dì crudeli^, superbia e vanità, I 123. — Sopra due inscrizioni di j
•lue pontefici, 124. — Su di un becco paragonato a Sau Paolo, 120 *
— D*un che paragonò due suoi figlinoli a due sparvieri, ivi, — D’
ano ammonito a camminar pre- sto, mentre veniva fmstato, iW.~ D*uno sciocco
abate, che insegnò come e dove collocar un'enorme quantità di terra scavata,
i27. — D* un che voleva avvelenar le palle d’ artiglieria, D' uno che do-
mandò chi fosse il PreiibatCj ivi. ■ — D* uno che, per trovar gran quan- tità
di denari, consigliò sì raddop- piassero le porte della capitale c le zecche
dello Stato, i28. — Di un che disse aver visto un snonatore a ficcarsi in gola
più dì due palmi di tromba, ivi, D’nna cui dispiace- va dover comparir ignuda
il di del giudizio, i29. — > D’nn che narrò aver col fnoco fatte liquefar le
pa- role congelatesi nel mezzo del Bori- stene, 130. — D* uno che narrò una
strana aaione d'una scimia, ivi. Sul doppio significato del vocabolo
fettOf i o2. — Sulla spezxatura del vocabolo ma(lonato,^W. — > Ad un cieco,
e ad un altro senza naso, ivi. ~ Di un litigante che trattò l’av- versario da
ladro, e d*un da Narni che trattò pur da ladri i Sane», 133. — Con
aumento o mutaaiou di let- tere a qualche vt^abolo, ivi. — D’uno che avea
bruttissima mo- glie, ivi. — Sulle donne e su i gio- vani dì Roma, iVi. — Sulla
para- bola dei cinque tafrnd, 134. — Sull* equivoco significato di due O/JJci.
ivi. — Sul nome di Ctkìfur- nio, 135. Sulla preghiera Ore- mas prò htereticis
et scismaticis, ivi. — Sul volto lucido d*una si- gnora, ivi. — Su d* una
bizzarra confessione, iW. — Sa d'un cavallo che fuggiva dall'arme, iVi. — Su di
un atto in apparenza riverente d’un trombetta, ivi. — Su d* un augurio di bene
e male, 1 36. — Sulla parola Pino, ivi. — SuIPequivoco significalo di Ire
conti, ivi. — D* un prodigo ad un usuraio, ivi . — Sul sermone d’un prete in
forma di coufessioue,137. — Sulla vecchiez- za assomigliata agli Angeli, ivi. —
Dì Palla Strozzi e Cosimo De’ Me- dici sul covar delle galline, ivi. — Sulle
laudi impartite ad un valoro- so, e paragonate a monete false, ivi.
- Oigrtized by Google 1 372 INDICE DELLE —
Sul far mangiare cbi nc avca t procuralo altrui, lìiS. ^ Sulla paura | lu
guerra, iW. — Di Luigi XII sulle offese ricevute meotr^era duca il’Orlcans,
ivi, — Di Gein Olio- mani sul giostrar deglMlaìiani, ivi. — Del medesimo,
sulla differenza delle astoni proprie degli schiavi e de* signori, ivi. — Su la
roba, il corpo e r anima degli uomini; e su i giureconsulti, i medici e ì
leolo* { gbi, ivi. — Su d' una valigia com- parala ad un uomo, *139. — Sut I
perdere e vincere di due Alessandri, i ivi. — Su di Siena sposa, e Fio» rensa
dote, i40. — D’un prelato che si credea grand* uomo, 141. D* uno
magrissimo portalo via dal fumo su per il camino, rW. D*un avaro che volea gli
fosse pagala la fune colla quale erasi appiccato, ivi. — Di Lorenzo de*
Medici ad un freddo buffone, e ad un che il ri- prendea di troppo dormire,
141,142. —Del marchese Federico ad un man- gione, 142. — Su d*un tiranno falso
liberale, ivi. — Sul forzarsi a credere veriili una bugia, fW.— Sulla fortuna
de* cardinali in Roma, iVi. — Sud* un impiccato in vidiato,iAiii — 'D*
Alfonso d* Aragona ad un che aveagli tralUnuie alcune anella, ivi. — Su
di Sant* Ermo, comparalo ad un militar vigliacco, ivi. — Sulla sollecitudine
d’un soldato parliiosi, 144. — Del duca d* Urbino al ca- stellano di San Leo,
ivi. — Su di uno morto, mentre incominciava a divenir ricco, iV». — Del
Marchese , di Mantova, su d’un colombo im- ^ piccato,145. — Di Scipione ad En-
| nio, sull’essere o no in casa, ivi. — Di Alonso Carìllo alla signora
Boa- } dilla, con cui trai lolla da publica meretrice, ivi. — Dì Rafacllo d’Ur-
hino ad alcuni Cardinali, 145, 146. — D’uno che domandò un ramo | d’un
fico, al quale erasi una donna ‘ impiccata, 146. — Di Catone ad ‘ im contadino
che urtollo con una cassa, ivi. — D’uno degli Alloviii, il quale rispose a ciò
che udito nnn avea, iW. — D’un medico, il quale promise ad un contadino di
rimet- icrgli un occhio, 146, 147. — Di Alonso Cardio, su di un cav^^ìcro
bruttissimo che aveva una moglie MATERIE. l>ellisstma, 147
. — Su d’un sopra- scritto d’una lettera, ivi Di Co- simo de’Medici ad un
ricco igno- rante, 148 . — Del Conte Ludovico Canossa ad uno che volea vestirsi
in incognito, ivi. — Sul cardinal di Pavia, ivi. — Su di cose di- screpanti, e
che pajon consentanee, ivi. — Su due gobbi, ivi. — Su d’uno imputato non aver
divozione o fede alcuna, ivi, — DiMarc’An- Ionio a Bottone, sul capestro e la
forca, 149 . » Su d’ un sajo solilo a portarsi da un capitano dopo le vit-
torie, ivi. — D’uno non invitato a sedere e che sedette, ivi. — D’ un prete sul
perchè dicesse una messa cortissima, ivi. — D' un che chie- deva un beneficio,
ivi. — D’un che bramiva che lo starsi in letto fosse un esercizio militare,
D’Al- fonso d’Aragona, ad un suo servi- tore non contento d’un ricco
dona- tivo, ivi. — Del papa al vescovo di Cervia, eh* esser volea governatore,
ivi. — D’uno, al quale una donna domandò gran prezzo di se, 216. — Di un contadino
Sanese a Ber- nardo Bibiena, 316. — Di papa Giulio II, 317.— Ad altro, che di-
lava temere non poter uscire del Reame di Napoli, ivi. Detrazione d’altre
donne, non ascolti volentieri la Donna di Palazzo, 174. Deviare se alle
volle si possa da’comandi dei Signori, 112. — Belle avvertenze . intorno
a ciò, lì^ Diana, parole di Camma a Diana, 191. Diego de Chignones,
suo dello mordaci ad uno spagnuolo, 136. — (Vedi Vino, y no io
conocittet.) Difetti de’ prìncipi, benché picciolissi- mi, notati,
247. Difetti nalnrali si possono in gran parte emendare, 23. — Perchè
nascosti dall’ nomo, 249. Dimostrazioni d* amore quanto alla volle
nocive, 237. Dio, èprotettorede’buooi prìncipi, 259, 26 /. (Vedi
Fortuna.) — Tesoriere de* principi liberali, 270. — Simili- tudine di Dio
ne’cieli, in quai cote si ritrovi, 259 . — E cosi in terra, ivi. — Da esso
nasce la bellezza, 290. (Vedi Bellezza.) Dkiiìized by
1 INDICE DELLE MATERIE. 573 Diomede,
biuimito, 271. Dione SiracQtano, formato da Platone, Dioniiio
tiranno, abbandonato da Pla- tone come disperato, 282. Diotima, lodata,
i9*. — Sua impresa, — Rivela a Socrate gli amorosi misteri, 304.
Discepolo, ano officio, 34 e seg. Disciplina, adorna le operationì, e
aiuta le virtù, 25A. Disconvcnevoleaie generali, 7^ SQ< Discorso
della ragione non ha luogo nella perfetta coDtemplaaìone, 300.
Discrepante ridicole, e varii esempi! di esse, 448. (Vedi Bartolommeo.)
Discreaione, condimento d*ogni cosa, 87. Diseccare; perche nel generare
si disec- chi più Tnomo che la donna. 484. Disegnare, conviene al
Cortegiano, 34. Disoneste cose, di esse 1* amala dee le- vare affatto
ogni speranaa alTaman- te, 224. Disperare, io signtdcato attivo,
per far perdere la speranaa, 269. Dissìmili, molte cose dissimili degne
di lande, 5^ 51. Dissimulaaione gentile qnal sia, 142i«— Necessaria agli
amanti è la dissimu- laiiooe, 231. Disobidire per qualsisìa motivo a* lor
Signori, h sempre cosa pericolosa per li Cortegiani, 93. Dolcetta e
ntililà della virtù, 248. Dolor vero è sempre malo; come s’in- tenda,
252. Dominio 4 di tre sorte, 257. — Comi- aion pur triplice dì esso,
24&. Dominio più secondo la natura, e più simile a qnel di Dio, qual
sia, 2o6. Felicissimo per li sudditi e per Io principe, 264. — Vero e
grande, 270, 271. Donato (leronimo). Sua risposta ad un verso d* Ovidio,
433. Doni fra gli amanti, si biasimano, 462. Donna tanto perfètta
come ruomo,178. 479, 480. — • Sua proprielù e di- stintivo, 472. — Sue virtù
neces- rarìe, 473. — Perchè dicasi amare sopra tatti il primo uomo da lei
carnalmente conoicinlo, 482. Perchè desideri esser nomo, ivi» Donna
di Palasxo formata nel III libro dal MagniSro, 469. — Sue qualità necessarie,
413 e seg. — Potrebbe institnire la sua Signora, 278. (Vedi Cortegiana.)
Donne sono di naturali assai diversi, 224, 225. — PoDoe, lodate, 471 . —
Ulilitè che da esse si traggono, 24 6 e seg. Loro merito e digpità,2l8. —
Falsamente biasimate, 4 10, 159, 460,463 e altrove, — In che prin- cipalmeote
si debbano rispettare, 1 5 1 , 159, 165. — Desiderano d'essere o di parer
belle, ^ 54. — Debliono fuggir l’eccesso nell’ adornarsi, ivi. Varie loro
maniere, indoli e por- tamenti, 226. — • Rare volte sanno amare, 226. — È più
lecito ad esse mordere gli nomini di disonesiè, che agli uomini le donne, e
perchè, 450. — Donne belle, biasimate, 289. (Vedi Belle donne.)— Donne, eguali
agli nomini di dignità e virtù, 465. — Donne grandi, amano da dovere L minori
di sè, e perchè, 462. — Donne maritate non possono amar.e oltre il marito,
alcun altro, se non con amor di amicìxia, 222. — Don- ne non maritate possono
alle volte lecitamente amare, dentro i termini però dell’ onesto, 224. — Quaì
delw baoo amare, 222. ~~ Donne oneste, lodate, 440, 441. — Che resìstono a
tutti gli stimoli degl’importuni amanti, mirabili, 244, 215.— «Don- ne sante
molte si trovano, Lcncbè nascoste agli occhi degli uomini, 485. — Donne tante
de* tempi del Castiglione come favorite d.i Dio, 304. — Donne valorose in armi,
in- lettere, e in ogni altra cosa, accen- nate, 480. 485. Donniccinola,
origine dello scoprirsi 1» congiura di Catilìna, 496. (Vedi Ci- cerone.)
Dono il più pregiato che possa fare il Cortegiano al suo prìncipe, qual sia,
256. — Doni degli sciocchi a’prin- cipi quai sieno, 256. Doti delle mogli
si debbono moderare dai principh 275. Duca di Calavria. (Vedi Fiorentino
cora- messario.) , Ducati falsi. (Vedi Denari.) Due soli debbono
essere i veri amieik 404, 52 Digilized by Google
374 INDICE DELLE MATERIE E Ebrietà, iet
fuggirsi di’ teechi, 210. Ecceilensa suprema, bench* l’ uomo non possa
giugiservi, dou dee sgomen- tarsi di operare, LisL Eccessi ridicoli,
tanto in grandeaaa, quanto in piecioleaaa, 141 . Edi6ci grandi si consrengono
a' princi- pi, 270. Educazione del principe qual esser deb- ba,
265. Efièminatezaa degli aniini da qnai cose venga cagionata, 243,
244. Effeminati uomini sbandir si dovreb- bero dal commercio delle
persone discrete, 23- EQHii delle cause contrarie, tra se pur contrarli.
25$. — Effetti lodevoli alle volte nascono da causa degna di biasimo,
288. Egitto, gib mare, ora terra fertilissima, 313. Egnaaio
Catulliano, 5^ Eguali. (Vedi Conversare.) Eleonora d’ Aragona,
duchessa di Fer- rara, lodala, 201. Elia, suo carro infiammato,
301. Elide. (Vedi Olimpici giochi.) Empielb, detestabile benché
faceta, 140. (Vedi Biastemare.) Ennio, 445. (Vedi Scipion Nasica.)
Enrico principe di WagHa, assai lodalo, 272. Epaminonda, udiva volentieri
le ammo- niaioni di Lisia Pitagorico, 247, Epicari, lilictlina romana,
sua costan- za, 189- Epimetco, sua favola descritta, 249. Equalii'a
pari con chi debba usare il prìncipe, 2Q8. Ercole, tua statura, come e da
chi ritro- vata, — Lodalo, 272. (Vedi Pitagora.) — Suo rogo, che cosa
significhi, 301- Eremita del Lavioello dsM. Pietro Bem- bo, accennato,
284, Eiiirci, muovono guerra a’ Chii, 197. Ermo (Sant’), facezia
gentile del Gran Capitano, 143, Errore nostro quando ci diletti, 136. —
Errori infiniti de' cattivi principi, 246. — Errori non tono tutti
egua- U, 22. Esempio, chi fallando d'a mal esempio, merita doppio
castigo, 32. Esempio faceto, 21. Eserciaii cavallereschi come debba
fare il Cortegiaoo, 83. Esiodo imitato, ma non sempre, da Virgilio, e
perciò da questo supera- to, 42. Esopo tassato da Socrate qiresso Plato-
ne per aver tralasciato certo Apolo- go, Tfi. Estense (fppolìto) cardioal
di Femrap lodato, Estensi donne celebri^ acceDoatap Estremo, ad
esso s* attaccano le doonci i93a — Estremi, come da essi dolr biamo
discosiarci, 274. Età de* Priocipi e de’ Cortegiaoi, varie difRcollà che
nascono dalla diver» sita di essa, S78. — Età m.itura, più rapace dell* amor
onesto e ragio- nevole, 387. — Età, tutte hanno qualche peculiar virtù e
vixio, Eia d’oro. (Vedi Saturno.) Euhoea,già congiunta alla Beozia,
313. Èva col suo fallo, accennata, 185. Evangelio, luogo di esso
circa l’essere invitato a nozze, allegato, B4. — Facezia intorno un altro passo
del- l’Evangelio, 134. F Fabio pittore, perchè così
cognominato, Faceto, chi propriamente possa, 1^1.
chiamar si Facezie. (Vedi Detti, ove ne ha gran co- pia, ed
anche Novelle.) Faeesie sono di due sorte, li8. — Ansi di tre, 183. — Ciò
che io esse deh- baii osservare, li8. (Tedi Arte. Gioilicio. Ingegno. Rispondere.)-^
Facezie giudiciose, proprie d* un buon Corlegiano, Ili — Luoghi varii donde si
cavano, enumerali, 15Q. — Eflelti diversi delle mede- sime, ivi. — AvTorteoM
notabili nell’ usarle. 125, Facilità nel parlare, difficile,
Fallare, chi falla, e dà mal esempio, dee dopp sa m eoU caaer punito,
Digìtized by INDICE DELLE MATERIE. Fama boona o
ealtiira quanto importi, <5. — Quanto giovi mandar in- nanii la buona ,
prima é* entrar nelle corti, 408. Quanto ai deb- ba procurare di coniervarla,
2^ Fanciulle cinque belliisime di Crotone. (Vedi Zeusi.)
Fanciunelti a cui spuntano i primi den- ti, con quali amanti dall’ autore
comparati, 298. Fanciulli, perché cantino di notte, SIL Fatiche,
lor fine qual sia, 2t)2 263. — Utilissimo ad ognuno il lulerarne, tùÀ.
Favori de^principi, sodi e veri quai aieno, ÌL — Non ti debbono uc- cellare, 9^
Come in etti debba diportarsi il Coitegiano, 94. Favorire, i princìpi
favoriscono talvolta chi non lo merita, 25. Federico duca d' Urbino,
lod.ito, ^ t71. ~ Gustava che gli fossero fatte delle burle, 462. — Sua
sentenza, 262. Federico Marchese di Mantova; sua gentil riprensione, 142.
— E faceta risposta, 444, 445. Federico. (Vedi Gonzaga.) Felicità
de* sudditi dee procurarsi dal principe, 259, 260. Femina e maschio
intende di prodar la □atnra, 481. Fenice, perfetto Cortegiano presso Ome-
ro, 28i. Ferdinando. (Vedi Ferrando.) Fermezza della donna in amare
il pri- mo compagno del suo letto, donde nasca. 482. Ferrando re di
Spagna, marito d’isa- bella, lodato, 199. — Soggioga il regno di Granala, e
toglie parecchie città ai Mori in Affrica, rW, 840. Ferrando minore d’
Aragona, re di Na- poli, eccellente negli esercizii cavai- lereacbi, 488. — Sua
avvertenza, 416. — Scioccamente imitato da un mal avveduto in nu suo difetto,
35. Ferro non esercitato, comparato con alcuni principi, 263.
Festività, che cosa sia, 116. Faide cose. (Vedi Mangiar.) Pico,
uoveUetta di certa donna impic- cata ad un fico, 446. 375
Filippo dìDemetrio assedia Chio; e suo iniquo bando, 197. Filippo Duca.
(Vedi Cortegiani.) Filippo il Macedone, sua cura di tro- vare un ottimo
maestro ad Alessan- dro, 8^ (Vedi Alessandro.) Filosofa celebri,
481. Filosofia più nobile qual sia, 281. Filosofi antichi, come
definiscano Tamo- re, 285. — Filosofi paiono e non sono alcuni porti, 214. —
Filosofi severi intervenivano a* pubblici spettacoli ed a’ conviti, e perchè,
421. — Filosofo morale qual sia, Fine nobilissimo della Cortegianit de-
scrìtto, 243, 244. Fiore della Cortegiania qual sia, 244.
Fiorentini guerreggiano contra Pisani, 127. ~ Usavano il cappuccio, 402.
Fiorentino commessario, sua sciocca minaccia al duca di Calavria, 427. Due
ridicole proposte d’un Fioren- tino per far danari, i28. —» Oscena facezia d’un
altro, 140. Fiorenza ha XI porte, 428. Ftsionomt, lor dottrina
accennata, 290. Foglietta (Messer Agostino), sua gentil dissimulazione,
142. Folli chiama l’Autore questi suoi ra- gionamenti, in comparazione
delle cose sacre e divine, 185. Fonte pubìico comparalo al principe.
249. Forbici, novelletta accennata, 188. Forche, in alcuni paesi
quando uno con- dannato alle forche venga richiesto per marito da una publica
meretri- ce, resta libero, con questo che la sposi; facezia curiosa allndente a
ciò, 445. Forestieri, quando non sieoo oeressartt per custodire il
prìncipe, 268. Forma, ad essa s’assomiglia l’uomo ge- nerante, 182.
Fortezza che cosa sia, 255. Viene ajutata dall' ira, rW. — Nasce dalla
temperanza, /oi. — Più propria dell’uomo che della donna, 1 SO. ^ Qnal sia U
vera nella guerra, 264. Fortuna seconda e avversa, ministra di Dio, 267.
— - Perchè mandala da Dio, ivi. Digiiized by Google
INDICE DELLE MATERIE. 376 Fortuna c tuoi cRèlti, ^ 1^ ^
106, 240 e altrove. Franceico (San) riceve il tigillo delle cinque
piaghe) 304. Francesco I re di Francia, tue lodi, 308. Esortalo a
mover le armi contro gl* Infedeli) 309. Francesi in che sieno
eccellenti, 31, — A’ tempi del Catliglione dispreaaa- vano le lettere, 56- —
Modetlt,95. — Lodali) 112. — Saccheggiano Caput) 211. — Francesi uccisi a
MeteliO) 310. Francia) sua corte lodala) 23. (Vedi Ca- valieri ) — Re di
Francia) loto guerre contro gl* Infedeli) 309. Frale 6nlO) che da hurlalo
divien hur- lante; novella curiosa, 155, 132. Frati, lor mali costumi, 1S
6. Freddo non è infuso da* cieli e non en- tra nelle opere di natura,
123. Fregoso (Federico) propone il VII gio- co, cioè di formare un
perfetto Óor- legìano; e questo solo viene ahhrac- ciato. 19, -0. — Per comando
della Signora Emilia Pia seguila il ragio- namento del Cortegiano, IL — Era
eloquentissimo, 1ÌÌ2. — Arci- vescovo di Salerno, 241. Fregoso
(Ottaviano) lodalo, 2, 262, 2fif>. — Propone il V giuoco, cioè per qual
cagione vorrrhhc 1* amante chela sua donna s* adirasse seco, 18. Nemico delle
donne, 160. — Du- ce di Genova, 2iL — Si fa aspet- tare, 242. — Era magro,
222. Frequenza eccessiva nelle facezie si bia- sima, 15L Frigida è
la donna; eHèlti di tal quali- tà, 1 83. Frigio (Nicolò), 165. — Deride
la Don- na di Palazzo che si andava forman- do, 171. — Sua facezia, 123.
Frustato, ciò che rispondesse a ehi csortavalo a camminare in fretta,
126. Fruito della Corlegiania, qual sia, ili. 6 Gagliardi,
nelle guerre i più gagliardi non sono i più pregiali, 180 . Caja Cecilia,
moglie di Tarquinio Pri- sco, lodata, 187. Galeotto da Narni
motteggiato per es- sere assai corpulento, acutamente ri- sponde, 133.
Galeotto (Giovaolommaso) notato di viltà, e da cbi, 135. Galline mal
covano fuori del nido; acu- ta risposta di Cosimo de* Medici, 137.
Gartier. (Vedi Cavalieri.) < Garzia (Diego), 138. Gazuolo. (Vedi
Conladinella.) Gelosi, loro difetti, 232. Generar bellezza nella
bellezza cosa sia, 295. — Come ciò intendesse il si- gnor Morello, ii'i.
Generar 6g1ioli, è falso che non si ab- bia dalle donne altra utilità ebe que-
sta, 203, 205, 2l7 e seg. Genovese prodigo, ciò che rispondesse ad un
avaro che *1 riprendea, 1 36. Georgio (San). (Vedi Cavalieri del Gar-
tier.) Georgio da Castelfranco, pittor celebre, 51L Gerione,
biasimalo, 271. Germane donne lodale, 198. Giocatore, che ti crede
divenuto cieco: novella curiosa, 153 a 133. Giocatore di dadi, perchè
comparato colla prudenza, 267. Giochi varii proposti nella corte d’Ur-
bino, 13 e seg. Giochi, quali approvati nel CoTtegiano, 106.
Giostra famosa ; come in essa si por- tasse un gentiluomo, Ili. Giostre,
come debba in queste diportarsi il Cortegiano, 82. Giovane ciascun si
studia d’apparire, ^ Giovane donna di meravigliosa conti- nenza,
207. Giovanetti due scioccamente comparati nel canto a due sparvieri,
126. Giovani come debbansi dipoctare, 82. — Ripresi da’ vecchi in molte
cose, 77. — Perchè inclinali - all’ amor sensuale, 288. — Quei si postan
chiamar divini, ivi. Gioventù comparala alla primavera, 23- Giove,
secondo Orfeo, era maschio e fe- mioa, 182. — Nella sua ròcca qual sapienza foste
custodita, 249. — INDICE DELLE MATERIE. 31 7
Senta qual virtù non poteste go* vernare il regno suo, 2^
Giovenale. (Vedi Juvenale.) Girolamo. (Vedi Jerontmo.) Giudicare si
possono alcune cose subito e in un’occhiata, non cosi le virtù c i costumi
degli uomioi, 108. Gìudicìjche cosa facciano alle volle per parer savii,
S96. Giudicio, maestro di chi scrive, àSL — Più perfetto diventa per la
lunga esperieoxa, 2sL ~ Necessario nelle facetie, 118. Giulio Cesare
pcrchb portasse la lau- reai 116 . Giulio 11 pontefice ricevuto magnìBca*
mente in Urbino, AìL Suoi ma- gniSci edificii accennati, 271. — > Sua faceta
risposta, 317. Giunone, festa detta delle Anelile in onore di tal dea
perchè ioslituita, 196. Giurecoosnlti. (Vedi JorisconinUì.)
Giustiiia che cosa sia, 255. — Da chi, e per cui comando portata in terra,
secondo i poeti., 249. ^ Ajulata dall’odio conira i cattivi; sue lodi; nasce
dalla temperanaa, 255. — Massima cura de* buoni principi, 267. Golpino,
servo del MagoiSco, faceaia intorno ad esso, 141. (Vedi de’ Me- dici
Giuliano.) Gonfiarsi ne’favori non dee il Corlcgia* no, 94.
Gonnella faceto burlatore, Gootaga (Alessandro) gentilmente com- parato
ad Alessandro Magno, 139. Goosaga (Cesare) propone il 11 giuoco, cioè, ae
1’ uomo fosse necessitato d’impassire, qual sorta di pasiia, essendo ciò in sua
potestà, dovrebbe eleggere, 15 e scg. — Fu uomo raro e di belle qualitè, 2AÙ e
241. G-onaaga, donna celebri di tal caia ac- cennale, Gonaaga
(Eleonora) duchessa d’Urbioo, lodata, 242. Gonaaga (Elisabetta) duchessa
d’ Urbi- no, lodata, ^ i69. — Sua mode- stia e grandexaa d’ animo, H,
<2 Sua forte castitè ad onta dell’im- poienaa del marito, 214, e
altrove lodata. Gonaaga fFederico) marchese di Man- tova- (Vedi Federico.)
Gooaaga (Federico) figliuolo di Fran- cesco marchese di Mantova, lodato,
276, 318. Gonaaga (Francesco) Marchese di Man- tova, iodato, 271.
Gonaaga (Giovanni), suapiacevole com- paraaione di suo figliuolo Alcssan-* dro
con Alessandro Magno, 139. Governare, dal non saper governare i popoli
quanti mali nascano, 246 e seg. Goveroator buono, è gran laude d’un
principe Tesser cosi chiamato, 275. Governo ottimo qual sarebbe, 266,
267. Grammatico che non aveva letto, come ciò fosse inierpetrato da
Annibale Palcolto, 131, 132. (Vedi Letto.) Granata, e suo regno,
conquistato da Ferdinando re di Aragona, 310. Per cagione e virtù di chi,
199,217. Gran Capitano. (Vedi Consalvo Fer- rando.) Grandezza di
animo conveniente a’prio- cipi qual sia, 270. — Suoi efifelti, ivi.
Grasso de’ Medici, e scherzo intorno ad esso, 62. Grati universalmente,
non si debbono motteggiare, 122. Gravità nelle donne moderala, induce
riverenza, 225. < — Gravità faceta, lodata, 138. Grazia non s’impara,
ma è dono di na- tura, 63 e seg. — Si può rubare e come, 65i Grazia, o
sia favore, quanto importi al Cortegiano essere in grazia del suo Signore, 107.
— Come debba da esso guadagnarsi prima di volergli ÌQiegnarla virtù, 270. —
Della sua donna come debba mantenersi 1* a* mante, 232. Graiiati alconi nascono,
altri no, 26. — Graziato deve essere il Cortegia- no, ivi. Grazie come
debbansi dimandare a’prin- cipi, 92. (Vedi Favori.) Grecia, sua
consuetudine trasportata io Maisilia, 189. Grne. hanno il lor principe,
vario però, Dtgi!i7 by '^OOgle INDICE DELLE MATERIE.
378 Guern, suo fine è la pace. 262. — Sema dì esso non è
lecita, — In sè sola considerata è mala, 264. — Di- sordine che spesso in essa
succede, iyi, Le cose notabili io essa fac* eia il Cortegiano al
cospclto di po- di! e segnabiti, 82. ( Vedi Gagliardi. Pace. Turchi.)
Guerre di donne, l&Q. Guerrieri debbono sopra lutti gli altri esser
letterati, 6X. Guidubaldo, doca d’ Urbino, infermo di podagre, lodalo,
10- — Sotto quai principi mililaise. iVi. — Dottissi- mo e di gran giadicio in
tutte le * cose, ll-—lm(»o<enU nel matrimo- nio, 31 4. (Vedi
GonxagaEUsabelU.) 1 Idea del perfetto Cortegiano, simile a quella
della republica di Platone, del re di Senofonte, e deli'Oratore di Cicerone,
2^ Ignoranza è cagione di tutti gli errori e vizii, 2.Ó2, 253, 262. — In
quai cose non nocria, 346. — E uno dei maggiori errori dei principi, 3i5,— Come
pure la più enorme fra tutte le bugie, ivi, 2AL Ignoranti si saziano
delle cose spesso ▼edule. 86. Imitare i difetti altrui c sciocchezza,
35. Imitazione, necessaria per iscrirer bene, 4L Impossibili
cose desiderate inducono al- trui a riso, 149. Impressioni prime sono di
gran forza, 2^ 108. Imprudenza di molti, descritta e biasi- mata,
206. Impudenza fucata di certe donne presa alle volle per bellezza, 293.
— Im- . pudenza inlolerabile d* alcuni prin- cipi, 246. Incontinenza,
difiereote dalP intempe- ranza, 253. — Perchè si chiami vi- zio diminuto,
353. Inconvenienti cose, toccale, 255. Incredulità. (Vedi Credulùh.)
India, suoi efièrati abitatori, accconati, 282. Indiscretezza d’un
cavaliere nell’ inlv tenere una dama, 83. Industria deiruomo in
mansuefare gli animali, 250. — Della stessa dee servirsi in domar le passioui,
ivi. Inequalilà ragionevole con chi debba usare il principe, 268.
Infamare dnnoe, anche di colpe vere, è cosa degna di gravissimo castigo, 203 e
scg. Infermi che sognand di bere a un chiaro fonte, comparati a* cattivi
amanti, 286. lofèrmiià perchè date a noi da natura, 76 . Ingannar
1* opinione è il forte di tutte le facezie, 150. Inganno da non
biasimarsi qual sta, H5. — Grande degli uomini qual sia, 251, 252. — Inganni
grandi c miseraliili de* principi, toccati, 246. Ingegnerò punito con
troppa severità da Publio Crasso Muziano, 62. Ingegno, maestro di chi
scrive, 42. — Tiene le prime parti nelle facezie, 118. Inghilterra. (Vedi
Cavalieri.) Ingratitudine di alcuni Covlegiaoi verso i principi loro
benefattori, 23. I nimica, come si portino co’principt, 245.
Innamoramento curioso dt molte donne nobili in un sol gentiluomo, 108,
409. Innapioransi gli uomini per altre ca- gioni, oltre alla bellezza,
69. ■ — An- * che per fama, ÌQ9. Innamorali sensualmente sono
infeltcis- simi, 286 e seg. Insegnare, non sempre chi sa iosegnase
qualche cosa, sa anche eseguirla, S4, loatabililà d^emare oeiruomo onde
Ba- sca, 183. > Institulore del principe qual esser deb- ba, 265..—
rJii menti un tal nome, 270. InatiluzioD del principe come abbia a farsi,
264, 265. ' Intellettiva virtù come sì perfeiioni, 265. lotellelto
particolare non può esser ca- pace delTimmensa bellezza oniver- tale,
300. Intelligcnsa, sua virtù, 365< Intempeianza quanto
differente dall’ io- conlineuaa, 253. Intemperati, e loro infeltcilà,
361L Digitized by Google INDICE DELLE MATERIE.
379 loierpTClaTe un delto in senso non In- teso da colili
cheM dice, è cosa gra- liosa, 136, 137. Interpretatiooi giocose,
147. Intertenersi con chi debba il Corlcgia- no, 1Q5. Invenzioni
molte degli uomini per muo- vere il riso, 120. Invisibili cose veramente
sono, 303. Ipocriti esagitati, 185, 116.— Loro co- stumi descritti,
ivi* Ira aiata la forteaia, 356. Ironie facete, proprie de* grandi,
143. — Loro doppio uso, ivi. Isabella d* Aragona, duchessa, sorella del
re Ferrando di Napoli, lodata, SOI. Isabella marchesa di Mantova,
lodata, 201. Isabella duchessa d*Urbino, lodata co- pertamente,
243. (Vedi Gonzaga Eli- sabetta.) Isabella regina di Napoli, lodata, 201.
~ Suoi infortuoi accennati, ivi. Isabella regina dì Spagna, esaltata con
somme laudi, 1 99, 217. — Godeva delle burle fattele, i52, (Vedi
Ruota.) Isola Ferma, chi ad essa dovrebbe man- darsi, 220. Istrione
antico, perchb volesse sempre in itcena comparire il primo, 23.
Istrumcnti musicali da 6ato, poco ron« venienti al Cortegiano, 87. — £ meno
alla Donna di Palazzo, i76, Italia avea anticamente il suo abito pro-
prio, 100. — Suo frequente com- mercio con Francia e Spagna, i12. — Per qual
cagion rovinata, 268. — Re dMlalia chi si poteva chia- mare, 271.
Italiani in che più vagliano, 3L — Po- sposero un tempo 1' armi alle lette- re,
38. — Sì confanno più cogli Spagnooli, 112. — Malameute imi- tano i Francesi,
ivi. Italiano nome per quai cagioni ridotto in obbrobrio, 244.
Invidia, si fugge colla medìocrith, i16. Jeronimo, e non Girolamo,
vuol che si scriva 1* Autore, 47. Jeronimo (San) celebra molte sante e
maravigliose donne, 185. Josquin di Pris, musico eccellente, 1 1O. (Vedi
Motletlo.) JuriscoosuUi avari, 211.— Non liti- gano, 139. Juvenale
(Latino), sua facezia, 148. Is Lamenti increscevoU in amore,
232. Latina lìngua si variò in diversi tempi , 44. Latine cose del
Petrarca, non sono molto stimale io paragone delle toscane, 218. Latini,
da chi apprendessero le lettere, i94. Laude, come possa acquistarsi da!
Cor- tegiano, 8ÌL Lavinello. (Vedi Eremita.) Laura del Petrarca, di
quanto beoaiossc cagione, 218. Laurea. (Vedi Giulio Cesare.) i Legge
ingiusta fatta dagli uomini, 159. T«eggi, perche castighino i
delinquenti, 3ÓD. — A qual 6ne debbano indi- rissarsi, 203. — Quando sarebbon volealieri
obedile, 268 Leggere ì fatti degli antichi celebri capi- tani e
imperadori, quanto giovi, Ì!L Leggiadria delle donne, 223< Legno
col volger del tempo impietrisce, 313, 314. Leona, meretrice ateniese,
suo mirabil silenzio, come onorato dagli Ate- niesi, 189. Leona di bronzo
sentz Kogut, cost si- gnificasre in Atene, 189. Leonardo da Vioci,
pitlOM, lodato, 40, 115. Leonico (M. Niccolò) sua gentil ripren- sione,
142. Lettere, lodate, 56 e seg. — Se sieno più eccelleou che l'armi,
57. Letto, ec. 132. — Scherzo sopra questa parola pel suo doppio
significato. (Vedi Grammatico.) Oigitìzed by 380
INDICE DELXE MATERIE. Leuconia» (Vedi Ghie donne.)
Liberaliik falsa qual siaj S73. — £ di rarie specie» ivi, — LiheraUtà s’in*
segna Ira i Turchi ai fanciulli nobili^ 43S. Liberili^ supremo dono
dì Dio agli uo« mioi| 367. » Qual sia la vera, 258. Liberta troppa ne’
popoli quanto nociva al principe, 268. — Segno di libertà perduta dalla maggior
parte d’Italia, non avere abito pro- prio, KKL (Vedi Àbito.) Libertine
donne, o sìeno immodeste, biasimate, Ì7A. Libreria insigne de* Duchi d’
Urbino, & Licenza ingiusta presasi dagli uomini, d59,m
Licurgo nelle sue leggi approvò la mu- sica, &iL Lingua, in ogni
lingua alcune cose sono sempre buone, — Lingua ita- liana, o volgare: sua
origine e suoi incrementi, Lingue dipartite di fuoco che comparve- ro
sopra gli Apostoli, 301. Liscio, perche ripresa una gentildonna che usava
certo liscio, 136. Lisia Pitagorico ammoniva Epaminon- da, 2AL
Litigante, ciò che rispondesse all’av- versario che l’avea molleggiato di
hajare, 1^3. Livio, notalo di Patavinità, 4Z± Lodar se stesso come
si possa onesta- mente, 27. Avvertensa in ciò del buon Corlegtano, ivf. —
Lodano sb stessi molle volle gli uomini ec- cellenti, ivi. ~ Lodarono se
stessi ' gli antichi scrittori, ivi. Lombardia, paese di libertà,
&A. Lombardo vestire a* tempi del Dembo, assai curioso c bizzarro,
101,102. Lombardi, afietlali, 38. Lucchese mercatante, novella
cariosa, 129. Lucnìlo avuto da alcuni per mangiato- re, 2AL
Ludovico re di Francia, lodato, 190. — Suo motto, 138. « Luigi re di
Francia. (Vedi Ludovico.) IH Macchia, tutti abbiamo qualche
mac- chia, lA. Maestà, dee conservarsi dal principe, 270.
Maestro, e necessario nelle arti, e nelle virtù, 26L — Maestri ottimi in tutte
le cose si debbono scegliere, 34. — Debbono considerare essi la natura de’
discepoli, AL Magistrati, a chi si debbono dare, 258. 2o9. — Magistrali
cattivi, loro er- rori, 260. — A chi si debbano at- tribuire, 267. ^
Magnanimità non può darsi senza altre virtù, 255. — £ queste quali sie- no,
266. Magnifico (il), cosi si chiamava Giulia- no de’Medici. (Vedi
De’Medici Giu- liano.) Malfattori perchb castigati, 25Q. (Vedi
Leggi.) Malignila si fugga ne’ motti, 131. — nelle facezie, 1M_.
Malvagi, amano d’ esser tenuti buoni e giusti, perche, 249. Mangiar cose
fetide e schifose; prodezza sciocchissima d’alcuni francesi e ita- liani,
112. Maniche a corneo. (Vedi Venetiaoi.) Maniera riposata si loda
ne’ giovani, ^ 90. Maniere diverse di donne, 225. Manlio Torquato
perchè uccidesse il figliuolo, 98. — Non si approva tanto suo rigore,
ivi. Mansueiuiìine conveniente al Cortegia- no, &L — Al principe, 270
— Soa- ve. propria della Donna di Palazzo, 178. Mantegna (Andrea), piltor
celebre pa- dovano, 50. Manina, vescovo di Mantua, c suo bel disegno,
212, 213. Maraviglia cV alcuno fa ridere, 160. Margherita, figliola
di Massimiliano im- peratore, lodata, 199. Maria Vergine accennata, sue
lodi, 186. Maria (Santa) Maddalena, 301, Maiiano, certo frate
faceto, 158. — Sua Digilized by Googic INDICE DELLE
MATERIE. piacevolezza accennata, 12iL — So- leva far r elogio della
pazzia, Mario rompe i Tedeschi, i9Si Mario da Volterra, sua facezia, lAL
Maritare, bestialità di alcuni padri nel maritar le figliole, 207,
Marito, orazione dì un marito al senato per ottener licenza di morire a ca-
gìon di sua moglie, Mariti cattivi accennati, iV/.'— Mariti, non sempre
amati dalle mogli, liliL ~ Martiri invittissime accennate. 185. — Maschere,
loro uso e utilità, Maschio e femina intende dì produr la natura, 181. —
Maschio e femina formò Dio gli uomini a sua simili- tudine, i8l*.
Massilia, costanza mirabile di una sua cittadina, 189. (Vedi Cicuta.) Materia,
ad essa s’assomiglia la donna, 183 . Materia di questo Trattato, L
— Stia utilità, Matilda contessa, lodata, fu di casa Ca- nossa,
Ì98. Mattia Corvino re d'Ungheria, lodato, 201. — Batte più volle i
Turchi, 310. Mattonalo, facezia su tal parola divisa, 132 . Medicina,
bella similitudine del modo di dar medicina a* fanciulli, 2A8. Medico
eccellente può darsi senza ch’ab- bia infermi da guarire, 280. —Me- dico solo
serve a molli infermi, 250. — Medici, quali infermità debbano principalmente
curare, ivi. — Me- dici avari, 211. — Scherzo intorno ai medici, 1 39.
Medici (Cosimo de’), sua risposta a M. Palla Strozzi,! 37. — Sua ammoni- zione
dissimulata, -1A7. Medici (Giuliano de’), duca di Nemours, detto il
Magnifico, 2A1. ~ Lodato, 2i — Protellor delle donne, 140. 464. — Sua facezia.
(Vedi Oolpino.) — Sua modestia, 169, 171. Medici (Lorenzo de’), suoi
detti, 141. Mediocrità, le virtù sono mediocrità, 274. — DifRcile a ritrovarsi,
iVi.— — Mediocrità non soggiace ad in- vidia, 116. — Mediocrità nel gio- car
agli scacchi più laudabile del- raccellensa, IMi (Vedi Spagnuoli.)
381 — Mediocrità ne’ sudditi, molto giovevole al principe,
268. Meliolo, burlator celebre, ió8. Memoria, le cose che
risvegliano la me- moria de’ gustati piaceri, sono gra- te, li, Ih.
Mercatanti debbono essere ajutati dai principi, 275. — Mercatanti giudi- siosi
imitar deve chi pensa di disco- starsi alcuna volta dai comandi del suo
principe, 9ÌL Mercurio quali virtù recasse in terra, secondo le favole,
249. Meretrice publica come potesse liberare un condannato alle forche,
iiò. Merito e la vera via d’ ottenere i favori dei princìpi, — Meriti
come debbano essere rimunerati dai prin- cìpi, 268. Messa frettolosa,
facezia d’un prete, 149. Metafora, lodevole, 46. — Metafore ben
accomodale e loro uso, 137. — Me- telino, Francesi uccisi dai Turchi a
Melelino, 310. Metrodoro, filosofo e pittore, 68. Michele (San).
(Vedi Cavalieri.) Millantatore cavaliere come fosse morti- ficalo da una
dama, 22^ Minacce alle volle fanno ridere, 150. Minerva quai musici
istrumenti rifiu- tasse, 3L Ministri buoni. (Vedi Principe.)
Minuzia non si dee chiamare cosa alcu- na che possa migliorare un princi- pe,
274. Miseri non si motteggino, toltone un sol caso, 122. Mitridate
teme la morte più che non la temesscr sua moglie, e le sue sorel- le,
illL Modestia nel Cortegiano, lodata, 37, 59. — Sola non fa Puomo grato,
^ — Non diventi rnslicità, ivi. Moglie brutta motteggiata, 13iL — Mo-
gli. (Vedi Communilà, cc.)— Mogli cattive accennate, 190. Moisè, rubo
ardente da esso veduto, 30 J . Molar!, capitano, come motteggiasse il
Peralta, 148. Molli di carne, atti della mente; assio- ma filosofico,
ISO. MoUiludine, naturalmente ha odore del bene e del male, h. (Vedi
Valore.) Digitized by Google 382 INDICE
DELLE MATERIE. Mondo h ana pittura» &L Deacritto come bello»
28X> ^ Mondo piccolo li dice Ttiomo, ivi» MoBtefeltro (di). Donne
iniigni di que- sta famiglia accennate» 193. Monte6ore, osteh^t»
161. Monte (Pietro), lodalo, 34, 171. Mò quarta sera» ciob ora è la
quarta stroj 372. Morali virtù non sono totalmente da satura» 350.
— Come ai perlesioni- no, 364. Mordacità eccedente dee fuggirsi»
125. Morello da Ortona» cavatier mollo vec- chio, 3H5. Suoi scherxt e
bisaar- Tie, 288, S89, 295, 296. Mori e Turchi troverebbero la lor sa-
lute nella propria ruina, 221. (Vedi Torchi.) — Morì uccisi in grandis- simo
numero dagli Spagnoli per causa di chi» 213. Morte» che facciano alcuni
per panra di essa» 811. Mosca» fu lodata eoa un libro intero da certo
iogegnoso scrittore» ^ Moscovia produce quantità di sibeUiui, 429.
Motteggiare all’ improviso è più conve- niente» che dopo d’ avervi pensato
sopra» 161. Mottetto non istimato prima che si sa- pesse essere
composizione di Jo- aquin d i Pris, llQ. ( Vedi Josquìn.) Motti. (Vedi
Detti, ove ns ha gran co- pia, ed anche Novelle.) Motti di due sensi,
quai sieno, 123. — . Molti ridicoli onde nascono, 124. Musica lodala, 62,
63. — Sua fona, tVi. ì) proìialnTe che sia grata a Dio, È di molta
consolazione, ivi. Conviene al Coitegiano. 62. — Quando oprar si debba, 8^
— Qual sia la più lodevole, ivi.-— Suo difetto, ìli. Musico deve
esser roomo ben discipfi- nato. (Vedi PUtooc ec.) — Musico eccellente divenuto
pessimo poeta, 445. — Musico quaodo diletti t si stimi, 38. Muiation di
Stato da quai cagioni ori- ginaU, 268, 269. N Napoli abonda
di vestigi di grandi edi- 6cì degli antichi, 271. — Due re- gine di Napoli di
gran virtù accen- nate, 2QQ. Narrar facesse come' sì debba, 433.
Nascono per lo più i buoni dai buoni, 24, Naso, facerìa troppo acerba
intorno ad un seusa naso, 3iL Natnra, e sua propnetb, 479. — Dee seguirsi
nello scrivere, 52. Legge di natura qual sìa, 263. ~ Sempre la stessa, e sempre
diversa nelle sue opere, 312 e legg. Nave che parte dal porto comparata
alla vecebiaja, 74. — Bella similitudine d’uoa nave colla ragione» 252. — £
d’un governator di nave colla stessa, 255. — Navi» perchè abbru- ciate da certe
donne Trojane presso Roma» 494. Nero colore, abiti di color nero» o ti-
rante al nero» più convenienti nel vestire ordinario » 4Q1. Nerone,
congiura contr’esso accennata» 4 89- Nicoletto, buon 61osofo» ma
niente in- tendente di leggi, sua opinione con- traria ad una di Socrate» 444.
— Suo detto, 438, 439. Nicolao V, papa, scherco su una sua in- scrizione»
124. Nicostrala» madre d’ Evandro» mostrò le lettere ai Latini»
494. Nobile è tenuto a operar virtuosamente» 22. — Nobili molti vinosi»
24. — Consiglio de’ nobili qual esser do- vrebbe» 366 — Nobili in che ma- niera
debban giocar coi villani, 84* — Nobile sia il Coclegiano» 23. Nominar
con oneste parole una «oae vi- giosa è modo faceto, 146. Novelle, del
Proto da Lucci, 434. — D'un giocatore che si crede dive- nulo cieco, 464.— D'wn
frate 6nto cita da burlato divenne burlante» 466. — D’ uno che la creduto pas-
to, 457. ^ D* un lai Poniio, che involò ad un cootadino un psjo di capponi»
458. — D’una tal Gam- ma» che ptrir volle» a fece perir di INDICE
DELLE MATERIE. 585 I TelcDO il tuo tmaotc
uccuor del di lei marilo, per acrLarsi a qnrtlo fé* dele 1 90 e aeg. — Dì
Madoona Ar- geDtiaa, che mori d'improviso per rallegreiia d* avere a riveder il
ma- rito gt^ ichiavo dei Mori, i93. — Di rara onesta io una giovane don- na»
2U7. E d* altre due don- ' aelle, SU2, — E d* altra, 21i — D*uoo che volea
farsi pagar roste- ria dalla sua ionamorata, Novità, sempre cercata dagli
uomini, L. Noaxe, costume io esse degli antichi, m. Numeri
nello scrivere donde nascano, bl. O Obedire è tanto naturale,
utile e neces- sario, quanto il comandare, 258. — Obedito è sempre chi sa
comanda- re, Obelisco intorno a* sepolcri cosa signi- 6cassero presso
certi antichi, 2G3. Occhi della nrente da latti si hanno, e da pochi si
adoprano, 300. — Quan- do divengano acati e perspicaci, iVi. Occhi, loro
efficacia, 229, 230. — Di- versità, jVi. -^Guida in amore, ivi. — Occhio
infermo guasta il sano, fW.— Novella di uno che avea per- , duto un occhio,
146, 147. Odio contro gli scelerali aiuta la giu- itisia, 265.
Officìi, scherto gentile su questa paro- la, IMt Oglio, fiume che passa
accanto Ga- zuolo in Mantovana, in esso perchb si gitiasse una fanciulla, 212.
(Vedi ConladinellaO Olimpici giochi dove si celebrassero,
IfìS. Omero in che imitato da Virgilio, 44.— Venerato da Alessandro, ^ —
Formò due uomini eccellenti per esempio della vita umana, e quali, 281. (Vedi
Achille. Dlisse. Fenice.) Onesta delle donne non a’ofienda, 159, 164. ~
Come ss scuopra, 174. Quanto si stimi, ivi. — Amata piti della vita da alcune,
2ll. Optra migliore che possa Carsi dal Cor- tegiano qual sia, 248.
i Operaaiooi,ds varie sorte, 102, 1Q3. ^ Per esse si vico in
cogomone del valore di chi la fa, ivi. Opinione, credesi alle volte pim
all* at- trai che alla propria, i 1 6. Opinione, facctie fuor d’ opinione
qual sieno, 132. (Vedi Inganiiare.) Oratori diversi tra loro, benché
tutti perfetti, Orasione del Bembo allo Spirito Santo, 302.
Orazione d* uno annoiato si della mo-« glie, fin a voler morire di veleno,
accennata, 190. (Vedi Marito.) Oraaio riprende gli aolicbì per aver
troppo lodato Plauto, 44. Ordine, cose dette fuor d* ordine fanno ridere,
150. Orièo, sua senteosa intorno a Giove, 182. Orma di Dio si
trova nella conlenpla- lione, 300. Osca lingua, affatto perduta, Oscenità
nelle facezie detestata, 140. Oscurità nel parlare si dee fuggire, 42. «
Nello scrivere, alle volte apporta grazia, 4^ 41* Osteria, curiosa
novelletta d* un amante che volea che gU fosse pagata l’oste- ria dalla sua
amata, 234. (Vedi Sciocchezza d’un genliluono.) OstinasioDC propria delle
donne, 18$. Ostioaaione tendente a fine virtuoso si dee chiamar costanza,
189, Ottavia, moglie di Marc* Antonio, e so- rella d* Augusto, lodata,
187. Ollimati, sorta di governo, 257. Ottomaui (Gein), suoi detti,
138. Ovidio, gran maestro d'amore, 235. Alcuni costumi rozzi de’suoi
tempi, ivi. Olio, e suoi mali, 264. p Pice ^ io se buona,
deve essere il 6oe della guerra, 263, — Disordine ebe suole avvenire io essa,
263. — Il suo fine è la traDijuillìlb, ivi. — Principi gloriosi in guerra, perchè
vadano in ruioa in tempo di pace, 263. 2Cè.
Digitized^^^oogle 384 INDICE DELLE MATERIE.
Padoa^ il Podestà diipeosava antica* mente alcune letture di quello stu-
dio, HA. (Vedi Campanile.) — Ve- ecovo di Padova. (Vedi Della Torre.)
PalaiBO publìco d*Urbioo^ il più bello di tutta Italia, S. Palatao (Donna
di). (Vedi Donna dì Pa- iatto.) Palatto (Uomo di ) per Cortegiano. (Vedi
Cortfgiaoo.) Paleoito (Annibale). (Vedi Gramma- * tico.) Faleotto
(Camillo), Ì35. — Suo detto, iU. Palla, gioco conveniente al
Cortegiano, ìiL Pallade, lodata, <9A. Pallavìcino
(Gasparo) , propone il I giuoco, ciob di qual virtù vorrebbe chi ama che r
amata sua fosse più adorua, e qual vitio in lei più do- vesse comportare,
supposto che di tutti priva nou potesse essere, iA. — Nemico delle donne,
Gran guerriero, i63. — Lodato; sua morte immatura, 2AQ. Panetio ammoniva
Scipione, 2i7- Parì,cooversatione co* pari più frequen- tata di tutte,
SiL Parlare, ciò che ad esso si richieda, Hl. — Teiera alcune cose che aborrisce
lo scrìvere, ^ Bellissimo e quello che e sìmile alle belle scrit- ture,
40. — Onde nasca la buona consuetudine di esro, 4&. — Parla- re e scrìver
bene deve il Cortegiano, 42. — Di che debba parlare, ^ M. — Come la Donna di
Palano, 175. Parmegiana, o sia distretto di Parma, prodessa d*un
gentiluomo nel fatto d’arme che ivi sifececontra il re Carlo, 114. Parole
senta le sentente, dispretzevoli, 44. — Detto di Cicerone, iei. — Lor
mutamento, Parole di diverse naiiooi usate dal Boccac- cio, ^
Passioni perche date a noi da natura, 24 , Patavinilà ripresa in
Tito Livio, 42, Patria come debba amarsi dal principe, 267, 263.
Patria universale, voleva Aristotele, che Alessandro facesse
divenir tutto il mondo, 2SI . Pavia. (Vedi cardinale di Pavia.)
Paolo (San) a che paragonato, 126. Rapito al terso cielo, 304.
Paolo gentiluomopisano,come liberasse Tommaso suo padre dalle mani dei Mori,
193. Paura vana cagiona il riso, 153, Pattia delle donne in che si
conosca, 275. Pattie diverse, 14. Patti, divenuti tali in gratta di
Dio, secondo 1* opinione di fra Mariauo, si salvano sicuramente, i4«
Patti CRafaello De*), sua giocosa inter- pretazione, 147. Peccare procede
quasi sempre da igno* ranza, 253. Pedagoghi buoni, cosa insegnino a* fan
ciutjj, 251. Peggiori (a*) sempre s’attaccano le don- ne, HO. Peleo
padre d* Achille, 281. Pentirsi, detto di un tale, che non com- prava si
calo il pentirti, 211. Pepoli conte, discepolo del Beroaldo, 134.
Peralta capitano, motteggiato, 148. ^ (Vedi Molari. Aldana.) Perdonar
troppo a chi falla,è iogiurioso a chi DOD falla, 33. Perfesioor, chi più
ad essa s’ avvicina, è più perfetto, — Quanto sia dif- Beile a conoscersi, 2L —
Di tutte le cose, non ti trova nella natura umana, 113. Pericle, sua
contìnensa lodata, 204. Oppugnata, 210. Persia, ambasciatori del re di
Persia presso Filippo, quale pronostico facciano di Alessandro fanciullo,
319. Persiana spada di Dario acrommodata allaMacedouica prima ch’egli
com- battesse eoo Alessandro, cosa pro- nosticasse, 100, 101. — Persiane donne
col riprendere i loro nomini fuggitivi per la rotta di Ciro, sono cagione di
lor vittoria, 197 . — P er- siani geatiluomioi, mollo gentili, 170.
Persuasion falsa di sb stesti, un de’mag- giori errori de* pTincipi, 245,
242. Digitized by Google INDICE DELLE MATERIE.
m Pe«le 1» più mortile >l mondo qual sia, ^17. Peste
per dicci anni tenuta lontana da Atene per messo di chi, mi
Festireri alle cittù qnai sienojloro ca- stigo, SÓQ. Petrarca e Boccaccio,
usarono parole oggidì rifiuUte, 42. — Se fossero stati sivi a’ tempi dell’
autore, avrebI>ero tralasciato d’usar molte parole, 4S. — Non si debbono
soli imitare, ùL Petrarca si rese immortale coll’avere in grasia di Laura
scritto, in lingua volgare, il suo Cansoniere, 21S. — Suoi versi in lode delle
lettere, 60. — Acutamente interpretati, 61. Piacer falso qual sia, 286. —
Piacer vero è sempre buono, 262. Piasse d’ Agone in Roma; in essa si fa-
cce un’ annusi festa a’ tempi del- l’autore, 246. Pietà verso Dìo quanta
necessaria nei princìpi, 267. Pietro (San), suo tempia in Roma da chi
rifabricato con gran maguiflcen- «, 211 . Pii (Emilia De’), dama di
grande spi- rito nella Cotte d’ Urbino, il. — Ordina che si propongano i
giochi, 43. — Donne valorose di quella casa accennate, 198 . Piccinino
(Niccolò), tuoi detti celebri accennati, 16. Pierpaolo, aOfetlato nel
dansare per troppo studio, 36= Pigmalione s’innamorò d* una statua
d’avorio da lui formata, 172. Pindaro, discepolo d’ uua donna, 164.
Piramidi d’Egitto, e loro origine, 264. Pisane donne, lodate, 201. —
Celebrate da’ poeti, ivi. — Pisani gutrreggia- no co’ Fiorentini, 127.
126. Pistoia, cognome d’uno che scherxa con fra Sera6oo, 139.
Pitagora sentiva nella musica certa di- vinità, 88 Come ritrovasse la
misura del corpo d’Èrcole, 168. Pittori, molto stimati dagli antichi, 64,
61 e seg. Pittori tra se diversi, ticnchè tutti per- fetti nella lor
maniera, 60. Pittura quale esser debba, 37. — Se aia più nobile
della scultura, 64, 6ò, 66,67. — Sua utilità, ivi . — Deve in- tendersi dal
Cortegiano, ivi As- sai stimata dagli antichi, 61 e seg. — Chi non la
stima, è privo di ra- gione, 66. — Pittura, similitudine di essa, 46. 31.
Platone, fu perfètto Cortegiano de’ re di Sicilia, 281. — Assegna alle donne la
custodia delle città nella sua Re- pubblica, 178. — Esso ed Aristo- tele
vogliono che roomo ben disci- plinato sia anche musico, 63. Plauto,
troppo lodato dagli antichi, al parere di Orario, 44. Poemi greci e
latini , nati per cagion delle donne, 218. Poetesse insigni, accennate,
ISO. Poeti che paiono e non sono 61oso6, 114. PoliRlo, parole di
esso troppo ricercale, 233. Pompe in ogni genere di cose debboDSÌ
reprimere dal principe, 216. Pontremolo (Giovaii-Luca da). Auditor di
Rota, motteggiato, 148. Ponzio scolare siciliano in Padova, gran
burlatore, 158. (Vedi Campa- nile.) Popolar Consiglio dovrebbe
istituirti, ed a qual 6ne, 266. — Popolare amministrazione; sorta di
governo, 207,268. Popoli buoni, indizio del principe buo- no, 26fl.
— Popoli, come debbano amare il principe, 261. Porcaro (Antonio),
136: Porcaro (Camillo), molto gentilmente loda M. Antonio Colonna,
137. Porcia, figliuola di Catone, e moglie di Bruto, lodata, 187.
Porta (Domenico Dalla), Auditor di Rota, motteggiato, 148. Portamenti
delle donne, diversi, 225. Porte, che parlavano senza lingua e udi- vano
senza orecchie, facezia, 123. Porte XI sono in Firenze; si propose una
volta di farne altrettante, de chi e perchè, 128. Porto, abonda di
vestigi di gran fab- briche degli antichi, 271. Potenti non si debbono
motteggiart, 122, 161. 53 '■ Digitized by Google
38G INDICE DELLE MATERIE. Potrnia, nolle rote
puramente naturali prerede 1* operaiione. 251 . Potrnta dc’tudditi,
nociva al principe, 268. ~ È più facile impedirla da principio, che cresciuta
reprimerla, 369. Povero importuno che diede occasione a tre diversi moUtf
i.22. Poverlli de^ sudditi, nociva al principe ed al governo, 268.
Povxuolo, ahonda dì vestigi dell* antica magnificenza, 271. Precelli,
mollo giovano, 80. rrefello di Roma, sopraginnge nella Corte d’Urbino in
tempo di rpiesti ragionamenti, 70. — Lodato, /t»i, 241. — Suo motto, 149. (Vedi
Bella Rovere Francesco Maria.) Preghiere degli amanti debltono esser
modeste, 229. Prelato che pensava scioccamente d’es- ser grandissimo di
statura, ciò che facesse, '141. — Prelati avari, 211. Prelibato, termine
forense, che significa sopraccennato j suddetto , preso goffamente da un
fiorentino forse per qualche gran Prelato, Presenza de’priocipi è spesso
necessa- ria, 262. Presuntuosi, per lo più favoriti da'prin- cipi, 95.»^
Presuntuosi che voglio- no giudicare di ciò che non sanno, ^89.
Presunzione afièltata d* alcuni, IQQ. Prete. (Vedi Messa.) — Prete da
Var- lungo innamoralo della Belcolore, 4 24 Prete di villa come molteg- gialo,
136, LS2. Primo dee procurar di comparire nelle publichc feste il
Cortegiano, 82. Principe, condizioni in esso richieste, 270 e seg. — Cose
a lui convenien- ti, toccate sommariamente, 2ti6 a 271. .— Cure e cogniaioni
allo stesso necessarie, 2 75 e seg. — Principe buono qual sia, 273. — Quanto
sia giovevole al mondo, 218. (Vedi Squadro.)— Principe cattivo quanto Boccia,
iW. — Quando ti conosca incorrigìbile, dee abbandonarli dal Cortegiano, 28S. —
E perchè, ii»r. — Principe . elegger buoni minUlri è proprio uflTicio di esso,
200. — Virtù de* principi necessarie, fW.— Convenienti, 24^. — Con
esso dee principalmente conversare il Corte- giano, 9JL — F come possa in ciò
essergli grato, ivi. — Principe ma- scherato come debba portarsi, 8^—*
Principi, aborriscono per lo più d'udire la schietta verità, e però nel
porgerla loro si richiede gran de- streaza, 247. — > Di che cosa abbia- no
essi più bisogno. 245. — Loro Principal incumlienta, 260.— Prin- cìpi cattivi e
ignoranti, peggiori di certi colossi fatti di stoppa e di stracci, e perchè,
246. — Principi eccellenii quanto sien rari, 27fiL — Principi, quando sono di
buona na- tura, facilmente s'instituiscono, 279. ProcQste, biasimato, 271
. Profession di colui con cui si parla, at- tender si dee, 83.
Prometeo, qual sapiensa fingasi die ru- basse a Minerva e a Vulcano, 249.
Propinqui come debbansi amare dal principe, 268. Prospcrilè de* principi
da che dipenda, 267. — Prosperiti, perieoU di essi, 264. Proto da Lucca,
sua novella, i 34. Proiogene. perchè biasimato da Apellt, 37 . (Vedi
Demetrio.) Provenzal lingua antica non a* intende dagli stessi paesani,
48. Prudenia che cosa sia, 256, 267. — Corregga la mala fortuna, 267. —
Necessaria a tutte l’ altre virtù, 274. Prudenza del Cortegiano, i L3 e
seg. Publio Crasso Muziano punisce troppo severamente un ingegnerò,
09. Pudicizia nelle donne quanto sìa lau- dabile, 205. — B più commune io
esse che negli uomini, iw. — Per quai cose spesso da esse si venda stoltamente
e vergognosameote , 276. Puglia, come si risanino colè gli ata- rantati,
ovvero morsicati dalla ta- rantola, lo. 9 Querrle, il Corlfgimo
derViMre in- teodeote dille querele die iniorgoDo tra i nobili, iiiì.
INDICE DELLE MATERIE. 387 Quartana febie,
lodala con un libro, da un ioge($DOSO scrittore, Quattro viole da arco,
musica di esse lodata, R Rafaello d’ Urbino, eccellentissimo nella
pittura, ^ fifì- — Sua risposta acuta e libera a due cardinali ,iA5, lAfi.
Ragione umana, sua maravigliosa fer- ia, 2^ — Aiutala dagli atì'elli,2S&.
Cura che di essa dee prendersi, gfiS. — Sua legge come sempre debba
osservarsi dal prìncipe, IGIL Rangone (Conte Ercole) discepolo del
Beroaldo, i36. Ratti, perchè odiali dalle doone, que- stione proposta da
fra SeraSoo, jUL Re di nobile stirpe, qual dovrebbe es- sere, aiutato da
un perielio CorU- giano, 259. Re di Francia e di Spagna, lodali, 112, d07
e seg. Regina perfetta più facile a formarsi, che una peifelU Corlegiana,
171, 172. Regnare, più contrastar dovrebber gl* ignoranti principi per
non re- gnare, che |>er regnare, 346, Regno, se sia migliore della
republica, 256. Religioso, cioè pio, deve essere il prìn- cipe.
2fiL Rcmuncraiioni fatte da’ principi quali esser debl>ano, 26S.
Republica. T[Vcdi Regno.) Ricchetze eccessive cagionano gran rui- oe,
36& Rìcreaiione,cefcata da tutti gli uomini, 4 20 . Ridere, far
sempre ridere non si convie- ne al Cortegiano, 121. (Vedi Riso.) — Ridere senza
proposito provoca il riso altrui, 15Q. Ridicoli. (Vedi Molli.)
Riposo, dev’essere il 6ne delle fatiche, 262. Rspiendere, senza parer di
ciò fare, è grazioso, 142. Rìsgttatdi utilissimi che debbono avcjsi dai
principi, 270, 271. Riso, quanto sia proprio dell* uomo, 120.'— Dee
muoversi a tempo, i2i. — E ditCcile a saper cosa sia, ivi. Rispondere al
contrario, leotamente, e con certo dubbio, provoca il rìso, 150. — * Rispondere
airimprovUo motteggiando, è più conveniente, che dopo d’aver ben pensato, 161.
(Vedi Motteggiare.) Rispondere al non detto, fa ridere, 149. — Rispondere
altramente di quello ch’aspetta l’uditore, è la sostanza delle facezie,
150. Risposta argutissima d’una dama ad un cavaliere millantatore,
2L Rivali, come debbano trattarsi; scher- zo, 2(5(5. Riverente e
rispettoso dev’essere ilCor^ tegiano verso il suo principe, 92 e seg.
Rizzo (messer Antonio), suo detto di- screpante, i48. Roberto da Bari,
eccellente nel contra- fare, 124. — Affettato nel danzare per troppa
sprezzalura, 36.— Morto giovane; sue lodi, 241. Rodi. (Vedi Demetrio.)
Roma, tradita da Tarpea, s’acrciina, 496. _ Moderna, f'iacissima di re- liquie
di grandi edi6ci degli antichi, 271. — Già regina del mondo, ora non si nomina
che per la religione, 314. Roma si chiamò una donna, capo di al- cune
valorose Troiane, 194. Romana giovane morta gloriosamente per difesa
della sua caslitè, 213. — Romaua republica molto aiutata da Cicerone, 1^6 —
Romane donne. (Vedi Abbracciare.) — Romani ciò che facessero per tenere il
popolo al- legro, 120. 121. — Loro magnifi- cinza nel fabricare, 211.
Romolo, sue imprese aeoeonate, 193. Rovere (Signora Felice Della), sua
mi- rabile dflil>erazione per conservare la caslitè, 214. Rovere
(Francesco Maria Della), Pre- fetto di Roma, e poi duca d’ Urbino, lodalo, 241.
(Vedi Prefetto di Roma.) Rota, magistrato celebre in Roma; in- dtizzar la
Rota volea il p.ipa con due gobbi; curioso scherzo, IM. Digitized
by Google INDICE DELLE MATERIE. 388 BuoUt belli
complritionc d' ani raota con Iialiclla Tcgina di Spagna , 20U. Rusticità
non dee diventar la modestia, 96. S S, lettera gerog1i6ca, portala
in frante dalla duchessa d’ Urbino, 17. (Vedi Aretino.) Sabine donne,
come giovassero all’ au- mento di Roma, 195, 196. Sadoleto (M. Jacnmo),
suo ingegnoso motto al Beroaldo, 166. Saffo, poetessa eccellente, 194.
Sagacit'a nelle donne piace ad aicnnt, 225. Saguntine donne, lodale,
198. Sallaaa dalla Pedrada, suo gentil mot- to, 137. Salomone, sua
Cantica accennala, 218. Sannataro, vario eOfeUo che cagionarono certi
versi recitati come del Sana- caro, quando si scoperse che non erano di lui,
110. Sanese, suo detto, 140. Sanesi, motteggiati, 127. — Si danno
sotto la protezione dell’imperatore, 140. San Leo, fortesza perdala,
scherio in- torno a tal perdila, 144. Sansecondo (Jacomoj eccellente in
can- tare alla viola, 120. Sanseverino (Galeaaso), lodato, 34.
Santacroce (Alfouso), sua facesia, 142, 143. Sapere, à l’origine del
parlare e scriver Irene, 45. — Sopra tutte le cose è desideralo dalla natura,
56. Sapienza artificiosa qual aia, 249. — E qual la civile, ivi,
Sardanapali infioili ai trovano al mon- do, 202. Sasso, sua natura,
250. Saturno, età d’oro che fingesi essere stata a' tempi di lui, come si
po- trebbe far ritornare, 256. Scacchi, mediocrità nel saper giocare ad
essi, più lodevole della eccellenza, 106. — Corlume di chi gioca a scacchi,
130, 131, (Vedi Scimìa. Spagnoli.) Scelerali non muovono a riso, 122. —
Non si motteggioo, 151, Scienza vera qual sia, 253. Scìmia
che giocava eccellentemente à scacchi, descritta, novella eraziosa.
130,131. Scioccherie di alenai che per esse si sti- mano buon compagni,
111. Sciocchezza fingere, modo facèto, 144, 146. Scìocchfsza di
certo cardìoal giorané, 8ijSò. — -D'un gentiluomo amalo da una gran tignorai
SI54 (Vedi Oiterìa.) Sciocebetae nelle fare- aie lunghe ai fuggano, d31.
Scipione Africano ironicamente faceto, 143. — Sua continenza, 2Qi, 206. —
Oppugnata, 209. — Negata Ha alcuni acriltori, iVi. — Tenuto per sonnolente,
247. — GuslaTa delle ammoniaioni di Panetio, rW. Scipione Nasica ciò che
rispondesse ad Ennio, i45. Scirooe, biasimato, 271. Scizia, suoi
ederati abitatori, 28S. Sciti, lor barbaro costume, 263. Scrittori,
da chi ti conoscano, 58, 59i — » Scrittori antichi, in che consista la lor
differenza, 62. — Diversi da Cicerone io alcuni termini, 63. Scrittura
altresì aborrisce le parole che si fuggooo nel parlare, 39. Scrivere,
quali utilità apporti, 58, 59* — Scrivere e parlar bene deve il Cortegiano, 42.
In che consista lo scriver bene, 3. Scultura te sia più nobile che la
pillu- ra, 65. — Sua difficoltà, 66. — Non può mostrar molte cose, iW.
Scurrilità dee fuggirsi dait Cortegiano. i69. Secretezza in amore quanto
giovi, 23l. Secreto come debba tenersi Vamore, 235. Sedulilà,
propria delle donne, 480. Semiramis, lodata, 202. Semplicità nelle
donne piece ad alcuni, 225. Senile età, inette a gustare i piaceri,
74. Senocrate, sua continenza, 204. — Ne- gala, 209, 210. — Dedito
aH'alj- briachezia, ivi. Seoofonte emmonitore dì Agesilao, 247. — Sua sentenza,
207. Senso, suoi errori nel giudicare, e suoi danni, 286. — Ne giorani e
polca- Digitized by Google INDICE DELLE MATERIE.
389 UsMino, 9S7. — Sensi che tengono poco de) corporeo nell* uomo,
quei sieno, S95. ScraSno (Frate) propone il Iti gioco, perebÀ U donne
abbiano in odio i Titti, e amino le serpi, 16. •— Bur* latore faceto.
158. Serafino, medico Urbinate, novelletta di esso, e d'un contadino,
146, 147. Serafino, molleggialo per esser simile ad una valigia,
139. Serpi, perchè amate dalle donne, 16. — Servi naturalmente quai
sieoo, 958. — Ad essi è più utile TubbU dire, che il comandare, iW. —
Ser* vi, non debbono essere oiiosi, anti- co proverbio, 264. Servire a*
principi fin a qual segno si debba, 97. Servitù troppa ne* popoli
quanto noci* va al principe, 267, 268. Sesto Pompeo spettatore in
Massilia della meravigliosa costanaa d’ una donna, 189,190. Severi uomini
debboosi obedire appun- tino, 99. Sibille, lodate, 194, Sicilia,
giè congionta all* Italia, 313. Signore veramente degno degli uomini in
terra qual esser dovrebbe, 257. Signori che intervennero a* ragiona-
menti del Corlegiano, enomerali, 12, 13. Signori bnoni debbonsi
eleggere da ser- vire, 96, 97. ~ Signori, favoriscono alle volte chi non lo
merita, 25. Signoreggiare è di due modi, 268. Simnlatìone
de11*aDÌmo impossibile a conoscersi, 104. Sinalto maravigliosamente amato
da Camma sna moglie, 190 e aeg. Sinorige, iofèlice esito de* suoi amori
Terso di Camma, coi ucciso avea il marito Sioatto, 192. Socrate vecchissimo
impara musica, 62. ^ Sente in essa certa divinilè, 88. (Vedi Pitagora.) — Si
diletta delle ironie facete, 143. — Ama Alcibia- de, 909. — Si maraviglia
presso Platone che Esopo abbia tralasciato certo Apologo, 76. Sofl re di
Persia, sua Corte lodata, 170. Sole, bella similitudine d*un raggio di
sole, 285, 286. Sonetto dell* Unico accennato,i7.(Vedi S.)
Spagna, costume di Spagna e d* altri luoghi, 145. Spagnoli lodati, 112.—
Loro abilita, 31. — Maestri della Cortegiania, 95. — Gli stimati sono
modestissi- mi, 96. — Eccellenti nel gioco de- gli scacchi, 106. (Vedi
Mediocrìth.) — Buoni motteggiatori, 117. — Per cagion di chi uccidessero tanti
Mori 218. Spagnolo. (Vedi Diego.) Spartane donne, lodate,
198. Sparvieri. (Vedi Giovanetti.) Specie nmaoa senta donne noopoò
con- servarsi, 181. Speransa nutrisce amore, 225. — Spe- rante di cose
disoneste dee levarsi affatto dalla donna amata all* aman- te, 224. — Sperieosa
perfetiooa il gindìcio, 73. Sposalitio del mare si fa in Veneaia il
giorno dell* Ascensione, 128. Sprettalura lodevole qual sia, 37. — La
troppo affettata si biasima, 36. Squadro degli architetti comparato al
buon principe, 260. Stadio di quanti piedi sia, 168. Stagira,
patria d* Aristotele, da chi • per qual cagione riedificata, 281. Statue
di vani metalli fecero gli antichi per onorare i celebri capitani, e per
istimolo alla loro imitaaione, 248. Statura più conveniente dell* uomo e
del Cortegiaoo qual sia, 29. Stefano (San) vede i cieli aperti,
301. Stile, donde nasca, 53. Strascino, buffone, 125. Sirozti
(Mesier Palla), ina minaccia a Cosimo de’Medici, 137. Studii del
Cortegiaoo, 58, 59. Sudditi buoni, rendono grande e felice il principe,
269. — Che essi sieoo più savii di lui, è cosa perniciosa e difforme,
246. Superbia dee fuggirsi dal Cortegiaoo, 113. Superstitioni
deefuggir il principe, 267. Suspition di ridere, i motti che in sè la
racchiudono, sono arguti, 146. 33* Oi §rtT»ed- b y
Google 590 INDICE DELLE MATERIE. T
Tjcìlurnità con maraviglia (a ridere^ iòO. Tacilurnit^ di Leona
meretrice, come significata dagli Àteniesii Ì89. — (Vedi Leooa di
bronzo.) Tar(>ea, si accenna il suo tradimento di Roma nella guerra di
Tito Tazio> 196. Tatto, non e a proposito per fruir la bellezza,
264. Tedeschi, superati da Mario, H96. (Vedi Germane.) — Tedesco come
sala- tasse il 6eroaìdo,e come da esso ri» salutalo, 135. Temistocle, suo
detto intorno a’ vecchi, 74. — Sua bella sentenza, 272. Temperanza libera
da ogni perturbazio» ne, a aual sorta di capitano compa* rata, 254 — *È virtù
perfetta, ivi. — Dovrebbe possedersi da* principi, ivi. Da essa nascono molle
vir» lù, 255. Tempo, giusto giudice del merito degli scritti, 5. — >
Scuopre d*ogni cosa gli occulti difetti, ivi. Tempi passali, lodati alle
volte non senza errore, 73. Teodelioda regina de* Longobardi, lo» data,
198. Teodora, greca imperatrice, lodata, ivi. Teofraslo, conosciuto
forestiero io Ale» ne per parlar troppo ateniese, 4. Teologi, scherzo
inloroo al medesimi, 138. Terra scavata nel far i fondamenti del
palazzo ducale d* Urhioo , dove s* avesse a riporre per sciocca opi- nione di
certo Abbate, 126, 127. Tesauriero. (Vedi Dio.) Teseo, lodato,
271. Tevere, ove il Tevere entra in mare, vennero dopo la guerra alcuni
Troia- ni, 194. Timidità, alle volte cagiona il riso, 150 — Timiditli,
nelle donne onde na- sca, 184. Timore de* buoni prìncipi 4 per li po-
poli, non per ab stessi, 261. Tirannide, è il pessimo de* tre governi
mali, 258. I Tiranni, deieslalt, 271. — Temono per loro, non per i
saddili, 261 . Tito Tazio, re de* Sabini, lodato, 195. (Vedi
Tarpea.) Toisoo d*oro. (Vedi Cavalieri.) Tolosa (Paolo),
motteggiato, 147. Tomiris, regina di Scizia, lodata, 202. Tommaso,
gentiluomo pisano, schiavo de* Mori; come lìl>erato da un suo figliolo , e
quanto amato dalla mo- glie, 192, 193. (Vedi Argentina.) Torello
(Aolonto), sua facezia, 148. Torneanvenii, come in essi debba dipor-
tarsi il Cortegiano, 82. Torre (Marcantonio Dalla), sna novel- letta,
133. Toscane parole antiche rifiutate, debbon- si fuggire dal Cortegiano,
39.— To- scane voci quai sieoo da tralasciar- ti, secondo il Castiglione, 47,
48. Toscani, acuti nc* motti e nelle facezie, 117. Tradimenti anche
amorosi si dannano, 162. Traditori de*piincipi, accennali, 211.
Tranquillila, 4 il fine della pace, 2u4. Trofeo della vittoria dell*
anima qual ! sia, 202. Troia perchè resistesse diecianni a tutta Grecia,
217. — Huina di essa da chi cagionala, 289. Troiano cavallo comparato
colla Corte d* Urbino, 241. — Troiane donne come influissero alla grandezza di
iloma, 19i. — Troiani si dispersero dopo la guerra, ivi. Tromlietta,
lepida risposta d'un di co- storo, 135. Trombone, suonalor di esso perchè
lo- dalo da un goffo Bresciano, 128. Tullio. (Vedi Asino.) Turchia,
il Castiglione esorta il re di Francia a muoverle guerra, 309 e « 8 *
Turchi, cosa più stimino nelle persone grandi tra di loro, 138. Battuti più
volte da Mattia Corvino re d’ Ungheria, 310. Turchi c Mori troverebbero
la lor sa- lute nella propria mina, 272. (Vedi Morì.) — Guerra contra di essi
de- siderata, e Iodata, ivi. Turco, sua Corte accennala, Ì70.
I Tìmrtlinrt bssl INDICE DELLE MATERIE.
591 u Vbal(}ÌDO OltavianOi i44. Uli&sfj nelle
passioni e loleranie for- mato <3a Omero, 281. Ungheria. (Vedi Mattia
Corvino.) — Re- gina d* Ungheria, moglie del re Mattia Corvino, lodala,
20t. Unico (V) 0 runico Aretino, Pietro Accolti, uno degli Interlocutori
del presente Dialogo; suo sonetto sulla lettera S portata in fronte dalla du-
^essa di Urbino, i7. Uoiversal bellcxxa fa rivolger Tamante in se stesso,
300. Un solo in molte cose preposto a go- vernare, 256. — Un solo più
facile a pervertirsi che molti, si prova con una similitadine dell’acqua,
257. Uomo, che si può dir picciolo mondo, descritto, 29 i. Uomo,
sua proprietà e distintivo, 172. — Perche dicasi odiare la prima donna con cui
si sia mescolalo, 182. Uomini, sempre cupidi di novità, i. — Si dilettano
di riprendere, 2, 3. — Più buogaosì di tutti gli altri ani- mali,249. — Uomini
belli alle volte degni dt biasimo, 289, 29Q. • — . Uo- ' mini di grande
statura, per lo più di poco ingegno e di poca agilità, 29.
Urbanità, cosa $13,418. Urbino descritto, 8, 9. — Sua Corte lodata, 19,
77, 168, 169, 2H, 242. — Acuto detto del duca d’Urbìno, 144. — Palazzo pubblico
di quella città, lodato, 271. (Vedi Federico. Palazzo ec.) Uso, sna
forza, 8. Utilità e bellezza vanno del pari, tanto nelle cose della
natura, come del- l’arte, 290, 291. V Vaccaro bergamasco. (Vedi
Castiglio.) Valole (il), e non la moUiiudine de’sud- dili, rende grandi e
felici i principi, 269. — Valore proprio dee conside- rare il Cortegiano,
95. Valorosi uomini come si portino con le donne, 163, 165.
Ventatori due; lor detti, 28. Vasi lessi ripieni di liquore,
leggiadra- mente comparali agli uomini posti nei magistrali, 260.
Vecchiaia, comparala all’ inverno, 74. — Ad una nave che si parte dal porto,
ivi. Vecchiezza verde c viva, lodata, 90. Vecchi, lor natura, 74. —
Loro iodu- fttrie per parer giovani, 88. — Lo- dano i tempi passali, biasimando
i presenti, e jiercbè, 73, 74. — Dan- nano motte rose, 75. — Loro scioc- chi
detti, 77. — Alle volte buoni mosiri, 88. — Da che debban guar- darsi, ivi.
fVedi Viola.) — Quali csercizii debban fuggire, 27X, 280. — Cose a loro
disdicevoli, 283. — sensualmente innamorali, quanto degni di biasimo, 288. — ~
Come debbano amare 294 e scg. Vendetta nobile, detto per ironìa,
206. Veleno, comparazione di esso con amo- re, 109. (Vedi Cicuta.)
Venere Armata, perchè con questo titolo fosse un tempio in Roma a lei sa- cro,
196. Venere Calva, tempio in Roma eoo tal nome, e perche, 196.
Venesiani, non otiimi cavalcatori, 37. — Portavano le maniche a corneo, 102. —
Amicbevoloieale motteg- giati, 127. Vergogna nobile, propria delle donne
ben nate, 176. — E gran virtù, 'J05. Da chi, e per ordine di chi, al mondo
recata, secondo le Favole, 249. Verità, il difenderla c olTicio di buon
cavaliere, 204. — Dirla al principe sempre ed in ogni cosa è il vero 6ne del
perfètto Cortegiano, 244, 245, 247, 280. — Quanto do- vrebbe essere a cuore al principe,
e quanto dovrebbe esso industriarsi per conoscerla, 266. Versi. (Vedi
Petrarca. Sannazaro.) Vescovo di Potenza, proposto a farne un mattonato
ad una stanza, 132, Vestiti bene, seguiti dagli sciocchi, 100.
Vicende umane accennate, 281. Viduità, vivente il marito, in che con-
sista, 214. Villani. (Vedi Nobili.) Xiloli'*^ by Google
592 INDICE DELLE MATERIE. Viaci (Leonardo da)
pittore eccellente, ÓO. (Vedi Leonardo.) Vino. / no lo conocistes j
scherzo di Diego de Cbjgnones,i36. Vino d'una stessa qualità, Iodato e
hia- simato per falsa opinion che fosse diverso, 111. Viola, cantare alla
viola, lodato, 87.-» I vecchi lo facciano in segreto, 88. (Vedi
Sansecondo.) Viole, musica delle quattro viole da ar- co, lodata,
87. Virgilio, ripreso perche non parlasse romano, 47. ~ In che imitasse
Omero, 44. — Imitò Esiodo, ma non in tutto, e perciò il superò, 49.
Virile etk, ò la più temperala, 89. Virtù vera qual sia, 185, 261. — Non
nuoce mai ad alcuno, 273. Virtù, una e principale io tutte le operazio- ni, 81.
— Virtù (la) esser femioa, e il vizio maschio; gentile scherzo d*E- milia Pia,
166. — Virtù che paiono date agli uomini dalla natura c da Dio, 249. — Virtù,
si possonoiropa- rare, 250, 251 . — Virtù, utili e ne- cessarie debhonsi
esercitare nella guerra, 264. -» Della guerra, e one- ste della pace (che sono
il 6ne delle ntili) enumerate, ivi. ~ Virtù d*un buon principe, 248. — Tutte
non si possono esercitare dai perfetto Cortegiano, 279. — Virtù necessa- rie
alla Donna di Palatso. 177. — Visiva virtù, ha per proprio obietto la
bellezza, 294. Vita, non dee mettersi a pericolo per cose di poco
momento, 82. — Vita più lunga, secondo 1* autore, vivono le donne, e perchè,
184. — Vita at- tiva e contemplativa, qual di esse più convenga al
principe, 261,262. (Vedi Contemplativa.) — Vita del buon principe qual esser
debba, 261. Vittoria dee avere io pugno chi si mette a qualche impresa
cogli inferiori, 84. Vittorie gloriose di donne, 180. Vivaci più
degli uomini sono le donne, e perchè, 184. Vizio che cosa sia, 251. —
Esser ma- schio, e la virtù femioina; gentile scherzo d*EmiliaPia, 165. — Ove
non fu gran vizio nou fu grau vir- tù, 76, 77.»-Levando i vizii, si le- vano le
virtù, 78. — Vizii Don sodo affatto naturali, 250. — Sopravven- nero alle
virtù, 76, 77. — Vitii che debboosi fuggire nelle profes- sioni di ciascuno,
84. Vocaboli stranieri alle volte si debbono usare, 46. — Vocaboli
toscani cor- rotti dal latino, 4. Voci nnove e formate da* vocaboli
latioi e greci, si lodano, 46. Volgar lingua, sua origine, 43 e seg.^ Jn
che consista la sua bonlè, 52. — Ancor tenera e nuova a*tempi del- 1* autore,
43. — Più colta in To- scana che io tutto il resto d* Italia, tvi.
z Zaffi, hcrgimaico parlare, 153. Zenobia, lodata, 202. Zeuti
elegge cinque bellissime fanciiine di Crotone per trarre da esse una sola
pittura ecceìlentistiroa, 69. Zibellini, gran copia d'essi trovasi nella
Moicovia, 129. a -u.
595 SOMMARIO. DEDICA DELL’AUTORE. Pcirh* il
Castiolioki scriveise quelli libri del CoUTfGlAllo , e qnilc motiro
lo iodacette a publicarli Pag. 1 Elogio di alcune fra le perione
meniiopale aell* opera. . 3 Ribatte le accnie mone contro questi tuoi
Libri : che non siano scritti colla lingua del Boccaccio 3 Che, per
essere quasi impossibile trorare un perièlto Cortegiano, debba dirsi
superRuo il descrirerlo 5 lufìne, che nel perfetto Cortegiano abbia
roloto ritrarre sb stesso ivi Libro Primo. t, II Castiglione
scrive il Dialogo del Cortegiano ad instanaa di Alfonso Ariosto. .
7 11-111. — Elogi del duca Federico, e del suo Bgliolo Guidubaldo.
8 lY-V. Cotte d’ Urbino. Uomini insigni che vi praticavano. .
VI, In quale occasione vi ti lenessero i seguenti ragionamenti VII,
— Primo gioco, proposto da Gaspab Pai.l* vicino Vili, — Secondo gioco,
proposto da Cesabi Gouzaga IX. — Terao gioco, proposto da risA
ScBArino I. Quarto gioco, proposto dall* Pinco AnuTiMo X. — Quinto
gioco, proposto da Ottaviah Feeooso XI. — Sesto gioco, proposto da Pirreo
Bembo. . . XII. — Settimo gioco, proposto da Fenaisico Fetooso: Formare
con parole un perfetto Cortegiano. È scelto ad argomento deidiscorti di
quella sera. 12 XIII. XVl. — 11 Conte Ludovico pa Cakossa, al quale ne b
dato l’ incarico dalla Signora Emilia, descrive le qualità che ti richiedono in
un per - fetto Cortegiano; ed in prima vuole che sia nato nobile; nel che gli
con- tradice Gaspab Pahaviciko. 2tt XVII-EYIII. — Principale
e vera occnpaiione del Cortegiano sia quella delle arme. Si guardi
tuttavia dal fare il bravo ed il millantatore 2fi XIX.XXll. — Sia ben
formato della persona, ed abile nella lotta , nella cac - cia , nel volteggiare
a cavallo, ed in simili eterciiii 28 XXIil-XXVI. — Come ti acquisti
grafia negli eterciaii del corpo, ed in ogni cosa che si faccia o dica
32 Digitized by Google E? fi e; e c: e c ti
394 SOMMARIO. XXVII-XXVIII. — Sopritutlo e eoo sommo studio si
fugga I’ afietla- xione . •fVlX-XXXlX. — Discussione tra Lodovico
pa Cawossa e Fiuebico Fbb - ooso sull’ uso di parole e di modi antiquati nel
parlare e Dello scrivere ilaliano M XL-XLI. — Ludovico da Cahossa
ripiglia il discorso dei danni dell’ aSet- taaione 53 XLIl-XLVl. —
Il Cortegiano sia uomo di lettere. Discussione tra il Cawossa e il Bembo,
se le lettere o le armi tengano il primo luogo 56 XT.vil-XLVIll. — Sia
conoscitore di musica , e sappia di varii istrumenli. Lodi della musica
63 XLtX. — Sappia disegnare e dipingere 64 L-Llll. — Quale sia di
maggior pregio , se la pittura o la statuaria 66 LlV-LVl. —
Sopragiunge Fbaacesco Mabia d«lla Rovbìi Prefetto di Roma, con
altri gentiluomini. La continuasione del ragionamento del Cortegiano è
limandata alla seguente sera, cd affidala a FedeticoFregoso. 69
Libro Secondo. t.lV. Consoetudine dei vecchi di laudare i tempi
passati, onde provenga. La Corte di Urliino non essere di minor laude
degna, che quelle cele- tifate dai vecchi • Ti V-VIll. Fadibico
Faiooso ripiglia il ragionamento del Cortegiano; in che modo e tempo
debba questi usare le sue buone condiaioni 78 tX-XI. Armeggiare,
giostrare, damare, ed altri eseteieii che si fanno in Xll-XlV.
Quando ed a qual sorta di musica delilsa dar opera il Coetegia - no. 1
vecchi non attendano alla musica fuorché in secreto 86 IXV.XVl. — Vecchi
e giovani, pongano cura in fuggire i viaii proprii della loro 8®
^Vll, Al.bia una gentile e amabile maniera di conversare 90 XVIIl-XX. —
Come debba comportarsi nella conversaeione col tuo principe. Hi XXl-XXH.
— E quale sia miglior via per ottenerne i lavori >5 XXIll. Non doverti
obedire il principe, ove comandi cola disonesta. « . . 97 XXIV. — Quando
ti postano a buon fine oltrepaMare i termini del coman » dannento
98 XXV. Mon ai cerchi afl’ettattmente la convetsauone dei maggiori,
ne <}uella del principe. 19 XXVI-XXVll. — Quale foggia d’ abito
meglio convenga al Cortegiano. ■ . 100 XXVlll. Spesso da indieii esterni
tarsi anticipato giudiaio delle persone . 103 XXIX-XXX. — Kletion degli
amici. Lodi dell’ amiciiia 103 XXXI Dei giochi • • 305 XXX ll-XXXV.
— Procuri nei prinespii, ed ove non sia conosciuto, di dar ■luioiu
impressione di lè. Fotta delle opinioni preconcette 1Q6
SOMMARIO. 395 XXXVI. — si aittngi da ogni allo o
paro!» diionetta o groiiolwi». ■ Fag. Ili XXXVII. — Cotnparaiiont dei conumi
franceii t ipignoli. Utilità della co - noiKn» di rane lingoe 112
XXXVIII-XL — Il CorUniaoo procnri di porre in vUta le au« buone condi -
iioni,e di coprire le meno laudevoli 113 XLl. — Funga di parer bugiardo o
Tano 116 XLll-XLIIl Dalle >ACiai». Se aiaoo dono di natnra o J arie.
Dua lorti di factaie : /ettivilà od urbanità, t delti od arguti»
117 XLIV. — 11 ragiopamento delle factaie fe commtaio a B«ma»do Bhuiia. .
il9 XLV-XLVI. — Il riso onde proceda. Non ogni coaa ridicola è idoneo argo
» manto di faceiia 120 XLVll. — D’onde ai traggono molti ridicoli,
ai poaaono trarre anche ttn » ttnn i21 XLVIII-XLIX. — Teraa torte
di faceiia, la burle. Ettmpii di factaie della prima aorte, oaiia dalle
/ìgatiVità . o nariaiioni cominnatt 123 L. — Norma da oittivarai in
questo mntre di fareait 124 U-LII. — A nueata aorte di faceiia
airpartieoe la narraaione di alcun difetto o teioccheaia di altra peraona
125 LIV-LVl. — Affetlaiiooi e )>uKÌe foordi mitura 129 LYII. —
Factaie dalla seconda aorta, conaiatepti in un detto tolo, od gryia- •
zie. Mon siano iciocche oa maligne 131 LVIII-LIX. — Delti ambigui. Talora
sodo più iogegnoti che ridicoli. Non siano freddi; nè acerbi e discorleai
ivi LX-LXlll. — Bischiaii. Parole o detti preti in sento diverso. Falsa
iotarpre - taiione e finiione di nomi e di cote 13.1 LXIV-I.XV1. —
Detti gravi; loro natura ed uso 136 LXVII. — Comparaiioni ridicole.
139 LXVIII-LXIX. — Il motte;!giare non sia empio nè osceno lAO LXX.
— Iperboli ed esageraaioni 141 LXXI. — Riprensioni dissimulata 142
LXXII. — Detti conirarii ivi LXXlll-LXXIV — Ironia. Conviene
prineipalmente alle persone gravi ed eatiroite 143 LXXV. —
Scioccbeaia simulata 144 LXXVI. — Pronte e mordaci riapoile 145 LXX
VII-LXXVIII. — Motti aventi una nascosta suspiaion di ridere. . . . 146
LXXIX. — Cose discrepanti. 14g LXXX-LXXXII. — Fingere di non intendere, e
simili detti dì luscotta o simulata significaiione ivi LXXXHI. —
Regole da osservarti nelle faceiie 150 LX'XXIV-LXXXVIII. — Delle burle.
Sono di due tpeiie 151 LXXXIX. — Non pattino alla barraria, nè rechino
odfesa alla oneslù delle donne. 157 596 SOMMARIO.
XC-XCVJ. — Perchè più discoatenga punger le doaue che dod gli uomioi in
fatto di onesti Pag. lòO XCVII-C. — 11 MACMirico GiPLiAito è incaricato
di formare, nell’ adunania della seguente sera , una perfetta Donna di
Palario Libro Terzo. 1. — Quanto la Cotte di Urbino fotte sopra
ogni altra eccellentei ed ornala di uomini singolari 168
11-111. — Della utililà di trattare della perfetta Donna di Palano 169
IV. — Molte fra le qualità onde ha ad estete ornato il Cortegiano, conven
- RODO altresì alla Donna di Palaato 171 Y-Yl. — Sopra ogni cosa le
è necessaria nna certa aETahililà piacevole, onde gentilmente intertenere. Non
sia nè troppo ritrosa , nè di modi troppo liberi; fogga la maldicenia; sappia
all’ uopo tener discorsi gravi o fe« stCToli 173 VIl-lX. — Come ed
a qual fine debba far uso delle tue buone qualità. ■ . . 175 X-XYIII. —
Contendendo Gaspah Pallaticiwo, estere impossibilità ridicole quelle di che il MagniBco
Giuliano vuole ornata la Donna di Palano, qnesti passa alle lodi delle donne;
ed in prima contende , non estere animali imperfettissimi, come
asteriTa Gatpar PallaTicino Vii XIX. — Oltre la Vergine Nostra Signora,
molte donne furono intigni per santità. 185 XX. — Digretsione del
MagniBco Giuliano contro i frati ». ivi XXl-XXVII. — Etempii di donne
intigni per eirtù, per coraggio, o per pii « dicitia « 187
XXVIll-XXXII. — Eiempii di donne, che furono agli nomini causa di bene. 193 XXXlll-XXXVI.
— Altri etempii di donne celebri, fra le quali Isabella re- gina di Spagna •
197 XXXVII-XLIX. — Della castità delle donne comparata con quella degli
no- mini. Etempii di donne pudiche SOS L. — A quali e quante prore
resista 1’ onestà delle donne. 314 LI-L(I. — Nuovi eiempii di donne
insigni; e quanto bene dalle donne de- rivi agli uomini 316
LIll-LV. — Come la Donna di Palatao debba comportarsi con chi le tenga
tagionamenti di amore . 819 LYI-LIX. — Quando e come sia lecito alla
donna di amare 331 LX-LXllI Come ai ottenga amore, e quali ne siano gli
eBètti 336 LXIV-LXXIH. — Dimostrasioni di amore. Secreteiia. Come si
acqniati e si consetTi 1* amore di donna. 888 LXXIV-LXXV. — Nuove
accuse di Gasfàr PALtAviciiio contro le donne. 336 LXXVI-LXXVII. — Ottaviano
Faicoso conchinde, estere stale le donne troppo biasmate da Gatpar Pallavicino,
e troppo laudale dal Magni6co. Digitized by Google
SOMMARIO. 397 Vuolt si troTino nel CoHeniano
altre gualilì oltre le gi^ dtUe, td ^ io - caricato di eaporle
nella seguente riunione Rag. 338 Libro Quarto. I.
L’Autore compiange la morte di Oaspar Pallaeicino, di Cesare Conia-
240 11. — Elogio di altri fra i caialieri della corte di
TIrbioo 3il ilUVIo — Il signor Ottaviaho, ripigliando il
ragionamento del Cortegìaoo» dice , le buone qualilli del roedeiimo allora
essere veramente degne di lode 9 se indràsate a guadagnarsi la gra&ia del
principe 9 onde dirigerlo 243 VII-VIM. — Quanto difficilmente la
rerili ginnga al principe, e danni che 245 IX-X. — Officio
del Cortegiano i di guidare il principe per 1’ austera strada
247 XI-XVI. — Se la lirlù possa insegnarsi. DaH’ignoranaa nascere
lutti i mali. 34» XVII-XVIII La continenaa eaaere lirlù imperfetta.
Ilon dorerai però svclfere kH a 0 elti, ma dirigere al bene
253 XIX-XXIV. — Se sia più felice dominio quello di un buon principe, o
di 256 XXV-XXVI. — Quale rila più conrenga al principe, se
l’ attira o la con- 261 XXVII-XXVIII. — Fine della guerra dere
essere la pace. Virtù necessarie 263 XX IX. L* educatiooe
doversi incominetare colla consoetndine, prosegaire 265 XXX.
— Altri consigli • che nn buon Cortegiano dovrebbe dare al principe. .
ivi XXXt. — Di formare un consiglio dei pih nobili e laviit far eleggere
un al- tro consiglio dal popolo; si che il gorerno, nascendo dal
principe, par- 266 XXXII-XXXy. — Di essere giusto,
pio, non supersticioso, amante della pi- triae dei popoli; di non
tenerli nè in troppo servitù nè in troppo li- berta; di cercare 1 ’
amore dei sudditi, procurando di renderli buoni e 267
XXXVI-XLII. — Utili e landevoli essere le grandi opere, ma più utile la
giustizia e il Iien go.eroare s popoli. Lodi di Francesco di Francia,
di Enrico d’ Inghilterra, di Carlo di Spagna ■ e di Federico di Mantova.
. 269 XLIII-XLVIII. — Eccellenza di un buon principe. Quanto anche
il nome e le qualilli di perfetto Cortegiano siano degni di laude.
Esempli dì Fe- nke« di Platone e di Aristotele cortegiani
?76 XLIX-LII. — Essendosi mossa questione, se il Cortegiano abbia ad
essere innamoralo, PiETno Dehbo si fa a parlare dell’ amore e della
bellerza. 283 5i Digiiized by Google
398 SOMMARIO. Lll UL1V« — Errori 4t che i leoii sono cagione in
amore, principalineote nei Pag. 587 LV-LVl. — A Mo&bllo
da Obtora , il più ▼ecchio fra i caTalieri della corte di Urbino, il quale non
vuole che Tamore aia trattenuto fra i limili po* stigli dal Bembo, rispondono
Ludotìco CAHossAe Feoieico Friooso. 588 LVIULX. — Il Brmbo ripiglia il suo
ragionamcntos la belleisa estere cosa sacra, ed in se buona} non doversi col
nome di belleata chiamare le blanditie disonesle, nè Pimpudenia 590
L'XULXIV. Come abbia ad amare il Cortegiano non giovane, e quanto r amor
raaionale sia più felice dell’ amor sensuale 593 LXV-LXVI. — Rendersi 1*
amore pio felice e meno pericoloso considerando la belleasa in tè stessa,
semplice e pura, astratta da ogni materia. . . . 597 LXVII. — Dall’amore e
dalla contemplaaione di una beliessa si passi a quello della
belletta universale 599 LXVllI. — £ da questo all* amore e alla
contemplaaione della belletta del* 1* anima, e dell’ angelica ivi
LX1X*LXX. Onde si ascenda alla contemplaaione della divina belletta. Preghiera
del Bembo a DIO, Amor santissimo, fonte di vera e sola felicità 301
LXXl-LXXlll. — Gasrar Palla vicino oppone, la strada che a questa feli- cità
conduce essere tanto erta, che 1’ andarvi riesce agli uomini difficile, alle
donne impossìbile. Onde essendo accusato di far ingiuria alle don- ne, si
rimette la questione al giudiiio di Pietro Bembo 303 ALCURI PASSI
DEL COBTEOlAHO DIVERSI DALLO STAMPATO, TRATTI DAI MAROSCBITTI OBIGIVALI
DALL* ABBATI PIBRARTONIO SRBASSl. Proemio del Cortegiano a Messer
Alfonso Ariosto 307 Altro Proemio del Cortegiano, tratto dalla prima
botta dell’ Autore 315 * Motto di Bernardo Bibiena (Lib. Il, cap. 63)
316 Motto di Papa Giulio II (Lib. Il, cap. 63), ivi Motto del conte
Ludovico da Canossa (Lib. 11, cap. 78) 3J7 Lodi di Francesco Maria della
Rovere (Lib. IV, cap. 5) ivi Lodi di Federico Gootaga Marchese di Mantova
(Lib. IV, cap. 45). ..... 318 AiTNOTAziom • 351 Catalogo
cronologico dille pbihcipali edizioni del Cortegiano 349 Indice DELLE
materib 361 Digitized by Googre Digilized by
Google \*TOiwVm« \'u\tW\c(\ùom. nuovo TESTAIEITO DEL
SIGHOB HOSTBO (SSD CBISTO, secondo la Volgala, tradolio in lingtia
italiana e con tinnolu* zioni dichiaralo da Monsignore Antonio niartinl,
arcive- scovo di Firenze, — Un sol volume Paoli 7. LA COM BEDI A DI
DANTE ALIGHIERI norentino , novamenlc riveduta nel testo c -didiiaruta da
Brunone Bianchi. , corredata del «inAHio. — Un volume. 10 OPERE DI
CESARE BECGARIA, premessavi la Vita di Lui serilia da Pasquale Villari. —
Un volume 7 OKjRE SCELTE edite e inedite di LUIGI CARRER.
saratino due volumi. Ulto conterrà le Poesie, l’altro le Prose. Il primo
avrà in fronte un bel ritratto dell’Autore, ed un Commentario dell a vii a e
delle opere di lui, per Birolanio Venanzio. 14 LETTERE OpiTE DI LODOVICO
UTOIIO HUBITOBI striuc a Toscani, con annotazioni dichiarative. Le
Lettere ollrepas .sano il numero di 400: saranno disposte per .sezioni secondo
1 personaggi a cui vennero indirizzate, supplendo con una tavola. generale
all’ordine cronologico. — Un volume. .■.‘.7 VffA DI COLA DI RIENZO,
tribuno dei Popolo’ romano, scritta da incerto autore nel secolo XIV, ridotta a
Migliore le- zione, ed illustrata con note ed osservazioni storico-critiche da
delirino Be Cesenate; con un comcnto del medesimo sulla canzone del Petrarca
Spirto gentil che quelle membra r^OVi- — Edizione .seconda riveduta ed
aumentata. — Un voi 7 ^ IMTAZIONE DI G;ESU CRISTO, volgarizzamento
anonimo del buon secolo della Lingua, tratto dà Vàrissima edizione an-
tica non rammentala dai bibliograa^ Ì per cura del dottore, Alezzandro Torri
corredalo di .documenti intorno al- l’Autore dell’ ope a originale
latina Qiovanni Ctersen di Lavimlià, Priore dell’ Ordini* Bcnédeltii
ì ,, - - «„i«„..y.t ino di Santo Stefano di ercelli;
con un saggio bibliugrancò-cronulogico delle tradu- zioni in più lingue e deUe
stampe che dal 1471 Duo al pre- sente ne furono pubblicale. — Un voi . 7
I CESARE RALBO, pubblicate per cura di Bii- iniwiir
*®r****f*"‘^ aggiuntivi alcuni Frammenti edili ed meuiii, - tu voi.
. Febbraio, 1SS4. INome compiuto: Baldassarre
Castiglione. Castiglione. Keywords: civil conversazione, conversazione del
cortegiano, conversazione dei cortegiani, Guazzo, antidoto di Mercurio,
conversazione -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Castiglione,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Castrucci:
la ragione conversazionale el’implicatura conversazionale del guerriero
indo-germanico -- sul conferimento di valore – scuola di Monterosso al Mare –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Monterosso al
Mare). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Monterosso al Mare, La Spezia,
Liguria. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di La Spezia,
iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di
ricercatore universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in
contatto per un breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia
Operaia espressa all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua
tesi di laurea (Tra Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a
Genova e Siena. I suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e
la storia delle idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi
della dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la critica
dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre le
origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. C.
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in particolar modo filoni di pensiero
riconducibili alla rivoluzione conservatrice europea, contribuendo inoltre alla
diffusione nella giurisprudenza italiana del nomos della terra, con cura
editoriale dello storico della filosofia di Volpi e di Legge e giudizio. Uno
studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”, “forma”, “potenza”
sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica europea di cui,
nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo storico-genealogico e vengono
indagate le implicazioni teoriche. La convenzione, o per meglio dire l’ordine
giuridico convenzionale, è il concetto che corrisponde al modo in cui la
razionalità giuridica affronta il problema di un ordine giuridico tecnico,
artificiale, positivista, svincolato da quelle premesse di valore di tipo
teologico o metafisico o naturale che avevano caratterizzato il diritto romano.
Delinea in questo senso la storia e la teoria di un ordine convenzionale (o
artificiale e non naturale) nel quadro della modernità matura, che dal Seicento
barocco procede fino alla crisi della cultura del primo Novecento. Accade in
questo quadro che il primato classico dell'idea filosofica di forma venga
sostituito da quello, tipicamente moderno, dell'idea di decisione. La decisione
si contrappone così alla forma. Confrontandosi con i campi diversi della
filosofia politica, dell'etica e della letteratura, l'analisi incontra figure
significative di filosofi e scrittori come Benjamin, Musil, Valéry. Il
complesso apparentemente discorde delle loro voci, che C. analizza, porta
all'idea di una forma elaborata su basi rinnovate rispetto all'impostazione
“formalista” e “normativista” di ascendenza kantiana, a lungo prevalente nel
campo dell'estetica e della teoria del diritto. Nello sviluppo storico e
genealogico dell'idea metafisica di potenza si possono infine riconoscere,
secondo C., le linee di un'antropologia politica fondata su basi
individualistiche (potenza come acquisizione di spazio, ossia affermazione
individuale nella spazialità: Selbstbehauptung), che però non trascura il serio
problemaposto nel corso del Novecento dalla migliore dottrina costituzionale
tedescadel radicamento materiale e simbolico del singolo individuo nella
comunità politica di appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento
individuale e comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il
riferimento all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento,
elaborata da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di
potenza già rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.
L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare,
seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura,
una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva
concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla
"nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi
particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di C., la
ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste,
l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori
classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e
Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas,
nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un
mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche
alcuni suoi tweet, a partire da uno col quale si riferiva a figure storiche
naziste come Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di C. "Vi
hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto
contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo" e Corneliu
Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo la diffusione di questo
tweet, ne sono stati portati in evidenza altri, ritenuti di matrice
filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti nei riguardi del
Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex Presidente della Camera
Laura Boldrini. Replica affermando di aver semplicemente espresso un giudizio
storico personale avvalendosi, al di fuori della sua attività didattica, del
principio di libertà di pensiero e successivamente, in una memoria difensiva
dei suoi avvocati, di non aver mai aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di
essere un libero pensatore, sottolineando inoltre come la propria critica,
volutamente provocatoria e paradossale, andasse piuttosto intesa come
indirizzata contro la grande speculazione finanziaria, con esplicito
riferimento alla lotta contro la finanza speculativa, l'usura e il signoraggio
bancario di Pound. Il suo account è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore
dell'Università degli Studi di Siena Francesco Frati ha preso le distanze da
C., annunciando di aver "dato mandato agli uffici di attivare i
provvedimenti conseguenti alla gravità del caso" e, successivamente, di
aver presentato un esposto in procura dopo aver ravvisato "un profilo di
illegalità" nelle parole del docente, ipotizzando il reato di odio
razziale con l'aggravante di negazionismo. Dopo la sospensione, C. non si è
presentato alla Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non
legittimata a giudicare sul suo caso, mentre l'iter procedurale che avrebbe
potuto condurre al licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di
pensionamento presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata
affidata per motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine
convenzionale e pensiero decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e
"Rechtsidee". Il pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano,
Giuffrè Editore); La forma e la decisione, Milano, Giuffrè); Considerazioni
epistemologiche sul conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione
alla filosofia del diritto pubblico di Schmitt, Torino, Giappichelli); Hume e
la proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre);
Schopenhauer filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena.
Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali);
Ricognizioni. Quattro studi di critica della cultura, Firenze, S. Gallo);
Lezioni di filosofia del diritto, Roma, Aracne Editrice); Per una critica del
potere giudiziario. Sugli articoli 101 e 104/1 della Costituzione, Firenze);
Profilo di storia del pensiero giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia
dei diritti dell'uomo, Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di
Pitagora); Il regime giuridico delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le
radici antropologiche del politico, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La
teoria indoeuropea delle tre funzioni in Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè
Francis Lefebvre); La forma giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di
filosofia del diritto, Napoli, La scuola di Pitagora); Individualismo e
assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes, C.,
Milano, Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi,
traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra,
Franco Volpi; Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della
prassi giudiziale, C., Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia
politica, Mulino); Dai diritti individuali ai diritti umani: un totalitarismo
in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un recente scritto di Castrucci, in
Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari della forma giuridica.
Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo Novecento, Milano, Giuffrè);
Ordine convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti
intellettuali dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La
forma e la decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero
decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La
forma e la decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di
filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffrè). HOMO ABSCONDITUS L’IDEOLOGIA
TRI PARTITA DEGLI INDOEUROPEI il Cerchio Iniziative editoriali L'IDEOLOGIA
TRIPARTITA DEGLI INDOEUROPEI costituisce una sintesi completa ed accessibile
degli studi di Dumézil. che hanno rivoluzionato la nostra conosceza delle
antiche civiltà euro-asiatiche. La struttura fondamentale del pensiero
religioso e sociale delle popolazioni uscite dalla comune radice indoeuropea.
dallTrlanda allTndia, la tripartizione sociale in Sacerdoti. Guerrieri e
Contadini che è presente nelle origini di Roma così come nei miti iranici,
germanici e celti, si rivela essere lo specchio di un'armonia divina, in cui
gli stessi dèi sono così suddivisi, classificati e diversamente adorati. È la
dimostrazione di come, nelle civiltà tradizionali, anche l'aspetto sociale e
politico dipenda radicalmente dalla dimensione mitico-religiosa. e il mondo del
divino diviene l’archetipo che dà forma a tutta la società degli uomini.
DUMÉZIL è una figura fondamentale nel panorama culturale europeo. Filologo e storico,
riavviato gli studi attorno alla civiltà indoeuropea nelle grandi civiltà
precristiane: Roma. l'India. l'Iran, la Grecia, le popolazioni celtiche e
germaniche. Ha lasciato una bibliografia sterminata, solo parzialmente tradotta
in italiano, fra cui ricordiamo almeno La religione romana arcaica, Gli Dèi dei
Germani, Mito ed Epopea e Gli Dèi sovrani degli Indoeuropei. HOMO ABSCONDITUS
Dumézil L’ideologia tripartita degli Indoeuropei Con un saggio introduttivo di
RlES il Cerchio Iniziative editoriali L'idéologie tripartie des Indo-Européens,
Bruxelles Sigillo del re ittita Tarkummuwa, re di Mera. Walters Art Museum,
Baltimora. II Cerchio Srl La riscoperta del pensiero religioso indoeuropeo
L’opera magistrale di Dumézil. Calmette rinvenne i primi due Libri dei Veda, u
n documento coni p letamente sco nosciuto i n occidente, e i preziosi
manoscritti giunsero nella Biblioteca Reale di Parigi. Davanti all’Asiatic
Society of Bengala, Jones pronuncia un dotto discorso in cui dimostrò
l’esistenza di una lingua comune, madre del sanscrito e del greco. Eccoci alle
soglie della riscoperta del pensiero indoeuropeo. Il primo dossier indoeuropeo
Il XIX secolo riprese i lavori di questi pionieri e cercò di compiere nuove
scoperte sul pensiero asiatico. Ricercando i documenti dell’antica mitologia
germanica caduti nell’oblio dopo la conversione dei Germani al Cristianesimo,
gli storici tedeschi tentarono di tornare alle origini spingendosi nei dominii
dell’India e dell’Iran. Particolarmente due pubblicazioni provocarono grande
risonanza: la prima è la celebre opera di Creuzer Simbolik undMvlhologie der
altea Vòfker, tradotto in francese; infine Gòrres pubblica il suo
Mythengeschichle der asiatischen Welt, in cui questo precursore del
romanticismo religioso cercò di d imostrare che i miti dell’India, dell’Iran e
della Grecia veicolavano una dottrina comune su Dio, l’Anima e l’immortalità.
Sulla scia dei loro maestri i mitografi romantici si lanciarono alla ricerca
delle prime idee religiose dell’infanzia umana. Oltre a ciò questa corrente si
occupò dell’espressione e delle modalità di trasmissione del messaggio
religioso sin dalle origini dell’umanità. A questa corrente romantica si oppose
la ricerca storica e filologica, rappresentata da Miiller, da Bopp, da Chézy e
da tutta la linea degli specialisti in filologia comparata che studiarono
scientificamente i testi dei Veda e dell’Avesta per familiarizzarsi col
pensiero dell’India e dell’Iran antichi. Tra questi ricercatori Miiller occupa
un posto di primaria importanza. Specializzatosi in sanscrito, in grammatica
comparata ed in filosofia del mito ad Oxford, istituì una Cattedra divenuta
celebre: egli credette che la filologia comparata fos se la chiave che avrebbe
permesso di aprire le porte della storia delle religioni. Ai suoi occhi la
lingua è un testimone autentico del pensiero. Miiller sostenne che in origine
l’uomo ha agito, e per descrivere i suoi atti inventò il linguaggio. Da allora
i miti non sono altro che la personificazione degli oggetti e delle azioni che
1 ’uomo ha dovuto esprimere e descrivere. Continuando le sue ricerche in
direzione delle origini, Miiller tradusse i Veda, testo in cui credeva di
trovare il primo pensiero indo-europeo e la chiave della religione degli
antichi Ariani. Così secondo il nostro Autore i poemi vedici sarebbero la fonte
del pensiero religioso dei Persiani, dei Greci e dei Romani. La gemma tra le
ricerche di Miiller è rappresentata dalla pubblicazione dei Sacred Books of thè
Easl (che potè terminare prima della propria morte, lasciando così agli
studiosi occidentali una vera summa dei libri sacri dell’antica Asia. Il
dossier indoeuropeo del XIX secolo è già abbastanza ricco: scoperta della
corrispondenze all’interno del vocabolario delle lingue indoeuropee;
presentimento dell’esistenza di una cultura arcaica ariana come pure di una
civiltà comune alle diverse popolazioni. Frazer tentò d’intraprendere un vasto
studio comparato attorno al mito romano della morte rituale ed al mito nordico
del dio Balder. Tutta la sua opera, The Golden Bough cerca di delineare una
sintesi di questa mitologia, ma le sue conclusioni sono deludenti. Dopo una
prima esplorazione, condotta secondo il metodo frazeriano, Dumézil abbandonò
questa via della regalità sacra per volgersi verso la linguistica e la filologia
comparata. Le sue guide furono A. Meillet e J. Vendryes. In un articolo
intitolato Les correspondances de vocabulaire enlre l ’indo-iranien et
Titalo-celtique (in Mémoires de la Société Linguistique), Vendryes ha
sottolineato le corrispondenze esistenti tra parole indo-iraniche da una parte
ed italo-celtiche dall’altra. Si tratta di termini relativi al culto, al
sacrificio ed alla religione, c vi sono anche parole mistiche relative
all’efficacia degli atti sacri, alla purezza rituale, all’esattezza dei riti,
all’offerta fatta agli dèi, all’accettazione di questa da patte degli dèi, alla
protezione divina ed alla santità. Questa scoperta fu molto importante, poiché
dimostra l’esistenza di una comunanza di termini religiosi presso i popoli che
in seguito sarebbero divenuti gli Indiani, gli Iranici, gli Italici ed i Celti.
La permanenza di questo vocabolario religioso alle due estremità del mondo
indoeuropeo, in India ed in Iran, nella Gallia ed in Italia, è un dato molto
significativo, benché la scomparsa di questo vocabolario presso popoli come i
Germani e gli Scandinavi non abbia mancato di incuriosire Vendryes.
Riflettendo, egli ha constatato che questi termini religiosi si sono mantenuti
presso quei popoli clic disponevano di collegi sacerdotali influenti: i
brahmani, i sacerdoti avestici, i druidi, il Pontìfex romano. E dunque il
sacerdozio a conservare e trasmettere questo vocabolario grazie ai rituali ed
alla liturgia, ai testi sacri ed alle preghiere. Siamo in presenza di una
testimonianza preziosa c di una fonte importante clic ci conduce ad una
conclusione decisiva: il mondo indoeuropeo arcaico disponeva di concetti
religiosi identici clic veicolava grazie ad un linguaggio comune. La scoperta
dell’eredità indoeuropea Alla luce delle ricerche dì Vendryes, Dumézil ha
compreso quale orientamento imprimere ai propri lavori. Al termine di vent’anni
di studio egli doveva trovare la chiave che gli permise di penetrare gli arcani
del pensiero religioso indoeuropeo arcaico. La pubblicazione de L'idéologie
tripartie des Indo-Européens è il compimento di una lunga marcia ed il punto di
partenza per tutte le scoperte .successive. L’esame del problema flamen-brahman
c dei flamini maggiori a Roma condusse Dumézil ad una conclusione decisiva: /
più antichi Romani, gli Umbri, avevano portato con toro in Italia la stessa
concezione conosciuta dagli Indo-Iranici e su cui notoriamente gli Indiani
avevano fondato il loro ordine sociale ' Era la scoperta e la messa a fuoco di
un’eredità indoeuropea, di una ideologia funzionale e gerarchizzata, alla
sommità della quale si trova la sovranità religiosa c giuridica, seguita dalla
forza fisica che s’incama nella guerra, mentre al terzo livello si situa la
fecondi- tà-fertil ità, sottomessa alla sovranità ed alla forza ma indispensabile
al loro mantenimento c sviluppo. Munito di questa griglia di lettura lo
studioso francese si c avventurato nello studio di tutta la documentazione
disponibile. Si tratta di uno studio comparativo il cui oggetto c il dato
indoeuropeo. Durante il III c II millennio a.C. delle bande di conquistatori si
spostarono verso l’Atlantico, il Mediterraneo c l’Asia. Le loro parlate erano
fatte di diversi dialetti provenienti da una lingua comune, il che suppone un
fondo intellettuale e morale identico, ed un minimo di civiltà comune. Popoli
senza scrittura, gli Indoeuropei hanno lasciato pochi documenti. Solo gli
Hittiti, stabilitisi in Anatolia all’inizio del II millennio a.C., hanno
adottato una scrittura cuneiforme che consentì loro di conservare degli
archivi. Ma ciò che c notevole c la persistenza del vocabolario religioso
legato all’organizzazione sociale, alle pratiche cultuali ed ai comportamenti
religiosi. Parecchi fatti presuppongono l’esistenza di una religione che
rappresenta una dottrina coerente, una spiegazione del cosmo, una concezione
dell’origine, del presente c del futuro. DUMÉZIL, Mythe
et epopèe I. L 'idéologie des troisfunctions dans les épopees despeuple
indo-européens, Gallimard, Paris (Trad. italiana, Einaudi, Torino). Volendo
spiegare quest’eredità e la sua struttura, Dumézil ha elaborato il proprio
metodo comparativo, che lui stesso chiama genetico)}. La prima fase del lavoro
consiste nel mettere in evidenza delle corrispondenze precise e sistematiche,
che permettano di tracciare uno schema del rituale: miti, riti, significati
logici ed articolazioni essenziali. Questo schema viene proiettato nella
preistoria, al fine di comprendere la curva dell’evoluzione religiosa.
Possedendo delle corrispondenze precise, sistematiche e numerose, lo storico delle
civiltà e lo storico delle religioni procedono per induzione in direzione delle
origini. Utilizzando i dati dell’archeologia, della mitologia, della filologia,
della sociologia, della liturgia e della teologia arcaica, lo storico giunge a
comprendere le grandi linee del pensiero di questi popoli e la loro evoluzione,
sino alle soglie della storia. Grazie a questo lavoro lungo ed arduo si è
riusciti a stabilire un’archeologia del comportamento e delle rappresentazioni.
Dumézil non ha preteso di resuscitare la religione degli Indoeuropei come venne
vissuta nei tempi preistorici. Si è accontentato piuttosto di delineare lo
schema concettuale delle società collegate tra loro nello sviluppo della
storia, e si è servito di questi schemi per giungere a spiegare i testi ed i
fatti che resistevano ad ogni spiegazione. Nelle civiltà indoeuropee il nostro
autore trova una struttura sociale articolata in tre funzioni. Sono queste i
tre varna dell’India: i brdhmana, sacerdoti incaricati del sacrificio e custodi
della scienza sacra; gli ksatriya, guerrieri incaricati della protezione del
popolo; i vaisya, produttori dei beni materiali, del nutrimento. Secondo il
Rg-Vecla (Vili, 35) queste tre caste sono molto antiche. In Iran l 'Avesta
menziona tre gruppi di uomini: sacerdoti o àQaitrvan; guerrieri, i radaci.star
montatori di carri; gli agricoltori-allevatori, chiamati vàstryò.fsuycmt. Una
struttura identica ha lasciato tracce presso gli Sciti ed i loro discendenti,
gli Osseti del Caucaso, e presso i Celti ed i loro druidi, la loro aristocrazia
militare ed i loro boairig, gli allevatori DUMÉZIL, L ’heritage des
indo-curopéens à Rome, Gallimard, Paris di buoi. L’analisi delle origini di
Roma condotta da Dumézil si è riveata particolarmente illuminante. Queste tre
funzioni sono attività fondamentali e indispensabili per la vita normale della
comunità. La prima funzione, quella del sacro, regola i rapporti degli uomini
fra loro e sotto la garanzia degli dèi, determina il potere del re e traccia i
limiti della scienza, inseparabile dalla manipolazione delle cose sacre. La
seconda funzione, quella relativa alla forza fisica, interviene nella
conquista, nell’organizzazione della società e nella sua difesa. La terza
ricopre un vasto ambito, quello della sussistenza degli uomini e della
conservazione della società: fecondità animale ed umana, nutrimento, ricchezza
e salute. Dumézil ha dimostrato che la società indoeuropea era governata in
profondità grazie ad una mentalità fondata su una struttura trifunzionale. La
teologia si trova al centro del mondo indoeuropeo. Una delle grandi prove di
ciò è la lista degli dèi ariani di Mitanni trovata su una tavoletta a Bogazkòy,
l’antica Hattusa, capitale dell’impero hittita. Scoperta nel 1907, questa
tavoletta contiene il testo di un trattato concluso nel 1380 a.C. tra il re
hittita Supilulliuma ed il redi Mitanni chia¬ mato Matiwaza. Come garanti della
loro alleanza ognuno dei re invoca i propri dèi: il re di Mitanni invoca gli
dèi considerati i protettori della società ariana: Mithra-Varuna, India e i
Nasatya. Sono gli dèi delle tre funzioni che ritroviamo in India ed in Iran. In
quest’ultimo paese è la riforma di Zarathustra e la formulazione delle sei
entità divine - gli Immortali Benefici - che illustra in maniera illuminante
questa teologia strutturata su tre piani ed articolata in tre funzioni. Dai
Mitanni, dall’India e dall’Iran Dumézil è pervenuto all’Italia ove ha rilevato
la triade Jun-Lart-Vofiono a Iguvium (Gubbio) in Umbria ed a Roma la triade
precapitolina Juppiter-Mars-Quirinus. Questi dati indicano chiaramente che
l’ideologia è correlata ad una teologia delle tre funzioni. Nell’India vedica
ciò comporta un’associazione di tre coppie di dèi stabiliti su tre livelli: gli
dèi Mitra e Varuna, signori del primo livello, si dividono la sovranità di
questo mondo e dell’altro: Indra, scortato dai Marut, un battaglione di giovani
guerrieri, proclama l’esuberanza e la vittoria; i NàsaLya o Asvin sono
distributori di salute, fecondità, abbondanza in uomini ed armenti; si tratta
dunque di una teologia tripartita. Il documento di Hattusadel 1380 a.C. ci
mostra che questa teologia è anteriore alla redazione dei Veda e che fa parte
della tradizione ariana arcaica; d’altra parte, la presenza dello schema
trifunzionale nella teologia di Zarathustra ed il suo riflesso sugli Arcangeli
raggruppati intomo al dio supremo Ahura Mazda conferma l’attaccamento ad una
struttura di pensiero ariano sia presso i sacerdoti che i popoli dell’Iran
antico. La stessa eredità teologica si rinviene anche in Italia, presso i
Celti, i Germani e gli Scandinavi. Conclusioni E stato necessario tutto il XIX
secolo per costituire il dossier indoeuropeo. Il merito di Georges Dumézil c
stato quello di aver consacrato un 'intera vita all’interpretazione di questa
documentazione. Egli ha iniziato il suo cammino sulla scia di Max Miillcr c di
James Frazer: una ricerca di equazioni nell’onomastica relativa al dominio del
culto e delle divinità. Le corrispondenze all’interno del vocabolario del
sacro, dei popoli indo-iranici da una parte c di quelli italo-ccltici
dall’altra, hanno fornito allo studioso l’idea di studiare più a fondo i
paralleli attorno alle divinità ed ai sacerdoti, poiché questi popoli sono i
soli tra gli indoeuropei ad aver conservato per molti secoli i loro collegi
sacerdotali. Questa nuova via fu illuminante, poiché ha condotto alla scoperta
di un’eredità indoeuropea ancora visibile agli inizi della storia dei popoli
italici, celtici, iranici cd indiani. L’assenza di vestigia archeologiche
concrete ha costretto Dumézil a mettere a punto un metodo comparativo genetico
fondato sull’archeologia delle rappresentazioni c del comportamento: servendosi
dei miti, dei riti, delle tracce dell’organizzazione sociale, delle vestigia
del sacro c del sacerdozio egli ha potuto individuare i meccanismi - c gli
equilibri costitutivi - della società e della religione indoeuropea: una
teologia trifunzionale che divide il mondo divino in dèi della sovranità, dèi
della forza e dei della fecondità. A questa teologia corrisponde la tripartizione
sociale: classe sacerdotale, guerrieri, agricoltori-allevatori. Mezzo secolo di
ricerche hanno permesso di delineare questa visione nuova del mondo ariano
arcaico, di realizzare una sintesi delle vestigia della civiltà e della
religione indoeuropea e di far indietreggiare di più d’un millennio i lempora
ignota. Julien Ries Università di Louvaìn-la-Neuve Nelle pagine che seguono non
una sola volta si farà menzione de\V habitat degli Indoeuropei, delle vie delle
loro migrazioni, della loro civiltà materiale. Su questi punti così dibattuti
il metodo qui impiegato non ha presa e d’altra parte la loro soluzione non
interessa molto i problemi qui posti. La civiltà indoeuropea che noi
considereremo è quella dello spirito. Al pari degli Indiani vedici, come ci
vengono presentati dai loro inni, gli Indoeuropei non furono uomini senza
riflessione e senza immaginazione, tutt’altro. Esattamente da vent’anni ormai
la comparazione delle più antiche tradizioni, dei diversi popoli parlanti
lingue indoeuropee, ha rivelato un fondo considerevole di elementi comuni,
elementi non isolati ma organizzati in strutture complesse delle quali non ci è
offerto un equivalente in altri popoli del mondo antico. L'esposizione, che ci
si appresta a leggere, è consacrata alla più importante di queste strutture.
L’obiettivo essenziale è quello di guidare lo studente, tramite una serie di
riassunti ordinati e consequenziali, attraverso una mole di argomenti poco
agevoli a causa della loro eterogeneità e del loro frazionamento. Nello stesso
tempo si vorrebbe fornire ai lettori già informati una prima e provvisoria
sintesi, si vorrebbe dare non solo un ordine ma una messa a fuoco alla
correlazione generale che solo uno sguardo d’insieme può imporre ai risultati
parziali. Un problema che per anni è stato capitale e in primo piano - penso al
valore trifunzionale delle tre tribù romane primitive - si trova qui limitato
in un secondo livello; al contrario, le numerose applicazioni ideologiche delle
tre funzioni, le cui segnalazioni si trovano disperse nelle pubblicazioni più
svariate, acquisteranno ora, io spero, potenza grazie ad un parallelismo che
farà risaltare il loro semplice riavvicinamento. Questo doppio disegno non
prevederànote a piè di pagina: si è preferito costruire una sorta di commentario
bibliografico distribuito secondo i paragrafi del libro, indicando i testi
affinché ognuno riepiloghi o perfezioni a proprio piacimento; oppure segnando c
datando su ogni punto importante i progressi o le svolte della ricerca; o
ancora, rinviando ad altri paragrafi per segnalare correlazioni che non
avrebbero potuto ingombrare l’esposizione discorsiva iniziale. Non si è tenuto
conto che dell’opera principale dell’autore e di un certo numero di colleghi
francesi e stranieri che, pur senza voler formare una scuola, si dedicano da
più o meno tempo alle stesse materie con metodi simili e che si tengono
costantemente in contatto tra loro. Altre visioni sul pensiero degli
indoeuropei, incompatibili con questa, non saranno qui esaminate, non per
disprezzo ma perché le dimensioni del presente libro sono ristrette e l’intento
è costruttivo e non critico. Tuttavia, nelle note finali si troveranno
riferimenti a numerose discussioni. Il mio caro collega Renard mi ha permesso
di presentare nella collezione Latomus, poco tempo dopo Les Déesses latines,
questa nuova esposizione in cui il popolo romano non interviene che prò virili
parte. Egli ha così voluto confermare, sensibilmente ai nostri studi, cd io lo
ringrazio, la necessaria alleanza tra studi classici e indoeuropei, tra metodi
filologici e comparativi, che ho sempre invocato con augurio. Uppsala. Parigi.
Le tre funzioni sociali e cosmiche Le classi sociali in India Uno dei tratti
più sorprendenti delle società indiane post-rgve- diche è la loro divisione sistematica
in quattro classi, dette in sanscrito i quattro colori, varna, le prime tre
delle quali benché diverse sono pure perché propriamente arya, mentre la
quarta, formala indubbiamente dai vinti della conquista arya, è sottomessa alle
altre tre ed è quindi irrimediabilmente impura. Di quesl’ultima classe
eterogenea non si Lralterà qui ulteriormente. I doveri di ognuna delle tre
classi arya servono per definirle: i brdhmana, sacerdoti, studiano ed insegnano
la scienza sacra e celebrano i sacrifici; gli ksatriya (o rdjanya), i
guerrieri, proteggono il popolo con la loro forza e con le loro armi; ai vaisya
è affidato l’allevamento e l’aratura, il commercio e più in generale la
produzione dei beni materiali. Si costituisce così una società completa e
armonica presieduta da un personaggio a parte, il re, rdjan, generalmente nato
e qualitativamente estratto dal secondo livello. Questi gruppi funzionali e
gerarchizzati sono conchiusi tutti su loro stessi in base all’ereditarietà,
all’endogamia e a un codice rigoroso d’interdizioni. Sotto questa forma
classica non vi è dubbio che il sistema non sia una creazione propriamente
indiana posteriore alla maggior parte del Riveda-, i nomi delle classi non sono
menzionati chiaramente che nell’inno del sacrificio deH’Uomo Primordiale, nel X
libro della raccolta, così differente da tutti gli altri. Ma una tale creazione
non è nata dal nulla, bensì da un irrigidimento di una dottrina e di una
pratica sociale preesistente. Nel 1940 uno studioso indiano, V.M. Apte, fece
una collezione dimostrativa dei lesti dei primi nove libri del Riveda
(principalmente Vili, 35, 16-18) che provano come sin dai tempi della redazione
di questi inni la società fosse pensata composta da sacerdoti, guerrieri e
allevatori e che se questi gruppi non erano ancora designati dai nomi di
brdhmunu, di ksatriya o di vaisya (sostantivi astratti, nomi di nozioni di cui
i nomi di questi uomini non sono che i derivati) erano già composti in un
sistema gerarchico che definiva distributivamente i principi delle tre
attività. Brc'ihmun (al neutro) scienza e utilizzazione delle correlazioni
mistiche tra le parti del reale visibile o invisibile, kyatrei potenza, vis
contadinanza o habitat organizzalo (la parola c apparentala al latino vTcus e
al greco (w)oùco<;), al plurale visuh insieme del popolo nel suo
raggruppamento sociale e locale. È impossibile determinare in quale misura la
pratica si conformasse a questa struttura teorica: vi era forse una parte più o
meno considerevole della società che indifferenziata o altrimenti classificata
sfuggiva a QUESTA TRIPARTIZIONE? L’ereditarietà all’interno di ciascuna classe
non era forse corretta nei suoi effetti da un regime matrimoniale più
flessibile c con delle possibilità di promozione? Sfortunatamente ci è
accessibile solo la teoria. 2. Le classi sociali avestiche Da un quarto di
secolo, confermando le osservazioni di F. Spie- gel, di E. Benvenisle e di me
stesso, abbiamo sostenuto che almeno nella sua forma ideologica la
tripartizione sociale era una concezione già acquisita prima della divisione
degli Indo-Iranici in Indiani da una parte ed Iranici dall’altra. In diversi
passaggi VA vesta menziona i componenti della società come gruppi di uomini o
di classi (designate da una parola che si riferisce al colore, pistra): i sacerdoti,
àBuurvan o uBravun (cf. uno dei sacerdoti vedici, Vdtharvan), i guerrieri,
luBciè.star (guidatori di carri», cf. il vedico rathe-sthà epiteto del dio
guerriero Indra) e gli agricoltori-allevatori, vàstryó.fsuyant. Un solo
passaggio avestico e più notoriamente i testi palliavi, pongono come quarto
termine alla base di questa gerarchia, gli artigiani, huiti, altri indizi (come
il fatto che raggruppamenti triplici di nozioni sono talvolta messi
maldestramente in rapporto con le quattro classi, cf. SBE, V,357) ci portano a
considerarla una aggiunta a un antico sistema ternario. Nel X secolo della
nostra èra il poeta persiano Ferdusi, fedele testimone della tradizione,
racconta come il favoloso re Jamsed (lo Yima Xsaéla dell’A vesta) istituì
gerarchicamente queste classi: separò inizialmente dal resto del popolo gli
*asravctn assegnando loro le montagne per celebrarvi il loro culto, per
consacrarsi al servizio divino e restare nella luminosa dimora ; gli *artesfar,
posti dall’altra parte, combattono come dei leoni, brillano alla testa delle
armate e delle province, grazie a loro il trono regale è protetto e la gloria
del valore è mantenuta ; quanto ai *vùstryós, la terza classe, loro stessi
arano, piantano e raccolgono; di ciò che mangiano nessuno li rimprovera, non
sono servi benché vestiti di stracci e il loro orecchio è sordo alla calunnia.
A differenza dell’India le società iraniche non hanno irrigidito questa
concezione in un regime castale: esso sembra essere rimasto un modello, un
ideale e un comodo mezzo per analizzare ed enunciare l’essenzialità
dell’argomento sociale. Dal punto di vista della ideologia in cui noi ci
poniamo, questo è sufficiente. Un ramo aberrante della famiglia iranica, molto
importante poiché si è sviluppato non in Iran ma a nord del Mar Nero, fuori
dalla morsa degli imperi, iranici o altri, che si sono succeduti nel Vicino
Oriente, testimonianello stesso senso: sono gli Sciti - i cui costumi insieme a
molte leggende ci sono noli grazie ad Erodoto e a qualche altro autore antico -
la cui lingua e tradizione si è mantenuta sino ai nostri giorni grazie a un
piccolo popolo del Caucaso centrale, originale e pieno di vitalità, gli Osseti.
Secondo Erodoto (IV, 5-6) ecco come gli Sciti raccontano l’origine della loro
nazione: Il primo uomo che comparve nel loro paese, prima di allora deserto, si
chiamava Targitaos, che si diceva figlio di Zeus e di una figlia del fiume
Boriysthene (il Dniepr attuale)... Lui stesso ebbe tre figli, Lipoxais
(variante Nitoxais), Arpoxais e in ultimo Kolaxais. Quando erano in vita
caddero dal cielo sulla terra Scizia degli oggetti d’oro: un carro, un giogo,
un’ascia e una coppa (apoxpóv xe mi t/uyòv mi cràyapiv mi (piàÀT|v). A questa
vista il più anziano si affrettò a prenderli ma quando arrivò l ’oro si mise a
bruciare. Così si ritirò e il secondo si fece avanti ma senza migliore
successo. Avendo i primi due rinunciato all 'oro bruciante, sopraggiunse il
terzo e l ’oro si spense. Lo prese con sé e i suoi due fratelli, davanti a
questo segno, abbandonarono la regalità interamente all'ultimogenito. Da
Lipoxais sono nati quegli Sciti che sono chiamati la tribù (yévoq) degli Aukh-
atai; da Arpoxais quelle dette Katiaroi e Traspies (variante: Trapies, Trapioi)
e in ultimo, dal re, quelle dette Paralatai; ma tutte insieme si chiamano
Skolotoi, dal nome del loro re Mi sembra certo che bisogna, al pari di E.
Benveniste, rendere yévoq con tribù. Gli Sciti contano quattro tribù, una delle
quali è la tribù capo. Ma tutte hanno realmente o idealmente la stessa
struttura: è chiaro infatti che questi quattro oggetti si riferiscono alle tre
attività sociali degli Indiani e degli Iranici deH’Iran; il carro e il giogo
(E. Benveniste ha analizzato un composto avestico che associa queste due parti
della meccanica dell’aratura) evocano l’agricoltura; l’ascia era con l’arco
l’arma nazionale degli Sciti; altre tradizioni scitiche conservate da Erodoto,
come pure l’analogia coi dati indo-iranici conosciuti, incoraggiano a vedere
nella coppa lo strumento e il simbolo delle offerte cultuali e delle bevande
sacre. La forma ben distinta che Quinto Curzio (VII, 8, 18-19) dà alla
tradizione, conferma questa esegesi funzionale; egli fa dire agli ambasciatori
degli Sciti che cercavano di convincere Alessandro Magno a non attaccarli:
Sappi che abbiamo ricevuto dei doni: un giogo per buoi, un carro, una lancia,
una freccia e una coppa (iugum bovum, aratrum, hasta, sagitta et patera). Ce ne
serviamo con i nostri amici e contro i nostri nemici. Ai nostri amici doniamo i
frutti della terra che ci procura il lavoro dei buoi; con essi offriamo agli
dèi libagioni di vino; quanto ai nostri nemici, li attacchiamo da lontano con
la freccia e da vicino con la lancia. 4. La famiglia degli eroi Narti È
interessante vedere sopravvivere questa struttura ideologica della società
nell’epopea popolare dei moderni Osseti, che ci è nota i n frammenti ma in
numerose varianti da circa un secolo e che una grande impresa folklorica
russo-osseta, da circa quindici anni, ha sistematicamente raccolto. Gli Osseti
sanno che i loro eroi dei tempi antichi, i Narti, erano divisi essenzialmente
in tre famiglie. / Boriatee - dice una tradizione pubblicata da S. Tuganov nel
1925 - erano ricchi in armenti; gli Alcegatce erano forti per intelligenza; gli
/Exscertcegkatce si distinguevano per eroismo e vigore ed erano forti per i
loro uomini. I dettagli del racconto che giustappongono od oppongono a due a
due queste famiglie, soprattutto nella grande collezione degli anni ’40,
confermano pienamente queste definizioni. II carattere intellettuale degli
Alaegatae riveste una forma arcaica, non appaiono che in circostanze uniche ma
frequenti: c nella loro casa che hanno luogo le solenni bevute dei Narti in cui
si producono le meraviglie di una Coppa magica detta la Rivelatrice dei Narti.
Quanto agli vExsscrtaegkata;, grandi smargiassi ad effetto, è rimarchevole che
il loro nome sia un derivato del sostantivo cexsur(t) bravura, che è, con le
alterazioni fonetiche previste nelle parlate scitiche, la stessa parola del
sanscrito ksatrà, nome tecnico, come abbiamo visto, del fondamento della classe
guerriera. I Boriala; e il principale tra essi, Burafscrnyg, sono costante-
mente e caricaturalmente i ricchi, con tutti i rischi e i difetti della
ricchezza e in più, in opposizione ai poco numerosi vExsaertaegkatae, sono una
moltitudine di uomini. Riconosciuta così come retaggio comune indo-iranico,
questa dottrina tripartita della vita sociale è stata il punto di partenza di
un'inchiesta che prosegue da più di vent’anni e che ha portato a due risultati
complementari che possono riassumersi in questi termini: 1) al di fuori degli
Indo-Iranici i popoli indoeuropei conosciuti in età antica o praticavano
realmente una divisione di questo tipo oppure, nelle leggende in cui spiegano
le proprie origini, ripartivano i loro cosiddetti componenti iniziali fra le
tre categorie di questa stessa divisione: 2) nel mondo antico, dal paese dei
Seres alle Colonne d’Èrcole, dalla Libia e dall’Arabia agli Iper borei, nessun
popolo non indoeuropeo ha esplicitato praticamente o idealmente una tale
struttura o se l’ha fatto è stalo dopo un contatto preciso, localizzabile c
databile, che ha avuto con un popolo indoeuropeo. Ecco qualche esempio a
sostegno di questa proposizione. Il caso più completo è quello dei più
occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti e gli Italici, il che non è
sorprendente una volta che si c prestata attenzione (J. Vendryes) alle numerose
corrispondenze che esistono nel vocabolario della religione,
dell’amministrazione e del diritto, tra le lingue indo-iraniche da una parte e
quelle ilalo-celli- che dall’altra. Se si ordinano i documenti che descrivono
lo stato sociale della Gallia pagana decadente conquistala da Cesare, insieme
ai testi che ci informano sull’Irlanda pocoprima della sua conversione al
cristianesimo, ci appare sotto il *rig (l’esalto equivalente fonetico del
sanscrito rcij- o del latino réf*-), un tipo di società così costituita: 1) Al
di sopra di tulli c forte oltre ogni limile, quasi super-nazionale come la
classe dei brahmani, vi c la classe dei clruicli (*dru-uid), cioè dei sapienti,
sacerdoti, giuristi, depositari della tradizione. 2) Segue poi l’aristocrazia
militare, unica proprietaria del suolo, \a flciith irlandese (cf. il gallico
vlata- c il tedesco Gewcdt), propriamente la potenza, esatto equivalente
semantico del sanscrito ksatrà, essenza della funzione guerriera. 3) Infine,
gli allevatori, i bóairig irlandesi, uomini liberi ( ciirif.;) che si
definiscono solamente come possessori di vacche ( bó). Non è sicuro ne
probabile, come c stalo proposto, (A. Mcillet c R. Thurney- scn hanno preferito
un’etimologia puramente irlandese) che questa ultima parola, aire (genitivo
ctirech, plurale airig) che designa lutti i membri dell’insieme degli uomini
liberi (che sono protetti dalla legge, concorrono all’elezione del re,
partecipano alle assemblee - airecht - e ai grandi banchetti stagionali) sia un
derivato in -k di una parola imparentata con l’indo-iranico * city a (sanscrito
city a, àrya\ antico-persiano ariya, avestico airya; osseto Iceg uomo, da
*arya-ka-). Ma poco importa: il quadro tripartito celtico ricopre esattamente
lo schema reale o ideale delle società indo-iraniche. La Roma storica, benché
risalga ad epoca remota, non ha divisioni funzionali: l’opposizione tra patrizi
e plebei è di un altro tipo. Senza dubbio è l’effetto di un’evoluzione precoce
e la divisione in tre tribù - anteriore agl’etruschi benché rivestila di nomi
d’origine apparentemente etnisca come Ramnes, Luceres, Titienses - e ancora in
qualche modo del tipo che studiamo: è ciò che ci suggerisce chiaramente la
leggenda delle origini. Secondo la variante più diffusa, Roma si e costituita
da tre elementi etnici: i compagni latini di Romolo e Remo, gli alleati
etruschi condotti a Romolo da Lucumone e i nemici sabini di Romolo comandati da
Tito Tazio. I primi avrebbero dato nascita a la TRIBU I -- Ramnes, i secondi
alla TRIBU II – i Luceres c i terzi alla TRIBU III – i Titienses. Ora, la
tradizione annalistica colora costantemente ognuno di questi componenti etnici
di tratti funzionali. LA TRIBU III: I Sabini di Tazio sono essenzialmente
ricchi di armenti. LA TRIBU II. Lucumone c la sua banda sono i primi
specialisti dell’arte militare arruolati come tali da Romolo. LA TRIBU I:
Romolo è il semi-dio, il rex-augur beneficiario della promessa iniziale di
Jupiter, il creatore <le\Y urbs e il fondatore istituzionale della
respublica. Talvolta la componente etnisca è eliminala, ma l’analisi
tri-funzionale non viene meno poiché Romolo c i suoi Latini accumulano su loro
stessi la doppia specificazione di capi sacri e di guerrieri esemplari ed hanno
in loro stessi, come dice Tito Livio (1,9; 2-4), “deos et virtutem” e non gli
mancano temporaneamente che opes (e le donne) che saranno loro fornite dai
Sabini (cf. Floro, 1,1) i Sabini riconciliati che si trasferiscono a Roma c cum
generis suis a vitas opes prò dote socicint. Eliminando così gli’etruschi, il
dio Marte in persona, nei “Fasti” di Ovidio mette a nudo il movente ideologico
dell’impresa che ha portalo all’unione dei Romani con i Sabini: La ricca
vicinanza – “viciniadives” -- non voleva questi generi senza ricchezza –
“inopes” -- e non aveva riguardo del fatto che io ero (un dio) la fonte del
loro sangue – “sanguinis auctor”. Io ho risentito di questa pena e ho messo nel
tuo cuore, Romolo, una disposizione conforme alla natura di tuo padre --
“patriam mentem”, cioè marziale -- Io ti dico, tregua di sollecitazione, ciò
che domandi, saranno le armi a donartelo – “arma dabunt”. Dionigi di
Alicarnasso che segue la tradizione delle tre razze, ripartisce tra quelli gli
stessi tre vantaggi: le città vicine, sabine o altre, sollecitate da Romolo per
mezzo di matrimoni, rifiutano di unirsi a questi nuovi venuti Che non sono da
considerarsi neper ricchezza (xpTipaoi) né per altre imprese (taupnpòv Èpyov).
A Romolo, relegato così alla sua qualità di figlio di dio e di depositario dei
primi auspici, non resta che affidarsi (II, 37) ai militari di professione come
l’etrusco Lucumone di Solone, Uomo di azione e illustre in materia di guerra
(xà rcoX.é|iia 8ux<pavnq). Ma è Properzio, nella prima elegia romana che da
a questa dottrina delle origini, e nella forma delle tre razze, l’espressione
più complete. Nel momento in cui nomina, con Romolo, le tre tribù primitive
mettendo in risalto le loro etimologie tramite le correlazioni tradizionali coi
nomi dei loro eponimi, comincia ad esprimere i caratteri funzionali distintivi,
1’essenza, potremmo dire, della materia prima di ogni tribù. TRIBU I: i
compagni di Remo e di suo fratello (il nome di Romolo è riservato per coprire
la sintesi finale); TRIBU II: Lygmon (Lucu- mo); TRIBU III. Tito Tazio. Il
testo di Properzio merita di essere esaminato più da vicino. L’intenzione di
Properzio all’inizio di questa elegia è di opporre (c un luogo comune
dell’epoca) l’umiltà delle origini all’opulenza della Roma d’Ottaviano. Dopo
qualche verso che introduce il tema applicandolo al luogo, ecco gl’abitanti,
presentati in tre parti ineguali, seguite da una conclusione: -- sul pendio
dove si elevava un tempo la povera casa di REMO. I due fratelli avevano un solo
focolare, immenso reame. La Curia, il cui splendore copre oggi un'assemblea di
toghe preteste, non conteneva che senatori vestiti di pelle e dalle anime
rustiche. Era la tromba che convoca, per i colloqui, gli antichi cittadini;
cento uomini in un prato, tale era spesso il loro senato. Nessuna tela
ondulante sulle profondità di un teatro, nessuna scena che esalasse l'odore
solenne dello zafferano. Nessuno si cura di andare a cercare dèi stranieri. La
folla trema, attaccata al culto ancestrale. E, ogni anno, le feste di Pale non
sono celebrate che con fuochi di fieno i quali valevano bene te lustrazioni che
si fanno oggi giorno grazie a un cavallo mutilato. Vesta era povera e trovava
il suo piacere in asinelli coronati di Fiori. Delle vacche scarnite portavano
in processione degli oggetti senza valore. Dei maiali ingrassati bastavano per
purificare gli stretti crocicchi e il pastore, al suono della cennamella, offre
in sacrificio le interiora di una pecora. Vestito di pelli, l'agricoltore
brandiva delle correggie villose: è allora che tengono i loro riti i Fabii,
Luperci scatenati. Ancora primitivo, il soldato non sfavillava sotto delle armi
terribili. Ci si batteva nudi con dei pali induriti dal fuoco. Il primo campo e
stabilito (pretorio: quartiere del campo intorno alla tenda del generale) da un
comandante con un berretto di pelle, LYGMON. E la ricchezza di TATIUS era
essenzialmente nelle sue pecore: è da là che si formarono i T1TIES, i RAMNES e
i LU CERES, originari di Solonio; è da là che Romolo Lancia la sua quadriga di
cavalli Bianchi. Il percorso di questo sviluppo è ben chiaro. Cme una favola
verso la sua breve morale, tende verso l’ultimo distico che prima di menzionare
il radunatore Romolo, nell’apparato dei suoi trionfi, enumera sotto i loro nomi
le tre tribù riunite. Al verso 31, hinc indica che queste tre tribù provengono
da uomini che sono stati precedentemente descritti e in effetti, in accordo con
la tradizione erudita, Properzio mette i Tities (v. 31) in correlazione con il
Tatius del verso 30 e i Luceres (v. 31) con Lygmon-Lucumo (v. 29). Quanto ai
Ramnes, conformemente all’uso dovrebbero essere annunciati simmetricamente alla
menzione di Romolo, ma a Romolo è qui riservato il posto di comando di questa
società composita ed è RIMPIAZZATO DA REMUS al verso 9, o insieme a lui in
frotres al verso 10. In altre parole, prima di mostrarli trasformati (hinc)
sotto Romolo, nei tre terzi della città unificata, Properzio comincia col
presentare successivamente, sotto i loro eponimi e nella loro esistenza ancora
separata, le tre componenti della futura Roma, nell’ordine. TRIBU I: Le genti
di Remo e di suo fratello. TRIBU II. L’etrusco Lucumone e – TRIBU III: il
sabinoTazio. Si spiega così come le feste dei versi 15-26, appartenenti ai
futuri Ramnes, siano quelle che la tradizione considera anteriori al sinecismo
e praticate già, nel loro isolamento, dai due fratelli. Ma non è tutto. Non è
meno lampante che le tre successive presentazioni delle future tribù siano
caratterizzate secondo tre funzioni. Dal verso 9 (Remo) al verso 26, Properzio
non evoca che il carattere primitivo di un’AMMINISTRAZIONE POLITICA (semplicità
dei re, di ciò che rappresentava allora il senato e l’assemblea popolare) e di
un CULTO (v. 15-26; mancanza di solennità e di dèi stranieri; nell 'ordine del
calendario mstico - da aprile a febbraio - dei Parilia, Vestalia, Compitalia e
Lupercalia, senza alcuno sfarzo). TRIBU II: Dal verso 27 al verso 29 ( Lygmon)
il poeta evoca le forme primitive della GUERRA che rimangono elementari (un
berretto di pelle) anche col primo tecnico militare. TRIBU III: Nel solo verso
30 ( Tatius ) Properzio evoca la forma puramente pastorale della RICCHEZZA
primitiva. La nettezza delle articolazioni del testo e, in conseguenza, delle
intenzioni classificatorie di Properzio, il confronto nel distico 29-30 di
Lucumo come generale e di Tazio come ricco proprietario di armenti, mettono in
risalto il fatto che, benché concepite come componenti etniche, le tre tribù
nel pensiero degli eruditi di epoca d’Ottaviano sono caratterizzate
funzionalmente. TRIBU I: I Ramnes, raggruppati intorno ai fratelli, dediti
soprattutto al governo e al culto. TRIBU II: Lucumoneei Luceres come guerrieri.
TRIBU III: Tito Tazio e i Tities (più spesso Titienses) come ricchi allevatori.
Le divisioni degli Ioni Fra i Greci, almeno gli Ioni e i più antichi ateniesi
erano stati inizialmente divisi in quattro tribù definite dal ruolo
nell’organizzazione sociale. I nomi tradizionali delle tribù non sono molto
chiari, al pari della ripartizione dei nomi nelle quattro funzioni o, come dice
Plutarco, nei quattro |3ioi (tipi di) vite, ma questi tipi sono molto
probabilmente sacerdoti o funzionari religiosi, guerrieri o guardiani,
agricoltori, artigiani (Strabone Vili, 7, 1; cf. Platone, Timeo, 24 A).
Plutarco 0 Solone 23), per una falsa etimologia del nome ordinario ricollegato
ai sacerdoti, omette i sacerdoti e sdoppia agricoltori e pastori. È probabile
che le tre classi della Repubblica ideale di Platone - filosofi che governano,
guerrieri che difendono e il terzo stato che produce ricchezza - con ogni loro
armonizzazione morale o filosofica, così prossima talvolta alle speculazioni
indiane, siano state ispirate in parte dalle tradizioni ioniche, in parte da
ciò che si sapeva allora in GreciadelledottrinedeH’Iraneinpartedaquegli
insegnamenti dei pitagorici che risalgono senza dubbio al remoto passato
ellenico o preellenico. 10. La tripartizione sociale nel mondo antico A questi
schemi concordanti si è cercata invano una replica indipendente nella pratica o
nelle tradizioni delle società ugrofinniche o siberiane, presso i Cinesi o gli
Ebrei biblici, in Fenicia o nella Mesopo- tamia sumerica o accadica, o nelle
vaste zone continentali adiacenti agli Indoeuropei o penetrate da essi. Ciò che
salta agli occhi sono delle organizzazioni indifferenziate di nomadi in cui
ognuno è sia combattente che pastore; delle organizzazioni teocratiche di
sedentari in cui un re-sacerdote o un imperatore divino è contrapposto ad una
massa spezzettata aH’infinito ma omogenea nella sua umiltà; oppure ancora delle
società in cui lo stregone non è che uno specialista fra tanti altri senza
preminenza, malgrado il timore che la sua competenza suscita. Niente di tutto
questo ricorda né da vicino né da lontano la struttura delle tre classi
funzionali gerarchizzate e non vi sono delle eccezioni. Quando un popolo non
indoeuropeo del mondo antico, ad esempio del Vicino Oriente, sembra conformarsi
a questa struttura è perché l’ha acquisita sotto l’influenza di uno nuovo
arrivato vicino a lui, da una di quelle pericolose bande di Indoeuropei -
Luviti, Hittiti, Arya - che nel secondo millennio si sono arditamente sparse
lungo diversi percorsi. E il caso ad esempio dell’Egitto castale in cui i Greci
del V secolo credevano di aver trovato il prototipo, l’origine delle più
vecchie classi funzionali ateniesi che sono state menzionate poco fa. In realtà
questa struttura si è formata sul Nilo grazie al contatto con gli Indoeuropei,
che apparendo in Asia Minore e in Siria nella metà del secondo millennio prima
della nostra èra, rivelarono agli Egiziani il cavallo e tutti i suoi usi.
Solamente dopo questa data il vecchio impero dei Faraoni si riorganizza per
poter sopravvivere, formandosi ciò che non aveva mai avuto: un’armata
permanente e una classe militare. Il più antico testo multifunzionale del tipo
di quello che sarà conosciuto da Erodoto (Timeo) o da Diodoro, è l’iscrizione
in cui Thaneni si vanta di aver fatto un vasto censimento per conto dei suo
Faraone Thutmosis IV (J.H. Breasted, Ancient Records ofEgypt, II, thè XVIlIth
Dynasty): M uste ring ofthe whole land before his Majesty making an in-
spection ofevery body, knowing thè soldiers, priests, royal serfs and all thè
craftsmen ofthe whole land, all thè cattle, fo wl and small cattle, by thè
military scribe, beloved of his lord Thaneni Ora, Thutmosis IV (1415-1405) è
giusto il primo Faraone che abbia mai sposato una principessa arya dei Mitanni,
la figlia di un re dal nome caratteristico di Artatama. Sembra che la differenziazione
di una classe di guerrieri col suo statuto morale particolare, unito ad una
sorta di alleanza flessibile a una classe ugualmente differenziata di
sacerdoti, sia stata la novità degli Indoeuropei e il cavallo e il carro la
ragione e il mezzo della loro espansione. Le iscrizioni geroglifiche e
cuneiformi ci hanno trasmesso il ricordo del terrore che causarono alle vecchie
civiltà questi specialisti della guerra, così arditi e impietosi come quei
conquistadores che tremila anni più tardi nel Nuovo Mondo comparvero ai capi e
ai popoli degli imperi che schiacciarono. Essi li designavano con un nome -
marianni - che in effetti gli Indoeuropei usavano: i mdriya, incuiStig Wikander
seppe riconosce- 26 re nel 1938 i membri dei Mcitinerblinde dello stesso tipo
studiato da Otto Hofler presso i Germani. La comparazione dei più antichi
documenti indoiranici, celtici, italici e greci, se da una parte permette di
affermare che gli Indoeuropei avevano una concezione della struttura sociale
fondata sulla distinzione e sulla gerarchizzazione delle tre funzioni,
dall’altra parte non può insegnare grandi cose sulla forma concreta - o sulle
diverse forme - in cui si sarebbero realizzate queste concezioni. Bisogna ora
generalizzare ciò che è stato detto più sopra a proposito degli Arya vedici. È
possibile che la società sia stata interamente ed esausti vamen- te ripartita
tra sacerdoti, guerrieri e pastori. Si può anche pensare che la distinzione
avesse solamente portato a mettere in risalto qualche clan o qualche famiglia
specializzata, depositaria nell’un caso dei segreti efficaci del culto, nel
secondo delle iniziazioni e delle tecniche guerriere e nell’ultimo, infine, dei
rimedi e delle magie deH’allevamento, mentre il grosso della società,
indifferenziata o meno differenziata, si affidava alla direzione degli uni o
degli altri, secondo le necessità o le occasioni. Si è infine liberi di
immaginare moltissime forme intermedie, ma queste non saranno che punti di
vista dello spirito. Certi raffronti di cifre sembrano tuttavia rivelare la
sopravvivenza di formule molto precise: così, nel Rgveda i 33 dèi riassumono
una società divina concepita ad immagine della società aryae sono talvolta
scomposti in 3 gruppi di 10, completati da 3 supplementari; oppure, a Roma, le
33 comparse dei comitia curiata dei quali 30 (cioè 3 per 10) riassumono le 3
tribù primitive funzionali dei Ramnes, Luce- res e Titienses, completate da 3
àuguri. 12. Le tre funzioni fondamentali Così, non è il dettaglio autentico e
storico dell’organizzazione sociale tripartita degli Indoeuropei che interessa
di più il comparatista, ma il principio di classificazione, il tipo di
ideologia che essa ha suscitato, realizzato o formulato, e di cui non sembra
essere più rimasta che un’espressione tra tante altre. Diverse volte
nell’esposizione che si è letta è stata incontrata una parola importante:
quella di funzione, di tre funzioni, e bisogna così intendere certamente le tre
attività fondamentali assicurate da gruppi di uomini - sacerdoti, guerrieri,
produttori - per il sostentamento e la prosperità della collettività. Ma il
dominio delle funzioni non si limita a questa prospettiva sociale. Alla
riflessione filosofica degli Indoeuropei esse avevano già fornito - come
sostantivi astratti, bnihman, ksutrù, vis, principi delle tre classi nella
riflessione filosofica degli Indiani vedici e posl-vedici - ciò che può essere
considerato, secondo il punto di vista, come un mezzo per esplorare la realtà
materiale e morale o come un mezzo per mettere ordine nel patrimonio delle
nozioni ammesse dalla società. L’inventario di queste applicazioni non
propriamente sociali della struttura trifunzionale, è stato intrapreso e
continuato, dal 1938, da E. Benveniste e da me stesso. Ora, è facile porre
sulla prima e sulla seconda funzione un’etichetta che copra tutte le sfumature:
da una parte il sacro e i rapporti dell 'uomo col sacro (culto, magia) c degli
uomini tra di loro, sotto lo sguardo c la garanzia degli dèi (diritto,
amministrazione), e così pure il potere sovrano esercitato dal re o dai suoi
delegati in conformità con la volontà o il favore divino e infine, più
generalmente, la scienza c l’intelligenza, allora inseparabili dalla
meditazione e dalla manipolazione delle cose sacre; dall’altra parte la forza
fisica brutale e l’impiego della forza, uso principalmente ma non unicamente
guerriero. È meno facile delincare in poche parole l’essenza della terza
funzione, che ricopre delle province numerose fra le quali intercorrono dei
legami evidenti ma la cui unità non comporta un centro ben definito: fecondità
umana, animale e vegetale, ma, nello stesso tempo, nutrimento e ricchezza,
santità e pace (con le gioie c i vantaggi della pace) e anche voluttà, bellezza
c l’importante idea del gran numero, applicata non solo ai beni (abbondanza) ma
anche agli uomini che compongono il corpo sociale (massa). Non sono queste
delle definizioni a priori ma insegnamenti convergenti di molte applicazioni
dell’ideologia tripartita. Gli indologi hanno familiarità con questo uso
straripante della classificazione tripartita sin dai tempi vedici: per un
impulso che ricorda, nel suo vigore e nei suoi effetti, la tendenza
classificatoria del pensiero cinese - che ha distribuito tra lo yang e lo yin
sia coppie di nozioni solidali che antitetiche -1’India ha messo le tre classi
della società, coi loro principi, in rapporto con numerose triadi di nozioni
preesistenti o create per la circostanza. Queste armonie, queste correlazioni
importanti per l’azione simpatetica a cui tende il culto, hanno talvolta un senso
molto profondo, talvolta artificiale e altre volte puerile. Così, ad esempio,
le tre funzioni sono distributivamente connesse ai tre guna (propriamente,
figli) o qualità - Bontà, Passione, Oscurità - delle quali la filosofia
sùrìikhyu dice che gli intrecci variabili formano la trama di tutto ciò che
esiste; o ancora, nei tre stadi superiori dell’universo, le si vede non meno
imperiosamente collegate ai diversi metri e melodie dei Veda o ai diversi tipi
di bestiame o a comandare minuziosamente la scelta dei diversi tipi di legno
con cui saranno fatte le scodelle o i bastoni. Senza arrivare a questi eccessi
di sistematizzazione, la maggior parte degli altri popoli della famiglia
presentano aspetti di questo genere che, ritrovandosi molto simili su diverse
altre parti del globo, hanno la fortuna di risalire ad antenati comuni, agli
Indoeuropei. Non si potrà presentare in questa sede che qualche inventario. 13.
Triadi di calamità f.triadi di delitti Da circa vent’anni E. Benveniste ha
individualo presso gli Iranici c gli Indiani delle formule molto simili in cui
un dio è pregalo di allontanare, da una collettività o da un individuo, tre
flagelli, ognuno dei quali si riconnettc a una delle tre funzioni. Per esempio,
in una iscrizione di Pcrscpoli (Persep. d 3) Dario domanda ad Ahuramazdà di
proteggere il suo impero r/a// ’esercito nemico, dal cattivo anno e
dall'inganno (quest’ultima parola, drau- ga, nel vocabolario del Gran Re
designava sopralutto la ribellione politica, il misconoscimento dei suoi
diritti sovrani; ma si riferiva anche al peccalo maggiore delle religioni
iraniche, la menzogna). Parallelamente, al momento delle cerimonie vcdichc del
plenilunio c del novilunio, una preghiera è dedicala ad Agni, con delle formule
che, diversamente allungate dagli autori dei vari libri liturgici (per esempio
Tditt.Sariìh., I, 1, 13, 3; Sut.Bràhm., I, 9, 2, 20) hanno questo nucleo
comune: Conservami dalla soggezione, conservami dal cattivo sacrificio,
conservami dal cattivo nutrimento. L’enunciato indiano è parallelo a quello
iranico, con la riserva che, al primo livello, il re achemenide parla di
inganno e il ritualista vedico di sacrificio malfatto: questo scarto nei timori
corrisponde ad evoluzioni divergenti - da una parte più moraliste e dall’altra
più for- maliste - delle religioni delle due società. Mi è stato possibile
dimostrare in seguito che i più occidentali tra gli Indoeuropei, i Celti, i cui
usi sono talvolta così sorprendentemente simili a quelli vedici, utilizzavano
la stessa classificazione tripartita delle maggiori calamità. La principale
compilazione giuridica dell’Irlanda, il Senchus Mór, comincia con questa
dichiarazione ( Ancient Laws oflreland, IV 1873, p. 12): Vi sono tre tempi in
cui si produce il deperimento del mondo: il periodo della morte degli uomini
(morte per epidemia o per carestia, precisa la glossa), la produzione
accresciuta di guerra e la dissoluzione dei contratti verbali. I malanni sono
così ripartiti fra le tre zone della salute o del nutrimento, della forza
violenta e del diritto. I Galli non hanno inserito nei loro libri giuridici
delle tali formulazioni astratte, ma un testo che parrebbe essere la
trasposizione romanzesca di un vecchio mito, il Cyvranc Lludd a Llevelis è
consacrato all’esposizione delle tre oppressioni dell’isola di Bretagna e al
modo in cui il re Lludd vi mise fine. Queste calamità sono: 1) una razza di
uomini saggi il cui sapere è tale che essi intendono per tutta l’isola ogni
conversazione, fosse anche a bassa voce, e interferiscono così nel governo e
nei rapporti umani; 2) ogni primo maggio ha luogo un terribile duello tra due
draghi, il drago dell’isola e il drago straniero che viene a battersi col
primo, cercando di vincerlo, e le urla del drago dell’isola sono tali da
paralizzare e sterilizzare ogni essere vivente; 3) ogni volta che il re
accumula in uno dei suoi palazzi una provvista di cibarie e di vivande, fosse
anche per un anno, u n mago ladro giunge la notte seguente e porta via tutto il
suo paniere. Si osserva ancora una volta come le tre oppressioni si sviluppino
qui negli ambiti della vita intellettuale, dell’amministrazione della forza e
infine del nutrimento; in più, considerate in base ai loro agenti e non in base
alle vittime, esse definiscono tre delitti: abuso di un sapere magico,
aggressione violenta e furto di beni. Sembra che il più antico diritto romano
ugualmente considerasse i delitti privati come incantesimi maligni ( malum
Carmen, occentu- tio), violenza fisica ( membrum ruptum e osfractum, iniuriu) e
in furto {furtum)\ Platone utilizzava, in un contesto inerente alla
tripartizione C Repubblica, 413b-414a) e in un modo evidentemente artificiale,
prendendolo in prestito senza dubbio da qualche poeta tragico, una distinzione
sistematica ed esauriente dei delitti molto simile, in furto, violenza fisica e
incantesimo (kXotcti, pila, yor|TEÌa). Benveniste ha raffrontato la
classificazione avestica dei medicamenti ( Vidèvdàt, VII, 44: medicine del
coltello, delle piante e delle formule d’incantesimo) con l’analisi che fa un
inno del Riveda sui poteri medici degli dei Nàsatya-Asvin (X, 39, 3) .guaritori
di chi è cieco (male misterioso, magico), di chi è smagrito (male alimentare) e
di chi ha una frattura (violenza). È lo stesso procedimento che nella III
Pythica di Pindaro il centauro Chirone insegna ad Asclepio per guarire le
dolorose malattie degli uomini (versi 40-55: incantesimi, pozioni o droghe,
incisioni) ed è stato sospettato che dietro questi fatti paralleli si celi
l’esistenza di una dottrina medica tripartita ereditata dagli Indoeuropei. Se i
vecchi testi germanici non applicano questo schema classificatorio ai malanni,
ai delitti o ai rimedi, è vero che l’utilizzano in altre circostanze: il Canto
di Skirnir nell 'Edda è un piccolo dramma in cui il servitore del dio Freyr
costringe, malgrado la sua volontà, la gigantessa Gerdr a cedere ai desideri
amorosi del suo maestro. Inizialmente tenta invano di comprare ( kaupu ) il suo
amore con dei regali d’oro (strofe 19-22); poi, non meno inutilmente, minaccia
di decapitarla (str.) con la sua spada {ma.’.ki)\ infine al suo terzo tentativo
non gli rimane che minacciarla con gli strumenti della sua magia, bacchette (
gambantein ) c rune (str. Elogi tripartiti Quando un poeta indiano vuole fare
brevemente l’elogio totale di un re, passa in rassegna le tre funzioni in tre
parole: così, all’inizio del Raghuvamsa (I, 24) il re Dilàpa merita di essere
chiamato padre dei suoi sudditi perché assicura loro buona condotta, li
protegge e li nutre. Con delle formule generalmente meno concise, l’epopea
irlandese procede allo stesso modo. In un bel lesto, il Paese dei Viventi, cioè
l’altro mondo, la dimora dei morti divenuti immortali, è caratterizzalo
dall’assenza di morte in base ai tre aspetti seguenti: .non vi è né peccato né
errore...] vi si mangiano pasti eterni senza servizio; l'intesa regna senza
lotte . L’originalità del paese meraviglioso consiste nel fatto che tutto è
buono e facile, ma questa idea si analizza e si esprime nel pensiero
dell’autore soprattutto secondo le tre funzioni (virtù, guerra, abbondanza
alimentare); la seconda funzione, di tipo violento, considerata come un male c
rifiutata, mentre le altre due sono sviluppale al massimo grado (J. POKÒRNY,
Conio’s abcnteucrliche Fahrt ZCP XVII, 1928,195). In un a simile analisi, per
fare 1 ’ elogio del re Conchobar, u n lesto del ciclo degli Ulati dice che
sotto il suo regno vi erano pace e tranquillità, saluti cordiali, ghiande,
grasso e prodotti del mare, controllo, diritto e buona regalità (K. MEYER,
Milleil. aus irischen Handschriflen ZCP): cioè il contrario della guerra, della
carestia c dell’anarchia, il contrario dei tre flagelli contro i quali il re
Dario a Persepoli domanda al gran dio di conservare il suo impero. Si può
obiettare talvolta che queste formule non siano troppo naturali, così troppo
ben modellale sull’uniforme e inevitabile disposizione delle cose perché il
loro accumulo e la loro somiglianza provino un’origine comune c resistenza di
una dottrina caratteristica degli Indoeuropei. Una riflessione anche elementare
sulla condizione umana e sulle risorse della vita collettiva non dovrebbe forse
mettere in evidenza, in ogni tempo c in ogni luogo, tre necessità, cioè una
religione che garantisse un’amministrazione, un diritto c una morale stabile,
una forza protettrice c conquistatrice, infine dei mezzi di produzione, di
alimentazione e di gioia? E quando l’uomo riflette sui pericoli che incontrac
sulle vie che si aprono alla sua azione, non è ancora a una qualche varietà di
questo schema che si riporta? Basta uscire dal mondo indoeuropeo, in cui queste
formule sono così numerose, per constatare che, malgrado il carattere
necessario e universale dei tre bisogni ai quali si riferiscono, esse non hanno
la generalità o la spontaneità chesi suppone: al pari della di visione sociale
corrispondente, non le si ritrova in alcun testo egizio, sumerico, accadico,
fenicio e biblico, né nella letteratura dei popoli siberiani, nè presso i
pensatori confuciani o taoisti così inventivi ed esperti di classificazioni. La
ragione è semplice ed elimina l’obiezione: per una civiltà, sentire vivamente e
soddisfare dei bisogni impellenti è una cosa; portarli alla chiarezza della
coscienza e riflettere su di essi, farne una struttura intellettuale e uno
schema di pensiero è tutta un’altra. Nel mondo antico solo gli Indoeuropei
hanno fatto questo cammino filosofico e così si percepisce nelle speculazioni e
nelle produzioni letterarie di tanti popoli di questa famiglia, che la
spiegazione più economica, come per la divisione sociale propriamente detta, è
ammettere che il percorso non è stato fatto e rifatto indipendentemente in ogni
provincia indoeuropea dopo la dispersione, ma che è anteriore alla divisione ed
è opera di pensatori dei quali i brahmani, i druidi e i collegi sacerdotali
romani sono in parte i diretti eredi. Meccanismi giuridici triplici Una delle
applicazioni più interessanti ma più delicate è quella che in riferimento alla
concezione indoeuropea chiarifica presso i diversi popoli (India, Roma,
Lacedemoni) i quadri e le regole giuridiche. Lucien Gerschel, ricordando il
diritto romano, ha dimostrato che questo, così originale nei suoi fondamenti e
nel suo spirito, conserva nelle sue forme un gran numero di procedure in tre
varianti a effetti equivalenti (che si spiegano solitamente, ma senza prove,
come creazioni successive dell’ uso e del pretore) che almeno qualcuna di
queste sorprendenti tripartita si modella sul sistema delle tre funzioni qui
considerate. Citerò unodei migliori esempi: un testamento può essere fatto con
lo stesso valore sia nell’assemblea strettamente religiosa dei Comitia Curiata,
presieduti dal gran pontefice; sia sul fronte di una battaglia davanti ai
soldati; sia tramite una vendita fittizia a un emp- torfamiliae (Aulo-Gellio,
XV, 27; Gaius, II; Ulpiano, Reg. XX, 1). Gerschel non pretende che sia esistito
a Roma un diritto sacerdotale, un diritto guerriero e un diritto economico, o
che i tre tipi di testamento abbiano avuto delle assisi sociali o degli effetti
differenti, non più dei tre tipi di affrancamento o delle altre tricotomie giuridiche
che si possono interpretare in questo senso. Questo quadro così incredibilmente
frequente, questa triade di possibilità a effetti equivalenti e l’omologia
delle distinzioni che si distribuiscono, sembrerebbe attestare, dice Gerschel,
che i creatori del diritto romano hanno da molto tempo pensato i grandi atti
della vita collettiva secondo l’ideologia delle tre funzioni e giustapposto
volentieri tre processi, tre decorsi o tre casi di applicazione provenienti
ciascuno dal principio (religioso; attualmente o potenzialmente militare;
economico) di una delle tre funzioni. La stessa psicologia non sfugge a questo
schema. I sistemi filosofici indiani dosano nelle anime, come nella società,
dei principi come la legge morale, la passione, l’interesse economico (dharma,
kCimu, artha) \ Platone attribuisce alle tre classi della sua Repubblica ideale
- filosofi governanti, guerrieri, produttori di ricchezze - delle formule di
virtù che distribuiscono e combinano la Saggezza, il Coraggio e la Temperanza;
in un’espressione apparentemente tradizionale e legala all’intronizzazione dei
Re Supremi di Irlanda, la mitica regina Medb, depositaria e donatrice della
Sovranità, pone come triplice condizione a chiunque vuole diventare suo marito,
cioè re, di essere senza gelosia, senza paura, senza avarizia (Tdin Bó Cualnge
ed. Win- disch, 1905,6-7); infine, anche lo zoroastrismo, nei testi brillante-
mente interpretati da K. Barr, spiega che la nascila dell’uomo per eccellenza,
Zoroastro, è stata accuratamente preparata con la combinazione di tre principi,
l’uno regale, l’altro guerriero e il terzo carnale. Si tratta forse di
un’applicazione mitica di una credenza antichissima; nei trattati rituali
domestici dell’India ( Sànkh. G. S, I, 17, 9; Pdrask. G. S, 1,9, 5) si consiglia
infatti alla donna che vuole concepire un bambino maschio di rivolgersi a
Mitra, a Varuna, agli Asvin e a Indra (quest’ultimo accompagnato da Agni o
Sùrya, secondo le varianti) e a nessun altro, cioè, come sarà dimostrato nel
capitolo seguente, alla lista arcaica indo-iranica degli dèi che incarnano e
patrocinano la prima, la terza e la seconda funzione. Un’altra via di sviluppo
per il pensiero trifunzionale è stata quella del simbolismo: tanto i tre gruppi
sociali quanto i loro tre principi sono stati legati figurativamente e
solidalmente a degli oggetti materiali semplici, il cui raggruppamento li
evocava e li rappresentava. Sembra che dai tempi indoeuropei questa via abbia
principalmente portato a due insiemi: una collezione di oggetti talismani e un
ventaglio di colori. Ci si ricordi della leggenda tramite cui gli Sciti,
secondo Erodoto, spiegavano le loro origini: gli oggetti d’oro caduti dal cielo
- carro e giogo per l’agricoltore, ascia (o lancia o arco) come arma guerriera,
coppa cultuale - hanno dei valori nettamente classificatori secondo le tre
funzioni. Ora, questi oggetti non erano solamente mitici: erano conservati
lutti insieme dal re e ogni anno venivano solennemente portati attraverso le
terre scitiche. Anche la leggenda irlandese attribuisce alla penultima razza
che avrebbe occupato l’isola, e che in realtà è costituita dagli antichi dèi
della mitologia (i Tuatha dé Danann, Le tribù della dea Dana), un gruppo di
oggetti talismani: il calderone di Dagda che conteneva e donava un nutrimento meraviglioso;
due armi terribili, la lancia di Lug che rendeva il suo possessore invincibile
e la spada di Nuada, al cui colpo niente sopravviveva; la pietra di Fai infine,
sede della sovranità, il cui grido rivelava quale dei candidati doveva essere
scelto come re (V. HULLThefourjewels oftheT.D.D ZCP, XVIII, 1930,73-89). Le
mitologie vediche e scandinave collegano allo stesso modo dei gruppi di tre
oggetti caratteristici a degli dèi che vedremo ben presto e che sono
distribuiti secondo le tre funzioni. 20. Colori simbolici delle funzioni presso
gli Indo-Iranici Quanto ai colori simbolici, l’importanza e l’antichità sono
già segnalate, per il mondo indo-iranico, dal fatto che i tre (o quattro)
gruppi sociali funzionali sono designati in base alla parola sanscrita varna e
alla parola avestica pìstra (cf. il greco 7touciXoq screziato, russo pisat'
scrivere), che con sfumature diverse designano il colore. Di fallo è un
insegnamento costante nell’India che brdhmunu, ksatriya, vaisya e sùclru siano
rispettivamente caratterizzati (e le spiegazioni non mancano) dal bianco, il
rosso, il giallo e il nero. Di certo che vi è stata un’alterazione in seguilo
alla creazione delle caste inferiori ed eterogenee degli sùdra, di un antico
sistema di cui rimangono tracce nei rituali (Gobh. G. S., IV, 7, 5-7; Khucl. G.
S. IV, 2, 6) e senza dubbio anche uno nel Riveda (nero, bianco e rosso è il suo
cammino dice X, 20,9 di Agni, il più triplice e trifunzionale degli dèi),
sistema formato semplicemente da tre colori senza il giallo e dove vi era il
nero (o blu scuro) a caratterizzare i vaisya, gli allevatori-agricoltori. In
effetti anche l’Iran ha mantenuto questa ripartizione: una tradizione
mazdeo-zurvanita che è stata progressivamente stabilita e interpretata da H. S.
Nybcrg (1929), G. Widengren, S. Wikan- der (1938) c R. C. Zaehner (1938, 1955)
descrive nella cosmogonia l’uniforme dei sacerdoti come bianca, quella dei
guerrieri come rossa o variopinta e quella degli agricoltori-allevatori come
blu scura. Altri Indoeuropei praticavano lo stesso simbolismo. V. Basanoff ha
intelligentemente i nterpretato in questo senso un rituale hiltita di evocatio
in cui i diversi dèi della città nemica assediata sono pregali di lasciarla e
di giungere presso gli assedianti attraverso tre cammini - il che suppone tre
diverse categorie di dèi - avvolti uno in una stoffa bianca, il secondo in una
stoffa rossa e il terzo in una stoffa blu ( Keilischrifturk aus Bof’azkbi, VII,
60; FRIEDERICK, Deralte Orient, XXV, 2,1925, 22-23). 21. Colori simbolici delle
funzioni presso Celti e Romani Tra i Celti della Gallia e dellTrlanda il bianco
è il colore dei dm- idi e il rosso, nell’epopea irlandese, è quello dei
guerrieri; a Roma un Albogalerus caratterizza il più sacerdote tra i sacerdoti,
il flamen diu- lis, mentre il paludumentum militare è rosso come il drappo
sulla testa del generale o come la trabea dei cavalieri o dei sacerdoti armati
che sono i Salii. Un sistema completo a tre termini del simbolismo coloralo
s’incontra due volte nelle istituzioni romane. Il caso più interessante è
quello dei colori delle fazioni del circo che assunsero grande importanza sotto
l’impero e nella nuova Roma del Bosforo, ma che sono sicuramente anteriori
all’impero c che gli studiosi di antichità romane ricollegano del resto alle origini
stesse di Romolo. 36 Le speculazioni esplicative di questi antichisti sono
molteplici e intrise di pseudo-filosol'ia e di astrologia, ma una di queste,
conservata da Giovanni il Lido, De mens. IV, 30, si riferisce a delle realtà
romane e afferma che questi colori, che sono quattro, in epoca storica erano
inizialmente tre ( albati, russati, viricles) in rapporto non solo con le
divinità Jupiler, Mars e Venus (quest’ultima solo apparentemente sostituita a
Flora) i cui valori funzionali sono evidenti (sovranità, guerra, fecondità), ma
anche con le tre tribù primitive dei Ramnes, Lucercs e Titienses. A proposito
di questi ultimi si è ricordalo più sopra che erano, nella leggenda delle
origini, sia componenti etnici (Latini, Etruschi, Sabini) che funzionali
(derivati da uomini sacri c governanti, da guerrieri professionisti e da ricchi
pastori) e che in un altro passaggio {De magistrut. 1, 47) Giovanni il Lido
interpreta come paralleli alle tribù funzionali degli Egiziani e degli antichi
Ateniesi. Nel 1942 Jan de Vries raccolse un gran numero di esempi antichi e
moderni (religiosi, l'olklorici c letterari) di questa triade di colori: quasi
lutti provenivano dall’area di espansione indoeuropea o dai suoi confini, o
dalle regioni che furono esposte all'influenza degli Indoeuropei e alcuni hanno
chiaramente un valore classificatorio del tipo qui considerato. 22. Le scelti-
dei tigli di Feridùn Infine, dei racconti epici, delle leggende o delle
narrazioni molto diverse utilizzano ugualmente il quadro trifunzionale. Eccone
qualche esempio. La leggenda scitica dei tre figli di Targilaos, il cui
ultimogenito raccoglie insieme alla regalità i meravigliosi oggetti d’oro
simboli delle tre Finzioni, è stata paragonala da M. Molé a una tradizione
dell’Iran propriamente detto, relativa ai figli del l’eroe che V Avesta chiama
©hraétaona, i testi pahlavi Frètòn e i testi persiani Feridùn. Eccola nella
traduzione data da M. Molé a un passaggio dell 'Àyàtkar i JàmcispTk: Da Frètòn
nacquero tre figli; Salm, Tòz ed Eric erano i loro nomi. Egli li convocò tutti
e tre per dire ad ognuno di essi: Io sto per dividere il mondo tra di voi, che
ciascuno di voi mi dica ciò che gli sembra bello affinché io glielo doni. Salm
chiese grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, su cui era la gloria dei Kavi
(cioè il segno miracoloso che distingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la
religione. Frètón disse: Che a ciascuno di voi giunga ciò che ha chiesto. Ed
egli donò infatti la terra di Rum a Salm, il Turkestan e il deserto a Toz e
l’Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric. Un’interessante variante di
Ferdusi giustifica la stessa divisione geografica con un altro criterio, anche
se col medesimo senso. Esposti a titolo di prova a uno stesso pericolo (un
dragone minaccioso), ognuno dei tre fratelli si rivela in accordo con la
propria natura e col proprio livello funzionale: Salm fugge, Tòz si precipita
ciecamente all’assalto e Iraj evita il pericolo senza combattere, con
l’intelligenza e il nobile sentimento che ha della dignità regale della sua
famiglia. La scelta del pastore Paride È un tema simile, presente fra i Greci
d’Asia Minore e forse influenzato dagli Indoeuropei di Frigia, che ha fornito
la materia del giudizio di Paride, piacevole racconto dalle pesanti conseguenze
poiché è destinato a spiegare come, malgrado la sua ricchezza e il suo valore,
Troia finisca per soccombere ai Greci. Paride, il bel principe pastore, vede
giungere presso di sé tre dee (che simboleggiano le tre funzioni) che gli
chiedono un giudizio eminente; secondo un tipo di variante (Euripide, Iphig.
Aul, V. 1300- 1307) ognuna si presenta nel l’aspetto del proprio rango e della
propria attività: Era, fiera del letto regale del sovrano Zeus , Atena con
l’elmo sul capo e la lancia in mano, Afrodite senza altre armi che la potenza
del desiderio. Secondo un’altra variante (Euripide, Troiane, v. 925-931) ogni
dea tenta di accattivarsi il giudizio promettendo un dono: Era promette la
sovranità sull’Asia e l’Europa, Atene la vittoria e Afrodite la donna più
bella. Paride sceglie male e assegna il premio ad Afrodite, scelta che causerà
ben presto il rapimento dell’incomparabile Elena e, malgrado dieci anni di
combattimento, la fine di Troia, distrutta da una coalizione di uomini e
divinità tra le quali Era ed Atena non saranno le meno accanite. Questo tipo di
racconto ha prosperato sino ai tempi moderni. Gerschel ha studiato delle
tradizioni svizzere, tedesche ed austriache raccolte nell 'ultimo secolo,
evidentemente indipendenti dalla leggenda greca, che presentano un giovane uomo
che deve scegliere (ma generalmente bene) fra tre offerte nettamente
funzionali; oppure tre fratelli che si spartiscono tre doni funzionali dei
quali solo uno, quello della prima funzione assicura a chi lo possiede un
destino pienamente buono. Ecco per esempio la forma originale rigorosamente
ricostruita da Gerschel, delle leggende tedesche sull’origine dello Jodeln
(Johlen). Res, il vaccaro di Bahilsalp, trova una notte nella capanna tre
esseri sovrannaturali in procinto di fare il formaggio: a un certo punto il
latticello è versato in tre secchi e nel primo è rosso, nel secondo secchio è
verde e nel terzo è bianco. Res apprende che deve scegliere un secchio e berne
il latticello; allora uno dei vaccari fantasmi aggiunge: Se scegli il rosso
sarai talmente forte che nessuno potrà combattere con te. Il secondo vaccaro
disse a sua volta: Se tu bevi il latticello di colore verde possiederai molto
oro e sarai ricchissimo. Il terzo infine spiegò: Bevi il latticello bianco e tu
sarai Jodeln meravigliosamente. Res rifiutò i due primi doni e si decise per il
latticello bianco, diventando un perfetto Jodler. Gerschel rileva che questa
tecnica vocale ha nelle diverse varianti un effetto magico (tutte le bestie
vengono incontro allo jodler e. l'accompagnano; tavole e panche danzano nella
sua capanna: le vacche si alzano sulle loro zampe posteriori e danzano; la
vacca più selvatica si addolcisce e si lascia mungere facilmente, etc.).
Talismani di Roma e di Cartagine Verso la fine delle guerre puniche Roma ha
senza dubbio organizzato su un tale tipo di schema la garanzia della sua
vittoria finale: una testa di bue, poi una testa di cavallo (trovate dagli
scavatori di Di- done sul sito in cui si ergeva, con Cartagine, il tempio della
sua Giunone) avevano, a detta di loro, garantito alla città africana l’
opulenza e la gloria militare. Ma in virtù della testa d’uomo che gli spalatori
di Tarquinio avevano un tempo trovato sul Campidoglio, nel sito del futuro
tempio di Jupiter O. M, è Roma che detiene la più alta promessa, quella della
sovranità. L. Gerschel, a cui si deve ancora questa sorprendente
interpretazione, ha ricordato che presso gli Indiani vedici uomo, cavallo e bue
sono teoricamente i tre tipi superiori delle vittime ammesse per il sacrificio,
quelli le cui teste (assieme alle teste delle due vittime inferiori, montone e
capro) devono, almeno in apparenza, essere interrate nel luogo in cui si vuole
elevare l’importante altare del fuoco, in mancanza del santuario permanente che
non esiste i n India. Come ultimo esempio, riallacciando all’ambito epico la
tripartizione dei flagelli e dei delitti ricordati più sopra, citerò un tema di
grande estensione letteraria che è stato diversamente spiegato in India, in
Scandinavia, in Grecia e in Iran: quello dei peccati di un dio o di un uomo,
generalmente (per delle ragioni che analizzeremo nel III capitolo) un
personaggio della seconda funzione, un guerriero. Indra, il dio guerriero
dell’India vedica, è un peccatore. Nei Brahmano e nelle epopee la lista dei
suoi errori e dei suoi eccessi è lunga e varia. Ma il quinto canto del
Màrkandeya Purànu li ha ridotti allo schema delle tre funzioni: Indra uccide
prima il mostro Tricefalo, morte necessaria poiché il Tricefalo c un flagello
che minaccia il mondo, ma tuttavia morte sacrilega poiché il Tricefalo ha il
rango di brahmano e non vi è crimine peggiore del brahmanicidio e di
conseguenza Indra perde la sua maestà, la sua forza spirituale, tejas (1-2).
Poi, essendo stato generato il mostro Vrtra per vendicare il Tricefalo, Indra s’impaurisce
e contravvenendo alla vocazione propria del guerriero conclude con Vrtra un
patto infido che viola, sostituendo alla forza l’inganno; di conseguenza perde
il suo vigore fisico, baia. Infine, tramite un’astuzia vergognosa, assumendo la
forma del marito, adesca una donna onesta in adulterio e perde così la sua
bellezza, rùpa (12-13). L’epopea nordica - Saxo Grammalicus è l’unico a
rintracciarne la storia completa, ma lo fa secondo fonti perdute in lingua
scandinava - conosce un eroe di tipo molto particolare, Starkadr
(Starcatherus), guerriero modello in ogni punto, servitore fedele e devoto ai
re che 1’accolgono, salvo che in tre circostanze. Egli è infatti stato dotato
di tre vite successive, cioè di una vita prolungata sino alla misura di tre vite
normali, a condizione che in ognuna di esse egli commetta una penalità. Ora, il
quadro di queste tre penalità si distribuisce chiaramente secondo le tre
funzioni. Essendo al servizio di un re norvegese l’eroe aiuta criminalmente il
dio Othinus (Ódinn) a uccidere il suo signore in un sacrifìcio umano.
Trovandosi poi al servizio di un re svedese /ugge vergognosamente dal campo di
battaglia dopo la morte del suo signore abbandonandosi, in quest’unica
occasione delle sue tre vite, alla paura panica (Vili, V). Servendo infine un
re danese, assassina il suo signore procurandosi per mediazione centoventi
libbre d’oro, cedendo eccezionalmente per qualche ora all’appetito di questa
ricchezza di cui fece altrove, in atti e discorsi, professione di disprezzo.
Essendosi così estinta 1 a sua triplice carriera non gli rimane che cercare la
morte ed è ciò che compie in uno scenario grandioso (Vili, Vili). Il carattere
e le gesta di Starkadr ricordano in molti punti quelle di Eracle. Nelle
esposizioni sistematiche che sono fatte - relativamente tarde ma non inventate
- la vita intera dell’eroe greco (concepito da Zeus e Alcmene durante tre
notti) è scandita da tre mancanze che hanno un effetto grave sull 'essere dell’
eroe e ognuna di questecomporta il ricorso all’oracolo di Delfi (Diodoro, IV,
10-38). 1) Euristeo re di Argo comanda ad Eracle di compiere dei lavori e ne ha
il diritto in virtù di una promessa imprudente di Zeus e di un’astuzia di Era:
Eracle commette tuttavia l’errore di rifiutare, malgrado l’invito formale di
Zeus e l’ordine dell’oracolo. Approfittando di questo stato di disubbidienza
agli dèi, Era lo colpisce nel suo spirito: egli è così preso dalla demenza ed
uccide i suoi bambini, dopo di che ritorna penosamente alla ragione, si
sottomette e compie così le Dodici Fatiche, aggravate da altre fatiche (cap.
10-30). 2) Volendosi vendicare di Erito, Eracle attira suo figlio Iphitos in un
tranello e lo uccide non in duello ma con l 'inganno (Sofocle nelle Trachinie
269-280 sottolinea il carattere fortemente antieroico di questo sbaglio).
Eracle, punito, cade in una malattia psichica da cui non si libera: viene così
informato dall’oracolo che deve vendersi come schiavo e rimettere ai figli di
Iphitos il prezzo di questa vendetta (cap. 31). 3) Benché infine legittimamente
sposato aDeianira, Eracle cerca di sposare un’altra principessa, poi ne rapisce
una terza e la preferisce alla sua donna, dal che ne deriva il terribile
disprezzo di Deianira, la tunica avvelenata dal sangue di Nesso e i terribili e
irrimediabili dolori dai quali l’eroe non può liberarsi, dietro un terzo ordine
di Apollo, che con la propria apoteosi, col rogo (cap. 37-38). Oltraggio a Zeus
e disobbedienza agli dèi; morte vile e perfida di un nemico senz’ armi;
concupiscenza sessuale e oblio della propria donna: i tre errori fatali di
questa gloriosa carriera si distribuiscono sulle tre zone funzionali
esattamente come i tre peccali di Indra e con la stessa specificazione
(concupiscenza sessuale) della terza, alterando l’essere stesso dell’eroe. Ma
queste alterazioni, progressive e cumulative nel caso di Indra, sono invece
successive nel caso di Eracle: le prime due possono essere riparate mentre la
terza trascina alla morte. In una tradizione avestica, senza dubbio ripensala e
ri-orientata dallo zoroastrismo, un eroe di tufi’altro tipo, Yima, è punito per
un unico grande peccalo (menzogna o, più lardi, orgoglio c rivolta contro Dio e
usurpazione degli onori divini) e viene privato in tre tempi dello x' arvnah,
di quel segno visibile e miracoloso della sovranità che Ahu- ra Mazda pone sul
capo di coloro destinati ad essere re. I tre terzi di questo x v arvnah
successivamente sfuggono per collocarsi nei tre personaggi corrispondenti ai
tre tipi sociali dell’ agricoltore-guaritore, del guerriero e d c\V intelligente
ministro di un sovrano (Dènkart, VII, 1, 25-32-36; molto più soddisfacente
dello Yasl Questo rapido excursus è sufficiente per mostrare le direzioni e i
diversi ambili in cui l’immaginazione dei popoli indoeuropei ha utilizzato la
struttura tripartita; ancora una volta dobbiamo ora volgerci, come per le altre
applicazioni di questa struttura, verso i popoli non indoeuropei del mondo
antico per ricercare se intorno a un eroe si è prodotto un tema epico o
leggendario, la messa in scena di una lezione morale o politica, la
giustificazione colorita immaginifica di una pratica o di uno stato di fatto.
Al momento i risultali dell’inchiesta sono negativi. Da Gilga- mesh a Sansone,
dai grandi Faraoni agli imperatori favolosi della Cina, dalla saggezza araba
agli apologhi confuciani, nessun personaggio storico o mitico ha rivestito in
alcun modo l’uniforme trifunzionale in cui si trovano al contrario molte figure
degli Indoeuropei. È dunque probabile che questa divisa sia solo indoeuropea e
che solo in questa vasta partedel mondo, e prima della loro dislocazione, gli
Indoeuropei abbiano intellettualmente scandagliato, meditato e applicato
all’analisi e all’interpretazione della loro esperienza, e infine utilizzato
nei quadri della loro letteratura, nobile o popolare, le tre necessità
fondamentali e solidali che gli altri popoli si accontentavano di soddisfare.
Terminando quest’esposizione molto generale vorrei sottolineare ancora che il
riconoscimento di questo fatto così importante non ci fornisce il mezzo per rappresentare
lo stato sociale effetti voo le istituzioni (senza dubbio variabili da
provincia a provincia) degli Indoeuropei comuni. Noi non possediamo che un
principio, uno dei princìpi e dei quadri essenziali. Una delle questioni più
oscure rimane ad esempio il rapporto fra le tre funzioni e il re, del quale ci
è assicurala l'esistenza antichissima nella parte senza dubbio più
conservatrice degli Indoeuropei, cioè presso gli indiani vedici (/•/-), i
latini (/ <?#-) c i celti (n#-). Questi rapporti sono diversi sui tre domini
c su ognuno vi è stata una variazione nei luoghi e nei tempi. Risulta così
qualche fluttuazione nella rappresentazione e definizione delle tre funzioni c
notoriamente della prima: o il re è superiore, o per lo meno esterno alla struttura
trifunzionale, e allora la prima funzione è centrala sulla pura amministrazione
del sacro, sul sacerdote piuttosto che sul potere, sul sovrano e i suoi
ministri; oppure il re (re-sacerdote più che governatore) è al contrario il più
eminente rappresentante di queste funzioni. Oppure si presenta una mescolanza
variabile di clementi presi dalle tre funzioni e in special modo dalla seconda,
dalla funzione e dalla classe guerriera da cui solitamente proviene: il nome
differenziale dei guerrieri indiani, ksutriyu, non ha forse per sinonimo quello
di ràjanya, derivato dalla parola ràjanl Queste difficoltà, insieme ad altre,
potranno essere meglio formulale, se non risolte, quando avremo indirizzato lo
studio su ciò che fu l’armatura più solida del pensiero di questa società
arcaiche: il sistema divino, la teologia e i suoi prolungamenti mitologici ed
epici. § 1. V.M. AFTE, Were castes formulateci in thè age of
thè Rig Veda?, Bull, of thè Decenti College Research Institute, II,34-36. Per brahman vedi L. RENOU, Sur la nolion de bràhman, JA. Questa
interpretazione, facile da conciliare con i fatti iranici segnalali da W.B.
HENNTNG,' Brahman, TPS, 1944,108-118, rende caduco il senso ammesso nel mio
Flamen-Brahmnti (1935). Il Brahman di P. THIE- ME, ZDMG, 102, 1952, non ha
fatto avanzare l’analisi e non altera il risultato dello studio di Renou. Circa
i rapporti del brahman e del flamen, vedi la mia discussione con J. GONDA (
Notes on Brahman, 1950) in RHR, CXXXVIII, 1950,255-258 eCXXXIX 1951,pp.
122-127; riprenderò prossimamente la questione di questi rapporti. Come xsaQra
in avestico, ksatrd è ambiguo in vedico e appartiene per certi impieghi al
vocabolario del primo livello; ma la concordanza dell’uso classificatorio del
sanscrito ksatriya per designare l’uomo del secondo livello, di X5a0ra come
nome dell’arcangelo sostituito nello zoroastrismo a Indra, dio del secondo
livello e infine di /Exscert-ieg come nome della famiglia degli uomini
differenzialmente “forti” nell’epopea degli Osseli (vedi sotto, 4), garantisce
che fin dai tempi indo-iranici questo termine fosse una designazione tecnica
dell’essenza del secondo livello. § 2. DUMÉZIL, La
préhistoire indo-iranienne des castes, JA. B ENVENISTE, Les classes sociales
dans la tradilion ave- stique, JA, CCXXI, 1932,117-134; Les mages dans l’ancien
Iran, Pubi, ile la Soc. cles Étuiles Iraniennes, n. 15,1938,6-13; Tradilions
in- do-iraniennes su les classes sociales, JA; H.S. NYBERG, Die Religione/}
cles alteri Iran, 1938,89-91; DUMÉZIL, JMQ, 41-68 (= JMQ it.24-45). L’interpretazione
è stata progressivamente costituita negli articoli e nei libri citati al § 2,
partendo da una suggestione di A. CHRISTENSEN, Le premier homme... I,
1918,137-140. § 4. JMQ,55-56 (= JMQ il.,35). Sulle tradizioni degli Osseti vedi
il mio Légemis sur les Nartes, 1930, c il risultato delle grandi inchieste
degli anni ‘40 pubblicale in Osetinskije Nartskije Skazanija (Dzauzikau), 1948
(in osseto: Narty kailcliitce). Il testo citalo di Turganov è nell’articolo Klo
takie Narty?,/zv. Oset. histit. Kraeveilenija, I (Vladikavzak) Vedi la mia
Lezione Inaugurale al Collège de France, 15-19 e BGDSL, 78, 1956,175-178. § 6.
JMQ,110-123 (=JMQ il.77-87). Sette anni più tardi, dopo la guerra, T.G.E.
POWELL ha ripreso la mia dimostrazione, Ccltic Origins; a Stage in thè Hnquiry,
J. ofthe R. Anthropol. Institute: Of greatest interest is thè recognition of
a three folci clivision o f society among thepeoples concerned [Indiani,
Italici, Celti ],providing in thehighest rank a class oflearned and sacred men,
in tlie second warriors, and in thè lo- west thè ordinary people etc. Circa il
nome di aire apparentato ad aiya, io credo che bisogna rinunciare
all’etimologia che accosta il nome dell’eroe irlandese Eremon al dio
indo-iranico Aryaman (vedi sotto III § 6) e in conseguenza sopprimere l’ultimo
capitolo del mio Troisième Souverain, 1949. § 7-8. Questa analisi è stata fatta
progressivamente in JMQ,129-1 54 (= JMQ it.,90-107); NR,86-127 (= JMQ
it.230-263); JMQ IV, I 13-134. In parte qui riproduco il riassuntode
L'heritage.. Gli Umbri distinguevano nella società i rappresentanti delle tre
funzioni: Ner - et uiro - dans les sociétés italiques, REL Delle obiezioni a
questa analisi sono state lungamente esaminate in NR, cap. II (= JMQ
it.230-262), riassunto in L’heritage...196-201 e 229-23 1. Ho anche fatto
notare che se Ranmes è utilizzato - superbum Rhamnetem -come nomeproprioda
Virgilio (Aen.) è perdesignare un re jce un augur ; che Lucer- sembrerebbe
essere all’origine del nome della gens Lucretia, una delle più militari delle
leggende dei primi tempi della Repubblica (e proprietaria del cognome
Tricipitinus, che senza dubbio allude a un mito del Tricefalo); che il radicale
di Titienses (F. BUCHELER, Kl. Sdir., Ili, 1930,75-80) si trova in altre parole
in rapporti diversi ma convergenti con la fecondità, l’amore, la voluttà:
questo conferma l’orientamento differenziale di ognuna delle tribù verso una
delle tre funzioni. Ho infine ricercato delle allusioni letterarie alle tre
funzioni e ai loro rappresentanti, come componenti di Roma o di altre società
concepite a sua immagine: JMQ IV, 121-136; REL; ma i testi degli storici e
quello di Properzio sono sufficienti. La questione dell’autenticità della
fusione dei Latini e dei Sabini alle origini di Roma è connessa a questa ma differente,
vedi sotto, II i? 17, nota. § 9. JMQ, (=JMQ it.,269-270); in compenso le classi
doriche sono di un altro tipo, malgrado JMQ,254-257 (soppresso in JMQ it.). Un
recente studio di NlLSSON sulle Phylae ioniche ( Cults, myths, oracles
andpolitics in ancient Greece, 1951,143-149) presenta delle difficoltà che
esaminerò altrove. L.R. PALMER ha brillantemente proposto di riconoscere la
tripartizione sociale indoeuropea nei testi micenei: TPS, 1954,18-53; Acliaeans
and Indoeuropeans, an Inaugurai Lecture, Oxford 1954,1 -22. Quanto ai tre stati
della Repubblica di Platone, vedi JMQ,257-261 (= JMQ it.170-171 ): Se le più
antiche tradizioni degli Ioni conservano il ricordo di una divisione funzionale
quadripartita della società (sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), la
città ideale di Platone non potrebbe forse essere, nel senso più stretto, una
reminiscenza indoeuropea? Essa è costituita dalla concatenazione armoniosa di
tre funzioni, tò (pu7.CXKlKÓV O (3oi)A.EV>TlKÓV, TÒ ÈKlKO'UpiKÓV, TÒ
XpimOtTlCTTUCÓV CUStO- dum genus, uuxiliarii, questuarti, come traduce Marsilio
Ficino, cioè i filosofi che governano, i guerrieri che combattono e il
terzo-stato, agricoltori e artigiani riuniti, che crea la ricchezza. La
solidarietà dei primi due gruppi al di sopra del terzo è fortemente marcata, ma
soprattutto l’originalità di ciascuno: ogni stato agisce conformemente alla sua
definizione, oìtceiojtpa/yia, evita la confusione, 7toA.U7cpaynpoa'ùvE, e la
Giustizia, fine ultimo della vita politica, è assicurata. A ognuno degli stati
corrisponde infine una formula di virtù particolare: il terzo stato deve essere
temperante, acótppcov; alla temperanza i guerrieri devono aggiungere il
coraggio, àvSpeia; i guardiani saranno inoltre saggi, aotpoi. Tutto questo fa
immaginare, per quel po ’ che li si è praticati, i trattati politico-religiosi
dell’India: stessa definizione dei tre stati sociali; stessa solidarietà dei
primi due, ubhe vlrye; stesso anatema contro la confusione, varnanàm samkaram,-
stessa esortazione ad attenersi al modo di azione a cui si appartiene, stessa
distribuzione dei doveri e delle virtù dello stato. I legislatori indiani e la
Repubblica si fanno eco: none forse perché essi recitano la medesima canzone
ancestrale?... Che si pensi a tutte le vie per le quali questa filosofia
indoeuropea tripartita ha potuto discendere fino a Platone: non solo le
tradizioni sulle origini degli Ioni, ma i contatti molteplici con quel
conservatore di dottrine, non ariane, ma anche ariane, che fu l'impero degli Ac
he me nidi; l'orfismo, in cui deiframmenti della scienza dei sacerdoti traci e
frigi si sono depositati e in cui non mancavano le triadi; il pitagorismo, su
cui Henri Hubert ci invitava, vent’anni or sono, a non trascurare le componenti
iperboree; infine il folklore... Cf. qui sotto § 18, per le applicazioni
psicologiche della divisione tripartita nell’India e in Platone. § 10. Cf. i
riferimenti al § 5. Sui marianni (egiziano ma-ra-ya-na\ cuneiforme mar-ya-an-nu
; forse come l’ha proposto Albrighl, dall’accusativo plurale arya mdrycin + la
terminazione hurrita -ni), vedi R.T. O’CALLAGHAN, New light on thè Maryannu as
chariot-warrior, Jb. f kleinas. Forschung, 1951,308-324. I libri fondamentali
quelli di S. WtKANDER, Der arische Mannerbund, 1938 e H. LOMMEL, Der arische
Kriegsgott, 1939, da confrontare con O. HÒFLER, Kultische Geheimbùnde der
Germanen, I, 1934. Una delle grosse differenze tra il Mannerbund degli Indiani
e quello dei Germani consiste nel fatto che il primo appartiene a Indra (non a
Varuna), mentre il secondo a Ódinn (e non a Pórr): effetto dell’evoluzione
della funzione guerriera presso i Germani; vedi MDG,92, n. 1 e più specificata-
mente, J. De VRIES, Altgerman. Rei. - Gesch. Un’interpretazione delle
corrispondenze del tipo 33 fra Roma e l’India vedica è proposta in JMQ
IV,156-170 (= JMQ it.,389-405), L'heritage...,213-227.1 33 dèi vedici sono
ripartiti frai tre piani del mondo (JMQ IV,30-33; riassunto in DIE,7-9) essi
stessi in rapporto con le tre funzioni (JMQ,65 = JMQ it.42-43 ). Il carattere
indo-iranico dei 33 dèi è garantito dalla concezione avestica dei 33 ratu
(spiriti protettori o prototipi delle diverse specie di esseri):
JMQIV,158-159(=JMQ it.,294-395), secondo J. Darmesteter e S. Wikander. § 12. È
nel suo articolo Traditions indo-iraniennes sur les classes socia - les, JA,
1938,529-549, che E. BENVENISTE ha per la prima volta mostrato, al di fuori
dell’India vera e propria in cui il fatto era ben conosciuto, che l’ideologia
tripartita supera largamente l’organizzazione sociale che finalmente non appare
più se non come un’applicazione particolare. Come disse all’inizio di un altro
articolo, per riassumere l’insegnamento di questo (Symbolisme social dans les
cultes gréco-italiques RHR): La elivisione della societe'i in tre classi,
sacerdoti, guerrieri, agricoltori, è un principio di cui gli Indo-Iranici
avevano piena coscienza e che presentava ai loro occhi l’autorità e la
necessità di un fatto naturale. Questa classificazione regge così profondamente
l’universo indo-iranico che il suo dominio reale supera largamente le
enunciazioni esplìcite degli inni e dei rituali. Si è potuto dimostrare [JA,
1938,529 e segg.] che varie rappresentazioni sono state con formate e che sono
fuori dalla sfera propria del sociale, al punto che ogni de finizione di una
totalità concettuale tende inconsciamente a riflettere il quadro tripartito che
organizza la società degli uomini. Da parte sua, G. Dumézil, in una serie di
brillanti studi ha riportato sino alla comunità indoeuropea l’origine di questa
classificazione, scoprendola nei miti e nelle leggende dell ’Europa occidentale
antica e principalmente -è l'oggetto del suo libro Jupiter, Mars, Quirinus -
nella religione romana. Le posizioni variabili della tecnica in rapporto alla
tripartizione sociale sono esaminate in Les métiers et les classes
fonclionnelles chez divers peuples indoeuropéens che sarà pubblicato quest’anno
in Anna- les. Economies, Sociétés, Civilisations. § 13. BENVENISTE,
Traditions indo-iran. sur les classes sociales, JA CCXXX, 1938,543-545;
DUMÉZIL, Triades de calamités et triades de délits à valeur trifonclionnelle
chez divers peuples indoeuropéens, Ltito- mus,. BENVENISTE, La
doctrine médical des Indo-Européens, RHR; Dumézil, art. cit. al paragrafo
precedente,184, n.2. § 15. JMQ (= JMQ it.,80) Les trois fonctions et le droit
romain selon L. Gerschel, frammenti di una memoria inedita di L. G., pubblicata
in appendice a JMQ Per Platone e l’India vedi JMQ (=JMQ it.,171 -172) Dopo aver
scoperto la formula tripartita della società, Platone si volge sull’individuo,
sull'Uno umano e in questo microcosmo ritrova gli stessi elementi in una stessa
gerarchia, le stesse condizioni di armonia comandano le medesime virtù. L'uomo
giusto, dal punto di vista della giustizia, non differisce in niente dallo
Stato giusto; ha in sé l'equivalente dei saggi, dei guerrieri, degli uomini
ricchi: questi sono i principi della conoscenza, della flussione e dell
’appetito, xò à.oyi0xixóv, xò 0upoEi6éq, xò È7U0'ujìtixikóv,- che effli
subordina in modo tale che il secondo aiuti il primo, in modo che i due primi
dominino insieme questo temibile terzo che è in ogni uomo la parte più
considerevole dell’anima e che è per natura insaziabile di ricchezze; poiché
apre alla saggezza, al coraggio e alta temperanza gli spazi spirituali che
convengono a loro; egli sarà ciò che deve essere. Allo stesso modo l’India, con
l’instabilità delle rappresentazioni e delle formulazioni che le è propria,
compone l’anima o meglio l'involucro dell’anima, di tre guna al pari della
società e dell'universo: queste qualità, che furono inizialmente luce,
crepuscolo e tenebra, sattva, rajas e tamas, sia perla loro presenza isolata
che per la loro combinazione, costituiscono gli individui e lo Stato: talvolta
il senso della legge morale, della passione e dell’interesse, dharma, kama e
artha, si uniscono in una triade equivalente a quella dei guna e il loro
equilibrio lodevole o biasimevole definisce i tipi umani; talvolta, seguendo
uno schema prettamente indiano, è la conoscenza serena, l’attività inquieta o
l’ignoranza fonte di errori, che si disputano il nostro effimero edificio e
questa semplice enumerazione disegna una terapeutica... Per l’Irlanda e la
regina Medb vedi JMQ,115 -116 (= JMQ it.,80-82); è la stessa Medb che commenta
chiaramente la sua seconda e terza esigenza: il suo sposo dovrà essere valoroso
in guerra e anche generoso di beni quanto lei; circa la prima si spiega in
questi termini; non bisogna che mio marito sia geloso poiché non sono mai stata
senza un uomo nell’ombra di un altro - allusione alle costanti competizioni
intorno alla regalità irlandese che Medb incarna e conferisce. Nella lontana
posterità di Platone, Claudiano, De quarto consul. Hon., espone magnificamente
la teoria della tre parti dell’ anima (o delle tre anime) c ritrova, v. 259,
una formula analoga alle tre esigenze di Medb (ma col timore al primo livello:
si metuis, sipraua cupis, si duceris ira; seruitiipaliere iugum. Per Zoroastro
tripartito vedi K. Barr, Irans profet som xéXeioq avOptonoq, Festkr. tilL.L.
Hammerich Perii talismano dei Tualha De Danann, vedi JMQ, cap. VII (sopprimendo
le pagine 241-245). Per gli oggetti vedici (la Vacca magica per il
dio-cappellano Brhaspati, due cavalli bai pcrlndra, ilearro a tre ruote che
serve agli Aévin per portare la loro benevolenza al mondo:es. RV) e scandinavi
(P anello magico per Odinn, il martello per Pórr, il cinghiale dalle setole
d’oro per Freyr) vedi Tarpeia, IV (Mamurius Veturius) Nei rituali vedici vi
sono tracce di un’antica assegnazione del nero ai vaiéya: per costruire la sua
casa un indiano sceglie un suolo diversamente colorato, bianco per un brahmano,
rosso per uno ksatrya e per un vaiéya, giallo secondo certi trattati (
Àsvalàyana G.S., II, 8, 8) e nero secondo altri ( Gobhila G.S., 7, 7; Khàdira
G.S., IV, 2, 12). Per la tradizione iranica vedi in ultimo luogo ZaEHNER,
Zurvan, 1955,118-125 (testo del Grande Bundahisn c del Denkart). Per il rituale
hittita vedi BasaNOFF, Euocatio, DUMÉZIL, Rituels cap. Ili (Albati, russati,
virides) e IV (Ve- xillum caeruleum); J. DE VRIES, Rood, wit, zwart,
Volkskimde, II, 1942, 1-10. § 22. MOLE, Le
partage du monde dans la tradition des Iraniens, JA, CCXL, 1952,456-458. § 23.
DUMÉZIL, Les trois fonctions dans quelques traditions grecques Eventail de
l'histoire vivante (= Mèi. L. Febvre ), I, 1954,25-32, dove sono studiate in
questo senso il Kroisos-Logos di Erodoto e certe forme dell’apologo di Mida e
del Sileno; L. GERSCHEL, Sur un schème trifon- ctionnel dans une famille de
légendes germaniques, RHR, CL, 1956, 55-92, in cui sono esaminati due tipi
imparentati di leggende, una che comporta l’opzione proposta a un individuo fra
tre offerte funzionali (es. l’origine di Jodeln citata nel testo) e l’altra che
presenta tre fratelli che si spartiscono tre doni funzionali il cui valore si
rivela disuguale a vantaggio del dono della prima funzione (es. il gruppo di
leggende di cui Ch. PRÉVOT D’ARLINCOURT, Le Pélerin, III, 1842,268-291 ha
pubblicato un buon esempio). GERSCHEL, Structures
augurales et tripartition fonctionnelle dans la pensée del’ancienneRome, JP. L’estrema
antichità e il carattere indoeuropeo di certe concezioni e pratiche augurali di
Roma (la parola augur è indoeuropea) sono state stabilite in diversi articoli:
L’inscription archaique du Forum et Cicéron, De divin., Il, 36, RSR ( =Mél. J.
Lebreton. I), 1951,17-29, prolungata da Le iuges auspicium et les
incongruités du taureau attelé de Mugdala, NC; Rituels..., cap. II (Aedes
rotunda Vestae); Les trois premiè- res regiones caeli de Martianus Capei la,
Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. A M. Niedermamì), 1956,102-107. Sulla
parola augur e la sua preistoria indoeuropea, vedi Remarques sur augur,
augustus, REL Aspects...,63-101 (Les trois péchésdu guerrier). Citiamo ancora
L. GERSCHEL, Coriolan, Eventail de l’Histoire vivante (=Mél. L. Febvre), II,
1954,33-40: Coriolano, accampatosi davanti a Roma, resiste alle ambasciate dei
suoi compagni d’arme, poi a quella di tutto il corpo sacerdotale rivestito
delle sue insegne sacre e con gli strumenti di culto, ma cede alla terza, a
quella di tutte le donne di Roma che portano i loro bambini - la parte
germinativa di Roma - condotte dalla sua propria madre e da sua moglie. Sulla
diversità delle posizioni del re in rapporto alle tre funzioni, vedi la mia
comunicazione al Vili Congresso Internazionale di Storia delle Religioni (Roma
1956), Le rex et les flamines maiores, riassunta negli Atti. Sul re germanico
nella prospettiva trifunzionale vedi J. DE VRIES, Das Kònigtum bei den
Germanen, Saeculum Le teologie dei diversi popoli indoeuropei non sono
essenzialmente degli accumuli incoerenti di dèi stratificati dai flussi e
riflussi fortuiti della storia. In ogni luogo su cui siamo sufficientemente
informati è facile riconoscere un gruppo centrale di divinità solidali che si
definiscono le une con le altre e che si spartiscono le province del sacro,
secondo il piano spiegato nel capitolo precedente. Questi gruppi sono stati per
lungo tempo, a seconda dei casi, trascurati, negati o mal compresi. Il loro
riconoscimento - e notoriamente quello del gruppo italico e mitanno di cui si
discusse inizialmente (1938, ma soprattutto a partire dal 1945)-èall’origine
dei principali progressi dei nostri studi; all’origine anche di numerose
discussioni spesso gradevoli, talvolta penose, ma generalmente utili, tra il
comparatista e lo specialista dei diversi ambiti. 2. Gli dèi caratteristici
delle tre funzioni negli inni e nei RITUALI VEDICI I sacerdoti dell’India
vedica, in un certo numero di circostanze rituali importanti, associano (per
delle invocazioni, delle offerte o delle enumerazioni classificatorie) i due
sovrani dell’universo, Mitra e Varuna, il dio guerriero per eccellenza,
lnd(a)ra, c i due gemelli, quasi sempre designati al duale con un nome
collettivo, i Ncisatya o Asvin, guaritori, datori di discendenza e di ogni
sorta di bene. Talvolta al secondo livello, evidentemente per analogia col
raggruppamento binario del primo e terzo livello, Indra compare associato a un
altro dio, spesso variabile (Vàyu, Agni, Surya, Visnu). Abbiamo già visto (I §
18) questo insieme divino (Mitra-Varuna, i due ASvin, Indra con Agni o Sùrya),
invocati per ottenere la formazione di un feto maschio, obiettivo più importante
in questi tempi arcaici che non oggi. L’ordine di numerazione mette gli ASvin
al secondo posto, prima di Indra poiché si tratladi una nascita, cioè di un
avvenimento che è propriamente del loro ambilo. Con un’alterazione differente
dell’ordine che mette più in evidenza Indra, questo raggruppamento costituisce
la lista dei principali dèi in coppia invocali al momento culminante della
spremitura mattutina del soma (il sacrificio tipico); sono Indra-Vàyu,
Mitra-Varuna c i due ASvin (vedi il Sat. Bruhm., IV, 1, 3-5) ed è lui che
comanda il piano di un certo numero di inni del Riveda ispirati da questo
rituale. Il contesto di questi inni è sovente istruttivo, garantisce e illustra
il valore funzionale di ogni livello divino: per esempio in I, 139 Indra-Vàyu
sono caratterizzati dalla presenza, vicino a loro c nella stessa strofa ( 1),
della parola sàrdhas, termine tecnico che designa il battaglione dei giovani
guerrieri divini: la strofa di Mitra-Varuna (2) è riempita dalla nozione di rtù
c dnrta, cioè dell’Ordine cosmico e morale e dal suo contrario; gli ASvin (3)
sono invece presentati come i signori delle due varietà di vitalità, srlyah e
prksah. Nei due inni complementari (I, 2 e 3), Indra-Vàyu sono qualificati come
nani, Mànner, eroi (2, slr. 6); di Mitra-Varuna (2, str. 8) è detto che con
l'Ordine, curando l'ordine, hanno raggiunto un’elevata efficienza ; quanto agli
Asvin, donano gioia a molti (3, slr. 1). 3. Lis ti-: ascendenti e discenden ti
Più spesso l’ordine canonico sia ascendente che discendente è rispettato. Ecco
inizialmente due casi molto puri in cui Indra è solo al suo livello. 52 Nel
rituale arcaico e minuzioso d’erezione dell’importante altare del fuoco, al
momento in cui si tracciano i sacri solchi che devono limitare l’area, viene
fatta un’invocazione alla vacca mitica, Kàmadhuk (quella che quando la si munge
dona ciò che si desidera). L’invocazione contiene la sequenza divina che ci
riguarda, nel senso discendente, con un prolungamento che ne garantisce i
valori funzionali: Produci come latte ciò che desiderano, a Mitra e Varuna, a
Indra, ai due Asvin, a Pùsan (dio del bestiame e talvolta dei sfidra), alle
creature, alle piante! (cf. Éat. Brdhm.). In una tale numerazione ordinata, al
di sopra delle piante, degli animali ed eventualmente degli uomini non-arya,
Milra-Varuna, Indra e gli Asvin non possono patrocinare che tre varietà di
uomini arya, quelli che corrispondono rispettivamente e gerarchicamente alle
loro tre nature. In un sacrificio offerto per ottenere certe prosperità, gli
stessi dèi sono invocati nell’ordine ascendente con un complimento collettivo
ed esauriente (Taittir. Sarnh.): tu sei il soffio degli dèi Asvin... tu sei il
soffio di Indra... tu sei il soffio di Mitra-Varuna... tusei il soffio di Tutti
gli Dèi!. Con Agni associato ad Indra, nell’ordine discendente, si osserva la
stessa sequenza all’inizio di un lesto speculativo molto interessante ( RV, X,
125 = A V, IV, 30 con una leggera variante nell’ordine delle strofe): è il
famoso inno panteista, messo nella bocca di un personaggio che è senza dubbio
Vàc, la Parola, c che in ogni caso si presenta come il supporto e l’essenza
comune di tutto ciò che esiste. La prima strofa è questa: Io vado con i Rudra,
con i Vasu, con gli Àditya e con Tutti gli Dèi! Sono io che sostengo tutti e due
Mitra-Varuna; sono io che sostengo Indra-Agni, io che sostengo i due Asvin!. È
degno di nota che nelle strofe seguenti, analizzando la propria polivalenza o,
come ella dice, i diversi luoghi c soggiorni in cui glidèi l’hanno introdotta
(RV, str. 3 =A Vslr. 2), Vàc metta in risalto, come parti della sua opera in
rapporto agli uomini (RV str. 4, 5, 6 =AV str. 4, 3, 5) il nutrimento e la
vita, poi la parola assaporata dagli dèi e dagli uomini e il bene che concede
ai personaggi sacri (bruh- man, rsi), infine l’arco la freccia che uccide il
nemico del brahmàn c il combattimento. È chiaro che, qualunque sia l’intenzione
dottrinale (si è parlato in quest’occasione di Logos ncoplalonico), questo
poema utilizza nelle sue espressioni il più antico sistema concettuale degli
Arya: con la sua esposizione di nozioni parallele (dèi, azioni) conferma che la
sequenza Mitra-Varuna, Indra (solo o accompagnato) e i due Asvin riunisce i
patroni e le espressioni teologiche delle tre funzioni. Gli dei arya dei
Mitanni Talvolta leggermente ritoccata, secondo preoccupazioni che è spesso
possibile comprendere, questa stessa sequenza si ritrova in diversi testi
dell’India arcaica, ma ora voglio giungere senza indugio a un documento molto
importante. È risaputo che tra gli Indo-Iranici un ramo parlante sia il futuro
indiano-vedico, che un dialetto molto vicino a quelli che si possono chiamare
para-indiani, invece di emigrare verso Est, verso l’Indo e il Panjab, deviò
verso Ovest, presso l’Eufrate e fino alla Palestina, incorrendo in un destino
brillante ma effimero e lasciando sue tracce in molti scritti cuneiformi.
Mentrei loro fratelli orientali, autori degli inni vedici, sfuggono alla
storia, questi, circondali da popoli archivisti e armati di una scrittura, sono
localizzabili e databili con una grande precisione. Sono loro che hanno fatto
tremare e talvolta crollare antichi reami del Vicino Oriente con le loro bande
di guerrieri specialisti, di cui si c parlato più sopra, quelli che i testi
babilonesi ed egiziani chiamano marianni. Il gruppo più interessante di questi
Para-Indiani è quello che, inquadrando e dirigendo un popolo di altra origine,
ha fondato nella metà del secondo millennio, sulle bocche deH’Eufrate, l’impero
hurri- ta dei Mitanni, che per un certo tempo Hittiti ed Egiziani hanno dovuto
trattare da pari a pari. A Bogazkòy, negli archivi di un re hittita, gli scavi
hanno scoperto in diversi esemplari il testo di un trattato concluso da questo
principe col suo vicino dei Mitanni, il re Mati- waza. Restaurato sul suo trono
dall 'Hittita che gli aveva inoltre donato sua figlia, il Mitan no stabilì
un’alleanza col suo benefattore nella debita forma. Il testo enumera le
maledizioni celesti in cui egli accetta di incorrere se mancherà alla parola.
Secondo l’uso, i due contraenti convocano come garanti tutti gli dèi che i loro
due imperi riconoscono. Fra gli dèi mitanni, vicino a un gran numero di dei
sconosciuti e di altri riconoscibili come divinità locali o babilonesi,
s’incontra una sequenza che è stata immediatamente identificata dagli
indianisti e su cui i filologi hanno lungamente lavorato, esaminando le
particolarità grafiche e grammaticali del testo. Oggi renumerazione si può
rendere con sicurezza nel modo seguente: Gli dèi Mitra-(V)aruna [variante
Uruvcma] in coppia, il dio Indura [var. Inclar], i due dèi Nàsatyu. Per più di
trentanni, senza aver preso in visione i documenti vedici principali citati, si
sono proposte per questa riunione di dèi delle spiegazioni strane (Schulz) o
insufficienti (S. Konow, 1921 ). Il danese A. Christensen con un’analisi
serrata si è avvicinato alla verità, riconoscendo che Mitra-Varuna, Indra e i
Nàsalya non compaiono a Bogazkòy come tecnici di atti diplomatici, né come
interessali di questa o quella clausola particolare, ad esempio matrimoniale,
del trattalo, ma poiché erano dèi principali della società arya.
Sfortunatamente egli ha pensato questo stato maggiore solo nel quadro dualista
dell’opposizione *asura-daiva preminente nell’Iran, reale ma meno importante
nell’India vedica, c l’ha ripartito artificialmente, contrariamente alle
indicazioni del testo, in due gruppi, Mitra-Varuna da una parte e Indra-Nàsatya
dall'altra. E solo nel 1940, grazie a un dossierve dico delle tre funzioni e ai
testi vedici che associano gli stessi dèi presenti nel trattalo di Bogazkòy,
che è apparsa l’interpretazione più semplice che io ho riassunto in questi
termini nel 1945: A Boguzkòy, sotto Mitra-Varuna, dèi della sovranità che
patrocinano ciò che è sacro e ciò che è giusto, dèi della regalità coi suoi
necessari ausiliari, sacerdoti e giuristi, Indura e i Nàsatyu, rappresentanti
duplici di uno stesso tipo di dèi, non sono sullo stesso piano: a un secondo
livello vi è Indura, dio della funzione guerriera e dell’aristocrazia militare
dei marianni; poi, a un livello ancora inferiore vi sono i patroni del
terzo-stato, i Nàsatyu. Nominando questi dèi insieme e in quest’ordine, il re
fa due operazioni precise: vincola con se stesso tutta la società del suo
reame, presentata nella sua forma regolare, ed evoca le tre grandi province del
destino e della provvidenza. Questo corrisponde del resto alla stesura delle
maledizioni che accettu di attirarsi in caso eli spergiuro: tutto passa
ampiamente dalla sua persona al suo popolo e alla sua terra-sterilità,
espulsione e oblio, odio generale da parte degli dèi . Connotati degli dèi
caratteristici delle tre funzioni NELLA RELIGIONE VEDICA Non sarà inutile, per
agevolare il lettore nelle analisi particolari che seguiranno, precisare ora in
qualche parola, nella prospettiva delle tre funzioni, gli orientamenti e i
limiti di questi diversi dèi che gli archivi di Bogazkòy, confermando le
formule degli inni e dei rituali indiani, comprovano essere un raggruppamento
formulare pre-vedico. Ecco come questi valori sono stati riassunti nel mio
piccolo libro Les dieux des Indo-Européens (1952). Non è un caso se il primo
livello è spesso rappresentato da due dèi: nella sovranità che questi antichi
indiani concepivano vi erano due facce, due metà antitetiche ma complementari e
ugualmente necessarie, incarnate e patrocinate da due re, Mitra e Varuna. Se
dal punto di vista dell'uomo Varuna è un signore inquietante, terribile,
possessore della màyà, cioè della magia creatrice delle forme, armato di nodi e
di reti, che opera cioè avvinghiameli immediati e irresistibili, Mitra, il cui
nome significa Contratto, e anche Amico, è rassicurante e benevolo, protettore
degli atti e dei rapporti onesti e stabiliti, estraneo alla violenza. L'uno,
Varuna, dice un testo celebre, è l’altro mondo; questo mondo è invece Mitra.
Varuna è più despota, più dio stesso se così si può dire; Mitra è quasi un
sacerdote divino. Più che della prima funzione, Varuna sembra avere maggiori
affinità con la seconda, violenta e guerriera; Mitra, per la tranquilla
prosperità che dischiude grazie, alla terza. L'opposizione è così netta che da
tempo si sono potuti sottolineare i tratti quasi demoniaci di Varuna: non è
forse l’àsura per eccellenza ? E nelle forme post-vediche della religione, come
già in molte strofe del Rgveda, gli usura non sono forse dei misteriosi demoni?
In Ind(a)ra si riassumono tutte altre cose: i movimenti, i seni zi, le
necessità della forza brutale che applicate alla battaglia producono vittoria,
bottino e potenza. Questo campione vorace, armato di folgore, uccide i demoni e
salva l’universo, per compiere le sue imprese si inebria di soma che dona
vigore e furore. Egli è il danzatore, nrtti; il suo splendido e ardente seguito
è formato dai Marut, trasposizione atmosferica del battaglione dei giovani
guerrieri, màrya. Per lui e per essi si esprime una morale dell'exploit e
dell'esuberanza che si oppone all'onnipotenza immediata e rigorosa, come alla
benevolente moderazione che si riunisce nel primo livello. Gli dèi canonici
dell'ultimo livello, i Ndsatya o Asvin, non esprimono che una parte del dominio
complesso tipico della terz.a funzione. Sono soprattutto datori di salute,
giovinezza e fecondità, dèi taumaturghi soccorritori degli infermi, degli
amanti, dei figli senza fidanzata o del bestiame sterile. Ma la terza funzione
è molto più di tutto questo, non solo salute e giovinezza ma nutrimento,
abbondanza in uomini e in beni, cioè massa sociale e ricchezza economica,
attaccamento al suolo, a questa gioia tranquilla e stabile dei beni, che si
esprime in sanscrito con l'importante radice ksi Anche gli Asvin sono spesso
rinforzati al loro livello dagli dèi e dalle dee che garantiscono altri aspetti
della terza funzione, come la vita animale, l’opulenza, la maternità ( Pùsan,
Puramdhi, Dravinodà, il Signore dei Campi, SarusvatT ed altre dee madri) o
ancora, che presiedono al carattere plurale, collettivo, totale (Tutti-gli-Dèi,
paradossalmente concepiti come una classe particolare di dei) espresso dal
plurale virali, i clan che Rgveda Vili, 35 oppone come etichetta della terza
funzione ai singolari neutri bràh- man e ksatrà, caratteristici delle due
funzioni supreme. Abbiamo qui un buon esempio di struttura, una teologia
articolata difficile da pensare come formata da un assemblaggio di pezzi e
frammenti: l’insieme c il piano condizionano i dettagli; ogni tipo divino nel
suo orientamento proprio esige la presenza di tutti gli altri e non si
definisce che per rapporto agli altri, con la vivacità che solo l’antitesi
produce. Il riconoscimento di questa sequenza divina e del suo carattere
prc-vcdico ha permesso di compiere, nel 1945, un passo decisivo
nell'interpretazione delle religioni iraniche c di rendere conto di un tratto
importante della teologia aveslica da tempo osservalo. 6. Gli dèi indo-iranici
delle tre funzioni nella riforma ZOROASTRIANA Sotto il nome di Zoroastro si è
avuta una profonda riforma che ha notevolmente alteralo il paganesimo
ancestrale, somma di una serie di riforme progressive nello stesso senso.
Tuttavia, considerando il risultato storicamente attestato di questo processo
riformatoree il punto di partenza preistorico, determinabile poiché era
sicuramente vicino allo schema vedico e pre-vedico oggi riconosciuto, certe
linee direttrici del movimento appaiono immediatamente. Nell’Ave.vra
nongàthico, dove è mitigato l’intransigente monoteismo delle Gùthà e dove,
sotto il gran dio Ahura Mazda - senza dubbio anche lui sublimazione dell’Asura
supremo, quello che l’India chiama Varuna, - ricompaiono delle figure mitiche
di alto rango che portano i nomi dei principali dèi della lista di Bogazkòy
(MiGra, Indra, Nàr|ai0ya). È degno di nota che Mi0ra resti un dio, mentre Indra
(al pari di un altro dio, Saurva, il vedico Sarva, che è in rapporto
differente, ma certo, con la forza e la violenza) e Nàr]ai0ya - enunciati
ancora sempre in quest’ordine come nelle formule indiane in cui i Nàsatya
seguono Indra - sono i nomi dei grandi demoni: segno di una riforma che
(operata da sacerdoti, uomini della prima funzione, e destinata a imporre
uniformemente a tutta la società mazdaica la morale elevata del primo livello
purificalo) ha rigettato, anatemizzato, demonizzato i patroni divini che
tradizionalmente rappresentavano e giustificavano altri comportamenti come lo
scatenamento guerriero c l’orgia, meno sanguinante ma certo non meno libera,
dei culti della fecondità. 7. Le Entità zoroastriane Quanto alla nuova teologia
monoteista allo stato puro, quella delle Gùthà, essa riposa, in un’altra
maniera, sullo stesso schema. Il tratto saliente è 1’esistenza di un gruppo di
Entità astratte associate al Gran Dio unico. Queste Entità non hanno ancora un
nome collettivo, ma sono quelle che si vedranno in seguilo costantemente
raggruppate in un ordine fisso, sotto il nome di Amasa Spanta, gli Immortali
Benefìci (o Efficaci). Si è discusso a lungo per sapere se nelle Gùthà queste
Entità siano già delle creature o delle emanazioni separate da Dio - una sorta
di arcangeli - o semplicemente degli aspetti di Dio, ma questo non cambia
niente quanto al problema delle loro origini che qui ci interessa. La lingua e
lo stile delle Gùthà sono molto oscuri, di un’oscurità volontaria e raffinata,
ma fortunatamente per orientarsi si dispone di talune considerazioni che non
dipendono dalle incertezze di parola per parola. 1) Il senso e la struttura grammaticale
dei nomi che designano le Entità forniscono qualche insegnamento. 2) Le strofe
che contengono quasi tutti i nomi di una o più Entità sono assai numerose per
permettere delle osservazioni statistiche - frequenza relativa di ogni Entità,
frequenza delle loro associazioni diverse - che rivelano dei tratti molto
importanti del sistema. Per esempio, se l’intenzione, la forma e lo stile di
questi inni lirici non costringono il poeta a presentare le Entità in lista nel
loro ordine razionale, come faranno più tardi i testi rituali in prosa,
tuttavia la tavola delle frequenze di menzione delle Entità, prese
separatamente e in conseguenza delle importanze relative che i poeti le
attribuiscono, riproduce esattamente l’ordine gerarchico che esse avranno in
seguito sotto il nome di Amaste Spanta: questa gerarchia dunque esisteva già.
3) Un altro elemento d’interpretazione è fornito dalla lista degli elementi
materiali che la tradizione associerà, parola per parola, alla lista delle
Entità, gemellaggio a cui gli inni stessi fanno allusioni certe e precise. 4)
Infine, nell’À vesta non gàthico, ad ognuna delle Entità è opposto un
arcidemone che in molti casi le chiarifica. Il quadro è il seguente: Entità
astratte Elementi materiali arcidemoni opposti PATROCINATI VohuManah bue (Il
Buon Pensiero) Asa (l’Ordine) fuoco XsaGra (la Potenza) metallo Àrmaiti (il
Pensiero terra Pio) Haurvatà( acque (l’Integrità, la Salute) AmarstàJ (la
piante Non-Morte, l’Immortalità) Gli dèi indo-iranici delle tre funzioni,
trasposti nelle ENTITÀ Arcangeli o aspetti di Dio, in qualunque modo si
interpretino le Entità, questo quadro suscita delle domande: perché questi gli
eletti e Il Cattivo Pensiero Indra Saurva NàqaiOya La Sete La Fame non altri
che sarebbero più facilmente concepibili? Perché, non disponendo che di così
poco posto, gli autori del sistema ne hanno in qualche modo sprecato una alla
fine, raddoppiando la Salute con rimmortalità, che quasi senza eccezioni è
nominata insieme ad essa? Perché questi posti precisi - 2, 3, 4 - conferiti ai
tre arcidemoni che sono antichi dèi funzionali condannati dalla riforma? Un
confronto delle Entità zoroastrianc con la lista vedica e mitannica degli dèi
funzionali, mostra dove bisogna cercare la soluzione d’insieme. 1 ) Le ultime
due, fra i cui nomi vi è assonanza e che sono presso a poco inseparabili,
ricordano per le nozioni così simili che esprimono, per gli elementi materiali
associali c per il loro posto gerarchico, i gemelli Nàsatya, indissociabili,
donatori di salute e di vita, ringiovanitori dei vecchi, tecnici delle virtù
medicali contenute nelle acque c nelle piante. 2) Prima di queste, la terza
Entità è la Terra in quanto madre, nutrice e modello della padrona di casa
iranica: ricorda così la dea variabile (Sarasvatl, notoriamente) che si vede
talvolta unita ai Nàsatya nelle enumerazioni vedichc che segnalano la terza
l’unzione. Così il dominio delle tre ultime Entità zoroastrianc, designate
tutte da sostantivi femminili, mentre quelle superiori sono nominale da neutri
(cf. in vcdico vis, femminile, contro brahman c ksutriì, neutri), è quello
della terza l’unzione. In più, nella persona di Àrmaili, è a una Entità della
terza funzione che il sistema oppone il cattivo Nàqai0ya, demonizzazione
(ridotta a un unico personaggio) delle due divinità canoniche della stessa
funzione, i Nàsatya. 3) Al di sopra, la terza Entità si chiama XsaOra, cioè la
stessa parola di ksatni da cui deriverà il nome indiano degli ksatriya c che
lin da Riveda Vili, 35 caratterizza differenzialmente la seconda l'unzione,
come nell’epopea narta degli Osscli la forma a‘xsctrta, }> fornisce
differenzialmente il nome della famiglia degli croi forti. Il metallo che gli è
associato è il metallo in tulle le sue valenze, ma dei lesti espliciti lo
precisano come il metallo delle armi; l’arcidemonc a lui opposto, Saurva, porla
il nome vedico di Sarva, varietà di Rudra, personaggio complesso che non può
qui essere esaminato, ma che nella sua qualità di arciere c di padre dei Marut
è vicino a lui nella seconda funzione. 4) Le due prime Entità, le più
frequentemente pregate o menzionale, le più vicine a Dio c spesso associate,
portano dei nomi significativi: ASa è la parola avestica (cf. antico-persiano
aria-) che corrisponde al vedico ria, l’Ordine cosmico, rituale, sociale, morale,
patrocinato dagli dei sovrani ma principalmente (e negli epiteti che gli sono
propri) dall’inflessibile e terribile Varuna. Vohu Manah, il Buon Pensiero, in
una serie di passaggi gàthici e in tutta la letteratura non gàlhica, è
presentato, al contrario, come vicino all’ uomo, al pari del benevolo e
amichevole Mitra, vicino all’uomo e a questo mondo, in opposizione a Varuna che
è l’altro mondo. Yasna XLIV contiene a questo proposito due strofe rivelatrici,
le strofe 3 e 4, in cui si divide il cosmo lontano e il nostro scenario più
vicino, tra A3a e Vohu Manah, in modo così netto come fa Rgveda IV, 3,5 tra
Varuna e Mitra (ognuno con degli ausiliari di cui si parlerà nel capitolo
seguente). L’elemento materiale associalo a Vohu Manah c il bue: ora, fin
dall’epoca indo-iranica, si c da tempo riconosciuto (A. Christensen) che il bue
era sotto la protezione particolare del sovrano Mitra. Infine, la coppia
dell’Entità ASa e dell’arcidemone Indra ricorda che molti inni del Rgveda
inscenano delle tenzoni tra i 1 sovrano Varuna e il guerriero Indra, depositari
di due morali, la cui divergenza sfocia facilmente in un conflitto. 9.
Intenzione di questa riforma zoroastriana Altri particolari dello stesso genere
arricchiscono e sfumano il confronto, ma questi sono sufficienti per fondare la
soluzione del problema delle origini degli Amasa Spanta che io ho estesamente
sviluppato nel 1945 nel mio libro Naissance d’Archanges: la lista delle sei
Entità dello zoroastrismo monoteista c stata ricalcala, copiata, dalla lista
degli dei delle tre funzioni del politeismo indo-iranico; più esattamente, da
una variante di questa lista, come si trova in India, che ai cinque dèi maschi
nominati, per esempio, a Bogazkby, aggiungeva nella terza funzione, vicino ai
Nàsatya, una dea madre. Perché questa copiatura? Perché Zoroastro o i
riformatori assunti sotto questo nome non hanno semplicemente e puramente
soppresso questi falsi dèi»? Senza dubbio perché, sacerdoti c filosofi, erano
attaccati a quella struttura trifunzionale del loro sapere c ne riconoscevano
l’efficacia come mezzo di analisi c come quadro di riflessione sulla vita;
senza dubbio perché gli uomini, gli Arya verso i quali si indirizzava la loro
predicazione e che volevano persuadere o costringere, erano essi stcssi
attaccati a questa forma di pensiero e bisognava dunque fornire un sostituto
esatto di ciò che si toglieva loro. Infine, senza dubbio perché così presentata
la lezione era più eloquente: uno degli oggetti pratici della riforma, come si
è visto, era distruggere la morale particolare dei gruppi di guerrieri e
allevatori, a vantaggio di una morale ripensata e purificata dalle funzioni
sacerdotali. Elevando, ad esempio, al posto in cui infieriva sino allora
l’autonomo Indra, l’esemplare figura di una Potenza, XSaGra, devota alla santa
religione, si portava ai sostenitori dell’antico sistema un colpo più rude
della semplice negazione del dio pagano o della semplice soppressione di questa
provincia della teologia. In un certo senso si può dire che la riforma
zoroaslriana, nel riguardo delle Entità, sia consistita nella sostituzione di
ogni divinità della lista trifunzionale con una equivalente, che conservava il
suo rango ma che essenzialmente era privata della propria natura e animalo da
un nuovo spirito, dallo spirilo conforme alla volontà e alle rivelazioni del
Dio unico. Si spiega così l’impressione di sconforto che provano gli studiosi
al primo contatto con le Gcithà: malgrado i loro diversi nomi, questa Entità
che si muovono sembrano equivalenti, intercambiabili. Si spiega così come lutti
gli Amasu Spanta, qualunque sia il livello e il dio funzionale a partire dal
quale ognuno è stato sublimalo, portino uniformemente a pensare, circa il loro
comportamento, al gruppo indiano dei due primi livelli, agli dèi sovrani, gli
Àditya, fra i quali Mitra e Varuna sono i principali. Questa analogia, che è un
fatto incontestabile e che B. Geiger e K. Barr hanno avuto ragione di mettere
in risalto ampiamente, non ha comunque risolto il problema delle origini delle
Entità: esse non sono gli equivalenti normali e antichi degli dèi sovrani
vedici, ma gli equivalenti degli dèi vedici dei tre livelli, dei tre livelli
energicamente riportati al tipo unico di una santità esigente: dèi sovrani
certo, ma anche, sotto i sovrani, un dio violento e degli dèi vivificanti che
li completano. Gli dèi indo-iranici delle tre eunzioni e le spiegazioni
CRONOLOGICHE Questa spiegazione degli Amasa Spanta, immediatamente ammessa da
molti iranisti, ha ricevuto in seguilo degli ampiamenti e alcuni li ritroveremo
al capitolo seguente (III, § 8). Devo qui limitarmi e sottolineare la
principale conseguenza del punto di vista comparativo. Riportando ai tempi
indo-iranici la lista canonica mitannica e vedica degli dèi delle tre funzioni
con la loro gerarchia, ci è precluso ogni tentativo di spiegare questa lista e
questa gerarchia con avvenimenti storici o della preistoria recente dei tempi
vedici. Indra non è, non può più essere considerato come un gran dio che, ad
esempio, le condizioni sociali e morali di un’epoca di conquista sarebbero in
procinto di sostituire a un più antico gran dio Varuna che in seguito avrebbe
sviluppato il suo prestigio alle spalle di un più vecchio dio Mitra. Se così
fosse, come comprendere che questa situazione, effimera per natura, questi
rapporti instabili di dèi in crescita e di dèi che retrocedono si siano fissati
e cristallizzati allo stesso stadio di evoluzione, disegnando lo stesso quadro
d’insieme (arrestando per secoli allo stesso massimo il progresso di uno dei
termini e allo stesso minimo la soppressione dell’altro),pressoi Para-Indiani
dei Mitanni, negli inni e nei rituali propriamente vedici e ancora, nel
politeismo iranico che si lascia leggere in filigrana sotto la teologia di
Zoroastro? La storia non può essere stata in questo punto tre volte identica,
aver avuto degli effetti intellettuali così simili in queste tre società
precocemente separate. La sola interpretazione plausibile è che egli
Indo-Iranici ancora indivisi, qualunque fosse il loro punto di partenza, erano
arrivati ai limiti delle loro Terre Promesse in possesso di una teologia in cui
i rapporti di *Varuna con *Mitra e di *Indracon *Varuna erano già come li
ritroviamo negli inni e, inconseguenza, questi rapporti e il raggruppamento
degli dèi che sostengono, lungi dall’essere il risultato fortuito di
avvenimenti, erano un dato concettuale, filosofico, un’analisi e una sintesi in
cui ogni termine presuppone gli altri, così fortemente come la destra
presuppone e chiama la sinistra, in breve, presuppone una struttura di pensiero.
Le testimonianze che talvolta si è pensato di ritrovare, negli inni vedici, di
un indietreggiamento di Varuna rispetto a Indra, si spiegherebbero dunque
altrimenti: gli inni in cui questi dèi si sfidanoe in cui oppongono le loro
vanterie, l’inno stesso in cui Indra si glorifica di aver eliminato Varuna, non
sono che messe in scena della tensione che esiste tra 1’aspetto Varuna della
funzione sovrana e la funzione di Indra, e devono esistere affinché la società
ne risenta pienamente i benefici. I miti collegati ai signori divini delle
funzioni devono, almeno in parte, illustrare con chiarezza la divergenza delle
funzioni e devono farlo senza i riguardi e i compromessi che la pratica sociale
impone: è chiaro, ad esempio, che se la sovranità magica assoluta e la pura
forza guerriera fossero portate agli estremi sfocerebbero in dei conflitti e di
fatto in certi momenti della vita della società a causa di tali conflitti si
producono usurpazioni, anarchia o tirannia. Ed è quello che esprime la teologia
dei rapporti tra Varuna e Indra che risalta dagli inni: nella grande
maggioranza dei casi essi collaborano, ma in qualche testo dialogato i poeti
sono portati a questo estremo, che i politici evitano saggiamente e per meglio
definirli, per vederli e farli vedere, li hanno opposti come rivali. Stando
così le cose, si tratta di un esercizio retorico sicuramente antico, poiché
come si è visto lo zoroastrismo ha scelto Indra scomunicato, demonizzato, per
farne l’avversario parti- col are di Asa, cioè dell’Entità in cui, purificato,
sopravvive *Varuna. Comunicazione tra gli dèi delle tre funzioni Questa
osservazione deve essere completata da un’altra inversa. La definizione
funzionale dei tre livelli divini è statisticamente rigorosa (la letteratura
vedica è assai abbondante perché la statistica vi possa trovare un appiglio
certo), precisa non solo nei testi dove tali funzioni sono intenzionalmente
classificate o perlomeno raggruppate, ma anchenella maggior parte dei testi in
cui un poeta considerao invoca gli dèi di un solo livello senza pensare agli
altri. Ma in ogni religione le effusioni della pietà, della speranza e della
confidenza talvolta debordano dal quadro teorico del catechismo e questo è
soprattutto vero per l’India, in cui gli sforzi del pensiero, nel corso dei
tempi storicamente osservabili (e questa tendenza è già sensibile negli inni),
hanno così spesso portato a riconoscere l’identità profonda dell’essere sotto
la diversità delle apparenze o delle nozioni e, per esprimere concretamente
questo dogma dei dogmi, a conferire agli uni gli attributi degli altri. In più,
nella pratica, ciò che interessa l’uomo pio è sicuramente la diversità dei
soccorsi che può ricevere e delle porte mistiche a cui può bussare, ma è anche
e soprattutto la solidarietà e la collaborazione di tutti gli dèi che gli
rispondono. Infine, nelle opere stesse per le quali gli uomini chiamano gli
dèi, capita che la totalità o più parti deH’insiemc funzionale si trovino
interpellati da degli specialisti che gli sono estranei. L’esempio maggiore è
quello della pioggia che gonfia le acque del suolo, che fornisce direttamente o
indirettamente il tipo di ricchezza pastorale e agricola, la salute stessa, di
cui si occupano gli dèi della terza funzione; ma essa c ottenuta grazie alla
battaglia celeste, strappata sotto forma di fiume o di vacche celesti agli
avari demoni della siccità, e questo è il compito, il gran compito di Indra c
dei suoi aiutanti, 1 ’ orda guerriera dei Marut. Congiungere il cielo e la
terra e assicurare la sopravvivenza del mondo è anche l’interesse degli dèi
sovrani c l’operazione tecnica si svolge infine grazie allo specialista
Parjanya. Ma perché mai il poeta si assoggetterebbe a lare sempre questa giusta
c rigorosa distribuzione dei meriti? L’opera c comune c quindi la lode è
unitaria c non ci si stupirà che il grande guerriero Indra sia così spesso
celebrato, nel risultalo come nella forma della sua azione, in quanto donatore
di fecondità e di ricchezza. Ma il lettore preoccupalo di teologia non dovrà
mai dimenticare il modo violento che Indra esercita per procurarsi gli armenti
o per liberare le acque: egli non c una Sarasvall al maschile c non è nella
cerchia dei Pfisan o dei Dravinodà. Se una tale équipe divina c così
sicuramente esistita tra gli Indo-Iranici prima della loro divisione, come
l’ideologia tripartita, l’abbiamo visto nel primo capitolo, essa è più antica
ancora c deve essere riportata ai tempi indoeuropei: c allora legittimo c
necessario ricercare nella teologia degli altri popoli indoeuropei antichi, c
sufficientemente conosciuti, se delle équipes analoghe sono attestate dagli usi
rituali o da formulari. Questa ricerca, intrapresa fin dal 1938, ha
immediatamente portalo a risultati nei domini italici e germanici. Ma allo
stesso tempo, in questi domini in cui gli specialisti, nella loro autonomia,
avevano da lungo tempo costruito delle maestose c dotte spiegazioni di ogni
cosa.la nuova interpretazione ha dovuto rimettere i n questione molti
pseudo-fatti, dimostrando la fragilità di molte pseudo-dimostrazioni, in modo
tale che spesso non è stata considerata la benvenuta. In sintesi, le
opposizioni sono soprattutto nate dal fatto che le filologie separate, sia
scandinava che latina, si erano abituate a pensare cronologicamente - secondo
una cronologia ipotetica e soggettiva - la preistoria, la formazione dei quadri
teologici complessi, presentati dai documenti antichi, mentre questi quadri,
guardati in base alla prospettiva comparativa che a grandi linee viene qui
ricordata, s’interpretano immediatamente, per l’essenziale, come strutture
concettuali che esprimono la distinzione e la collaborazione delle tre funzioni
esplicitate dagli Indoeuropei. Jupiter, Mars, Quirinus e Juu-,Mart-, VOFION(O)-
Le due società italiche di Iguvium e Roma - l’una umbra e l’altra latina -
sulle quali dei testi ben articolati ci informano, presentano due varianti di
una triade in cui i due primi termini sono identici: Juu-, Mart-, Vofìon(o)- a
Iguvium; Jupiter, Mars, Quirinus nella più antica Roma pre-capitolina. Questo
parallelismo incoraggia a non cercare per la triade romana, com’è d’uso, una
spiegazione fondata sul caso, sugli apporti successivi o sui compromessi di una
storia locale: com’è possibile infatti che due serie di avvenimenti
indipendenti possano suscitare due gerarchie divine e due teologie così simili?
14. La triade precapitolina L’esistenza della triade romana, che si è anche
voluto contestare ma che non è dubbia, è messa in evidenza dal fatto che questi
dèi sono rimasti, lungo tutta la storia romana, serviti da tre sacerdoti senza
omologhi, rigorosamente gerarchizzati ( ordo sacerdotum: Festo, Lindsay) che
sono, al di sotto del rex sacro rum, erede ridotto e sacerdotale degli antichi
re, gli alti sacerdoti dello stato: i trej7 amines maiores, cioè il dialis, il
martialist il quirinalis. Questa triade capitolina, vero fossile nell’epoca
storica, respinto dall’attualità di una triade differente formata da Jupiter
O.M, Juno Regina e Minerva, è rimasta legata a molti rituali e a
rappresentazioni evidentemente arcaiche. Una volta all’anno, in una cerimonia
la cui fondazione era attribuita a Numa (Tito Livio I, 21, 4), i
treflciminesMciiores attraversavano solennemente la città in uno stesso carro e
facevano congiuntamente un sacrificio alla dea Fides. I sacerdoti Salii che
conservavano tra i dodici ancilici indiscernibili il talismano caduto dal cielo
cui era stata attribuita la fortuna di Roma, erano in tutela Jovis, Martis et
Quirini (Servio, ad Aen., Vili, 663). Il tragico rituale della devotio, con il
quale il generale romano, per salvare il proprio esercito, si immolava agli dèi
sotterranei contemporaneamente all’esercito nemico, era introdotto da una
formula, da un’enumerazione di dèi che Tito Livio (Vili, 9, 6) ha di certo
trascritto esattamente e che dopo Janus, dio di ogni inizio, nominava
innanzitutto l’antica triade: Giano, Jupiter, Mars Pater, Quirinus, poi
Bellona, i Lari etc. etc. Dopo la conclusione di un trattato, secondo Polibio
(III, 25, 6), i sacerdoti feziali prendevano come testimoni prima Jupiter, poi
Mars e infine Quirinus. Il carattere comune di queste circostanze, in cui la
triade precapitolina è presentata come tale, è che il corpo sociale di Roma è
interessato nel suo insieme e nella sua forma normale: mantenimento della fides
pubblica, senza cui la coesione sociale è impossibile; protezione continua o
urgente; impegno diplomatico. Il sacrificio a Fides è particolarmente
rivelatore poiché è la sola circostanza conosciuta in cui i tre flamines
maiores agiscono insieme; ma lo fanno in maniera ostentata e l’unità del carro,
l’unità dell’operazione sacra, provano che si tratta di mettere sotto la
garanzia di Fides l’unità delle tre cose che Jupiter, Mars e Quirinus
patrocinano distributivamente; tre cose la cui sintesi o aggiustamento sono
essenziali per la vita di Roma. Quali sono queste cose? Valore di Jupiter e di
Mars nella triade precapitolina La risposta non necessita di grandi sforzi,
sempre che si preferisca il sentimento dichiarato dai Romani stessi contro le
ricostruzioni ardite, fatte da tre quarti di secolo dagli epigoni di W.
Mannhardt o da archeologi poco coscienti dei limiti della loro arte; sempre che
non si dimentichi che questi dèi sono stati associati e gerarchizzati a Iguvium
e a Roma poiché rendevano dei servizi differenziati e complementari; e infine,
a condizione che si attribuisca un valore particolare, trattandosi di divinità
dei tre flamines maìores, a ciò che insegna l’ufficio di questi sacerdoti. Se
si osserva questa regola, e queste precauzioni, si riconoscerà in primo luogo
che Jupiter, e nello stesso tempo il Dius (nel capitolo seguente si mostrerà il
senso di questa sfumatura), onorato dagli atti del flamen dialis, e dal suo
comportamento pieno di innumerevoli precetti positivi e negativi, è il dio che
dall’alto del cielo presiede all’ordine e all ’osservazione più esigente del
sacro, garante della vita, della continuità e della potenza romana. Quanto a
Marte, imperturbabilmente docile secondo l’insegnamento dei migliori testi
epigrafici e letterari, si vedrà in lui il dio combattente di Roma, patrono
della forza fisica, di quella forza che può, al pari del vedico Indra, essere
orientata in tre o quattro circostanze (non di più) dal contadino romano, a
profitto dei suoi buoi che hanno bisogno di essere forti, o dei suoi raccolti
che tanti geni maligni, visibili o invisibili, possono minacciare. Questa forza
è sempre rimasta la forza che dona la vittoria, sin dai tempi favolosi delle
origini e fino al declino dell’impero, nella schiacciante maggioranza degli
impieghi conosciuti. 16. QuiRINUS Per Quirino, l’unico invecchiato fra i tre
dèi in epoca storica, gli eruditi antichi hanno generosamente costruito, su dei
pressapochi- smi etimologici allora correnti, delle teorie contraddittorie che
complicano il lavoro; ma fortunatamente disponiamo degli uffici adempiuti dal
suo flamen e di molti altri fatti cultuali, del suo nome e di qualche
indicazione oggettiva degli antichi. Queste diverse fonti informative
forniscono un quadro complesso ma coerente. I ) Siamo a conoscenza di tre
circostanze in cui officia il flamen quirinalis. Ai Robigalia del 25 aprile
sacrifica un cane in un campo nei pressi di Roma e allontana così (verso le
armi da guerra, aggiunge Ovidio) la ruggine che minaccia le spighe. Ai
Consualia del 21 agosto sacrifica sull’altare sotterraneo di Consus, dio del
grano messo in provvista ( condere ); il 23 dicembre sacrifica sulla tomba di
Laren- tia, la cortigiana che incarna in una celebre storia la voluttà, la
ricchezza e la generosità e che ha meritato di ricevere un culto, legando la sua
fortuna a quella del popolo romano. La festa propria di Quirino, i Quirinatici
del 17 febbraio, coincide con (e probabilmente è) l’ultimo atto dei Fornacalia,
cioè delle feste curiali della torrefazione del grano. Nelle altre due
circostanze rituali in cui appare, Quirino è associato alla dea Ops, cioè
all’Abbondanza rurale personificata: una iscrizione ci insegna che il 23
agosto, ai Volcanalia, Quirino e Ops figurano tra le divinità onorate senza
dubbio contro gli incendi (C/L). La leggenda che giustifica l’esistenzadei
Salii di Quirino, dimostra che il voto fondante questo collegio è stato fatto
per la stessa ragione del voto che istituiva la festa di Ops e di Saturno.
Tutti questi dati, che costituiscono l’intero dossier cultuale del dio,
attestano che la sua attività è uniformemente e unicamente in rapporto con le
sementi (tre feste, tra cui la sua), con le divinità agricole Consus e Ops, con
la ricchezza e il sottosuolo. Nello stesso senso si spiega il fatto che nel
390, all 'avvicinarsi dei Galli, quando bisognava seppellire gli oggetti sacri
di Roma, questo compito non spettasse al rex o al flamen dialis, primi
sacerdoti dello stato, come ci si sarebbe aspettato, ma al flamen quirinalis.
2) Il nome di Quirino è sicuramente inseparabile da quello dei Quirites, cioè
dall’insieme dei Romani considerati nelle loro attività civili in opposizione
totale a ciò che essi sono in quanto milites (un aneddoto ben noto di Cesare lo
prova). Kretschmer aveva proposto di spiegare Quirites con curia (volscio couehriu),
come gli uomini riuniti nei loro quadri sociali, essendo QuTrinus (cf. dominus
da domus) il patrono di questa entità della massa sociale organizzata (
*co-uir-io/a -). L’etimologia, in sé e prsé soddisfacente, è stata resa molto
probabile da V. Pisani ( 1939) e indipendentemente da E. Benveniste ( 1945),
che hanno dimostrato come il nome dell’omologo di Quirinus nella triade umbra
di Jupiter, Mars, Vofionus possa essere il compimento fonetico rigoroso di un
*Le- udh-yo-no patrono della massa (cf. il tedesco Leute, latino liberi, massa
di uomini liberi, bambino di nascita libera etc.), esatto parallelo e sinonimo
dal latino *Co-uirI-no. Massa sociale e pace sono, al pari della coltivazione
del suolo, aspetti considerati dalla terza funzione. 3) Ma lo stile di questa
pace è marcato dall’impronta romana e contribuisce al sorprendente meccanismo
che in qualche secolo ha conquistato e romanizzato l’Italia, il Mediterraneo e
il mondo antico e stabilisce il pesante beneficio della pax romana. Per i
Romani non si è mai trattato di una pace gioiosa e cieca ma vigile, in cui le
armi erano deposte ma conservate; in cui i civili Quirites erano anche
mobilitabili, i milites del domani; in cui i comitia legiferanti non erano che
l’ exercitus urbanus senza il suo equipaggiamento, ma pronto nei suoi quadri:
una pace, infine, in cui si pensava molto alla guerra. È questo regime, questo
stato di spirito che Quirino governa e che esprime eccellentemente un tratto
del suo statuto: uno dei flamines minores, il Portunalis - senza dubbio
connesso al dio delle porte ( portele ) delle città, prima di essere quello dei
porti (j)ortus ) - ha l’incarico di ungere le .armidi Quirino (Festo s
.v.persillum, Lindsay), cioè di compiere il gesto di ogni mobilitazione alle
armi: le quali possono anche non essere utilizzate, al momento, ma verso le
quali può sopraggiungere improvvisamente l’esigenza di ricorrervi. Questa
ambivalenza Quirites-milites dei Romani, questa concezione militare della pax
romana, spiegano sufficientemente come Quirino possa essere stato considerato
una varietà di Marte e come i Greci, che concepivano altrimenti l’eipf|VTi,
abbiano scelto per tradurre il suo nome quello di un vecchio dio guerriero,
differente da Ares, ’EvuàA-ioq. E non sarà troppo inutile meditare in questo
contesto su due note del commentatore di Virgilio, Servio, giudicate un tempo
assurde, ma alle quali la nuova prospettiva trifunzionale ha conferito pieno
valore (ad Aen.): Marte è detto Gradivus quando è in furore (Cum saevit) quando
è pacifico (cum tranquillus est), Quirino. A Roma possiede due templi: uno
all’interno della città, in qualità di Quirino, cioè di guardiano e di dio
tranquillo (quasi custodis et tranquilli),' l'altro sulla via Appia, fuori
dalla città, vicino alle porte, in quanto dio guerriero o Gradivus (quasi
bellatores vel Gradivi)... Quirino è il Marte che presiede alla pace (qui
praeest paci) e ha il suo culto dentro Roma mentre il Marte della guerra (belli
Mars) aveva il suo tempio fuori Roma. Jupiter, Mars, Quirinus e i componenti
leggendari di Roma Questa rapida esposizione, spogliata dalle innumerevoli
discussioni che è stato necessario sostenere su quasi tutti i punti, basterà a
dimostrare qual è, nell’unità armoniosa della triade precapitolina,
l’orientamento proprio e l’equilibrio interno di ogni termine. Cielo ed essenza
stessa della religione come supporto di Roma; forza fisica e guerra;
agricoltura, sottosuolo, massa sociale e pace vigilante: queste etichette
definiscono tre ambiti complementari che disegnano una struttura sicuramente
anteriore a Roma e a Iguvium, dunque italica, e quindi così vicina alla
struttura indo-iranica da dirsi risalente ai tempi indoeuropei. Non sarà
inutile ricordare qui i valori funzionali di cui appaiono rivestite, nei
racconti sulle origini di Roma, le tre componenti etniche, base leggendaria
delle tre tribù: Romolo - rex et augur - e i suoi compagni sono i depositari
del potere sovrano e degli auspici; i suoi alleati etruschi, sotto il comando
di Lucumone, sono gli specialisti dell’arte militare; i suoi nemici, Tito Tazio
e i Sabini, sono provvisti di donne, ricchi in bestiame e in più detestano la
guerra e fanno di tutto per evitarla. Una variante frequentemente attestata
(l’abbiamo ricordata in I § 7) minimizza la componente etrusca e concentra le
due prime caratteristiche su Romolo e i suoi compagni. Sotto questa forma la
triade precapitolina si divide molto adeguatamente tra i due gruppi di
avversari e futuri associati: Romolo è costantemente il protetto di Jupiter
(gli auspici iniziali; Jupiter Fere- trius e Jupiter Stator in battaglia) ma è
figlio di Mars e trova riuniti in sé i favori dei due primi dèi della triade;
Quirino (in questo insieme leggendario soltanto) è considerato come un dio
sabino, il Marte sabino portato in dote da Tito Tazio a Roma nella
riconciliazione finale, allo stesso modo del nome collettivo dei Quirites (ma
questa pseudo-sabinità dei Qui riti e di Quirino, benché conf orme al carattere
dei Sabini della leggenda, portatori della terza funzione, si spiega col gioco di
parole, popolare tra gli eruditi di Roma, Quirites-Cures), Si sa che un’altra
forma della leggenda, incompatibile con questa, fa di Quirino il nome postumo
di Romolo, riunendo così sul solo fondatore i tre termini della triade divina
in base agli auspici, alla filiazione e all’apoteosi. 18. Varianti della triade
Jupiter, Mars, Quirinus Della leggenda delle origini, Varrone (De ling. lat.,
V, 74) e Dionigi di Alicarnasso (II, 50) ci hanno conservato un aspetto
importante: all’epoca della riconciliazione di Romolo con Tito Tazio e
dell’entrata dei Sabini di Tito Tazio nella comunità, ormai completa e in via
di sviluppo, ognuno dei due re istituisce dei culti e mentre Romolo fonda solo
il culto di Jupiter, Tito Tazio instaura Quirinus e un gran numero di dèi e dee
che hanno rapporto con la vita rurale, la fecondità e il mondo sotterraneo.
Questa tradizione è molto interessante perché sottolinea ciò che è stato già
segnalato a proposito dell’India (II, § 5); la molteplicità degli aspetti,
l’inevitabile frazionamento di questa terza funzione che Tito Tazio incarna, ma
soprattutto perché tra gli dèi di Tito Tazio (che non sono certamente sabini ma
romani, a dispetto della colorazione etnica della leggenda) molti f igurano in
terza posizione, nelle triadi che non sono altro che varianti della triade
canonica Jupiter, Mars, Quirinus, come Ops (abbiamo già segnalato i suoi
rapporti con Quirino) o Flora. 1 tre gruppi di culto della Regia, della casa
del re, che corrispondono senza dubbio alle tre camere che ancora si trovano
giustapposte nelle rovine, sono: 1 ) culti assicurati dai personaggi sacri del
più alto rango, il rex (a Giano) la regina (a Giunone) e la moglie del flamen
dialis (a Jupiter stesso); 2) culti guerrieri del sacrarium Marti.?, 3) culti
del sacrarium Opis Consivae, la dea dell’abbondanza. Questa collocazione dei
tre livelli funzionali manifestava sensibilmente che la stessa forma di
religione che si analizzava e che si dissociava nelle persone dei tre grandi
flamines, creava al contrario una sua sintesi quando passava nelle mani del
rex, quando era il rex che l’amministrava, non più in quanto incarnazione ma,
nel nome di Roma, come gestore delle forze sacre. Quanto alla triade Jupiter,
Mars, Flora (rimpiazzata più tardi da Venere) sembra essere stata lei a
patrocinare i tre carri delle corse primitive (in relazione con le tre tribù
funzionali e i tre colori bianco, rosso, verde). Flora meritava due e tre volte
questo posto, per il suo potere sulla vegetazione, per la leggendache faceva di
lei un doppione della cortigiana Larentia e perché era assimilata a Roma
stessa, senza dubbio più alla massa romana che all’entità politica patrocinata
da Quirino. Un’altra variante della triade - Jupiter, Mars, Romulus, Re- mus -
presenta Romolo sotto tutt’un altro aspetto (sino alla fondazione di Roma:
gemelli, pastori etc.) e ricorda che la lista canonica indo-iranica affidava a
due dèi gemelli la rappresentazione e la protezione del terzo livello. Nel
paganesimo scandinavo è conosciuta una triade dello stesso tipo, quel la
formata da Ódinn, Pórr, Freyr (o solidalmente, come ultimo termine, Njòrdr e
Freyr). Anche questa triade, al pari di quella precapitolina romana, è stata
spiegata - in modo molto variabile - secondo schemi di evoluzione, come il
risultato di compromessi e sincretismi tra culti successivamente comparsi.
Lacritica a questo tipo di spiegazioni facili e seducenti, che credono di
basarsi logicamente sui dati archeologici, ma che vi si sovrappongono arlifi
cial mente, è stata fatta a più riprese e dovrà ancora essere fatta poiché
l’esperienza dimostra che non vi si rinuncia volentieri. Nel piano ridotto del
presente libro dovremo semplicemente prescinderne ma dichi arare che da H.
Petersen (1876) a K. Helm (1925,1946, 1953), da E. Wessén ( 1924) a E. A. Philippson
(1953), i numerosi tentativi fatti per dimostrare che la promozione di
*Wof3anaz è cosa recente (sostituito a *Tiuz) o che in Scandinavia il più
antico gran dio è Pórr (sempre che non sia Freyr), non potevano riuscire a
dispetto dell’intelligenza, dell’erudizione e del talento dei loro autori. Ci
limiteremo dunque ai fatti e quindi all’esistenza stessa della triade in quanto
tale. E questa triade di Ódinn, Pórr e Freyr che Adamo di Brema ha vi sto
regnare nel tempio di Uppsala e di cui fornisce la descrizione del meccanismo
trifunzionale (Gesta Hammaburgensis eccl. Pontificium, IV, 26-27); è lei che
appare dalle formule di maledizione come dai poemi eddici o dagli scaldi
(Ódinn, Pórr, Freyr, Njòrdr: Egilssaga); è lei che si sprigiona dal racconto
della battaglia escatologica ( Vòluspà, 53-56) in cui ognuno dei tre dèi lotta
contro uno dei maggiori avversari che soccombe sotto i suoi colpi; è lei che si
spartisce i gioielli divini (Skaldskaparmal, cap. 44) ed è lei che rappresenta
l’intera mitologia in cui le altre divinità - salvo la dea Freyja, strettamente
associata a Freyr e Njòrdr e che li completa - sono come comparse che
circondano questi primi ruoli e che si definiscono in rapporto ad essi. Ci si
ricorderà che nella leggenda delle sue origini Roma si è ridotta spesso a due
componenti, benché comprendesse tre tribù che rappresentavano tre funzioni: il
rex-augur Romolo c i suoi compagni, detentori di cleos et virtutem, la potenza
del sacro e i talenti guerrieri, il dominio di Jupiter e Mars, mentre Tito
Tazio e i suoi Sabini erano quelli che apportavano delle specialità loro
connesse, cioè le donne e le ricchezze, opes. Il quadro scandinavo della
formazione della società divina completa è dello stesso tipo: i componenti
riuniti per una riconciliazione ed una fusione conseguente a una guerra
terribile, sono due, gli Asi e i Vani: tra gli Asi Ódinn è il capo, mentre Pórr
è il più eccelso dopo di lui; trai Vani sono invece Njòrdr, FreyreFreyjaipiù
eminenti e i soli nominati individualmente. La distinzione funzionale degli Asi
c dei Vani è chiara e costante. I Vani, specialmente i due dèi e la dea che ne
incarnano al massimo la tipologia, anche se capita loro di essere o di fare
altre cose, sono innanzitutto dei ricchi (Njòrdr, Freyr, Freyja), donatori di
ricchezze e patroni del piacere (Freyr, Freyja), della lascivilà stessa, della
fecondità e della pace (Nerlhus, Freyr-Fródi) csono legati spazialmente ed
economicamente al suolo che produce i raccolti (Njòrdr, Freyr) o al mare in
quanto luogo della navigazione e della pesca (Njòrdr). A questi tratti
dominanti si oppongono quelli dei principali Asi. Né Ódinn né Pórr certamente
si disinteressano delle ricchezze del suolo, ecc., ma da quando la mitologia
scandinava ci è conosciuta i loro centri sono altrove: l’uno è un mago potente,
signore delle rune, capo della società divina; l’altro è il dio col martello,
nemico dei giganti ai quali peraltro assomiglia (si pensi al suo furore); è il
dio tuonante (nel suo stesso nome) che accudisce il contadino e gli dona la pioggia
e anche nel folklore moderno è come un solloprodollo della sua bellicosità in
maniera atmosferica e violenta, non terrena c progressiva. Il senso da
attribuire a questa distinzione tra Asi e Vani è il problema centrale che
domina tutte le interpretazioni delle religioni scandinave c di quelle
germaniche, anche laddove le spiegazioni cronologiche c storiche (di storia
immaginaria) affrontano con vivacità le spiegazioni strutturali e concettuali.
I fatti riuniti dall’inizio di questo libro apportano un grande sostegno agli
strutturalisti: il parallelismo delle teologie indo-iraniche e italiche ci fa
precisamente attendere, presso i popoli imparentati, una teologiaed
unamitologiadel tipo presentato dagli Scandinavi, che oppone per meglio
definirli e che ricompone per creare un insieme vitale: 1 ) delle figure divine
che patrocinano ciò che è sotto il magistero degli Asi, Ódinn e Pórr, l’alta
magia e la sovranità da una parte, e la forza brutale dall’altra; 2) delle
figure divine del tutto differenti che patrocinano ciò che è sotto il magistero
dei tre grandi Vani, la fecondità, la ricchezza, il piacere, la pace, etc. etc.
21. La guerra degli Asi e dei Vani e la guerra dei Protoromani e dei Sabine
formazione di una società TRIFUNZIONALE COMPLETA La frattura iniziale, che
separa i rappresentanti delle due prime funzioni e quelli della terza, è un
dato indoeuropeo comune: lo stesso sviluppo mitico (separazione iniziale,
guerra e poi indissolubile unione nella struttura tripartita gerarchizzata) si
ritrova non solo a Roma, sul piano umanoenei racconto delle origini
dell’Urbe(guerrasabinae sinecismo), ma in India, dove è detto che gli dèi
canonici del terzo livello, gli Asvin, non erano inizialmente degli dèi, ma
entrarono nella società divina come terzo termine al di sotto delle due forze
(ubhe virye) solamente in seguito a un conflitto violento conclusosi con una
riconciliazione e un’alleanza. Come si potrà prevedere, i dettagli di queste
leggende sono stati scelti e raggruppati in modo tale da mettere in rilievo le
funzioni rispettive delle diverse componenti della società e i procedimenti
specifici che queste funzioni attribuiscono ai loro rappresentanti. L’analisi
comparata della leggenda romana sulla guerra iniziale tra Romani e Sabini e
della leggenda scandinava sulla prima guerra nel mondo degli Asi e dei Vani (a
cui bisogna fare risalire, contro E. Mogk, le strofe 21-24 della Vòluspà), ha
rivelato un interessante parallelismo e conferito un senso sia all’una che
all’altra. Ambedue sono formate da un dittico, da due scene in cui ciascuno dei
due campi nemici ha il vantaggio (vantaggio limitato e provvisorio poiché è
necessario che il conflitto finisca senza vittoria e con un patto liberamente
consentito) ed è debitore di questo vantaggio alla sua specificità funzionale.
Da una parte i ricchi e voluttuosi Vani che corrompono daH’interno la società
(le donne!) degli Asi, inviando loro la donna chiamata Ebbrezza dell’Oro;
dall’altra parte Ódinn che lancia il suo famoso giavellotto di cui è noto
l’irresistibile effetto magico e di panico. Allo stesso modo i ricchi Sabini,
da una parte, ottengono quasi la vittoria occupando la posizione-chiave
dell’avversario, non col combattimento, ma acquistando con l’oro Tarpeia (in
una variante, grazie all’amore cieco di Tarpeia per il capo sabino); dall’altra
parte Romolo, grazie a un’invocazione a Jupiter (Stator) ottiene dal dio che
l’armata nemica vittoriosa venga improvvisamente, e senza motivo, invasa dal
panico. 22. Sviluppo della funzione guerriera presso gli antichi Germani
Bisogna comunque segnalare un fatto di enormi conseguenze che ha determinato
ben presto, e non solamente presso gli Scandinavi ma fra tutti i Germani, una
deformazione della struttura delle tre funzioni e della teologia
corrispondente. Da nessuna parte, certamente né a Roma né in India, gli dèi del
primo livello, Varuna e Jupiter, si disinteressavano della guerra: se è vero
che non combattono propriamente come Indra o Marte è anche vero che mettono le
loro magie al servizio della parte che favoriscono e sono loro, in definitiva,
che attribuiscono la vittoria, la quale, se è in effetti conquistata con la
Forza, interessa soprattutto l’Ordine per le sue conseguenze. Non ci si
sorprende quindi di vedere Ódinn intervenire nelle battaglie, senza combattere
molto, ma gettando sull’armata che ha condannato un panico paralizzante, il
legame dell’esercito herfjò- \)urr (cf. i lacci di cui è armato Varuna). Ma è
certo che la parte della guerra nella sua definizione è di gran lunga piu
considerevole che nella definizione dei suoi omologhi vedici o romani: in lui -
e anche nell’omologo germanico di Mitra che esamineremo nel prossimo capitolo e
che è interpretato da Tacito come Marte - si constata più di una osmosi, un
vero e proprio ribaltamento e straripamento della guerra nell’ideologia del
primo livello. All’epoca in cui si sono formate le loro epopee, gli eroi
odinici - Sigurdr, Helgi e Haraldr Den- te-da-Combattimento - sono prima di
tutto dei guerrieri; e nell’aldilà sono i guerrieri morti, in un’eternità di
giochi e di gioie guerriere, che Ódinn accoglie nel proprio Valhòll. In
compenso, almeno in certi luoghi, è Pórr, il nemico dei giganti, il combattente
solitario, ad averperso il contatto con la guerra (almeno quella combattuta
dagli uomini) ed è sopratutto il felice risultato dei suoi duelli atmosferici
contro i giganti e i flagelli, la pioggia benefica per le messi, che ha
giustificato e popolari zzato il suo culto e che talvolta ha spodestato Freyr
dal la parte agricola della sua provincia. Questa doppia evoluzione sembra
essere stata spinta all’estremo tra gli Scandinavi più orientali, presso i
quali così Adamo da Brema (IV, 26-27) definiva i tre dèi della triade di
Uppsala. Thor presici et in aere, qui tonitrus et fulmina, ventos
ymbre- sque, serena et fruges gubernat. Alter Woclan, id est furor, bella gerit
hominique ministrai virtutem contro inimicos. Tercius est Fritto (cioè Freyr),
pacem voluptatemque largiens mortalibus... Sipestis etfames imminet, Thorydolo
lybatur, sibellum, Woda- ni, si nuptiae celebrandae sunt, Fricconi. Anche se si
ammette che la teologia di ognuno di questi tre dèi di Uppsala fosse più ricca,
e più variegata di quanto non appaia nelle brevi osservazioni di Adamo da Brema
(che ha preso Pórr come dio principale poiché figura nel mezzo, al secondo
posto, ed è armalo di un martello che ha scambiato per uno scettro e perché,
tuonante, lo ha as- similato a Giove), non vi è ragione di rifiutare la sua
testimonianza: lo scivolamento della guerra nel dominio di Wodan e lo
scivolamento inverso di Thor al servizio dei contadini sono dei fatti. Ma se ne
comprende l’origine (come su altri punti relativi alla Scandinavia) e dove lo
stesso fenomeno si osserva, i valori dei tre dèi restano essenzialmente vicini
a quelli dei loro omologhi indiani e romani. Stato del problema presso i Celti,
i Greci e gli Slavi Sulle altre parti del dominio indoeuropeo, a causa di
diverse ragioni - cronologia troppo recente, imprestiti massicci da sistemi
religiosi non indoeuropei - è difficile constatare immediatamente le strutture
teologiche corrispondenti alle tre funzioni: sono necessari quindi dei
ragionamenti e di conseguenza I ’ arbitrio è in agguato. Questo stato di cose è
particolarmente spiacevole nell’ambito greco o celtico in cui l’informazione è
tuttavia molto abbondante: bisogna rassegnarsi. In Grecia, dove la religione
non è essenzialmente indoeuropea, il raggruppamento delle dee nella leggenda
del pastore Paride resta ad esempio un gioco letterario e non forma
evidentemente un’autentica combinazione religiosa. In Gallia, dove la
classificazione degli dèi riportata da Cesare (e confermata dai testi irlandesi
sui Tuatha Dé Danann) ricorda per molti versi la struttura delle tre funzioni,
quest’analogia con la filiazione, e i ritocchi che suggerisce, suscitano più
problemi invece che risolverli. Quanto al paganesimo degli Slavi, questi sono
così poco conosciuti perché i tentativi di spiegazione tripartitapossano essere
altra cosa che brillanti ipotesi. Ma la concordanza delle testimonianze sui tre
domini, indo-iranico, italico e germanico, in cui le antiche religioni sono
state descritte in maniera sistematica dai loro stessi rappresentanti, è
sufficiente a garantire che sin dai tempi indoeuropei l’ideologia tripartita
aveva dato luogo a una teologia della stessa forma; a un gruppo di divinità ge-
rarchizzate che esprimevano i tre livelli; e ad una mitologia eziologica che
giustificava la differenza e la collaborazione di queste divinità. Divinità che
sintetizzano le tre funzioni Ci limiteremo a segnalare nella teologia un altro
utilizzo frequente della struttura tripartita, non analitico ma sintetico. Vi
sono infatti divinità che sia i saggi che i fedeli tengono a definire, in
opposizione agli dèi specialisti delle tre funzioni, come onnivalenti,
domiciliate ed efficienti sui tre livelli. Questo tipo di espressione si è
prodotta indipendentemente in diversi luoghi, per esempio nelle civiltà
mediterranee, quando una divinità patrona o eponima di una città ha assunto
un’importanza a svantaggio di altri dèi o di équipes divine: così, presso gli
Ioni di Atene, dove sembra che una teologia tripartita (Zeus, Athena,
Poseidone, Efesto) concernesse innanzitutto le quattro tribù funzionali
(sacerdoti, guerrieri, agricoltori, artigiani), è Atena che in epoca storica
domina la religione. Così, seguendo la felice osservazione di F. Vian, durante
le piccole Panatenee, ella riceveva successivamente degli omaggi divini in
quanto Hygieiu, Polias e Niké, vocaboli che evocano le funzioni di salute,
sovranità politica e vittoria. Allo stesso modo, nello zoroastrismo si è
prodotta la tripla titolatura Buone, Forti, Sunte dei geni tutelari, le
FravaSi, che sono in effetti trivalenti. Dee trivalenti. Tuttavia, tra queste
figure sembra che bisogni far risalire alla comunità indoeuropea un tipo di dea
la cui trivalenza è così messa in evidenza e che è intenzionalmente congiunta
agli dèi funzionali: questa dea, che per il suo stesso sesso e per il suo punto
d’inserimento nelle liste è connessa alla terza funzione, è tuttavia attiva in
tutti e tre i livelli e sembra che la sua presenza nelle liste esprima il
teologhema di una multi valenza femminile che raddoppia la molteplicità degli
specialisti mascolini.Abbiamo ricordato più sopra che talvolta, nelle liste
trifunzionali vediche, la dea-fiume SarasvatTè associata agli ASvin: ora, gli
epiteti di SarasvatT, benché non raggruppati in formule, la definiscono
chiaramente come pura, eroica, materna. Indipendentemente l’uno dall’altro, sia
io che H. Lommel abbiamo proposto di interpretare come un’omologa di SarasvatT
e come l’erede della stessa dea indo-iranica, la più importante delle dee del
\'Avestu non-gàthico, anch’essa dea-fiume, Anàhità; ora, il nome completo e
triplice di Anàhità, fa evidentemente riferimento alle tre funzioni: l’umida,
la forte, l’immacolata, AradvT, Suri, Anàhità. Ed è ancora per sublimazione
dello stesso prototipo che io penso che lo zoroastrismo puro abbia creato la
sua quarta Entità, Àrmaiti, che seppur ordinariamente al terzo livello (dopo
XsaSra, Potenza e prima di Haurvatà(-Amar,?là(, Salute e Immortalità) e benché
non in possesso di una tripla titolatura, porta un nome che significa
Pensiero-Pio, aiuta Dio nella sua lolla contro il Male ed ha come elemento
materiale la terra nutrice differenzialmente associata. Nel Lazio, a Lanuvium,
Giunone era onorata sotto il triplice epiteto di Seispes Mater Regina, i due
ultimi epiteti riportano alla teologia della Giunone romana (Lucina, etc.;
Regina) patrona della fecondità regolata c dea sovrana; ma a Roma la
specificazione guerriera manca, mentre era in evidenza nella figura di Giunone
lanuvia e certamente era espressa dal primo epiteto, l’oscuro Seispet- (rom.
sospit-, da *sue-spit-? cf. Indra svà-ksatra, svu-pati, eie.). Infine, nel
mondo germanico, considerando i Germani continentali, sembra che una dea unica
e polivalente (se non onnivalente), *Friyyò fosse congiunta ai multipli dèi
funzionali di cui abbiamo parlato più sopra; se la specificazione guerriera non
è attestata, il poco che si sa di essa la mostra sovrana (Frea, nelle leggende
che spiegano il nome dei Lombardi) e Venus ( *Friyya-dcigaz, Freitag), Presso
gli Scandinavi questa multi valenza è esplosa: la dea si è raddoppiata in Frigg
(esito regolare di *Friyyó in nordico), sposa sovrana del signore magico Ódinn,
e in Freyja (nome rifatto su Freyr), dea tipicamente Vani, ricca e voluttuosa.
In Irlanda un’eroina, Macha, senza dubbio un’antica dea eponima del luogo più
importante fra tutti, Emain Macha, capitale dei re pagani del 1 ’ Ulster con 1
a piana che la circonda, dovette avere pri miti- vamente questo carattere
sintetico, analizzato in base alle tre funzioni, poiché è sfociata in tre
personaggi, in un trio di Macha ordinato nei tempi. Una Veggente, sposa di un
uomo dei primi tempi chiamato Ne- med, il Sacro, che muore per un’emozione
profonda in seguito a una visione; poi una Guerriera-Campionessa che fa del
proprio marito il suo generalissimo e che muore uccisa; infine una Madre che
accresce meravigliosamente la fortuna del proprio marito, un ricco contadino, e
che muore durante l’orribile parto di due gemelli. Ma non è più possibile
determinare quali rapporti avesse nella religione con gli dèi maschi della
stessa funzione. 26. Le teologie tripartite e i loro elementi Dopo aver preso
una visione globale dei sistemi teologici indo-iranici, italici e germanici che
esprimono l’ideologia delle tre funzioni, abbiamo riconosciuto che sono
abbastanza paralleli per giustificarne la spiegazione nei termini di un’eredità
indoeuropea comune. Non è che l’inizio: senza perdere di vista la struttura
d’insieme, l’esplorazione dovrà concentrarsi successivamente su ognuno dei tre
termini; esaminando la funzione della sovranità religiosa in se stessa, poi
quella del la forza e della fecondità e infine, tram ite la comparazione tra i
dati indiani, iranici, latini etc., cercare di determinare come gli Indoeuropei
concepivano, suddividevano e utilizzavano ciascuna di esse. Note ai paragrafi
Sulla necessità, per lo storico delle religioni, di non perdere mai di vista e
di riconoscere le strutture teologiche di cui studia i frammenti, vedi
principalmente L’heritage..., cap. I (Matièrc, objet et moyens de étude) - al
quale rimando una volta per tutte circa le questioni di metodo - e DIE, cap. II
(Structure et cronologie), Il riconoscimento del raggruppamento arcaico
Milra-Varuna Indra e i Nàsatya, l’inventario delle circostanze in cui appaiono,
sono state fatte progressivamente in: JMQ,59-60 (= JMQ it,38-39); NA 41-52;
Tarpeia, 1947,45-56 (dove sono studiati in dettaglio sei inni del Riveda fondali
su questa struttura); Mitra-Varuna, Indra et le Nàsatya, com- me palrons des
trois fonclions cosmiqucs et sociales, Studia Linguistica; JMQ IV,13 - 35 ( Les
dieux palrons des trois f onctions dans le Rg Veda et dans le AlharvaVeda); in
queste due ultime esposizioni la divisione degli dèi in tre gruppi Aditya,
Rudra, Vasu, è interpretata nello stesso senso (cf. DIE). La discussione delle
spiegazioni anteriori e l’interpretazione nuova formano il primo capitolo di NA
(les dieux Arya de Mitani), Il carattere indiano degli Arya di Mitani è reso
probabile dalla forma del numero uno (aika: sanscrito eka, contro l’iranico
comune *aiva ); P.E. DUMONT ha interpretato senza difficoltà tutti nomi
d’uomini conosciuti grazie al vcdi- co (JAOS). In seguilo G. Widengren ha
sottolineato in questi nomi propri c nella variante u -ru- wa - na del nome di
Varuna (nel trattato di Bogazkoy), qualche fatto fonetico che rinforza questo
parlare di iranico: Numen, II, 1955,80-81 e note 167, 170. § 5. DIE.pp. 11-14.
Un gruppo di raffigurazioni su una faretra cassila c stata interpretata come
rappresentante in alto Mitra c Varuna, nel mezzo Indra (o Vàyu) e in basso i
gemelli Nàsatya in una scena di medicazione miracolosa conosciuta dal Rg Veda :
Dieux cassiles et dieux vediques, à propos d’un bronze du Lourislan RHA, 52,
1950,18-37. Riprenderò prossimamente il problema a partire da una migliore
fotografia (la scena c le insegne di Mitra e Varuna devono essere spiegate
altrimenti: non vi sono degli altari ma un vaso raffigurante una lesta di
leone) e con degli altri documenti sui gemelli § 6-9. La spiegazione degli Amai
a Spanta costituisce la materia di NA, cap. II-V; la quarta Entità, Àrmaiti,
che sembrava creare allora difficoltà, è stala spiegata in seguito in Tarpeia,
cap. I (=JMQ il.). Questa interpretazione è stata accettala e sviluppata da J.
De MENASCE, Une legende indo-iranienne dans l’angelologie judéo-musulmane: à
propos de Hàrut-Màrut, Études Asiatiques (svizzeri) I, 1947,10-18; J. DUCHE-
SNE-GUILLEMIN, Zoroastre, 194847-80; Onnazd et Ah rimati, 1953, 23; The Western
Response to Zoroaster, 195838-51 (vedi specialmente 45-46 contro I. Gcrshevilch
e W. Lcntz); S. WlKANDER (vedi sotto, nota al III cap. § 13); J.C. TAVADIA From
Aryan Mythology to Zoroastrian The- ology, aReviewofDumézil’sResearches, ZDMG,
103, 1953,344-353; K. Barr, Avesta, 1954,52-59 e 197; G. WlDENGREN, Stand und
Aufga- ben deriranischenReligionsgeschichte, Numen, I, 1954,22-26; S. Har- TMAN
in molti articoli specialmente Ladisposition de l’Avesta, Orientatili Suecana,
V, 1956,30-78; e inoltre da altri importanti iranisti. È stata invece rigettata
senza discussione da I. Gerschevitch e W. Lentz e non è menzionala nei libri di
W.B. Henning e R.C. Zaehner. § 10. Questo tipo di spiegazione è stata estesa
alle Entità già gathiche come SraoSa e ASi (considerale come sublimazioni degli
dèi prezoroastriani equivalenti agli dèi vedici Aryaman e Bhaga): vedi qui
sotto, III, § 8; poi al non gathico Rasnu e alla Fravasi (considerate come
figure purificate corrispondenti a Visnu e ai Maj'ut): Visnu et les Marut à
travers la réforme zoroa- striennc, JA, CCXLII, 1953,1-25; infine a Busyastà
(considerata come una demonizzazione della dea Aurora): Déesses latines et
mythes vécliques DIE Gli attacchi più vivi sono venuti dai latinisti della
scuola primitivi- sta; vedi a proposito di H.J. ROSE, RHR e Déesses latines...,
1956,118-123. I germanisti ostili hanno in generale preferito “ignorare”;
tuttavia ho recentemente avuto una gradevole discussione - la prima - con K.
HELM, BGDSL, 77, 1955,347- 365; 78, 1956, 173- 180. Un grande numero di
risposte alle obiezioni si trovano disseminate nelle prefazioni, note e
appendici dei miei libri. Le ultime in ordine di tempo che hanno un valore
generale sono; Examen de criliques réccnles; John Brough, Angelo Brelich, RHR,
CLII, 1957,8-30. § 13.1 latinisti che dissertarono su Quirino dimenticano
solitamente Vo- fionus che riduce di troppo la loro libertà d’ipotesi. Perla triade umbra vedi Remarques sur les dieux Grabovio - d’Iguvium, RP,
XXVIII, 1954, 225-234 e Notes sur le début du riluel d’Iguvium, RHR. La triade
romana è comparsa proprio a fornire il titolo comune degli studi sulle
tecnologie trifunzionali indoeuropee, pubblicati dal 1941 al 1948. § 14.
L’interpretazione è stata presentata per la prima volta in un articolo che
conteneva in potenza tutto il lavoro ulteriore: La préhisloirc des flami- nes
majeurs, RHR. Sono comparsi in seguito JMQ, cap. II c III, poi lutto NR;
riassunto in L'hèritage...72-101. § 15. Contro il Marte agrario vedi NR,38-71
(=JMQ it., 191-217) e Rituels...78-80. Su Jupiter sovrano vedi NR.,71-76 (= JMQ
it.218-222); è importante non vedere in Giano (dio dei prima, di tutti i prima)
un predecessore né un doppio di Jupiter (dio dei summit): DIE, 91-102
eJupiler-Mars-Quirinus et Janus, RHR, CXXXVIII, 1951, 209-210; sugli dèi dei
prima indo-iranici, Tarpeia. La spiegazione del complesso Quirino è stata
formata in tre tempi: 1) JMQ,72-77, 84-94, 143-148, 182-187 (=JMQ it„49-53,
58-66, 101-104); 2°), NR,194-221 (=JMQ it.,264-285) e Tarpeia, 176-179; 3°)
JMQ,155-170 (specialmente167, 169 e n. 2, 170). Vedi anche L. GERSCHEL, Saliens de Mars et Saliens de Quirinus, RHR. Ho
sostenuto numerose discussioni, special- mente: La triade Jupiter-Mars-Janus?,
RHR, CXXXII, 1946,115-123 (con V. Basanoff); REL, XXXI 1953,189-190 (con C.
Koch);A propos de Quirinus, REL, XXXIII, 1955,105-108 (con J. Paoli); Remarques
sur les armes des dieux de troisième fonction, SMSR, XXVIII (con A. Brelich). Generalmente
ogni nuovo avversario non tiene alcun conto delle risposte fatte ai precedenti;
è ancora il caso di J. BAYET, Histoire psychotogique et historique de la
religìon roinaine, 1958,118 (che tratta anche della triade romana JMQ senza
considerare la triade umbra di Jupiter Mars Vofionus). Per l’assimilazione di
Romolo a Quirino, le considerazioni nuove riportate qui sotto incoraggiano a
dargli un senso più profondo e una data più antica di quanto non si facesse
generalmente (vedi La bataille de Sentinum, remarques sur la fabrication de
l’histoire romaine Annales, Economie, Sociétés, Civilisations.VU,
1952,145-154). Sulle etimologie proposte per Vofionus, vedi RP, XXVIII,
1954,225, n. 4 e226, n. 1; la spiegazione con *leudhyono- sitrova in Pisani
Mytho-etymologica, Rev. desEtudes Indo-Européennes (Bucarest), I; 1938,230-233
e in BENVENI- STE, Symbolisme social dans les cultes gréco-italiques, RHR,
CXXIX, 1945,7-9. § 17. Una questione connessa è quella della realtà o della non
realtà di una componente sabina alle origini di Roma. Questa è secondaria rispetto
al nostro punto di vista, che è quello dell’ideologia e non dei fatti storici,
e in più, una risposta affermativa non genererebbe affatto l’interpretazione
funzionale delle leggende sulle origini, di cui bisognerebbe solamente
ammettere (la qual cosa è ordinaria) che presentano l’avvenimento ripensato in
un quadro ideologico ed epico preesistente, tradizionale; ma è anche chiaro che
questa interpretazione strutturale e unitaria che noi formiamo non rinforza la
tesi dell’autenticità storica del sinecismo originale che incontra diverse
difficoltà. In L’heritage, si troverà riassunta la lunga discussione del
capitolo III di NR (Latins et Sabins, histoire et myhte non tradotta in JMQ
it.: vedi263), condotta principalmente in funzione della tesi di A. PlGA- NIOL,
Essai surlesorigines de Romei 1915) che dominava allora gli studi. Da
quattordici anni che questa discussione è stata pubblicata ho letto molte
affermazioni calorose, arroganti e irritate sulla presenza sabina lontana dalla
fondazione di Roma, ma non ho visto segnalare alcun fatto archeologico che non
fosse già stato prima esaminato e che facesse pendere decisamente la bilancia;
cf. JMQ IV,182 (sugli argomenti che si sono voluti demandare alla strana
disciplina della geopolitica) e RE XXXIII, 1955,105-107 (su un curioso
argomento che J. Paoli ha creduto di poter ricavare dalla triade umbra). Quanto
a me, continuo a trovare soddisfacente nel suo principio la spie- 83 gazione
data nel 1886 della leggenda del sinecismo latino-sabino da T. MOMMSEN, Die Tatiuslegende,
ripreso in Gemmiti. Schr. IV,22-35. In una memoria intitolata Céramiques des
premiers siècles de Rome, VIII-V siècles, manoscritto che si trova analizzato
nei Comptes Renclus de l’Académie des Inscriptions, 1950,287-295, F. Villard si
è pronuncialo per l’omogeneità della popolazione romana dell'ottavo secolo.
Sullo Jupiter di Romolo e gli dèi di Tito Tazio, vedi JMQ, 144-146 (= JMQ
it.,101-012) (dove bisogna correggere nella citazione di Varronc Vedici Ioni in
Vedi otti) e La saga de Hadingus, 1953,109-110. Per la triade Jupiter, Mars, Ops vedi Lcs cultes de la Regia, les trois
fonclions et la triade JMQ, Latomus. Per la triade Jupiter, Mars, Flora
(o Vcnus), vedi Rituels...,54 e60, note 37-40. Per Romolo-Remo come
corrispondenti dei Nàsatya vedici, vedi qui sotto III, § 24. Inoltre
l’utilizzazione delle tre funzioni c della triade JMQ da parte di Martianus
Capella è stata esaminala in Remarques sur Ics trois premières regione s erteli
de Mart. Cap., Coll. Latomus XXIII ( =Honim. à M. Nieder- memn) 1956,102-107. §
19-20. Jan de Vrics è stalo condotto dalle sue ricerche a una visione
strutturale delle religioni germaniche. Quando è uscito MDG, 1939, egli avvertì
la parentela della mia concezione e della sua e la complementarietà dei nostri
argomenti. Da allora, benché divisi su qualche dettaglio, siamo d’accordo,
credo, su tutte le maggiori questioni: che ci si riporti alle sue chiare,
obiettive c generose esposizioni del suo Altgermanische Relìgionsgestiti cht e.
2“ cd., I c II, 1956-1957 c ai suoi articoli: Dcr heutige Stand der
gcrmanischen Rcligionsforschung, Gemi. - Roman. Monatsschrift, N.F., II,
1951,1-11 ; e L’élat acluel dcséludes sur la rcligion germanique, Diogene, 18,
aprile 1957,1-16; altri articoli che toccano le questioni qui trattale: La
valeur religicuse du mot irmin, Cahiers du Sud, n. 314, 1952, 18-27; Die
Gotlcrwohnungen in den Grlmmismàl, Atta Philol. Stand., 1952,172-180; La
loponymiect l’hisloire des religions,RHR, CXLVI, 1954,207-230; Uber das Wort
Jarl und seine Vcrwandlen, NC, VI, 1954,461-469. Nell’opera collettiva Deutsche
Philologie ini Aufriss, Miinchen, 1957, la sezione Die altgermanische Religion
(col. 2467-2556), redaltada Werner Bentz, dà del paganesimo germanico, e
specialmente scandinavo, un’eccellente interpretazione, originale c ripensata,
nel quadro che io ho proposto. E. POLOMÉha lavorato in questo stesso schema:
L’élymologic du terme germanique *ansuz, dieu souverain, Études Germuniques e
La religion germanique primitive, rcflccl d’une slruclurc sociale, Le Flamheau.1
miei MDG, oggi felicemente esauriti, hanno sofferto di essere stali pubblicati
agli esordi delle ricerche sulla tripartizione indoeuropea: non era che una
prima vista d’insieme e un programma carico d'ipotesi di lavoro, alcune delle
quali si sono verificate c altre no; presto pubblicherò una seconda edizione
interamente rimaneggiata. Non ho qui ancora il posto per esaminare la teologia
dei Germani continentali (specialmente Tacito, Germania, 9, in cui i tre
livelli sono chiari: Mercurio c Marte, Ercole, Iside): vedi DIE,23-26. PerÓdinn
bisogna aggiungere l’importante confronto col polivalente Rudra dell’India (R.
Otto, 1932): vedi J. De Vries Sulla guerra degli Asi e dei Vani paragonala a
quella dei Latini di Romolo e dei Sabini, vedi JMQ, cap. V e Tarpeia (= JMQ
it.,pp. 108-164) in cui si trova ampiamente rifiutala l’interpretazione in
giganto- machia della Voluspà, 21-24 avanzata da E. MOGK, FFC, 5 8, 1924, e la
presentazione generale in L’heritane...,125-142. § 23. Perii giudizio di Paride
vedi soprai § 23. PerglidèigallidiCesaree i loro corrispondenti irlandesi nei
loro rapporti (in ogni caso molto alterati) con la tripartizione, vedi MDG,9,
NR,22-27 eP.-M. DuvaL, Lesdieux de la Gaule, 1957,4, 19-21, 31-33, 94. R.
JAKOBSON ha tentato di interpretare nel quadro delle tre funzioni il poco che
si conosce degli dèi slavi: art. Slavic Mythology in Funk and Wagnalls
StandardDictionary pfFolklore, II, 1950,1025-1028. Sembra che il paganesimo dei
Baiti possa essere un giorno favorevole alla nostra inchiesta. § 24. Sulla
tripla titolatura di Alena alle Panaatenec, vedi F. VlAN, La guerre dea géants,
le mytheavant l’époque hellenistique, 1952pp. 257-258. § 25. Su
SarasvatT-Anàhilà-Àrmaiti e sul nome triplo di Anàhità, vedi Tarpeia,55-66; H.
Lommel ha trovato indipendemente la corrispondenza Sa- rasvatl-Anàhità c l’ha
pubblicata in Festschr. F. Weller, 1954,405-413. Per i dati latini, irlandesi e
germanici vedi Iuno, S.M.R., Eranos, LII, 1954, 105-119 e Le trio des Macha
RHR. L’esplorazione di ognuno dei tre livelli funzionali nel mondo indoeuropeo
implica tre compiti molto considerevoli, a tult’oggi progrediti in maniera
assai discontinua. Non è stalo possibile giungere rapidamente a risultati
sistematici che al primo livello. Se importanti aspetti del secondo e del terzo
sono stati determinati in breve tempo, essi non sono tuttavia che un insieme
strutturalo ancora in fase di approfondimento. Non si è potuto dunque fare
altro che dare per essi degli orientamenti generali e, sopratutto, delle
indicazioni sui metodi di lavoro. Varuna e Mitra, ASa e Vohu Manah Il principio
fondamentale intorno a cui si organizzavapresso gli Indo-Iranici la teologia
della prima funzione è già stato segnalato; nel trattalo di Bogazkoy e nelle
formule vediche che sono state confrontate, non si tratta di un dio ma di due,
Mitra e Varuna, che la rappresentano, ed c ancora questa coppia che presuppone
la coesistenza di due figure, il Buon Pensiero e 1’Ordine, che gli
corrispondono in testa alla lista delle entità sostituite da Zoroastro agli dèi
funzionali. Questa dualità è stata spiegata in molte maniere dai commentatori
indiani e dalle diverse scuole mitologiche degli ultimi cento anni. Attualmente
è stata fatta luce su ciò che in parte si può dedurre dai loro stessi nomi: se
la parola Veruna, apparentata o no al greco oùpavóq, wpavoq, resta oscura (la
si è interpretata con radici che significano coprire, legare, dichiarare), al
contrario, Mitra è sicuramente, come ha spiegato Meillet in un celebre articolo
(1907), per la sua etimologia, il Contratto personificato. Nella grande
maggioranza dei casi, tra questi dèi i cui nomi appaiono spesso al duale
doppio, cioè con una forma grammaticale che esprime il più stretto legame, i
poeti non fanno differenza: li vedono come due consoli celesti, depositari
solidali del più grande potere, e quando non nominano che uno dei due, non si
fanno scrupoli di concentrare su di lui tutti gli aspetti e gli attributi di
questo potere. E questo è naturale poiché l’unità e l’armonia della funzione
sovrana, in rapporto a lutto ciò che le è subordinato, costituisce per gli
uomini il beneessenziale che bisogna mettere in primo piano nella credenza e
nell’espressione. Ma capita spesso felicemente, anche nel lirismo degli inni ma
soprattutto nei libri rituali, che il poeta o il liturgista travalichi questo
primo piano e voglia distinguere i due dèi per meglio spiegare o utilizzare la
loro solidarietà. In tale caso le diverse immagini che appaiono sono tutte
dello stesso senso: Mitra e Varuna sono i due termini di un gran numero di
coppie concettuali e di antitesi, la cui sovrapposizione definisce due piani,
ogni punto del piano potremmo dire, richiamando sull’altro un punto omologo; e
queste coppie tanto diverse possiedono tuttavia un’aria di parentela così netta
che di ogni nuova coppia assegnata all’insieme si può provare a colpo sicuro
quale sarà il termine mitria- co e quello varunjco. Fra le specificazioni così
diverse dell’antitesi sarà difficile estrarne una da cui il resto può essere
derivato e senza dubbio questo tentativo, una volta fatto, non avrebbe gran
senso. Sarà molto meglio procedere a un breve inventario, osservando e
definendo l’antitesi in rapporto alle principali categorie dell’essere divino
(cf. II § 5). Quanto ai loro domini nel cosmo, Mitra s’interessa piuttosto a
ciò che è vicino all’uomo, mentre Varuna all’immenso insieme (distinzione che
si ritrova nettamente fra le Entità zoroastriane corrispondenti: cf. II §
8,4°); passando al limile, dei testi affermano che Mitra è questo mondo mentre
Varuna Valtro mondo, come è certo che ben presto Mitra rappresentò il giorno e
Varuna la notte. Mitra è assimilato alle forme visibili e usuali del soma e del
fuoco, mentre Varuna alle loro forme invisibili e mitiche. Nelle modalità
d'azione, se Mitra è propriamente il contratto e stabilisce tra gli uomini i
trattati e le alleanze, Varuna è un grande mago, signore della màyà, la magia
creatrice delle forme, e in possesso dei nodi con cui afferra i colpevoli con
una presa irresistibile. Nondimeno essi si oppongono per il foro carattere :
l’amichevole Mitra è benevolo, dolce, rassicurante, stimolante; il dio Varuna è
impietoso, violento, a volte un po’ demoniaco. Innumerevoli applicazioni
illustrano questo teologhema generale: a Mitra appartiene ciò che è cotto a
vapore, a Varuna ciò che è arrostito; a Mitra il latte, a Varuna il soma
inebriante; a Mitra l’intelligenza, a Varuna la volontà; a Mitra ciò che è ben
sacrificato, a Varuna ciò che è mal sacrificato etc.. Tra le funzioni diverse
da quelle che gli sono proprie, Mitra ha più affinità per la prosperità, la
fecondità e la pace, Varuna per la guerra e la conquista, tra le province
stesse della sovranità, Mitra è piuttosto - come diceva con qualche anacronismo
A. K. Coomaraswamy - il potere spirituale, mentre Varuna è il potere temporale,
in lutti i casi rispettivamente il brdhman e lo ksatrd. L. Renou ( Études vèd.
et pànin.) ha anche scoperto nel Riveda un’affinità differente, di Varuna per
l'élite e di Mitra per la massa, il popolo comune. I sovrani Mitra e Varuna, di
diritto e di fatto, sono uguali ed è attuale sia l’uno che l’altro. Se gli inni
pronunciano più spesso il nome di Varuna, ciò non avviene perché egli è in
procinto di prendere un’importanza maggiore rispetto a un più vecchio dio
Mitra, ma perché, semplicemente, la specificazione magica e inquietante della
sua azione sollecita all’uomo più preoccupazioni cultuali del rassicurante e
chiaro dominio del giurista Mitra. Bisogna sottolineare ugualmente che non vi c
mai conflitto tra questi due esseri antitetici, ma al contrario vi è una
costante collaborazione. Questo schema indiano, e prima ancora indo-iranico, ha
fornito la chiave per qualche difficoltà o enigma delle mitologie occidentali.
A Roma, dove tutto il pensiero è concreto e patriottico, in cui il cosmo e le
sue diverse parti richiedono attenzione e riflessione solo nella misura in cui
possono essere utili o nocive all’ Urbe, non ci si può aspettare di osservare
la bipartizione nelle sue generalità. La lontananza del cielo, l’ordine
dell’universo, cose di Varuna, lasciano i Romani totalmente indifferenti.
Ridotta soltanto a qualcuna delle sue specificazioni, la bipartizione tuttavia
sussiste. Se nella Roma storica “dius”, “dius fidius” -- il dio luminoso e
garante della fides, della lealtà e dei giuramenti -- non è più che un aspetto
di Jupiter, è vero che sembra esservi stata tutt’altra situazione nei primordi.
Certo, i due dèi erano strettamente associati e il nome del primo flamine e più
vicino a “dius” che a “jupiter”. Ma il dominio strettamente giuridico che
“dius” si accolla, nella sovranità, porta a considerare il resto – gl’auspici
su cui Roma vive, la direzione mistica della politica romana, i miracoli
salvifici della storia romana - come più propriamente caratteristici del suo
grande socio. Allo stesso modo, nella teoria dei lampi “dius fidius” ha una
specificazione nettamente mitriaca. Sono i lampi del giorno che gli
appartengono, mentre quelli della notte rivelano una varietà oscura e varunica
di “jupiter”, “summanus”. È probabile che questa teologia complessa abbia
risentito, prima dei nostri testi più antichi, della promozione e, nello stesso
tempo, della riforma teologica di “jupiter” che ha coinciso con la creazione
del suo culto capitolino e con la sostituzione di una triade Jupiter O.M, Giunone
Regina, Minerva all’antica triade Jupiter, Mars, Quirinus. Lo “jupiter” del
Campidoglio sembra essere stato quasi subito imperialista, fagocitando “dius” e
concentrando in sé tutta la sovranità; ma forse i due piani tradizionali
complementari sono ancora segnalati nella strana doppia titolatura del dio:
“ottimo” -- cioè il molto servizievole -- e “massimo” -- cioè il più alto,
posto nell’infinita classificazione delle mciiestcìtes. Sono questi, in
rapporto all 'uomo, i due poli che corrispondono nell’ideologia vedica a Mitra
e Varuna. ÓdINN E Tyr Ma è nel mondo germanico che l’analogia indiana è
particolarmente illuminante. Né Mercurio (cioè *Wópanaz ) nella Germania di
TACITO (vedasi), né Ódinn nei testi nordici sono soli nei loro livelli: vicino
a loro vi è quello che Tacito, per delle ragioni comprensibili e interessanti,
chiama Marte (cioè *Tiuz ) e gli Scandinavi chiamano Tyr. Questo dio, omonimo
del vedico Dyauh e del greco Zeus, e che al pari di questi due o del Dius
Fidius latino evoca l’idea del cielo luminoso, è generalmente considerato nei
suoi rapporti con *Wópanaz come un dio più antico, impallidito di fronte a un
nuovo venuto. Benché sia strano che, a otto o dieci secoli di distanza, Tacito
da una parte e i poeti scandinavi dall’altra abbiano conosciuto e registrato,
proprio allo stesso stadio, l’avanzamento di uno e l’arretramento dell’altro,
le considerazioni comparative ci incoraggiano a dare un senso strutturale a
questa associazione; dove *Tiuz si è senza dubbio eclissato a causa dell 'inquietante
*'WdJ)anaz, per la stessa ragione per cui Mitra, teoricamente pari a Varuna,
riceve meno attenzione da parte dei poeti e come lui Dius Fidius è meno
importante di Jupiter: gli uomini hanno più attenzione per la sovranità magica
che per quella giuridica. La grande originalità del mondo germanico è quella
segnalata da Tacito con la sua interpretatio romana di *Tiuz in Marte. Essa
perviene a delle considerazioni sviluppate nel precedente capitolo, in cui
abbiamo visto il mago Ódinn annettersi una parte della funzione guerriera. La
stessa cosa accade per il giurista Tyr; ecco come Snorri lo definisce
(Gylfaginning). Vi è ancora un Asi che si chiama Tyr. È molto intrepido e
coraggioso, ha un grande potere sulla vittoria in battaglia. Perciò è bene che
i guerrieri valorosi lo invochino. Di alcuni, che sono più coraggiosi degli
altri e che non hanno paura di niente, si dice proverbialmente che sono figli
di Tyr Questa marzializzazione del sovrano giurista dei Germani non è senza
analogia con quella che a Roma ha fatto di Quirino, dio canonico della terza
funzione, patrono dei Romani nella pace e nelle opere di pace, una varietà di
Marte. Nei due casi l’evoluzione sociale ha reagito sugli dèi: dal giorno in
cui - forse con la riforma di Servio - i Quiriti hanno coinciso coi milites e
sono diventati i militi in congedo tra due appelli, era naturale che Quirino si
volgesse verso il Mars tranquillus, il Mars qui praeest paci aspettando di
saevire. In altre condizioni, meno formali e più violente, le società germaniche
antiche hanno esteso all’amministrazione dei tempi di pace i quadri della
guerra e l’hanno riempita dei costumi e dello spirito guerriero. A Roma 1
’exercitus urbanus che costituiva l’assemblea legislativa, si riuniva al Campo
di Marte ma senza armi. Che si rileggano, al contrario, i passi coloriti in cui
TACITO (vedasi) (Germania) descrive il Pingdei Germani: l’arrivo dei capi con
le loro bande, le armi brandite o battute in segno di voto, le forme tutte
militari del prestigio e deH’-autorevolezza. Ed è in questo Ping che si
formulava il diritto e si regolavano i processi. Qualche secolo più tardi
l’antichità scandinava non ci mostra un diverso spettacolo: anche là ci si
riunisce in armi, si approva alzando la spada o l’ascia o battendo la spada sullo
scudo. Non è dunque sorprendente che il dio al centro di queste riunioni giuri-
dico-gueiTiere, erede del dio giurista indoeuropeo, rivestisse l’uniforme dei
suoi ministri e li accompagnasse nel loro passaggio, facile e costante, dalla
giustizia alla battaglia e che gli osservatori romani lo avessero considerato
come un Marte. Alcune dediche trovate in Frisia sono rivolte a un Mars Thincsus
che compie l’esatto legame tra lo stato indoeuropeo probabile e il risultato
scandinavo, tra Mitra e Tyr, quel Tyr di cui è stato notato che il nome
segnala, nella toponimia, gli antichi luoghi del Ping. Sembra inoltreche, meno
ipocriti di altri popol i, gli antichi Germani abbiano così riconosciuto, a
parte ogni questione dell’apparalo guerriero, l’analogia profonda tra la
procedura del diritto - con le sue manovre e le sue astuzie, con le sue
ingiustizie senza appello - e il combattimento armato. Ben utilizzato, il
diritto è un mezzo per essere il più forte e per ottenere vittorie che spesso
eliminano l’avversario così radicalmente come in un duello. Quando si dice che
Tyr, in seguito a un’astuzia giuridica, per aver rischiato la sua mano destra
come pegno di un’affermazione utile ma falsa, è divenuto monco e non è chiamato
pacificatore di uomini, non si tratta che della controparte, del completamento
morale di un fatto materiale: la riunione del Ping in armi, con intenzioni di
potenza (più che di equità) che vede la guerra in ogni luogo. Queste
indicazioni molto generali aiuteranno a comprendere come un Tiuz-Mars abbia
potuto formarsi a partire da un dio indoeuropeo il cui dominio specifico era il
diritto e il cui carattere si è purificato e moralizzato, aiutato dalla
civilizzazione progressiva. 5. Gli dèi sovrani minori nel Rgveda: Aryaman e
Bhaga vicino a Mitra Ma negli inni del Rgveda il giurista Mitra e il magico
Varuna, benché sembrino dividersi equamente il dominio della sovranità, non
sono isolati. Essi non sono che quelli più frequentemente nominati dal gruppo
degli Àditya, o figli della dea Aditi, la Non-Legata, cioè la Libera,
l’Indeterminata. La consi derazione dei nomi e delle funzioni degli Àditya in
tutti i contesti, lo studio delle frequenze di menzione di ognuno, frequenze
dei loro diversi raggruppamenti parziali e del loro legame con altri dèi, hanno
permesso di interpretare la struttura che disegnano. Non è qui possibile
beninteso riassumere molto brevemente queste analisi e questi calcoli, i cui
dettagli sono stati pubblicati in due tempi, nel 1949 e nel 1952. Fin dalla
letteratura epica è conservato il ricordo che gli Àditya sono dèi che, come i
due principali tra loro, vanno a coppie e in seguito arriveranno sino a dodici.
Nel Rgveda sembra che vi sia già stata un’oscillazione tra un’antica cifra di
seie una prima estensione a otto, per addizione di due dèi eterogenei. Di
questi sei, Mitra e Varuna formano la prima coppia; di ognuna delle altre due
coppie è facile vedere che un termine agisce sul piano e secondo lo spirito di
Mitra, mentre 1 ’ altro, simmetricamente, agisce sul piano e secondo lo spirito
di Varuna, di modo che è legittimo e comodo chiamare queste figure
complementari sovrani minori. Ma questa cifra di sei sembra essere stata
estratta, per ragioni di simmetria, da un sistema più breve di quattro dèi
sovrani, in cui il sovrano vicino agli uomini Mitra, aveva solo due assistenti,
mentre Varuna rimaneva solitario nelle sue lontananze. I nomi e le
distribuzioni di questi Àditya primitivi sono: I ) Mitra + Aryaman + Bhaga; 2)
Varuna. Il principio della stretta associazione di Aryaman, Bhaga, Mitra,
provato dalle statistiche delle menzioni simultanee, è semplice: ognuno di
questi dèi esprime e precisa lo spirito di Mitra su ognuna delle due province
che i nteressano 1 ’ uomo, quelle che il diritto romano ritroverà con un altro
orientamento, più individualista, distinguendo le perso- nae e le res. Sotto
Mitra, il cui nome e il cui essere definiscono il tono e il modo generale
d’azione che si conosce (giuridico, benevolo, regolare, orientato verso
l’uomo), Aryaman si occupa di preservare la società degli uomini ari a cui deve
il suo nome, mentre Bhaga, il cui nome significa propriamente parte, assicura
la distribuzione e il godimento regolare dei beni degli Arya. 6. Aryaman
Aryaman protegge l’insieme degli uomini che, uniti o no politicamente, si riconoscono
Arya in opposizione ai barbari, e li protegge non in quanto individui ma come
elementi di un insieme: gli aspetti principali del suo servizio multiforme sono
i tre seguenti: 1 ) Favorisce le principali forme di rapporti materiali o
contrattuali tra Arya. È il donatore, protegge il dono (il che lo obbliga a
interessarsi alla ricchezza e all’abbondanza) e in particolare l’insieme
complesso delle prestazioni che formano l’ospitalità.Thieme (Der Frenullinx im
Riveda, 1938) ha messo in risalto questo punto col torto di farne il centro di
ogni concetto divino e di dedurne o negarne tutto il resto. Infatti Aryaman non
c meno primariamente interessato ai matrimoni: c pregato come dio delle buone
alleanze, scopritore di mariti (subandhùpativédana: A V, XIV, 1,17); cerca un
marito per la fanciulla giovane o una donna per il celibe (A V ). La sua
preoccupazione per i cammini e per la libera circolazione (c àtùrtapanthà,
colui il cui cammino non può essere interrotto»; RV) non deve essere negata o
minimizzata come è stato fatto da B. Geiger, H. Giintert c Thieme: tutto ciò
risalta da un gran numero di strofe di inni e da un lesto liturgico che lo
definisce come il dio che permette al sacrificante di andare ove e^li desidera»
e di circolare felicemente » ( Tait- tir.Samh., II-, 3, 4, 2). 2) La sua cura
nei riguardi degli Arya ha anche un aspetto liturgico: nei tempi antichi è lui
che ha munto per la prima volta la Vacca mitica e di conseguenza, nel corso dei
tempi, si tiene a fianco dell’officiante e munge la Vacca mitica insieme a lui
(RV, 1,139,7, col commento di Sàyana). A lui si domanda anche (RV, VII, 60, 9)
di espellere sacrificalmente dall’area sacrificale, tramite delle libagioni
(uva-yuj-), i nemici che ingannano Varuna. Poco curiosi dell’aldilà, gli autori
degli inni non parlano di un’altra forma di servizio che è, al contrario, la
sola di cui l’epopea conservi un ricordo molto vivo e che è sicuramente antica.
Nell’altro mondo Aryaman presiede il gruppo dei Padri, sorta di geni il cui
nome chiarisce abbastanza l’origine: sono infatti una rappresentazione degli
antenati morti, e Aryaman è il loro re, che prolungano così nel posl-mortem la
felice promiscuità e la comunità degli Arya viventi. Il cammino che porta
presso i Padri, riservato a quelli che durante la propria vita hanno praticato
esattamente i riti (in opposizione agli asceti e agli yogin), è chiamato il
cammino di Aryaman (Mahàbhdrata). 7. Bhaga Bhaga si occupa fondamentalmente
della ricchezza ed è a lui che ognuno - debole, forte e il re stesso - si rivolge
per averne una parte (RV, VII, 41, 2). Un esame completo delle strofe vediche
che lo nominano o che impiegano il termine bhd^a come appellativo, ha permesso
di constatare che questa parte è dotata di qualità richieste alla metà
dell’amministrazione sovrana che spetta a Mitra: essa è regolare, prevedibile,
senza sorprese, giunge a scadenza perlina sorta di gestazione (il bambino
pronto perla nascita rut> giunge Usuo bhd^a: RV, V, 7, 8); essa è il
risultalo di un’attribuzione senza rivalità, implicante un sistema di
distribuzione (verbi; vi-bhaj-, vi-dhr-, day, cf. il greco Sou|.iov); infine è
acquisita e conservata nella calma, è la retribuzione degli uomini maturi,
assennali, seniores, opposti agli iuvenes (RV, I, 91,7 ; V, 41,11 ; IX, 97,
44). L’altra varietà della parte, imprevedibile, violenta, varunica, che si
conquista con la battaglia o con la corsa, è designata da un’altra parola che
sin dai tempi indo-iranici aveva una risonanza combattiva e che ha giustamente
fornito ai teologi vedici il nome del sovrano minore varunico simmetrico di
Bhaga, Amsa. 8. Trasposizione zoroastriane di Aryaman e Bhaga: SraoSa e A$i
Abbiamo la certezza che questa struttura era già indo-iranica: come in Iran la
lista degli dèi canonici delle tre funzioni è stala sublimata dallo
zoroastrismo puro in una lista di Entità che gli corrispondono termine per
termine (vedi II § 8); così gli dèi sovrani minori associati a Mitra hanno
prodotto due figure complementari non comprese nella lista canonica delle
Entità, ma vicine, le cui statistiche dei ruoli mostrano l’affinità esclusiva
dell’una rispetto all’altra, e di tutte e due rispetto a Vohu Manah (sostituito
di Mitra); e anche nei testi in cui questo dio ricompare, in relazione a MiGra,
mentre niente lo lega ad Asa (sostituto di *Varuna). In più, per il loro nome
come per la loro funzione, queste due Entità - Sraosa, VObbedienza e la
Disciplina, e Asi, Retribuzione - sono ciò che ci si può attendere da un
Aryaman o da un Bhaga ripensati dai riformatori. E facile vedere punto per
punto che Sraosa è per la comunità dei credenti ciò che Aryaman era per la
comunità degli Arya, la chiesa che rimpiazza la nazionalità. Nyberg ha potuto
vedere in Sraosa la personificazione derfrommen Gemeinde, il termine genio
protettore sarebbe più esatto ma i 1 punto di applicazione è noto: Sraosa che è
capo nel mondo materiale come Ohrmazd lo è nel mondo spirituale e materiale
{Greater Bundahisn, ed. e trad. B. T. Anklesaria) presiede all’ospitalità come
già faceva l’Aryaman vedico (e già indo-iranico; cf. persiano èrmdn, ospite, da
*airyaman), quando è concessa, si sa, all’uomo buono, allo zoroastriano (Yasna
LVII, 14 e 34). Se non lo si vede più occupato, specialmente delle alleanze
matrimoniali e della libera circolazione sui sentieri, nondimeno la sua azione
sociale sulle anime è precisata: egli è il patrono della grande virtù della
vita in comune, di quella che assicura la coesione, cioè la giusta misura, la
moderazione ( Zdtspram); è anche il mediatore e il garante del famoso patto
concluso tra il Bene e il Male (Vasi XI, 14) e il demone che gli è
personalmente opposto è il terribile Aesma, il Furore, distruttore della
società ( Bundahisn). Rimane una precisa traccia mitica della sostituzione di
Sraosa a un dio protettore degli Arya: secondo il Menók iXrat, XLIV, 17-35 è
lui il signore e il re del paese chiamato Eràn vèz. (avestico Airyanam vaèjò),
quel soggiorno degli Arya da cui, dice l’A vesta, sono venuti gli Iranici (
Vidèvdat, I, 3). 2)11 ruolo liturgico di Aryaman si è naturalmente amplificato
in Sraosa: Yasna LXII, 2 e 8, dice che fu il primo a sacrificare e cantare gli
inni e tutto l’inizio del suo Yast, unicamente consacrato 96 all’elogio della
preghiera e all’ esaltazione della loro potenza, si giusti- fica per questo
ricordo. Simmetricamente, alla fine dei tempi, al tempo del supremo
combattimento contro il Male, è Sraosa che sarà il sacerdote assistente nel
sacrificio in cui Ahura Mazda stesso sarà l’officiante principale
(.Bunclcihisn). Infine, come l’Aryaman dell’epopea indiana è il capo della
dimora in cui vanno - attraverso il cammino di Aryaman - i morti che hanno
correttamente praticato il culto arya, così Sraosa ha un ruolo decisivo nelle
notti che seguono immediatamente la morte: egli accompagna e protegge l’anima
del giusto sui sentieri pericolosi che la conducono al tribunale dei suoi
giudici, di cui egli stesso è parte {Dùuistun-TDénTk XIV, XXVIII, etc.). Asi è
sempre una distribuzione come lo era Bhaga ma la nuova religione, che
conferisce più importanza all’aldilà che al mondo dei viventi, gli domanda
soprattutto di vegliare sulla giusta retribuzione post-mortem degli atti buoni
o cattivi dell’uomo. Tuttavia anche nelle Gàthà, c palesemente nei testi
post-gathici, pur badando in avvenire al tesoro dei suoi meriti, non dimentica
nella vita terrestre di arricchire l’uomo pio c di riempire la sua casa di
beni. L’analisi di questa concezione, già indo-iranica, della sovranità che non
altera la grande bipartizione ricoperta dai nomi di Mitra e Va- runa, ma dona
solamente a Mitra due assistenti che l’aiutano a favorire il popolo arya,
illumina una particolarità della religione romana di Ju- pitcr che
sfortunatamente è conosciuta solo nella forma capitolina di questa religione.
Jupiler O.M, in cui si concentra tutta la sovranità, sia quella diale che
quella propriamente gioviana (vedi sopra § 3), ospitava in due cappelle del suo
tempio due divinità minori, Juvenlas e Terminus. Una leggenda giustificava la
coabilazione singolare di questi tre dèi facendola risalire alla fondazione del
tempio capitolino, ma questa leggenda (che utilizzava del resto un vecchio tema
legalo al concetto di Juvenlas) non prova evidentemente che l’associ azione
fosse più antica. L’analogia indo-iranica ci incoraggia a considerarla come
preromana. Infatti, secondo degli slittamenti tipici della società romana, Ju-
ventas e Terminus giocano a fianco di JupiterO.M. dei ruoli comparabili a
quelli di Aryaman e Bhaga che affiancano Mitra. Juventas, dice la leggenda
eziologica, garantisce a Roma l’eternità e Terminus la stabilità sul suo
dominio: anche Aryaman assicura alla società arya la durata e Bhaga la
stabilità delle proprietà. Ma prese in se stesse, fuori da questa leggenda, le
due divinità romane sono molto di più di tutto questo: Juventas è la dea
protettrice degli uomini romani più interessanti per Roma, gli iuvenes, parte
essenziale e germinati va della società; Terminus garantisce la spartizione
regolare dei beni, dei beni sopratutto immobili, catastali, appezzamenti di
terreno, non delle greggi erranti che presso i nomadi indo-iranici o tra gli
indiani vedici costituivano la ricchezza essenziale. Nel mondo scandinavo un
tale schema di sovrani minori non si è ancora lasciato identificare, al
momento. Non è che intorno a Ódinn non vi fossero degli dèi che, secondo il
poco che si sa di loro, non avessero avuto l’incarico di esercitare dei
frammenti specializzati della sovranità, ma queste specificazioni e l’analisi
della funzione sovrana che suppongono sono originali e i loro rappresentanti
non hanno omologhi indo-iranici e neppure romani. Vi è Hoenir, riflessivo e
prudente e che secondo la fine della Vòluspó è proiezione mitica di una sorta
di sacerdote; vi è Mimir, consigliere di Ódinn, ridotto a una testa che rimane
pensante e parlante anche dopo la sua decapitazione; oppure Bragi patrono della
poesia e dell’eloquenza. Ho pensato un tempo ai due fratelli di Ódinn, Vili e
Vé, sicuramente antichi poiché l’iniziale del loro nome non si allittera in
scandinavo che con una forma preistorica del suo nome (*Wòt>anaz), ma si
conoscono troppo pochi dati per interpretare questa triade e tutt’altra
soluzione sarà proposta più avanti. 11. Condizioni dello studio teologico della
seconda e TERZA FUNZIONE I procedimenti di analisi e di statistica che hanno
permesso di dispiegare e di esplorare la sovranità - nell’India vedica
inizialmente e poi progressivamente nell’organizzazione intema della teologia
della prima funzione - non sono applicabili agli dèi delle funzioni inferiori e
al momento non si è riusciti a trovare un punto di contatto. Senza dubbio
questa differenza è propria della natura delle cose; per i suoi stessi concetti
(i nomi dei personaggi divini sono in gran parte etimologicamente chiari e
molti sono delle astrazioni animate) la prima funzione si prestava facilmente
alla riflessione psicologica e non bisogna dimenticare che i primi filosofi,
appartenenti al personale di questa funzione, erano dei sacerdoti e non
potevano evitare di applicarvi con predilezione la loro analisi. La controparte
è che nel Rgveda questa teologia così ben sviluppata non si raddoppia in una
mitologia ricca in proporzione: di Mitra non è quasi raccontato niente; di
Varuna si dice molto di più, ma la lista delle scene in cui interviene è
ridotta e in generale si tratta di potenze e qualità degli dèi sovrani più che
della loro storia, del loro tipo d’azione piuttosto che di azioni precise
compiute da loro. Al contrario, la funzione guerriera e la funzione di
fecondità e prosperità si basano in gran parte su immagini: più che grazie a
dichiarazioni di principio, è il ricordo inesauribile delle imprese o dei
famosi benefici che provano l’efficacia di un dio forte o dei buoni dèi
taumaturghi. Così queste due province divine sono più adatte a degli sviluppi
mitologici che a una messa a fuoco teologica; o forse è meglio dire che la
dottrina si abbellisce, si dissimula e si altera sotto il rigoglio dei
racconti. Per il comparatista questa differenza comporta grandi conseguenze.
Senza che questo fatto capitale sia stato ancora pienamente enunciato, il lettore
ha già potuto osservare che è il confronto delle religioni vedica e romana il
più adatto a stabilire o suggerire, grazie al conservatorismo della seconda,
dei fatti indoeuropei comuni, mentre la religione scandinava non interviene che
a titolo di conferma dopo che il percorso comune è già stato riconosciuto e
assicurato. Ora, allo stato delle nostre conoscenze, la religione romana
presenta ancora una teologia ben costituita: nel raggruppamento Jupiter Mars,
Quirinus o nel raggruppamento trasversale di Jupiter, Juventas, Terminus, essa
ha registrato coscientemente delle articolazioni concettuali molto chiare.
Sfortunatamente bisogna altresì aggiungere che la religione romana non è più
che una teologia: per un processo radicale che caratterizza Roma, i suoi dèi -
e questa volta non solo gli dèi sovrani, ma anche Marte, Quirino, Ops, eie. -
sono stati spogliati di ogni racconto e limitati asceticamente alle loro
essenze, alla loro propria funzione. Se dunque (per la determinazione del
quadro generale tripartito e per l’esplorazione dei primo livello) il confronto
di una teologia vedica facilmente determinabile, e di una teologia romana
immediatamente conosciuta, ha permesso i risultali netti coerenti, c sempre più
completi che si sono appena letti, la stessa cosa non avviene quando si passa
ai due livelli seguenti. India o i Nàsatya vedici non esprimono le sfumature
della propria natura che mediante delle avventure alle quali Marte e Quirino
non corrispondono, se non per mezzo della loro scarna definizione c per ciò che
è possibile intravedere dalle dottrine e dai culti dei loro sacerdoti: i
documenti e i linguaggi delle due religioni che sono i principali sostegni del
comparatista non si combinano più. Mitologia ed epopea La difficoltà sarebbe
probabilmente irriducibile senza un altro fallo, ancora più importante per i
nostri studi, di cui i precedenti capitoli del presente libro hanno già
discretamente fornito qualche esempio. Le idee di cui vive una società non
danno luogo solamente a delle speculazioni o a immaginazioni relative agli
uomini. La teologia e la mitologia sono raddoppiate dalle storie antiche,
dall’epopea in cui degli uomini prestigiosi applicano c dimostrano dei principi
che gli dèi incarnano e dei comportamenti che dipendono da loro. Certo, ben
altri fattori contribuiscono alla formazione dell’epopea di un popolo, ma è
raro che questa non abbia avuto, in alcuni dei suoi grandi temi c dei suoi
primi moli, un rapporto essenziale con l’ideologia che dirige le
rappresentazioni divine dello stesso popolo. Per i nostri studi comparativi
indoeuropei questa felice circostanza gioca a nostro favore in due maniere: la
seconda è stata da me riconosciuta nel 1939, mentre la prima è stala scoperta
nel 1947 dal mio collega svedese Stig Wikander. Da una parte, la più grande
epopea indiana, il Mahàbhcirata, sviluppa le avventure di un insieme di eroi
che corrispondono parola per parola ai grandi dèi delle tre funzioni della
religione vedica e prevedrà, di modo che l’India presenta, con questo enorme
poema c col Riveda, lina doppia edizione rispondente, a due differenti bisogni
e con sensibili varianti, alla sua ideologia in immagini. Dall’ altra parte, se
Roma ha perduto tutta la sua mitologia e ha ridotto i suoi esseri teologici
alla loro scarna essenza, ha conservato al contrario, per costituirla in
seguito, la storia meravigliosa e ragionevole delle proprie origini, un antico
repertorio di racconti umani, colorati e molteplici, paralleli a quelli che
avrebbero dovuto essere in tempi meno austeri le raccolte mitiche degli dèi.
Quest’epopea è l’antica mitologia romana degradata in storia da Roma stessa?
Oppure essa prolunga direttamente un’epopea preromana e italica, coesistente
con una mitologia che Roma avrebbe perduto senza traslazione e senza
compensazione? L’una e l’altra tesi possono trovare argomenti nel dettaglio dei
fatti, ma per il comparatista questa discussione non incide: in ogni caso, il
primo libro di Tito Livio contiene una materia ideologicamente conforme al
sistema degli dèi romani e drammaticamente comparabile all’epopea e alla
mitologia dell'India. Per tentare di guadagnare qualche chiarimento sui
dettagli delle rappresentazioni indoeuropee della seconda e terza funzione è
dunque necessario introdurre questi nuovi elementi nel lavoro comparativo. Il
fondo mitico del Mambhjrata secondo S. Wikander Nell’immenso conllilto dei
cugini, che riempie il Mahàbhdra- ta, i personaggi simpatici c infine
vittoriosi sono un gruppo di cinque fratelli, i Panda va o figli di Pàndu, che
fra i molli tratti notevoli presentano quello di avere in comune una sola sposa
per lutti c cinque, Draupadl. Consideralo dal punto di vista dei costumi,
questo regime di poliandria, così contrario agli usi e allo spirilo degli Arya
ma attribuito qui agli croi che glorificano l’India arya, ha costituito per più
di un secolo un enigma irritante. Nel 1947 Wikander ne ha fornito la soluzione
soddisfacente, scoprendo allo stesso tempo la chiave di tutto l’intrigo del
poema. In realtà i figli di Pàndu non sono i suoi figli. Sotto il peso di una
maledizione che lo condanna a morte nel momento in cui compirà l’alto sessuale,
Pàndu si assicura una posterità con un procedimento eccezionale. Una delle sue
mogli, KuntI, in seguilo ad un’avventura giovanile, aveva ricevuto un
privilegio inaudito: le era sufficiente invocare un dio perché questo sorgesse
immediatamente davanti a lei e le donasse un figlio. Dietro preghiera di suo
marito invoca dunque in successione diversi dèi dai quali concepisce tre figli.
Questi dèi sono Dharma, la Legge, la Giustizia (entità in cui si ritrova il
vecchio concetto del giurista Mitra), poi Vàyu, dio del vento, e infine Indra.
I tre figli sono rispettivamente Yudhisthira, Bhlma e Arjuna. Suo marito la
prega quindi di beneficiare Madri, un’altra sua moglie, di questa fortuna:
KuntI accetta ma per una sola volta e così Madri prende dalla situazione la
parte migliore e chiede che vengano evocati i due inseparabili ASvin: dagli
ASvin concepisce due gemelli, gli ultimi dei cinque figli di Pàndu, Nakula e
Sahadeva. Wikander segnalò ben presto che la lista degli dèi padri - Dharma,
Vàyu, Indra e gli ASvin - riproduceva nell’ordine gerarchico la lista canonica
degli antichi dèi dei tre livelli, ringiovanita e depauperata al primo livello
(Dharma che rappresenta solo Mitra, senza un corrispettivo di Varuna), mentre
al secondo livello conferiva a Indra uno degli associati che aveva ancora più
frequentemente nel Riveda, Vàyu. La diversità armonica dei padri doveva, in una
certa misura, comandare sia il carattere che le azioni epiche dei figli, come
in effetti accade. Yudhisthira è il re, mentre gli altri Pàndava sono solamente
degli ausiliari; un re giusto, virtuoso, puro e pio - dhurmuruju - senza
specialità o virtù guerriere, come si conviene a un rappresentante della metà
di Mitra della sovranità. Bhlma e Arjuna sono i grandi combattenti
dell’insieme. Quanto ai due gemelli, sono belli ma sopratutlo umili e devoti
servitori dei loro fratelli, come nella teoria delle classi sociali: infatti,
la grande virtù dei vaiSya del terzo livello è quella di servire lealmente le
due classi superiori. L’enigma della loro unica sposa si risolve immediatamente
in questa prospettiva. Non si tratta dunque di un’usanza aberrante ma della
trasposizione epica della concezione vedica, indo-iranica e prima ancora
indoeuropea, che completa la lista degli dèi maschi, tra i quali si analizzano
e gerarchizzano le tre funzioni, con una dea unica ma plurivalente, meglio
ancora trivalente, come la vedica Sarasvatl che comprende in se stessa la
sintesi delle tre funzioni. Sposando DraupadI al pio re, ai due guerrieri e ai
due gemelli servizievoli, l’epopea mette in scena ciò che RV, X, 125 formulava
quando faceva proferire alla dea Vàc (tanto vicina a Sarasvatl): Sono io che
sostengo Mitra-Varunu, che sostengo Indra-Agni e che sostengo i due Asvin, o
che ancora si ritrova nella triplice titolatura (con un’ulteriore
specificazione della terza funzione) della principale dea dell’Iran, l’Umida,
la Forte, l’Immacolata. Questa scoperta è stala il punto di partenza di un’
esplorazione di tutto il poema, soprattutto dei primi libri (che precedono la
grande battaglia) ed è stata certamente chiamata a rinnovare i nostri studi:
per la sua abbondanza, la sua coesione e la sua varietà, la trasposizione epica
permette, partendo dal sistema trifunzionale, da ogni funzione e dalle molte
rappresentazioni connesse, uno studio più profondo e più avanzato di quanto non
lo permettesse l’originale mitologico conosciuto sopralutto dalle allusioni dei
testi lirici. D’altra parte, sin dal suo articolo del 1947, Wikander ha
stabilito un punto molto importante: la struttura mitologica trasposta nel
Mahàbhdruta è sotto molti aspetti più arcaica di quella del Rgveda poiché
conserva dei tratti sfumali in questo innario ma che le analogie iraniche
provano come fosse indo-iranica. Per tale ragione uno dei primi servigi
apportati da questo nuovo studio è stato quello di rivelare nella funzione
guerriera una dicotomia che il Rgveda ha quasi completamente dimenticato a
tutto vantaggio di Indra. Infatti, come è già stato dimostrato da lavori
anteriori della scuola di Uppsala, Vàyu c Indra erano i patroni, nei tempi
prevedici, di due tipi molto differenti di combattenti i cui figli epici, BhTma
e Arju- na, rendono possibile un’osservazione dettagliala e certamente una
parte dei caratteri fisici dell’Indra vedico devono essere restituiti a Vàyu
per un periodo più antico. Questi due tipi sono facilmente definibili in
qualche parola. L’eroe del tipo Vàyu è una sorta di bestia umana dotato di un
vigore fisico mostruoso, le sue armi principali sono le sue braccia, prolungale
talvolta da un’arma che gli è propria: la clava. Non è bello né brillante, non
è molto intelligente c si abbandona facilmente a disastrosi eccessi di furore
cieco. Infine, opera spesso da solo, fuori da\Y équipe di cui è tuttavia il
protettore designato, per cercare l’avventura e per uccidere principalmente dei
demoni e dei geni. Al contrario, l’eroe del tipo Indra è un superuomo, un uomo
compiuto e civilizzato, la cui forza è armonizzata; maneggia delle armi
perfezionate (Arjuna è notoriamente un grande arciere e uno specialista delle
armi da lancio); è brillante, intelligente, morale e soprattutto socievole,
guerriero da battaglia più che cercatore di avventura e generalissimo naturale
dell’armata dei suoi fratelli. Questa distinzione è conosciuta anche
dall’epopea iranica, nella persona del brutale Kó>rasàspa armato di mazza e
legato al culto di Vàyu, oppure nel tipo dell’eroe più seducente come
©raètaona. In Grecia ricorda l’opposizione tipologica di Ercole e Achille, ma
soprattutto permette di dare una formulazione più precisa, in Scandinavia, ai
rapporti tra Ódinn e Pórr e più in generale a quelli della prima e seconda
funzione. E stato segnalato, nel secondo capitolo, che Ódinn si era annesso una
parte importante della funzione guerriera.Vediamo ora che si tratta
principalmente (senza che la discriminazione sia rigorosa: è Pórr che al pari
di Indra rimane il dio tuonante dello sconvolgimento atmosferico) della parte
che presso gli Indo-Iranici era sotto il magistero di *Indra, mentre la parte
di *Vàyu era piuttosto quella di Pórr, il brutale picchiatore e l’avventuriero
delle spedizioni solitarie contro i giganti. Tuttociò appare ancora più
chiaramente se si considerano nell’ epopea gli eroi che corrispondono a
ciascuno di questi dèi: gli eroi odinici come Sigurdr, Helgi e Haraldr sono
belli, luminosi, socievoli, amati e aristocratici, mentre l’unico eroe di Pórr
conosciuto dall’epopea, Starkadr, appartiene alla razza dei giganti, un gigante
ridotto da Pórr a forma umana, arcigno, brutale, errante e solitario, vera
replica scandinava di Bhlma o Ercole. 16. Caratterizzazione funzionale dei
Pàndava Nei primi libri del Mahàbhàrata i poeti, sicuramente consapevoli di
questa struttura, si sono cimentati nel dare delle rappresentazioni
differenziate dei cinque eroi, dettagliando le loro diverse maniere di reagire
a una stessa circostanza. Ne citerò solo due. Nel momento in cui i cinque
fratelli lasciano il palazzo per un ingiusto esilio che avrà fine solo con la
formidabile battaglia in cui otterranno la loro rivincita, il pio e giusto re
Yudhisthira avanza Velandosi il volto col suo abito per non rischiare eli
bruciare il mondo col suo sguardo corrucciato. Bhlma guardale sue enormi
braccia e pensa: Non vi è uomo uguale a me per la forza delle braccia ; egli
mostra le sue braccia, inorgoglito dalla forza delle sue braccia desidera fare
contro i nemici un 'azione pari alla forza delle sue braccia . Arjuna sparge la
sabbia raffigurandovi l'immagine di un nugolo di frecce scoccate contro i
nemici. Quanto ai gemelli, la loro preoccupazione è un’ altra: Nakula, il più
bello tra gli uomini, si cosparge tutte le membra di cenere dicendo: Che io non
possa mai trascinare sulla mia strada il cuore di una donna! e suo fratello
Sahadeva allo stesso modo si imbratta il viso (II, 2623-2636). I cinque
fratelli scelgono un mascheramento per soggiornare in incognito alla corte del
re Virata: Yudhisthira, eroe della prima funzione, si presenta come un
brahmano; il brutale Bhlma come un cuoco-macellaio e un lottatore; Arjuna,
coperto di braccialetti e orecchini, come un maestro di danza; Nakula come un
palafreniere esperto nella cura dei cavalli malati, mentre Sahadeva come un
bovaro, informato di lutto ciò che riguarda la salute e la fecondità delle
vacche. Queste due specificazioni, diverse ma simili, dei gemelli sono
interessanti: se i 1 Rgvedu permette di notare qualche fugace distinzione nella
coppia indissolubile dei loro padri, Wikander ha sottolineato l’importanza del
criterio qui rivelato. Sempre restando prima di tutto degli abili medici che
ignorano l’agricoltura (il che ci porta a far risalire indietro di molto questa
concezione), Nakula e Sahadeva si dividono le due principali province
deH’allevamento, riservandosi rispettivamente l’uno la protezione delle vacche
e l’altro quella dei cavalli, che nel Rgvedu forniscono loro il loro secondo
nome collettivo, Aévin, un derivato di àsva, cavallo. Abbiamo così il primo
modello delle formule che si osservano anche altrove a proposito degli omologhi
funzionali dei Nàsatya -ASvin: tra Haurvalà(e Amar3tà( ad esempio, entità
zoroastriane sostituitesi ai gemelli, la ripartizione si compie all’interno del
genere salubrità, sotto le acque e le piante; così pure, almeno parzialmente,
tra il Njòrdr e il Freyr degli Scandinavi, la distinzione nell’uniforme
beneficio dell’arricchimento si compie secondo le due fonti della ricchezza, il
mare e la terra. Si nota qui chiaramente come la considerazione dell’epopea
metta in risalto dei tratti strutturali e suggerisca inchieste feconde. Il
travestimento di Arjuna non è strano a un primo approccio, poiché è arcaico e
di un arcaismo che è conosciuto dal Riveda, in cui Indra è il danzatore e i
suoi giovani compagni la banda guerriera dei Marut che si adorna il corpo di
ornamenti d’oro, braccialetti e anelli da caviglia che li fanno apparire come
dei ricchi pretendenti. Comune alle più vecchie mitologie c alla sua
trasposizione epica, questo tratto è certamente da riconnetlerc all’insieme del
Mànnerbund indo-iranico. E forse, nello stesso ordine di idee, la trasposizione
epica lascia intravedere un aspetto che gli inni fanno passare in silenzio e
che riguarda la morale particolare di questi gruppi di giovani, quando essa
insiste sul carattere effeminato del travestimento scelto da Arjuna. Pàndu e
Varuna Progressivamente sono stale individuate altre corrispondenze tra
l’intrigo del Mahàbhàrata e la mitologia vedica c prevedica, sempre con lo
stesso vantaggio che l’epopea, narrazione ampia e continua, facilita in ogni
caso l’analisi che, al contrario, c infastidita dal lirismo degli inni c dalla
loro retorica dell’allusione. Ho così potuto dimostrare come Varuna non sia
assente dalla trasposizione; solo si trova nella generazione anteriore, inattuale,
morta, quando il corrispettivo di Mitra, il figlio di Dharina, diviene re.
Pàndu, il padre putativo dei Pàndava, anche lui re prima del suo figlio
maggiore Yudhisthira, presenta in effetti due caratteri originali e improbabili
che i libri liturgici e un inno attribuiscono anche a Varuna; a uno di questi
caratteri deve il suo nome: pàndu significa pallido, giallo chiaro, bianco, e
infatti un incidente di nascita, o meglio, del concepimento di Pàndu, ha fatto
sì che avesse la pelle insanamente pallida o bianca. Ora, Varuna è
rappresentato in certi rituali come sukla bianchissimo e atigaura
eccessivamente bianco. L’altro aspetto c di più ampia portata: Pàndu c
condannalo all’equivalente dell’impotenza sessuale, condannato a perire (e così
in effetti perirà) se compie l’atto d’amore; ugualmente, Varuna in circostanze
diverse ( AV, IV, 4, 1 : rituale della consacrazione regale) è presentato come
uno divenuto momentaneamente impotente, devirilizzato (evirazione che si fa a
vantaggio dei suoi parenti; il che ricorda il mito importante del greco Urano
castrato dai suoi figli). Il lavoro insomma è appena cominciato. Sia io che
Wikander speriamo di estrarre da questa riserva importante del materiale
abbondante e abbastanza chiaro per delucidare molte incertezze e difficoltà che
sono ancora irrisolvibili sul piano degli inni e per fornire alla ricostruzione
indoeuropea degli elementi privi di ambiguità.L’epopea romana ha utilizzato in
altra maniera l’ideologia delle tre funzioni insieme alle loro sfumature. Gli
eroi che l’incarnano non sono più dei contemporanei, dei fratelli semplicemente
gerarchizzati; essi si succedevano nel tempo e progressivamente costituiscono
Roma. Non si succedono però nell’ordine canonico ma in un altro ordine: 1)
gemelli pastori (terza funzione); 2) sovrano gioviano semi-dio, creatore ed
eccessi vo (pri ma funzione del tipo di Varuna) e poi sovrano diale, umano,
pio, regolatore (prima funzione del tipo Mitra); 3) infine, un re strettamente
guerriero (seconda funzione). In più, il sovrano gioviano non è altro che uno
dei due gemelli sopravvissuto alla coppia ma profondamente trasformato. Questa
doppia singolarità schiude nuove prospettive all’inchiesta comparativa ma
inizialmente considereremo i rappresentanti delle due prime funzioni che non implicano
problemi inediti. 20. Romolo e Numa e i due aspetti della prima funzione Nella
tradizione annalistica i due fondatori di Roma, Romolo e Numa, formano
un’antitesi abbastanza regolare, sviluppata nello stesso senso di quella di
Varuna eMitra nella letteratura vedica. Ogni cosa si oppone nel loro carattere,
nei loro fondamenti e nella loro storia, ma in un’opposizione senza ostilità:
Numa completa l’opera di Romolo donando all’ ideologia regale di Roma il suo
secondo polo, necessario quanto il primo. Quando nel VI canto d t\VEneide
(VIRGILIO (vedasi), negli Inferi, Anchise li presenta tutti e due in qualche
verso al suo figlio Enea, definisce Romolo come il bellicoso semidio creatore
di Roma e, grazie ai suoi auspici, l’autore della potenza romana e della sua
Crescita continua (et huius, nate, auspiciis illa inclita Roma impe- rium
terris, animos aequabit Olympo)\ poi Numa come il re-sacerdote portatore di
oggetti sacri, sacra ferens, coronato di olivo che fonda Roma donandogli delle
leggi, legibus. Tutto si ordina intorno a questa differenza - l’altro mondo e
questo qui - in cui i sacra, i culti in cui l’uomo ha l’iniziativa, equilibrano
eccellentemente gli auspicio, in cui l’uomo non fa che decifrare il linguaggio
miracoloso di Giove. Si verifica istantaneamente che l’opposizione tra i due
tipi di sovrani ricopre punto per punto quella analizzata nel caso di Varuna e
Mitra. Ugual mente importanti, sia l’uno che l’altro nella genesi di Roma,
Romolo e Numa non sono posizionati nella stessa metà del mondo. Ingenuamente
Plutarco mette nella bocca del secondo, quando spiega agli ambasciatori di Roma
le motivazioni del rifiuto del regno, una osservazione molto giusta (Numa): Si
attribuisce a Romolo la gloria di essere nato da un dio, non si finisce di dire
che è stato nutrito e salvato nella sua infanzia grazie a una protezione
particolare della divinità; io, al contrario, sono di una razza mortale, sono
stato nutrito e allevato da uomini che voi conoscete. I loro modi di azione non
differiscono di molto e la differenza si esprime in maniera sorprendente in ciò
che si possono chiamare i loro dèi prediletti. Romolo stabilisce solo due culti
che sono due specificazioni di Jupiter - quel Jupiter che gli ha donato la
promessa degli auspici - Jupi- ter Feretrius e Jupiter Stator che si accordano
nel fatto che Giove è il dio protettore del regnum, ma relativamente ai
combattimenti e alle vittorie; e la seconda vittoria è dovuta a una
prestidigitazione sovrana di Giove, a un cambiamento di vista contro il quale
nessuna forza può niente e che capovolge l’ordine normale e consueto degli
avvenimenti. Al contrario, tutti gli autori insistono sulla devozione
particolare che Numa rivolge a Fides. Dionigi di Alicamasso scrive. Non vi è
sentimento più elevato e più sacro della buona fede, sia negli affari di stato
che nei rapporti tra individui; essendosi ben persuaso di questa verità Numa,
il primo fra gli uomini, ha fondato un santuario della Fides Publica e
istituito in suo onore dei sacrifìci ufficiali come quelli delle altre divinità.
Plutarco {Numa) dice similmente che fu il primo a costruire un tempio a Fides e
insegnò ai Romani il loro più grande giuramento, il giuramento di Fides. Si
vede bene come questa distribuzione sia conforme all’essenza delle due divinità
sovrane antitetiche, Varuna e Mitra, Jupiter e Dius Fidius. Il carattere dei
due dèi si oppone allo stesso modo: Romolo è un violento, descritto dagli
annalisti come un tiranno, secondo il modello greco ed etrusco, ma con dei
tratti sicuramente antichi: Vi erano sempre vicino a lui - dice Plutarco (
Romolo) - quei giovani chiamati Celeres a causa della loro prontezza
nell'eseguire i suoi ordini. Non compariva in pubblico che preceduto dai
littori armati di verghe, con le quali respingevano la folla, cinti di corregge
con cui legavano sul posto quello che lui ordinava di arrestare. A questo
sovrano, così materialmente legatore come Varuna, si oppone il buono e calmo
Numa, la cui prima iniziativa una volta di venuto re fu quella di sciogliere il
corpo dei Celeres e come seconda di organizzare ( ibidem) o creare (Livio) i
tre flamines maio- res. Numa è privo di ogni passione, anche di quelle sti mate
dai barbari, come la violenza e l’ambizione (Plut. Numa). Di conseguenza, le
affinità dell’uno sono tutte per la funzione guerriera, quelle dell’altro per
la funzione di prosperità. Anche nel suo consiglio postumo, Romolo, il dio dei
tre trionfi, prescrive ai Romani: rem militarem colant (Livio). Numa si assegna
il compito di disabituare i Romani alla guerra (PI ut. Numa) e la pace non è
rotta in alcun momento del suo regno; offre un buon accordo ai Fidenates che
compiono razzie sulle sue terre e istituisce in questa occasione, secondo una
variante, i sacerdoti feziali, per vegliare sul rispetto delle forme che
impediscono o limitano la violenza (Dionigi di Alicamasso; Plutarco, Numa).
Distribuisce ai cittadini indigenti i territori occupati da Romolo per
sottrarli alla miseria, causa quasi necessaria della perversità, e per spingere
verso l ’ag ricoltura lo spirito del popolo, che domando la terra si
addolcirà-, divide tutto il territorio in vici, con ispettori e commissari che
lui stesso controlla giudicando i costumi dei cittadini in base al lavoro,
premiando con onori e poteri coloro che si distinguono perla loro attività, biasimando
i pigri e correggendo le loro negligenze (Plut.). Limitiamo a ciò la
comparazione che potrebbe comunque proseguire dettagliatamente, poiché è
evidente che gli annalisti si sono ingegnati a spingere in ogni direzione
l’opposizione tra i due re, l’uno iuvenesjerox, odioso ai senator es (e forse
ucciso da questi) senza bambini etc., mentre l’altro è un senex tipico, gravis,
sepolto piamente dai senatori, antenato di numerose genti. Delle pretese
gentilizie, o l’imitazione di modelli greci, hanno potuto introdurre più di un
dettaglio e in di verse epoche in queste vite parallele inverse e sicuramente
in quella di Numa. Ma è chiaro che queste stesse innovazioni si sono uniformate
a un dato tradizionale, la cui intenzione era di illustrare due tipi di re, due
modelli di sovranità, quelli stessi conosciuti dall’India sotto i nomi di
Varuna e Mitra. Tullo Ostilio e la funzione guerriera Dopo la funzione sovrana
la funzione guerriera, dopo Romolo e Numa, vi è Tullo Ostilio, che Anchise
presenta ad Enea ( En .) come colui che riporterà alle armi, in arme, i
cittadini divenuti casalinghi e disabituati ai trionfi. Arma, come auspicia e
sacra per i suoi predecessori, segnala qui l’essenza del suo carattere e della
sua opera: militaris rei institutor dirà Orosio e prima di lui Floro: La
regalità gli fu conferita in base al suo coraggio: è lui che ha fondato tutto
il sistema militare e l'arte della guerra; di conseguenza dopo aver esercitato
in maniera sorprendente la iuventas romana osò provocare gli Albani. 22.1 miti
di Indra e la leggenda di Tullo Ostilio È in questo caso che il confronto tra
l’epopea romana e la mitologia ha dato i risultati più inattesi e ha permesso
di ampliare lo studio dettagliato della funzione guerriera indoeuropea, il cui
solo confronto della teologia esplicita non lasciava intravedere che i maggiori
aspetti: nelle loro lezioni ma anche nelle loro affabulazioni, i due episodi
solidali che costituiscono la storia di Tulio - la vittoria del terzo Orazio
sui treCuriazi e il castigo di Mezio Fufezio che salvano Roma del pericolo che
correva il suo nascente imperium, uno per la subordinazione di Alba, l’altro
per la sua distruzione - rispecchiano da vicino i due principali miti di Indra
che la tradizione epica presenta spesso come conseguenti e solidali, cioè la
vittoria di Indra e di Trita sul Tricefalo e la morte di Namuci. Non è
possibile qui che mettere in un quadro schematico le omologie, pregando il
lettore interessato di riportarsi al libro in cui gli argomenti e le
conseguenze sono lungamente esposti. A, a) (India). Nell’ambito della loro
rivalità generale coi demoni, gli dèi sono minacciati dall’imbattibile mostro a
tre teste che è tuttavia il figlio dell’amico (nel Riveda) o il cugino germano
degli dèi (nei Brahmano e nell’epopea) ed inoltre, brahmano e cappellano degli
dèi: Indra (nel Rgveda) spinge Trita il terzo dei tre fratelli Àptya, a
uccidere il Tricefalo e Trita in effetti lo uccide, salvando gli dèi. Ma
quest’atto, morte di un parente, di un alleato o di un brahmano, comporta un’impurità
che Indra scarica su Trita o sugli Àptya che la liquidano ritualmente. Da
allora gli Àptya sono specializzati nell’eliminazione delle diverse impurità e
in particolare, in ogni sacrificio, di quella che comporla l’inevitabile messa
a morte della vittima. b) (Roma). Per regolare il lungo conflitto in cui Roma e
Alba si disputano Vimperium, le due parti convengono di opporre i tre gemelli
Orazi e i tre gemelli Curiazi (l’uno dei quali è fidanzato a una sorella degli
Orazi e che, anche nella versione seguita da Dionigi d’Alicarnasso, sono cugini
germani degli Orazi). Nel combattimento ben presto non rimane che un Orazio, ma
questo terzo uccide i suoi tre avversari dando Vimperium a Roma. Nella versione
di Dionigi questa morte dei cugini rischia di produrre un’impurità, ma una nota
del casista la evita: poiché i Curiazi hanno accettato per primi l’idea del
combattimento, la responsabilità cade su di loro. Ma 1 ’ impurità generata dal
sangue famigliare è ripartita subito, trasferita, su un episodio che non ha
paralleli nel racconto indiano: il terzo Orazio uccide sua sorella che lo ha
maledetto per la morte del suo fidanzato. La gens Oratia deve dunque liquidare
quest’impurità e ogni anno continua a offrire un sacrificio espiatorio: la data
di questo sacrificio, all’inizio del mese che pone fine alle campagne militari
(calende di ottobre), suggerisce che queste espiazioni riguardavano (da là la
leggenda di Horatius) i soldati che ritornavano a Roma, macchiati dalle
inevitabili morti della battaglia. B, a) (India). Il demone Namuci dopo leprime
ostilità conclude un patto di amicizia con Indra che si impegna a non ucciderlo
né di giorno né di notte, né col secco né con l'umido . Un giorno,
approfittando a tradimento di un momento di debolezza, in cui Indra è stato
messo dal padre del Tricefalo, Namuci spoglia Indra di tutti i suoi attributi:
forza, virilità, soma, nutrimento. Indra chiama in suo soccorso gli dèi
canonici della terza funzione, Sarasvatl e gli Asvin, che gli rendono la sua
forza e gli indicano il sistema per mantenere la parola data pur violandola:
egli non deve che assalire Namuci all’alba (quando non è né giorno né notte) e
con della schiuma (che non è né secca né umida). Indra sorprende così Namuci
che non sospetta c lo decapita in maniera bizzarra, burrificando la sua testa
nella schiuma. b) (Roma). Dopo la disfatta dei tre Curiazi, il capo degli
Albani, Mezio Fufezio, si pone in Alba sotto gli ordini di Tulio, in virtù
della convenzione. Ma segretamente tradisce il suo alleato e durante la battaglia
contro i Fidenati si ritira con le sue truppe su un’altura, scoprendo il fianco
dei Romani. In questo pericolo mortale Tulio fa dei voti alla divinità della
terza funzione, Quirino, e diventa vincitore. Benché al corrente del tradimento
di Mezio, finge di lasciarsi abbindolare e convoca al pretorio, per
felicitarsi, gli Albani che non sospettano. Là sorprende Mezio, lo fa afferrare
e lo condanna a una pena unica nella storia di Roma, lo squartamento. Rapporti
della funzione guerriera con le altre due Attraverso questi miti e queste
leggende è tutta una filosofia della necessità, dell’impeto cdei rischi della
funzione guerriera, che si esprime, come pure una concezione coerente dei
rapporti di questa l’unzione centrale con la terza, clic mobilita al suo servizio;
e con l’aspetto Mitra-Fides della prima che tuttavia non rispetta affatto e che
non può rispettare poiché, impegnata nell’azione e nei pericoli, come potrebbe
mai accettare che la fedeltà ai princìpi invalidi questa azione disarmandola di
fronte ai pericoli? Anche i rapporti di Indra e Tulio Ostilio con l’aspetto
Varuna-Jupiler della funzione sovrana non procedono senza scontri: abbiamo già
ricordato gli inni vedici in cui Indra sfida Varuna, vantandosi di sconfiggere
la sua potenza (e gli Hàrbcirdsljód d tWEdda allo stesso modo oppongono Ódinn e
Pórr in un dialogo ingiurioso). Quanto aTullo, egli è a Roma uno scandalo
vivente, il re empio e la fi ne della sua storia non è che la ten ibile
vendetta che Jupiter, maestro delle grandi magie, si prende contro questo re
troppo guerriero che l’ha ignorato per lungo tempo. Un’epidemia colpisce le sue
truppe da lui obbligate tuttavia a continuare la guerra, sino al giorno in cui
egli stesso contrae una lunga malattia; dice allora LIVIO (vedasi): lui, che fino
a questi tempi aveva creduto che niente è meno degno di un re che applicare il
proprio spirito alle cose sacre, improvvisamente si abbandonò a tutte le
superstizioni, grandi e piccole, e propagò anche fra il popolo delle vane
pratiche... Si dice che il re stesso consultando i libri di Numa vi trovò la
ricetta di certi sacrifìci segreti in onore di Jupiter Elicius. Egli si appartò
per celebrarli. Ma sia all’inizio che nel corso della cerimonia commise un
errore rituale, di modo che, invece di veder comparire una figura divina,
irritò Jupiter con un'evocazione mal condotta e fu bruciato dalla folgore, lui
e la sua casa Queste sono le fatalità della funzione guerriera. Se Indra, il
grande peccatore Indra, non perviene a questa drammatica fine è perché egli è
un dio e in ogni caso la sua forza e i suoi servigi sono ciò che più
interessano gli uomini. Quanto ai gemelli - che Roma nel Lazio non era l’unica
a onorare, poiché la leggenda prenestina poneva una coppia nei tempi delle sue
origini - l’epopea romana li mette al posto d’onore nella persona di Romolo e
Remo. Vi è una differenza totale tra il Romolo re, che abbiamo visto opposto a
Numa nella seconda ed ultima parte della sua carriera, e il Romolo prima di
Roma, il Remo cumfratre Quirinus. Questa differenza risalta in effetti a
proposito della stessa fondazione, nella disputa degli auspici e nella morte d
i Remo: Romolo cessa allora di essere uno dei due gemelli, il socio fedele e
senza contesa di suo fratello, per diventare il re prestigioso, creatore, terribile,
tirannico e istitutore di quegli uomini che portano davanti a lui delle corde,
pronte a legare nel senso letterale del termine, al pari del suo omologo del
pantheon vedico, Varuna, armato di lacci. La corrispondenza tipologica dei
gemelli dell’epopea romana e degli dèi gemelli, Nàsatya-ASvin, che terminano la
lista trifunzionale indo-iranica, è precisa. Sino alla loro dipartita da Alba,
e alla fondazione dell’Urbe, sono della terza funzione: pastori allevati da un
pastore, vivono una vita esemplare da pastori messa in risalto solo da un gusto
marcato per la caccia e gli esercizi fisici. In questa definizione pastorale
l’evoluzione della proto-civilizzazione romana (scomparsa del carro da guerra)
ha eliminato la parte del cavallo (in evidenza nella parola ASvin), non rimane
quindi che la parte del bue e del montone, per situare maggiormente Romolo e
Remo nell’economia rurale. I Nàsatya, come si ricorderà, sono inizialmente
tenuti a distanza dagli dèi perché troppo mescolati agli uomini ( Éat. Brùhm.) e
nella letteratura posteriore saranno considerati come degli dèi Sfldra, dèi di
ciò che vi è di più basso e fuori-casta, in rapporto alla società ordinata.
Così vivono, pensano e agiscono Romolo e suo fratello. Non vi è in essi niente
di sovrano, nessun rispetto per 1’ordine. Devoti ai più umili, disprezzano gli
intendenti, gli ispettori e i capi del bestiame del re (Plutarco, Romolo). Il
gruppo che li seguirà nella loro rivolta sarà un gruppo di pastori (Livio) o
un’assemblea di indigenti o schiavi (Plutarco, Romolo, 7, 2) prefiguranti
l’eterogenea popolazione dell’Asilo ( ibidem, 9, 5). Sono raddrizzatori di
torti: come i Nàsatya passano il loro tempo a riparare le ingiustizie degli
uomini o della sorte. Essendo semplicemente degli dèi i Nàsatya compiono le
loro liberazioni, restaurazioni e guarigioni per mezzo di miracoli, mentre
Romolo e Remo non possono ricorrere che a mezzi umani per proteggere i loro
amici contro i briganti, ristabilire nei loro diritti i pastori di Numitore
maltrattati da quelli di Amulio e, finalmente, punire Amulio. Uno dei più
celebri servigi dei Nàsatya, origine della loro fortuna divina, è stato quello
di aver ringiovanito il vecchio decrepito Cyavana; la grande impresa di Romolo
e Remo, origine della fortuna del primo, fu allo stesso modo quella di aver
riabilitato il loro vecchio nonno che era stato privato della regalità di Alba.
I due Nàsatya nel Riveda sono quasi indivisibili, agiscono insieme ma tuttavia
un testo segnala una grave disuguaglianza che ricorda quella dei Dioscuri greci:
uno di essi è figlio del Cielo, l’altro è figlio di un uomo. La disuguaglianza
dei gemelli romani è differente ma considerevole: uguali per nascita, uno solo
di essi proseguirà la sua carriera diventando un dio - il dio canonico della
terza funzione, Quirino -1’altro perirà precocemente non ricevendo più che i
soli onori abituali attribuiti ai morti eminenti. Ovidio potrà dire di loro
{Fasti): ut quam sunt similes! At quamformosus
uterque! Plus tamen ex illis iste vigoris habet ... Certe azioni estranee
ai Nàsatya - mal conosciute come tutta la loro mitologia - sembrano ricordare
dei tratti della leggenda di Romolo e Remo, talvolta solo con una inversione
(protettori e non protetti) che testimonia come essi siano degli dèi e i
gemelli romani degli uomini. Uno dei servigi frequenti dei Nàsatya è di fare
cessare la sterilità delle donne e delle femmine; ora, Romolo e Remo sono i
primi capi dei Luperci, un compito dei quali è di rendere madri le donne romane
con la flagellazione (una leggenda eziologica, che pone l’origine di questo
rito dopo la fondazione di Roma c il ratto delle Sabine, dice che è stato
destinato inizialmente a far cessare una sterilità generale). In tutto il
Rgveda il lupo è un essere mal visto, è il nemico; l’unica eccezione si trova nel
ciclo dei Nàsatya: un giovane uomo aveva sgozzato cento c un montoni per
nutrire una lupa e per punizione suo padre lo aveva accecato. Dietro preghiera
della lupa i gemelli divini resero la vista allo sfortunato. Nella storia di
Romolo e Remo, c solo in essa a Roma, non è più in quanto nutrita ma come
nutrice che la lupa occupa il posto eminente che ben si conosce. Nei riti e
nelle leggende dei Luperci (OVIDIO (vedasi), Fasti), nel racconto sulla
giovinezza di Romolo e Remo (Plutarco, Romolo, 6, 8) le corse giocano un ruolo
considerevole; ugualmente le corse in carro ncl4 mitologia degli ASvin. Un
aspetto sfortunatamente oscuro della festa rustica di Palcs (il cavallo
mutilato, curtus equos), come pure il concetto stesso della dea Pales, così
strettamente legato a Romolo e Remo e alla fondazione di Roma, ricordano la
leggenda in cui i Nàsatya rimettono in forze la giumenta detta Pula del w.f
(vis, principio della terza funzione e anche clan) che durante una corsa si era
spezzata le gambe. Questo confronto sommario è sufficiente a stabilire che,
nella loro carriera preromana, Romolo e Remo corrispondono così precisamente ai
Nàsatya come Romolo, divenuto re, e il suo successore Numa corrispondono a
Varuna e Mitra e Tulio a Indra. Quando Romolo muore verrà deificato sotto il
nome del dio canonico della terza funzione, Quirino, ritornando quindi al suo
valore primigenio e, sia dello di sfuggita, questa notevole convergenza spinge
a rivedere l’idea generalmente ammessa che l’assimilazione di Romolo a Quirino
sia secondaria e tardiva. 25. La terza funzione, fondamento delle altre due
Riguardo l’ordine di apparizione delle tre funzioni nell’epopea delle origini
romane - 3, 1, 2 - c la trasformazione dello stesso Romolo da Nàsatya» in
Varuna», queste non sono senza paralleli c rivelano un aspetto della struttura
trifunzionale che ancora non abbiamo avuto occasione di segnalare. Vediamo qui
come una conferma del fatto certo che, se è vero che la terza funzione è la più
umile, nondimeno essa è il fondamento e la condizione della altre due. Come
vivrebbero maghi e guerrieri se i pastori-agricoltori non li sostenessero?
Nella leggenda iranica, Yima al pari di Romolo diviene un re prestigioso e
eccessivo sfidando Ahura Mazda - dopo essere stato differenzialmente, nella primaparte
della sua vita, un buon eroe della terza funzione dai ricchi pascoli, sotto cui
la malattia c la morte non affliggevano ne l’uomo né la bestia né le piante (
Yust, XIX, 30-34). Nell’epopea osscla, i due gemelli /Exsaert e /Exsaertacg,
dei quali il secondo uccide il primo in un eccesso di gelosia, genera poi la
famiglia degli i£xsaertaegkalae (la famiglia dei Forti, dei Guerrieri) che sono
usciti secondo certe varianti dalla razza di Bora, cioè dai Boratae (una
famiglia di ricchi). È la stessa filosofia che si esprime nei rituali indiani
sulla stessa area sacrificale: devono essere riuniti tre fuochi corrispondenti
alle tre funzioni; un fuoco che trasmette le offerte agli dèi, un fuoco che
difende contro i demoni e un fuoco padrone della casa; ora, quest’ultimo
presenta i caratteri di un fuoco vatéya che è il fuoco fondamentale acceso per
primo e che serve per accendere gli altri. Sviluppo della ricerca Il lettore è
stato quindi introdotto non solo nel deposito in cui sono classificati i
risultati ma, per la teologia e la mitologia di ognuna delle tre funzioni, e
notoriamente della seconda e della terza, lo si è l'atto penetrare nel campo
degli stessi scavi in cui il comparatista si batte ancora con la sua materia.
Il lavoro continua, con le sue procedure ordinarie che non sono solo
ritrovamenti nuovi ma anche delle correzioni, delle reinterpretazioni dei
dettagli alla luce dell’insieme meglio compreso e generalmente delle
riflessioni critiche sui bilanci anteriori. Prima di prendere congedo la guida
deve ricordare che, per importante o centrale che sia l’ideologia delle tre
funzioni, essa è ben lungi dal costituire tutta l’eredità indoeuropea comune
che l’analisi comparativa può intravedere o ricostruire. Un gran numero di
altri cantieri più o meno indipendenti sono aperti : sugli dèi iniziali, sulla
dea Aurora e su qualche altro, sulla mitologia delle crisi del sole, sulle
varietà del sacerdozio, sui meccanismi rituali e sui concetti fondamentali del
pensiero religioso, la comparazione, e specialmente la comparazione dei fatti
indo-iranici e romani, ha già permesso c permetterà di riconoscere delle
coincidenze che è difficile attribuire al caso. La struttura bipolare della
sovranità è l’argomento di MV; il capitolo III di NA studia i fatti iranici
(Vohu Manah c Asa). A proposito di questi ultimi la critica di W. LENTZ, Yasna
2<f, Abh. Ak. tV/'.r.r. li. Ut. Mainz., non regge; non più dei poeti del
Riveda per Mitra e Varuna, quelli delle Gàthà avevano la preoccupazione, in
tutte le circostanze o in molte circostanze, di caratterizzare
differenzialmente Vohu Manah c Asa; questo è vero per lo Yasna 28 in cui ogni
strofa nomina contemporaneamente le due Entità esattamente come RV, V, 69, in
cui ogni strofa nomina simultaneamente i due dèi senza cercare di distinguerli.
Per Vohu Manali vedi G. WlDENGREN, The f>reai Vohu
Manah and thè Apostle ofGod. Per Mi9ra e Ahura Mazda nella nuova
prospettiva vedi MV (da correggere dopo WlDENGREN, Numen); J.
DUCHESNE-GUILLEMIN, Zoroastre; da S. WlKANDER, Orientalia Suecana (sul Mesoromazdés
di Plutarco). L’importante affinità del Varuna vcdicocon F oceano, f ortemente
marcata da H. LUDERS, Varuna, I ( Varuna linci die Was- ser), sarà esaminata
ulteriormente i n un quadro comparativo. MV, MV: si hanno ora le esposizioni di
J. DE VRIES, Altgerm. Rei. -Gesch., Ir, e di W. BETZ Die altgerm. Religion. Le troisième souverain, essai sur le_ clieu indo-ircuiien Aryaman, 1949;
DIE,40-59. Su
Aditi, madre degli Aditya, in quanto madre e figlia di uno di essi, vedi
Déesses latines et mythes védique. Rifiutando e caricaturando in ZDMG la
rettifica che avevo proposto alla sua interpretazione di ari (non importa quale
Fremdling, ma già con una nota di nazionalità, l’insieme o un membro del mondo
arya - alleato o avversario),THIEME compie il tour de force di discutere senza
menzionare il mio libro su Aryaman, che è il contesto naturale di questa
rettifica, e mi attribuisce non so quale metodo sintetico, intuitivo, etc. No:
il mio studio su Aryaman procede per una analisi completa e dettagliata dei testi
vedici in cui è menzionato. Esaminerò successivamente questa curiosa risposta
nel JA e spero cheThieme userà più fair play nello studio che sta preparando,
mi dicono, su Mithra e Aryaman, (vedi l’Appendice). DIE,50-51, riassumendo Le
troisième souverain. DIE. Sugli Àditya Daksa e Amsa, DIE,; K. Barr, Àvesta DIE,
pp.68-75. Per Juventas è stato segnalalo un notevole riscontro nel mondo
celtico: come Juventas rifiuta di lasciare il colle capitolino in favore di
Jupiter O.M., che è obbligato ad ospitarla per sempre nel suo tempio, così
l'irlandese Mac Oc (il Giovane Figlio), antico dio protettore della gioventù,
si impone nel tumulo in cui vive il vecchio dio sovrano Dagda e si fa concedere
un giorno e una notte , poi arguendo che il giorno e la notte fanno la totalità
del tempo, rifiuta di uscire e resta maestro del luogo (Jeunessc, éternité,
aube, Annales d’histoire économique et sociale DIE, Vedi la prefazione di
Aspects... § 12-24.1 servigi che bisogna richiedere alla pseudo-storia delle
origini romane comparata con la mitologia indiana o scandinava, sono stati ben
presto riconosciuti: JMQ, cap. V; Horace et les
Curiaces; Servius et la Fortune; riassunto in L’hérìtage..., cap. Ili e in
Mythes romains, Revue de Paris, die. 1951,105-118. Sull’epoca in cui
I’affabulazione definitiva degli antichi miti si è prodotta (senza dubbio tra
il 350 e il 280 a giudicare dagli anacronismi che vi sono inseriti), vedi
L’héritage. L’interpretazione dell’intrigo del Mahcibhàrata è stata data da S.
WlKANDER in un suo articolo fondamentale, Pandava-sagan och Mahàbhàratas
myliska fòrutsattningar, Religion neh Bibel, in gran parte tradotto e
commentato nel niio JMQ IV,37-85; cf. WlKANDER, Sur le fonds commun
indo-iranien des épopées de la Perse et de l’Inde, NC. Nel dominio germanico un
caso parallelo (il trasferimento su Hadingus della Mitologia di Njordr) è stato
studialo in La saga de Hadingus (Saxo Granunaticus, I, V-VIII), du mythe au
roman, 1953. Mentre il presente libro era in stampa, in Orientalia Sue vana,
sotto il titolo Nakula e Sahadeva. WlKANDER faceva considerevolmente avanzare
l’analisi dei gemelli epici e divini (vedi sotto § 24). § 14. Su Vàyu-Indra,
vedi Pàndava sagan...,33-36; è il risultalo dei lavori diH.S. NYBERG, Die Reli
gioiteti des altea Iran; di G. WlDENGREN, Hochgattglaube ini alten Iran; di S.
WlKANDER, Vayu, I, 1941, V.I. AbaEV ha riconosciuto il dio indo-iranico * Vayu
nel nome generico dei giganti (f orti, catti vi, bestie) presso gli Osse- ti,
weijug (da *Vayu-ka-), Trudy lnstituta Jazykaznanija, che io ho commentato in
Noms mythiqucs indo-iraniens dans le folklore des Osses, JA,. Aspects.. JMQ
IV,56. Pàndava-sagan...,36; JMQ Pandu come trasposizione di Vanina, vedi JMQ.
La trasposizione di un mito vedico (duello di Indra c del Sole, la ruota del carro
del Sole infossata) è stata riconosciuta nel racconto della morte di Karna,
fratello uterino e nemico dei Pàndava, figlio del Sole come essi lo sono degli
dèi delle tre funzioni: Karna et Ics Pàndava, Orientalia Suecana, III ( =Do-
num natal. H.S. Nyberg), 1954,60-66. Una trasposizione (dei passi di Visnu al
servizio di Indra) è segnalata in Les pas de Krsna et l’exploit d’Arjuna,
Orientalia Suecana, V, 1956,183-188; e altri due (i sovrani minori Aryaman e
Bhaga, trasposti in Vidura c Dhrlaràstra) in una conferenza fatta
all’Università di Copenhagen, pubblicala quest’anno nell’ Inclo-1 ninian
Journal (La transposilion des dieux souverains dans le Mahàbhàrata), Il
personaggio di Bhlsma sarà ulteriormente studiato nella stessa prospettiva. Le
leggende romane sugli inizi della Repubblica presentano due croi che ricordano,
per la forma e il senso delle mulilazioni, il dio cieco monco della mitologia
scandinava, cioè i due dèi sovrani Ódinn e Tyr: questi sono Orazio Coclite (il
Ciclope) c Muzio Scevola (il Mancino), i due salvatori di Roma nella guerra
contro Porsenna; la comparazione è stata sviluppata in MV cap. IX e ripresa
diverse volle, specialmente ne L’heritage. c Loki. Sui primi redi Roma vedi il
riassunto degli studi anteriori in L’heritage.; un notevole ritocco parallelo
al ritocco zoroastriano degli dèi trasporti in Entità della tradizione romana
nel De Republica di Cicerone, è stato studiato in Les archanges de Zoroastrc et
Ics rois romains de Ciceron, JP Su Romolo e Numa vedi MV, cap. II; L’héritane.
Horate et les Curiaces; L ’héritage.. Aspetta: La geste deTullus Hostilius et
les mythes de Indra; cf.3-14 dello stesso libro, studio dell’Indra vedico come
solitario a dispetto dei suoi associati ( ekci -) e come autonomo (sva-). La
bibliografia degli studi comparativi sullasecondafunzioneèdatain DIE,38-39 e
completala in Aspetta. Sui gemelli Romolo e Remo come corrispondenti ai gemelli
Nàsa- tya indo-iranici, vedi G. WlDENGREN, Harlekintracht..., Orientalia Sueca-
na, ; Aspetta...1. Non ho ancora pubblicato su questa interpretazione dei
gemelli romani il libro preparato; è comparso solo un frammento: Le turtus
equos de la fète de Pales et la muti- lationde lajument ViSpala, Ercinos, LIV
(=G. Bjiirck meni. Saturni. Altre corrispondenze tra dèi ed eroi gemelli dei
diversi popoli indoeuropei sono state segnalale in La saga de Hadinf>us,
Dioscuri greci sono solo parzialmente comparabili. Sembra che altri aspetti
della terza funzione (massa popolare; sviluppo della ricchezza e del commercio;
piacere) abbiano ispirato i racconti sul quarto re di Roma, Anco Marzio,
successore del guerriero Tulio; vedi Tarpeia, III (Jactanlior Ancus) e la
discussione con J. Bayet in JMQ IV,185-186 (dove importanti questioni di metodo
sono toccate). DIVINITÀ: sugli dèi iniziali, vedi De Janus à Vesta, Tarpeia,
31-113 (=JMQ it.,287-353), DIE,84-105; in Rituels, sono state rilevate delle
concordanze tra il culto di Vesta c imiti vedici di Vi- vasvat; in Déesses
latines et mythes védiques, 1956, dei dati indiani hanno chiarificaio e giustificaio
le rappresentazioni di Maler Maluta (cf. Usas; vedi anche RENOU, Études
védiques et pcuiinéennes, III, 1957, 1: Les Hymnes à l'Aurore du Riveda), della
silenziosa Diva Angerona, dea degli angusti dies del solstizio d’inverno (cf.
Atri operosa con la preghiera silenziosa nella crisi del sole), della Fortuna
Primigenia prenestina, madre e figlia di Jupiter (cf. Aditi, madre e figlia del
sovrano Daksa), di Lua Mater (cf. Nirrti). RITUALI in Suouetaurilia, Tarpeia (=
JMQ it.) si è stabilito lo stretto parallelismo di questo sacrifico triplice,
offerto a Marte, con la sautrànicuiT indiana (sacrificio di un loro, di un
montone c di un capro a Indra Buon Protettore); in Rituels indoeuropéeus à
Rome, i Fordicidia sono stali resi chiari, nei dettagli dei riti, dal
sacrificio vedico della Vacca dagli otto piedi; l’opposizione del santuario
rotondo di Vesta c di templi quadrati, orientali, è stala riavvicinata
all’opposizione tra il fuoco rotondo (di riserva e di accensione, fuoco del
padrone di casa, attaccalo alla terra) e il fuoco quadrato (che dirige verso
gli dèi le offerte degli uomini) sull’ara sacrificale ve- dica; i rapporti
rituali degli equidi, c in special modo del cavallo, con ciascuno dei tre
livelli funzionali, sono stati riconosciuti come idèntici sia a Roma che
nell’India vedica; in Quacstiunculac indo-italicac, 1-3 (da pubblicarsi in REL)
il tulmen inane fabae della fumigazione dei Parilia, i pisciculi vivi gettati
nel fuoco durante i Volcanalia e la prescrizione bigarum victricum clexterior del
Cavallo di Ottobre sono chiarificati dai dati vedici. SACERDOZIO (oltre a qui sopra, nota a I, § 1, per Jlamen-brahman ):
Meretrices et virgines dans quelques légendes politiquesde Rome et des pe-
uples celtiques, Ogcnn; Remarques sur le ius feriale , REL REL, contiene uno
studio su augur, inaugurare, augustus. NOZIONI: A propos de latin ius. RHR ;
Ordre, fantasie, changemente dan les pensées archaiques de l’Inde et de Rome, à
propos de latin mos, REL; in Maiestas elgravitas, de quelques diffé- rences entre
les Romains et les Austronésiens, RP; queste sono invece due nozioni
prettamente romane che sono state analizzate contro la scuola primitivista; su
gratus, gratin eminentemente spiegate con un usovedico della radicegurC^V,
Vili, 70,5), vedi L.R. PALMER, The Concept of Social Obligation in
Indo-European, Coll. Latomus, XXIII ( =Homm. M. Niedennann BENVENISTE ha
delucidato comparativamente un gran numero di nozioni religiose e sociali, vedi
in special modo Symbolisme social dans les cultes gré- co-italiques RHR (vedi
una conferma di un dato importante nel mio Rituels...)', Don et échange dans le
vocabulaire in- do-éuropéen, L'Année Sociologique, 1951,7-20 e Formes et sens
de pvaopai, Sprachgeschichte uncl Wortbedeutung (= Festschr. A. Debrunner).
Storia degli Studi e bibliografìa Dopo lo scacco del saggio intelligente ma
prematuro fatto dalla scuola di Kuhn c di Miiller teso a ricostruire la
mitologia comune degli Indoeuropei, l’impresa fu per un certo tempo dichiarata
illusoria. Daunaparte, sotto l’influenza di Mannhardt, gli studi si spostarono
sui rituali e le credenze agricole, popolari, di un tipo abbastanza uniforme
per tutta l’Europa e ci si applicò a ridurvi, senza pretendere di stabilire
filiazioni né parentele particolari, un gran numero di culti e miti delle
diverse religioni e in special modo quelle dei popoli classici. Da un’altra
parte, per effetto della crescente settorializzazione delle specialità, gli
studiosi dei diversi domini, indiano, greco, latino, germanico, etc.,
rifiutando ogni considerazione comparativa, costruirono per spiegare la genesi
e lo sviluppo delle religioni da loro studiate delle ipotesi che presero
sovente per dati di fatto e che non si accordavano che per un punto: la
riduzione a poche cose, per non dire a niente, dell’eredità conservata dal
passato comune indoeuropeo. Rari autori continuavano a parlare di religione
indoeuropea come ad esempio A. CARNOY, Les Indoeuropéens. Tuttavia nel secondo
quarto di questo secolo si produssero delle reazioni. In Germania bisogna citare
prima di tutto: H. GUNTERT, Der Arische Weltkonig und Heiland (1923); R. OTTO,
Gotlheit und Got- theilen derArier (1932); F. CORNELIUS, Indogermanische
Religion- sgeschichte ( 1942) e tutta la serie, che prosegue brillantemente,
degli articoli c dei libri di F.R. Schroder. Lui stesso ha fatto un primo
sforzo di revisione della mitologia comparata, ma con dei mezzi filologici
insufficienti e rimanendo prigioniero, per la spiegazione, delle concezioni
mannhardtiane e frazeriane {Le Festin d'Im- morIalite 1924, Le crime des
Lemniennes 1924 e qualche articolo di cui non vi sono grandi cose da ritenere;
il Leproblème des Centaures, e Flamen-Brahman, i cui frammenti rimangono
utilizzabili). Non è che a partire dal 1938 che, inizialmente solo e poi, dopo
il 1945, raggiunto e spesso superato da altri ricercatori, spero di essere
riuscito a delineare dei tratti importanti della struttura dell’eredità
indoeuropea comune, in una coscienza più chiara delle condizioni c dei mezzi
deH’inchiesta. Quest’inchiesta non si riporta ad alcun sistema preconcetto di
spiegazione, ma utilizza gli insegnamenti della sociologia e dell’etnografia,
come pure il ricorso all’analisi linguistica dei concetti. Essa ha due
postulati: ammette che tutto il sistema teologico e mitologico significa
qualcosa, aiuta la società che lo pratica a comprendersi, ad accettarsi, ad
essere fiera del suo passato, confidante nel presente e nell’avvenire; ammette
anche che la comunità di lingua, presso gli Indoeuropei, implica una misura
sostanziale dell’ideologia comune alla quale deve essere possibile accedere
grazie a una varietà adeguata del metodo comparativo. Una circostanza, sulla
quale un articolo di J. Vcndryes aveva attirato l’attenzione sin dal 1918, ha
dato il via all 'inizio di molte ricerche: il vocabolario religioso degli
Indo-Iranici da una palle c quello dei Celti e degli Italioti dall’altra
presentano un gran numero di concordanze precise e che sono loro proprie. Un
articolo-programma del 1938 La préhistoire des flamines majeurs, RHR ha dimostrato
che questa parentela prossima non si riduce al vocabolario ma si estende alla
struttura della religione. E dal 1938, in ogni tipo di materia, è in effetti la
comparazione dei dati vedici o indo-iranici e dei dati romani che ha fornito i
primi risultati precisi sui quali è stato possibile fondare delle comparazione
più vaste. Così illuminati, i fatti germanici (benché il vocabolario religioso
sia interamente differente) si sono ben presto rivelati anch’essi notevolmente
fedeli al passato indoeuropeo. Benché conformandosi ai grandi quadri
indoeuropei, il dominio celtico pone ancora, in seguito allo stato della
documentazione, un gran numero di problemi irrisolti. La Grecia - per effetto
senza dubbio del miracolo greco e anche perché le più antiche civiltà del Mare
Egeo hanno troppo fortemente segnato gli invasori venuti dal Nord -
contribuisce poco allo studio comparativo: anche i tratti più considerevoli
dell’eredità sono stati profondamente modificati. Quanto agli altri popoli del
mondo indoeuropeo, in special modo i Baiti e gli Slavi, non si è ancora
riusciti a utilizzarli pienamente. 1 principali lavori in cui è stata
progressivamente analizzata l’ideologia tripartita degli Indoeuropei che il
presente libro espone sono i seguenti': Mythes etdieuxdes Gennains,
essaid’interprétation comparative (citato MDG) Mitra-Vurunu, essai sur deux
représentations indoeuropéen- nes de la souveraineté 1940, II ed. (citato MV) Jupiter Mars Quirimis, essai sur laconception indoeuropéenne de
la société et sur Ics origines de Rome, 1941 (citato JMQ) Naissance de Rome
(=JMQ II) (citato NR) Naissance d'Archanges, essai sur la formation de la
théologie zoroastrienne (=JMQ III) (citato NA) Jupiter Mars Quirinus IV, 1948
(citato JMQ IV) L ’heritage indoeuropèe !? à Rome, introduction aux séries JMQ
et Mythes Romains, Le troisième Souverain, essai sur le dieu Aryaman, 1949 Les
dieux des Indoeuropéens, 1952 (citato DIE) Rituels Indoeuropéens à Rome Aspects
de lafonction guerrière chez les Indoeuropéens, 1956 Déesses latine set mythes
védiques. Coll.
Latomus, XXV, 1956 Una traduzione italiana di una versione migliorata in
diverse parti di JMQ e di NR e di frammenti di Tarpeia e di JMQ IV, è stata
pubblicata a Torino sotto il titolo di Jupiter Mars Quiri- I Attualmente sto
preparando un rimaneggiamento unitario di JMQ. NR. NA ehc sarà pubblicalo, come
questi tre libri, presso Gallimard. Aspettando, l’edizione italiana dei primi
due Corniscc un’idea delle correzioni giudicale necessarie: le parli che non
sono state tradotte sono da eliminare. ìtus (citato JMQ it.) 2 . Delle
questioni di metodo, che io qui non affronto, si trovano discusse nelle
prefazioni della maggior parte di questi libri e, più sistematicamente, nel
primo capitolo de L’heritage ... (Materia, oggetto e metodi di studio). 2 AUre
abbreviazioni: AV= Atharvaveda; BGDSL = Beitrage zur Geschichte der Deutschen
Sprache und Literatur: FFC = Folklore Fellows Communications; J A = Journal
Asiati que; JAOS = Journal of thè American Orientai Society; JP = Journal de
Psichologie: NC = la Nouvelle Clio; REL = Revtte des Etudes Lalines; RHA =
Revtte Hittite et Asianique; RHR = Revtte de l ’Histoire des Religions; RV =
Riveda; RP = Revtte de Philologie. RSR = Recherches de Science Religieuse; SBE
= Sacred Books of thè East; SMSR = Studi e Materiali di Storia delle Religioni
; TPS = Transaction of thè Philological Society; ZCP = ZeitschriJ't fìir Celti
sche Philologie; ZDMG = Zeitschrift der Deutschen Morgenlàndischen
Gesellschafl. Aryaman e Paul Thieme Mentre correggo le seconde bozze di questo
libro (maggio 1958) è uscito quello di Paul Thieme annunciato qui sopra (nota
al cap. Ili § 5), ma egli non risponde affatto alle ingenue speranze che
esprimevo. Cito dunque qui (I e II) due estratti dell’articolo del JA,
concernenti Aryaman e il metodo di Thieme, menzionato nello stesso paragrafo e
vi aggiungo (III) qualche riflessione provvisoria su Mitra and Aryaman. Per non
creare confusione lascio alle note di I e II i numeri che avranno nel JA.
Abbreviazioni: F. =Thieme, Der Frem- dling im Rig Feda; S = il mio Troisième
Sauveraine, 1949; Z = Thieme, Ari, Fremder, ZDMG. Ma è soprattutto nei
confronti del dio vedico, e prima ancora indo-iranico, Aryaman, che il saggio
di Thieme rivela la sua debolezza. In virtù dell’ipotesi {ari = lo straniero, qualunque
sia) c del senso che ne risulta per aryó (l’ospitale), Aryaman non può essere
che il dio dell’ospitalità)). È così? E ancora, sarebbe necessario che negli
inni o nei rituali questa definizione si verificasse sul suo centro, intendo
dire, in occasione del ricevimento di un ospite designato come tale. Ora, non
soltanto non vi è un testo rgvedico che riunisca il nome dell’ospite, àtithi e
quello d’Aryaman, ma, salvo ignoranza da parte mia, Aryaman non è né invocato
né menzionato ritualmente all’arrivo di un visitatore. Non bisogna concludere
un’assenza dal silenzio: è tuttavia curioso, se il concetto di ospitalità è
stato sentito tanto importante da essere personificato in uno dei due dèi
sovrani, e nel più considerevole dopo Varuna e Mitra, che questa origine non
abbia avuto nessuna occasione per esprimersi chiaramente. Mitra, il contratto
personificato, è certo come dio molto più del contratto, ma si trovano dei
testi in cui questo legame è manifestato e sottolineato con delle parole senza
ambiguità. Inversamente, l’Aryaman vedico e il suo corrispondente avesti- co
Airyaman, intervengono in circostanze che, salvo violenza, sono irriducibili
all’ospitalità. Ne ricorderò solo due. Prima di Thieme molti vedisti avevano
notato, con delle conclusioni talvolta eccessive o errate, i rapporti tra
Aryaman e il matrimonio. 1 testi allegati sono abbastanza numerosi". Per
piegarli alla sua tesi, Thieme è stato indotto a far loro subire dei
trattamenti poco raccomandabili. In tutto il dossier vedico vi sono dei documenti
più chiari e più netti, altri più oscuri o più indeterminati. Il metodo
ordinario è d’informarsi all’inizio sui primi e con questi chiarificare o
precisare in seguito i secondi. Per il caso di Aryaman si ha, chiara e netta in
A V, la formula destinata a procurare un coniuge, la descrizione che fa di
Aryaman la prima strofa: tiyùm Ci ycity arycimà pura staci visitastupah asyci
icchcinn agruvai pettini utd jàyàm ajànuye Ecco arrivare Aryaman con i riccioli
sciolti, cercando per questa fanciulla un marito e una moglie per chi non è
sposato. Non meno esplicito vi è in/l V, XIV, 1, inno rituale del matrimonio,
la strofa 17 che riguarda la giovane donna: aryamdnam yajcimahe subanclhum
pativédanam urvàrukcim iva bàndhanàt prétó muncumi nàmùtah 11 I lesti sono riuniti
in A. HlLLKBRKNDT, Vedische Mytalogie, seguiti da un'interpretazione di Aryaman
come Feier, sicuramente errata. Noi sacrifichiamo ad Aryaman (il dio) delle
buone alleanze, il trovatore dei mariti. Come unazuccadalsuo legame io ti
libero da qui (= dalla tua casa di ragazza), non da laggiù (= dalla casa
coniugale). Vicino a questi testi ve ne sono altri che riguardano ancora siala
ricerca della sposa che diversi episodi precisi del rituale delle nozze, nei
quali Aryaman interviene sempre, ma associato ad altri dèi e di conseguenza con
un ruolo non immediatamente identificabile. Ciò che in questi casi incerti può
orientare l’interpretazione è evidentemente la descrizione e la definizione che
su di lui hanno dato i testi espliciti del dossier: egli cerca da ambedue le
parti gli elementi delle coppie coniugali e fa delle buone alleanze
matrimoniali. Thieme procede all’ inverso cominciando dalla seconda categoria
di documenti. Consacra cinque pagine per citarli in esteso e per tradurli
inserendo tra parentesi, a favore della loro indeterminazione, la sua
concezione di Aryaman (die Gastlichkeit, der Gott der Ga- stlichkeit, der Gott
gastlicher Aufnahme) e in seguito, in dieci righe che conclude allusivamente,
pretende che ciò che dice sui testi meno determinati permetta-infine! - di
ridurre alla loro vera portata questi testi la cui precisione lo imbarazza 13
Von hier aus wirdes nun erst mòglich, die Verse A V. 6.60. 1, 14.1.17, Mp.
1.5.7, die H1LLEBRANDTan die Spitze seiner Untersu- chungdes Verhàltnisses zwischen
Aryaman und E he gestellt hat, in ih- rer wahren Bedeutungen zu wùrdigen. Als
einer der Genien des Hau- shalts, der auch bei der Eheschliessung mitwirkt,
wird Aryaman als Gattenfìnder (A V.) und Ehevermittler (A V.) schlechthin in
Zauberspriichen genannt, die anscheinend durch die Erwàhnung eines so vornehmen
Gottes, der im R Vin der Gesellschaft des Mitra und Varuna aufzutreten pflegt,
wirken wollten. Al di fuori dello stesso procedimento che consiste nel
mascherare ciò che è chiaro con ciò che non lo è, tutto nell’ultima frase è
tendenzioso: questi Zauberspriichen, uno dei quali appartiene al rituale del
matrimonio, non meritano alcun disprezzo c sono sicuramente 12 F„ §§ 118-124;
S.73-79. 13 F„ § 124. adatti a chiarire la funzione del dio che essi mobilitano.
Pretendere che Aryaman non vi figuri in qual ità, ma semplicemente perché è un
gran nome della mitologia, è una spiegazione che generalizzata permetterebbe
all’esegeta di sopprimere in ogni maniera le testimonianze imbarazzanti.
Infine, la definizione di Aryaman come einer derGenien des Haushalts, è stata
utilizzata, pefitio principii, usando la libertà fornita dai testi meno
determinati. Bisogna aggiungere che alcuni di questi testi resistono al senso
che si vuole loro dare. Quando Aryaman ad esempio è pregato, ancora in un inno
di matrimonio, di ungere (forse la novella sposa) fino alla vecchiaia (o
affinché ella non invecchi)' 4, Thieme, ricordando che in ogni paese del
mezzogiorno 15 il bagno di ospitalità comporta un’unzione d’olio, traduce intrepidamente:
Mòge Aryaman (als der Gotigastlicher Aufnahme) [Dich= die Braut ] inir der
Ólsalbung schmiicken; auf dass du nicht altseist ( =
inJugendschònheitglànzest). Le giustificazioni di questa traduzione sono
leggere: suppone un aspetto non attestato del rituale d’ospitalità e il dativo
d’intenzione àjarasàya è volto in un senso inattendibile; come si può mai dire
alla giovane sposa: Che il dio dell 'ospitalità ti unga con olio affinché tu
non abbia l'aria invecchiata ? Viceversa se si vede in Aryaman il protettore
del rapporto che si forma, è naturale che egli sia pregato di garantire alla
sposa lunga vita o vigorosa vecchiaia. E non è tutto. Thieme assimila
costantemente l’ospitalità e il matrimonio, l’accoglienza che riceve l’ospite e
quella che riceve la fidanzata. Ora, le due cose sono differenti: a dispetto
del riferimento a Mrs. Stevenson 16, l’atto della donna che entra in casa di
suo marito per rimanervi, può identificarsi, nei riti, con l’atto del
visitatore che dopo essere entrato straniero se ne andrà, benché incaricato del
dovere di contraccambiare, ma sempre straniero? L’accoglienza fatta alla futura
madre può forse essere più ospitale, nello spirito e nei riti, delle ceri- 14
RV, X, 85, 43: a nati prajath janayatu prujàpatir àjarasàya sùm anaktv aryamù.
Geldner: Pràjapati soli uns Kinder erzeugen, bis zurhohcn Alicr soli nns
Aryaman verschinelzcn. Nell'India vedica? F.,125, n. 1. monie che in seguito
legalizzeranno il neonato come membro della stessa famiglia? Se bisognasse
avvicinare ad altre cose questa procedura sui generis del matrimonio, non si
dovrebbe pensare piuttosto all’adozione che all’ospitalità? Le nostre parole
accoglienza, Aufnahme, creano un’ambiguità che senza dubbio un Indiano, non più
di un Romano, non rischiava di sentire vivamente. Io resisto particolarmente
all’interpretazione datadaThiemead AV-sempre riguardo il rituale nuziale :
aryamnó agnini pàryetu pùsan [var. ksiprdm] prdtiksante svasuro devaras cu. Sie
umschreite das Feuer des Aryaman (der Gastlichkeit), o Pùsan'*, es sehen
entgegen Schwàher und Schwager. Sono certamente meno ben informato di Thieme
sui rituali vedici: quando un ospite entrava in una casa gli si faceva fare
anche questa circumambulazione del focolare, che trova il suo esatto
corrispondente, come molti altri tratti, nel matrimonio romano (dove ha valore
di rito d’incorporazione) e non nell’ospitalità romana? Se è così m ’ inchino.
Altrimenti, messa in luce dai testi precisi sul ruolo di Arya- Piuttosto,
secondo la variante schnell. In S.,78, vi è una cantonata nella traduzione che
dopo dieci anni non so ancora se la devo attribuire a un’ inavvertenza del mio
manoscritto o delle mie correzioni delle bozze:,f vósuro devàsra.ica è reso con
i suoceri e i cognati invece de i7 suocero c i cognati il plurale della seconda
parola avendo determinato meccanicamente, da me o dal tipografo, il plurale
della prima. Questo testoche sotto la protezione di Aryaman f a intervenire
dopo la giovane sposa il padree i fratelli dello sposo, prova che nel
matrimonio Aryaman si interessa a ben di piti che l'unione tra due esseri:
l’intera famiglia è interessata da questo nuovo membro che le procura
un’alleanza con un’altra famiglia (cf. Aryaman qualificato suhandhù, alla
strofa 17 dello stesso inno). Alla pagina 119 di S. ho commesso una svista più
umiliante ma senza conseguenze per i miei propositi, considerando svasurah di
RV, X, 28, 1 come padre della moglie (possibile nel sanscrito classico ma non
nel vedico) emettendo la strofa in bocca al marito. E l’inverso. La moglie parla
e si sorprende che il padre di suo marito non sia venuto al festino preparalo,
mentre vi.ivo... anyó arlh ogni altro ari, tutto il resto dell'insieme ari (e
non facendo sparire la parola essenziale altro, jederunde- re, niimlichjeder
ari, Thieme) è pervenuto. Il commento che ho fatto di questo testo, per i
rapporti di ari e di .ivù.iurah, sussiste interamente a condizione che si
rimpiazzi genero con nuora (e co.si prendere moglie con prendere marito e ha
scelto la jigliadel suocero con è stato scelto dai figli del suocero). man nel
matrimonio, l’espressione fuoco di Aryaman per designare eccezionalmente qui il
focolare intorno al quale si forma il legame mi sembrerebbe fare semplicemente
riferimento a questo ruolo. Sono queste le principali ragioni per le quali non
mi è possibile dedurre il ruolo di Aryaman nel matrimonio a partire dalla
definizione che esige l’ipotesi di Thieme. L’Airyaman avestico è invocato (
Yasna) per sostenere gli uomini e le donne di Zoroaslro e il Buon Pensiero; è
detto dotato di forza offensiva, distruttore di ogni resistenza, vincitore dei
nemici (ibid., 2); la preghiera che è invocata dopo di lui è onnipotente e
guaritrice (Yast); Aryaman stesso è l’eroe di una scena mitica in cui questa
preoccupazione di guarigione è al primo posto: quando Angra Mainyu creò, contro
la creazione di Ahura Mazda, le 99.999 malattie, il gran dio dopo uno scacco
subito da ManGra Spanta (la Formula Efficace: l’agente della maggiore delle tre
forme di medicina) si avvicinò ad Aryaman che subito riuni gli clementi di
quella che doveva divenire in seguito una delle purificazioni rituali del
mazdeismo 19 . Come derivare questi uffici dall’idea di ospitalità? Thieme non
tenta la scommessa ma lascia intendere che tutto questo è un’innovazione, un
uso fuori dal dominio di un dio sentito come importante: Man hai also von
Airyaman dhnlichen Gebrauch gemacht wie der AV von A/yaman, dice lui facendo
allusione alla fine del che ho citato 20 Temo che questa sia una maniera troppo
rapida per eliminare un elemento preciso del dossier. La stessa cosa avviene
per altri aspetti di Aryaman e per i suoi rapporti con le strade, ad esempio,
strumento utile di comunicazione sociale : ci si riferisca all’analisi del mio
Troi- sième Souverain. Ciò che precede è sufficiente per far capire che Aryaman
è fondamentalmente più di un dio dell’ospitalità. Infatti nell’ ospitalità
senza dubbio, ma anche nella conclusione dei matrimoni, l’Aryaman vedico
patrocina i rapporti sociali all’interno di un gruppo di uomini in cui bisogna
che non solo l’ospitalità ma anche il matrimonio siano possibili. S.Per il
trattamento insufficiente di altri aspetti di Aryaman in F., vedi S. L’Airyaman
iranico protegge in una maniera più ampia e fino alla sanità l’insieme di
uomini e donne della buona società, definita dopo la riforma zoroastriana
solamente in base alla religione e non alla nazionalità. Bisogna dunque che il
concetto di arya - nel nome di Aryaman sia altra cosa rispetto a quello detto
da Thieme: minore in estensione, poiché il matrimonio non è possibile con alcun
ospite, ma più ricco in comprensione, poiché oltre all’ospitalità comporta
altre forme di legami e in special modo l’attitudine a contrarre il matrimonio.
Si è così costretti a introdurre in questo arya-e quindi in ari, un valore di
nazionalità. Se il valore limitato e orientato di ari che io ho proposto [in S]
(Icariano, collettivamente o genericamente), rende conto di tutti i derivati e
si adatta senza difficoltà a tutti i passaggi ai quali si adattava il valore
generale (der Fremde, der Fremdling) di Thieme, rende inoltre conto di un testo
che resisteva a quest’ultimo. Il dossier di ari contiene in effetti almeno un
testo che direttamente impone una traduzione limitata e mi sorprende che Thieme
non l’abbia riconsiderato nella difesa che mi oppone. Questo è RV: uta svàsyd
ardtyd arir hi sa utdnydsyd ardtyd vrko hi sah La costruzione e il senso sono
limpidi: [Proteggici] dalla nocivitàpropria:poiché è l’ari. [Proteggici] dalla
nocività aliena: poiché è il lupo. Questi versi simmetrici presentano,
distribuiti in due rapporti equivalenti, quattro termini, tre dei quali sono
conosciuti e forniscono di conseguenza un’eccellente equazione per determinare
l’incognita, ari : vi è l’opposizione usuale tra svàeanyà, il primo designa ciò
che è proprio, imparentato o alleato, mentre il secondo ciò che è altro,
esteriore, straniero; vi è anche l’opposizione tra an e vrka, in cui vrka
designa l’uomo che merita di essere chiamato lupo poiché il suo comportamento è
selvatico. Così ariè. precisato negativamente come un tipo di nemico distinto
da questo nemico selvaggio ed esterno che è posto al di fuori del gruppo i cui
membri sono degli svà\ positivamente ari è definito come intemo a questo
gruppo. La traduzione e il commentario fatto da Thieme a questo passaggio
devono essere citati per intero : / Schutze] vor eigener, voranderer (i.e.
vorjeglicher) arati; sie (oder: das, was die arati ist) istjaderFremdling (der
den Frieden be- droht), sie istja der Wolf. Ich habe in der Ubersetzung vonab
au/Nachahmung der Spre- izstellung der Satzglieder verzichtet. Dies e kannja
sehr wohl nurstili- stischer Art sein. Ich willjedochdie Mòglichkeit nicht in
Abrede stel- len, dass wir zu sagen hdtten: vor eigener arati- sie ist ja ein
Fremdling (der ins Haus aufgenommen den Frieden bricht), vor an- derer
drdti-sie istja ein Wolf. La prima interpretazione, quella che l’autore
preferisce poiché sopprime le difficoltà, fa una violenza inammissibile
all’ordine e al rapporto delle parole: mantiene come tale una delle due opposizioni
equivalenti ma sopprime l’altra volgendola in solidarietà; riducear/e vrka a
un’unità (non essendo vrka che un rinforzo del cattivo ari) di cui svà e anyà
sarebbero lesuddivisioni. La filologia non hatali diritti. La seconda
interpretazione orienta l'opposizione tra svà e anyà in un senso che non è il
suo: svà non si applica a ciò che è presso me temporalmente e accidentalmente
senza essere a me, ma segna un legame permanente ed essenziale con me. In più,
questa traduzione suppone, dalla parte àeW'ari nemico, un comportamento
speciale, quello dell’ospite che una volta ricevuto in casa si comporta male e
minaccia la pace come dice Thieme. Certo, l’ospitalità ha i suoi rischi ma
questi rischi si realizzano raramente e in ogni modo nessun testo del RV vi fa
allusione: sarebbe molto strano che fossero qui l’oggetto di una preghiera e
che, in questa preghiera, fossero messi sullo stesso 32 27, già II, 1956, p.
109. Se, come io penso, ari ha già il valore etnico (ario, ariano), si
concepiscono gli impieghi elogiativi, sottolineati da Renou, che vanno nella
direzione élite, capo, etc.] piano, in contrapposizione, i rischi costanti che
fa correre il vrka barbaro e brigante. Questo testo è dunque decisivo contro il
senso troppo esteso di ari e impone un senso ristretto. Nei suoi Etudes
védiques et pàninéennes. Renou mi sembra abbia ben riassunto l’insegnamento del
testo nella formula: .vrka il nemico straniero, ari il nemico interno. Questo
delimita ari, sia il buono che il cattivo: amico, ospite, sposabile, correligionario,
rivale, nemico, Vari porta alla considerazione di chi lo menziona, la nota svà,
che esclude la nota anyà n . Ili Mitra and Aryaman è in gran parte un pamphlet
contro di me: fornisco perfino il titolo di un capitolo. Mi limiterò qui ad
alcune osservazioni che faranno vedere a quale livello si situa il dibattito.
Prima di entrare nella materia, e per togliere ogni credito ai miei argomenti,
Thieme incomincia a dimostrare, secondo tre punti, che io commetto molteplici e
grossolani errori di grammatica utilizzando gli inni vedici. Lo credo
volentieri, ma vediamo che cosa mi rimprovera: Io tratto dei duali come dei
plurali. Si tratta di due testi in cui si incontra la sequenza, del resto
frequente, dei tre principali dèi sovrani, Varuria, Mitra e Aryaman e dove, a
causa di un verbo o un aggettivo che sono appunto al duale, Thieme vuole
fondere Mitra e Aryaman in un solo personaggio mitico che chiama Freund,
Gasljreund e che ora preferisce chiamare The contract (God Contract) which is
hospitality (God Hospitality ). È nel riconoscere questo mostro, di cui non vi
sono altre tracce nella letteratura vedica, che mi sono rifiutato (S.. Non ho
cambiato parere: è inverosi- Questa definizione di art come sva basterebbe (vi
sono altre ragioni) per fare scartare il paragone etimologico con diana
(l'opposto di svà) che è stato portato in appoggio alla tesi di Thieme da F.
Spechi, Zur Bedeutung des Ariernamens, KZ, 68, 1941,42-52. D’altra parte, il
fatto che RV, VI, 15,3 invita Agni ad essere ùryi'ih pùrasyàntarasya lùrusah,
il vincitore dell'un lontano e vicino dimostra che lo svà di IX, 79, 3 non deve
essere compreso in un senso stretto né senza dubbio locale. Il concetto di
nazionalità suggerito dai derivati soddisfa la doppia condizione: Vari per un
ariano è sia svà che para. mile che in questi due soli passaggi la triade ceda
il posto a una coppia Varuna e Varyamàn Mitra o a Varuna e il mitra Aryaman.
Uno di questi testi è RV, V, 67, 1: varuna mitrdryaman vdrsistham ksatrdm
àsiithe, o Varuna, Mitra e Ai'yaman, voi avete ottenuto la più alta sovranità.
Perché si dice che il verbo è al duale? Il poeta vuole sottolineare la stretta
affinità di Mitra e Aryaman (che è fondamentale come spesso ho detto) nei
confronti di Varuna, di modo che si debba tradurre o Varuna, o Mitra e Aryaman?
Non lo so, ma la soluzione meno accettabile è di fondere in un solo essere
Mitra e Aryaman, poiché la strofa 3 dello stesso inno enumera nuovamente i tre
dèi al nominativo e questa volta con due aggettivi e due verbi che sono
correttamente al plurale. Noto che K. Geldner comprende come me: ihr habt die
hòchste Herrschaft erreicht, Varuna, Mitra, A rya- man - i tre vocativi essendo
esattamente paralleli, come Thieme mi rimprovera di avere detto. L'altro testo
è RV, Vili, 26, 11 : vaiyasvdsya srutam narotó me asya vedathah/sajósasd varuna
mitrò aryamd. La prima parte non è ambigua: Ascoltate, o voi due eroi (= gli
Asvin) [la parola] di Vai- yasva e conoscete questa [parola] mia. La seconda è
meno chiara, un aggettivo al duale (sajósusà, in accordo) precede i tre nomi
divini. Geldner risolve la difficoltà attaccando l’aggettivo non a ciò che
segue, ma come attributo a ciò che precede, ai due Asvin: Horet aufden
Vyasvasohn, ihrHerren, und seid meiner hier ein^edenk, ein- miitig, (und mit
euch) Varuna Mitra Aryaman. Non so se ha ragione o se si può trovare una
giustificazione più sottile, ma come lui penso che gli dèi dell’ultimo verso,
qui come altrove, siano ire. Tratto dei plurali come dei duali. Si tratta di
RV, III, 54, 18, aryamd no dditir yajmydsah, Aryaman, Aditi [sono] degni
(plurale e non duale!) dei nostri sacrifici, dobbiamo sacrificare ad Aryaman,
ad Aditi. Thieme consentirà forse a credere che ho consultato la traduzione di
Geldner: Aryaman, Aditi sind uns anbetun^swert, con la nota corrispondente: Den
Plur. yajnfyàsah, weil der Dichter an die iibriffen Àditya ’sdenkt. Ma ciò che
più m’interessava perii mio argomento (S., p. 68) è che in questo lesto della
terza funzione (la fine della strofa domanda abbondanza di bestiame e di
bambini), il gruppo degli dèi sovrani distacca, in qualche modo come i suoi
soli delegati espliciti, la loro madre e Axyaman. Non prevedendo Thieme non ho
preso la precauzione di ripetere in termini di grammatica una precisazione che
ogni vedista conosce. Il mio commento si è limitato a dire: Sembrerebbe che
ancora qui sia l’iniziativa di Aryaman che orienta l'azione collettiva degli
Àditya verso questa grazia speciale. Non è abbastanza chiaro? Tratto un
singolare come un duale. Si tratta del lapsus segnalato più sopra che, in A V
(S mi ha fatto scrivere e non mi ha fatto correggere i suoceri invece del
suocero, come traduzione di svdsurah. Thieme finge di credere che io abbia
pensato ai due suoceri. Mi reputa così ignorante da poter credere che io abbia
preso un nominativo in -ah, pur nella sua forma in -o, per un nominativo duale?
La stessa parola, sotto la stessa forma non è forse correttamente tradotta la
seconda volta che la si incontra (S)? La spiegazione che mi parrebbe più
plausibile è che, essendo poco leggibile il mio manoscritto, il compositore
abbia congetturato i suoceri secondo i cognati che seguono immediatamente, o
che meccanicamente abbia messo allo stesso numero queste due parole così
analoghe [pères e frères nel testo. N.d.T.]. Può anche darsi che il lapsus
risalga al mio manoscritto. Mi dispiace molto ad ogni modo che nella
sovrabbondanza di correzioni che ho dovuto fare sulle bozze quello mi sia
scappato e che l’errore mi sia saltato agli occhi solamente qualche mese dopo
la pubblicazione. È in maniera sleale che Thieme orchestra questo scandalo in
due pagine e anche il mio errore su svdsurah, suocero dell’unica moglie e non
del marito. Nondimeno Thieme dimentica di dire l’essenziale, cioè che per il
mio argomento la menzione del suocero e dei cognati (della moglie) in A V, XIV,
1,39 e quella del suocero {della moglie) opposti al resto dell’ari, 1
conservano tutto il loro valore dimostrativo, com’è stato mostrato qui sopra a
n. 18, poiché l’uno conferma che Aryaman, nel matrimonio, non si interessa solamente
ai giovani sposi, ma ai parenti per l’alleanza che la loro unione stabilisce e
l’altro indica (cosa ammessa da Thieme nel 1957; Z, p. 213!) che le alleanze
matrimoniali si compiono all’interno dell’insieme ari. Insomma, Thieme grida
all’interpretazione errata! per mascherare il gioco di prestigio altrimenti
grave fatto da lui stesso all’insegnamento di tutti i testi che stabiliscono il
vero ruolo di Aryaman nel matrimonio'. Il libro è in seguito infiorito di notae
censoriae. Alcune mi sono sembrate giuste ed utili e ne terrò conto, senza che
nessuna cambi niente alle figure e ai rapporti degli dèi. Molte sono, bisogna
dirlo, un puro bluff poiché Thieme denuncia come antigrammaticale, errata o
sprovvista di senso, una traduzione possibile ma che non ha il suo favore 2,
caricaturando le mie esposizioni 3 e inventando delle contraddizioni peravere
un motivo di risentimento in più 4, etc. etc. L’obiettivo
di questo triplo assalto grammaticale si scopre a pagina 17: IJ'eel il my duty
to warn especially Lutinists, who cannai be expecled lo judge on thè meriti of
Dumez.il' s indological araumenti, agama trusting hispresentation oflhe Jacts
oJ'Vedic religion loo confidently, andagainst believing ihal only his
"expla- naiions" need be discussed. Non ho questa pretesa.
Domando solo senza grandi speranze che latinisti o indologi, di St. Andrews o
di Yale, che vogliano discutermi lo facciano lealmente. 2 P.es.,. 10-12;/?V, I,
141,9; p. 41 : /?V, X. 136,3;p. 62: RV, X, 89,9; ctc. p. 67, in RV , Thieme
rende correttamente duvasyatil Ha sicuramente ragione, ad ogni modo, a
rimproverarmi la riga di S.,(Mitra offre dei sacrifici a Vanirla), in cui ho
esagerato la frase, in se stessa eccessiva, di Bergaigne(La religion védique,
III, p. 138: In un passaggio in cui né Mitra né Varuna sono del resto
esplicitamente identificati ad Agni, il primo è opposto al secondo come il
sacerdote al dio che onora): duvasyati significa sempl icementc rendere gli
onori dovuti; bisogna correggere in que.slo senso Les dieux des Indoeuropéens:
in RV, VII, 82, 5, Mitra non è come un sacerdote di Varuna. 3 P. cs. pe>.
19-20, ciò che ho detto dei rapporti tra il contratto e l'amicizia, Mitra-
Varuna', non è compreso. Non ho fatto la lezione a Meillet; ho semplicemente
utilizzato i progressi che, dal suo articolo, i sociologi hanno fatto compiere
alla teoria del contratto presso i popoli semi-civilizzati. Allo stesso modo,
p. 82, la mia concezione dei rapporti tra i diversi dèi sovrani si è deformata:
che si confronti il capitolo II di Dieux des Indoeuropéens. L’etimologia dei
nomi divini (Varuna, Marut, il secondo elemento di Aryaman, etc.), salvo quando
è evidente (Mitra, etc.), mi interessa sempre meno (vedi Déesses latineset
mythes védiques): qualunque sia quella di Varuna (e non credo molto a quella
adottata da Thieme) ciò che conta è, studialo direttamente, l’insieme del suo
comportamento e il suo rapporto con le altre figure divine: un dio non c
prigioniero del suo nome. 4 P. es., p. 74, n. 54, Thieme segnala una
contraddizione in S., tra la pagina 63 e 136, a proposito della sua traduzione
di salpati: si verificherà facilmente che essa non esiste. P. 76, n. 54, è con
Panini che sono messo così futilmente in contraddizione., sono accusato per due
parole di mislranslations, wich might have been avoided by looking up thè PW or
any other good dictionary; Thieme vorrà rifarsi a A.B. Keith, HOS, di cui ho
adottato la traduzione (e vi sono ragioni per preferire questa interpretazione
a quella di Thieme). P. 9; Thieme non tiene conto della differenza d’intenzione
tra Mitra-Varuna e Le Troisième Souverain. A dispetto del suo titolo indiano il
primo libro non tratta un soggetto indiano 1 ; si propone di dimostrare che
presso gli altri popoli indoeuropei, a Roma e fra i Germani in special modo,
esistevano delle coppie di dèi o di eroi della prima funzione la cui
articolazione è omologa a quella che A. Bergaigne ha scoperto per Mitra e
Varuna nel RV e che i Bràhmana illustrano con una campionatura abbondante. Non
avevo dunqueintenzione di stabilire gli insegnamenti degli inni stessi e dei
Bràhmana - che altri (dopo Bergaigne e Glintert) avevano sufficientemente
stabilito. In Le Troisième Souverain, al contrario, con Aryaman abbordavo un
problema specificatamente indo-iranico e poco trattato: ho dunque dovuto riprendere
tutti i testi, discuterli e organizzare il dossier. Non vi è da scrivere sul
mio libretto da scolaro, di questo scolaro che sono felice di essere e di
rimanere, né contraddizioni né progressi nel metodo: a dei soggetti, a dei
bisogni diversi, a dei gradi ineguali di maturità della materia hanno
corrisposto dei procedimenti differenti. Quanto alle tesi stesse di Thieme, le
esaminerò nella Revue de l'Histoire des Religions e mi sforzerò di rispondere
con un’argomentazione serena a questa scherma da gladiatore. Enumererò gli
apporti positivi poiché ve ne sono. E dimostrerò come sotto le apparenze del
rigore filologico Thieme misconosca costantemente le prospettive, ignori i dati
statistici più evidenti e distrugga i rapporti più probabili e sulla via così
sgombra si avanzi con una sovrana fantasia verso le pagine sorprendenti che
terminano il suo libro. In attesa, a coloro che sarebbero impressionati da
questo meccanismo, non posso che consigliare di rileggere, circa i grandi
Àditya, l’ammirevole esposizione di Abel Bergaigne, certamente vecchia su molti
punti, ma attenta sia al dettaglio dei testi che alle strutture del pensiero,
onesta e intelligente. I J.C. Tavadia si era inizialmente sbaglialo ma fece in
seguito I a più leale riparazione. L’editoria italiana ha accolto con favori e
fortune alterne l’opera di un autore tanto discusso, controverso e innovativo,
quale fu Dumézil, persona acuta, intelligente e ironica, spirito polemico e non
di rado pungente ma sempre pronto a rimettersi in discussione, mano a mano che
l’inchiesta scientifica progrediva, grazie anche ai suoi avversari oltre che ai
colleghi che accolsero positivamente il suo metodo. Il lettore nostrano troverà
di piacevole lettura la traduzione della intervista francese: Un banchetto dì
immortalità. Conversazioni con Didier Eribon, Guanda, Milano. Spetta alle
Einaudi l’esordio di Dumézil nel panorama editoriale del nostro dopoguerra,
all’intemo di quella “collana viola” che non senza travaglio di intelletti e di
coscienze (si legga il carteggio Pavese - Martino, La collana viola. Lettere
Bollati Boringhieri, Torino a c. di P. Angelini) ha contribuito a diffondere
autori importanti come Jung, Kerény,L. Frobenius, Leeuw, Eliade. Jupiter, Mars,
Quirinus, Torino, è una traduzione di parti dell’originale, più capitoli di
altri volumi come Naissance de Rome, Naissance d'Archanges, e Jupiter, Mars,
Quirinus. Il catalogo della Einaudi ritornerà solo tardivamente, nel decennio
degli ’80, a rioccuparsi di Dumézil, traducendo Mito ed Epopea. La terra alleviata,
1982 (= Mythe et epopee f) e Gli dei sovrani degli Indoeuropei. Spetta alla
Adelphi (Milano) la maggiore percentuale di libri tradotti, a cominciare dalla
raccolta di storie e leggende del Caucaso: // libro degli Eroi. Leggende sui
Nani, 1969 (ristampato nei tascabili economici della Bompiani, Milano 1976),
fino a Gli dèi dei Germani; Matrimoni Indo-europei; Le sortì del guerriero.
Aspetti della funzione guerriera presso gli Indoeuropei, 1990 (una prima
traduzione di questo libro, condotta sulla precedente edizione di Hetir
etmalheur duguerrier, 1969, si deve ai tipi della Rosemberg& Sellier:
Ventura e sventura del guerriero, Tonno). E infine bisogna ricordare anche Il
monaco nero in grigio dentro Varennes, che è però un divertissement enigmistico-letterario
sulle profezie di Nostradamus. Il catalogo della Rizzoli (Milano) si è
arricchito di due opere importanti e poderose, oggi purtroppo introvabili, come
La religione romana arcaica, eStorie degli Sciti; mentre II Melangolo (Genova)
ha tradotto due volumi quali Idee romane, e Feste romane. Recentemente le
edizioni Mediterranee (Roma) hanno tradotto La saga di Hadingus. Dal mito al
romanzo. Fra le poche opere italiane su questo autore ricordiamo Rivière,
Dumézil egli studi indoeuropei. Una introduzione. Il Settimo Sigillo, Roma. Per
una bibliografia completa delle opere di (e su) Dumézil cf. la rivista Futuro
presente diretta da Alessandro Campi (numero monografico “Georges Dumézil e
l’eredità indo-europea”): oltre a un dibattito su Dumézil in base alle aree
storico-geografiche consuete nella sua ricerca (Roma, Indo-Iranici, Caucaso,
Germani), vi è un interessante articolo di Grisward sulle persistenze del
modello trifunzionale nella società medioevale - suddivisione in oratores,
bellatores, laboralores - e la traduzione di un articolo di Dumézil in risposta
alle critiche di una versione francese di un saggio di Ginzburg (“Mitologia
germanica e Nazismo”, apparso su Quaderni Storici, ristampato in Id., Miti,
emblemi, spie, Einaudi, Torino) su un argomento, le presunte simpatie per la
cultura nazista, già affrontato da A. Momigliano, Rivista storica italiana.
Sulle implicazioni politiche e razzistiche degli studi indoeuropei cf. A.
Piras, “Georges-Dumézil e iproblemi dell’Indoeuropeistica ”,/Quaderni di Ava/lon
e “Indoeuropeistica e cultura europea”, in L 'Europa di fronte all'Occidente,
Il Cerchio, Rimini. Per uno studio comparato delle istituzioni sociali,
religiose, economiche, amministrative, giuridiche, delle diverse culture
parlanti idiomi indoeuropei, cf. E. Benveniste, // vocabolario delle
istituzioni indoeuropee, I-II, Einaudi, Torino; si veda anche E. Campanile,
“Antichità indoeuropee”, in A. Giacalone Ramat& P. Ramat(a c. di), Le
lingue indoeuropee, Il Mulino, Bologna, e J. Ries (a c. di), L 'uomo
indoeuropeo e il sacro, Jaca Book-Massimo, Milano. Un argomento dibattuto da
decenni come la nozione di “lingua poetica indoeuropea” (che consente di
rintracciare nelle diverse letterature - Edda, Beomtlf, poemi omerici. Veda,
Avesta - elementi di una fraseologia comune ed ereditaria) è stato di recente
affrontato in un libro eccellente di G. Costa, Le origini della lingua poetica
indeuropea, Leo Olschki, Firenze. Ries La riscoperta del pensiero religioso
indoeuropeo L’opera magistrale di Dumézil. Le tre funzioni sociali e cosmiche.
Le teologie tripartite. Le diverse funzioni nella teologia, nella mitologia e
nell 'epopea Storia degli Studi. Aryaman e Paul Thieme Bibliografia italiana di
Dumézil. Nome compiuto: Emanuele Castrucci. Castrucci. Keywords: sul conferimento
di valore, il guerriero indo-germanico – Pound, conferire valore, implicanza
pragmatica, l’implicanza di speranza, l’impieganza di speranza, Apel,
prammatica.; Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Castrucci,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.


No comments:
Post a Comment