Luigi Speranza -- Grice e Ciarlantini:
implicatura tachigrafica – la scuola di Bologna -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bologna). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna.
Parole tra realta e fantasia. Metodo tachigrafico. Il tempo a san Giacomo e uno
di accesissima ricerca metodologica su ogni fronte: Agostino e
l'occasione e la scusa. Ma in realtà C. si interessa di altro: di arrivare alla
costituzione delle parole – Grice, “Utterer’s meaning, sentence meaning, word
meaning” – an essay of mine whose title I find it difficult to recall on
occasion --, di conoscere la struttura profonda del nostro parlare. E cambia e
ricambia metodo di indicizzazione, impiegando un sacco di tempo. Alla fine un
saggio e pronto e sono maturi anche due frutti non preventivati: l'invenzione
di un metodo d’implicatura tachigrafica, a metà tra la stenografia e la prattica
normale, basato principalmente sulla notazione della radice delle parole (“shag”)
con qualche aggiunta per riconoscere la parola stessa (“shaggy”: l’unico
esempio dato da Grice, “Fido is shaggy, a hairy-coated dog” in Utterer’s
meaning, sentence meaning, and word meaning”. Il principio basilare è che
comunque ogni parola – e. g. ‘shaggy’ --, anche abbreviata, deve essere
riconoscibile sempre – Grice da l’esempio di “and” turnd into “&” and still
carrying the same implicatures --, in maniera il più possibile univoca, o
nella sua scrittura o nell'insieme del contesto – Grice: “He was caught in the
grip of a vice”. E poi la teoria di spiegazione universale – alla Fichte
-- del linguaggio.*Perché*, quando parliamo, abbiamo associato certi suoni a
certe cose, sensazioni, azioni, mentre in altre culture – pensasi a Roma antica
-- e in altri tempi si sono associati altri suoni, alle allegatamene stesse
cose? Da questa domanda di fondo è scaturita la teoria di C., scritta e
descritta nel libretto "Parola tra realtà e fantasia. Appunti di
metodo" (Ponti, Bologna). Tra l'altro ho qualche rimorso di coscienza
verso Ponti, un editore in via Bassi. Perché gli lasciai sempre credere che è
un professore di non so quale scuola, e lui li pubblica il saggio convinto che
frotte di filosofi sarebbero venuti a comperarlo. Nei
fatti tutti questi filosofi non esistevano – cf. Grice, “Vacuous Names” -- e
non vennero – as Marmaduke Bloggs never attended the Merseyside Geographical
Society’s party in his honour after allegedly having climbed Mt. Everest on
hands and knees, but being an invention of the journalists --, e lui si rende
conto di questo lentamente. Una decina di anni dopo dal segretario della sua
piccola editrice li venne a C. la proposta di acquistare tutte le copie
invendute e C. adesso ne regala una a qualcuno ogni tanto. C'è anche inserito
il suo metodo per imparare a suonare la chitarra, e altre ricerche di
metodo. Ma la teoria di spiegazione universale del linguaggio vuole tanto
riprenderla e proporla a più vasto raggio. È una teoria e come tale ha bisogno
nella pratica di essere testata, sperimentata e provata. Ma se è vera, anche
soltanto un po', puo rivoluzionare tante cose nella nostra vita. Se è
vero, ad esempio, che uno tende ad usare i suoi (“shaggy”) che sono dettati dal
suo stato d'animo (“hairy-coated”), e tende ad associare le parole, che pure ha
a disposizione da un patrimonio CONDIVISO o non – il deutero-esperanto di Grice
--, secondo come le vive in quel momento, potremmo arrivare, analizzando
scientificamente milioni d’elementi, a dare una qualche valutazione sulla
veridicità o meno della testimonianza di una persona, per esempio in giudizio. Comunque
a parte questo, la comprensione della fonetica in questo modo ci fa capire ad
esempio l'evoluzione di un radicale (“shag”) passando da un popolo all'altro,
l'associazione di suoni e rumori a parole (“shaggy” – cf. Grice, “Utterer’s
meaning, sentence meaning, word meaning” – pirot – “which we know karulise
elatically” -- del vocabolario, e la storia delle parole stesse (Grice: “Would
discs still be called discs if they come in square?”. Per esempio C. e convinto
che la lettera "u" per noi significhi una sfumatura di
"profondità, mistero, consistenza di un soggetto, che desta meraviglia e a
volte smarrimento", mentre per i latini – o romani -- la "u" era
meno misteriosa, anzi indicava l'essere nella sua qualità di "stato",
di permanenza, di substrato delle cose. Così, per noi, "Uomo" è
anzitutto sensazione di PROFONDITà personale, laddove per i latini o
romani "homo" è più espressione di forza ("O") accompagnata
da esclamazione di meraviglia ("H"). Cf. J. L. Austin on
sound symbolism, and sp- spit, speranza. Queste sono allora le suoi ricerche e quello
che face nella quiete di san Giacomo, CTTC continua il suo indice
di Agostino e termina il suo saggio. Ed e allora che concepe il disegno di fare
un dizionario etimologico – alla maniera di CROCE, “Dizionario etimologico” -- della
lingua italiana. L'ha cominciato da tanto tempo, ma chissà se e quando lo
portera a termine. Nome compiuto: Primo Ciarlantini. Ciarlantini. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Ciarlantini”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cicerone:
la semiotica -- l’implicatura conversazionale di Marc’Antonio – scuola di Ponte
Olmo -- scuola d’Arpino – scuola di Frosinone – scuola di Roma -- filosofia
romana – filosofia lazia -- filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ponte Olmo, Abbazia
di San Domenico, Arpino, Frosinone, Lazio. Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be
careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but
Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!”
Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by
this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some
nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the
two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman
chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and
Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to
the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u.
c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably
the Scipioni!” -- della cultura greca,
attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore
conoscenza della filosofia greca. Tra
i suoi maggiori contributi alla cultura latina, vi fu la creazione di un
lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il
corrispondente vocabolo in latino per ogni termine specifico del linguaggio
filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo
latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae (in particolar modo, quelle
all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerose riflessioni su ogni avvenimento,
permettendo così di comprendere quali fossero le reali linee politiche
dell'aristocrazia romana. C. occupò, per
molti anni, anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica
romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio
Catilina (e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae, padre della
patria), fu un membro eminente della fazione degli Optimates. Infatti, nelle
guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una repubblica giunta
ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.
C. nacque a Ponte Olmo, in prossimità del fiume Fibreno accanto al comune di
Arpinum (area attualmente occupata dall'Abbazia di San Domenico. Gli Arpinati
ricevettero la civitas sine suffragio nel IV secolo a.C. e i pieni diritti di
cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito, la città ottenne anche lo status di
municipium.[5] La lingua latina era in uso già da lungo tempo[6]; tuttavia, ad
Arpino, era diffuso anche l'insegnamento della lingua greca, che l'élite
senatoriale romana preferiva spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore
raffinatezza e precisione.[7] L'assimilazione, da parte dei Romani, delle
comunità italiche vicine a Roma (avvenuta tra il II e il I secolo a.C.),
permise a C. di diventare scrittore, statista e oratore. C. apparteneva alla classe equestre (la
piccola nobiltà locale) e, anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario (il
corifèo dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio
Cornelio Silla[8]), non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana;
era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal padre Marco Tullio C. il
Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta; dalla madre Elvia, di nobile
casato e integri costumi[9] e dal fratello Quinto. Il cognomen Cicero è il soprannome di un suo
antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente,
una verruca) che ricorda un cece -- cicer, ciceris è il termine latino per
cece. Quando Marco presenta, per la prima volta, la propria candidatura a un
ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen
ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello
degli Scauri e dei Catuli. céce e
cécio nap. cecere, ven. cesere, c. ciciru, sard. cixiri; prov. cezer; fr.
ceire; ted. kicher (pruss. kockers ¡sello): dallat. cicer (= ciR-crR) -
acc. ciCEREM - che il Curtius deriva dalla ra KAR esser duro, onde il
sser. KAR-EAR-duro e come sost. osso ed anche pisell KHAR-AS duro, ruvido,
KAR-AKA noce cocco o il gr. KAR-KAROS duro e come s stant. pisello (cfr.
Ardito). - Ad altri il vece sembra affine al lat. cicus involuca del seme dei
frutti (cfr. Chicco), ovyero gr. KEKis escrescenza. - Specie di legun in torma
di granello alquanto appuntat che secco indurisce assai e si mangia cott
Deriv. Cecerèllo; Ceciarollo; Ceciato. Cfr. G cèrbita; Cicérchia;
¿cerone.Studi Fanciullo che legge C. di
Vincenzo Foppa, Collezione Wallace di Londra. C. si rivelò subito un fanciullo
dotato di una straordinaria intelligenza (tanto da distinguersi, a scuola, dai
propri coetanei) che gli fece accumulare fama e onore.[11] Il padre, auspicando una brillante carriera
forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto
nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua famiglia): Lucio
Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare influenza su C.
che lo considerò sempre un modello di oratore e di statista. A Roma, poté anche
formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola[12].
Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio
Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, nonché, uno dei pochi che C.
considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio (che prese poi il cognomen di
Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di C.;
infatti, gli scrisse in una lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un
alter ego al quale posso dire ogni cosa»[13]).
In questo periodo, C. si avvicinò anche alla poesia[14]: in particolare,
si cimentò nella traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere
che, in seguito, influenzarono le Georgiche di Virgilio). Particolarmente attratto dalla filosofia,[15]
alla quale avrebbe dato grandi contributi (tra i quali, la creazione del
vocabolario filosofico in lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme
all'amico Tito Pomponio, il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi
ne rimasero affascinati ma solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace
della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica
Apollonio Molone[16] (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e
l'accademico Filone di Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda:
infatti, era a capo dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa
trecento anni prima; di conseguenza, grazie a lui, C. assimilò la filosofia
platonica, tanto che arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur
rigettando la sua teoria delle idee).
Poco tempo dopo, C. incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale
movimento era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto
larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla
forza di volontà (in linea con gli ideali romani). C. non adottò completamente
l'austera filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito,
Diodoto divenne un protetto di C., dal quale fu ospitato fino alla
morte[15]. Cursus honorum Prime esperienze
Il sogno di infanzia di C. era quello di "essere sempre il migliore ed
eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici: infatti,
desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla
verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del
cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per approdare
a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire l'esperienza
preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. C. servì sotto Gneo
Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della guerra sociale
sebbene non provasse alcuna attrazione per la vita militare dato che si sentiva
un intellettuale (infatti, molti anni dopo, scrisse al suo amico Attico che
stava raccogliendo statue marmoree per le ville di C., "Perché mi spedisci
una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!"[17]). L'ingresso di C. nella carriera forense
avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro
Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del
tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere
politico (almeno secondo le testimonianze scritte pervenute), si ebbe con la
Pro Roscio Amerino che conserva molto di scolastico nello stile
esuberante[18][19]: nell'orazione, difese, con successo, un figlio
ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio
nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i
crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di
Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin
troppo facile eliminare C., proprio alla sua prima apparizione nei
tribunali. Lucio Cornelio Silla C.
divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò
di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda,
attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui, anche un
parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più loro che
Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di
Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo
conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni,
Roscio fu assolto. Per sfuggire a una
probabile vendetta di Silla[20], tra il 79 e il 77 a.C., C. si recò,
accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche
dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore[21]: particolarmente
significativa fu la sua permanenza ad Atene dove incontrò nuovamente l'amico
Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in
Grecia; Attico, in seguito, divenne cittadino onorario di Atene e poté
presentare a C., alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo.
Ad Atene, inoltre, C. visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a
cominciare dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo Antioco di
Ascalona). Di quest'ultimo, C. ammirò la facilità di parola, senza tuttavia
condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone di
Larissa, delle quali era convinto ammiratore[22][23]). Dopo un breve soggiorno
a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu iniziato ai
misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté visitare l'Oracolo
di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto
raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo
istinto invece dei suggerimenti che riceveva[24]. Ingresso in politica Busto di C. Tornato a Roma dopo la morte di
Silla, C. iniziò la sua vera e propria carriera politica, in un ambiente
sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre
orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima
magistratura del cursus honorum.[25] I questori, eletti per un massimo di venti
membri, si occupavano della gestione finanziaria o assistevano propretori e
proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di
Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il proprio
lavoro con scrupolo e onestà (tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti
del luogo). Durante la permanenza in Sicilia, visitò la tomba di Archimede a
Siracusa: grazie al suo interesse per l'uomo, sono state rinvenute alcune
importanti informazioni sullo scienziato (in particolare, per quanto riguardi
il suo planetario). Al termine del mandato,
i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, colpevole di
aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27]. C. raccolse le
prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in
Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore, attaccato da
prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario[28]. Le cinque orazioni
preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono l'Actio
secunda), furono pubblicate in seguito e costituiscono un'importante prova del
malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme di
Silla. Attaccando Verre, C. attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta ma non
l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla dignità di tale
ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì, inoltre, un enorme
prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il
più grande avvocato dell'epoca[29]: "sconfitto", Ortensio dovette
accettare che il suo posto venisse preso da C. (il quale, si guadagnò il titolo
di "Principe del Foro"); nonostante l'episodio, tuttavia, i due
oratori strinsero, in seguito, un buon legame di amicizia (infatti, proprio a
Ortalo che elogiò anche nel Brutus, C. dedicò un'intera opera non pervenuta,
l'Hortensius). A Roma, l'oratoria e
l'attività forense erano uno dei principali mezzi di propaganda per i politici
emergenti, poiché non esistevano documenti scritti di argomento politico (con
l'eccezione degli Acta Diurna che, però, godevano di scarsa diffusione). Contro
C., tuttavia, rimaneva la diffidenza dei nobili verso gli homines novi,
accresciuta dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso
politico fosse stato un concittadino dello stesso C., Gaio Mario. Tuttavia,
anche lo stesso Silla, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni
provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites nella
vita politica, dando così a C. la possibilità di raggiungere le vette del
cursus honorum. Il successo ottenuto da
quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi
di un governo umano e ispirato a onestà e filantropia, portò C. in primo piano
sulla scena politica: nel 69 a.C., venne eletto alla carica di edile curule[30]
e, nel 66 a.C., diventò anche pretore con una elezione all'unanimitàL. Nello
stesso anno, pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de
imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la
guerra mitridatica; in quell'occasione, Pompeo era appoggiato dai cavalieri,
interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era
contraria la maggioranza del Senato[32]. Il motivo dell'impegno di C. in una
causa ostile all'alta aristocrazia (che, d'altronde, era restìa ad accoglierlo
tra le proprie file) stava probabilmente nell'importanza che essa aveva per i
pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte)
e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia
dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti,
particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio. Consolato
C. denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in
Roma che raffigura C. mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina Nel
65 a.C. C. presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console
per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal
fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso C.?),
Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale.
Per un gioco delle classi, C. risultò eletto con il voto di tutte le
centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio
di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato
dallo stesso C. (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni
frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del
64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia riposta in C.
dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la
pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di
redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.[35] Durante il proprio consolato C. dovette
contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un
nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato
il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console
tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con possibili brogli
elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica.[36]
Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva
radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso
sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad
assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse stato
supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto fuori
dallo stesso C. e non ebbe conseguenze.[37] Venuto a conoscenza del pericolo
che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato
Quinto Curio,[38] C. fece promulgare dal Senato un senatus consultum ultimum de
re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era
previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai
consoli.[39][40] Sfuggito poi a un attentato da parte dei congiurati,[41] C.
convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta
accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria[42][43], che si
apre con il celebre incipit (LA)
«Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?» (IT) «Fino a quando, Catilina, abuserai della
nostra pazienza?» (Marco Tullio C.,
Catilinarie I,1) Catilina, visti i suoi
piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il
suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini
di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45]
Grazie alla collaborazione di una delegazione di ambasciatori inviati a
Roma dai Galli Allobrogi, C. poté però trascinare anche Lentulo e Cetego
davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano
dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero
appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i documenti caddero nelle
mani di C.. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al Senato, ma nel
decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito:
dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose
di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di
Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco
Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in
favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e C.
annunziò la loro morte al popolo con la formula: (LA) «Vixerunt» (IT) «Vissero» (Marco Tullio C.) poiché era considerato di cattivo auspicio
pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine
come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio
62, in battaglia assieme al suo esercito.
C., che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la
salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di C. sul suo consolato:
Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del
magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne
un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater
patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei
congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al
popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena
detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo. Durante la guerra civile Dal primo
triumvirato alle Idi di Marzo Gaio
Giulio Cesare (Musei Vaticani) A seguito del riemergere dei contrasti tra
senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni
dell'oligarchia senatoria, C. fu messo da parte. L'ultima possibilità di
rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti
uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione
dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a C. di appoggiare la
legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. C.,
tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma
anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si
proclamavano difensori.[46] Dopo questo
rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, C. si tenne fuori dalla
politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio
del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di C. per un
precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una legge con valore
retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un
cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in
realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di
partire per la Gallia attese che C. fosse fuggito da Roma) che, attraverso il
suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari
più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. C.
fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari
Lentulo e Cetego[48] e costretto all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e
il 20 marzo di quell'anno e si recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia,
ma il pretore Virgilio - benché suo vecchio amico - non glielo consentì: in
effetti l'isola distava da Roma meno delle 500 miglia prescritte dal bando e
pertanto C. optò per la città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli
orti di Lenio Flacco prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi
scritti l'oratore loda l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della
famiglia di Lenio Flacco. Nei mesi dell'esilio C. non si diede pace, implorando
le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece
approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che C. non si potesse
neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero
confiscate[49] In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta,
e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum[50][51].
Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un
freno alle iniziative di Clodio Pulcro: C. poté dunque rientrare in Italia e,
proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso -
il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che
festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate
al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva
anche l'anniversario della deduzione a colonia.
Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della plebe[52][53].
Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con
Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa di tre
optimates. Nel 56 a.C. C. pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il
suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo
avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica.
Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla
sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di consensus
omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con cui C. si
trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato avvelenamento della
sua amante, Clodia (sorella del tribuno della plebe Clodio Pulcro e
identificata dagli studiosi come la Lesbia di Catullo). Nonostante la donna
venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere l’amante in
quanto avversario politico del fratello le accuse erano inconsistenti e C.
spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore di gioventù. Nel 55
a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di Macedonia Lucio
Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si scontravano con l'uso
di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia,
Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno
Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., C. difese
Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra tirannicidio e
omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto giustificabile.
Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il
clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio
nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia (una versione della
Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come
fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico). Il mondo romano allo scoppio della guerra
civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per
provincia Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso,[56]
nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56] proprio mentre i rapporti
tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i
pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato
in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla
conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo
che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare.
Quando Cesare varcò il Rubicone, C. cercò di accattivarsene il favore, ma poi
decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò,
dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze
che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate:
ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di
trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia
di Farsalo, nel 48 a.C., C. decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono
dello stesso Cesare nel 47 a.C.[59] C.
rivelava nelle sue opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo
alla personalità di Cesare: «Non vedo a
chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed
anche, in un certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli
vorresti anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o
ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?» (Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.) La speranza di C. di collaborare al governo
di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal
potere[60]. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere
filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia
e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie
Publilia, una giovinetta. Quando Cesare
fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco
Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso C., si avviò una
nuova fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento
dell'impero. L'opposizione ad Antonio e
la morte C. non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei
Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che
si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando
una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso
della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del
sangue di Cesare ancora in mano, additò C. definendolo l'uomo che avrebbe
ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]
Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per
congratularsi dell'assassinio di Cesare:
(LA) «Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid
agas quidque agatur, certior fieri volo.»
(IT) «Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho
cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e
che cosa succede.» (C., Ad Familiares,
vi, 15) La data della missiva non è
conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla
congiura.[62] L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come
scritta prima che C. si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano
trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e
protetti dai gladiatori di Bruto.[63] C.,
infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della
fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum
di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di
fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i
Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma C.
fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i
provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva
l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri
congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65] Statua di Augusto comunemente detta Augusto
di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani. Tra C. ed Antonio, comunque, i
rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano
all'esatto opposto in ambito politico: C. era il difensore degli interessi
dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica
monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di
Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra
figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura
del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e
suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una
politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di
Cesare. C., allora, si schierò ancora
più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di
Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69] C. sperava,
infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito
da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso C., riportasse la
pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43
a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di
Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro
Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova
guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro
Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò
nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari
guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo
sconfissero.[71] Tornato a Roma,
Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono
della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica,
e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente.[72]
Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme
ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico
secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di
riforma della repubblica.[73] C. fu costretto ad accettare che sarebbe ora
stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò
le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora,
nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire C. nelle
liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.[74] C. lasciò allora Roma e si ritirò nella sua
villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A
Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da
un liberto di nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. C.,
accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si
rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di
Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di
Formia.[76] Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche
le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare
durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono
esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra
la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli
oppositori del triumvirato.[78][79] (LA)
«Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec
satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in
Antonium exprobrantes praeciderunt.»
(IT) «Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli
fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli
tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro
Antonio.» (Livio - Ab Urbe condita
libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17) (GRC) «Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ
χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος, ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης
ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους
ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ
φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν
ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς
ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ' Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε,
καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.»
(IT) «Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano
sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e
dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più
si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva
il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo
sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e
le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. C. stesso infatti
intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate
Filippiche.» (Plutarco, Vite parallele,
Vita di C., 48, 4-6) Una volta sconfitto
Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di C., come collega per il consolato, e
proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere le statue e
decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere
chiamato Marco.[80] Plutarco racconta
che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un
nipote che leggeva le opere di C., gli prese il libro, e ne lesse una parte.
Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio,
un saggio, e amava la patria".[81]
Vita privata Matrimoni C. probabilmente sposò Terenzia all'età di 29
anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per
30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera,
entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era C..
Da Terenzia C. avrà due figli: Marco Tullio C., che come il padre diventerà un
politico a Roma, e Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta
da C. in una delle sue innumerevoli lettere; che sposò prima con un Pisone
Frugi e poi in seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà
perché il padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente
di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o
cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un
grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte
alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne
negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali
di C. né il suo agnosticismo. C. lamenta a Terenzia in una lettera scritta
durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha adorato con tale
devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno
di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una donna devota e
probabilmente piuttosto materialista.
Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. C. ripudiò Terenzia.[83]
I motivi del distacco sono ignoti, ma C. accusò la moglie di averlo trascurato
durante la guerra, di non essere neppure venuta ad accoglierlo al suo ritorno e
di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.[84] Verso la fine del 46 a.C. C. sposò Publilia,
giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre.[85]
Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio),
la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di C., mentre
secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe stato il
desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; C. peraltro era già stato
nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.[87] Poco dopo il
matrimonio, Tullia, figlia di C., morì di parto.[88] Egli rimase fortemente
colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano conforto,
decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della morte di
Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89]
Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con
Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero C. oggetto di feroci
critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche alle
Filippiche. Entrambe le mogli di C.
morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura
centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio,
avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto
afferma Cassio Dione). Prole È
universalmente noto l'amore di C. per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio
con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza.
Tullia era l'unica persona che C. non criticò mai. La descrive così in una lettera
al fratello Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente! Quando
lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e morì, dopo che era
sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, C. scrisse ad Attico:
«Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».[17] Attico invitò C. ad andarlo a trovare nelle
prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande
biblioteca di Attico, C. lesse tutto quello che i filosofi greci avevano
scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni
consolazione».[90] Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così
fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo.
Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di
riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.
Dopo un po', C. decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in
solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco
solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che
camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel
bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più
tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il
dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in
antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato
perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito C. progettò anche di far
erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua
incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni
ignote. C. sperava che il figlio Marco
scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi:
Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49
a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola
ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a
Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. C., allora, non perse
tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico
Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a
mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia. Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì
all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio
Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu
perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso
che C. fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato,
decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque,
augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso
Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia. L'umorismo ciceroniano [91] Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo
fratello Quinto, uomo di bassa statura, C. osservò: "Che strano! Mio
fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero" Anche il marito
della figlia non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di
legionario C. chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla
spada?". Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e C.:
"Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora nato?".
Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, C. assentì: "È
vero! Sono vent’anni che glielo sento dire." C. non aveva nobili natali
per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le udienze in
tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma C.: "Per quanto ti riguarda,
invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa domanda!" Ad un
avversario disonesto che lo attaccò in Senato domandandogli: "Perché abbai
tanto?", C. rispose: "Perché vedo un ladro!" C. politico Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero
politico di C.. Busto di C. (LA)
«Potestas in populo, auctoritas in senatu»
(IT) «Il potere è del popolo, l'autorità del senato» (Marco Tullio C., De Legibus,3,12) Come uomo politico, C. è sempre stato
bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno
dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione
oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica
del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere
e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire
personali. «C. era attaccato al governo
repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso
aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il
suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così
facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a
Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come C., che
vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché
quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro
qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che,
come C., dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza
speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a
Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che,
senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a
difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio,
prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani
il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma,
io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io
seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più
che un'ombra vana».[92] Preoccupazione
costante di C. fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande
proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili
romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente.
Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui
godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza,
significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che
implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia. Il
suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e
non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso
riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica,
un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una vera modifica nel
tessuto politico e sociale della Repubblica.[93] C. fu, inoltre, sostenitore dell'ideale
politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio
divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini
onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina:
allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i
cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere,
decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. C. auspicava che la
concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel
particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia
non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di
carattere sentimentale ed economico.[94]
C. filosofo Per le opere, vedi l'apposita sezione La filosofia prima di C. Ritratto di C. C. fu il primo degli autori
romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero,
ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto
tempo. Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano
dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle
più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della
totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le
opere greche degne di essere lette.[95] C.
era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla
filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già
avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche
era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo
d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma
consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla
continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né
alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe
i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade,
Diogene e Critolao.[95] La stessa
nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si
interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per
l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che
nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I
senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per
prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque,
loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone,
fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96]
studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale
del tempo.[95] A riscuotere un
istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le
altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel
corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un
totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95] Formazione filosofica di C. C. non si
comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la
filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la
retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età,
quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo
libero. Nella filosofia C. cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva
bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.[95] Da giovane, C. studiò d'impulso
l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra
cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, C. fu, infatti, allievo di
filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri
maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto
sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due
filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la
dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del
verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di C., a
cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa
particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di C..[95] Opere
Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566 Scritti filosofici Frontespizio di una stampa del De officiis;
Christopher Froschouer, 1560 Le opere filosofiche di C. costituiscono
un'importante fonte su teorie filosofiche ellenistiche poco documentate
direttamente. In particolare gli Academica sono una testimonianza essenziale
sullo scetticismo della media Accademia. In molti casi C. traduce per la prima
volta in latino termini filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e
probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue occidentali per
indicare concetti filosofici e scientifici, traggono il loro significato
attuale dalla scelta di C. di tradurre con il latino probabilis il termine
πιθανὸς (pithanòs), nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98] Il De re publica e il De legibus, e la
traduzione del Timeo e del Protagora contribuirono a diffondere a Roma il
Platonismo.[99] Panoramica alfabetica di
tutte le opere filosofiche Academica priora (prima stesura dei libri sulla
dottrina della conoscenza dell'accademia platonica). Catulus (Dialogo), la
prima parte dell'Academica priora, perduto. Lucullus (Dialogo), la seconda
parte dell'Academica priora, conservato. Academici libri oppure Academica
posteriora (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza
dell'accademia platonica, in quattro libri). Cato Maior de senectute
("Catone il censore, sull'anzianità"). C. immagina Catone il Censore
all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a
Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino
alla più tarda età. Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte
dell'amata figlia Tullia, in cui C. esorta a considerare la caducità di ogni
cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta. De Divinatione
("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra
tutte quelle composte da C., mette in luce un'opinione molto esplicita sulla
fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle
opinioni stoiche al riguardo, si nota che C. tratta gli argomenti con la
dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della
religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che
non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura
deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo. De
finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un
dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene,
tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che,
rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere. De Fato ("Sul
Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina
provvidenzialistica degli stoici. De natura deorum ("Sull'essenza degli
dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della
morte di Cesare, ed inviato a Bruto. C. orchestra una conversazione tra un
epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e
discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza.
L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra
rappresentare lo stesso C.. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche
il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se C. respingeva con certezza il
parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta
certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta,
pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione
dello stesso C.. Si è però ipotizzato che C. abbracciasse almeno in parte il
probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si
fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter
constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di C.: egli è persuaso che
il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba
esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza
fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto
vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. C. non trova gli
argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta.
Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il
mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo"
accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus
omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei,
sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci
creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro,
per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico
come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di
tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano;
schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto
questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII
secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione
popolare, e si può dire che anche al tempo di C. ciò era diventato un luogo
comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che
giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano
la dottrina stoica. A C., invece, l'esistenza degli dei appariva come
necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui.
Pressappoco nello stesso modo, C. analizza, poi, il tema dell'immortalità
dell'anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo
proposito da Platone.[100] De officiis ("Sui doveri"): Il De officis,
che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera
filosofica di C., che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene.
L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il
primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo
traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, C. non fornisce
profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi
precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai
suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus. Hortensius:
sorta di protrettico ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga
opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De
divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava
l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava C.. L'opera fu assai
apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli
unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino.
Laelius seu de amicitia ("Lelio" o "sull'amicizia").
Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola
degli stoici): Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso
giudicate di basso livello dalla critica. Tusculanae disputationes ("Conversazioni
a Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte nel 45 a.C.,
sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al
suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di esistere. Il
dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli
intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione":
a C., che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto
con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto,
mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per C.
la situazione era davvero complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la
vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi
nella villa di Tusculum, particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo
studio della filosofia. Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque
il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per
alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve
confrontare il saggio nei confronti di questi elementi turbatori della propria
imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra
le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come
mezzo per eludere la morte. C. tratta questi temi con il suo solito stile
eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo
pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica. De re
publica ("Sulla repubblica"), sul modello della Repubblica di
Platone. De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto
probabilmente nel 52 a.C., dopo che C. era stato nominato augure. Si tratta di
uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del quale
ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice
trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel
primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di
Crisippo, C. dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile
l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione
divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti,
costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti.
Dopo quest'avvio, C. passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme
di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a
disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, C. non immagina leggi
diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata l'analisi, C.
si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono essere
considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto. L'attenta
analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di
pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale C. appare ai
suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata
affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, C. analizza
la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni
dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo
costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano
direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza
considerevole per i contemporanei di C.. Quale doveva essere la parte
dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della
repubblica? Non era lontano il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta
definitiva a questo quesito, e tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe
accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della nobilitas e del senato.
Nell'opera, il fratello di C., Quinto, è fortemente contrario al tribunato
della plebe, carica che ritiene potenzialmente troppo pericolosa: C., pur
discostandosi dalle opinioni del fratello, riconosce il pericolo che il
tribunato della plebe costituisce per il mantenimento della calma e della pace.
Possediamo solamente i primi tre libri del De legibus: ce n'erano probabilmente
sei. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al
diritto criminale, il sesto al diritto civile. Si trattava di opere
particolarmente preziose, perché C. non ha mai trattato altrove gli stessi
argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re publica e De legibus furono
scritti in un'epoca durante la quale la costituzione romana era ancora in
piedi, prima della guerra civile e la fine dell'antica libertà. Questa
circostanza spiega il carattere dei due lavori: sono al tempo stesso libri
teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento di Cesare, l'elemento
speculativo dominerà nella filosofia di C., che infatti fuggirà la vita
pubblica per ritirarsi nella contemplazione.[101] Orazioni C. mentre pronuncia un'orazione in Senato.
Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma. (LA) «In principiis
dicendi tota mente atque artubus contremisco.»
(IT) «All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente.» (Marco Tullio C.) C. è certamente il più celebre oratore
dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza
un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da
Quintiliano la fama di C. quale modello classico dell'oratore è ormai
incontrastata. C. ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi;
cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella
versione originale mentre circa cento sono conosciute per il titolo o per
alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di
fronte al Senato (o al popolo) e tra le arringhe pronunciate in qualità di -
utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante
anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico come nel
celeberrimo caso contro Gaio Verre (unica volta in cui C. compare come
accusatore in un processo penale). Il suo successo è dovuto alla sua abilità
argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto
dell'orazione e al pubblico,[104] soprattutto alla sua tattica astuta, che si
adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente
diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario
e raggiungere il proprio scopo. Tecniche
di memorizzazione Per memorizzare i suoi discorsi C. utilizzava una tecnica
associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[105]
Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli
permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole,
nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva
bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di
percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che
le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza
desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni
italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così
via. Panoramica alfabetica di tutte le
orazioni De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio
pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare:
durante l'esilio di C. il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte
della proprietà di C. sul Palatino alla dea Libertas; C. dichiara questa
consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che
nasce la locuzione Cicero pro domo sua. De haruspicum responsis ("Sul
responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla
profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno
di C. sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di C. ivi in
costruzione. Contro questa ed altre accuse C. si rivolge con un appello al
Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano
su indagini dolosamente carenti. De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia)
("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.),
orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione
dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio,
a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare
contro il re del Ponto Mitridate VI. De lege agraria (Contra Rullum) I–III
("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata
durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III);
un quarto dell'orazione è stato perduto. De provinciis consularibus ("Sulle
province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato riguardo
alle province consolari romane. De Sullae bonis ("Sui beni di Silla",
66 a.C.). Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro Cecilio", 70
a.C.), dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di accusatore nel processo
contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e
presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per C. egli era
infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre. In L. Calpurnium Pisonem
("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.), orazione d'accusa
politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. In Catilinam I–IV
("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63 a.C.),
orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63
a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della
scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al
popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV) In P. Vatinium
("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria contro
P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio. In Verrem
actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione
accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen
pecuniarum repetundarum) In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa
contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati
pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque
pubblicati in forma scritta. Oratio cum populo gratias egit ("Ringraziamento
al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato
il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita
politica. Oratio cum senatui gratias egit ("Ringraziamento al
senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno
appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella
vita politica. Philippicae orationes I – XIV ("Le filippiche"),
orazioni contro Marco Antonio. Pro M. Aemilio Scauro ("In difesa di M.
Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di
Marco Emilio Scauro. Pro T. Annio Milone ("In difesa di Tito Annio
Milone", 52 a.C.), orazione difensiva, originariamente diversa dalla
versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era
assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà
profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella
orazione di C.. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim
silent leges" Pro Archia ("In difesa di Archia", 62 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio
Archia. Pro Aulo Caecina ("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71
a.C.), orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di
rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio
del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte
avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente
all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo. Pro M. Caelio ("In
difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di Aulo Cluenzio
Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro G.
Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Cornelio Balbo ("In difesa di
Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio
Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco
Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata
nel ruolo di difensore. Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario"
46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario,
indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro Marco Marcello ("In difesa
di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore
di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro muliere
Arretina ("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Lucio Murena ("A favore di
Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un
processo di corruzione elettorale. Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo
Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro
Publio Quinctio ("In difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più
antico discorso giuridico tradizionale di C. a favore del querelante in un
processo civile. Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di
sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di C.
Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice
è Gaio Aquilio Gallo. Pro C. Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio
Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel
ruolo di difensore. Pro Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio
Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva
pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa
di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di
"bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto
di Tolomeo XII Aulete. Pro rege Deiotaro ("In difesa del re
Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare
Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80
a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di C. in un processo per
omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un
parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di
assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. C.
ottenne l'assoluzione. Pro Q. Roscio Comoedo ("In difesa dell'attore
Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo
di difensore. Pro P. Sestio ("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Titinia ("In difesa di
Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco
Tullio ("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di
Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Miniatura quattrocentesca del
De oratore. Scritti di retorica Lo
stesso argomento in dettaglio: Retorica latina. Così come per C. è difficile
distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti
filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, tuttavia non rappresenta
pienamente la concezione e l'opinione di C.. Già nella sua prima opera
conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e
l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha
contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito.
Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti teoretici
sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica - o almeno
è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà. Perciò non è affatto sorprendente se C. ha
sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica e strutturato
le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra
sapienza ed eloquenza C. l'addossa alla "rottura tra linguaggio e
intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta
attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per
una migliore attuazione la filosofia e la retorica secondo lui devono essere
dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III 54-143); C. stesso dichiara
che "io sono diventato un oratore non nelle scuole dei retori ma nei
saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine
della Nuova Accademia di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro. Panoramica alfabetica delle opere sulla
retorica pervenuteci Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne
scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta, nella forma di un dialogo tra C.,
Bruto ed Attico, la storia dell'arte retorica romana fino a C. stesso. Dopo
un'introduzione (1-9) C. inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e
sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo
tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena
mediocri, parla di Catone come base della propria esperienza. Lucio Licinio
Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono
dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza
del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio
(201-283), C. respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera
culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di C. stesso, non senza
una notevole dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta se
stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria.
Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione nello stile neoattico,
a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, assai più
ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano.
De inventione: ("L'invenzione retorica"): sviluppato tra l'85 a.C. e
l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica,
mai completata. C. rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più
accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì,
nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al
Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali
della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in
riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I
19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto
nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente delle orazioni di
fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le
dichiarazioni di C. per quanto riguarda il contenuto dell'opera presentano
molte somiglianze con la Rhetorica ad Herennium, ma per lungo tempo erratamente
ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi
riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono all'incirca
dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente sulle medesime o
su affini fonti greche. Inoltre c'è una notevole somiglianza letterale in
alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune fonte
latina, forse originata da un comune insegnamento dottrinario che ha mediato il
preponderante contenuto di origine greca. De optimo genere oratorum
("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta
probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è
un'introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e
contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani,
all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque
non ci è pervenuta, e non è chiaro se C. l'abbia mai effettivamente completata.
L'autenticità dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per
lo più accettata. De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla
retorica di C. non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È
un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I
protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi,
secondo C., dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è
Crasso (portavoce di C.) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il
buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole
trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che ritenevano
sufficiente una formazione basata su regole, tecnicismi ed esercizi per
affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle
"parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la
dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e
dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione.
Il de oratore è considerata l'opera di C. scritta con più cura formale e per
questo motivo è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello
stile ciceroniano. Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate
del 46 a.C. ed è anche questa dedicata a Marco Giunio Bruto e descrive un
modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati
nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti,
che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli
asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, C. ritiene
che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper
passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi
soprattutto alla formazione filosofica: solo così potranno svolgere i tre
compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire,
convincere), i quali vengono bene ordinati e descritti (76-99). C. parla anche
qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta
soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e
sulla costruzione ritmica del periodo. Partitiones oratoriae ("Partizione
dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il
figlio di C., Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di
'catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni
schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio.
L'originalità di C. in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile molto
semplice e delle poche novità introdotte. I Topica (44 a.C.): scritti nel corso
del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della
dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare
gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi
(topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per
qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.) Opere
perdute Tra le opere tardive di C. si possono annoverare scritti consolatori,
contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo di
consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute. Delle
poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori dello
stesso C.. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più importanti
poeti latini, Catullo e di altri neoterici.
Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di C.
Alcyones: epillio composto da C. dopo il 92 a.C. nel quale veniva cantato il
mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si paragonavano a Giove e
Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli dei fecero fare loro
naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì nella tempesta,
Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò entrambi i defunti
in uccelli alcioni. Aratea: libera traduzione giovanile dei Fenomeni celesti
del poeta ellenistico Arato di Soli. De consulatu suo: poemetto autobiografico
composto da C. tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al
consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo contro Lucio Sergio
Catilina. De temporibus suis: altra opera autobiografica perduta scritta nel 54
a.C. in cui C. celebrava i suoi interventi migliori durante il consolato.
Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da C. quando
aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze di Quintiliano, l'opera era di
genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali. Līmōn:
il titolo deriva dal sostantivo greco Λειμών, "prato"; ciò
sottolineava il carattere variegato dell'opera, un poema in esametri in cui
venivano trattati diversi argomenti letterali e sociali. Infatti una
testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo a
un'opera del commediografo Terenzio. Marius: poema epico-storico in cui C.
parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il
passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla
poesia, cioè epico. Nilus: opera quasi sconosciuta. Si pensa che C. l'abbia
scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto. Pontius Glaucus:
componimento in stile alessandrino di C.. Scritto circa nel 93 a.C., l'opera
trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba afrodisiaca
dai poteri magici, si trasformò in un animale marino. Tymhaeus: vasti frammenti
del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che C. presumibilmente non ha mai
pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di traduzione. Uxorius: opera nota
quasi esclusivamente attraverso il titolo, che significa Il marito devoto (alla
moglie); si ritiene avesse argomento leggero e carattere scherzoso, se non
apertamente comico. Epistolario Edizione
delle Epistole agli amici, Venezia 1547 Le epistole di C. furono riscoperte da
Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente
furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da
corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente
dal fatto che l'immagine che traspariva di C. non era quella dello strenuo eroe
difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle
sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi
aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità. Le epistole furono raccolte e archiviate dal
segretario di C., Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4
categorie: Epistole agli amici
(Epistulae ad familiares) (16 libri) Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad
Quintum fratrem) (3 libri) Epistole a Marco Giunio Bruto Epistole ad Attico
(Epistulae ad Atticum) (16 libri) Memoria Presente in tutto il Medioevo, il
ricordo di C. fiorì durante il Rinascimento[107]; Giovanni I di Brandeburgo
principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua
morte, con l'appellativo di C., proprio a causa della sua eloquenza. Negli Stati Uniti d'America vi sono ben
quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco
Tullio C.. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata
per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più
o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa
deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la
restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[108] Il nome di C. è diventato un'antonomasia per
indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi
illustrando loro ciò che stanno visitando.[108] Parimenti con il nome C.
vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte
riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio C., da apporre agli atti
giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati. Note
^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 2, 1. ^ Dionigi Antonelli,
Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo,
Pontificia Università Lateranense, Roma, Loffredo, S. Domenico di Sora e i
luoghi natali di C., Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli Narducci Rawson, p. 1. ^ Rawson, Rawson, Plutarco,
Vita di C., 1, 1. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di
C., 3, 2. ^ Rawson, pp. 14-15. ^ Plutarco, Vita di C., 2, 3. Rawson, p. 18. ^ Plutarco, Vita di C., 4,
5. C., Lettere ad Attico ^ Plutarco,
Vita di C., 3, 5. ^ Rawson, p. 22. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 83. ^
Plutarco, Vita di C., 4, 1-2. ^ Rawson Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C.
Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., . ^ Plutarco,
Vita di C., 7, 8. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 9, 1. ^
Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. lutarco, Vita
di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5 ^ Plutarco, Vita di C.,
Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 29,2 ^ Plutarco,
Vita di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione Sallustio, De Catilinae
coniuratione, 31,6 ^ Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione,
32,1 ^ Plutarco, Vita di C., Rawson, p. 106. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco,
Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 201. ^ Plutarco,
Vita di C. Haskell, p. 204. ^ Plutarco, Vita di C. Rawson, Plutarco, Vita di C.,
Plutarco, Vita di C. Everitt, Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei Cesari,
Gaio Giulio Cesare, 9. ^ C., Seconda Filippica
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section 1, su www.perseus.tufts.edu. URL consultato il 9 marzo 2023. ^ Appiano,
Guerra civile Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 42, 5. ^ Plutarco,
Vita di C. Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto 83,2 ^
Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco,
Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C.,
Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Seneca il
vecchio, Suasoriae, trascrizione di un frammento di Tito Livio, Ab Urbe condita
libri, 120 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. C., Lettere ai
familiari ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 41, 3. ^ C., Lettere ad
Attico,12,18b,2 ^ Plutarco, Vita di C., 41, 4. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco,
Vita di C., 41, 7. ^ Plutarco, Vita di C., C., Lettere ad Attico Boldrer,
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politico di C.. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana. ^ Tito
Livio, Ab Urbe condita libri Vedere: Claudio Moreschini, "Osservazioni sul
lessico filosofico di C.", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa.
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philosophique : problèmes d'éthique et d'esthétique", in: La langue
latine, langue de la philosophie, Actes du colloque de Rome (17-19 mai 1990),
Rome : École Française de Rome Le notizie riguardanti le opere di C. sono
tratte dalle opere stesse ^ La Bottega dei Traduttori, Traduttori del passato: C.
e la traduzione nel mondo antico, su La bottega dei traduttori, 21 dicembre
2023. URL consultato il 1º marzo 2024. ^ Perelli Perelli, p. 149. ^ Rawson, p.
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altre ediz.: Garzanti, Milano, 1987 e successive rist.; Il Giornale, Milano De
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Samaritanae, 1566. (LA) Marco Tullio C., [Opere]. 2, Lutetiae, Ex officina
Iacobi du Puis, sub signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis, 1565.
(LA) Marco Tullio C., Orationes, Lutetiae, Ex officina Iacobi Dupuys è regione
collegii Cameracensis sub Samaritanae insigni Marco Tullio C., Orationes
(antologie), Mediolani, Regiis typis Opere di Cícero presso la Biblioteca
Nazionale del Portogallo Predecessore Fasti consulares Successore Lucio Giulio
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del I secolo a.C.Personaggi legati a un'antonomasiaGiuristi
romaniAuguriAforisti romaniPersone legate ai Misteri
eleusiniDecapitazioneStudiosi di traduzioneRetori romani[altre] . L'interesse
per la problematica semiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di
costante e progressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che
inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano,
il paradigma semiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto,
per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia
la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole
postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire
dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,
una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizione
della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente
orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del
paradigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più
congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato a
essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi
conto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a
confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di C. nei riguardi della
retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo
importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei
segni; ma, come era già avve202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici,
aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di
sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica
stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono rimanere un
punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel caso della
retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali
a quelli efficaci . In C., e in genere nella trattatistica retorica roma na,
si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori ca non occupa più
il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la
filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello
di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo quenza
l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore
(Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di C. circa i rapporti
tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i
dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne.
In effetti, per C. la retorica costituisce il "corona mento" della
filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non
deve essere considerata una tec nica capace di aggiungere un'espressione
elegante a un pen siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e
Françoise Desbordes (1981: 50), in C. agisce un principio, sempre sfumato, ma
costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre
parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve ramente
bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto
tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz zata secondo due tipi di
assi. Il primo concerne i tipi di di scorso: il discorso dei tribunali
(giuridico); il discorso del l'assemblea (politico); il discorso delle
cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della
retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per
strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri cerca degli argomenti);
dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è
stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or nata); memoria
(procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso: gesti e
dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della
inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano
l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in
retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si
inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei
due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium), C. e Quintiliano, ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a C.
sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse
gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del
fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la
verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione
nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può
scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica
antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia
incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e
l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti
pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti,
sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità),
conlatio (confronto), signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno),
consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). Troviamo qui una terminologia
in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione
la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due
casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM no
completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il
probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il
crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale
turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non rimane molto
deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla
caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu
satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato avaro,
se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito
con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua
ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile direttamente; la sua
struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico:
"Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza,
significa che è stato uc ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova
del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit to,
significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum
viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità,
con temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente
del segno; classificazione, questa, che risale al la retorica prearistotelica
(si trova a esempio nella Rhetori ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e
giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili
Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli mette in
relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice
Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e
gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è
giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab bia titubato,
sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa,
che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle
reazioni fisi che non controllabili, dei segni involontari che possono ve
nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati
d'animo (come il senso di colpa). Questi se gni, per quanto non siano
facilmente dissimulabili, sono pe rò manipolabili a livello di
interpretazione: infatti l'avvoca to difensore può intervenire sulla loro
presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del
pe ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac cusatore
può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato
aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza,
ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno
cenza" (ibidem). probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum -
neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l
argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD
HERENNIUM Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in
atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li velli: (i) innanzitutto, ci
sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono
distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che
l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il
delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso,
che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi mettono in relazione diretta
l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di
segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen to
dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo rispetto a quello
dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione
della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se guente schema
(Curcio 1900): - locus - tempus - spatium - consequens Se
messa a paragone con quella della Retorica aristoteli ca, la classificazione
di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata.
Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans
conscientiae - signe confidentiae - signa innocentiae 208 9.
RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter
na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento
precedente il crimine e culmina nel pro cesso . Cornificio discute anche della
forza argomentativa dei se gni, quando propone di organizzare in una struttura
logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so no dei
segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver
partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal
momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare,
si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi
non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma
anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che
Cornificio non li rifiu ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel
caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an che tutti
gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre scere il sospetto). C. C.
affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della
sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che
parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo
ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente
centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore,
I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di C.
e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a
Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . I segni necessari sono
così definiti. Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come
C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., l, 46). Con questa definizione C. mette in evidenza due caratteri: (i)
quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se
è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 C. 21 1 I, 47),
che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2.
1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione
dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no
stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra
il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu rità di C., nella quale la classificazione
della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al
trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da
quella dei modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo
gli indizi (qui chiamati argumentatio
necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi nione
positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl)
non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un
ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos
sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub
sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum
est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio/ l
"signum erodibile indicBtLm comparabile /
Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi
estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche",
titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove
tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e
che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi
estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche
quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi
sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione orda lica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia; tut tavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del para digma divinatorio all'interno dei fatti
semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né
questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura
greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così
si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze
umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi
anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il
segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti
intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s aristotelico,
di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nnta propria rei
viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e
indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si
tratta, evi dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche
dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla nozione di
fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio era la caratteristica
specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero
grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole
postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di necessità e si definiva
come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda
(Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i
vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9. RETORICA LATINA
vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti,
imbarazzo, alterazione del colorito, discor so contraddittorio, tremore, gli
indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni
delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C.
non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni
avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte ristica condivisa anche dai
signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli
argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti
se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae
rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa
sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma
nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda
alla cate goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto
dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove
ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono
definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente,
caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma
mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte mologico per
la loro insicurezza, C. è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine coniecturs - l -
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
C. pole micamente rileva (De div.), i segni della divinazione sono talvolta
interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel
processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a
fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in politica, sente
l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di
cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece,
costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco
credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga
limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della
repubblica. 216 9. RETORICA LATINA C. affronta questi argomenti nel De
natura deo rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima
opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale
difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la
divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria
soste nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono
una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e
contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La
divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si
pongono come fon te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu
nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda
dei due specifici tipi di divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura
in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in
cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica
professionale di decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in
un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et
fu/gurum (inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti
del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes
sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed
estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità
si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui
l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si
basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine
stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di
cau se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come
fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è
conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div., II, 100), secondo le quali
l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta
da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,
partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: 218
9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro ....
ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi nazione si
basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div.), le prati che divinatorie si basano
sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa
avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade
re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il
codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza
statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip pocratici
tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla divinazione e
dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). C. poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma
ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista
semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso
diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di
falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso
a quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali
(De div.); l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,
II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime
politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisse
inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, da
strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita C., era divenuta so
prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i
principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque
altro e contemporanea mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo
quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma
completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui la competenza
semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi che
compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio
tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente
dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica.
Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli
altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è
saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars)
dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro
canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano
dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo
dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n a rt i
f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rtificisles
formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento
giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la
materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato
che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy).
Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono
inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine al genere
deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q". Infatti il
meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di
ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle
prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro
tipi: (i) il concludere dalPesse re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q)
("È giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere
una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è
giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro
sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non
essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale,
quindi non è un uomo") (lnst. Or.). Analizzati ali'interno di questa
griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei
conse guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di
rendere esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla tradizione della
retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti
anche molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito,
si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i
trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento,
Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di
calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi bilità di
acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo
proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in qualche
modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva
distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni deboli. Gli
stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il
problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di un'udienza forense,
a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica,
ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua sivo' ". A
proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia no fa una precisazione
preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in
quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco
gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre,
se esi rimandano a un significato inequivocabile, scompare la possibilità di
argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma
necessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni
devono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. I signa
necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non
possunt" (lnst. or.), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera
necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria
della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero
legati inscindibilmente ai conseguen ti. L'informazione che se ne ricava è
sicura e incontroverti bile . La furia classificatoria, tipica del mondo
antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in
base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato
("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente
(''Se soffia un forte vento sul ma re, si formano su di esso le onde"),
nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V,
9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti po di
classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono
relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la
relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se
respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la
reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove",
"Se ha partori to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al
cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato",
"Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or., V, 9,
7). Quintilia no sembra sollevare qui il problema della
"conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr., 70 b,
32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico
segno di un'unica cosa". QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223
I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri spondenza con gli
eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente
accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto
convincen ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce
neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano
ne distingue tre tipi fondamentali, in base al l'intensità del legame che si
stabilisce fra antecedente e con seguente: firmissimum (sicurissimo),
corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i
propri fi gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene
in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re pugnans
(non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se
c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in
casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza
accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos sono essere molto
efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran numero avvalorandosi
a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a
quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei
signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra
determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con
il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria
autonoma rispetto alle due prece denti (segni necessari e verisimiglianze),
come del resto av veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri
analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e
proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che
consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue
che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i
vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva
lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria
degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I
l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli
"attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res
inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di
significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella
precedente categoria (quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano
classificati fatti o proprictfi che forni vano un'informazione non sicura,
perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi,
non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei
signa sono classificati fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia
di sangue su una veste può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una
epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio).
La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria
relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna
ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa non necssaria
verisimiglianze non conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene
in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali
ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o
sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non
necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi
che egli riprende da Ermagora e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica:
"Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er magora ritiene questo,
che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst.
or., V, 9, 12). Quinti liano ha una certa riluttanza a considerare questo e
altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro banti in un
processo: "Ma se accoglieremo questo come se gno, temo che si ritengano
come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia,
egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni"
(ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi
ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba toria degli
argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni
debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al cun
problema a considerare come segni "tutte le conseguen ze che si traggono
da un fatto". Le proprietà che l'enciclo pedia registra a proposito di un
certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o
di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a
garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno
di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un
presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse
questo era stato oscuramente intuito dalla retori ca antica, già da
Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una
distinzione netta tra "cer tezza scientifica" e "certezza
legata ai codici socio-cultura li", ma, dall'altra, utilizzavano
entrambe, caso mai racco mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di
più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle
teorie del segno e del lin guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e
in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella
del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica
bisogna aspettare il Corso di lin guistica generale di Saussure, scritto
quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha
in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica,
come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica: in esso sono
riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il
princi pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra verso
segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia na da
quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco gliendo e
formalizzando una lunga tradizione di origine so prattutto medica e mantica,
consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo
che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri ta.
Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa
non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la
pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo
in gene rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo
anche le parole", De Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In
secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e nunciato il punto di
congiunzione tra il significante (semaf non) e il significato (semain6menon),
elemento che comun que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve
ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum
(''parola"), l'elemento in cui significante e signifi cato si fondono, e
considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver
sufficientemente assoda to che le parole [verba] non sono nient'altro che
segni [si gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si
gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare
che cosa significhino le singole paro le", De Mag., 7.19). In terzo
luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due
caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna
sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria
del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si gnificati si
trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore)
(Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter
minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum
simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura
una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino
elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i
moderni con cetti di significato, significante e referente. Infatti individua
in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è
percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo
individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della
trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene
avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo228 10. AGOSTINO
go, infine, distingue la res, che viene definita come un og getto qualsiasi,
percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op pure che sfugge alla
percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo
semiotico nei se guenti termini: dicibile vox articulata (o sonus) res
Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di
designazione, oltre che da quello della signifi cazione. Questo lo spinge a
elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in corrispondenza dei due
aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve nire
che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica
nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora
prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co
me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una
cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio),
nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio
che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di
congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di
uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si gnificante
articolato, ma senza essere necessariamente por tatore di significato) ha
subìto nel corso degli studi lingui stici antichi. RELAZIONE
D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo
stesso significa to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano
i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis
come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici
graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e
l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis
venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo sizione alle
lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione
all'enunciato che porta un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla
centralità stoica dell'e nunciato alla centralità alessandrina della singola
parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti
solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino
definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica:
"La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può
essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito
come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è
direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel
Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto - configura subito come una rela zione di significazione: il
nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a
quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino
propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio
ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle
teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le
espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come una
relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere
epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente sul
linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino
l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e
senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è
rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto
logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che
diviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE
DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima
conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è
che la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro
implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo
strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere
rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,
nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione
semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei
rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto
Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare
rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un
"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co se che significa.
Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere
informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo
tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni
del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemorare),
sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo caso
è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si
rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un
vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude
invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è
necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire
che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla
presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente
platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual
mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente
della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma
se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone, che se la semiologia agostiniana presenta
un aspet to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut
tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet to laico, che prende
in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di
quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si
dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana, l . 2. 3. 4. 5.
secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte
più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e
sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino
sottopone la nozione di se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino
giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene
ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del
tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una
classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è
possibile ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema
arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio
(Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è
totalmente a inclu sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può
osser vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb bero
comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca te sotto il ramo
principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una
classificazione inclusiva da ge nere a specie quando definisce la relazione
tra nome e paro la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e
includen do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag.,
4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose
(funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze
significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze ( s i g n i fi
c s b i l i s l non significanti nome in senso particolare
non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del
discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni
udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)
SIGNIFICANTE delle .. AES" LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1
"Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella
tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e
segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co me ontologica,
bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo
è libero di as sumere come segno una res che fino a quel momento era
sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in
termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho
chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di
qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ.). Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei processi
di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle
acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra
sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen.); né quella pecora che Abramo
immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste
tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e
godere (jrul) (De doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran
sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le
cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se
stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome
per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso
segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche
quest'ultime possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così
articolato i rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione
di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi
in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche
le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato
ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i segni della
Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri
viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i
movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De
doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa
role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an che i segni
emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla
gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza
rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu
rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a
"convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni
convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta to
proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono
i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e
corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione
comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere intenzionale che
permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali,
anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta intenzionalità animale
(Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento
sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di
Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio,
creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in
corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un
significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus, il significato di un segno, per Agostino, può essere
stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi;
attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite
astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende
possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale
del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno.
La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in evidenza
Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se
ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad
Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe
relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei
quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay
risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come
un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione
verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè
"informare in anticipo con segni") e l'ag gettivo di origine verbale
pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è
tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella
mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica
(Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri
ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr .
anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del
l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4
Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the
oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica tes
it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad
Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio
è totale e simul tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole.
Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo la frammentazione della
parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza
divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone
ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244
a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro
che la sapienza vista dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la
presenza di possibili procedi menti anche di cleromanzia (divinazione
attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi
fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca sualità ed essere
sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av veniva nel caso
dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del
vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il
tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un
gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per
una disamina generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi
basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8
"Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini
tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione
prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia
anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della
consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero di iscrizioni
epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr.
Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla
nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come
vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del
dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine,
l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine
"modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un
unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto
eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo
scambio di prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo"
enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico
elaborata da Eco. Pur troppo non è qui possibile usare direttamente quella
categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui
proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici
(rapporto stretto tra si gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli
tendenzialmente coesi stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato,
perché ci sarebbe sem brato appropriato definire "simbolico" il modo
di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il
meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio
(Aen., VI): la sa cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su
delle foglie, se guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia
quelle fo glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un
altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e
difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due
attributi antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia
benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche);
l'arco, quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo
nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente",
ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove
le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una
nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo
antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia come
"sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti
ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora
in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente e attingendo a una tradizione
filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo
studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo
. Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei
trattati di medicina. NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi
omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici
(Sulle affezioni inter ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle
Malattie, la parte più ar caica del trattato Sulle malattie delle donne),
caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore
attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto). In secondo
luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i
principi teorici e me todologici della medicina. Vegetti ha proposto di
definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da
questi ultimi ri sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano
attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate
storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili
cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina,
Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr.
Vegetti; Vegetti. Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina
ippocrati ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per
le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta
apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria,
sarà stabilita una distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni
collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente,
e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di
Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (tr. it.). Si
deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai
verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ",
anziché con un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate
avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr.
Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (tr. it.). Diog.
Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug gita, che il
carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal
riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana:
c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano
una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente
analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE trattato Le arie, le
acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol /ens, la tesi secondo
cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do vuta a causa divina,
in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen do questa, per
l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine
divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si
pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son no di cui
parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende
possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinatione per somnum)
. •s Per la nozione di "omomaterico",
Eco (1975: 295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno
per cui "l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa
materia del suo possibile referente.
anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Vegetti; Manuli. 18 Sull'abduzione si vedano
Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco.
Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti
tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina greca
e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani;
anche Di Be nedetto-Lami . Campbell Thompson. 2 1 Per questa
nozione, Conte. Hjelmslev.
Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet.,
Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Arist., De int.,16a;
An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione
Di Cesare. s Eco. Heinimann. 7
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo).
1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces
sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè
anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia
ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12 Quanto al carattere di
confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così commenta l'esempio
dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo che si sviluppa
attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile (ljsimos), senza
eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si è detto sopra,
non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e
se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che
questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 Dei
segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome
corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da
cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova:
quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione
enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie ne dimostrata
e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras Ccompimento')
significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia segnalare il fatto
che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione tra tekmrion e
semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei
trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali
tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine,
martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; Le Blond.
Arist., An
Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Arist., An.
Post. È del resto sulla base delle
immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi
tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che viene
basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo
nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate
sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il
caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); Mi gnucci; Sandbach; "The crite rion
of truth" di Rist. anche Sext. Emp.,
A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6 Diog. Lart., Vitae; Long Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9
Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che,
come sostiene Diogene Laerzio (Vitae), gli stoici distinguevano tra il
"proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; anche Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 80. Long
sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said"
rispetto a quella propo sta da Mates e dai Kneale, "what is meant",
in quanto la prima è più gene rale e permette al lekt6n di essere interpretato
come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia
sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati lo platonico, secondo
la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In
questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di
una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure
"Questo è Dione"; Long. ..s I
lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia scuno
dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com plessa,
che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo proposito Mates. Mates:
Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle parole e avvicina la
loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap.
1 Zeller. 12 Bréhier. 13
Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la
fornisce Sesto (A dv. Math.): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che
alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe
altre sono false". Sul problema del criterio di verità, Rist; Sandbach; Mignucci anche Adv. Math.,
VIII, 245-257. 18 Diels-Kranz, 75, B 2.
19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Platone, Th.; Soph. In effetti il discorso
interno, endiathetos /6gos, a differenza delle espressioni emesse materialment,
prophorikòs 16gos, è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo
dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli
stoici) dicono che l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del
discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi,
pappagalli e gazze pronunciano suoni arti colati"; anche Pohlenz trattazione di Conte, curatore
dcll'edizione italiana dei Kneale. 20
Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la
dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa250 NOTE re, un
segno"; anche Adv. Math., VIII,
180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e
E.A. De Lacy (1978). 21 Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2'
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp.
Pyrrh., Il, 98. 27 anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione
verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo
relativo. 29 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153.
30 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Sext.
Emp., Adv. Math. Al di là del carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è
interessante perché, citando "medici" e "fi losofi", fissa
i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno:
l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano
anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e
lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., . 34
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1'
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp.
Pyrrh., Il, 106. 37 Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 250-251. 11 Sext. Emp.,
Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Sext. Emp.,
Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi derazione solo i primi tre
criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola
megarico-stoica. 4() Sext. Emp., Hyp.
Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie
interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in
considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a),
dei Kneale e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione
cronologica e teo rica. "2 Phil.,
De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai
paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " =
" ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276;
287. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.);
Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e
divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli
stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le
monde; il est aussi une sorte de prophète, un de vin, un exégète, un
interprète des signes qu'il observe". 46 Cic., De
divinatione. 49 Sext. Emp., Adv.
Math., Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:
"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,
giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il
testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora
disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Diog. Laert.,
Vitae, X, 31; ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Phil.,Designis,fr.l. "
Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., fr. 4, col. III, in Arrighetti
(1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra
linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38. Diog. Laert., Vitae, Epic., Ep. Pyth., Epic., Ep. Hdt., Diog. Laert., Vitae,
Sext. Emp., Adv. Math., Diog.
Laert., Vitae, Diog. Laert., Vitae, Epic., Ep. Hdt., Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Sext. Emp., Adv. Math., Epic., K.D., XXIV.
16 Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal
verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria
epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato
negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. Sext.
Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il
criterio della "non incompa tibilità" con i fatti conosciuti è
centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut.,
Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si
deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in
Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e
recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che
non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe252 NOTE cifico
del "significato" in termini intensionali. 23 Sedley; il testo di Sedley in parte si
discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico,
tanto da Cratilo quanto da Socrate.
capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Plat., Crat., 421 d, 435 c; Sedley. La data di composizione del trattato,
che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; De Lacy. Il titolo greco, essendo il testo in
parte corrotto, è frutto della congetura di Gompers; altre congetture sono
state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De
signis; De Lacy. Nella prima sezione
vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella
seconda viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione
di Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. ..
Marquand; Deledalle. Phil.,
Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi bliografico al trattato
di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero
delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo
corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più
riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di
Demetrio; col. , 13-25 = cap. 45, e col.
, 12-24=cap. 57. 7 col.,1-15=cap.18. 8
col. I, 1-12 9 col. I, 12-16=cap.
2. 1° col.. 11 In Peirce, del resto, c'è
a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità
che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra
riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella stoica ed
epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un
segno che si riferisce all'Og getto che essa denota semplicemente in virtù di
caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che
un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno
che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". =
cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12
Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. col. col. III, 4-8= cap. 5. 1 col. = cap. 6. 16
coli., 35 -, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono,
nella sezione di Zenone, alle coli. , 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella
sezione di Bromio, alle coli. , 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 col. , 3-7=cap. 24. 19 Una discussione
attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini zione come
combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. , 1 1-28 = cap.
24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A coli. , 37 -
XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. , 13 - , 8=cap.
39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col., 6-9=cap. 41. 29 La
tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de finizioni
vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali
razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e
quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli
genza e razionalità" (Adv. Math.). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr.
1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. , ,
13=Cfr.coli.,32-I,3= cap.35. coli., 35 - , 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.).
Groupe . col . col. col . col. col. , 5-7 = cap. 52., 11-15=cap. 52. XXI, 27-29
= c, 27-31 =, 23-29=. A questo proposito C. parla di "regolarità della
ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte"
(fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo
l'espressione significatio; a esempio in De Magistro. 2 Si deve notare che
Agostino adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e
specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno
generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me
"segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente,
la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della
parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa,
ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli
stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali, come un antecedente
che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per
questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et leur logique, Actes du
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not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal
disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be
expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim
of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of
Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate
Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions
successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians
themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into
practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole,
governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in
natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal
code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules
against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since
they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions
furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory,
if not its particular details, established a lasting framework for anti-positivist
theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and
Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of
dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic
philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa
and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of
dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian
doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he
does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe
that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no
infallible criterion for distinguishing true from false impressions is available,
some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied
on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic
epistemological debates, steering a middle course between dogmatism and radical
skepticism. A similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero
presents the views of the major schools, submits them to criticism, and
tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three connected
works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean,
Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy. Much of
the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and skeptically
detached much in the manner of
eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to
emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are
“persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic
doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions,
and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan
Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system
based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of
an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become
authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness
and originality. “Cicero = Tully” Grice:
“Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a
description than a name!” La morte di C.. Cicero proscribed by the triumvirate.
Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano.
Cicero offered his hands, with which he had written the Filippiche. His head
and hands were displayed at the Senate. The Romans never quite liked him
because he was only a provincial nobility and never displayed courage. C. affronta e sviluppa la problematica
semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: le opere di
argomento retorico; e le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo
in considerazione il primo di questo ambito – le opera de argomento retorico
--, possiamo osservare che l'interesse per il concetto di segno non è
ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da una parte, ci sono il “De
oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo genere oratorum” -- che
affrontano una problematica a carattere socio-politico, volta a definire la
figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua
posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In queste opere
tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica -- e
con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova indiziaria)
appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si configura come
un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora
solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona
o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il “De inventione”,
le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere molto diverse tra loro, ma
accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazione e di
sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono l'apparato tecnico
della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è rintracciabile nella
minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il parossismo,
come nel “De inventione”, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione
teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di queste opere che è dato
rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria
ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa l'ampia tradizione retorica
che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale che al suo interno si
trovano riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in
quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la concezione del segno
in forma proposizionale, come antecedente p che permette discoprire un
conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario --
l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indizio di
colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua
relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità, contemporaneità,
posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche
dire che la classificazione del segno proposta da C. è in larga misura diversa
da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno della teoria dell’
“argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte
delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ), o la dimostra in un modo
necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene usato il
normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio
il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che
viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a
questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza argomentativa
debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza necessaria – “necessarie
demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene dimostrato in
modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato diversamente da
come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo.”
“Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv., l, 86. Come C.
spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum priore necessario
posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto di rinvio *non*
necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" -- De
inv., l, 46. Con questa definizione, C. mette in evidenza due caratteri: quello
probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele
attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due
esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama
suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv.). In essi compare anche il tipico
rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile -- Arist.,
Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei calzari, era
sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra dello stesso
tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”, poi,
compare come una sottopartizione del segno non necessario, accanto al “credibile”
-all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile,
iudicatum, comparabile -- appaiono distinte in base a criteri estrinseci (e
scompariranno nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una
categoria di fenomeni abbastanza particolare. "Segno è ciò che cade sotto
qualcuno dei nostri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra derivato
dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il
fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una
conferma più sicura" -- De inv., I, 48. Ne sono esempi: "il
sangue", "il pallore", "la fuga", "la
poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile,
scarsamente codificato e generalmente non volontario. Qui sono presentati in
una forma non proposizionale. Ma niente vieta che venga sviluppato in
proposizio ni, come dimostra il caso dell’indizio "polvere":
"Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota relazione
temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come
sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo.
(·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se
ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luoghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione”
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di
sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione ordalica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto semiotico,
anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è
un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si
ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La
congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria
rei ( Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos” aristotelico,
di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota propria rei” e
definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una
cosa certa, come il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evidentemente,
del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso
dell'aggettivo “propria”, che rimanda alla nozione di fdion semeion -- segno
proprio. Per Aristotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un
certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità,
segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carattere di necessità e
si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De signis). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei
quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). C. non define QUf)tO tipo di segni, se non
dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, C. è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe si
avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non direttamente
accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine · coniecturs
-verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt
certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova extratecnica
corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata sull'interpretazione
e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come C. polemicamente
rileva (De div., II, 55), il segno della divinazione e talvolta interpretati in
maniera diametralmente opposta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni diverse
ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della divinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellettuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della filosofia a fondamento razionalistico, e contemporaneamente
impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra
religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La
religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai
fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello
stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi
spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere
respinta, anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel
suo impegno di gestione della repubblica. C. affronta questi argomenti nel
De natura deorum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que
st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello
Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che
legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro
la teoria sostenuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché
costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e
contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la
teoria di Quinto, gli dei si pongono come fonte dell'informazione e come
emittenti nei processi di comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono
i destinatari. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni
sono legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che C.
muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti specificamente
semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione,
è che essa non ha veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa
interpreta come segno non e tale, ovvero che non si comporta veramente come d’antecedente
rispetto a di conseguente. Per distinguere un segno vero rispetto a quello presunti
della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come
la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino
e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div., II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina). C. poi si sbarazza in termini razionalistici
della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe
appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e
insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno
stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., Il, 83). Si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni necessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div.). In certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni
di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice:
“Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library,
a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes
dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation,
/kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of
attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to
cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses
Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS –
virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in
keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to
the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the
‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and
future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first
beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a
lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming free.
So, even though, while becoming free they attained the rights of the Roman man,
they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is a Roman
male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN man
wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was that
of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN
man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his
SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be
a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this
‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it
was the job description of a job he never applied to. The other very useful
institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically
between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some
overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no
reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution
by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary.
Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to
pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please.
Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a
latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED
to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as
self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act
would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all
this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be
ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of
the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire.
When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they
were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not
represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law
against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the
two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and
literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic
references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and
eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair
with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls
Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS,
dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner
subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In
general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on
rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based.
His idea is that if x, y. x is a sign of
y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as
part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is
interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard,
Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what
signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said
there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero
was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and
Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic
of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which
are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot
to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked
Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il C. di Rensi. Spero enim homines
mtellecturos quanto sit omnibus odio crudelitas et quanto amori
probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14 C.
Renisi . Vita parallele,li due filosofi 4 C.
era vicino ai sessantanni, quando lo Stato legale romano, che già
precedentemente aveva subito terribili scosse, ma che mediante una saggia
riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo stesso tronco senza frattura
o soluzione di continuità, riceveva da Cesare il colpo di
grazia... Non è più necessario rivendicare la grandezza di C.
contro le denigrazioni del Mommsen e di altri due o tre storici tedeschi
(I). Egli non era una ràbula e un politico superficiale. Bensì un
uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro, nel cui animo si radicava e
viveva di vita vigorosissima tutta la grande tradizione politica
romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen si può leggere
nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die Gegenwarl, contenuto nel
volume Das Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però
rivendica solo il valore di C. come epistolografo e oratore, non
come filosofo. e pur senza che
l’animo servilmente vi soggiacesse, ma, anzi, insieme, con la chiara
coscienza della nuova direzione che quella tradizione doveva prendere, e
della misura e forma in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e
superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la
più alta cultura dell'epoca : Demostene e Platone insieme pel suo paese,
come riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto a ciò, una
squisitissima sensibilità artistica e una passione vivacissima per le
cose d’arte ; basta vedere quanto “ vehementer , com’egli stesso dice,
attendeva che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus
hoc est voluptatis rneæ (Ad Att.) ; e basta aver letto
attentamente le sue orazioni e aver scorto il perfetto senso d’arte con
cui sono costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine, una
sensibilità in generale per le cose, le persone, gli eventi, gli affetti,
così moderna, che in lui, nella sua pronta e multiforme
impressionabilità, ritroviamo interamente noi stessi : e il suo dolore
erompente e pieno di accenti passionali per la morte della figlia
Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri tempi. Uomo, in una parola;
assolutamente completo. Platon. Un filosofo di così sottile e sicuro buon
gusto e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente Il
rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri
che gli eroi di poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al
grande che si è trovato a dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine
di avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte più grande
poteva abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a quelli che non
fanno se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto
venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto nè nella repressione
della congiura di Catilina, nè nella lotta per la salvezza della
costituzione contro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che chiuse
cosi gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue incertezze di altri
momenti sono unicamente frutto della sua profonda moralità. Perché
l’uomo fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo a
cataclismi enormi che travolgono gli individui come fuscelli, quali
quelli in cui C. si trovò, mentre non può operare contro coscienza, e
per questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a
grandeggiare, però avverte anche i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1
suoi operando secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente
quella che tracciano le fluttuazioni di tale angoscioso conflitto
interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo
giudizio. Ciceron,
selon moi, est un des plus grands espnts qui aient jamais été (Pensées
diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte fecero, nec
ullum in his malis consilium periculo vacuimi inveniri potest {Ad Att, X, 8). Quando i frangenti in cui un uomo si trova
realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si può
domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui
coloro che poi spulciano comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro
e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non sente
scrupoli : il cinico ed elegante arrivista Celio Rufo, che a C. da questo
consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti sfugga come
nelle discordie politiche interne gli uomini debbano seguire, finché si
lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in
gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è migliore ciò che è più
sicuro (Celio Rufo, del resto
ottimo scrittore, tanto che per molti umanisti ed altri dotti è ancor oggi il
miglior modello di stile). Ma C. era un uomo di coscienza. Questa
soltanto, non la sua incapacità mentale, la causa della sua rovina.
Egli era andato con Pompeo, non già sedotto dalla speranza della
vittoria, ma quando la causa di costui era ormai pressoché perduta e con
la piena nozione di tale condizione di cose, e mentre Cesare,
Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo almeno neutrale, gli facevano
offerte larghissime : secuti non spem, sed officium {Ad Div.). Vi era andato essendo
consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di
quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla c era da
sperare da essi circa la restaurazione della legalità, animati come
costoro erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.),
e chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno che dai
cesariani non si pensava che a far man bassa dello Stato: “ regnandi
contendo est » (Ad Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est, non
id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’
idea d una guerra civile e unicamente in obbedienza a
considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza che ci costringe, scrive
ad Attico (X,8), a staccarci da Cesare più ancora se vincitore che se
vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà alla sua vittoria,
stragi, estorsioni, violenze “ et turpissimorum honores, et regnum non
modo Romano homini, sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile Era andato da
Pompeo, senza illusioni e speranze, unicamente per senso del
dovere. Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me plus
pudor meus quam timor ; veritus sum deesse Pompeii saluti, cum ille
aliquando non defuisset meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum,
vel pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego prudens ac
sciens, ad pestem ante oculos positam sum profectus (Ad Div.). Egli
sapeva cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza a yu
principio d'onore (pudor) e di gratitudine, per quel poco che Pompeo
aveva fatto onde richiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famaeque cedere
quam salutis meae rationem ducere riconferma a M. Mario. E
ritornando più tardi in una lettera a Torquato, che aveva anch’egli
seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter
ricordare in cospetto al correligionario politico nec nos victoriae
praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam
nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae nostraeque
dìgnitati videbamur sequi, nec cum id faciebamur tam eramus amentes ut
explorata nobis esset victoria. Ne è questa un’opportunistica
configurazione postuma della sua condotta di quel tempo. Basta percorrere la
sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e suo editore, uomo
consumato nell’ impresa di tener il piede in più staffe e nella difficile
arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti) per
constatare che tale veramente, cioè il senso del dovere, era il nobile
sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque
adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existimatur traiectio (Ad Alt.). E
quando Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte le parti, e C.
è ritornato in Italia, egli si cruccia proprio di questo suo atto da cui
gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile,
e si rammarica di non essere stato con Pompeo sino alla fine; “
numquam enim illus victoriae socius esse volui ; calamitatis mallem
fuisse (Ad Att.). Il principio,
insomma, che in un’altra posteriore circostanza, piena di pericoli
mortali, nella sua lotta contro Antonio, egli enuncia a Planco così : “
mihi maximae curae est, non de mea quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel
factis vel gloria, sed me patria sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio
che domina costantemente nell’animo di C., insieme con l’insormontabile
ripugnanza, o meglio con 1’ impossibilità, di venir meno al
rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare incontrastato padrone,
l’accomodante Attico gli dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “
non mihi quidem (egli risponde) cui sunt multa potiora (Ad Att.). Certo, un uomo mosso
prevalentemente da sentimenti di tale natura, nelle tragiche vicende pubbliche
da cui si trovò avvolto C., va al fondo. Resta a vedere se ciò sia un
indice di inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo che è
raggiunto (e la cosa è facile) in grazia dell’assenza di tali sentimenti, della
mancanza d’ogni freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di
coscienza, della nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di
diritto e di morale. Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera
attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo un favorito
potentissimo di Siila, era un pavido. Dimostrò ancora di non esserlo e
nel suo consolato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza di
timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò che egli, come disse di
sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella rappresentazione e
raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che titubasse poi ad
affrontarli nella realtà. Quintiliano narra : “ Parum fortis videtur
quisbusdam : quibus optime respondit ipse, non se timidum in
suscipiendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive
a Toranio: mi accusavano di essere timido, “ eram piane, timebam
enim, ne evenirent, quae acciderunt
; mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura, quae facta
sunt (Ad Dio.). Nè è giusto
accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza le situazioni e di
essersi per questa deficienza di sguardo gettato a corpo perduto a combattere
per soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita iniqua condanna
che ì posteri, aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare i vincitori
e nel dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro colui
che difese la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una
causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era giusto e
logico che essa lo fosse ; quasiché il mero fatto, il fatto del successo,
sia anche verdetto di giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la
causa storicamente prostrata non sia quella che avrebbe dovuto
vincere. Che la cosa stia così nel caso di C., lo dimostra il fatto che
la causa da lui combattuta e che vinse costituì la rovina della
vita di Roma : basta per accertarsene constatare che nella stessa
nostra memoria di posteri la vita di Roma resta chiaramente presente e attira
la nostra appassionata attenzione appunto sino ad Augusto; ci
rimangono ancora come appendice già torbida i primi imperatori ; poi
tutto ci si confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di
continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo storici di professione) non
distinguiamo piu ne nomi, nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo,
nè c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva
Roma Massimo d’Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma
quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi, intendiamoci
! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò la legge ; durante i quali
le più bollenti passioni agitate dai più vitali interessi, non cercavano
altr armi nè altre vittorie che un voto ne’ Comizi . E poco prima :
Se è giusto e vero il principio fondamentale delle Società moderne,
essere la legalità di un governo dipendente dalla volontà del popolo che
vi è governato, vorrei sapere se 1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi
dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per
sostenere la causa che soccombette, soo inadeguati. Tutto, invece, egli aveva
provvisto ; tutto quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva
cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la fedeltà dei maggiori
personaggi militari e politici ; aveva costituito e messo in campo
eserciti poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il tono
morale del popolo all’ interno. Se la causa non vinse, lo si deve, non a
un fato storico, a condizioni incoercibili insite nella realtà e
sfuggite allo sguardo di C., o al logos immanente nella storia ; ma
unicamente a due o tre puri casi, che potevano accadere diversamente e in
tal modo rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo Rosmini
che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo può sciogliere la propria mente da
molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è l’esercitarsi
a considerare le cose non solo come sono, ma come potrebbero essere. Se
vogliamo applicare questo precetto al periodo di storia in discorso (come
Renouvier in Uchwnie l’ha applicato in modo grandemente interessante
a tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi), scorgeremo
agevolmente che due o tre futili casi, per l'impero (Miei Ricordi,
Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G. Pusinieri, Rovereto, Mario] i
quali fossero avvenuti diversamente, sarebbero bastati a cambiare del
tutto la faccia delle cose; se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un
giavellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per portar soccorso ad
Antonio ormai disfatto, se Planco non avesse fatto il doppio giuoco, ciò
sarebbe bastato per far di C. il capo dello Stato romano, e perchè egli
occupasse nella politica di Roma d’allora, e nella storia, il posto
d’Augusto. E quanto lo Stato romano e la posterità sarebbero stati più
fortunati se il potere fosse venuto in mano ad un uomo di rettitudine
profonda e di vivo senso del diritto e del dovere, come C., anziché ad un
uomo la cui bassezza d animo è provata luminosamente dal fatto che,
avendo cominciato ancora puer o adolescens, come sempre C. lo
chiama, (sed est piane puer n \Ad Att. XVI, 11), ad essere qualcosa solo
per 1 appoggio datogli appunto da C. e con lo strisciarsi umilmente ai suoi
piedi (“a me postulat primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel
non longe a Capua ducem se profitetur nec nos sibi putat deesse
oportere ; binae uno die mihi
litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano cotidie litterae, ut
negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ;
mihi totus deditus; “ nobiscum hinc perhonorifice et amice
Octavius Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,
XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad una propria maggiore
ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo
egli, si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo per
mezzo dei suoi generali e specialmente di Agrippa , e non aveva il coraggio di
presentarsi nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria
(Svet. Aug. 16). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal
fatto, narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comunica mai nemmeno con
sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché
dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che egli amava stilizzare a
particolare espressività e luminosità i suoi occhi, “ quibus etiam
existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque
[Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et
après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est
le seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection
des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une làcheté
naturelle (Montesquieu, Grandeur et
Dócadence des Romains. Tanto
Cesare quanto Augusto avevano l’abitudine di citare dei versi delle
Fenicie di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva
scelto è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava
citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello violare il
diritto, è quando lo si viola per conseguire la tirannide citazione
signifìcatiice dello spirito violento e illegale. Augusto amava citare il
verso 559: è meglio per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che
essere ardito (ihf aouc) ; citazione
significatrice della vigliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e
Svetonio Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis
vultum summiteret e infine in modo palmare dalle parole (“ ecquid iis
videretur mimum vitae commode transigisse ) e dalla citazione greca richiedente
1 applauso per la commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse la sua
esistenza (ib. 99). Uomo che desta particolare antipatia precisamente
in grazia del suo proposito di moralizzare la vita romana ; perchè
niente è più ripugnante del dissoluto che si da il compito di costringere gli
altri alla virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto
aveva cambiato tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi
occhi, conducendola con sé in un altra stanza donde era ritornata
spettinata e con gli orecchi rossi, e poi introducendola in casa propria
incinta d’un altro; aveva commesso le oscenità che narra Svetonio,
irripetibili, tranne forse una : “ adultena quidem exercuisse ne amici
quidem negant; e dopo ciò faceva udire le parole ammonitrici di vita
austera e imprendeva a ricondurre i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa condotta di sua
figlia e di sua nipote, che condusse [A cool head, an unfeeling
hcart, and a cowardly disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to
assume thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid
aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same temper, he signed
thè proscription of Cicero and thè pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were
artifìcial (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio
di entrambe, e di Ovidio complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia
stessa si aveva il senso netto del come si poteva prendere sul
serio una riforma morale che pretendeva attuare un individuo di siffatta ìndole
e di siffatti precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di
Cesare si avvicinasse alla sessantina, C. non. era uomo che non
sapesse comprendere i tempi. Li comprendeva benissimo, più profondamente
e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente era in pieno vigore.
Subito dopo quell epoca egli poteva scrivere quei suoi libri di filosofia
che suscitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono e saranno letti
con entusiasmo o rispetto da tutte Coglie veramente nel segno
Aurelio Vittore : Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii
severissimus ultor, more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi
veliementer indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d. lui quel che il Boissier
dice di Domiziano : 1 ar malheur, ce prince si sevère pour les
defauts des autres, etait luimème très vicieux. 11 avait fait des lois
rigoureuses contre l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la
bile de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa la
mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait choquant, et il
n’ ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli svolgeva anzi la sua
azione politica più abile, più decisa, piu energica e più importante, e,
insieme, con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui ancora non
tocca nella forma d’arte che gli era propria : “ divina chiama giustamente un giudice certo non
facile, Giovenale (X, 125), la seconda di esse. La sua idea di portare
alla luce del mondo politico, sotto la sua direzione, il pronipote e
figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo (aveva appena diciannove anni),
accordandogli anche onori che a molti parevano eccessivi, e di riuscire
così giovandosi del nome di Ottavio a far rientrare il ribollente partito
cesariano nell’ordine costituzionale e a dominare in tal modo una
siInazione difficilissima, era una idea geniale, abilissima, da politico
grandemente avveduto, l’unica (I) Sull immensa influenza
esercitata da C. sui a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi
‘'furiente r “, Z r fe,v C f er, 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte I
d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella sua Vita di C. ( Heroes
of thè Nations Series ) dice giustamente che se si dovesse decidere quale
degli scrittori antichi maggiormente influì sul mondo moderno, la
decisione sarebbe,n favore di Plutarco e C. hrasmo, scrivendo ad un
amico, diceva che, se da giovane aonr enVa rf matUra era andato
sempre più apprezzando C.. Ld è proprio giusto il noto giu d.
Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può aggiungere:
tanto gusto letterario, quanto in retti Jne etico-politica) cui Cicero
valde placebit. G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea
che in quel terribile cataclisma poteva dar buoni frutti. Non è sua colpa
se 1 idea non riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia senza
scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e grandemente
intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come C., non fa
entrare nel suo giuoco la supposizione di una perfidia enorme, di
gran lunga travalicante la media nequizia umana, come fu quella di Augusto; nè
si può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare, e se essa
gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i suoi piani più
accortamente e sapientemente elaborati . Fra il 4 1 e il 40 a. C.,
cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, C. assume risolutamente, nel
momento più pieno di vicissitudini e pericoli, la parte di leader del
Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive a Cornificio, “ me
principem Senatui populoque romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2)
; spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti quanto
rispetto alla situazione interna, per dirigere (I) Giustamente
Platone osserva (Rep.) che le persone oneste sono facili ad essere
ingannate dai malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei
sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7
iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio,
abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi
buoni, perchè, giudicando da se, e ignorando le indoli onesti, vede
dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la
lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta scrivendo ancora a
Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con la prima Filippica: “ fundamenta
ieci reipublicae (Ad D/v. XII,
XXV, 1); e al giocondo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia e
come ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita l’avrebbe
spesa bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini
aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique sint :
nullum locum praetermitto monendi, agendi, providendi : hoc demque animo
sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi ponenda sit,
praeclare actum mecum putem (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi
mesi del 43, C. fu veramente il princeps, ch’egli aveva idealizzato
nel De republica : consigliere, esortatore, ispiratore del Senato, dei
consoli, dei governatori delle provincie
. Non è questa la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali
siano illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della sua esatta
comprensione dei tempi, basta ricordare come la riforma che occorreva allo
Stato romano, pessimamente attuata, secondo attestò la susseguente vita
F, Amateli, C. (Bari, Laterza).
Jamais C. n a joue. un plus grande róle politique qu à ce moment ;
jamais il n’a mieux mérité ce nom d’homme d Etat que ces ennemis lui
refusent (Boissier, Crcéron et ses amis]
dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata prospettata per primo da
C. nel De Repubblica. L’introduzione,
cioè, d’un nuovo e più fermo principio d’autorità sotto forma di un
rector rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae d’un “ princeps
civitatis » (De Ti,ep.). Senonchè C., con molto maggior senso della
necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano e con molta maggior
disinteressata cura di esso, non intendeva che questa riforma dovesse
rivolgersi a distruzione della costituzione esistente, bensì che dovesse
ingranarsi in essa e formarne un naturale complemento e uno svolgimento
spontaneo e logico ; “ homines non tarai commutandarum quam
evertandarum rerum cupidos , egli giudica i cesariani .(De Off.), mentre
per lui la costituzione romana, come esattamente nota lo Zielinski,
è “ capace di ogni progresso in quanto questo conducesse all’accettazione
e allo sviluppo di idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La
differenza tra il modo con cui egli concepiva la riforma e il modo con
cui la attuarono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito dalle seguenti
sue due proposizioni: “ me nunquam voluisse plus quemquam posse quam universam
rempublicam (jdd Div.); “ ego sum,
qui nullius vim plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero: la differenza
tra la concezione ciceroniana del princeps e la pratica applicazione
fattane da Cesare è resa nel bell’ emistichio con cui Lucano descrive il
modo di operare di quest’ultimo : gaudens viam fecisse ruina. Basta riflettere
a tutto ciò per scorgere tosto che non solo la mente di C. era nel
suo pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei tempi (se per
questa s’intende, non già furbesca valutazione personalmente
opportunistica delle circostanze, ma avvertimento delle necessità
profonde che ad un dato momento si presentano nella vita sociale e
politica d’un paese) era perfetta. Il * ‘ sovversivismo di Cesare è provato dal dolore che per
la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei (“ qui etiam noctibus
continuis bustum frequentabant Svet, Caes.), cioè precisamente coloro che
nel seno nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costituivano
la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la veste del
Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riuscirono. Si può anzi con
sicurezza dire che l’impero romano si deve agli ebrei, perchè furono i
loro lunghi tetri lamenti intorno al cadavere di Cesare che suscitarono
nella plebaglia quella sommossa per e attorno al rogo del dittatore, la quale
fece prender nuova forza al cesarismo. “ É noto come per la commozione
popolare che lo straziante rito ebreo provocò colle sue lugubri
lamentazioni orientali, se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la
faccia de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con Bruto
e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne vennero le lunghe
guerre civili e l’Imperio di Augusto (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano]
Mente possente, senso politico sicuro, comprensione dei tempi piena. Non si può
dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con cui C. valutò
Cesare e il movimento da costui capeggiato. Egli non vide certamente
Cesare come la sua figura si è plasmata nella storia, che corona
con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato in ogni presente la
consacrazione del bruto successo di (atto. Lo vide come glielo presentava
la realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo: Pulcre
convenit improbis cinaedis, Mainurrae pathicoque Caesarique ; E
questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare e quel Mamurra (da Catullo
soprannominato Mentula) il suo generale del genio. A permettere al quale
di “ mangiare (il verbo si usava anche
in latino con questo preciso significato) milioni su milioni, il
commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota
a tutti, se Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede
Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone
nomine, imperator unice, Fuisti in ultima occidentis insula.
Ut ista vostra diffutata Mentula Ducenties comesset aut trecenties
?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore : cosi
Catullo vede Cesare. E press’a poco così lo vede C. Egli non scorge
Cesare, quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno
costruito: gli storici, i quali (in generale) non fanno mai altro se non
aggiungere, per supino servilismo postumo, la loro adulatrice
consacrazione al successo di fatto e di solito non osano mai, per la
paura di passar per “singolari,,, sviscerare il clamoroso successo di
fatto ottenuto da un “ grande nella età in cui visse, mettendone
coraggiosamente in luce le vere molle, spessissimo casuali, o
basse, o vili, ma sempre invece per essi è “ grande colui che
nella sua epoca le circostanze, o la perfidia, o i misfatti hanno portato
in alto. Si vous avez une vue nouvelle, une idée originale, si vous présentez !es
hommes et les choses sous un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur.
Et le lecteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une
histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si vous essayez de
l’instruire, vous ne ferez que l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de
l’éclairer, il criera que vous insultez à ses croyances... Un historien
originai est 1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels».
Questo è l’abituale comportarsi
degli storici, secondo la satira, aggiustatissima, che ne schizza A.
France (L’ ile des Pingouins, préf.). Ci sarebbe solo da aggiungere che
spesso il servilismo degli storici verso i personaggi della storia che scrivono
serve al loro servilismo verso i personaggi della storia che
vivono. C. vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi, nella vita
vera, non nella luce abbagliante del mito. Esso gli appare screditato,
corrotto, senza senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la cui
vita, i cui costumi danno la certezza che si condurrà male : e sopratutto
la danno la gente che lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua
erat area scelerum! scrive ad Attico, dopo uno dei suoi abboccamenti
con lui. Egli sa che Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua
potenza accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze i
manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge ( I ) Nell'
interessantissima antologia di pagine storiche di Chateaubriand, testé
pubblicata dall’editore Tallandier sotto il titolo Scénes et portrails
historiques, si legge. Tout personnage qui doit vivre ne va point aux générations futures
tei qu’ il était en réalité : a quelque distance de lui, son epopèe
commence : on idéalise ce personnage, on le transfigure ; on lui attribue
une puissance, des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange
les hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à un
système, Les biographes répètent ces mensonges ; les peintres fixent sur
la toile ces inventions et la posterité adopte le fantóme. Bien fou qui
croit à l’histoire. L’histoire est une pure tromperie . E Montesquieu,
dal canto suo aveva già osservato : “ Les places que la posterité donne
sont sujettes, corame les autres, aux caprices de la fortune (
Grandeur et décadence des Romains. Habebat hoc omnino Caesar: quem piane
perditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam hominem audacemque cognorat,
hunc in familiaritatem libentissime recipiebat
(Fi/. Il,] radunata attorno a Cesare tutta la gente
equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu
(<x (Ad Att.), “ omnes damnatos, omnes ignominia affectos, omnes
damnatione ignominiaque dignos, omnem fere inventutem, omnem illam
urbanam et perditam plebem (Ad Att.),
tutti i giovani circa i quali pensava che “maximas republicas ab adolescentibus
labefactas,, (De Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita
iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barbatuli iuvenes, grex Catilinæ,
«feccia di Romolo, i precursori di quella che poi Giovenale denomina
«turba Remi; cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare è
raggruppato tutto il canagliume della penisola, « cave autem putes
quemquam hominem in Italia turpem esse, qui hinc absit; osservazione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio: “
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxuria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep. Ord.). Come
Catullo, C. vede con disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al
lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo (altro
comandante del genio di Cesare e sua longa manus in Roma) si costruisce
dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae? at Balbus aedificat (Ad
Att.), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il
passo perchè esso ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua
amante in un’altra sua moglie, septem praeterea coniunctæ lecticæ
amicarum sunt an amicorum ? l^/JJ
Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in C. una nausea invincibile: “ nosti
enim non modo stomachi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso- contiene
un’osservazione di indole psicologica e morale eternamente vera e colta
da C. dalla vita stessa che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl
yàp «ÒTfij péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vuluptaria
quaerenti nonne [kfifwTai ? Cioè: “
Balbo pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E
in verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma
solo il suo interesse, fa bene a far così : può dire ho vissuto La
ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non solo nelle lettere di C.,
ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine
che stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica
tirannica ed eslege, anche persone notoriamente turpi possano salire ai
più alti gradi, perchè il controllo dell opinione pubblica e la
possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al
silenzio. Non ostante, in un primo
tempo C., usando l’avveduta prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di
persuadere quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita
della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti
righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id
est, si libere, quae sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne
irascatur, deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi]
lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per C. “
hominem amentem et miserum che non ha mai conosciuta neppur l’ombra
dell'onestà, che considera la tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad
Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeterrime
facturum, uomo del quale “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti
negotii, sodi fanno ritenere che non
potrà comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La
sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per l’indole di
lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile deve pur
contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a
vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis
civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae etiamsi ad meliores
venit, tamen eos feroLa stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filippo
destava in Demostene. È circondato (egli dice) da ladri, da adulatori, da
gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere (01. 11, 19).
E Demostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto. Geloso e
ambizioso com' è (egli dice) allontana gli uomini di valore, che gli
danno ombra ; gli uomini assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue
immoralità (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs) sono
da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò; s!va'.
|ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti hanno sempre provato che è vana
speranza contare che queste ragioni facciano cadere un uomo dal potere.
L’esigenza morale non trova sanzione nella storia e nella politica.]ciores
impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut etiamsi natura tales non
sint, necessitate esse cogantur ; multa enim victori eorum arbitrio per
quos vicit, etiam invito, facienda sunt (Ad Div. IV, 9). E su
questo stesso pensiero insiste anche con Cornificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “
Bellorum enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant, quae
velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus sit, quibus adiutoribus sit
parta victoria . La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare appare
a C. un mostruoso sfacelo dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in Roma
precipitava a rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo,
senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d’ogni cosa umana e
divina, poneva i fondamenti sanguinari la tirannia degli imperatori . C. vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in Il modo genuinamente
italiano di considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
il Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che
cominciano con le parole, estremamente significanti e pregnanti,
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto
il fatto. Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente
letti, con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. BARZELOTTI
(si veda), DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE NEI LIBRI DI C.] seguito a ciò “ omnia
delata ad unum sunt (jdd Div. IV,
9) al punto che Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che
devono apparire come senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di
falsità, di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati
quanto di enti pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento
sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus voluntas a
simulatione distingui posset « (Ad Att. Vili, 9); quell’adulazione e quel servilismo,
che, diventati poi a poco a poco oramai di rito, Lucano, più tardi sotto
Nerone, stigmatizza con magnifici versi, facendone risalire 1' inizio
appunto al dominio di Cesare : V Cette abjection de la patrie releva I’
àme de C. par l’indignation et par la honte. La victoire de Cesar, au
lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès, qui est la raison du
vulgaire, est le scandale des grandes àmes (Lamartine, C., Calmati-Levy).
È un saggio, poco conosciuto, in
cui Lamartine, in forma simpaticamente piana e scevra da ogni
erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai
elevati, la figura di C.. Ne vogliamo, a conferma di precedenti
osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambitieux, les factieux, les séditieux, les
corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque,
les barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec Cesar. “
Coriolan... n’avait rien fait de plus monstrueux... et cependant
l’histoire a flétri Coriolan et a déifié Cesar. Voilà la justice des
hommes irréfléchis, qui prennent le succès pour juge de la moralité des
événements (154).] Namque omnes voces,
per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum repperit
aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,
Ausonias voluit gladiis miscere secures, Addidit et fasces
aquilis et nomen inane Imperii rapiens signavit tempore digna
Maestà nota (I). C.
vede come, appena risultò che Cesare era saldamente stabilito al potere,
non solo i “sovversivi ma anche gli “ ottimati le vecchie figure V.
386, —Si avverte che la parola “ imperium qui non significa il nostro “
impero ma “ officio pubblico legale
Lucano vuol dire che Cesare copri l’usurpazione, assumendo falsamente il
semplice nome d’un officio pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col
nome di potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel
libro, ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribunato della
Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’impero si costitui deformando e
nell’ istesso tempo assorbendo la potestà tribunicia. « L'impero non era,
in ultima analisi, che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe
dire : demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito
democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura, non gli
restava che appropiarsela nella sua sostanza, se non nella forma esteriore...
Cosi la temuta magistratura, nata per difendere la libertà del popolo,
che conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in
tirannide... costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca
» (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportunistico
comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico. “ C’est assurément ce
qui nous répugne le plus dans sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à
s’accomoder au regime nouveau
(Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche, abili a restar sempre a
galla, “ huic se dent, se daturi sint , sia pure perchè
terrorizzati, sebbene essi ora dicano che lo erano quando ossequiavano
Pompeo (Ad Alt.); come essi se^ venditant
a lui, mentre i'municipi fanno di lm vero Deum (ib. Vili, 16), e il grosso del pubblico
sta inerte, passivo, indifferente, non pensa che alla propria
tranquillità (“ otium ), non rifiuta, come non ha mai rifiutato, nemmeno
la tirannide dummodo otiosi essent, non si occupa che dei campi,
delle ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi
villulas, msi nummolos suos (ib.
Vili, 13) ; atonia che si aggravo ancora più tardi quando diventava
po^ tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est populum
romanum manus suas non in defendenda YA/I own, " plaudendo
consumere (Ad Att. AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula (I)
Anche qui si riscontra un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva
di Demostene per l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione
(egli dice) che i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora
invece hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi
iTera^ C ° Sa 'vi Persian ° e fece
la Grecia def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la
fermezza (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare
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fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità e il ventre e 1
inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ
°aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale, questo continuo
panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per C., se non
un’universale falsificazione di coscienza, quella stessa per cui più
tardi egli osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano
dato a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della patria il
titolo di parens patriae : “ potest cuiquam esse utile faedissimum et
taeterrimum parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab
oppressi civibus parens nominaretur ?,, {De Ojf. Ili, 83) . Questa
situazione che fa fremere d’orrore C. (2), nella quale egli trova che non c
e salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra
viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella malattia o
nella morte di Filippo : anche se muore, vi creerete tosto voi stessi un
altro Filippo, "ay^Éu; upet; gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In
questo stesso luogo, volendo C. dimostrare che l'utile e il giusto non
possono distinguersi, scrive fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di
Cesare di voler dominare tirannicamente la patria] si honestam quis
esse dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,
earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam putat ». Come,
aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore? Anche i re legittimi hanno
avversari ; « quanto plures ei regi putas, qui exercitu popuh romani
populum ipsum romanum oppressisset ? Ricco com’era d’un pathos etico
affine a quello di Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai
suoi scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo
tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità in noi, e che
è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori,
probitati, virtuti, rectis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati
ac Dh - V. 16), gli appare sopraia!, basata sulla menzogna e
sul falso, perchè sotto 1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che
l’atmosfera ufficiale orma, impone, circola larghissimamente quel
malcontento e quell’esecrazione generale verso ì distruttori dello Stato
legale, che egli constatava già precedentemente quando essi avevano
iniziata tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium
hominum in eos qui tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22).
Questa esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è
ora concentrata in Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai
in realta persino “ egenti ac perditae multiludini in odium
acerbissimum venerit. Invero, Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di
dover esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità e
distanza, così urtante al senso cittadinesco romano, che egli aveva finito per
prendere : dopo la sua uccisione, Mazio racconta a C. che
stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei seguent, precetti:
non siate schiavi degli uomini: non permettete che, vostri diritti siano
impunemente calpestati (Dottr. della
Virtù). Che è, del resto, il precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c-
àv&pdmwv (1, SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs
UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r» G. Reati . Vita parallele di due
filosofi avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest
ultimo, aveva detto : se un uomo come C. deve attendere per essere
introdotto da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego dubitem
quin summo in odio sim ? (Ad Att.
XIV, 1 e 2) (I). A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono
molti i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato » da
Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo « il tradimento e
l’uccisione del suo benefattore », abbia dato « perfido esempio di cuore
ingrato e irreverente » (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della
completa mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il
fatto che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per Bruto
una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo. Bruto aveva preso le
armi contro Cesare in difesa dello Stato legale : dunque conforme al
diritto. Decidere sul suo caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle
autorità legali (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già
le leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo
Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far proseguire i
processi, ordinare condanne o assoluzione, assolvere Bruto, « perdonare »
a Bruto (quasiché condannare od assolvere, e, peggio, « perdonare »,
supposto si trattasse di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e
quasiché questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello
stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più per avversare e
condannare legittimamente l’uomo e il sistema, e per ricorrere ad ogni
mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane
Marcello dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un
individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare,
è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per [Era,
insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di
recente crn tutta esattezza così : “ La crescente potenza di
Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore
assoluto, e sopprimendo la libertà della vita politica di Roma, aveva,
per primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli
questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle leggi : condanna,
anche quando « perdonava », perchè precisamente così dimostrava che
dipendeva, non più dalle leggi assolvere o condannare, ma da lui
perdonare o no. Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto
pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice
che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè
questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se non violando il
diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio, ma si astiene da
un maleficio : in ius dandi beneficii iniuria venerai; non enim servavit
is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De
Benef.). Del pari piena ragione ha C., il quale, ad Antonio, che gli
rinfacciava come un benefizio usatogli di non averlo ucciso al suo sbarco
a Brindisi, rispondeva : questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe
vantarsi un assassino per non aver ucciso taluno : quod est aliud
beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se dedisse vitam,
quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111). E si noti ancora che Seneca e
Lucano, vivendo entrambi alla corte di Nerone, il quale, pure, era della
casa Giulia, poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi
facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto miratore
contentus (Ad Helviam), il secondo
dipingere nel suo poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi
pectora Bruti. ] imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che
disertavano il partito dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le
mene degli ambiziosi, che, r er trar partito dalle circostanze ad
accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal fondo di quella
corrotta società, come marcida fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ;
le crudeltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo di violenze e di
sangue, aprirsi un varco nella folla dei concorrenti a quella specie
d’albero della cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello
Stato con le loro mille seduzioni e promesse di dominio e di saccheggio
dei beni pubblici e privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato
in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi
e degli onesti, fautori del partito repubblicano ; tutto insomma
contribuiva a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...
Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro
caratteristico orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria
intanto cresce spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo spettro
della fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le
classi medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed alla
disperazione... Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire
d’ozio e di fame (I) U.
Moricca, Introd. a C. De Finibus, Torino, Chiantore,. Ora, tanto
appare a C. falsa e menzognera la situazione che egli è certo che non può
durare. La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie circa la
restaurazione finanziaria (divitiarum in aerario ) sono cadute; è
impossibile che egli e i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare,
riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo Stato ; cadranno
da sè, per gli errori propri, “ per se, etiam languentibus nobis,,, “
aut per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est
adversarius unus acerrimus ; questa
tirannide non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id regnimi vix
semenstre esse posse. Probabilmente, ciò di cui C. avrebbe
sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il
Romagnosi descrive così : “ La temerità e l’intolleranza sono i vizi che
sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca
di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura o
non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si pecca d’intolleranza
allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad
infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della
riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e
nel rimanente lasciate operare il tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri
stimoli artificiali, le vostre correzioni minute, invece di giovare
nuociono, invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un
frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei Fattori
dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri
massimi pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute
presenti. Alle] Tale previsione di C. andò incontro ad nna smentita
colossale. Quella “ divinatio
dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e
dalla pratica, aveva la coscienza di possedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto.
E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del
sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si
sprigionava vivo in C., le seguenti: “ guai a quel popolo, nel quale,
spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali! (/,/. di Ciò. FU Giurispr. T e °
r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione dei diritti dell uomo,
da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che
vennero appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso di
questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà 1 eguale
inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render ragione, sono
tutte condizioni di questa originaria padronanza (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem
divinationi hoc plus confidimus, quod ea nos mhil in his tam obscuris
rebus tamque perturbatis umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura
dixissem, ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem
ego tam video animo, quam ea quae ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex
aliqua specula prospexi tempestatem futuram (Ib. IV, 3). Questa sicura previsione
degli eventi, questo sicuro presentimento, C. lo possedeva in effetto.
Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè
quello che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si
svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in
un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non C. Cioè che la realtà è
irrazionale e casuale, e che mai vi tu un periodo di storia che sia stato
come quello irrazionale e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo
fu quando e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in cui
egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di
soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci , cosicché Mazio — uno dei
pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua nobilissima lettera
(Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che gli
rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in cui, subito
dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i
cesariani in pericolo diceva, deplorandone la morte: che catastrofe
! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’ ingegno che aveva, non trovava la
via d’uscita, (exitum non reperiebat), chi la troverà ora ?,, (Ad Att.
XIV, I ). Ma dopo la morte di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le
cose finirono per peggiorare rapidamente. Anche C. è costretto a
constatarlo. Il tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad
Att.); Va però tenuta presente anche la profondissima osservazione
di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie
; la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui
comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle. Ils avoient
trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive » (Grandeur et décadence cfr.
XI). ] d siamo liberali dal re dai regno (yìj Di,. ’ /aj' fi marzo non consolano più come
pnma (Ad AH.): " stolta L iZZ Martmrum consolano, animis usi sumus
virilibus cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa i, fi ; e st . a
‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio 1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva
con piu libertà parlare contra illas nefarias partes
xiv r vivo che non ucci - tó ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio
che Cesare vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desiderandus.
Infatti, la situazione era diventata quale la descrive ad Attico così • “ S
ed vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides tyranni
satellites m impems ; vides eiusdem exercniis ; vides in latere veteranos. In
conseguenza il sistema di governo che C. prevedeva non poter durare un
semestre, durò invece, continuamente aggravandosi o peggiorando per
quattordici secoli, cioè per quanto visse l’impero bizantino. Ma la
fallacia di questa previste la torio all. mente di C.. E' la
fallacia propria delle menti profondamente razionali, che hanno una
fede inconcussa nella ragione ; e la mente di C. era appunto secondo la
felice dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkàrungsvers tand» (I).
A codeste menti è impossibile (I) O. c. P . 147. ammettere che la
mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo vengano a tradursi permanentemente nel
fatto, si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,
quindi è impossibile ; questo è per
siffatte menti un canone assolutamente insopprimibile, sradicando
il quale essa sentirebbero di strappar le proprie medesime radici. A
cagione della stessa forza della loro compagine razionale, è ad esse
impossibile riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda non
impedisce menomamente che essa divenga realtà e che anzi quasi sempre
nella storia umana avviene che ciò che all’ inizio la mente
scorgeva come cosa “ assurda », “ pazzesca , implacabilmente ciò non
ostante si realizza. Come buon platonico C. non poteva a meno di
essere fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov xoótotj
xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.). Nel logos egli aveva
indefettibile fede. Egli scorgeva dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria
poteva giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per lui una
conquista permanente» della civiltà, la civiltà stessa, la civiltà che non può
perire. Con tale forma di governo il suo spirito si era immedesimato ;
essa faceva parte essenziale della sua coscienza d uomo, formava il cardine su
cui poggiava tutta la sua vita spirituale. Pensare che tale [Che
tale stato d'animo fosse non solo “ ciceroniano
ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’indignazione per la caduta di
quella forma di governo si formi potesse crollare e permanentemente
scomparire, era come pensare che potesse precipitare tutto ciò che si è
sempre visto stabile, la terra, il sistema solare, ciò che è
l’incarnazione di un’eterna legge della natura. Sempre gli uomini quano si sono
trovati in una fase di cangiamento analoga a quella in cui si trovò C. e
tanto più quanto più la loro mente era fortemente razionale hanno
emesso la medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi
impossibile, quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui,
da signore romano d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “
Hic erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam
perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo audebat alium
servitio premere, cuius sibi successuri in honorem mutua forent subeunda
fastidia; nemini labor gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed
postquam dommandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle
deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit msolentiam.
Quem invenias Hominem qui sponte deponat impenum et ducatus sui cedat
insigne, fiatqe volens numero postremus ex primo ? {Hexameron, XV). ... osa et nota : lo stesso errore, la
stessa illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già
si e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa
esattamente riscontro a quello di C.. Anche Demoj. en e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva
che la potenza di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv
teXsut^v t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per lui
principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza costrutta sulla
malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma,
della vita di C., è appunto questo. II dramma dell’uomo oìjy.
laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruopxoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov
Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg
ÒTtofliaeig àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno
dieci anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea. Ad
ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni di Demostene, che
perciò sono cosi istruttive circa le illusioni in cui il « razionalismo »
induce gli uomini. Ma neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene
dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,
Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg, splendidamente
vestito, incoronato : con la morte dell’uomo, secondo lui, la costruzione
improvvisata ed effimera doveva certo crollare. E quando Alessandro si
fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille,
ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione
fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene, non poteva
reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura fantastico ottenuto
appunto da Alessandro. Gli uomini non possono rassegnarsi a credere che
una politica malvag-a possa ottenere un successo duraturo, che il male
trionfi permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia
illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti, 1
« razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal male che
sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure quell unico bene che vi si
potrebbe ricavare : quello cioè di essere definitivamente istrutti dell
andamento assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.
Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da
quelli che continuano a credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. <
Sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis
» (Lucr.). che con disperazione vede rovinare intorno a sè senza
possibilità di salvezza il mondo civile di cui la sua più intima vita
stessa era intessuta, il mondo razionale e trionfare
ineluttabilmente, in causa impia, victoria etiam foedior ( T)e Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia
ed il male, una forma di mondo umano impensabile assurda,,. 11
dramma della coscienza eticamente desta che vede con orrore ciò che essa
giudica aberrazione morale e iniquità acquistare ufficialmente il
carattere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi a restare
definitivamente sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a
poco chiaro nella mente di C. 1 ineluttabilità dell’evento, quando
egli è ormai costretto a vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: “
quae potest spes esse in ea republica, in qua hominis
impotentissimi (violento) atque intemperantissimi armis oppressa
sunt omnia ? (Ad Div. XI); quando deve
constatare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam ut allevationem
quisquam non stultissimus sperare debeat
(Ad Div.), il suo strazio non ha confini- Ciò che già
precedentemente, quando tale condizione di cose si delineava, egli
cominciava a sentire, civem mehercule non puto esse qui temporibus
his ridere possit (Ad. Div.),
diventa ora il suo stato d’animo permanente. La vita non ha più sorriso :
“ hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello del
coro degli Spiriti nel Fausi. Du hast zerstòrt Die
schòne Welt Mit màchtiger Faust ; Sie stiirzt, sie
zerfàllt ! Ein Halbgott hat sie zerschlagen ! Wir tragen
Die Triimmern ins Nichts hinuber Und kiagen Uber
die verlorne Schòne. Questo
dramma strappa a C. espressioni di dolore profondamente dilacerante. E la
sua corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e
probabilmente la letteratura d’ogni tempo ci offra, appunto perchè, come
in nessun altro scritto, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita
vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno per giorno sotto i nostri
occhi, come sotto quel dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche
la terribilità della sua rovina personale affligge gravemente C.: “ natus
enim ad agendum semper aliquid dignum viro, nunc non modo
a gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem (Ad Div.) ; ed egli ha ragione di
deplorare di essere stato travolto proprio nel momento in cui avrebbe
potuto e dovuto, cogliendo il frutto dell’opera della sua vita, toccare
l’apice della sua carriera. Omnis me et industriae meae fructus et
fortunae perdidisse. “ Casu nescio quo in ea tempora aetas nostra
incidit, ut cum maxime florere nos oporteret, tum vivere edam
puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia e
specialmente sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis una
est prò omnibus quod istam miseram patre, patrimonio, fortuna omni
spoliatam relinquam (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore di C.
non è la sua situazione personale, bensì il baratro in cui è precipitato
lo Stato.' “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius (Ad Dio.). Ego enim
is sum, qui nihil umquam mea potius, quam meorum civium causa fecerim. Ma
ora ? “ Ego vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,
insanus, si, quod opus est, servus existimor, si taceo, oppressus et
captus, quo dolore esse debeo ? (Ad Att.). Due sono sopratutto le note in
cui erompe 1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,
andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder più simili cose: “
evolare cupio et aliquo pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta
audiam egli ripete con un tragico antico (Ad Att.); “ ac mihi
quidem iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo exire, ut ea
quae agebantur hic, quaeque dicebantur, nec viderem nec audirem (Ad ‘Dio. ); longius etiam cogitabam ab urbe
discedere, cuius iam etiam nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo
(scrive a Curio) quando abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo
che sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam beatus :
quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc esse beatus potest ? (Ad Db.). E’ il desiderio che si fa
strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di
Damarato. Io giustifica cosi : num stulte anteposuit exilii libertatem
domesticae servituti ? O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi
in solitudine : “ nunc fugientes conspectum sceleratorum, quibus omnia
redundant, abdimus nos, quamtum licet, et saepe soli sumus (De Off.). In secondo luogo,
morire. “ Perire satius est, quam hos videre (Jd Db.) < Mortem] quam etiam beati
contemnere debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura (I),
nunc [Che cosa pensi intimamente C. della vita futura, risulta, non
già dal quadro, avente scopi puramente estrinseci, che traccia nel
Somnium Scipionis. ma dalla sua corrispondenza Oltre il passo sopra
ricordato, e due altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà
citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo ^ or,*. verum finis
etiam doloris futurus sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di C.
questo suo vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane: Mors.
aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in Pro Marcello c Q uo d
(la fine) cum venit, omnis voluptas preterita prò mhilo est, quia postea
nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid ei
tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?] sic affecti, non modo contemnere debeamus,
sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > ; non si sa < si aut hoc lucrum est aut
haec vita, superstitem reipublicae vivere >; « nam mori millies praestitit
quam haec pati > (Ad. AH.) ; « eis conficior curis, ut ipsum
quod maneam in vita, peccare me existimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur
consciscerem causa non visa est, cur optarem, multae causae > (ib.
VII, 3). In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto all’attività
pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare questo
pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi sumus ? »
(jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin
cogites > (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto che prevede la prossima
caduta del cesarismo, dice. Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel
discorso, riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la
pena da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di morte
appunto perchè con questa cessa la coscienza e quindi ogni male : « Eam
cuncta mortalia dissolvere ; ultra neque curae neque gaudio locum esse»
(Cat. LI). Va però notato che C. dà un’altra interpretazione a
questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era contrario alla pena
di morte. Egli « intelligit, mortem a diis immortalibus non esse supplici
causa constitutam, sed aut necessitatem naturae, aut laborum ac
miseriarum quietem esse » (In S. Catilinam).] id spero vivis nobis fore ;
quamquam tempus est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua
vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero della morte come unico scampo e
rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo
vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici : così, p. e., nel
proemio del terzo libro del De Oratore: sed 11 tamen rei publicae casus
secuti sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immortalibus vita, sed
donata mors esse videatur > (IH, 2); e così nelle Tusculane : « multa
mihi ipsi ad mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire !
nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella
restabant. Morte per sè, morte per coloro che amiamo ; questo soltanto è
ciò che lo « status ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare
: « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt, minus autem
miseri qui his temporibus amiserunt, quam si eosdem, bona, aut denique
ahqua republica, perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi
hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum aut puerum mortuum,
qui mihi non a Diis immortalibus ereptus ex his miseriis atque ex
iniquissima conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).
Ne solo nell animo di C. il trovarsi « in tantis tenebris et quasi
parietinis rei publicæ induce il desiderio di sfuggire a questo sfacelo
con la morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella bellissima
lettera con cui G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio
Sulpicio cerca di consolare C. per la morte della figlia, 1 argomento
principale che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non
pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore licitum est mortem cum
vita commutare e che Tullia visse
finché visse lo Stato, “una cum republica fuisse (Ad Dio.) ; al che C. dolorosamente
risponde che l’attività pubblica lo consolava dei dolori domestici,
l’affettuosa intimità con la famiglia delle traversie pubbliche, ma
ora “ nec eum dolorem quem a re publica capio domus iam consolari potest,
nec domesticum res publica. Ed anche in Catullo, il disgusto invincibile
suscitatogli dai “ turpissimorum honores , disgusto che faceva gemere dal
suo canto C., cosi ; “ o tempora ! fore cum dubitet Curtius consulatum
petere ? (Ad Att. XII, 49, e circa
Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione alla morte (LII) : Quid
est, Catulle ? quid moraris emori ? Sella in curulei struma Nomus
sedet, Per consulatum peierat Vatinius ; Quid est,
Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge C. qualche conforto in
questa immensa iattura ? Non dal foro che egli (interessante confessione)
dichiara di non aver mai amato e nel quale del resto oggi non c’è più
nulla da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas, unde, etiam
bonis meis rebus, fugiebam : quid enim mihi cum foro, sine iudiciis, sine
curia ? (Jld Jltt. XII, 21). Era
il momento in cui i vincitori della violenta lotta politica, giravano per
Roma baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato legale,
battuti, erano melanconici : “ Mane salutarne domi et bonos viros multos sed
tristes, et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et
peramenter observant {Ad Div.).
Due di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a prender
lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con questo pretesto, lo
sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a C. qualche
sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior misura, egli ne ricava dal far
udire, quando e come era possibile, qualche parola di ammonimento.
Così, pur avendo risoluto di non più parlare in Senato, allorché
sulla universale istanza di questo, Cesare amnistia Marcello (che non
aveva fatto nessun passo per essere richiamato e sembrava non desiderarlo e che fu, del resto, assassinato da un
suo impiegato nel momento in cui stava per partire alla volta di Roma), C.
prende la pa (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni immorali
rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come un torto, di essere
afflitti o melanconici. Cosi quella voce si fa udire, secondo Seneca : c
Istos tristes et superciliosos alienae vitae censores, suae hostes,
publicos paedagogos assis ne feceris » (Ep.). ] rola per ringraziare il
dittatore ; ma sa anche attraverso i ringraziamenti esporgli il parere
più libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia sentito. “
Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1 ardue di significargli) hic
exitus futurus fuit, ut devictis adversariis rem publicam in eo
statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua divina
virtus admirationis plus sit habitura quam glonae . (Pro Marc. Vili). Tu
devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria, del giudizio che
daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare ciò che tu fai, non
cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di coloro che
giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non avrai
ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre ricordato, ma
non con giudizio concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,
sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii laudibus ad caelum res tuas
gestas efferent, alii fortasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi
belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut illud fati fuisse
videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo linguaggio da
cittadino onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna
riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben più vivaci attacchi
contro di lui, con tolleranza ed equanimità, “civili animo,, (Svet,,
Caes., 75). Anche C. nella sua corrispondenza talvolta constata che
Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1
uso del potere per far tacere censure al detentore di esso, e
persino per impedire di rispondere agli attacchi, comincia con
Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita del
cui figlio il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e
a prostituire poi il suo genio a colui che tra questi occupa nella
storia per bassezza e nequizia uno degli nam et ipse, qui plurimum potest,
quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam videtur Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è
la stessa cosa che accadde con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non
è straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo personale
lo rende incline alla benevolenza verso gli altri, a diffondere anche
intorno il sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un uomo
dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso
trionfo, quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro
e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la
sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire
altri uomini. Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio mette in
bocca ad Emilio Lepido : Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab
externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque consuhs et aliorum
principum, quos fortuna belli consumpserat, satiatus : sed tum crudelior, curri
plerosque secundae res in miserationem ex ira vertunt (Hist. Fragni.). Raramente, si, ma però
talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi
sempre più bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali
ingenio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala patefecit (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, dedica la
sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee Egloga) nell’elegante
epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4) che non si può più
scrivere dove in risposti si può proscrivere : temporibus triumviralibus
PoIIio cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait: g
taceo ; non est emm facile in eum scribere qui potest proscribere
(2) Più ampio conforto ricavò C. dagli studi, bbene una volta
fuggevolmente accenni che forse senza la sua cultura sarebbe più atto a
resistale! exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma- Si vegga
nel libro diV. Alfieri D»/ p •, » I J1 '> e la dimostrazione che questa
viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna e ha per
base il vero robusto pensare e sentire tm-,1 niente manca in VIRGILIO (si
eda) (L.) “ V -esse avuto
nell’animo quella P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli
stesso e quindi assai maggiore il suo libro (L. II C VI • vegga anche il C. Vili) E
il Canti 1 . Ci j ;•, C S ‘
uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D VIRGILIO
(si veda) si lascia traricchire anche Boissier, Lopposition sous tes
Césars p. I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la
fonte il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente
versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est .
(Ad Alt.) ; e sopratutto dallo studio della filosofìa, la passione per la
eguale '’quotidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad
prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia levare animum
molestiis possit. (Ad Dio. IV, 4).
Le sue lettere di questo periodo sono piene delle sue attestazioni che
non vive se non negli studi filosofici e non trae conforto che da essi.
Ad aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero
dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi
gli anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. Nisi
mihi hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem
me non haberem (Jld Alt.) Equidem
credibile non est, quantum scribam die, quin etiam noctibus, nihil enim
sommi. “ Nullo enim alio modo a miseria quasi aberrare possum. Vero è che
le afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avvenire, derivanti
dal pessimo andamento degli affari pubblici, non permettono piena pace
nemmeno nello studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo, si
non bono, at saltem certo statu civitatis, haec inter nos studia exercere
possemus ! Però, appunto in tali
circostanze, “ sine his cur vivere velimus ?
(Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trattati di filosofia di C., circa i
quali si cita sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “
sono copie cascatagli dalla penna
scrivendo al suo amico e certo come convenzionale espressioni
t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad X ’ ’ ma 51
dimentica di affrontare tale fra e con le sue numerose e consuete
esternaziom dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli
off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles (ib. XII 38) egli dice di star
scrivendo ; quanto alle Jìc G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere
ne aVud, cos quidem simile quidquam
le chiama “ argutolos libros
^ XIli.Y 8,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ”
r/4. ); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve hementer probati (ib.)
e così il De Finibus ib ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico
bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M AA- ( eSpnme anehe,a sua Propria
soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle pbcent,
maHem tibi dice dei libri, perduti d! Giona (Ad Ali). In particolare, i|
e sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente si prendono
per un mero esercizio letterario, sono invece un libro profondamente
vissuto, rampollato da a tragica realtà di vita i cui C." si
dibatteva e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e forza in quelle
circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se C. gl, scrive : “ quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane
gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut paratius (XV, 2 e
v. anche XV, 4). Bel libro, che in ogni epoca, nelle medesime circostanze
da cui esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato scritto
: “die Eroica der romischen Philosophie come con calzante espressione lo
definisce lo Zielinski. Ma il supremo conforto di C. è un
altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella filosofia come
un’occupazione mentale opportuna a distornare il pensiero da quello che
poi Lucano, il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri
datum, quanto nel rivivere in sè i concetti della filosofia come atti a fornire
forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una
situazione politica e sociale particolarmente triste : filosofia cioè non come
“ostentationem scientiae, sed legem vitae
( Tusc.). Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi
si servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente Moricca. Saremmo
forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione
rettorica, se non pensassimo che quelle parole... furono scritte per una
generazione d’uomini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore
. Un libro di morale dell’epoca di C. è da considerarsi non come una
fredda e vuota argomentazione rettorica bensi come un’eco squillante
delle voci del passato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo il
testo di Trannoy, Les Belles Lettres. bisogno di vivere tali precetti A' i,•
. ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl gere a ciò, C. Lnl
f" 0 S ° rZ ° per 8 iun ' maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0
i'I “ na consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl profecto anfe me
TeZ. ^Z 'T consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s serint
librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P' esso talem ; totos die® U
c °nsolationem quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci
™ XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor
(Ad 4tt 'a ll'Tlzr ™ di r'* d«e meditazioni morali!^
e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4
stoicismo, di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, ° e d oppressivi,
uomm Lme° Tm "p" ^ tehi vid.o Prisco fornirono ° Peto ed
EI ’ e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni, .1
hiosofo :z :L: r, ai ^ cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n
el mondo ci i,Tat' e ' x:; a ” d f « molti tenevano
costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi coscienza e confortatore,
iHoro ZofoOX. Plauto, fatto morire da Neron» • mi istanti assistito e
confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac.,
Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et socratici viri ! (esclama C., qui,
veramente riguardo a traversie di carattere privato). Numquam vobis gratiam
referam Un immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9).
Attico (egli scrive al suo liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede
che sia sempre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae septus
sim (Ad Div.). La disperata e
rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego non ferrem nisi me in
philosophiae portum contulissem (ib.
VII, 30). “ Equidem et haec et omnia quae homini accidere possunt sic
fero ut philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non modo ab
sollecitudine abducit, sed etiam contra omnes fortunae impetus armat, tibique
idem censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quidquam m malis
numerandum (Ad Di\>.) E
noi vediamo veramente questo pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo
sforzo di distornare il proprio interesse da ogni cosa esteriore per
concentrarlo unicamente nel nostro comportamento, e m ciò trovare
appagamento e pace (questo, come si può chiamare, ottimismo della
disperazione, che e il solo che resta nei momenti di maggiormente
infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto, riconoscendo tale inguaribile
infelicità, trovare an Demetrio: e Seneca dice di Cano. dato al
supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni Losophus suus (De Tranq. An.). man phi- ] cora
una tavola di salvezza), vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo
svelarsi sempre più chiaro agli occhi di C. e proprio come postogli
innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim sentio, id demum, aut
potius id solum esse miserum quod turpe est
(Ad Att. Vili, 8 e v. anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis
qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse sapientis
praestare nisi culpam (Jld Dio. IX,
19). Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per cui un
uomo di indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli spettacoli
naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, delI attività
pubblica e anche della ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio politico,
risospinto entro se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita
soltanto nel proprio retto comportarsi. Le meditazioni filosofiche
(scrive a Varrone) ci recano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in
re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit, ut medicmae egeamus
eaque nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad r
i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sentimento a cui C. è ora
pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza,
viene a intrecciarsi. “ Nunc vero, eversis omnibus rebus, una ratio
videtur, quicquid e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium
rerum mors sit extremum magna enim consolatio est cum recordere
etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque sensisse (Ad Div.). “ Nec
enim dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ; et si non ero,
sensu omnino carebo (ib. VI, 3) Il
crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen ita viximus et id aetatis
iam sumus, ut omnia quae non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre
debeamus (Jld Div.). E tali
pensieri, tali alti ed austeri conforti ed incoraggiamenti, i grandi
spiriti di quel periodo si scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto
il dolore per la catastrofe dello stato era largamente sentito, sia
dell’estensione che a lenimento di questo dolore siffatto ordine di
pensieri allora aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i
nefasti avvenimenti politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec
extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se C.
ad ogni momento ripete di sè quidquid acciderit, a quo mea culpa absit,
animo forti feram (Ad Div.), nec esse ullum magnum malum praeter culpam.
Sed tamen vacare culpa magnum est solatium. Se per sè pensa -- fortunato,
quam existimo levem et imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a
saxo frangi oportere. Se l’esperienza di quella dolorosissima fase
lo fa approdare alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a
recta conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) —
queste sono amici, « a Lucccio humanas
contemnentem et opule Cont r 7 c g
vi {Ad0 7 casu, et
deiicto h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ digni et Ss
TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus) : e a Torquato ‘ ‘ f T
Tectl8s (A. praesertim quae
absit a ancora a Torauato “
P ) e delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina teperiri,
praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7 “r: e, atque
noTZIt,» questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a
anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ? scrive Sulpicio in morte di
Tullia) Cicerón 1 et eum aui a Ine ' '-',cer
°nem esse ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare conIli silium quae
alns praecipere soles, ea tute tibi subirne, atque apud animum propone;
vidimus aliquotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam fac ahquando
intelligamus adversam quoque té aeque ferre posse. Dalle lettere di C. si
potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica da servire
efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è
forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono in ogni
tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora
che non i suoi trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove
egli dava sistemazione teorica alle medesime idee 1 qual, però appunto
perchè non contengono se’ non quelle dee morali che, suscitate in C.
dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua corrispondenza, ci si
ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su
dalla vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte da
questa facevano stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama
giustamente C. lo] Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO
essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nascondeva impaurito un libro
sotto la oga, glielo prese, e visto che era di C. ne lesse un
tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo • uomo dotto e amante della
patria, Xó r,o : *vl' ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo (come al so’
hto) riconoscimento del meriti di colui che egli aveva raggirato,
tradito, abbandonato al carnefice Ma C. e qualcosa di più. Spirito
altissimo e st'anzetn m n “'T'? 1 "” da »! le circoero \ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.
sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma d dolore
enorme, egli seppe da questa esperienza d, dolore trarre un-espenenza
morale di elevazione e di purificazione del dolore stesso nel fuoco
della filosofia intesa come via, di cui molti e b dTrendl' '
aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende appassionatamente
attraente la sua grande figura alla quale veramenle-secondo un
penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e
Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava Sr p
a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma parentem, Roma
patrem patriae C.m libera dixit. Platone Ultime pubblicazioni
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GIOII AD ERENNIO VOLGARIZZATI
da GALLONI NAPOLI TIPOGRAFIA
ITALIANA Liceo V. E. al Mere (e Ilo LA RETORICA
Avvegnaché, impedito d agli affari domestici, a fatica io possa dar tempo bastante allo
stadio, o questo medesimo tempo, che mi
è concesso, più volentieri io soglia
nella filosofia impiegare, nondimeno la tua volontà, o Gaio Erennio, mi ha
mosso a scrivere dell’ arte del dire, acciocché tu non islimassi o non aver io per amor tuo voluto o
sì veramente avere la fatica fuggito. E
tanto più studiosamente quest’opera ho presa, in quanto che sapeva che non senza un motivo volevi imparar
la Rettorica. Imperciocché non picciol
frutto ha in sè l’abbondanza del dire
congiunta alla facilità dell’orazione, se governata venga da una diritta
intelligenza, e da una ragionevole moderazione di animo. Laonde io ho lasciate
da parte quelle cose, che per una specie
di ostentazione gli scrittori Greci nei
loro libri raccolsero. Li quali per non parere
di saper poco andarono in cerca di cose al tutto LA RLTTORICA (estranee,
a cagione che l’arte si giudicasse cosa
difficile ad apprendersi: ed io per lo contrario non ho tolto che quelle, che mi parevano
dirittamente appartenere al suggello.
Imperciocché io, non già per la speranza
del guadagno o da una vana ambizione stimolato, mi sono posto a scrivere,
siccome fanno molli , ma sì solamente per appagare , com’ io poteva, i tuoi dcsiderii. Ora, per
non proceder tropp’ oltre con vane parole, comincerò a trattar l’argomento, avvisandoli in prima che
l’arte senza l’assiduilà del dire non
giova gran fatto; talché devi intendere che questa ragione del precetto vuol essere acconciala nell’esercizio. II. Il dovere dell’oratore si è di poter
parlare di quelle cose, che all’ uso
civile sono regolate dalle costumanze e
dalle leggi, conciliandosi, per quanto
ei può, l’approvazione di chi lo ascolta.
Tre sono i generi delle cause, che l’ oratore deve prendere: il dimostrativo, il deliberativo,
il giudiziale. 11 dimostrativo è quello, che si propone o la lode o il biasimo di alcuna determinata
persona. Il deliberativo è quello che, proprio alla consultazione, ha perfine o
il persuadere o il dissuadere. Il giudiziale è quello che, proprio alla
controversia, comprende in sé accusa o dimandagione con difesa. Dirò ora le condizioni, che aver
deve un oratore: poscia dimostrerò come
debbono essere trattali questi tre generi di cause. È neccssa Digitized by Google rio adunque die un oratore abbia
invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, e pronunciazionc. L’invenzione è
un pensamenlo di cose vere o verisimili,
che valgano a far degna di approvazione la causa. La disposizione è un ordine c
una distribuzione delle cose, la quale
c’insegna dove debbasi collocare
ciascuna di esse cose. L’elocuzione è alle cose trovate un adattamento di
parole e sentenze idonee. La memoria è
un fermo comprendimento dell’animo delle cose o delle parole, c della disposizione loro. La pronunciazione
è un moderamento della voce del volto e
del gesto con • venustà. Tre cose
ciconduconoall'acquisto di tutte queste
doli; l’arte, l’imitazione, el’esercizio. L’arte è un insegnamento, che ci somministra una via
determinata c la maniera del dire. L’imitazione è quella, per la quale noi
siamo spinti con sollecita cura a voler
rassomigliare ad alcuno nel dire. L’esercizio è un assiduo uso, ed una
consuetudine del dire. III. Poiché
adunque abbiamo dimostralo quali cause
dee prendere l’oratore, e di quali doti essere
fornito, diremo ora come si possano queste proprietà dell’oratore
applicare alla composizione di un
discorso. L’invenzione compiesi tutta in sei
parti del discorso, cioè in esordio, narrazione, divisione,
confermazione, confutazione c confusione. L’ esordio è principio di orazione,
pel quale l’animo dell’ uditore si dispone
all’ attenzione. La (i LA
UETTOIUCA narrazione è l’esposizione di
cose avvenute, o che si danno come
avvenute. Ln divisione è quella, per cui
poniamo in chiaro ciò, che si ha per consentito, o che si adduce in
controversia; e per cui esponiamo le
cose di cui dobbiamo tratiare. La
confermazione è una esposizione dei nostri argomenti con affermazione.
La confutazione è un solvimenlo degli argomenti conlrarii. La conclusione è un artificioso termine del discorso. Ora,
poiché ad una colle doti proprie dell’
oratore, siamo ^ nuli, onde la cosa
fosse più facile a comprendersi, a far parola delle parti del discorso,
attribuendole all’ invenzione, sarà conveniente di parlare innanzi dell’
esordio. Posta la causa, affinché l’esordio sia più acconcio al soggetto,
bisogna esaminare qual è il genere della causa. Quadro sono i generi delle cause, l'onesto, il turpe, il
dubbio, e l’umile. La causa è detta del
genere onesto, quando noi difendiamo
ciò, che sembra meritevole di essere difeso da tulli, od oppugnamo ciò, che sembra meritevole di essere oppugnato
da tutti, come se parliamo in favore
d’un uomo prode o contro un parricida.
Si chiama genere turpe, quando si
oppugna cosa onesta, o si difende quella,
che è disonesta. Dubbio genere è, quando la causa è in parte onesta e in parte disonesta. Umil
genere è, quando si mette innanzi cosa comunemente dispregiata. Stando le cose in questi
termini, converrà adattare la qualità
degli esordii al genere della causa. Due
sorti di esordii vi sono: l’esordio diretto, che i Greci chiamano proemio, c l’
esordio per insinuazione, detto da loro
efodo. L’ esordio diretto è quello, pel
quale senza più ci possiamo rendere 1*
animo dell’ uditore disposto ad udirci.
Esso si tratta in guisa da far per l’appunto attenti, docili, e benevoli gli uditori. Se noi avremo
il genere della causa dubbio, cominceremo dal dimandare benevolenza, onde non
ci riesca di danno quella parte, ch’ei conterrà, di bruttezza. Se il
genere della causa sarà umile,
ecciteremo l'attenzione. Ma se il genere
della causa sarà turpe, allora useremo
l’esordio per insiimazione (del quale parleremo più sotto), a meuo che non ci fosse avvenuto di
trovar cosa, per la quale, accusando
l’avversario, potessimo ottener benevolenza. Se poi il genere della causa sarà onesto, noi potremo a nostra
volontà usare o non usare I’ esordio
diretto. Se vorremo usarlo, o ci
bisognerà mostrare ciò, che fa onesta la
causa, od esporre brevemente il soggetto, che
prendiamo a trattare. Se non vorremo usarlo , ci bisognerà incominciare citando una legge, un
testo, o qualche altra cosa, che sia di fermo appoggio alla nostra causa. E
poiché noi vogliamo avere l’uditore
docile, benevolo, ed attento, farò aperto
in che modo si possa ciascuna di queste tre cose ottenere. Noi potremo
aver docili gli uditori, se esporremo
brevemente il punto principale della
causa, ed ecciteremo la loro attenzione; perocché è docile colui, che è disposto ad ascoltare
attentamente. Li avremo attenti, se noi prometteremo di aver a dire cose importanti, nuove,
straordinarie, o cose, che riguardino lo stato, o coloro stessi, che ci
ascoltano, o il culto degli Dei immortali;
e se pregheremo che ci ascoltino attentamente; e se esporremo con ordine le cose, che noi
prendiamo a trattare. V. Benevoli ci
possiamo rendere gli uditori per quattro
modi: parlando di noi medesimi, degli avversari^ degli uditori, e del soggetto
stesso. Noi riporteremo benevolenza
parlando di noi medesimi, se loderemo senz’arroganza l’uffìzio nostro, o ricorderemo ciò, che facemmo a prò della
repubblica, o dei parenti, o degli amici, o di quelli stessi, che ci ascoltano;
purché tutte queste cose si convengano
al soggetto, di cui si tratta. E parimente se andremo discorrendo le miserie
nostre, siccome povertà, carcerazione,
avversità; c se pregheremo che ci diano aiuto, e dimostreremo nello stesso tempo che non abbiamo voluto collocare
in estranei la nostra speranza. Noi
accatteremo benevolenza parlando degli avversari, se li addurremo nell’odio, nell’invidia, nel dispregio. Li
addurremo nell’ odio, se manifesteremo
di essi alcun fatto o 4 turpe o orgoglioso, o perfido o crudele, o
arrogante, o malizioso, o iniquo. Li trarremo nell’ invidia, se porremo innanzi
la loro forza, la potenza, la fazione,
le ricchezze, l’ambizione, la nobiltà, le
clientele, l’ospilalilà, le amicizie, le parentele: o dimoslremo ch’eglino più confidanoin queste
cose che nella verità. Li avvolgeremo
nel dispregio, se metteremo innanzi la
loro inerzia, la dappocaggine, la pigrizia, la lussuria. Noi raccoglieremo
benevolenza parlando degli uditori, se recheremo in mezzo i giudizi nei quali essi diedero prova
di coraggio, di sapietqp, di clemenza, di magnanimità; e se faremo aperto quale slima si abbia di
essi, c quale sia l’aspettazione del
presente giudizio. Parlando poi del soggetto medesimo ci renderemo benevolo l’uditore, se innalzeremo la nostra
causa lodandola, e deprimeremo quella
degli avversari dispregiandola. : ì-m VI. Parleremo ora dell’esordio per
insinuazione. Tre sono le occasioni, in
cui non possiamo usare l’ esordio
diretto, le quali sono diligentemente da
considerare; o quando abbiamo una causa disonesta, voglio dire, quando
il soggetto medesimo ci fa contrario l’
animo dell’ uditore; o quando 1' animo dell’ uditore pare essere stato persuaso
da chi innanzi parlò contra noi; o
quando esso è già stanco delle parole di chi arringò prima. Se dunque la causa è del genere turpe, potremo per
insinua 10 LA RETT0R1CA zione cominciare con queste ragioni: essere
d’uopo riguardar la cosa, non la persona
; o la persona, non la cosa; non
approvare neppur noi quelle azioni che gli avversari nostri affermano essere
stale fatte, e sì essere indegne e
nefande. Appresso, allorché avremo discorso a lungo della gravità del fatto, proveremo che nulla di simigliando è
stato da noi commesso; o metteremo
innauzi un giudizio pronunziato da altri
giudici intorno ad una causa simile, o
identica, o minore, o maggiore. Di poi a
poco a poco ci accosteremo al nostro soggetto, e verremo a confrontamenlo. Ottenerli pure lo
scopo, se dichiareremo di non voler dir nulla degli avversari o di alcun fatto toro, e nondimeno
copertamente ne parleremo lasciando sfuggir parole. Se 1’ uditore sarà stato persuaso, vale a
dire se il discorso degli avversari avrà
indotta la convinzione negli uditori (
il che non sarà diffìcile di conoscere, poiché ci sono noti i mezzi, con cui
possiamo indurre la convinzione ); se
noi, dico, giudicheremo indotta la convinzione, ecco quali saranno le diverse maniere ondeinsinuarci per entro alla
causa: prometteremo in prima di parlare di ciò, che l’avversario avrà messo innanzi come suo più
fermo sostegno; o cominceremo da uno de’suoi detti e soprattutto da uno degli ultimi; o useremo
la forma del dubbio, mostrandoci incerti
di ciò che dobbiamo dire o confutare in
prima con pieno nostro stupore. Se poi sarà di già stancala F attenzione dell’
uditore, noi cominceremo da qualche
cosa, che muover possa il riso, come sarebbe o da un apologo, o da una favola, o da un
contraffacimento, o da una storta interpretazione, o da una inversion di parole, o da un equivoco, o da
un indovinello, o da uno scherzo, o da una giulleria, o da una esagerazione, o da un acconciamento e
mutamento di lettere; e inoltre promovendo aspettazione, recando una
similitudine, una novità, un fallo
accaduto, un verso; o approfittandoci ad una
interpellazione, ad un sorriso di alcuno; o promettendo di lasciar da
parte molte cose, che avevamo in animo
di dire; e di non voler parlare in quella
forma, in cui sogliono gli altri, con esporre brevemente in questo caso
e il metodo altrui e il nostro. VII.
Ecco il divario, che passa tra F esordio per
insinuazione e F esordio diretto: l’esordio diretto deve esser tale, che subitamente, recali
innanzi gli argomenti già da noi detti,
ci rendiamo F uditore o benevolo, o
attento, o docile: ma l’esordio per
insinuazione deve esser tale, che copertamente per dissimulazione diveniamo al medesimo scopo
di ottenere l’esposto vantaggio
nell’esercizio del dire. Ma questi tre vantaggi benché si debbano aver di mira per tutto il corso dell’orazione,
voglio dire che gli uditori ci si
mostrino continuamente attenti, docili e benevoli; pure ciò debbesi soprattutto
cercar di conseguire a prò della causa per mezzo appunto dell’ esordio: Ora mostrerò quali
sono i difetti, che dobbiamo schivare
per non fare un esordio vizioso. Nel
cominciare il discorso conviene aver cura che il dire sia piano, e le parole
comunemente accettale nell' uso per non essere tacciati di affettazione. È un
esordio vizioso quello, che può
convenire a più cause; il quale esordio
chiamasi volgare. Parimente è vizioso quello, che si adatta così alla causa dell’ avversario
come alla nostra; il quale chiamasi
comune. È anco vizioso quello, onde l’
avversario può far uso contro di noi,
indottavi una leggiera mutazione. Medesimamente è vizioso quello, che è
composto di parole troppo studiate, o è
troppo lungo; e sì quello, che non par
nato naturalmente dal soggetto, di guisa
che si leghi senza stento alla narrazione ( il qual chiamasi esordio staccato, e in cui si
comprende anche l’esordio traslato); e
quello finalmente, che non rende nè
benevolo, nè docile, nè attento l’uditore.
Vili. Ma dell’ esordio basti il fin qui detto: passiamo ora alla
narrazione. Di narrazioni ci ha tre
generi. Il primo è quando esponiamo un fatto, e ne tiriamo ogni circostanza a nostro vantaggio
per ottenere vittoria; il qual genere appartiene appunto a quelle cause, che si espongono ad essere
giudicate. Il secondo genere di narrazione è quello, che alcuna volta
interviene nel mezzo della causa per motivo di prova, o di accusa, o di
transizione, o di ap-* pareccliiamento,
o di lode . Il terzo genere è quello,
che è bensì estraneo alla causa civile, ma nel quale conviene nulladimeno esercitarsi per poter
più acconciamente trattar nelle cause quei due generi di narrazione, che abbiamo detto di sopra. Di
colesta narrazione ci ha due specie, 1’
una che riguarda le cose, l’altra le persone. Quella specie, che riguarda le
cose, ha tre parli, la favola, la storia, la supposizione. La favola è quella,
che contiene cose, nè vere nè
vcrisimili; come quelle, che si hanno
nelle tragedie. La storia è un fatto accaduto, ma lontano dalla memoria del tempo nostro. La
supposizione è una cosa finta, ma che nondimeno potè accadere, come i fatti supposti delle
commedie. Quel genere di narrazione, che
riguarda le persone, deve contenere le grazie del dire, la diversità dei caratteri, la gravità, la leggerezza, le
speranze, i timori, i sospetti, i
desiderii, la dissimulazione, la pietà,
i variamenti delle cose, i mutamenti della
fortuna, gl’ inaspettati mali, losubite allegrezze, i lieti fini. Ma l’esercizio è maestro a
siffatto genere di narrazione.
Discorriamo ora solamente di quel genere
che è proprio di una causa vera. IX. È
necessario che la narrazione abbia tre qualità, che sia breve, chiara, e
verisimile: le quali condizioni, poiché
sappiamo essere indispensabili, vediamo come si possano conseguire. La
narrazio* ne sarà breve, se cominceremo là donde è necessario incominciare; e
se non risaliremo alle prime origini
delle cose; e se narreremo sommariamente
e non partilamente; e se non discenderemo sino alle ultime conseguenze, ma ci fermeremo là
dove basti ; e se non daremo luogo a
digressioni; e se . non devieremo dal
soggetto, che avremo preso; e se in
guisa esporremo gii esili delle cose, che indovinar si possa ciò che è stalo
fallo innanzi, benché noi lo tacciamo; come se, per esempio, dirò: « che io sono ritornalo dalla provincia »,
s’ intenderà ancora che io era andato nella provincia. E al lutto sarà meglio tacere non solo ciò che è
contrario alla causa, ma anche ciò che non è ad essa nè contrario nè favorevole. Ed è anco a guardare
di non ripetere due o tre volle la cosa
medesima; e di non ripigliare a capo di
ogni frase ciò che è stato dello in
finediognuna, come in questo esempio : « Simone arrivò la sera da Atene a
Megara; dappoi che fu arrivato a Megara,
lese insidie alla donzella; dappoi che
le ebbe tese insidie, lefe’ violenza nel luogo stesso ». La narrazione sarà
chiara, se noi esporremo prima ciò che è stalo fatto prima, e conserveremo l’ ordine delle cose e
dei tempi così come le cose saranno
state fatte, o come sarà verisimile che siano state falle. E qui sarà da vedere che noi evitiamo la confusione, gli
avviluppamenli, le ambiguità, i vocaboli nuovi, le digressioni estranee al
soggetto; clic non risalghiamo troppo ai principii; che non discendiamo troppo
alle ultime cose; che non ommelliamo nulla di
ciò che spetta al soggetto; e finalmente conseguiremo la chiarezza, se
osserveremo i precetti, che pure
riguardano la brevità; perciocché quanto più
la narrazione sarà breve, tanto più sarà chiara e facile ad intendersi. La narrazione sarà
verisimile, se noi diremo conformamente
al costume, all’opinione, alla natura; se ben converranno gli spazii de’ tempi, i caratteri delle persone, i
motivi delle deliberazioni, le
opportunità de’ luoghi, affinchè non ci
si possa opporre o che il tempo non è stato
bastevole, o che non eravi alcun motivo, o che il luogo non era conveniente, o che quelle
cotali persone non potevano essere o agenti o pazienti. Se il fatto, che si narra, è vero, pur
bisognerà, narrandolo, osservare tutte queste condizioni; perchè, se non si
osservino, la verità può sovente non essere
creduta. Se poi il fatto è supposto, tanto più
bisognerà osservarle. Finalmente converrà usare cautela nell’oppugnare quei falli, che
sapremo essere testificati o da uno scritto degno di fede, o dall’autorità rispettabile di taluno. Quanto
alle cose, die ho fin qui dette, credo di concordare con tutti gli altri scrittori dell’arte; se non
che ho detto alcun che di nuovo intorno
agli esordii PER INSIUNAZIONE, o perusare l’espressione di Grice, IMPLICATURA
–Holdcroft, Forms of indirect communication -- avendoli io solo, fra tanti
altri, distinti in tre classi, affinchè
una via al tutto certa avessimo, e una regola chiara in tal genere di
esordii. X. Ora, poiché mi rimane a
parlare di quella parte dell’
invenzione, in cui principalmente consiste P arte dell’ Oratore, farò che non
paia aver io nella trattazione di questa
parte posto minor cura di quello che P
importanza del soggetto richiede, quando
avrò prima dello alcun che intorno alla divisione delie cause. La divisione
delle cause è distribuita in due parti. Terminata la narrazione, noi dobbiamo primieramente mostrare in che
conveniamo cogli avversari, e poscia, se sono a noi vantaggiosi i punti, in cui
conveniamo, passare a ciò che è soggetto
di controversia. Per esempio: «Che da
Oreste sia stala uccisa la madre, convengo cogli avversarli; che egli abbia ciò fatto a
drillo, o che gli sia stato ciò lecito,
ecco il punto che è soggetto a
controversia ». Ed egualmente nella risposta :
« Che Agamennone sia stalo ucciso da Clilennestra, tutti Io affermano,
ma benché ciò sia, pure pretendono che
io non doveva vendicare mio padre ». Fatta la divisione, noi dovremo ricorrere
alla distribuzione, la quale pure ha due
parti, cioè l’enumerazione e la esposizione , L 1 enumerazione consiste nel dire il numero delle cose, di
cui prendiamo a parlare; e non bisogna che nel numero abbia più di tre parli; perchè il dirne più o
meno è cosa pericolosa, e può mettere nell’uditore il sospetto di meditazione e
di artifizio ; la qual cosa toglie fede
al discorso. L’esposizione poi consiste
nel mettere innanzi con brevità e senza ommissioni le cose, delle quali togliamo di
parlare. XI. Passiamo ora alla
confermazione, e alla confutazione. Tutta la speranza della vittoria, e tutto l’affare della persuasione sta nella
confermazione e nella confutazione;
imperciocché quando avremo esposte le
nostre prove, e distrutte quelle dell’avversario, noi avremo intieramente
adempiuto al1’ uffizio dell’ Oratore. Noi potremo adunque trattare egualmente
queste due parti della confermazione e della confutazione, se ci sarà aperto
(ostato della quistione. Quattro stati
di quislione statuirono gli altri retori; ma Ermete, mio maestro, non ne ammise che tre, non già perchè volesse
levar via qualche cosa di ciò che quelli
attribuirono alla parte dell’
invenzione, ma per mostrare che essi
separarono in due ciò che era d’ uopo presentare nella sua semplice ed indivisibile unità. Lo
stato della quistione è il primo
conflitto del difensore contro l’
imputazione dell’ accusatore. Tre sono adunque,
come ho detto, gii stati della quistione,
il congetturale, il legale, il giurisdiziale. Lo stato è congetturale, quando vi è controversia di
fatto, a cagione di esempio: « Aiace,
allorché conobbe ciò che fatto avea
durante il tempo del suo delirio, si trafisse con la spada in un bosco. Vi
capita Ulisse: vede 1’ ucciso; gii leva
dal corpo il ferro insanguinato. Sopravviene Teucro; vedendo il fratello
ucciso, ed il nemico del fratello con la spada in mano tinta di sangue, accusa
Ulisse di assassinio ». Qui, poiché si
cerca la verità per congettura, vi sarà
controversia di fatto, e da ciò chiamasi congetturale lo stato della
quistione. XII. Si chiama stato di
quistione legale, quando sorge
controversia intorno ad uno scritto. Siffatto
stalo ha sei parli, lettera e spirilo, leggi contraddittorie, ambiguità,
definizione, traslazioae, analogia. Ci ha controversia intorno alla lettera e
allo spirito quando l’ intenzione di chi
ha scritto sembra discordare dallo scritto medesimo, per esempio : « Suppongasi
che vi sia una. legge , la quale
disponga che coloro, i quali per cagione di burrasca abbandonino la
nave, debbano perdere la nave ' e ogni
cosa; e che, se la nave vada in salvo, tanto
essa quanto l’allre cose rimangano proprietà di chi è restalo nella nave. Ora, spaventali tutti
dalla grandezza della burrasca
abbandonarono la nave, e cercarono
salvamento sopra di un palischermo ,
eccetto un ammalalo, il quale per impotenza non uscì di nave c non si mise in salvo. La nave
per caso e per fortuna si ridusse in
porto sana e salva: 1’ ammalato si trova
possessore di essa : 1’ antico padrone
della nave ne fa dimanda in giudizio come di cosa sua ». Queslo si è stato di
quistion legate riguardante la lettera e lo spirito del lesto. La controversia ha origine da leggi
contraddittorie, quando una legge ordina o permette una cosa, e l’allra la proibisce, come : « Una legge
proibisce che un uomo condannato di concussione parli davanti alPassemblea del popolo. Un’ altra
legge ordina che P augure proponga all’
assemblea del popolo colui che domanda
di essere surrogato nel posto del
collega defunto. Ora, un augure, che fu
condannato di concussione, propose il successore del suo collega defunto. Si domanda che sia
punito ». Questo è stato di quistion legale, che ha le origini da due leggi contraddittorie. La
controversia nasce dall’ambiguità, quando una cosa scritta in un senso ne presenta due, o più; per
esempio: « Un padre di famiglia,
instituendo erede il proprio figlio, legò pure in testamento a sua moglie dei vasi d’argento in questi termini: «
Tullio, mio erede, darà a Terenzia, mia
moglie, trenta libbre di vasi d’argento,
a scelta sua ». Morto il testatore, la donna domanda i vasi preziosi , e
magnificamente cesellali. Tullio dice di dovere a lei dei vasi d’argento pel peso di trenta libbre,
ma a sua scelta ». Ecco uno stato di
quistion legale, che sorge
dall’ambiguità delle parole. La quistionc dipende dalla definizione quando c'è
discordanza intorno al nome, col quale si dee chiamare un’azione : ecco un
esempio: « Essendo Lucio Saturnino per
portar la legge frumentaria dei semiassi e dei
terzi di asse, Quinto Cepione, che era in allora questore urbano, avvisi il Senato, che
l’erario non poteva sopportare una
cotanta largizione. Il Senato decretò
che, se egli avesse recata quella legge al
popolo, sarebbe stato riguardato come autore di un fatto contro alla Repubblica. Saturnino si
provò a recarla. I suoi colleghi fecero
opposizione: egli nondimeno fece portare
innanzi la cassetta de’suffragi. Cepione, vedendo che , a malgrado del decreto
del Senato e della opposizione dei colleghi,
ei recava la legge in danno della cosa pubblica, si fa violentemente strada con alcuni
de’migliori cittadini, rompe i ponti, rovescia le cassette, ed impedisce che la
legge passi. Cepione viene accusato di.
lesa maestà ». Lo stato della quislione è legale, dipendente dalla definizione ; conciossiachè
non verrà bene determinalo che cosa sia
lesa maestà, se non sia ben definito il
vocabolo stesso. La controversia nasce da traslazione quando V accusalo domanda, o che la causa sia trasferita ad
altro tempo, o che sia cambialo l’ accusatore, o che sieno cambiati i giudici. Di questa parte di
costituzione se ne servono i Greci nelle
cause pubbliche, c noi per lo più nelle
cause private. In siffatta parte la
scienza del diritto civile ci sarà di gran giovamento. Nondimeno anche
nelle cause pubbliche noi qualclie volta ce ne serviamo, ed ecco in che modo: «
Se alcuno è accusalo di peculato, perchè è
voce che egli abbia portalo via da un luogo privato dei vasi d' argento di pubblica spettanza,
egli può rispondere, dopo di aver
defluito che cosa sia furto, e che cosa sia peculato, clic, rispetto a lui, bassi a giudicarlo di furto e non di
peculato». Una siffatta parte di
costituzione legale è di rado invocata dinanzi ai nostri tribunali, perchè se
si tratta di azion privala, il pretore
giudica delle eccezioni, e perde la
causa colui che non si attiene alle forme prescritte; c se si tratta di causa
pubblica, le leggi provvedono che antecedentemente,
se l’accusato ciò crede di suo vantaggio, sia dato giudizio, se quell'acusalore
abbia o no il diritto di accusare. La controversia ha le origini dalla
analogia, quando si presenta in giudizio un fatto, intorno a cui v'ha alcuna
legge propria, la quale decida, ma che
nondimeno può riferirsi a qualche altra
legge. Per esempio: Una legge dice: Se uno
è furioso, la persona e i beni di lui saranno nella potestà de’ suoi agnati e gentili: » Un'altra
legge dice: « Colui, che sarà giudicalo
di avere ucciso il padre o la madre, sia
ravvolto e legalo in un sacco di cuoio,
e gittalo in un fiume. » Ed un’altra dice : Se un padre di famiglia ha per
testamento disposto de’suoi beni c de’suoi schiavi, sia rispettata la sua
volontà. » Ed un’altra dice finalmente: » Se un padre di famiglia muore senza
testamento, i suoi schiavi ed i suoi beni siano degli agnati e dei gentili. » Orbene: Malleolo fu
giudicato di avere ucciso la madre: appena condannato gli fu ravvolto il capo in un cuoio di lupo,
gli fu* ron messi i ceppi ai piedi, e fu
condotto nel carcere. I suoi difensori portano delle tavolette nella prigione; ricevono da lui, in presenza di
testimonii, giusta la legge, il suo testamento, c poco dopo è condotto al supplizio. Coloro, che per
testamento ne erano gli eredi, domandano
l’eredità. Il fratello minore di Malleolo,
che nel fatto di esso era stalo
l’accusatore, dichiara che per la legge di agnazione quella eredità è a
lui devoluta. Qui non può essere
prodotta alcuna legge speciale intorno a
questo caso, e ciò nonostante se ne producono molte, dalle quali si trae per analogia, che
Malleolo abbia o non abbia potuto di diritto far testamento. E. co qual è lo stato
di quistion legale fondalo sopra l’analogia.
XIV. Noi abbiamo dimostrato tutte le diverse specie di quistion legale: ora parliamo della
quistione giurisdiziale. Ci è lo stato di quistion giurisdiziale quando si
conviene del fatto, ma si domanda, se esso è o non è conforme al diritto.
Di tale stato di quistione ce n’ ha due
specie: l’una specie chiamasi assoluta,
el’ altra assuntiva. Ella è assoluta, quando noi sosteniamo che un’ azione è rettamente fatta, senza clic ricorriamo a
motivi estrinseci; per esempio: « Un
commediante rivolse la parola in pieno
teatro nominatamente al poeta Accio:
Accio lo accusa d’iugiuria: il commediante
non si fa altra difesa che questa: dice che è lecito nominare colui, sotto il cui nome è data a
rappresentare in teatro una commedia. » La quistionc è assunliva, quando, essendo per sè stessa
debole la difesa, si cerca di sostenerla
con alcuna cosa presa fuori dal
soggetto. Le parli assunlive sono
quattro: La confessione, la discolpa, la recriminazione, l'alternativa.
La confessione sta, allorquando l’accusato domanda che gli sia perdonato:
essa ha due parti: o la scusa, o la
preghiera. La scusa è, quando l’accusato
dichiara di non aver commesso il delitto con animo deliberato. Danno scusa la fortuna, l’ignoranza, la necessità. La
fortuna, « come Cepione avanti ai
tribuni della plebe intorno alla perdila della sua armala. » I.’
ignoranza, « come colui, che mise a
morte quello schiavo, che aveva
ammazzalo il proprio padrone, al quale
egli era fratello, avanti che avesse aperte le tavole del testamento in cui quello schiavo era
dichiarato libero. « La necessità, «
come quel soldato, che non tornò alle
insegne il giorno prefisso, perchè le
acque gli avevano impedito il ritorno. « La preghiera è, quando l’accusato
confessa di aver commesso il fallo, e di avere operalo deliberatamente, e nulladimeno dimanda che gli si usi
misericordia. Questo mezzo in giudicio
non si usa quasi mai, a meno che non si
parli in favore di un uomo conosciuto per molle belle azioni. Se il caso è
tale, noi 10 vestiremo della forma di
uno de’luoghi comuni proprii
aH’amplificazione, dicendo, per esempio :
« Se un tale misfatto avesse pur egli commesso, bisognerebbe nondimeno mandarlo perdonalo
in grazia delle sue belle azioni
passate; ma egli non implora alcun
perdono. » Questo mezzo adunque in
giudicio non si usa; ma ben può usarsi dinanzi
al senato, o ad un Generale di armata, ed al suo consiglio di guerra. XV. La causa ha sostegno nella
recriminazione, allorquando noi non
neghiamo di aver commesso 11 fallo, ma
diciamo di esservi stali spinti dal fallo
altrui: « Come Oreste, il quale, per fare a sè difesa, gilta la cagion
del delitto sopra la propria madre. » La causa ha sostegno nella discolpa,
allorquando noi cerchiamo di difenderci non in quanto al fatto, ma in quanto alla colpabilità,
ghiandola o sopra di alcun’ altra
persona, o sopra di alcuna cosa. Ella
giltasi sopra di alcun’ altra persona, «
come se è accusato uno, il quale confessi di avere ucciso Publio Sulpicio, ma
rechi a sua discolpa di avere ciò fatto per comandamento dei consoli, ed
affermi che essi non solo glielo comandarono, ma gli fecero ancora conoscere il
perchè egli poteva ciò fare. » Si gitta
sopra una cosa, « Come se alcuno sia
impedito da una legge statuita dal popolo di far ciò che un testamento gli ordina ». La causa ha sostegno nell’
alternativa, quando noi diciamo che non
si poteva a meno di non fare o Luna cosa
o T altra, o che fu miglior partito far
ciò che facemmo. Ecco un esempio di
questa specie: « Caio Popilio, essendo accerchiato dai Galli, nè polendo in alcuna maniera
scampare, venne a parlamento coi
capitani dei nemici e ottenne di andarne libero colla sua armata a condizione
ch’ei lasciasse le sue bagaglie; stimò miglior
partito perdere le bagaglie, che Tarmata: salvò Tarmata, lasciò le bagaglie: or viene
accusato di lesa maestà ». XVI. Io credo di avere bastantemente
dimostrato quali sieno i diversi stali
di quistione, e quali le loro parti. Ora
dimostrerò in qual maniera e con qual
ordine si dovranno da noi trattare, dopo che
avrò fatto ben conoscere quale convenga dirsi da una parte e dalfallra il punto essenziale
della causa, a cui debbesi riferire ogni ragionamento di tutto il discorso. Trovato adunque lo stato della
quistione, si deve tosto cercar la ragione: per ragione io intendo ciò che costituisce la causa, e che
comprende il punto fondamentale della difesa; c per continuare a farmi meglio intendere, farò
ciò'aper con un esempio: « Oreste nel confessare che ha uccisa la madre, se non desse una ragione
del fallo, toglierebbe via a sè ogni
difesa: nc dà adunque una, la quale se data non fosse, non avrebbe luogo pausa di sorte alcuna: Mia madre, dice
egli, ha ucciso mio padre: « Ecco che la
ragione che ne dà, è appunto quella, io
lo ripeto, che contiene il punto fondamentale della difesa, e-se vi mancasse
questa ragione, non vi rimarrebbe neppure
11 più piccolo dubbio che potesse venire ritardata la condannagione. — Trovata la ragione,
bisognerà cercare la replica dell’avversario; vale a dire, il punto principale dell’ accusa, ciò che
recasi in mezzo in opposizione di questa
ragione della difesa , di cui abbiamo detto. Ecco come questo punto verrà determinalo: quando Oreste avrà
detta la sua ragione così: « Io ho
ucciso a buon diritto mia madre perchè
ella ha ucciso mio padre »; l’accusatore replicherà in questo modo: « Ma ella
non doveva essere uccisa da le, nè
sostenere una pena senza essere stata prima
condannata. «Dalla ragione della difesa, e dalla replica dell’ accusa ne sorge la quistione di giudizio, che noi
chiamiamo giudicazione, e i Greci
xp/vójuevov. Questa verrà costituita dal
concorso della ragione della difesa, e
della replica dell'accusa in questo modo: « Poiché Oreste dichiara di avere
ucciso la madre per vendicare il proprio
padre, era egli giusto o no che Clilenncslra venisse uccisa dal figliuolo
senza un giudizio ? » Ecco qual è il
modo di trovare il punto di
giudicazione: trovato il punto di giudicazione, converrà che a quello sia
riferita ogni ragione dell'inlero discorso. Il metodo adunque da seguirsi per
trovare in tutti gli stati di quislionc, c nelle diverse loro parli, il punto di giudicazione sarà questo ,
fuorché nello stalo di quistione congetturale. Imperciocché in esso nè si
domanda la ragione del fallo, perchè il
fatto è negalo, nè si cerca la replica dejl’avversario, perchè manca appunto la
ragione. Laonde in siffatto stato di
quislionc il punto di giudicazione viene
determinato dalla imputazione c dalla
negazione, in questo modo: Imputazione:
« Tu hai ucciso Aiace. » Negazione: « Io non 1’ ho ucciso. » Punto di giudicazione: « La ha egli
ucciso o no? » A questo punto si deve, come ho già detto, riferire ogni ragione delle due
aringhe. Se vi saranno più stali di
quistione, o più parli di quistioni in una medesima causa, ci saranno
anche più punti di giudicazione, ma si
troveranno tutti nella maniera medesima.
Io ho posto diligente opera a parlare
con brevità e chiarezza di quelle cose
che dovevano essere fin qui discorse. Ora,
poiché abbastanza è cresciuto di mole il volume, è più conveniente esporre in un altro libro
il seguito del nostro soggetto, onde non venga la mente tua, per la moltitudine
degl’insegn amenti, oppressa da soverchia fatica. E se quest’ opera sarà compila più lardi di quello che tu desideri,
ne dovrai dare la colpa si all’ampiezza delle materie, e sì ancora alle occupazioni mie. Nulladimeno
io m’affretterò, e supplirò
coll’induslria alla scarsità del tempo,
a One di soddisfare al tuo desiderio
donandoti quest’ opera in coglraccàmbio de’ tuoi buoni uffizii verso di me, e come pegno della
mia affezione verso la tua persona. O
Erennio, io ho brevemente esposto quali
cause deve prender l’oratore, in quali
doveri dell’arte conviene ch’ei s’affatichi, e in quale. maniera può
facilissimamcnlc adempiere a siffatti doveri. Ma perchè non era possibile il
trattare tulle Icquistioni ad un tempo, e bisognava prima dilucidare le più
importanti, per farti poi più facilmente
intendere le altre, così io ho giudicato
conveniente di accostarmi di preferenza a quelle ehe erano le più difficili. Ci ha tre generi
di cause, il dimostrativo, il deliberativo, e il giudiziale: il giudiziale è il più difficile; tratterò
dunque di esso pel primo. Tanto ho pur
fallo nel libro precedente, toccando dei cinque doveri dell’oratore, dei quali il principale e il più difficile è
l’invenzione: or id darò in questo secondo libro presso a poco compimento a quanto concerne l’invenzione,
non «serbando che una piccola parte di
essa pel ler zo.Io ho comincialo primieramente a parlare delle sei parti proprie di un discorso: nel primo
libro ho detto dell’esordio, della
narrazione e della divisione, nè più a lungo di quello che bisognava, nè meno chiaramente che mi pareva essere da te
desideralo: di poi ho dovuto discorrere congiuntamente della confermazione c
della confulazione; per lo che ho fatto
conoscere gli stati diversi di
quistione, c le parti loro: di che venivasi a mostrare nel tempo
medesimo in qual modo, posta la causa,
sì può trovare lo stato della quistione, e le
parti sue: appresso ho insegnalo come bisognava cercare il punto di giudicazione; trovato il
quale', come è da curare che ogni
ragione dell’intero discorso si riferisca a quello: per ultimo ho
avvertilo che vi sono più cause, alle
quali possono adattarsi più stati di
quistione, o più parti di essa. II.
Rimane, penso io, a mostrare in qual maniera accomodar si possano le cose
dell’invenzione ir ciascuno stalo di
quistione, c a ciascuna parte di essa;
,e parimente quali siano gli argomenti delti
dai Greci £jri%£ip^P-ara , cui bisogna usare, e quali siano quelli, cui bisogna lasciar da parte;
le quali due cose riguardano appunto la
confermazione c la confutazione.
Insegnerò per ultimo in qual maniera dovrà farsi la conclusione oratoria, che è
appunto l’ultima delle sei parti di un discorso. Prima di tutto adunque noi cercheremo come convenga
di trattare ciascuna causa. Cominciamo dal considerare la causa congetturale,
che è la prima e la più diffeile. Nella
causa congetturale la narrazione dell’accusatore deve contenere dei sospetti
gettati c sparsi destramente qua c là in modo da far pensare che niun alto, niun dello, niuna
venuta, ninna partenza, niun fallo
insomma sia stato senza un motivo. I.a
narrazione del difensore deve prescolare una esposizione semplice e chiara,
acconcia a tor via ogni sospetto. Ciò che costituisce un tale stato di quistioue, è distribuito in sei
parti: in probabilità, in confronto, in
segno o indizio, in argomento, in
conseguenti, e in prova. Facciamo aperto
il valore di ciascuno di siffatti mezzi. La
probabilità è quella, per la quale si dimostra che il delitto fu vantaggioso all’accusato, e
ch’egli non fu mai uomo aborrente di una
tale turpitudine. Nella probabilità si
vogliono considerar due cose: la cagion
del delitto, e la condotta dell’ accusato.
La cagione, che può aver mosso al male, si è, o la speranza dell’utile, o Levitazione del danno:
come allorché si cerca, se mediante il
delitto ei pensò di avere qualche
vantaggio, per esempio onori, ricchezze,
potere, se volle soddisfare a qualche
sregolato amore o a qualche appetito di tale natura. 0 veramente se ebbe
in animo di evitar qualche danno, come inimicizie, infamia, dolore, supplizio. In quanto sia atla speranza dell’ utile,
l’accusatore verrà dimostrando la cupidità dell’animo del suo avversario, c in quanto sia
all’evilazion del danno ne andrà
esagerando le paure. 11 difensore,, al
contrario negherà, se potrà, che vi fosse una
cagione, o procurerà di attenuarla; quindi conchiuderà che è ingiusto
l’indur sospetto di malvagia azione in
tutti quelli, ai quali è derivato vantaggio
da alcuno lor fatto. Appresso si toglierà ad esaminare la condotta dell’
accusato dagli antecedenti. Nel che
l'accusatore andrà primieramente considerando, se al suo avversario abbia già a
rimprovc* rare qualche cosa di
somigliante; e ciò non trovando di lui, cercherà se egli potè mai essere
sospettato di una simile azione; e si adoprerà in questo di dimostrare che la condotta di lui ben
concorda con la cagione da esso
accusatore assegnata al delitto, di cui si tratta, come: Se affermerà che la cagione del delitto è stato il danaro,
dimostrerà che colui è sempre stalo un
avaro; se l'onore, che ei fu sempre
ambizioso: così potrà congiungcrc il
vizio dell’ animo con la cagion del delitto. Se non potrà trovare in lui un vizio dell’animo, che
concordi con la cagione, ne cercherà uno di natura diversa. Se non Io potrà, per esempio,
dimostrare avaro, lo dimostri, se in
qualche modo il può, corrompitore e misleale: in fine per uno o più altri vizii farà lordo l’ animo del suo accusato; c
conchiude, clic non dee far meraviglia, che quello stesso uomo, che in addietro operò così male,
abbia ora commesso qucsl’altro misfatto. Se l’avversario godrà nome puro ed
intatto, dirà che bisogna tener conto dei fatti, non del nome; eh’ egli per lo passato seppe occultare le sue
turpitudini; ma che ora esso accusatore
farà aperto che colui è reo di misfatto.
Per quanto spetta al difensore, egli in
primo luogo verrà dimostrando, se potrà,
•che la vita dell’ incolpato è senza macchia; se ciò non potrà, piglierà difesa dalla
inconsideratezza, dalla stoltezza, dalla
giovinezza, dalla violenza, dalla
persuasione: con le quali scuse verrà ad allontanare da lui il biasimo delle
azioni anteriori all'accusa, di cui
presentemente si tratta. Ma se il
difensore si troverà forte imbarazzato dalle turpitudini e dalla mala
fama del suo accusato, prima , di tutto
darà opera a provare che si sono sparse
delle calunnie sopra un innocente; e farà uso di questo luogo comune, Che non bisogna credere alle voci del volgo. Se nessuno di questi
sussidii potrà essere usato, egli
s’appiglierà all’ estrema difesa, che è
quella di dire, che non è suo obbligo di ragionare intorno ai costumi di lui davanti a eensori, ma sì di rispondere alle accuse
degli avversari davanti a giudici. IV.
Il confronto è, quando l’accusatore dimostra
che l’azione, ond’ è incolpalo l’avversario, n-m è siala vantaggiosa a nessun altro clic a
quello; o clic non la poteva altri
eseguire che l’avversario; o che il
medesimo o non poteva compirla con altri mezzi diversi, o almeno noi poteva
tanto facilmente, o che, mosso dalla cupidigia, ha trascurati altri mezzi più comodi. In questo caso il
difensore mostrerà che è d’ uopo che 1’ azione sia stata vantaggiosa ad altre persone, o che altre
persone eziandio abbiano potuto fare
ciò, di. cui è accusato il suo cliente.
Il segno è quello per coi si dimostra che P accusalo andò in cerca della
comodità di fare l’azione. Esso
comprende sei parti: Il luogo, il tempo, la durata, l’occasione, la
speranza della riuscita, la speranza di
non essere scoperti.Rispetto al luogo, si cerca, se era frequentato o deserto; se è sempre deserto, ovvero se fu
solamente quando si commise il fatto; se era sacro e profano, pubblico o privato; quali luoghi vi
sono allenenti; se colui, che fu
vittima, poteva essere veduto o udito. A
me non incrcscercbbe di descriver qui quale di tulle queste cose potesse
convenire all’accusato, e quale all’accusatore, se ciascuno non potesse
facilmente di per sè farne giudizio, posta che fosse la causa; perciocché
l’arte deve sì insegnare i principii
dell’invenzione; ma in quanto al .resto
è l’esercizio quello che celo fa conseguire
facilmente. Rispetto al tempo si cerca
così: -In quale stagione dell’ anno; in qual ora; se di giorno o di
notte; c in qual ora del giorno o della
notle dicesi avvenuto il falto,eperchè in quel
tal tempo. Rispetto alla durata essa si considera così: Se fu abbastanza, perchè il fatto
potesse compiersi, e se l’accusato potè esser certo che quella quantità di tempo era per bastare a compirlo.
Imperciocché poco monta che lo spazio del tempo
sia stato bastante .a compire il fatto, se non si è potuto ciò sapere c calcolare innanzi. Rispetto
all’occasione si va cercando, se essa sia stata opportuna ad intraprendere il
fatto, se ce ne sia stata un’ altra
migliore, che o siasi lasciata sfuggire, o
non siasi aspettata. Quanto alla speranza della riuscita si esaminerà
essa in questo modo: Se i segni or ora
delti concordino insieme: se inoltre apparirà per una parte esservi stalo
forza, danaro, consiglio, conoscimento, precauzione; c per l’altra si mostrerà esservi stato debolezza, povertà,
sciocchezza, ignoranza, incuria: da ciò potrà sapersi se l’accusato doveva aver fidanza o non averla.
Quanto alla speranza del non essere
scoperti, sarà fatta più o meno evidente
secondo il numero de’ complici,
de’testimoni, du’cooperalori, o siano liberi o siano schiavi, e dogli uni e degli altri
insieme. V. L' argomento è quello, per
cui si mette in chiaro il fatto con più
certe prove, e con più fondati sospetti. Esso si rapporta a tre tempi:
All’antecedente, al presente, al conseguente. Rispetto al tempo antecedente
bisogna considerare dove l’accusato si trovò; dove e con chi fu veduto; se fece qualche preparamento; se andò a trovare
alcuno; se disse qualche cosa; se ebbe
con sè alcuno dei complici o de’
cooperatori; se fu in qualche luogo
fuori della consuetudine sua, o in ora inopportuna. Rispetto al tempo
presente si cerca, se sia stalo coito
flel fatto ; se si è udito qualche strepilo,
qualche grido, qualche romorc, o finalmente se si è compreso alcun che per mezzo di qualche
senso, con la vista, con 1’ udito, col
tatto, coll’ odorato* col gusto:
perciocché il testimonio d’ alcuno di
questi sensi può aggrandire il sospetto. Quanto al tempo conseguente si riguarderà, se dopo il
fatto vie rimasta alcuna traccia,
cheindichi esservi stato delitto, e chi
nc possa essere 1’ autore. Che vi sia
stato delitto si riconosce a questo modo: Se il corpo del morto è gonfio
e livido, è segno che vi è stato
avvelenamento. Se ne scopre poi l’ autore a
questo modo: Se un pugnale, se una veste, se qualche altro oggetto di questo genere sia
stato lascialo, o qualche vestigio si è
rinvenuto; se vi ebbe sangue nelle vesti
dell’accusato; se fu preso o veduto,
dopo il fatto, nel luogo dove dicesi essere quello accaduto. I conseguenti son
quelli, quando si cerca quali esser
possono i segni, che risultano, della
colpabilità o della innocenza. L’accusatore dirà, se potrà, clic il reo, quando
fu arreslato, arrossì, impallidì, vacillò, si contraddisse, cadde ncirabballimenlo, feccdelle promesse;
tutti segni, che manifestano la
coscicuza. Se l’accusato non fece nulla
di tutto ciò, l’accusatore dirà c!ie
colui calcolò prima così bene ciò che gli avrebbe a tornar vantaggioso, che rispose con una
sicurezza insuperabile; il clic è segno di audacia e non d’innocenza. 11 difensore poi, se l’ accusalo
lasciò vedere dello sbigottimento, dirà
che esso restò commosso non per la coscienza d’un delitto, ma per la grandezza del pericolo. Se non diè segni
di sbigottimento, dirà che, forte della sua innocenza, non poteva restare commosso. VI. La prova confermativa è quella, di cui
facciamo uso all’ ultimo, quando il sospetto è bene stabilito. Essa ha dei luoghi proprii e dei
luoghi comuni. I proprii sono quelli ohe
non possono servire che all’ accusatore o al difensore. I comuni sono quelli che in una causa convengono all’
accusalo, e in un’ altra all’ accusatore. Nella causa congetturale il luogo proprio dell’
accusatore è, quando dice che non
bisogna aver compassione dei malvagi, e
quando esagera 1’ atrocità del delitto. Il luogo proprio del difensore è,
quando eccita la compassione e si lagna di calunnie nell’accusatore. I luoghi
comuni, così dell’accusatore come del difensore, sono il parlare in favore o
contro dei leslimonii, in favore o contro della tortura, in favore o contro
degli argomenti, in favore o contro della voce pubblica. Noi diremo in favore
dei testimonii, se allegheremo la loro
buona fama e condotta di vita, non meno
che la immutabilità delle loro
testimonianze. Contro dei testimonii diremo, se allegheremo la turpitudine
della loro vita, la mutabilità delle loro testimonianze ; c se sosterremo o che
non poteva farsi, o che non è stalo
fatto ciò clic essi affermano, o clic noi potevano sapere, o clic nelle loro parole ed
argomentazioni havvi della parzialità:
questo sarà appunto il modo di biasimare
o di approvare i testimonii. Noi parleremo in favore della tortura se
dimostreremo che i nostri maggiori usarono aneli 'essi i tormenti c le durezze
per iscoprire il vero, e vollero che
coll’ eccesso del dolore fossero gli uomini forzati a dire ciò che sapevano. E
l’argomentazione nostra sarà più decisiva, se, ricorrendo alle medesime prove, clic furono adoperate in
tutta la quistione congetturale, daremo
alle confessioni fatte per questo modo
il carattere della vcrisimiglianza; il che pure converrà di fare anche
rispetto alle testimonianze. Ecco poi
come parleremo contro della tortura: Primieramente diremo che i nostri maggiori
non ne vollero far uso che in alcuni
casi speciali, quando con questo mezzo si potesse discoprire la verità ocombettcrc la falsità
delle parole, clic in una data quistione si proferissero, co ino sarebbe in questo caso: In qual luogo sia
stata messa una lai cosa; ovvero se si Iraf lasse di qualche fallo consimile,
che non potesse essere scoperto o riconosciute che con questo unico mezzo. In
secondo luogo diremo che non bisogna poi
prestar fede al dolore, perchè 1’ uno può essere più debole all' altro nel
sopportarlo, o più ingegnoso a trovar
menzogne, perchè finalmente può spesse
Gate conoscere o sospicare ciò che il
giudice desidera udir da lui^ed egli ben sa che, ove dica ciò* viene ad esser messo Gne al suo
dolore. Quest’ argomentazione sarà ancora più valida, se confuteremo le
confessioni strappale per mezzo della
tortura con ragionamenti appoggiati al
probabile; c ciò bisognerà fqrc coi modi già indicali per le cause congetturali.
Se noi vorremo dar forza agli argomenti,
ai segni, c agli altri luoghi, che accrescono la sospizionc, converrà che parliamo in questa forma: Allorché un gran
numero di argomeiUi c segni concorrano, i quali s’accordino fra loro, è d’ uopo
che la cosa presa a dimostrare assuma il carattere non di sospetto, ma Il testo
dice, et si quid esset, quod videri , aut
aliquo similisig no iiercipi possct-, ma ([ucsUìeLÌonc non ha certamente un senso probabile. Le
correzioni proposte dai filologi sono molte c varie. Nella traduzione ho procurato di dare un senso probabile. Il
Trai. di certezza; e così è d’ uopo che
più si creda al segni e agli argomenti
che aPtcslimonii; perciocché i segni e gli argomenti sono i fedeli
espositori di ciò che veramente è
accaduto, ed i testimonii possono essere
corrotti per danaro, per favore, per
timore, per avversione. Volendo noi parlare contro agli argomenti, ai
segni, c agli altri sospicamcnti, dimostreremo che non vi ha nulla, di cui tion possiamo essere accusati in conseguenza
di sospetti; in appresso attenueremo ciascun sospetto in particolare, e daremo opera a mostrare che
esso può venire addossalo non tanto a
noi, quanto a qualunque altra persona; e
che è cosa indegna che una* congettura e
un sospetto debba, senza aiuto di*
testimonii, riguardarsi come una prova
bastante. Noi parleremo in favore della voce pubblica, se sosterremo che
l’opinione non si forma punto a caso senza verun fondamento; e se diremo che non è occorsa cagione, per la quale
taluno avesse interesse a mentire c ad
inventar favole; e proveremo con ragioni
che, quando pure fossero per solito
false tutte le altre voci, questa, di cui si
tratta, è però vera. Se vorremo parlare contro alla voce pubblica, mostreremo primieramente che
ce ne ha di molte clic sono false, c citeremo
esempi, dei quali sia stala falsa la
fama; e diremo che o sono nostri nemici,
o uomini di natura malevoli e maldicenti (fucili che inventarono una siffatta
favola, e addurremo qualche finto racconto contro ai nostri avversarli, il qual diremo essere
ripetuto da tutti; onde anche
allegheremo una voce vera di cui essi
abbiano ad arrossire, protestando però che
noi non prestiamo fede ad essa, perchè chiunque può metter fuori alcuna brutta voce contro di
chicchessia, e seminare qua e colà una calunnia. Ma se la voce parrà esser mollo probabile,
bisognerà che noi per forza di argomenti
togliamo via alla fama tutta la
credenza. Siccome la quislione congetturale è la più difleile a trattarsi, e
spessissimo si presenta nelle cause vere, così noi abbiamo esaminate tutte le sue parti con tanto più di
diligenza, affinchè arrestati non fossimo dal più piccolo vacillamento od
intoppo, se a questa ragione
dell’insegnamento volessimo un giorno accoppiare l'assiduità dell’ esercizio. IX. Ora passiamo alle parti della quistion
legale. Quando insorga dubbio che vi sia discordanza fra il lesto e l’intenzione di colui che ne
fu l’ autore, se noi difenderemo loscrillo, useremo dopo la narrazione i luoghi seguenti: Primieramente
faremo 1’ elogio del suo autore: poi leggeremo ad alta voce lo scritto: quindi domanderemo, se
per ventura gli avversari sappiano che
sia mai stato scritto in una legge o in
un testamento o in una stipulazione o in
qualunque altra scrittura cosa alcuna che aver possa attinenza al soggetto in
quislione. In appresso, istituito il confronto di ciò clic è scritto con ciò che gli avversarli
interpretano siccome vera intenzione,
domanderemo a che dovrà il giudice appigliarsi; se a cièche è positivamente
scritto, o a ciò che è sottilmente immaginato: in seguilo biasimeremo e
confuteremo il sentimento immaginato dagli avversarii ed attribuito allo scritto. Di poi domanderemo, se l’autore
aveva intenzione di scrivere nel modo
che s’interpreta, qual cosa lo impedì di
scrivere appunto così? Dopo ciò noi
faremo aperto qual sia il verosenso, e metteremo in luce la cagione, per cui lo
scrittore sentì appunto come scrisse, e
proveremo che quello scritto è chiaro,
conciso, naturale, compiuto, determinato. E qui noi produrremo esempi di
giudizìi pronunziati a favore dello scritto, avvegnaché gti avversarii adducessero nell’ autore di
quello e sentimento e intenzione
diversi. Finalmente mostreremo quanto sia pericoloso dipartirsi dallo scritto.
Havvi un luogo comune contro di colui, che,
pur confessando di avere operato contro a ciò che è dalle leggi ordinato o scritto in un
testamento, cerca di difendere il fatto
proprio. A favore dell’ intenzione noi parleremo così: Primamente loderemo l’aggiustatezza e la
concisione dello scrittore, perchè scrisse nè più nè meno di ciò che era necessario, e s’avvisò di non
essere temito a scrivere ciò clic, senza essere scritto, poteva venire inteso:
secondariamente diremo esser proprio
soltanto dell’ uomo di mala fede lo appigliarsi alla parola e alla lettera, e
non tener conto deirinlcnzione. In
appresso diremo clic ciò che c scritto,
o non può essere eseguilo, o veramente,
se può essere eseguilo, esso è contro alla legge, aU'uso, alla natura, all’equità, al buono; c
niuno dirà, che P autore non abbia
voluto clic lutto sia fallo secondo il
giusto: ora ciò clic noi abbiamo fatto,
egli ò interamente conforme alla giustizia.
Aggiungeremo poi che l’opinione contraria o è assurda, o è insensata, o
è ingiusta, o tale che non può avere
effetto, o che non è d’a.ocordo coi sentimenti clic precedono, e con quelli che
vengon dopo, o eh’ ò in opposizione col
diritto comune, o con le altre* leggi
comuni, o coi giudicati. Dopo ciò faremo
enumerazione degli esempi di giudicati
in favore dell’ intenzione e contro lo scritto; e finalmente produrremo
dei brevi estratti di leggi e di
stipulazioni, nelle quali possa essere compresa
dall’inlcllcllo c l’ intenzione e l’ esposizione degli scrittori. Ilavvi poi un luogo comune contro
di colui che reciti uno scritto, e non interpreti l’intenzione di chi ha fatto.
Allorché due leggi saranno discordanti
fra loro, bisognerà prima vedere, se vi
sia abrogazione o derogazione: appresso, sq
queste leggi dissentano cosi, che l’una comandi e l’altra proibisca; o
che l’uria obblighi e l’altra permetta. Imperciocché sarà debole la difesa di
colui,, che dirà, di non aver fatto ciò,
a cui da una legge è 'obbligato,
cssendovcne un’altra che permette;
perchè ha più forza una legge che obblighi, che una che permetta. Parimente è debole la
difesa, quando si mostra clic si è fatta
quella cosa che viene stabilita da
quella legge alla quale è stala fatta
abrogazione o derogazione; e se non si è tenuto conto di ciò, che viene ordinato
dalla legge posteriore. Allorché si
saranno bene considerate queste cose,
bisognerà subitamente addurre, leggere, commendare la legge a noi favorevole.
Appresso dichiareremo il senso della legge contraria, e quella trarremo al vantaggio della nostra
causa. All’ ultimo dalla quistione
giurisdiziale assoluta prenderemo la ragione
del diritto, e cercheremo quella parte
del diritto che stia a favor nostro :
della qual parte parleremo più sotto. Se lo scritto è ambiguo, vale a
dire che si presti a due o più interpretazioni,
noi lo tratteremo aqueslomodo:Inprimo
luogo cercheremo, se sia o no ambiguo;
poi mostreremo come avrebbe dovuto
essere esposto, se lo scrittore gli avesse voluto dare quel senso, che gli avversari interpretano.
In seguilo mostreremo che la nostra interpretazione .non solo è da preferirsi, ma è anche onesta,
giusta, conforme alla legge, all’uso, alla natura, al bene, all’ equità; clic
quella degli avversarli è .il contrario;
die infine uno scritto allora non è ambiguo, quando si capisce quale dei due
significati è il vero. Ci sono alcuni,!
quali son di parere che, a trattare
siffatta causa, bisogna mollo conoscere
la scienza delle anfibologie, che i dialettici insegnano; ma noi
pensiamo cha essa non solo non è di
alcuno aiuto, ma che anzi è d’ impedimento;
perciocché costoro tengono dietro a tulle le amfibologic, anco a quelle,
clic, prese al contrario, non presentano
senso veruno. Laonde eglino altro non
sono che molesti inlcrrompitori dell’ altrui
parlare, e interpreti odiosi cd oscuri di uno scritto; e, mentre parlar vogliamo con cautela ed
esattezza, riescon peggio che bimbi.
Cosi mentre temono di lasciarsi sfuggire
una parola clic abbia più di un senso,
non osano neppurpronunziarcil loro nome.
Ma quando tu vorrai, io confuterò le loro puerili opinioni coi più solidi argomenti. Intanto
non è stato inutile il dir qui per
incidenza ciò che ho detto, a fine di
giltarcin discredito questa garrula
scuola di fanciulli.
Quandouscrcmo la definizione, noi daremo
prima una breve definizione della parola : per esempio: « È colpevole di lesa maestà chi fa
violenza a quelle cose che costituiscono la grandezza dello Stalo, quali sono appunto i suffragi
del popolo, e le adunanze de’ magistrali. Or dunque tu, quando rovesciasli i
ponli, li oppoiiesli ai suffragi del
popolo, e all’ adunanza de’ magistrali. » L’accusato per contrario risponderà:
« E colpevole di lesa maestà chi porla
danno alla grandezza dello Sialo. Io non
le portai danno, anzi la difesi, perchè conservai P erario, mi opposi all’
avidità dei tristi, non permisi che la
maestà dello Stato perisse tutta intiera. » Prima adunque si spiegherà brevemente e acconciamente a vantaggio della nostra causa il senso della parola: poi si
combinerà il fatto nostro con la definizione della parola; quindi si confuterà la ragione della
definizione contraria, se sia o falsa, o
inutile,, o sconcia, o ingiusta; e gli argomenti a ciò li piglieremo dalle parli del diritto che spelta alla quistionc
giurisdi* ziale assoluta, della quale oramai
terremo' parola. Per la traslazione poi
si cerca primieramente, se alcuno, a cui
non appartenga, possa nel fatto presente avere azione, per dimandagione od
istanza; o se gli possa ciò spellare in
altra maniera, in altro tempo, in altro luogo; o se per altra legge, o con altro giudice, o con altro accusatore. A
tutte le quali cose sarà fatta ragione
secondo le leggi, l’uso, l’equità, ed il
bene: di clic tutto parleremo nella
quislione giurisdiziale assoluta. Nelle cause
fondate sopra l'analogia cercheremo prima, se in cose maggiori, o minori, o simili, è stala
fatta alcuna legge analoga, o data analoga decisione: poi se la cosa addotta è
simile o no alla cosa di cui si traila;
poi se è a disegno che nulla si è scritto intorno a quella cosa, perchè non vi
si è voluto provvedere, o perchè si è giudicalo che vi fosse bastantemente
provveduto con altre leggi analoghe. Noi abbiamo a bastanza parlato delle parti
della quislione legale; ora rechiamoci alla quislione giurisdiziale. XIII. Noi faremo uso della quislione
giurisdiziale assoluta allorché, confessando di aver fatta un’azione, sosterremo di averla fatta a
diritto, sen- za aiutarci con veruna estrinseca difesa. In essa conviene cercare, se si è operalo a buon
diritto, del qual diritto noi potremo
discorrere, se conosceremo le parli costitutive di esso. Le quali parti sono sei: Natura, legge, uso, giudicalo,
equità, patto. Il diritto, che vicn
dalla natura, è quello che si osserva
per cugion di cognazione o di pietà; quel
diritto, pel quale spettano doveri reciproci
così ai padri verso i figli, come ai figli verso i padri. Il diritto,
che vien dalla legge, è quello che è
costituito dalla volontà del popolo; come è quello che ci obbliga di presentarci in giudizio
quando vi siamo chiamati. Il diritto,
che vien dall’ uso, è quello, clic, in
mancanza di legge, è osservato comunemente, come se fosse stabilito da una
legge: per esempio: « Se tu avrai fatto
deposito del tuo avere presso un
banchiere, lo potrai giustamente ridomandare anche dal socio di esso ».
Iitliritlo, che viene da un giudicalo, è
quello intorno a cui è stata pronunziata
sentenza o interposto decreto. Ma
sovente i giudicati variano secondo il diverso
modo di pensare di un giudice, di un pretore, di un console, di un tribuno della plebe; e ne
avviene clic spesse fiale sopra la cosa medesima 1’ uno decreta e giudica ad un modo, e l’ altro ad
un altro; come sarebbé a dire: « Marco Druso, pretore urbano, profferì giudizio diesi potesse far
lite per cagion di mandato coll’ erede;
Sesto Giulio profferì giudizio contrario. Parimente Caio Celio giudice rimandò
assoluto per accusa d'ingiurie quel1* attore, che aveva offeso il poeta
Lucilio, nominandolo in iscena : Publio Muoio, al contrario, condannò quell’altorc che aveva nominato in
isccna il poeta Lucio Azzio ». Poiché adunque due cause simili possono essere stale giudicate
diversamente, bisognerà che noi, quando ciò sia accaduto, facciamo conoscere
cosi i giudici come le occasioni, non meno che il numero dei giudicati,
che furono in favore o in danno della
cosa. Dall’equità viene il diritto,
quand’ esso sembra fondato sulla verità
c sull’ utile comune; come: « Chi ha più di
sessanl’ anni, ed è impedito da malattia, può farsi rappresentare in giudizio per mezzo di
procuratore ». Per forza di questo principio può costituirsi anche un nuovo diritto secondo 1’ occasione c
la dignità della persona. Dal patto viene il diritto, quando due o più persone hanno fatto fra loro
una convenzione, un accordo. Ci son dei
patti che voglionsi osservare in forza di leggi, per esempio: « Potrassi far causa nel luogo dove si è
pattuito; se non si è pattuito, dovrassi
trattarla o nel comizio, o nel fóro prima del mezzogiorno a. Similmente vi sono
de’ patti, che senza intervento di leggi
si osservano in forza di convenzione, i quali
si dicono esecutorii per diritto. Ecco adunque quali sono le vie, per le quali conviene
trovare il torlo, o confermare il
diritto; e ciò deve farsi nella
quislione giurisdiziale assoluta. Nella quislione giurisdiziale
assentiva, allorché per l’ alternativa si domanderà quale delle due cose sia stato meglio di fare, o quella,
che l’accusato confessa di aver fallo, o
quella, che l’accusatore dice clic era d’uopo di farsi: si dovrà primieramente
esaminare quale delle due sia stata più
vantaggiosa in confronto, vale a dire più bella, più facile, più profittevole. Poi bisognerà
domandare, se spellava a lui il giudicare quale delle due era più vantaggiosa, o se apparteneva ad
altrui il dettare le condizioni. In
seguilo l’accusatore, giovandosi delia quislione congetturale, interporrà
il sospetto, che l’ accusalo non abbia
operato con questa ragione di anliporre
il meglio al peggio, ma che abbia
proceduto con mal dolo: ed anco domanderà in fine, se si poteva evitare di
venire in quel tal luogo. II difensore,
all’opposto, confuterà F argomentazione
congetturale con alcuna delle cagioni
probabili, di cui si è già parlato. L’accusatore, dopo aver messi in campo i
motivi detti di sopra, userà un luogo comune
contro all’ avversario, dicendo, che egli ha piuttosto preferito il nocevole al
vantaggioso, allorquando non era più in
poter suo il dettare le condizioni. Il difensore poi, contro di coloro, che giudicano onorevole F
antipode l’estrema rovina all’ utile, userà il luogo comune per compianto; e
nel medesimo tempo domanderà agli accusatori e ai giudici stessi, checosa avrebbero fatto se stati fossero in quel
posto; e metterà loro sotto gli occhi il
tempo, il luogo, la cosa, e i motivi,
che ebbe il suo cliente. XV. La
recriminazione si ha, allorquando l’accusato va pretestando cagione al fatto
proprio il fallo d’altrui. In tal caso
l’accusatore cercherà primieramente, se a ragione si possa trasferire la
reità in altrui; secondariamente
esaminerà, se il fallo, che è imputalo
ad altrui, è così grave come quello che
F accusalo confessa di aver commesso egli
medesimo: di poi, se era d’uopo commetter fallo, perchè altri ne ha commesso uno innanzi; di
poi, se era d’uopo ctie di quel primo
fallo fosse avanti dato giudizio; di
poi, conciossiachè niun giudizio sia
slato pronunzialo del delitto imputato ad altrui, se l’accusalo abbia diritto
di costituir cosi sè medesimo giudice di un’azione, che non è ancora stata secondo le leggi giudicata. Qui cadrà
in acconcio quel luogo comune, per cui l’ accusatore farà rimprovero all’accusato, elfei mostri così
esser d’avviso, che s’abbia a preferire la violenza ai giudizii, e domanderà pur anche, che cosa
accadrebbe, se gli altri facessero altrettanto, cioè che pigliassero supplizio di coloro che non sono
per anco condannati, adducendoper
ragione, ch’eglino medesimi ne hanno prima dato l’esempio. Che si direbbe, se l’accusatore egli stesso
avesse voluto fare altrettanto ? Il
difensore, al contrario, porrà nel mezzo
1’ enormità del fallo di colui sopra del
quale verrà trasferita la reità ; e porrà sotto agli occhi il fatto, il luogo, il tempo per modo,
che gli udij^ri si persuadono, o clic non
era possibile, o che non era giovevole,
che l’ affare venisse recalo dinanzi ai
tribunali. XVI. La concessione è
quella, per la quale noi domandiamo che
ci sia perdonato. Essa si divide in due
parti: in iscusa e in preghiera. La scusa è,
quando dichiariamo di avere operato senza pensamento. Essa abbraccia tre
parti: la necessità, la fortuna, l’
ignoranza. Parleremo prima di queste tre
parti, c poi diremo della preghiera. Primieramente si dovrà considerare
dall’accusatore, se noi fummo indotti a
questa necessità per colpa nostra, o se fu la neccssilà per sè stessa quella
che ci indusse alla colpa. In appresso si cercherà in qual modo si poteva da noi evitare quella
necessità od attenuarla; e se colui, che
si scusa con la necessità, ha tentalo tutto quanto era in poter suo di
fare o di immaginare per resistere ad
essa; e se trarre si possano dalla
quistione congetturale dei sospetti, che portino indizio essere stato fatto
pensatamente ciò che dicesi accaduto per necessità; e finalmente, quando pure
vi sia stata una qualche necessità se
convenga tenere questa necessità come
una scusa bastante. Se poi l’accusato dirà,
essersi da lui commesso il fallo per ignoranza, „ l’accusatore cercherà primieramente, se
quegli poteva sapere o non sapere; di
poi, se ha fatto opera di sapere o no; c
quindi, se ei non seppe per puro caso,
ovvero per sua colpa: imperciocdiè chi
si scusasse di essere stato privo di ragione o
per ubriachezza, o per trasporto di amore o di collera, egli parrebbe che avesse perduta la
cognizione per un vizio dell’animo e non per ignoranza: laonde non difenderebbe sè colla ignoranza,
ma si macchierebbe di una colpa. Dopo
ciò per mezzo della quistione
congetturale cercherà, se realmente sapeva o non sapeva; c considererà, se
l’ignoranza esser debba difesa bastante, quando pur consti che la. cosa sia stala fatta per
ignoranza. Quando se ne attribuisce la
cagione alla fortuna, c clic il
difensore dica, doversi per questo motivo
perdonare all’accusato, bisognerà che l’accusatore metta in campo tulle quelle considerazioni
medesime, che abbiamo poste là, dove parlammo della necessità. Imperciocché tutte queste tre
specie di scusa hanno allìuilà fra loro,
sì chea tutte si possono accomodare le considerazioni medesime. In siffatte cause tornano in acconcio i luoghi
comuni, rispetto all’ accusatore, contro
a colui, che, pur confessando di avere
peccato, trattiene inutilmente i giudici con parole, e, rispetto al difensore,
di implorare il perdono dall’umanilà e
dalla compassione, e di sostenere che, dovendosi io tutte cose aver riguardo all’attenzione, non v’ha
colpevolezza in quelle azioni clic sono
stale fatte senza un positivo consiglio. Noi useremo la preghiera, se,
confessando il fallo, e lasciata da parie la scusa dell’ ignoranza, o della
fortuna, o della necessità, domanderemo clic ci sia perdonalo. E qui il motivo
del perdono si trae dai luoghi seguenti:
Se parranno essere più, ovvero più
grandi i meriti che i torli; se alcuna
virtù o nobiltà sarà in colui che supplicherà; se alcuna speranza ci avrà che
perdonando al reo, abbia ciò ad essere
di universale giovamento; se si mostrerà che il supplicante medesimo fu clemente e compassionevole quando aveva in
sua mono il pplerc; se il fallo, ch’ei
commise, noi commise per odio o crudellà, ma spinto da obblighi e da retta
intenzione; se per una cagione si- ,
mile fu mai perdonato ad altro reo; se parrà non dovere a noi derivar danno mandandolo
perdonato; se per un tale perdono non ce ne verrà alcun biasimo dai nostri concittadini, o da qualche
altra cittadinanza. Si passerà quindi ai
luoghi comuni intorno airumanHà,allafortuna,allacompassione, alla mutazione
delle cose. L’ avversario poi rivolgerà
tutti questi luoghi contro l’accusalo aggiungendovi l’ amplificazione e l’ enumerazione di tutti
i falli, che gli vengono imputati.
Questa maniera di trattazione torno vana nelle cause pubbliche, siccome ho già detto nel primo libro; ma potendo
esser giovevole davanti al senato, o ad
un consiglio militare, ho creduto bene di non doverla tacere. Quando noi vorremo rimuovere l’accusa per
mezzo della discolpa, getteremo la
cagione del nostro fallo o sopra di una
cosa, o sopra di una persona. Se si
getterà la causa sopra di una persona, primieramente si cercherà, se colui
sopra del quale sia gettata la causa,
potette tanto, quanto il reo dimostrerà,
e in qual maniera si poteva o con onore o senza pericolo resistere ad esso : c
quando pure si animella quello che il
reo dice, se nullameno sia ragionevole di scusare il reo dell’ avere operato per impulso altrui: e passando quindi
alla quistione congetturale si
discuterà, so. fu operalo con cognizione di causa o no. Se poi la cagione
si getterà sopra di una cosa, si terrà
la stessa maniera di ricerche, e vi si unirà tutto ciò che abbiamo già detto intorno alla necessità. Poiché ci
pare di avere bastantemente dimostrato
di quali argomenti è d’uopo far uso in
ciascuna delle quislioni del genere giudiziale, ora verrò insegnando come abbellir si possano e
perfettamente trattare questi argomenti medesimi. Imperciocché egli non è mollo difficile
trovare ciò dhe serve di sostegno alla
nostra causa, ma, trovato che sia, si è difficilissimo pulirlo e
convenientemente esporlo. E quest’ arte è appunto quella, che fa che noi non ci fermiamo più a lungo
di quanto bisogna sopra le stesse cose,
e non ritorniamo più e più volle al punto medesimo, e non abbandoniamo il ragionamento incomincialo,
enon passiamo male a proposito ad un
altro. Mercè adunque quest’arte, e sarà
facile a noi di trovare nella memoria
tutto quanto avremo detto in ciascun luogo, e potrà l’uditore comprendere e
fermar nella mente la distribuzione cosi di tutta la causa come di ciascheduna prova. L’
argomentazione adunque più compiuta e più perfetta si è quella che comprende cinque parli: La
proposizione, la ragione, la confermazione della ragione, rornamento, e la recapitolazione. La
proposizione è l’esposizione compendiosa
di ciò che vogliamo provare. La ragione è il principio , che dimostra esser giuslo ciò, a cui miriamo ,
soggiungendolo brevemente. La
confermazion della ragione è quella, che fortifica con molle prove ciò che la
ragione ha brevemente esposto.
L’ornamento è quello, di cui facciamo
uso per abbellire ed arricchire la
causa, allorché le prove sono bene stabilite. La ricapitolazione è quella che conchiude
brevemente, raccogliendo le diverse parti dell’ argomenta- . zione.
XIX. Se vorremo adunque far uso di tutte queste cinque parti, ecco come
tratteremo l’argomentazione : « Noi abbiamo a dimostrare che Ulisse aveva un motivo di uccidcrcAiace; perciocché
voleva torre di vita un nemico acerrimo, dal quale non a torlo temeva per sé sommo pericolo.
Vedeva che, vivente Aiace, egli non era sicuro della persona; colla morte di lui sperava di
procacciare salvezza a sé : era suo
costume, -in mancanza di mezzi
legittimi, di usar la frode per toglier via un
nemico; di clic è una prova convincente la non degna morte di Palamede.
Dunque e il timor di un pericolo
spingeva lui ad uccider quello, dal quale
temeva una punizione, c la consuetudine del delitto dilungava da esso
ogni dubbio di metter mano
all’assassinio. Imperciocché in generale gli uomini, i quali non
commettono mai senza un perchè i falli
più leggieri, sono da ultimo tirati a commet
Lifino il. tereiMclitli più
grandi, allora che certi sono di averne
accogliere un vantaggio. Or bene: se molli
spinti furono al male dalla speranza del guadagno, se una gran parte degli uomini gillossi nei
delitti per T ambizione del potere, se
altri pagarono un leggiero guadagno a
prezzo della più gronde iniquità, chi si meraviglierà clic costui,
tiranneggialo dal più vivo timore, non
siasi astenuto da un assassinio ? Un eroe pien di coraggio e d’integrità, che non perdonava ai nemici, oltraggiato,
irritato, non si potè partir vivo da un
rivale pieno di paura c di ribalderia,
che sapeva di esser colpevole, insidioso, nemico: a chi parrà strana cosa cotesta
? Se noi vediamo le bestie feroci
levarsi pronte ed irose per nuocere ad
altro animale bruto, non è da giudicarsi
impossibile cheanche l’animo feroce,
crudele, ed inumano di costui siasi avidamente gittato a dar morte al suo nemico ; tanto più
se consideriamo, che nelle bestie non si
scorge vcrun motivo nè buono nè cattivo,
c che in costui sappiamo essere sempre stali assaissimi e grandissimi molivi. Se dunque io ho promesso di svelare
la cagione, dalla -quale indotto Ulisse commise l’assassinio, c se ho
dirtiostrato esserci intervenuta ragione potentissima d’ inimicizie e timor di
pericolo, non v’ha dubbio ch’ci non
confessi che tale è stata la cagione del
suo delitto. L’ argomentazione più
perfetta è adunque quella che si compone di cin que parli ; ma non è
sempre necessario di usare quesla
maniera di argomenlazione. Imperciocché
vuoisi, per esempio, lasciar da parie la recapitolazione, quando la cosa
è così limitala che facilmente si possa tenere a memoria; e vuoisi pur
pretermettere l'ornamento, quando il soggetto poco si presta di per sé stesso all’amplificazione e
adornamento. Se 1’ argomentazione è breve, e nello stesso tempo è modesto il soggetto e poco
fecondo, bisogna allora astenersi daU'ornamento e dalla recapitolazione. In ogni argomentazione,
rispetto all’uso delle due ultime parli,
è da tener conto di quello clic ora ho
defto.L'argomcnlazioue più perfetta Iva dunque cinque parli; la più breve ne
ha tre, la mediocre, tolto via da essa o
l’ornamento o la rccapilolazione, ne ha
quattro. XX. Due generi di
argomentazioni viziose ci sono: 1’ uno,
che appartenendo propriamente alla x
causa può essere confutato dall’avversario; l’altro, che, essendo inconcludente, non ha bisogno
di venir confutato. Quali siano le
argomentazioni che convenga di
confutare, e quali quelle che debbansi deprezzare e passar sotto silenzio senza
confutarle, tu non potrai chiaramente conoscere se non li porgerò gli esempi. Questa cognizione
delle viziose argomentazioni li
apporterà due vantaggi: il primo, di
farli evitare i difetti nel ragionamento,
il secoudo , d’ insegnarli a conoscer facilmente quelli clic l’avversario non ha sapulo
cvilare. Poicliè adunque noi abbiamo mostralo che la perfetta e compiuta argomentazione si compone di
cinque parti, consideriamomi ciascuna
qualjsono i difetti da evitarsi,
acciocché e nei medesimi possiamo
guardarcene, e col metodo istesso attaccare le argomentazioni dogli
avversarli in lutto le parli loro, e
farle da alcuna parte cadere. L’esposizione è viziosa, quando, prendendo per
modello taluno, o la maggior parte degli
uomini, si appropria a lutti ciò che non
è conveniente necessariamente a tutti,
come se si dicesse così: « Tutti coloro clic sono poveri, amano meglio di procacciarsi
ricchezze con le ribalderie, clic
conservare la povertà seguendo il
dovere. » So uno esponesse così la sua argomentazione senza curarsi di cercare
qua! ne fosse la ragione o la
oonl'errpazion della ragione, noi potremmo facilmente confutare la sua stessa
esposizione, mostrando che è falso ed ingiusto attribuire a lutti i poveri ciò che può essere solo di
qualche povero malvagio. Parimenti è
viziosa l’esposizione, quando si afferma che ciò che accade di rado, non può punto accadere, come: « Niuno d’una
sola occhiata, e in passando, può esser
preso d’amore:» perciocché essendo pure
accaduto che taluno fa d’ un’ occhiala
preso di amore, c quegli affermando che ciò non è accaduto ad alcuno, poco
importa che poi ciò accada di rado, quando si sa che qualche volta accade od è
possibile che accada. Similmente è viziosa l’esposizione, quando noi mostriamo di avere enumerale tutte le
circostanze di un fatto, e ne ommeltiamo qualcheduna essenziale, per esempio: « Poiché adunque è
manifesto eh c stalo ucciso un uomo, è d’ uopoche sia stato ucciso o da malandrini, o da
nemici, o da te, cui egli ha per
testamento lasciato crede in parte. Di
malandrini in quel luogo non se pe sono
veduti mai, di nemici non ne aveva alcuno: non resta altro, che, se non è stato ucciso nè da
malandrini, che in quel luogo non ne furono mai, nè da nemici, cui egli non aveva, sia stalo
ucciso da le. » In siffatta esposizione
noi faremo uso della confutazione,
mostrando che altre persone, oltre a
quelle che l’oratore ha nominate, hanno potuto
commettere l’omicidio: come se nel citato esempio, allorché fu dello
essere d’ uopo che sia stato ucciso o da
malandrini, o da nemici, o da noi, risponderemo che egli potè essere ucciso o
dai proprii schiavi, o dai nostri coeredi. Distrutto in questo modo il
sillogismo dell’ avversario, ci verrà
aperto un più vasto campo di difesa. Bisogna adunque nella esposizione
evitare anche questo, di non tralasciare
alcuna parte essenziale, quando parer
possa essersi da noi raccolta Ogni cosa. Viziosa parimente è quella esposizione che si compone
d’una enumerazione falsa, come se, essendo più le idee, che si presentano, ne sponiamo meno,
come: « Due sono le cose, o giudici, che
spjngon tulli gli uomini al male, la
lussuria c l’ avarizia. Che? aggiungerà taluno; e l’ amore? e l’ambizione? e
la superbia? c la paura della morte? e
la cupidigia d’impero? tante altre
passioni in fine? » L’enumerazione ancora è falsa, quando, non essendovi campo che a poche idee, ne presentiamo
molle, come: « tre cose molestano gli
uomini: il timore,, il desiderio, e la
tristezza. » bastava dire il timore e il
desiderio, perchè la tristezza va necessariamente congiunta sì all’ una sì all’
altra delle due cose suddette. Ancora è viziosa quella esposizione che è pigliala troppo da lontano, per esempio: «
Madre di tulli i mali è la stoltezza la
quale più d’ogni altra cosa genera gl’insaziabili dcsidcrii; gl'insaziabili
desiderii non hanno nè fine nè misura; questi
generano l’ avarizia ; e l’avarizia spinge 1’ uomo a qualunque misfatto. Spinti dunque dall’
avarizia i nostri avversarti, sì
commisero un tale delitto. >; Qui
bastava esporre quest'ullima idea soltanto per
non imitare Ennio e gli altri poeti, ai quali è permesso di parlare in
questa maniera: « Oh avessero gli Dii
voluto che nella selva Pclia, dalle scuri taglialo, non fosse mai caduto a , terra il pino, e che con esso non si fosse
mai tolto di fabbricar la nave, clic or porla il nome di Argo; dalla quale trasportati gli eletti guerrieri
Argivi n' andarono a conquistare il
dorato vello di un montone in Colchidc
per Io perfido comandamento del re
Pelias ! Imperciocché giammai non avrebbe
la casa sua lasciala l’ errante mia padrona Medea, piena d’affanni il cuore, ferita di
uncrudcleamorc.» Qui sarebbe bastatoli
diro, (se il poeta si fesse dato
pensiero solo di-ciò clic era bastante):
« Oh avessero gli Dii voluto che giammai non avesse la casa sua lasciata I’ errante mia
padrona Medea, ferita d’ amore ! » Bisogna adunque ben guardarsineUo
esposizioni di questo genere di risalire a cose così lontane; perciocché non v’ ha bisogno che io mi perda
qui a biasimarne a parte a parte i
difetti, come di tante altre, quando è chiaro che sono viziosissime di per sé.
È poi viziosa quella ragione, clic non è
adattata alla esposizione, sia per la propria debolezza, sia per la sua
falsità. Pecca di debolezza quella
ragione, la quale non mostra che la cosa è
necessariamente tale quale è stata esposta, come in questo luogo di Plauto: « Castigare un amico, clic per colpa il
merita, è ingrato uffizio; m:r talora
utile e profittevole. » ' Questa è l’
esposizione : vediamo qual ragione ne è
addotta. Imperciocché oggi castigherò il mio amico per una colpa, per lo quale ei merita di
essere castigato. » Egli dimostra qual
sia 1’ utile da ciò che farà, non da ciò
che conviene di fare. È ragione falsa
quella, che consta di una ragione non vera, come in questo esempio: « L’ amore non è da
fuggirsi, perchè ei genera amicizia
verissima. )) 0 come in quesl’allro: « E
da fuggirsi la filosofia, perchè ella è
madre della indolenza c della pigrizia. » Se queste ragioni non fossero false,
noi dovremmo pure ammetter per vere le
esposizioni che le precedono. Ancora è debole quella ragione che non arreca una cagione necessaria della esposizione,
come in questo luogo di Pacuvio: « Alcuni filosofi dicono clic la fortuna è
stolta, cieca, e insensata ; e vanno
predicando che ella volubile si lien
diritta sopra un globo di pietra, e clic
cade da quella parte verso cui la sorte spinge
il globo. I.a dicono eieea, perchè non vede il luogo dov’ella deve fissarsi; stolta, perchè è
crudele, incerta, instabile; insensata, perchè non sa distinguere nè chi merita
nè chi demerita- Altri filosofi poi vi
sono, i quali negano esserci per cag.ion di
fortuna veruna miseria, ma tutte cose reggersi dal caso; opinione, dicono essi, più verisimile,
la quale in fatto è tuttodì dall’ esperienza
dimostrala ; ed Oreste ne è un esempio,
il quale prima fu re, e divenne poi mendico; il che gli accadde per cagione del
suo naufragio: dunque la colpa non fu della fortuna, j) Qui Pacuvió usa una ragione debole,
quando afferma, che più veramente lutto
si fa per caso c non per fortuna;
perciocché tanto nell’uno quanto nell’ altro sistèma dei filosofi pur potè
farsi che queirOrcstc, che era stato re,
divenisse mendico. È debole eziandio quella ragione, che non ha che l’ apparenza della ragione, ma
altro non dice che ciò che è stalo dello
nella esposizione, come: « Un gran male è l’avarizia per gli uomini, perchè gli
uomini per lo smodato desiderio delle
ricchezze vengono da molte e grandi incomodità travagliali. » Qui, se ben si
consideri, vicn data per ragione,
cambiale le parole, la cosa slessa, che fu detta nella esposizione. Ancora è
debole quella ragione, la quale
soggiunge alla esposizione una cagione meno idonea di quello che la cosa richiede, per esempio: « Utile è la sapienza,
perchè quelli che sono sapienti, hanno consuetudine di seguire la pietà. » Ovvero: « È utile aver
dei veri amici, perchè allora avrai con
chi scherzare. » Se noi adduciamo
siffatte ragioni, l’esposizione non
vieti confermala con una prova universale, assoluta, ma minima affatto. Ancora
è debole quella ragione, la quale si
possa appropriare anche ad un’altra
esposizione, come fa Pacuvio,chc arreca
la medesima ragione per provare tanto clic la fortuna è cicca, quanto
eh’ ella è insensata. Nella confermazione
della ragione vi sono molli difetti ^a
evitarsi nel nostro ragionamento, e molli altri
da notarsi in quello degli avversari!; c tanto più attentamente vogliono essere considerati in
quanto clic un’accurata confermazione della ragione consolida mollo gagliardamente tutta intera
Ja nostra argomentazione. Appunto per ciò gli oratori diligenti nella eonfcrmazion della ragione
fanno uso della doppia conclusione, vale
a dire del dilemma, a questo modo: « 0
padre, voi mi colpite di una crudele ingiustizia. Imperciocché, se tenevate
Crcsfonlc per un malvagio, perchè me Io
concedevate a marito ? E se è un uomo
onesto, perchè, a malgrado mio e suo, mi
costringete a lasciarlo ? » Simili
conclusioni, ovvero dilemmi, o si rivolgeranno in contrario, osi confuteranno
in una delle due parti. Si rivolgeranno
in contrario così: « Io non commetto, o
figlia, contro di le veruna ingiustizia. Se egli è onesl’ uomc, rimarrà
tuo marito; ma se è malvagio, io por
mezzo del divorzio ti torrò a gravi mali. »
Si confuteranno in una delle due parti, se delle due proporzioni del dilemma si dissolverà ol’
una o l’ altra, come: Se stimavate
Crcsfontc un malvagio, perchè
concedermegli in isposa ? — Lo credetti un onesto uomo; m’ingannai; lo conobbi dappoi, c l’
odio adesso. « XXV. La confutazione adunque di un tale
dilemma si fa in due maniere: la prima maniera, mostrata di sopra, è più
ingegnosa; quest’altra è più facile a
trovarsi. Similmente è viziosa la conl'ermazion della ragione, quando malamente
usiamo come segno certo di una data cosa
un tal segno, che può significarne più
d’ una , per esempio : a Poiché colui è
pallido, fa d’ uopo clic sia stato
ammalalo. » Ovvero, « Fa d’uopo che colei abbia partorito, poiché tiene sulle braccia un
bambino.» Colesti segni non presentano
di per sé stessi una certezza, se non vi
•concorrano altri segni analoghi: che se vi concorrano, allora potremo più
facilmente avere la convinzione. È parimenti giudicalo diretto il dire contra
1’ avversario cosa , che. può convenire
o contra un altro, o conira quel medesimo clic parla, per esempio : « Miseri son quelli, che tolgono moglie; —
ma tu la togliesti due volle. » E ancora difetto usare una difesa, che sia
comune; per esempio: * Colui peccò per iracondia , o per inesperienza, o per amore. » Se
cosiffatte scuse si dovessero tenere per bpone, allora n’andrebbono impuniti i
più grandi delitti. Egli è parimente
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difetto il dare per cerio ciò che non è
generalmente ricevuto per tale, perchè è cosa pur sempre soggetta a controversia , per esempio
: « Olà, non sai tu che gli Dei, i quali
hanno il potere di muovere le còlesti cose e le terrestri, fanno tra loro pace, e manlengonsi in concordia?
» CosVEnnio introduce Cresfontc, che
porge quesf esempio in favore del suo diritto, quasiché avesse già dimostrato
con ragioni abbastanza certe che la cosa
è così. È parimente difettoso ciò che sembra dirsi oramai troppo lardi , c ad
affare finito, come: « Se io avessi ciò
preveduto, o Quiriti, non avrei permesso
che la cosa venisse ad un tal punto; io avrei fatto così e colà; ma in quel
momento questo espediente non mi venne
al pensiero. » E ancora riguardalo come
difetto il cercar di coprire con una
qualche ombra di difesa un’ azione, che
fu manifestamente colpevole, per esempio : « Io sì ti lasciai, quando lutti venivano a
te, signore di un fiorentissimo regno; ma ora essendo tu da tutti abbandonato, io sola con
grandissimo mio. pericolo mi accingo a
riporti sul tuo trono, a Medesimamente è
riguardato siccome difetto che si dica
una cosa in modo che possa esser presa in un senso diverso da quello clic si
è voluto significare. Di tal falla
sarebbe questa sentenza, che fosse pronunziala da alcuno potente e fazioso in pubblica adunanza : « E meglio
avere un re che cattive leggi. » Imperciocché sebbene questa cosa possa essere della senza un fine
malizioso, persola cagione dicrescerforza airargomento, pure, poi’ la potenza
di colui che parla, non è detta senza un
odioso sospetto. È pur male l’usare
definizioni false o volgari. False sono queste, come se alcuno dica: « Non sono ingiurie se non
quelle che risultano da percosse o da
oltraggi. » Volgari definizioni son
quelle, che possono senza più trasferirsi ad altra cosa; come se alcuno dica :
« Il delatore è, per descriverlo in
breve, un uomo degno di forca; perciocché è un cittadino perverso e pestilenziale. » Qui usasi una definizione,
che non si addice meno al delatore che
al ladro, al sicario, al traditore.
Similmente è difetto pigliar come prova
ciò che è posto in djsquisizione; come se alcuno accusi altrui di furto, c
dica: « Questo colale • è un uomo
cattivo, avaro, fraudolento , e di ciò è
una prova il furto di cui viene accusalo. » È ancora difetto risolvere la cosa
in deputazione con altra egualmente in
deputazione, per esempio: « Non
conviene, o Censori, che leniate costui per
isousato da ciò che dice, clic egli non ha potuto presentarsi a voi, come si era obbligato con
giuramento; perchè, se non avesse potuto ritornare all’esercito, farebbe egli una scusa eguale
al tribuno militare? » Questo argoménto è vizioso per ciò clic viene recata innanzi per esempio non
una cosa già spedita e giudicata, ma
una cosa ancora indecisa e posta
egualmente in controversia. Altro
difetto si è, quando non si rischiara abbastanza la cosa che forma il punto essenziale della
controversia, e la si lascia da parte, come se fosse di già consentita; per esempio: « L’oracolo, se pur
lo intendete, parla chiaro ; egli comanda, che, se vogliamo impadronirci di
Troia, si diano queste armi a tale
guerriero qual si fu colui che le portò: questo guerriero ecco son io: è giusto
che io possegga le armi fraterne, e che
vengano aggiudicate a me, o come a
congiunto di Achille, o come all’ emulo
del suo valore. » Un altro
difetto si è quello di non essere nel
proprio parlare d’accordo con sè medesimo, e di contraddire a ciò che prima si èdetto, per
esempio: « Io non posso, meco medesimo
pensando, spiegare perchè io accusi costui; imperciocché se egli ha verecondia, perchè mai accuso io un uomo
che è onesto? Se poi ha un animo, che
non sente verecondia, perchè mai accuso io un uomo che fa poco conto di quello che dico? In verità egli
dà assai buone ragioni per non accusare
quell’uomo. E perchè dunque soggiunge :
« Ora io sì li farò smascheralo rimontando al principio ? » È similmente da biasimare ogni discorso che
urli la volontà dei giudici o degli uditori, elio ferisca le parti ch’ei
seguitano o le persone che da loro sono
amate, o che , per qualche altro modo
consimile, offenda le opinioni loro. Ancora è vizio non sostenere nella confermazione le cose
che nella esposizione si è promesso di
sostenere. Ancora è da guardarsi dal parlare di una cosa, allorché se ne ha
un’altra in controversia, e per evitar
questo difetto vuoisi por mente o di non aggiunger nulla al soggetto, o
di nulla levargli, o di non far cambiar
natura alla causa trasformandola in
un’altra, come appresso Pacuvio fanno appunto Zelo ed Anfione; i quali, dopo di avere
introdotta questione intorno alla
musica, d’ altro poi non ragionano che della natura della sapienza, c
dell’utilità della virtù. Vuoisi ancora osservare che, se l’accusa rechi una cosa, la difesa non ne
confuti un’altra, come fanno sovente
molti avvocati imbarazzati da una causa difficile; come: « Se taluno, venendo accusato di avere per broglio cercala
una carica, risponda clic sovente in
campo ha ricevuto ricompense da’ suoi
capi. » Se noi nel discorso degli
avversar» porremo una grande attenzione a
ciò, sovente li coglieremo in difetto, e per siffatto modo cogliendoli mostreremo, che essi nulla
dir possono intorno a quel soggetto. È
parimente vizio dir male di un’ arte , o
di una scienza, o di uno sludio
qualsiasi a cagione de’ vizii di coloro clic quel colnlc studio professano:
come quelli clic biasimano la Rcttorioa
a cagione della vituperevole condotta di
qualche oratore. Similmente è errore il
pensare che, poiché si è dimostrato essere stalo commesso il delitto,, sia pur anche dimostralo
chi ne è stato T autore, come: « Egli è
manifesto che il cadavere era sfiguralo,
gonfio, livido: dunque quel tale fu
tolto di vita con veleno. » Conciossia^
che se ad imitazione di molli si ponga ogni cura a provare che quel tale Tu avvelenato, si
verrà a cadere in un difetto non
picciolo; perchè non si cerca già, se vi
è stalo delitto, ma bensì da chi è stalo
commesso. XXVIII. È pur da riguardare comevizio,
quando si paragonano due cose, lo
esaltarne una, e non dir parola
dell’altra, ovvero parlarne con alquanto
di negligenza; come, qualora faccndosrquislione, se sia meglio clic al popolo si dia grano o
no, tu ponga cura ad enumerare quali
siano i vantaggi dell’ uno di questi
avvisi, c trapassi come di niun valore
quali esser possano i disavvantaggi dell’avviso opposto, ovvero nc dica solamente
i più piccoli. Altro vizio si è ancora, quando si paragonano due cose, pensare che sia necessario di
biasimarne una, perchè lodasi l’altra, come sarebbe: Se facciasi quislionc a quale dei due popoli
debbasi concedere onor maggiore, se agli
Albani o ai Vestini, per cagione di servigi prestati alla Rcpubblica Romana ; c
colui, che parla in favore degli uni,
dica offesa contro agli altri; perchè none necessario che, se In dai la
preferenza agli uni, dica poi male degli
altri. Imperciocché tu ben potrai, dopo
di avere assai lodali gli uni, impartir qualche
lode anche agli altri, per non dar a credere che tu abbi alquanto appassionatamente combattuto
contro alla verità. Altro vizio pure si è quello di levar controversia intorno al nome e vocabolo di
quella cosa, di cui può esser giudice
supremo l’uso: come fece Sulpizio, il quale
dopo essersi opposto al richiamo degli esuli, ai quali non era stalo concesso di difendere la propria causa, più
tardi, mutalo avviso, nel mentre clic
proponeva la legge medesima da lui prima
combattuta, sosteneva che quella era una
legge diversa per un semplice cambiamento di nomi: perciocché egli diceva di
richiamare non, già degli esuli, ma dei cittadini cacciali per violenza; quasi che fossesi indotta
controversia con qual nome dovessero
quelli venir chiamali dal popolo Romano,
o come se non tulli coloro, ai quali era
stala interdetta l’acqua e il fuoco, si dovessero chiamar esuli. Nondimeno noi
possiamo perdonargli, s’ ei lo feGC con
un perchè: quanto a noi riconosciamo
essere vizio muovere controversia per un semplice cambiamento di nomi. Poiché
l’ornamento consta di similitudini, di esempi, di amplificazioni, di giudicali,
e MODO HI. cT allri luoghi oralorii, alti a sviluppare cd arricchire
rargomenlazione, esamineremo quali esser
possano i vizii nell’ uso di questi mezzi. È viziosa quella similitudine, la quale in qualche
parte è disacconcia, e non presenta
eguali rapporti fra i termini della
comparazione, o nuoce all’ oratore che
l’usa. È viziosa 1’ esempio, se può essere tacciato di falsità, o è indegno di
venire imitato, o è al di sopra o al
disotto del soggetto. Ci ha vizio, se si
adduca un giudicato, che riguardi una quistionc diversa, o tal cosa, sopra cui
non v’ha alcuna contestazione; oppure, se è ingiusto, o tale, che gli avversar» possano addurne a loro
favore o più altri analoghi, o più
idonei. Medesimamente è difetto,
allorché l’accusato confessa il fallo, l’argomentare sopra quello, e dimostrare
che ha avuto luogo, bastando in tal caso
solamente amplificarlo. Similmente è difetto amplificare ciò che prima ha bisoguo di essere dimostrato, come: « Se
alcuno accusi un tale di avere ucciso un uomo, e, avanti di avere bastantemente provata 1’
accusa, amplifichi il delitto, e dica,
che niente v’ha di più indegno che di
uccidere un uomo : » chè non si domanda
già, se l’ azione sia o no indegna, ma se
veramente sia stata commessa. Le
recapilolazione è viziosa, quando primieramente non ripete ogni cosa nell’
ordine col quale fu detta innanzi;
quando non riepiloga con BREVITA; quando nella sua enumerazione non
presenta un insieme ben determinato c
chiaro, che faccia ricordare qual fu
Mila prova la proposizione o
esposizione, c in appresso la ragione; e finalmente la confermazione della ragione; in somma,
qual si fu P argomentazione tutta
intera. XXX. Le conclusioni , le quali
vengon chiamate dai Greci epiloghi , hanno tre parli, componendosi esse della
enumerazione, dell’amplificazione, e della commiserazione (1). L' enumerazione
è quella, per cui noi raccogliamo e ripetiamo in pochi detti quelle cose, di
cui abbiamo par- ' lato, non per riprodurre interamente, ma per richiamare a
memoria il discorso, ripigliando per
ordine tutto ciò che sarà stalo, dello, di maniera che si risveglino nella mente dell’ uditore
le idee eh’ egli avrà potuto ritenere.
Bisogna altresì nella enumerazione por
mente a non rimontare sino all’esordio od anche solamente alla narrazione,
perchè il discorso si parrebbe lavorato e preparato con isludio speciale per fare o prova d'
arte, o spaccio d’ ingegno, o
ostentazione di memoria. Per la qual
cosa converrà cominciare P enumerazione dalla divisione, c quindi esporre per
ordine Seguo il parere di Scliutz, clic giudica intruse le parole. In qualuor locis uli possumus, etc.,
c non le ammetto nella mia traduzione.
brevemente le cose che saranno state nella confermazione e nella confutazione
trattate. L’aroplilìcazione è quella, che ha per obbielto di eccitare gli uditori per mezzo de’luoghi comuni. Dieci
precetti facilissimi insegnano i luoghi comuni proprii ad amplificare l’accusa. Il primo luogo si
traedal1’ autorità , allorché noi rivochiamo alla mente quanto la cosa, onde trattasi', sia stala a cuore
agli Dei immortali, ai nostri maggiori,
ai re, alle città, alle nazioui, agli
uomini più sapienti, al senato; e
soprattutto in qual maniera speciale abbiano le leggi pronunziato intorno a siffatte cose. Il
secondo luogo è, quando noi esaminiamo a chi sono falle le azioni, onde noi accusiamo taluno ;
se all’universale degli uomini, il clic è il più grave delitto; se a superiori
(alla qual classe appartengono coloro, che noi abbiamo compresi nel luogo comune dell’ autorità) ; se ad eguali, vale a
dire ad uomini collocali nella stessa
condizione di ani- , mo, di corpo, e di
fortune; se ad inferiori, vale a dire ad
uomini, che rimangono da noi trapassati
in tutte coleste cose- Il terzo luogo consiste nel domandare che cosa ne interverrebbe , se a
ciascheduno si concedesse il simigliarne, cioè di fare quello che ha fatto l’ avversario ; e nel
mostrare quanti danni e mali seguir
possano dal lasciare impunito quel tale
delitto. Il quarto luogo consiste nel mostrare che, ove si mandi perdonato il to reo, molli altri, che ancora sono ritenuti
dal timore di un giudizio, diverranno più pronti al misfare. Il quinto luogo è
, quando mostriamo che, se una volta
solo sia dato diverso giudizio, non vi
sarà più nulla che possa rimediare al male, o correggere F errore dei
giudici; nel qual luogo non sarà
disutile paragonare quel misfatto con altri,
per mostrare che alcuni possono venire o dal tempo tolti, o dalla
prudenza corretti; ma che cotesto da
niuna cosa umana può venire o tolto o corretto.
Il sesto luogo è, quando proviamo che fu opralo pensatamente, e diciamo che un atto
volontario non ammette veruna scusa, e
che F imprudenza sola può domandar
grazia. Il settimo luogo è , quando
mostriamo che F azione è abbominevolc,
crudele, nefando, tirannica: del qual genere sono gli oltraggi fatti ad una donna, o quelli che
cagionano le guerre, e fanno versare il sangue in battaglia. L’ottavo luogo è,
quando mostriamo che il delitto non è
comunale, ma singolare, sozzo, infame , senza esempio , affinchè venga punito
più prontamente e con maggiore severità.
11 nono luogo componesi della comparazione del delitti, quando si sostiene, per
esempio, che è un delitto più grande recar
violenza ad una donna libera , che
spogliare un tempio ; perchè a questa cosa può spingere il bisogno, a quella soltanto
intemperante burbanza.il decimo.luogo è
quello, pel quale lutto ciò che si è operato nel mandare a fine il fatto,
e tutto ciò che suol esserne
conseguenza, noi esponiamo con tratti così vivi, così accusanti, così distinti,
che si creda di vedere oprarsi e compiersi
il fatto stesso con tutte le sue ordinarie conseguenze. Per giungere
allo scopo di muovere la compassione.
nell’ animo dell’uditore noi dipingeremo le diverse mutazioni della fortuna ;
noi paragoneremo la nostra passata prosperità colla presente nostra disgrazia;
noi enumereremo e porremo sotto agli occhi le tristi conseguenze, che
deriverebbero per noi dalla perdila della nostra causa; noi supplicheremo i
nostri giudici, e raccomandandoci alla loro pietà ci commetteremo interamente
nel loro arbitrio; noi descriveremo i mali,
che per la calamità nostra cadrebbero sopra i nostri parenti, sopra i
nostri figli, sopra i nostri amici, dichiarando nel medesimo tempo che è il
loro abbandono e la loro miseria quella
clic più ci cuoce, e non già i nostri proprii mali ; noi ricorderemo la
clemenza, l’ umanità, la compassione , clic
abbiamo sempre usata verso gli altri ; noi dimostreremo che siamo stati
mai sempre o per lungo tempo nelle
avversità; noi lamenteremo il nostro
destino, la nostra sorte; noi finalmente prometteremo che in avvenire il
nostro animo sarà forte e paziente degli
avversi casi. Trattando la commiserazione converrà clic noi siamo brevi ;
perocché niente v’ ha clic più presto si
secchi quanto una lagrima. In questo
secondo libro noi abbiam trattate le quislioni presso a poco più oscure
deU’arte oratoria: laonde noi faremo qui
fine a questo libro. Kel terzo esamineremo gli altri precetti tanto quanto ci parrà conveniente. Se tu studierai
questo trattato con tanta accuratezza con quanta io ho procurato di comporlo, sì io raccoglierò
nella tua istruzione il frutto della mia
fatica, c sì tu stesso approverai nel medesimo tempo la mia diligenza e andrai
lieto del tuo progresso: le regole dell’arte adorneranno il tuo sapere, ed io
avrò maggior premura di dar compimento a ciò che resta. Son certo clic, in quanto a* le, accadrà ciò
che dico, perchè so quanto vali: noi intanto passiamo ad esaminare gli altri precetti per far paghi
i tuoi giusti desi lerii, la qual cosa è
per me la più cara diluite. Come ad ogni
causa del genere giudiziale convenisse
di applicare i precetti dell’invenzione,
abbastanza distesamente, io credo, fu dimostrato nei libri precedenti. In questo terzo libro
ora abbiamo riserbata la trattazione delle regole dell’invenzione spettanti
alle cause del genere deliberativo q dimostrativo per farti quanto più presto
conoscere tutta intera la teorica, che concerne l’ invenzione. Restano ancora
quattro parti della Rcttorica: tre verranno spiegate in questo libro, cioè la Disposizione, la Pronunciazionc, e la
Memoria: di quanto poi riguarda
l’Elocuzione, poiché essa richiede una
più ampia trattazione, abbiamo prescelto di parlarne in un quarto libro, il
quale finito ben presto, siccome spero, noi ti manderemo, affinchè veruna parte non ti manchi deH’arlc
oratoria. Infraliamo tu potrai ben apprendere queste prime parli e con noi, se li aggrada, e tal
fiata senza di noi, leggendole, acciocché nulla t’ impedisca di potere avanzarli
al pari di noi in quest'arte del dire.
Ora prestami tutta la tua attenzione: noi
continueremo a camminare verso la prefissa mela. II. Nelle deliberazioni o si cerca quale di
due partiti è il migliore, o qual è in
generale il partito che si deve
prendere. Quale di due parlili è il migliore, per esempio: «Se abbiasi a
distrugger Cartagine, o lasciarla sussistere ». Qual è in generale il partilo che si deve prendere, per esempio:
« Come se Annibale, richiamalo dall’ Italia a Cartagine, consulti se debba
rimanere in Italia, o tornare a casa, o
andare in Egitto per impadronirsi di Alessandria». Alcune volte la
deliberazione cade sulla natura stessa
della quislione: «Come se il Senato
esamini, se debba o no riscattar dal nemico i prigionieri ». Altre volte
la deliberazione viene indotta da qualche cagione esterna: « Come se il Senato nell’occasione della guerra Punica
deliberi, se dispensi con Scipione, acciocché ei possa essere nominato consolo prima che abbia l’età
voluta dalla legge ». Altre volle la deliberazione e riguarda la natura stessa della quislione, e
di più viene indotta da qualche esterna
cagione: «Come se il Senato deliberi,
nella guerra Italica, se debba dare o no
il diritto di cittadinanza agli alleati ». Io
quelle cause, in cui la deliberazione riguarderà lo natura stessa della quislione, il discorso si
aggirerà sempre intorno al soggetto. In quelle cause poi, in cui la deliberazione verrà indotta da
esterna cagione, dovrassi questa stessa cagione o innalzare o deprimere. Ogni
discorso di colui, che in una
deliberazione dà il suo parere, conviene
che si proponga per fine 1’ utile, di modo che dovrà ogni mezzo oratorio
tendere a questo fine. In una
discussione politica l’ utile ha due parli, la
sicurezza e l’onestà. La sicurezza consiste nell’evitare con
qualsivoglia mezzo un pericolo presente
o futuro. Essa si appoggia o sopra la forza o sopra l’ inganno; e noi
potremo usare o separatamente ciascuno di questi mezzi, o lutti e due insieme.
La forza si spiega per gli eserciti, per le
flotte, per le armi, per le macchine di guerra, per le leve degli uomini, e per le altre cose di
questo genere. L’inganno si compie per
danaro, per promesse, per dissimulazione, per celerità, per mcnlimenlo, c per
altri spedienti, di cui parlerò a tempo più opportuno, se mai applicherò l’
animo a scrivere sopra l’ arte militare,
o sopra 1’ amministrazione della cosa pubblica (1). L’onestà si compone del
bene e del lodevole. Il bene è ciò che
risulta dalla virtù e dal dovere. Il bene comprende Questo è un altro
luogo, che induce a credere che Cantore
della Rettorica sia proprio Cicerone. Egli fa
menzione di due opere, le quali si sa essere state più tardi da lui composte. la prudenza, la
giustizia, la fortezza, la temperanza. La prudenza è una certa finezza d’
ingegno, che, dietro un certo calcolo,,
può scegliere tra i beni ed i mali:
chiamasi ancora prudenza la cognizione di un’ arte: parimente appellasi
prudenza una memoria ricca di molte cose
congiunta ad una esperienza grande negli
affari. La giustizia è l’ equilà, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto
secondo il suo merito. La fortezza è la bramosia delle grandi cose, il disprezzo delle volgari, e la
tolleranza della fatica in ragione della loro utilità. La temperanza è nell’ animo una facoltà
moderatrice, che contiene le
passioni. III. Il nostro parlare
appoggerassi alla prudenza, se, paragonando i vantaggi coi danni, consiglieremo
a cercare gli uni e ad evitare gli altri: o
se consiglieremo in alcuno frangente qualche misura da noi sperimentata
o conosciuta, c mostreremo in che modo e con quali mezzi noi possiamo conseguire lo intento; o se persuaderemo un
partito, del quale o abbiamo noi stessi veduto i vantaggi, o abbiamo udito a raccontarli:
nel qual caso ci sarà ognora facile di
tirare altrui nella persuasione di ciò che vorremo, recando l’ esempio.
Noi faremo buon uso delle parti della
giustizia, se imploreremo la pietà in favore o degli innocenti v dei supplicanti; se mostreremo essere
conveniente di rendere il guiderdone ai
benemeriti; se proveremo essere d’uopo vendicarsi delle offese; se giudicheremo doversi ad ogni costo serbar la
fede; se diremo doversi scrupolosamente
rispettar le leggi e le costumanze sociali; se diremo doversi con amore coltivare le alleanze e le amicizie ;
se dimostreremo doversi religiosamente osservare i doveri, che la natura c’
impose verso i parenti, gli Dei, la
patria ; se diremo doversi inviolabilmente
guardare le ospitalità, le clientele, le consanguineità, i parentadi; se
mostreremo non doverci noi, nè per
guadagno, nè per favore, nè per pericolo,
nè per invidia, allontanare dal diritto cammino; se diremo dover noi in ogni nostra azione aver
di mira l’equità, la giustizia. Con
simili ed altri mezzi, che la giustizia ci offre, se nell’ assemblea popolare,
o nel consiglio avviseremo esser da fare
alcuna cosa, proveremo che è giusta; e coi mezzi conlrarii, che è ingiusta. Così i luoghi
medesimi ci gioveranno tanto al
persuadere quanto al dissuadere. Se diremo che vuoisi far cosa per fortezza
d’animo, proveremo che non solo bisogna cercare e volere le cose grandi ed
eccelse, ma ancora che gli animi forti
debbono disprezzare le cose umili e
basse, e riguardarle siccome inferiori alla
propria loro dignità. Parimente diremo che non bisogna mai lasciarsi allontanare da veruna
cosa onesta per grandezza di pericolo o
di fatica; che bisogna preferire la
morte all’ infamia ; che niun dolore ci dee costringere ad abbandonar la
virtù; che non dobbiamo temer le inimicizie
d’ alcuno per cagion del vero; che per
la patria, pei parenti, per gli ospiti, per gli amici, per tutto ciò insomma,
che la giustizia vuole da noi, bisogna affrontare qualunque pericolo, e
sottostare a qualunque disagio. Noi
ricorreremo alle parti della temperanza, se biasimeremo la smodata avidità
degli onori, dell’oro, e d'altre cose
siffatte; se racchiuderemo tulli i nostri desiderii nel giusto limite delia natura ; se mostreremo a ciascuno
quanto può bastargli, dissuadendolo dal
passar quel punto, e statuendo la sua misura ad ogni cosa. Di tal fatta sono le parti proprie della virtù, le
quali sono da amplificare, se vuoisi
persuadere, e sono da attenuare, se trattasi di dissuadere; e così saran pure
attenuali quei mezzi che ho indicati di sopra.
Conciossiachè nessuno vi sarà, il quale stimi di dover lasciar da parte la virtù; ma ò noi
presenteremo le parti, che confuteremo, siccome non offerenti alla virtù i
mezzi di prodursi, o mostreremo che la
virtù troverà meglio il suo posto nelle parti
contrarie. E così mostreremo, se ci sarà possibile, che quella cosa, che
all’ avversario nostro è piaciuto di chiamare giustizia, altro non è Che
dappocaggine, e infingardia e viziosa licenza ; che quella, ch’ei chiamò prudenza, altro non è
che una scienza inetta, garrula c
noiosa; che quella, eh’ egli appellò temperanza, altro non è che mera pigrizia e scioperata negligenza; che quella
finalmente, eh* ei disse fortezza, altro non è che gla' dialoria e spensierata
avventatezza. IV. Il lodevole è ciò che
ci procura, e pel presente e per l’ avvenire, un’ onorevole riputazione. Noi lo distinguiamo dal bene, non perchè
queste quattro parti, che comprendiamo
sotto alla parola bene, non ci procurino
per solito questa onorevole riputazione
; ma perchè quanlunque il lodevole nasca
dal bene, pure è necessario che nel discorso l’uno e l’altro siano
separatamente trattati. Infatti egli non si dee cercare il bene per amore della sola lode, ma se la lode ne deve poi
esser la mercede, la volontà del ben
fare raddoppierà di forza. Così, dopo di
aver dimostralo die 1’ azione è buona,
noi proveremo o eh’ ella otterrà le lodi
di giudici competenti ( comò se, biasimala da persone di basso ordine,
debba venire approvata da persone di più
elevalo ordine ); o eh’ ella sarà lodata da alcuno de’noslri compagni, o da
tutti i cittadini, dalle estere nazioni, e dalla posterità tutta. Essendosi di
già veduto come si dividano i luoghi concernenti le cause del genere
deliberativo, ora esporremo con tutta
brevità come debba essere distribuito
l’intero discorso. Si potrà adunque incominciareo dall’esordio diretto, o
dall’esordio per insinuazione, facendo
uso degli stessi mezzi che abbiamo irrdicati per le cause del genere
giudiziale. Se intervenga un Fatto da raccontare, si seguiranno le stesse
regole già date per la narrazione.
Poiché in questa sorte di cause il fine è 1’ utile, e quest’utile abbraccia la sicurezza e
l’onestà; se potremo servirci d’entrambe
le cose, imprenderemo nel nostro discorso a dimostrare che noi abbiamo per fine
e l’una e l’altra; c se saremo obbligali di ristringerci ad una sola,
annunzieremo qual è quella che vorremo
far valere. Se diremo di aver per iscopo
la sicurezza, la nostra divisione riguarderà la forza ed il consiglio; perocché
ciò che. nel precetto, per esser più
chiaro, io chiamai inganno, nel nostro
discorso sarà più onesto chiamar consiglio. Se diremo di aver per fine l’onestà
o sia il bene, e tutte le parti del bene
converranno al soggetto, allora lo divideremo in quattro parti;se tutte non potranno convenire, esporremo nel
discorso sol quelle che ad esso soggetto
converranno. Nella confermazione e nella
confutazione ci serviremo dei luoghi,
che abbiamo già indicali, per ben convalidile i nostri mezzi, ed abbattere
quelli degli avversari!. Per la maniera
poi di trattare 1’ argomentazione artificiosa si consulterà il secondo libro.
V. Ma se accada, che nella consultazione il parere dell’uno si appoggi
sopra ragione di sicurezza, e il parere dell’ altro sopra ragione di onestà.
come nel caso di coloro, che, assediali dai Cartaginesi, deliberano intorno al
partilo da prèndersi; colui, che
consiglierà doversi preferire la sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che
nessuna cosa è più utile della propria
conservazione; che si rende impossibile l’uso della virtù a colui che non
ha provveduto innanzi alla propria
sicurezza;chc neppure gli Dei vengono in soccorso di coloro che si gettano sconsigliatamente nel pericolo; che
non s'ha da stimar cosa onorevole quella
che mette a repentaglio la nostra
salute. Colui, al contrario, che
consiglierà di preferire l’onore alla sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che in nessun
tempo si deve rinunziare alla virtù; che
il dolore (se è ciò che si teme), che la
morte (se è questa che si paventa), sono ben piccola cosa a petto al
disonore e all'infamia; che s ha da
considerare quale ignominia ne -verrebbe altramente; c che nondimeno noi non ne conseguiremmo nè vita immortale,
nè perpetua felicità; che niente ci
assicurerebbe che, sfuggito quel pericolo,
noi non cadessimo in alcun atiro; che
per la virtù è bello andare anche volontariamente a morte; che al coraggio è
solita venir pure in aiuto la fortuna;
che vive sicuro chi vive con onore, non
chi sol guarda alla sicurezza presente; e che chi vive nell’ignominia goder non
può di una perpetua felicità. Le
conclusioni nel genere deliberalivosono d’ordinario le medesime come nel genere
giudiziale, se non che in questagenere
torna utilissimo recare il più gran numero possix bile di esempi di
falli anteriori. VI. Passiamo ora al
genere dimostrativo. Poiché questo
genere ha per iscopo la lode od il biasimo,
noi con certi mezzi costituiremo la lode, e coi mezzi contrarii trovar potremo il biasimo. La
lode adunque può riguardare o le qualità
esteriori, o l'animo, oil corpo. Le
qualità esteriori sono quelle che ci
possono venire o dal caso, o dalla fortuna,
sì buona, si cattiva; come la nascita, l'educazione, le ricchezze, il potere, gli onori, la
patria, le amicizie, e tutti i vantaggi finalmente di questa specie; e per
l'opposto le cose tutte che a queste sono
contrarie. 1 vantaggi o disavvantaggi del corpo son quelli che la natura attribuì al corpo
stesso, come l’agilità, il vigore, la dignità, la sanità, e le cose a queste contrarie. 1 vantaggi o i
disavvantaggi dell’animo sono quelli che dipendono dalla nostra volontà e dal
nostro intendimento, come la prudenza, la giustizia, la fortezza, eia
temperanza, e quelle cose che sono contrarie a queste (l).In una orazione di
questo genere si piglierà (t) Nel testo
trovansi qui le seguenti parolè : Erit
igitur haec confirmatioet confutatio nobis; ma parendomi con lo Scliulz
che siano affatto fuor di luogo, io le
ricuso come inlegitlime, e non le traduco. l’esordio odalla nostra propria
persona, odalla persona di colui, del quale parliamo, ovvero da quella degli uditori, o dal soggello slesso. Dalla
nostra persona: Se loderemo alcuno, diremoche noi facciamo ciò o per dovere, perchè fra quello e noi
passa un vincolo di amicizia ; o per
propensione, perchè esso è dotato di
tanta virtù, che tutti deggiono volerlo celebrare; o infine perchè è diritta
cosa mostrare, lodando altrui, qual sia T animo nostro, o sia il nostro carattere. Se biasimeremo, noi
diremo che facciano questo o a buon
diritto, perchè anche noi fummo così
trattati; o per amor del bene, perchè noi riguardiamo come utile che da tutti
sia conosciuta una malizia e
scelleratezza unica; o finalmente perchè biasimando altrui amiamo di far conoscere ciò che a noi non piace. Dalla persona, di cui noi parliamo: Se loderemo alcuno, noi
diremo che abbiam timore di non potere colle parole raggiungere l’altezza delle sue azioni; che è
d'uopo che tulle le lingue imprendano a celebrare le sue virtù ; che gli stessi suoi fatti passano
l’ eloquenza di tulli i panegiristi. Se biasimeremo, potremo due quelle cosè
che ci parranno contrarie a queste,
cambiando poche parole, come con l’esempio fu poco innanzi dimostrato. Dalla
persona degli uditori : Se loderemo
alcuno, diremo che , parlando noi
davanti a persone che bene lo conoscono, spendiamo poche parole per sola
cagione di avvertire; o se non fosse a loro conosciuto, domanderemo che
vogliano ben conoscere un tal uomo,
perchè trovandosi nello stesso amore della
virtù coloro stessi dinanzi ai quali lodiamo, nel quale amore è pure stata od è la persona,
clic da noi si loda, speriamo che
saranno più facilmente per approvarci
suoi fatti giusta il desiderio nostro.
Il biasimo starà nei mezzi contrari: poiché, se è conosciuta la persona,
affermeremo che noi siamo per dire poche
cose della scelleratezza sua; e se non
sarà conosciuta, domanderemo che vogliamo ben conoscerla, affinchè possano schivare la sua
perversità; perchè essendo coloro, clic odono, dissimili al tulio da colui che
si biasima, noi speriamo che saranno per
disapprovare altamente lasua condotta. Dal soggetto stesso : diremo che siamo
incerti qual cosa dobbiamo principalmente lodare ; che abbiamo timore che, anche dicendo molle
cose in favore del nostro soggetto, noi
ne ommetliamo ben molle di più; c
continueremo con sentenze di questa
forma ; alle quali sentenze sostituiremo le
contrarie, ove si tratti di biasimare.
VII. Trattato l’esordio conformemente ad alcuna di quelle fonti, di cui abbiamo parlato, non
sarà necessario elicne segua alcuna
narrazione; ma se mai ne intervenga una,
c che siamo obbligati di, raccontare con
lode a con biasimo qualche azione della
persoua di cui togliamo a parlare, cercherò
LIBRO III. 9i mo le regole della narrazione nel primo
libro. La divisione verrà fatta così:
Primieramente esporremo le cose, che vorremo lodare o biasimare; poi diremo con ordine, come cd in qual tempo
ciascuna nazione ha avuto luogo, affinchè si sappia ciò che è stato fatto, e con quale sicurezza e
precauzione. Ma converrà render conto delle virtù o dei vizi dell’animo, e mostrar poscia come
l’animo abbia tratto partito dai vantaggi o disavvantaggi del corpo o delle qualità esteriori. Per
descrivere la vita terremo quest’ordine:Cominciando dalle qualità esteriori, parleremo della slirpe;a lode
della persona, diremo di quali maggiori sia nata; è di nobile stirpe, diremo ch’è stala pari o al disopra
della sua stirpe; se è di bassa origine,
diremo che essa ha trovato suo presidio
non nelle virtù degli avi, ma . nelle
sue. A biasimo; se sarà di nobile schiatta, diremo che è stala di disonore agli
antenati; se sarà di bassa estrazione,
che nondimeno ha pur loro recato scapito.Parlando poi dell’educazione, se si
tratti di lode, diremo che la persona, di cui si parla, è stata per tutta la puerizia bene ed
onestamente educata nelle v buone discipline; se si tratti di biasimo, diremo il contrario. Dopo ciò passeremo ai
vantaggi del corpo. Cominciando dalla
natura, se si tratti di lode, diremo
che, se quest’uomo ha in sè congiunta dignità e bellezza, ciò gli ha giovato ad
onore, non a danno e a vergogna, come a
tanti altri ; se ha forza ed agilità singolare, diremo che ciò è stato l’ctTeUo di onorevoli esercizii e industrie;
se gode di una costante sanità, che ciò
è il fruito delle sue cure, e della sua
temperanza nelle passioni. Se si tratti
di biasimo, se egli possegga questi vantaggi
corporali, diremo che ha fatto mal uso di questi doni, ch’ei deve, come qualsivoglia
gladiatore, al caso e alla natura ; se
non ne possegga alcuno , tranne la
bellezza, diremo che ne è stalo privato
per sua colpa ed intemperanza. Appresso noi ritorneremo alle cose
esteriori , e considereremo quanto
abbiano potuto sopra di esse le virtù o i .
vizii dell’animo: se egli sia ricco o povero; quali sono le sue cariche, le sue glorie, le sue
amicizie, le sue inimicizie; nel
sostenere le inimicizie, che ha mai
opralo di forte; per qual cagione s’ è egli
procaccialo inimicizie ; con qual fede, con quale . amore, con quale ossequio ha coltivate le
amicizie: qual si fu nelle ricchezze ; o
nella povertà come si è egli condotto ;
qual animo ha egli mostrato
nell’esercizio del potere ; se egli non è più, qual » è stata la sua morte; quali conseguenze ha
la sua morte prodotte ? Vili. Tutti poi gli atti, pei quali si
manifesta l’attività dello spirito umano, vogliono essere rapportati alle
quattro virtù dette più sopra; di maniera
che, se lodiamo, noi diremo che si oprò con giustizia, con fortezza, con
temperanza, con prudenza ; c se biasimiamo, noi diremo che si oprò con ingiustizia, con codardia, con intemperanza,
con istoltezza. Per questa disposizione
si vede ormai chiaro come si devono
trattare le tre parli della lode e del
biasimo ; solo avvertiremo clic non è necessario che noi nella lode e nel biasimo
facciamo entrare tulle queste tre parti, perchè sovente non vi tornano neppur tulle in acconcio, c
sovente vi hanno così poca importanza,
che è inutile di parlarne: laonde farà
d’ uopo sceglier di queste tre parti
quelle che parranno offerire più solido
argomento. Le conclusioni dovranno esser brevi ; e si faranno entrare nel corso stesso della
causa frequenti e brevi amplificazioni
tolte a’ luoghi comuni. Nè, perchè questo genere di causa si presenti di rado
nella vita, si dee perciò meno diligentementcconsiderarc; conciossinchè bisogna
pur volere poter fare acconciamente ciò
che può accadere di dover fare alcuna volta. E ancorché meno spesso si tratti separatamente questo genere
dimostrativo, pure accade di sovente che nelle cause giudiziali e deliberative intervengano molte
parli di lode o di biasimo. Per la qual
cosa noi giudichiamo' doversi collocare qualche poco di studio anche in questo genere di causa. Ora, poiché
abbiamo terminata la parte più difficile della Rettorica, vale a dire, poiché
abbiamo illustrata l’ invenzione, e adattata questa ad ogni genere di causa, è
lempoche ci accostiamo alle altre parli. Prenderemo dunque a parlare della
disposizione. IX. Poiché la
disposizione è quella che c’ insegna a meltere in ordine le cose
somministrateci dairiuvcnzionc, sì che
ciascuna abbia il suo posto determinato
che le conviene ; facciamoci a mostrare qual modo debba tenersi in tale
operazione. Due sorte di disposizione ci
ha: P una, che dipende dalle regole dell’ arte, e 1’ altra, che si conforma
alle occasioni. Noi disporremo secondo le regole dell’ arte quando seguiremo i
precetti che nel primo libro abbiamo
dati; i quali sono di usare l’ esordio,
la narrazione, la divisione, la confermazione, la confutazione, la conclusione;
e di osservare nel discorso 1’ ordine di queste parli in quel modo che abbiamo innanzi prescritto.
Parimente sarà secondo le regole dell’
arte, quando noi distribuiremo non solo l’ insieme del discorso, ma aneora le diverse parti dell’ argomentazione,
spiegate net secondo libro, cioè l’ esposizione, la ragione, la confcrmazion
della ragione, gli ornamenti, e la recapilolazione. Due disposizioni
adunque ci ha : 1’ una di tutto il
discorso, e 1’ altra dell’ argomentazione, così l’una comel’altra fondale
sulle regole dell’ arte. Ma vi è un’
altra disposizione, la quale, lasciata
al giudizio dell’ oratore, allora che
bisogna allontanarsi dall’ ordine fìssalo dall’ arte, si conforma all’ occasione ; come se s’
incominci dalla narrazione, o da qualche argomento dei più solidi, o dalla lcllura di qualche testo ; o
se dopo 1' esordio si passi alla
confermazione, c poscia alla -
narrazione; o se invcrtasi nel modo stesso l’ordine regolare ; il che non bisogna mai fare, se
non quando la causa ciò richieda assolutamente.
Se, per esempio, ci parranno assordale
le orecchie degli uditori, e stracchi gli animi loro dai. nostri avversarti per
l’abbondanza delle parole, sarà bene
lasciar 1’ esordio, e incominciare la causa o dalla narrazione o da qualche robusto argomento.
Poscia, se sarà vantaggioso, perchè non è sempre necessario, ci sarà lecito di ritornare alle
idee proprie dell’ esordio. X. Se la
nostra causa parrà circondata da molta
difficoltà, sì che nessuno abbia I’ animo disposto ad udire favorevolmente l’ esordio, noi, dopo
aver dato cominciamenlo dalla
narrazione, potremo tornare indietro, esponendo le idee che sarebbero convenute all’esordio. Se la narrazione essa
stessa parrà poco probabile, daremo
cominciamenlo da qualche argomentazione
solida. È sovente necessario ricorrere a questi cambiamenti e a queste trasposizioni di parli quando lo stesso
soggetto ci obbliga a cambiare ad arte
la disposizione prescritta dall’ arie. Nella confermazione e nella confutazione
conviene altresì di seguire disposizioni
simili delle argomentazioni ; collocare nel principio e alla fine le
argomenlazioni più valide; c le
mediocri, c quelle clic non sono nè inutili alla causa, nè necessarie a convincere, che,
separatamente presenlalc, e ad una, ad una, sarebbero deboli, ma clic riunite
alle altre divengono forti e decisive, dovranno essere collocale e disposte
nel mezzo. Imperciocché, fatta la
narrazione, l’animo dell’uditore aspetta
subitamente gli argomenti che possono
confermare la causa. Bisogna adunque recare nel mezzo qualche solida prova. E
fioichèle cose dette in fine sono quelle
che più facilmente s’ imprimono nella
memoria, è utile, alla fine del
discorso, lasciare nell’animo degli uditori la fresca impressione di un molto solido
ragionamento. Questa disposizione di
mezzi, simile a buona' ordinanza di soldati, può facilissimamenleneldire,
siccome quella nel combattere, procacciar la vittoria. XI. Molli Retori riguardarono la
pronunciazionc siccome ciò clic v’ ha di
più utile all’ oratore, e di più
acconcio a generare la persuasione. Quanto a
me, non dirò tanto facilmente eh’ ella sia la più importante delle cinque parli della
Rettorica, ma sì non temerò di affermare
che nella pronunciali) Chi legge il libro II. De Oratore, capo 77, Si chiama articolo, o inciso la distinzione,
che si fa di ciascuna parola per pause,
tenendo sospesa la frase sino all’ ultimo :
per esempio: « Coll’impeto, colla voce, coll’ aspetto hai sbigottiti gli
avversar». » E parimente: « Tu coll’
invidia, coll’ ingiustizia, coll’ autorità, colla perfìdia hai tolto via i nemici. » Tra la
veemenza di questa figura, e quella
della precedente ci ha questo divario,
che quella fa passi più tarpi e più
radi, e questa s’ avanza più rapida e più pronta. In quella mi pare di veder portare la spada al
petto dell’ avversario da braccio
allungato c pugno slret lo, e in questa venirneferilo il petto da colpi spessi e rapidi . La continuazione o il periodo è
una stretta e non interrotta
concatenazione di parole in sino a senso
compiuto. Noi trarremo grandissimo
vantaggio da questa figòra , se l’ useremo in tre parti : nella sentenza, nel contrario, nella
conclusione. Nella sentenza, per esempio : « Non può la fortuna fare gran danno a colui che pose suo
presidio più fermamente nella virtù, che nel caso . » Nel contrario; per esempio : « Se alcuno non
locò molla speranza nel caso, qual danno
sì grande far gli potrà il caso? » Nella
conclusione; per esempio: « Se la
fortuna può moltissimo su di quelli , che
tutti i fatti loro lasciano in cura del caso, non bi* sogna adunque tulle cose commettere alla
fortuna, onde ella non piglia su di noi
troppo grande dominio. In queste tre ligure la concatenazione delle parole è così necessaria alla forza del
discorso, che poco valente sarebbe
tenuto un oratore, se non sapesse la
sentenza, il -contrario e la conclusione con ben congiunte locuzioni esporre.
Ci sono ancora altri casi, in cui la
continuazione può usarsi con vantaggio,
benché non sia proprio necessario 1’
usarla. XX. Si chiama Compar quella
figura, che ha in sè i membri, che già
dicemmo, della frase formali quasi del
medesimo numero di sillabe. Ciò non otteremo già col coniare le sillabe ( il
che sarebbe una puerililà ), ma bensì l’ uso c l’esercizio ci metteranno in
grado per un certo naturai senso di conformare ciaschedun membro a quello che
avrem posto di sopra; per esempio: « In
battaglia il padre succumbeva.a casa il
figlio s’ammogliava, ciò lutto un fatai
caso governava. » E parimente : « Alla
fortuna dee l’uno la felicità, all’ industria deo l’altro la virtù. »
Sovente però può intervenire in questa figura, che il numero delle sillabe non
sia affatto eguale, e nondimeno paia esserlo, se anche l’uno o l’ altro membro è più corto di una o
di due sillabe; ma neH’uno essendo più
le sillabe, nell’altro la sillaba o le sillabe siano più lunghe e più piene; talché la lunghezza o la pienezza di
queste sillabe compensi e pareggi il
maggior numerò delle sillabe dell’altro
membro. Si chiama SimiUter cadens una figura , quando nella medesima struttura delle parole se ne hanno due o più,
le quali per egual modo nei medesimi
casi si pronunziino, per esempio: « Hominem laudas egentem virtutis, abundaniem
fclicitutis. E parimente :’ « Cuius omnis in pecunia spes est, eius a sapienlia est animus remotus. Diligenlia
comparai divitias, negligentia corrumpit animum; Tu lodi un uomo povero di virtù, ricco di
felicità. unno ìv. - et tamen quurr* ita vivit, neminem prue se dadi hominem. La figura Similiter desinens si
haquandoleparole presentano una stessa desinenza, senza die i casi siano gli stessi; per esempio: « Ttirpiier
audes facere, nequiter sludes dicere. Vivis invidiose, delinquis studiose,
loqueris odiose. E parimente: « Audaeter lerritas , humiliter placas ».
Queste due figure, V una delle quali consiste nella simiglianza delle desinenze, e l’ altra nella
simiglianza dei casi, mollo bene si accordano fra loro; anzi i buoni scrittori per lo più le
collocano insieme nelle stesse parli del discorso. Ciò si farà nella seguente maniera: Perditissima ratio est
amorem petere, pudorem fugere, diligere
fonnam, negligere famam ». Qui le
parole, ebe hanno casi, Colui, che ita messo tutta la sua speranza nell’oro,
Ita l’animo ben lontano dalla saviezza. Acquista le ricchezze colla operosità, e corrompe il
proprio animo colla inlìngardaggiue; e nondimeno, vivendo in tal guisa, nessuno reputa uomo a confronto di sè.
Osi oprare disonestamente, e ti studii a parlare scelleratamente. Odiosa è la tua condotta,
ami il defitto, ed offensivo è il tuo parlare. Audace sci nel minacciare, umile
nel supplicare. Niente di più vergognoso può farsi quanto di finiscono con casi
simili, e quelle che non ne hanno, finiscono con la stessa desinenza. L’
annominazionè o paranomasia si ha ,
quando si ripete la stessa parola, o lo stesso nome cambiandovi una o due lettere, una o due
sillabe; o quando si applica la medesima
parola a due cose fra loro differenti.
Ella si forma per molle e varie maniere.
Colla diminuzione o contrazione della
stessa lettera, per esempio : « Hic qui se
magni fiee iactat , atque ostentai , veniit a te ante, quam Romam venit (1) ». 0, facendo il
contrario, per esempio: « Hicquos
homines alea vincil, eos ferro statini
vincit. Coll’ allungamento della
medesima lettera, per esempio: Hunc avium dulcedo ducil ad avium (3) ».
Coll’ abbreviazione della medesima
lettera, per esempio : « Hic torneisi videtur esse honoris cupidus , tamen
non tantum curiam diligit, quanlum
Curiam. abbandonarsi all’ amore, e di
rinunziare al pudore; di esser avidi
della bellezza e non curanti della fama. Costui, che spiega tanta giattanzac
ostentazione, fu da te venduto avanti che fosse a Roma venuto », (2) « Quelli, che costui in giuoco vince,
tosto di catene avvince. Il canto degli uccelli trae costui fuor di via ». « Benché costui paia ambizioso degli onori
pur non ama tanto la curia quanto Curia.
Curia è una cortigiana famosa. Aggiungendo delle lettere, per esempio « Hic
sibi posset temperare , nisi amori
piatici ottemperare ». Levando delle
lettere, per esempio: « Si lenones
vilasset tanquam leones , vilae se tradidisset. Trasponendo delle lettere, per
esempio: « Videte , iudices, utrum Uomini navo, au vano credere malilis. E parimente: Nolo esse laudator, ne videar adulator. 0 mutando
una lettera : per esempio : « Deligere oportet , quem velis diligere. Di tal fatta sono le
annominazioni o paronomasie, che fanno sostenere alle lettere un leggiero cambiamento, sia
allungandole, sia trasponendole, sia assettandole in altra maniera non molto diversa. Yi ha altre paronomasie, in cui le
parole non hanno una cosi stretta
rassomiglianza, ma conservano però una certa analogia fra loro. Eccone una dì questo genere: « Quid veniam, qui
siiUj quare veniam, quem insimulem , cut
prosim, Egli poiria temperar se stesso, se non amasse meglio ottemperare alTamore. Se fuggiti
avesse i lenoni come i leoni, avrebbe
conservata la vita. Vedete, o
giudici, se amate piuttosto di prestar
fede a un uomo coraggioso o ad un uomo vano. Non voglio essere lodatore
per non parere -adulatore. Egli conviene
scegliere colui che tu vuoi amare. quem postulerà, brevi cognoscetis Qui
si trova in alcune parole una certa
analogia, che fa d’ uopo ricercar meno
che quelle degli esempi precedenti, ma
che pur vuol essere qualche volta usata.
Ecco un’altra forma della medesima figura:, Demus operaia , Quirites ne omnino
Paint Conscripli circumscripti pulentur.
Questa paranomasia si accosta alla
rassomiglianza perfetta un poco più che
la precedente, ma meno che quelle
riferite innanzi, perchè ad esse non solamente sono state aggiunte delle
lettere, ma ne sono state altresì levate
delle altre. Una terza forma di questa figura si è di presentare diversi casi di uno o più nomi. Di un sol nome; per
esempio: Alexander Macedo summo labore anirnum ad virtulem a pueritiu confirmavit. Alexandri virtùtes per
orberà terme eum laude et gloria sunt
vervulgatae. Alexandro si
vita longior data esset , Oceanun manus M acedo num tran svola sset. Alexandrum omnes, ut maxime meluerunt,
ilem plurimum dilexerunt. Qui un solo
nome si è Voi conoscerete ben tosto la
cagione, che qui mi guida, chi io sia,
che cosa io mi proponga, chi io accusi,
chi io difenda, chi io citi in giudizio. Facciamo in modo, o Quiriti, che i
padri coscritti non vengano stimati affatto circoscritti. (3) « Alessandro Macedone dallasua infanzia
esercitò con grandissima costanza l’animo
suo' alla virtù. Le fallo successivamente passare in differenti casi. Ora vediamo una paronomasia, in cui più
nomi saranno usali in differenti casi
alla loro volta: Tiberiam Gracchum,
rempublicam administranlem, indigna prohilmit ìipx diutius in ea commorari.
Caio Graccho simdiler , occisio oblata est ,
quae vi rum reipublicae amanlissimum subilo de sinu eivilutis eripuil. Saturninum, fide
caplum malorum, perfidine scelus vitae
pricavit. Tuus, o Druse, sanguis
domeslicos parietes, et vultam parenlis
adspersit. Sulpicium, cui paullo aule
omnia concedebant, eum brevi spatio non modo vivere, sed eliam sepeliri prohibuevunl(l) ».
Quc virtù di Alessandro si conservano con lode e gloria nella ricordanza del mondo intiero. Se ad
Alessandro fosse stala consentita dagli
Dei una più lunga vita, un pugno di
Macedoni saria volato al di là dell’ Oceano.
Se tutti temettero grandissimamente Alessandro, lo amarono pur anco di moltissimo amore. Una
morte indegna tolse Tiberio Gracco alla
onorato incarico d’amministrar la Repubblica, al quale era tutto intento. Similmente a Caio Gracco
fu tolta la vita da nemica mano, che
alla città improvvisamente rapi un uomo
caldissimo d'amore per la Repubblica.
Saturnino, che posto avea sua fede ne’ malvagi, spensero i perfidi amici
medesimi. Il tuo sangue, o Druso, bagnò
le domestiche pareli, e il volto della madre.
Sulpicio, al quale poco prima tutto concedevano, privaron ben tosto non
solo della vita, ma anche dello onor del
sepolcro. ste tre ultime figure Similiter cadens, Similiter desinens , e Annominazione o Paronomasia,
allorché avremo alle mani una causa vera, non le dovremo usare che mollo di
rado; perciocché non si possono trovare
senza sforzo e perdita di tempo. Siffatti giuochi dell’inlellelto sembrano avere per iscopo piuttosto il diletto che la
verità. Laonde l’uso frequente di queste
figure toglie all’eloquenza la sua autorità, la sua nobiltà, la sua severità. E non solo toglie alla parola tutta
la sua virtù, ma l’uditore rimane disgustato
da una tale maniera di dire, perchè
trova in queste figure fi' nezza e
giocondità, non mai bellezza e dignità. Il
bello ed il grandioso possono piacere a lungo, ma il giocondo c l’aggraziato generano ben tosto
sazietà allo sdegnante orecchio. Facendo noi dunque abuso di queste figure
mostreremo di compiacerci di una puerile elocuzione; ma se le frammetteremo nel
discorso con parsimonia, o ve le
spanderemo variamento qua e là, esse gioveranno a render più brillante il discorso stesso,
come se fossero altrettanti punti
luminosi. La soggiunzionc è quando noi
domandiamo- ai nostri avversari!, o in
generale agli uditori, che cosa può dirsi a favor di quelli, o contro di noi; c poscia
soggiungiamo ciò che bisogna veramente
dire o non dire, o ciò che può essere
favorevole olla nostra causa, o nocevolc
a quella degli avversari, per esempio: « Io doman (io adunque come questo uomo è divenuto sì
ricco. Gli e forse sialo lascialo un
ampio patrimonio? Ma i beni tulli di suo
padre furono venduti. Gli è forse toccala qualche eredità? No certamente;
anzi tulli i suoi parenti lo hanno
diseredato. Ha egli avulo guadagno da
lite o da giudizio? Non solo non ha
oltenuto nulla di ciò, ma anzi di più è stalo
condannato a pagare una grossa ammenda. Dunque se non deve la sua
ricchezza a veruna di queste cagioni, siccome voi tutti vedete, o bisogna dire che a costui nasce l’ oro in casa, o che
egli ha acquistato ricchezze con mezzi
illeciti. Eccone un altro esempio: « Io ho spesse volle osservato, o giudici, che molti
accusali possono trovar favore in qualche onorevole circostanza, la quale
neppur dagli accusatori può essere
impugnata; ma il nostro avversario nulla può fare di simigliarne. Imperciocché, invocherà egli
la virtù di suo padre? ma voi questo
padre nella coscienza vostra condannaste
alla pena di morte. Passerà egli in
rassegna il tempo della sua vita antecedente onestamente speso in alcun luogo?
ma voi tutti senza più sapete com'egli
ha vissuto sotto i vostri occhi
medesimi. Enumererà forse de’ parenti, al cui nome voi abbiale a rimanere
commossi? ma egli non ha parenti. Menerà
forse innanzi degli amici? ma niuno è,
che non riguardi siccome uno scorno
l’essere chiamalo amico di costui ». E similmente: « Il nemico, cui tii
riputavi colpevole, adducesti forse in
giudizio? no; perciocché tu Tue* chiesti
senza che fosse condannato. Avesti tu fimore delle leggi, che proibiscono di
ciò fare? ma tu neppure pensasti che ei
fossero leggi. Quando egli ti faceva
presente l’antica reciproca amicizia, ti
sentisti commosso? niente del tinto; anzi tu lo
uccidesti con più rabbia. E che? allorquando i suoi figliuoletti ti si gittarono ai piedi, fosti
tocco da compassione? anzi con
sommissima crudeltà volesti che rimanesse insepolto il padre loro ».
ilavvi in questa figura mollo di
veemenza e di gravità, perciocché dopo
che si è domandalo che cosa bisognava fare, si soggiunge tosto che quella
cosa non si è punto fatta. Di che nasce
mollo facilmente che s’ingrandisca
l’indegnità della cosa. Noi possiamo altresì riferire la soggiunzione alla
nostra propria persona, per esempio: «
Che doveva io fare, allorché mi vidi
soprappreso da una sì grande moltitudine di .Galli? Forse combattere? ma,
oltrecchè saremmo usciti a battaglia con pochegentiavevamo pur anche una
posizione mollo sfavorevole. Star dentro agli alloggiamenti? ma noi non avevamo nè soccorsi da attendere, nè
vettovaglie per potere a lungo campare
la vita. Abbandonare gli alloggiamenti?
ma eravamo accerchiali. Contar per nulla
la vita de’soldati? ma mi pareva pure di
averli ricevuti con questa condizione di conscr varli incolumi, per
quanto potessi, alla patria c ai
parenti. Ricusare le condizioni del nemico? ma la salvezza de' soldati deve andare innanzi a
quella delle bagaglic ». Siffatte
soggiunzioni si pongono sovente l'una
dopo l’altra, acciocché da tutte appaia venir dimostrato che non v’ era niun
miglior partito a prendere che quello,
che appunto fu preso. La gradazione è
una figura per la quale non si discende
alla parola seguente prima che siasi
risaliti alPanteceddiite, per esempio: « Qual
altra speranza di libertà ci rimane, se ciò cli'ei vogliono, possono, e ciò che possono, osano,
e ciò che osano, fanno, e ciò che fanno,
a voi non è grave? >) E ancora: t lo ciò noli pensai senza che il consigliassi: nè il consigliai, senza che
intraprendessi tosto a farlo io stesso; oè intrapresi a farlo senza che lo recassi a compimento; nè lo
recai a compimento senza che lo
approvassi. » E ancora: AH’Affricano la industria procacciò virtù, la virtù
gloria, la gloria rivali. » E ancora: « Lo imperio della Grecia si fu appo gli Ateniesi: degli
Ateniesi si fecero signori gli Spartani;
gli Spartani furono superati dai Tcbani;
i Tebani vinti dai Macedoni; i quali
Macedoni in breve spazio di tempo allo imperio della Grecia aggiunsero l'Asia
soggiogata in guerra, » La successiva
ripetizione di ciascuna parola antecedente ha in sè una certa tal grazia; la
quale ripetizione costituisce appunto questa figura della gradazione. La definizione è quella
figura, che in poche parole e senza
nulla tralasciare abbraccia gli attributi proprii di una cosa, per esempio: «
La Maestà della Repubblica si è quella, in
cui si contiene la dignità e la grandezza della città. » E ancora: « Le
ingiurie sono quelle, che violano o con percosse il corpo, o con villaniegli
orecchi, o con altra turpitudine la vita di qualsivoglia uomo. » E parimente: « Questa non è
economia, ma avarizia; perciocché
l’dconomia si è un’ accurata conservazione delle cose proprie; c
l’avarizia si è un’ingiuriosa
appetizione delle cose altrui. » E
ancora: « Non è coraggio questo, ma temerità;
perciocché il coraggio è il disprezzo della fatica e del pericolo con ragione di utilità e
compensazione di comodi; e la temerità è
un gladiatorio intraprendimento di pericoli con inconsiderala sofferenza di fatica. « Questa figura è tenuta
vantaggiosa per ciò appunto che fa
conoscere ed intendere la forza ed il
valere di qualsivoglia cosa sì chiaramente e
sì brevemente che paia non aver avuto bisogno di esser detta con più parole, nè si pensi
essersi potuta dire con brevità maggiore. Transazione chiamasi quella, la quale
e con brevità pone sott’occhio ciò che è
stato detto, ed anco dichiara in poche
parole ciò che deve seguitare; per esempio: « Voi avete veduto come co stui si
è contenuto verso la patria; considerate ora
quale si è mostrato verso i parenti. » E parimente: « Voi conoscete i benefizii, ebe io ho fatti
a costui; ora udite in qual modo ei rn’hn ricompensato. » Questa figura è di
qualche utilità per due ragioni; prima perchè ci fa ricordare di ciò che è stalo dello, e prepara l’ uditore a ciò che
rimane da dire. La correzione è quella,
che toglie ciò che è stato detto, e
ripone in sua vece ciò che pare più
conveniente, per esempio: « Se costui avesse pregalo i suoi ospiti, anzi
avesse loro solamente fatto un segno,
avrebbe potuto facilmente ottenere lo
scopo. « E parimente » : Dopo che costoro rima-* sero vincitori, o piuttosto vinti; perciocché
come chiamerò io vittoria quella che è
stata più funesta, che vantaggiosa ai
vincitori? .0 invidia, compagna della
virtù, che per lo più vai dietro ai
buoni, o per meglio dire li perseguiti! Per questa figura t'animo dell’uditore rimane
colpito, perchè una cosa messa innanzi
con comunale parlare sembra solamente detta ; ma la stessa cosa profferita con correzione oratoria diventa
assai più notabile all’ uditore- Ma non
è meglio, dirà talu- , no, specialmente
allorché scrivi, impiegare fino da
principio il vocabolo migliore c più scelto? Può
essere che no, se il cambiamento del vocabolo faccia conoscere che la
cosa è tale, che, ove tu avessi usato il
vocabolo comunale, parrebbe essersi da te espressa troppo fiaccamente, e invece
la rendi più degna di osservazione col
venire poscia al vo ; caboto -più
scelto. Al quale se venuto fossi a bella
prima, non si sarebbe allora avvertilo nè il merito della cosa, nè quello della parola. La
preterizione è quella con la quale affermiamo, o che noi tacciamo, o che non sappiamo,
o che non vogliamo dire ciò che nel medesimo
tempo specialmente diciamo, per esempio: « Io per certo parlerei della tua giovinezza, la
quale tu dedicasti ad ogni maniera
d’intemperanza, se stimassi essere questo il tempo opportuno; ma ciò tralascio avvisatamente. Ed anco non voglio
dire che i tribuni ti castigarono siccome
infrangilore della militar disciplina: c
reputo estraneo al soggetto l'aver tu dovuto dar soddisfazione delle tue ingiurie a Lucio Labeone. Di questi falli non
dico nulla, e ritorno a ciò che forma il
soggetto del presente giudizio ». E parimente: « Io non dico che tu ricevesti danaro dagli alleati; non mi
fermo a provare che espilasti le città,
i regni, le case di lutti; passo sotto
silenzio i furti, e tutte le rapine tue.
Questa figura è utile, se è nostro interesse
di lasciar intendere una cosa, o che non è espediente di mostrare per
minuto, o che è lunga a dire, o che è ignobile, o che non si può provare,
o che è facile a confutare; di maniera
che sia meglio per noi l’aver fallo nascere copertamente un sospetto, che
l'aver preso a sviluppar cose che venir ci possano confutate. La disgiunzione
ha luogo, allorquando o l’una o l’altra delle proposizioni, che si espongono,
od anche ciascuna di esse si conchiude
con un verbo speciale, per esempio: « Il
popolo Romano distrusse Numanzia, abbattè
Cartagine , disfece Corinto , rovesciò Fregelle. Niente ai Numantini giovarono le forze del
corpo; niente ai Cartaginesi fu di
profitto la scienza militare; niente ai Corinzi fu di presidio la
scaltrita politica; niente ai Fregellani
recò vantaggio la comunanza con essonoi de’ costumi e del linguaggio ». E
similmente: « Bellezza di corpo o per malattia perde suo fiore, o per
vecchiezza dileguasi;» In quest’ ultimo
esempio e nell’altro antecedente vediamo
che ogni proposizione si conchiude con
un verbo speciale. La congiunzione si ha, quando per rinterposizione di un verbo si legano
insieme si le parti antecedenti di una
frase c si le conscguenti, per esempio; « Bellezza dì corpo o per malattia perde suo fiore, o per vecchiezza »
L’aggiunzione si ha, quando il verbo, ondelegansi tra loro le parti, non è già posto tiel mezzo, ma
è collocalo o nel principio o nel fine. Nel principio, per esempio: « Perde suo flore bellezza di corpo
o per malattia o per vecchiezza. « Nel
fine, per esempio »: 0 per malattia o per vecchiezza bellezza di corpo perde suo fiore. La disgiunzionc sente
al quanlo della piacevolezza; eperciò conviene usarla di rado, onde non generi sazietà. La
congiunzione amando la brevità si può
usare più spesso. Queste tre figure procedono da un solo e medesimo genere. La conduplicazione è la
ripetizione della stessa parola o di più
parole allo scopo di amplificare o di
commovere, per esempio: Tumulti eccita C. Gracco, tumulti nelle famiglie, tumulti nello Stato»: E parimente: « Non fosti tu commosso , allorquando tua madre ti
abbracciava le ginocchia, di’, non fosti tu commosso »? E' ancora: « Osi tu
oggi ancora presentarti al cospetto di
questa adunanza, o Iraditor della
patria, si, ripeto, o tradilor della patria, osi tu oggi ancora presentarti al cospetto di questa
adunanza »? La ripetizione della medesima parola scuote altamente l’uditore, e fa alla causa
contraria una più ampia ferita, come
spada, che a più riprese ferisca sempre
.nella medesima parte del corpo. V
interpretazione è quella che non ripete già la
parola stessa, ma ne sostituisce un’altra in suo luogo, avente il valore
medesimo, per esempio: Tu la Repubblica
hai dalle radici rovesciata, tu la città
hai sino dai fondamenti abbattuta ». E per egual modo: « Tu empiamente hai battuto il padre,
tu scelleratamente hai portato la mano
contro l’autor de’luoi giorni ». Egli è
ben necessario che l’animo dell’uditore rimanga scosso, quando colla
interpretazion de’vocaboli si viene a dare nuova forza al detto anteriore. Si
ha la commutazione quando due pensieri fra loro diversi si producono, per ragion di trasposizione, in maniera che il
secondo avente senso contrario al primo,
proceda appunto dal primo, per esempio:
« Bisogna mangiare per vivere, non
vivere per mangiare ». E parimente: «
Per questa cagione io non fo poemi, perchè,
come vorrei farli, non posso, e come posso farli, non voglio. E ancora: « le cose, che di
questo uomo si dicono, dir non si possono,
e quelle, che dir si possono, non si
dicono. » E ancora: Se un poema è un
quadro parlante, sì un quadro deve
essere un parlante poema. » E finalmente: • Perchè sei un ignorante, per
ciò appunto tu taci; c tuttavia, perchè tu taci, non sei per ciò un ignorante.
» Non si può dire abbastanza quanto sia conveniente questa trasposizione di due
sensi contrarii, in cui anche le parole si trovano trasmutale. Noi ne abbiamo qui posti più esempi, appunto
per chè, essendo diffìcile a trovarsi
questo genere, se ne avesse una chiara
idea, acciocché venendo esso ben inteso,
fosse più facile ad esser trovato all’occasione in un discorso. La permissione
si fa , allorquando nel dire noi
dichiariamo di dare e abbandonare appiedo alcun che all’arbitrio di alcuno, per
csem i pio: a Poiché tulio mi è stalo
tolto, e solo mi resta l’anima e il corpo, io a voi e al poter vostro dono ciò che sol mi rimane di tanti beni. Voi
fate di me quell’ uso, o buono o
cattivo, che meglio vi piace, giacché
tutto vi è permesso: contro di me
stabilite qual cosa voi volete: parlate, ed io ubbidirò. » Questa figura
è sommamente alta a muovere la compassione,' quantunque si possa alcuna volta eziandio in altri casi usare. La
dubitazione siha, allorquando l’Oratore
dà vista di cercare quale piuttosto di
due o più cose ei debba dire a
preferenza: per esempio: « Nocque in quel tempo assaissimo alla
Repubblica non so se dir bisogni o l’ignoranza o la perversità de’ Consoli, o
entrambe queste cose insieme. » E parimente: « Tu hai osato dir ciò? o uomo fra tutti i
mortali » in verità che io non so con
qual nome degno del tuo carattere io li
debba chiamare. « L’cspedizione si ha, allorquando, dopo avere enumerate
più ragioni dimostranti come una cosa
abbia potuto o non potuto addivenire,
tutte si rigettano ad eccezione di una sola, la quale appunto affermiamo:» per esempio: «Poiché consta che questo fondo
era mio, è necessario che tu provi o che
ne sei venuto in possesso per essere
stato un fondo abbandonato, o che è
divenuto tua proprietà per diritto di prescrizione, o che l’hai comperato a
danari, o che ti è pervenuto in eredità.
Tu non hai potuto fartene possessore per essere stato abbandonato, giacché io presentavami siccome padrone; tu non puoi
pur allegare in tuo favore la
prescrizione: tu non puoi presentare
verun titolo di compera: tu non potevi, me vivo, avere i miei beni in eredità.
Rimane adunque che tu per violenza sii
divenuto padrone del mio fondo. » Questa
Ggura è di grandissimo giovamento alle
argomentazioni congetturali; ma non
possiamo usarla a nostro piacimento, come
usiamo la più parte delle altre, non polendo noi ciò fare, se non quando la natura stessa del
soggetto ce ne dà facoltà. La dissoluzione è urta figura, che, sopprimendo le
congiunzioni, presenta i membri della
frase separati: per esempio: « Segui il voler del padre, ubbidisci alla famiglia, cedi agli
amici, ti sottometti alle leggi. » E
parimente: « Discendi ad una completa
giustificazione; non li voler sottrarre
a nulla; consegna i tuoi schiavi alla tortura; fa tulli gli sforzi perchè sia scoverlò il voro.
» Questa figura è piena di vivacità e di
forza, e si presta al parlare conciso.
La reticenza si ha, allorquando, dopo a*er
detto alcune parole, si lascia il rimanente dell’incominciato.discorso al
giudizio dell'tidilore: per esempio: « .Io non voglio incominciare a disputar lèco, perchè il popolo Romano mi
ha.... noi voglio dire per non parer
troppo vano: in quanto a te io so che
egli ti ha spesse fiale giudicalo degno di disprezzo. » E parimente: « Osi tu, in questo tempo tenere siffatto linguaggio?
luche ultimamente nell’altrui casa. . .
non voglio proseguire per tema che, raccontando io cose degne di te, non si creda che io tenga propositi
indegni della mia pesona. » Qui è più
funesto all’avversario il sospetto generalo dalla reticenza; che una eloquente spiegazione. La.conelusionc è
quella figura, che per una breve argomentazione deduce da ciò, che prima è stalo detto o fatto, ciò
che deve necessariamente seguire: per
esempio: « Che se ai Greci aveva detto
l’oracolo che non si poteva premier
Troia senza le frecce di Filottete, e queste altro non fecero che colpir
Paride, ne segue che toglier di vita
costui si fu come prender Troia. Rimangono anegra dieci figure diparole, dette propriamente tropi, che noi non abbiamo
voluto variamente disseminare qua e colà; ma che abbiamo in vece separate da quelle che son
poste di sopra, per ciò appunto che
appartengono tutte al medesimo genere,
avendo esse la proprietà di allontanar
le parole dalia loro ordinaria significazione e farne loro assumere un’altra,
dando al discorso una certa quale adornatezza. Di queste figure la prima è
l’onomatopea, la quale, sé una cosa sia
senza nome, o non ne abbia uno abbastanza idoneo, c'insegna a chiamarla noi
stessi con vocabolo conveniente o per
ragion d’imitazione o per ragion di significazione. Per imitazione, i nostri
antichi coniarono questi verbi ragghiare, vagire, mugghiare, mormorare,
sibilare. Per significare la cosa abbiamo quest’ esejnpio: « Appena che costui fé’ impelo sopra Roma, immantinente udissi lo scoppiettio della città. » Bisogna
di rado osare l’onomatopea, acciocché la
frequenza di nuove parole non generi disgusto:
ma se si usi a proposito e con
parsimonia, non solo non dispia' cerà per la novità, ma aggiungerà eziandio
bellezza al discorso. L’antonomasia è quella figura, ehe pef una specie di soprannome tolto ad
imprestilo dà a conoscere ciò che non
può essere chiamalo col proprio suo
nome: per esempio volendo parlar
de’Gracchisi potrebbe dire: « Tali non si mostrarono i nipoti dell’
Affricano. » E parimente, parlando di un
avversario, dir si potrebbe: « Vedete ora, o
giudici, come mi La trattato cotesto Plagiosippo?» Per questa figura noi possiamo elegantemente,
tanto nel lodare quanto nel biasimare, prendere o dal corpo o dall'animo o da altre cose esteriori
una qualche maniera di soprannome da
collocare in cambio del nome noto. LA
METONIMIA è quélla, perla quale noi,
volendo significare una cosa, non la chiamiamo col suo proprio vocabolo, 'ma la facciamo
intendere col cercare un nome da altre
cose che abbiano affinità o correlazione con quella. Ciò si fa o ponente do
l’inventore per la eosa trovata, come se volendo alcuno significare il Campidoglio il
dicaTarpeo(t); o ponendo la cosa trovata
invece del suo inventore, come se
volendo alcuno significare Bacco nomini
il vino, e invece di Cerere dica le biade: o ponendo l’arma invece della
persona di cui è propria, come se
volendo alcuno significare i Macedoni,
dica: « Non cosi prestamente le sarisse s’impadronirono della Grecia: *
o, volendo quel tale signifi-. care i
Galli, dica: « Non tanto facilmente fu dall’Italia scacciata la matera
oltramontana: » o ponendo la causa per 1’ effetto, come se volendo «1cuno dar a
conoscere che altri abbia fatta un’azione in guerra, dica: « Marte ti spinse
per necessità a ciò fare: » o l’effetto
per la causa, come quando si dice oziosa
un’arte, perchè concede ozio a chi
l’esercita, e pigro il freddo, perchè rende pigri gli uomini; o il contenente pel contenuto, come:
«Non si può l’Italia superare nelle
armi, nè la Grecia nelle discipline. »
Qui invece de’ Greci e degli Italiani si son posti i paesi che li contengono: o
il contenuto pel contenente, come se,
volendo alcuno nominar le ricchezze, dica l’oro o l’ argento o Leggo con un antico manoscritto, citato nell'
edizione Panckoucke: ttf si quis Tarpeium, loquens de Capitolio, nominet; la qual lezione è la più
probabile di quante ne sono recate dagli
eruditi editori antichi e moderni sino
al Panckoucke. l’avorio. Di tulle queste differenti specie di metonimie 6 più
diffìcile lo esporre le tante regole, che
trovare gli esempi; perciocché non solamente i poeti e gli oratori son per solito pieni di
siffatte metonimie, mas’ incontrano
eziandionaturalmente nel nostro
quotidiano favellare. La Perifrasi è
quella, che per esprimere una cosa semplice va cercando una circonlocuzione: per esempio: «
La accortezza di Scipione abbattè la
potenza di Cartagine. » Qui, se non si fosse avuto in mira di abbellire il
discorso, si sarebbe potuto dir semplicemente Scipione e Cartagine. L’iperbato
è quello, che cambia l’ordine delle
parole rovesciandole o trasponendole.
Rovesciandole, per esempio: « Hoc vobis
Deos immortales arbilror dedisse pittale
prò veslra( 1). » Trasponendole, per esempio: «Instabilis in istum
plurimum fortuna valuit. E parimente:
Omnes invidiose eripuil libi bene
rivendi casus facultaies. Siffatte trasposizioni, se non rendono oscuro
il senso, giovano moltissimo alla continuazione, di cui abbiamo parlato più sopra; nella qual figura bisogna che le
parole Io mi penso che gl’immortali Dei vi abbian conceduto questo favore in
ricompensa della vostra pietà. L’ incostante fortuna ha esercitato sopra costui tutto il suo potere. Il caso iniquamente ti
tolse tutti i mezzi di ben vivere. Mi siano
collocate con poetica armonia, affinché ella
riesca in sommo grado abbellita c perfetta. L’IPERBOLE –Grice: Every
nice girl loves a sailor --è un parlare, clic trascende il vero, sia per aggrandire, sia per
impicciolire alcuna cosa. Essa si piglia
o separatamente o con comparazione.
Separatamente, come in questa frase: « Se noi rimarremo concordi, misureremo
la grandezza del nostro imperio dal
punto dove leva il sole a quello
dov’egli tramonta. » L’iperbole con
comparazione poi si prende o da assimiglianza
oda preminenza. Da assimiglianza, a questo modo: « Il corpo suo era bianco come la neve, c
gli oc- * chi brillavano come il fuoco. Da
preminenza, a questo modo: « Dalla sua
bocca scorrevano le partile dolci più
del mele. » Del medesimo genere è
quest’altra iperbole: « Sì grande era lo splendor delle sue armi che superavano in fulgidezza
il sole. « La sineddoche è quella figura che fa comprendere il tutto da una
parte, o una parte daltutto o dal
singolare il plurale, o dal plurale il singolare. Il tutto da una parte, così:
t Quelle nuziali tibie non ti facevano accorto di questi sponsali? » Qui tutta
la solennità delle nozze vien fatta
intendere sotto l’ unico simbolo delle tibie. Una parte dal tutto,
dicendo, per esempio, ad un uomo vestilo
con lusso c magnificamente ornato: « Tu
dispieghi a me dinanzi tutte le tue ricchezze, e spandi tutti i tuoi tesori. » Il plurale dal
singola re per esempio: Il Cartaginese
ebbe ad aiuto l’Ispano, ebbe il feroce Transalpino, c per sino l’Italo togato in parte parteggiò per lui.
Dal plurale il singolare , come : Un’ atroce calamità empieva di dolore il suo cuore (perfora) :
perciò dall’imo petto (ex imis
pulmonibus ) levavasi per lo travaglio
affannoso il respiro.» Nel primo esempio hanno ad intendersi più Ispani, più
Galli, più Italiani ; c nel secondo, un
solo cuore ed un sol petto per quei due
nomi latini posti al plurale : nel primo
luogo il singolare vi sparge una certa
grazia, e nel secondo il plurale vi aggiunge gravità. La catacresi è
quella figura, che, per una specie di abuso, in vece della parola giusta c
propria, si serve di una parola analoga
ed alfine; per esempio: « Brevi sono le forze dell’ uomo, o ne è piccola ld statura, o esteso in lui l’intelletto, o
grande il discorso, o scarse le parole.» Qui è agevole a capire che per una specie di abuso si sono
ravvicinate fra loro di senso parole
appartenenti a cose dissimili. LA METAFORA (Grice: You’re the cream in my
coffee – TRANSLATIO) è, quando si trasporta il
vocabolo proprio di una cosa ad un’altra, il qual vocabolo sembri poterle convenire per una
qualche simiglianza. Noi ci serviamo di
essa per più motivi, ed ecco per quali: Per mettere la cosa dinanzi agli occhi; a questo modo: « Cotesla
sollevazione svegliò Italia con
improvviso spavento. » Per cagione di concisione; a questo modo: cc II novello
arrivo di quelle truppe estinse in un subito la civile libertà. » Per evitare una parola oscena; a
questo modo: « La madre sua dilettasi di
quotidiane nozze » Per amplificare; a questo modo: « Non ci furon dolori e calamità d’uomo, che potessero
appartare gli sdegni di un mostro tale, e saziarne la iniqua crudeltà. » Per attenuare, a questo
modo: « Egli si millanta che ci è stato
di un grande aiuto, perchè in occorrenze
difficilissime ci ha sovvenuti di un
leggiero soffio. » Per ornare lo stile, a questo modo: « I traffichi dello
Stato, che per la malignità dei ribaldi inaridirono, un di per la virtù degli ottimati riverdeggeranno. » È
prescritto che la metafora sia modesta,
sì che passi con riguardo ad una cosa
consimile, onde non paia che alla cieca e avidamente ella sia trascorsa in una
cosa al tutto dissimile senza
distinzione veruna. L’ allegoria è un discorso, che altra cosa significa nelle
parole ed altra nel concetto. Essa trattasi per tre maniere: Per simiglianza,
per allusione, per anlifrasi. Trattasi
per simiglianza, quando si fanno seguitare
più metafore tolte ad una stessa idea; peresempio: « Se i cani fanno V uffizio dei lupi, a quali
guardiani confideremo noi il bestiame? » Per allusione, quando da una persona o da un luogo o da
qualche altra cosa si trae la simiglianza, sia per aggrandire, sia per
diminuire l’idea; come, se alcuno,
parlando di Druso, lo chiami « un vieto Numitore. Per antifrasi: a
questo modo; come se alcuno, volendo
motteggiare sopra di uno prodigo o sregolato, lo chiami « tegnente ed economo.
In quest’ ultima specie di allegoria, che trattasi per antifrasi, ed anco nella
prima, che trattasi per simiglianza potremo usare l’allusione metaforica.
Eccone un esempio per simiglianza: « Che cosa dice questo re ed Agamennone nostro? » o meglio «
perchè crudele egli è, colesto Atreo? » Eccone un altro per antifrasi: « Se un
empio, che battuto abbia il padre, lo
diciamo un Enea; uno intemperante e
adultero diciamolo pure un Ippolito. » Ecco presso a poco ciò che
pensavamo dover dire intorno alle figure
di parole. Ora l’ordine stesso delle cose vuole che passiamo a dire delle
figure di pensieri. Si ha la figura di distribuzione, quando si partiscono certi attributi fra più
obbietti o più persone: per esempio: «
Quello di voi, o giudici, che caro ha il
nome del senato, non può non detestar costui; perciocché egli con insolenza
estrema ha sempre fatto guerra al senato. Quegli, il jquale brama che nella Repubblica si
mantenga splendidissimo l’ordine
equestre, dee pur volere che costui dato
venga all’estremo supplizio, acciocché egli colle turpitudini sue nort arrechi
macchia e disonore ad un ordine onorevolissimo. Voi, che avete un padre, mostrate col castigo di
costui che vi sono in.abbominio gli uomini snaturati. Voi, che avete de’ figliuoli, date a vedere con un
esempio quanto terribili pene son riserbate in questa città agli uomini di questa fatta. » E
similmente: « Egli è dovere del senato
sovvenir di consigli la Repubblica; egli
è dovere de’ magistrati eseguire i
voleri del senato con zelo e fedeltà: egli è dovere del popolo scegliere ed
approvare co ! propri suffragi gli uomini
più abili, e le migliori deliberazioni. * E ancora: « Il dovere
dell’accusatore si è quello di
dinunziare i delitti; quello del difensore di purgarli e confutarli; quello del
testimonio è di dir ciò che sa od ha udito; quello del giudice è di contener ciascun d’essi nel
proprio dovere. Laonde, o Lucio Crasso,
se comporterai che un testimonio, oltre
a ciò che sa o udito ha, rechi in mezzo
argomentazioni e congetture, confonderai il diritto di accusatore con quello di
testimonio, darai favore alla cupidigia del tristo testimonio, e costringerai l’accusato
a una doppia difesa. » Questa figura è ampia: essa comprende molte cose in poche parole, e forma tra più
obbietti delle divisioni assai distinte, assegnando a ciascuno le sue attribuzioni. Si ha la figura
di licenza, allorché parlando a persone, che noi dobbiamo rispettare o temere,
le rimproveriamo con ragione di alcun fallo
in cui siano cadute, senza però offender quelle o Digitized by Google gli amici di quelle. Eccone un esempio: «
Voi vi maravigliale, o Quiriti, clic le
parli vostre sienoabbandonate da tutti? Che nessuno abbracci la vostra causa?
Che nessuno si dichiari vostro difensore? Attribuite ciò a colpa vostra, e
cessate una volta di rimanere stupidi.
Imperciocché come mai non dovranno tutti
fuggire ed evitare di darvi aiuto? Ricordatevi un poco di quelli, che aveste
per difensori; ponetevi dinanzi agli
occhi le sollecitudini loro per voi; e considerate quale compenso indi n’ebbero tutti. Allora si # verrà in
mente, se ciò confessar vogliate, che
voi per negligenza o piuttosto per
villàJi lasciaste trucidare sotto gli occhi vostri, e che co’ vostri suffragi
inalzaste ai più distinti onori i nemici
loro. » E parimente: « Che cosa mai fu,
o giudici, che dubitar vi fece di pronunciar sentenza? o che cosa mai v’indusse
ad indugiar la condanna a questo ribaldo? Non era stata forse l’accusa appoggiala alle prove più
manifeste? E (poesie prove non erano,
forse state tutte confermate per leslimonii? E le confutazioni degli avversarli
non furono tulle puerilità e baie? Forse voi
temeste che, condannandolo tosto alla prima adunanza, poteste essere
tacciati di crudeltà? Ma voi nel voler
evitare una simile taccia, la quale certo
era lungi da voi, andaste incontro all’altra di essere giudicali timidi
e dappoco. Voi intanto avete lasciato
luogo a privale e pubbliche calamità senza fine; e allorché v’ è apparenza che
altre maggiori venganvi sul capo, voi ve
ne state tranquilli e colle mani a
cintola. Nel giorno voi aspettate la notte, e
nella notte il giorno. Ad ogni momento voi ricevete qualche infausta e dolorosa nuova, e voi
conservale più a lungo in vita colui, che è l’autore di tutti i mali; e, fino a tanto che potete,
ritenete nella Repubblica il flagello
della patria. Se una tale maniera di licenza parrà aver troppo di veemenza, son molti correttivi
per addolcirla. Imperciopchè vi si
potranno incontanente introdurre siffatti modi: « Indarno io cerco qui la vostra virtù; io sto nel desiderio
della vostra conosciuta sapienza; io non trovo più l’antica vostra maniera di operare, ccc. ; » affinchè
quel movimento di sdegno, che là licenza
avrebbe potuto eccitare, rimanga per la lode compresso; di maniera che l’una cosa dilunghi dalla collera
e dal disgusto, e l’altra distorni
dall’errore. Siffatta cautela usata a
tempoj come nell’amicizia così nelle
pubbliche aringhe, ha questo vantaggio, che
rattiene dal fallo coloro che ci odono, e dà a conoscere che noi, i
quali palliamo, amiamo non meno essi che il vero. Havvi poi un’altra specie di licenza oratoria, la quale consta di una
maniera più fina; ed è allorquando o noi
riprendiamo i nostri uditori in quel modo, in cui vogliono pur essere ripresi,
o, sapendo noi che eglino ascolteranno volentieri i nostri rimproveri,
protestiamo di temere non forse li ricevano con mal cuore, ma che tuttavia la
verilà ci spinge sì che non vogliamo pur
pure tacere. Sottoporremo qui esempi di queste due sorte di licenza. Eccone uno della prima
sorta: « Troppo, o Quiriti, avete gli animi semplici e •buoni; troppo prestale fede a chicchessia.
Voi pensate che ognuno si sforzi di fare ciò che vi ha promesso. V’ingannate a
partito, e già da lungo tempo rimanete vittime di questa falsa speranza.
Stolli voi, che amaste meglio cercare
agli altri ciò che era in poter vostro,
che pigliarlo voi stessi di mano propria
». Della seconda maniera di licenza ecco
qual sarà F esempio: ((Furono, o giudici, fra me e quest’ uomo vincoli di amicizia, ma questa
amicizia, sebbene io tema che ciò udiate mal volentieri, il voglio pur dire con
franchezza, foste voi che me la
toglieste. E in qual modo? Perchè per
conservare il favor vostro, io ho amato meglio aver per nemico che per amico colui, che a yoì
dava travaglio». Dunque questa figura,
chiamata licenza jjsi può, come abbiamo mostralo, trattare in due modi: con veemenza, la quale fia mitigala da
lode, se parrà aspra troppo; o con finzione, come dicemmoln ultimo luogo, la quale non ha
bisogno di correttivo, perchè, sebbene
abbia colore di licenza, essa nondimeno per propria natura s’insinua nell’animo
dell’uditore. La diminuzione si usa, allorquando ci bisogna lodare in noi stessi o nei nostri
clienti il carattere, la bellezza,
l’ingegno; ed allora, per non parere
arroganti troppo, scemiamo e impiccioliamo con parole siffatti pregi: per
esempio: « Io dico, o giudici, giacché
dir lo posso, che ho procurato con tutta fatica ed industria di non
essere^ degli ultimi nella scienza
militare. » Qui, se chi parla avesse
detto: « ho procuralo di esser dei primi, » avrebbe avuto aria di arrogante,
benché ciò fosse universalmente
riconosciuto per vero: così egli ha
dello quanto era a bastanza e per far tacere l’invidia, e per far conoscere il
merito proprio. E ancora: « È egli forse l’avarizia o il bisogno che spinse
questo uomo al delitto? L’avarizia? Ma egli fu prodigo inverso gli amici; il
che è segno di liberalità, cosa
contraria all’ avarizia. Il bisogno? Ma
senza dubbio il padre suo gli lasciò
(non voglio esagerare) un non piccolo patrimonio. » Qui pure l’oratore
ha evitato di dire un patrimonio grande o grandissimo. Nel parlare adunque de’
pregi nostri o di quelli de’ nostri clienti
noi osserveremo una siffatta riservatezza; perciocché pigliando a lodar
noi stessi inconsideratamente, nella civile società suscitiamo l’invidia, e
in un pubblico ragionamento
l’avversione. Laonde in quella guisa che
il buon contegno nella società ci sottrae all'Invidia, così la riservatezza in
un pubblico discorso cijsalva dall'odio. Chiamasi descrizione quella, che
per mezzo di parole chiare e manifeste e
nobili insieme, dipinge tutti i conseguenti di un fatto, che sia avvenuto o che possa avvenire: per esempio:
*Se i vostri voti, o giudici,
restituiranno alla libertà costui, voi lo vedrete subito a guisa di leone, a
cui fu aperto suo carcere, o a guisa
d’altra feroce bestia, da catene sciolta, giltarsi nel foro, e correre qua e là aguzzando i denti contro alle
sostanze altrui, avventandosi contra tutti, amici o nemici, conosciuti e
sconosciuti, togliendo l’onore agli uni,
minacciando la vita agli altri, usando violenze alle abitazioni, alle famiglie d’ognuno,
abbattendo insomma dai fondamenti lo Stato. Per la qual cosa, o giudici, discacciate costui dalla patria,
liberate dal terrore i cittadini ,
provvedete in fine alla vostra medesima salvezza ; perchè se lo rimandate impunito, contro a voi stessi, crediatelmi
pure, voi avrete scatenata una feroce e
sanguinaria bestia. » Eccone un altro esempio: « Se voi, ò giudici, pronunziale
contro a quest'uomo una funesta
sentenza, con un giudizio solo vi fate net tempd medesimo à cogliere di molte vite. Un padre
carico d’anni, che fondava tutte le
speranze della vecchiezza sua nella gioventù di questo sventurato, più nulla avrà, ond’abbia ad aver cara
lavila; te neri figliuoletti, privati del sostegno paterno, saranno esposti
alle beffe e agli scherni de’ nemici del
lora padre; tutta una famiglia in fine sarà inabissata in una indegna calamità:
e frattanto i persecutori, portando una palma sanguinosa in mano, padroni di una crudele vittoria ,
insulteranno alla miseria di costoro, e
superbi inveiranno contrassi con fatti e
con parole. » E parimente: « Niuno di
voi ignora, o Quiriti, quali siano i mali orribili, che piombar sogliano sopra una citlà presa
d’assalto. Chiunque ha portalo le armi ad offesa, è incontanente senza pietà
trucidato: gli altri, che per l’età e
per le forze tollerar possono la fatica, tratti
sono in servitù : flue’, che non possono, son privati di vita : e per
ultimo in un solo e medesimo tempo
l'abitazion loro è messa in fiamme da nemico incendio; e coloro, cui la natura
o la volontà per parentadi o per amore
congiunse insieme, sono violentemente
separati; i figliuoli parte strappali
dalle braccia de’ genitori, parte scannali in seno ad essi, e parte contaminati dinanzi ai loro
occhi. Nessuno vi è, o giudici, che
possa con parole degnamente mostrar la cosa, e col discorso dipingere i’enormezza di una siffatta calamità. » Con
questa figura si può muovere o lo sdegno
o la compassione, quando tutte le conseguenze di un fatto unite insieme vengono con evidenti parole
concisamente esposte. La divisione è una figura, la quale separando due
proposizioni le sviluppa entrambe con
soggiungere a ciascuna la sua ragione: per esempio: « E pcrchè^dovrò io
farti de’ rimproveri? Se sci un uomo
onesto, non li bai meritati; sesci un
tristo, non li sentirai punto. » E similmente: « Che bisogno ho io di parlarvi de’ miei servigi?
Se voi ne conservale memoria, io non
farei che stancarvi gli orecchi; c se ve
ne siete dimenticati, quando coi fatti
io non abbia acquistato il favor vostro, come potrò ora acquistarlo con le mie
parole? » E ancora: « Vi son due cose,
che trascinar possono gli uomini a un
sozzo guadagno, la miseria e l’avarizia. Nella divisione fraterna noi ti
conoscemmo per avaro: or li vediamo
povero e bisognoso. Come proverai che non avevi motivo di commettere una mala azione? » Fra questa divisione e
quella, che è la terza delle parli
oratorie, di cui parlammo nel primo libro dopo la narrazione, ci ha questo
divario: quella divide per enumerazione o per
esposizione le cose, di cui si dee tener deputazione in tutto il
discorso ; e questa disbrigasi subitamente, e, soggiungendo in poche parole a
ciascuna delle due o più parli le singole ragioni, reca ornamento al discorso. L’accumulazione è
quella, che riunisce in un sol cumulo
certe cose sparse in tutta la causa ,
affinchè il discorso riesca più grave, più veemente, più nocevòle alP accusato:
per esempio: « Da qual vizio mai è libero costui ? E per qual motivo, o giudici, volete voi
assolverlo? Egli è largitore della
pudicizia sua e insidiatore dell’altrui;
cupido, intemperante, sfacciato, superbo, empio verso i genitori, ingrato,
verso gli amici, ostile verso i
congiunti, disubbidiente verso i
superiori, adiroso cogli eguali c coi simili, crudele verso gl'inferiori,
finalmente insopportabile a tutti.
Appartiene allo stesso genere quell’accumulazione, che è di un grande aiuto
nelle cause congetturali, quando de’sospetti, che, separatamente presi, erano deboli e leggieri, riuniti in
uno conducono, nonché alla probabilità, alla certezza: per esempio: « Non vogliate adunque, non
vogliate, o giudici, considerare
separatamente le cose, che io ho dette;
ma raccoglietele tutte, c assembratele
in uno. Se veniva comodo a costui dalla morte di quell’ uomo, e vituperosissima è la sua vita,
avarissimo l’animo, affondatissima la fortuna domestica, c un tale misfatto a
niuno era vantaggioso che a lui; e niun
altro poteva sì facilmente eseguirlo, ed egli non poteva scegliere mezzi migliori;
e inoltre non ha costui nulla ommesso di ciò
che poteva assicurarne il successo, e nulla ha fatto, che non bisognava
fare; e poiché il luogo era il più
proprio ad un’aggressione, e l’occasion favorevole, e opportunissimo il momento
dello in traprendere; ed egli calcolato aveva tutto il tempo necessario del venirne a fine, e contar
poteva sulle tenebre e sull’ evento del
misfatto; e inoltre, poiché innanzi che l’ uomo fosse ucciso, costui è
stato veduto tutto solo nel luogo dove
l’assassinio è avvenuto; e poco appresso, nel momento, in cui succedeva il misfatto, è stala udita la voce
di colui che veniva ucciso; e quindi dopo l’omicidio è provato che egli non è tornato a casa che a
notte molto avanzata; e all’indomani,
interrogato della morte di quest’uomo,
ha balbettato, s’è contraddetto; e tulli questi fatti sono in parte per
testimonii, in parte per esaminazioni ed indizii dimostrati, ed anco per la
voce pubblica, la quale appoggiata a questi indizii, deve necessariamente esser
conforme al vero; spelta a voi dunque, o giudici, di trarre, da tutte queste
prove unite insieme, non che la probabilità, la certezza della colpa.
Imperciocché può ben essere che per caso si
levino contro di costui una o due di siffatte presunzioni, ma esser non
può che tutte dalla prima all’ ultima
s’accordino insieme per un semplice effetto del caso. » Questa figura è
veemente, e nelle cause congetturali
quasi sempre necessaria, ma puossi
eziandio qualche volta adoperare negli altri
generi di cause, e 'finalmente in ogni maniera di orazione.
XLII. I/espolizionc è, allorquando noi ci fcrmiamo in un medesimo
pensiero, o sia ci arrestiamo ad una proposizione unica, e tuttavia sembriamo
aggiungervi sempre alcuna cosa. Essa è di due
maniere: o noi ripetiamo appieno la cosa medesima, ovvero discorriamo
sopra la cosa medesima. Noi ripeteremo
la cosa medesima non nella stessa
maniera di prima, perchè ciò sarebbe un annoiar P uditore, non un abbellire la cosa, ma bensì
con dei cambiamenti. Questi cambiamenti
si fanno in tre modi, o rispetto alle
parole, o rispetto alla pronunciazione,
o rispetto alla forma. Si farà cambiamento rispetto alle parole, quando,
esposta una volta la proposizione, la
torneremo a dir di nuovo o più volte con
altre parole significanti lo stesso: per
esempio: « Non vi ha pericolo sì grande, che
il savio, ove si tratti della salute della patria, pensi di dover fuggire. Allorché ne deve andar di
mezzo il durevole ben essere dello
Stato, un buon cittadino esporrà certo la sua vita a lutti i pericoli per la difesa della pubblica fortuna, e sarà
fermo in questo sentimento, che per la
patria ei debba gitlarsi coraggiosamente in qualsivoglia pericolo, per quanto grande ei sia. » Si farà cambiamento
rispetto alla pronunciazione, se, passando dal tuono semplice al veemente c a tutte le altre
modificazioni della voce e del gesto, nell’ allo stesso che noi diversificheremo per mezzo delle parole
il medesimo unico pensieroso accompagneremo eziandio con una varia ed. energica
azione. Per mezzo di precetto non è
molto facile spiegare la cosa, ma colla
pratica è facile ad apprenderla, talché non
v’ò bisogno di dare esempi in iscritto. Il terzo genere di cambiamento
sta nella forma, che si fa prendere al
pensiero; sccondochè o vogliamo
trattarlo per dialogismo o per emozione. Il dialogismo (del quale parleremo a
suo luogo più largamente tra non molto,
toccandone ora quel tanto che basta
all’uopo) è una figura, che pone nella
bocca di alcuna persona un discorso
conveniente alla dignità sua; e acciocché meglio s’intenda la cosa, noi non ci dipartiremo dal
nostro primo esempio, trattandolo per
dialogismo: « Il savio, che giudicherà
di dover affrontare tutti i pericoli per
difesa della patria, dirà sovente a sé
stesso: Io non sono nato solamente per me, ma eziandio e mollo più per la patria: questa
vita, ch’io non potrei ricusare al destino, sia soprattutto spesa a salvezza
della patria. Essa fu quella che mi
nudrì, che mi assicurò infino a questo
dì un’esistenza tranquilla ed onorata, che
protesse la mia vita con buone leggi, con ottime costumanze, con una
liberale educazione. Per quali servigi
potrò io pagare i benefizii ch’ella mi
ha fatti? Per questo linguaggio, che il savio
tiene a sé stesso, io appunto nei rischi della repubblica non ho mai
esitato di affrontare qualunque pericolo. » Similmente si fa cambiamento della cosa rispetto alla forma, se essa cosa si
tratti per emozione, allorché, vivamente
commossi noi stessi, cerchiano pur di commovcre gli animi di coloro che ci ascoltano: per esempio: a Chi è mai
qui di sì piccola mente dotato, il cui
cuore avvolto sia nelle miserie
dell’invidia, il quale abborrisca di
lodare altamente c di giudicare come il più savio degli uomini colui, che per la salute della
patria, pel ben essere dello Stato, per
la conservazione della pubblica fortuna
affronti ogni più grande, ogni più
atroce pericolo, c vi si getti dentro con
lutto l’ardore? Per verità, che, in quanto a me, io sento nel mio cuore piuttosto il desiderio
che il potere di lodar degnamente un tal
uomo, e sono certo che anche voi tutti
provate in voi il sentimento medesimo. » Una medesima cosa adunque si può nel discorso variare in tre maniere,
cioè rispetto alle parole, rispetto alla pronunciazione, rispetto alla forma; c
iu quanto a quest’ullima maniera si sceglierà o la forma del dialogismo o
quella dell’emozione. XLIV. Ma se si tratti non già di ripetere la
cosa medesima, ma di discorrere sopra
la medesima cosa, noi avremo dei mezzi
più numerosi di variare il discorso. Imperciocché- dopo che noi avremo semplicemente enunciata la cosa, vi polrem
tosto aggiungere una prova, poi
profferire in due ma nicre una sentenza, la quale potrà essere o senza prove, o con prove: in appresso potremo far
uso del contrario, delle quali cose
tutte noi abbiamo parlato nelle figure
di parole; poi passeremo alla
similitudine c all’ esempio, di cui parleremo ampiamente a suo luogo;
all’ ultimo termineremo colla
conclusione, della quale noi dicemmo quanto era necessario nel secondo libro, allorché
esponemmo . la maniera di eonchiuderc l’
argomentazione. In questo stesso libro
noi facemmo pur conoscere qual sia la
figura di parole, che porta il nome di
conclusione. Una espolizione adunque di questo genere potrà piacere mollissimo, quando si
componga di un gran numero di figure di parole e di pensieri. Affinchè sia tale deve avere sette
parti. Noi non ci allontaneremo
dall’esempio già dato per mostrarli con
quale facilità, mercè le regole dell’arte, un’unica proposizione trattar si
possa in diverse maniere: « Il savio per difesa della patria non fuggirà verun pericolo, perchè sovente
accade che colui, il qual non vuole per
la patria morire, necessariamente
perisca insieme con la patria. E poiché
dalla patria noi abbiamo ricevuto lutti i comodi clic godiamo, così non
dobbiamo per la patria riputar grave veruno incomodo. Coloro adunque che
fuggono quel pericolo, che per la patria
abbiamo obbligo d’incontrare, opcrauo da stolli; perocché nò sottrarre si possono ai mali
pubblici, ed anco n’hanno voce d’ ingrati verso la patria. Ma quelli, che con loro incomodo pigliano sopra
di sè i pericoli della patria, sono da
aversi in conto di savii, perchè e
mostrano di rendere alla patria
quell’onore che le è dovuto, ed aman meglio perire pei molli che coi
molli. Infatti sarebbe ingiustissima cosa restituire alla natura, quand’clla
il vuole, quella vita che noi ricevemmo
da lei, ma che pur ci fu conservata con
grandi benefizii dalla patria, e non darla
alla patria, quand’ella ce la domanda;
e, potendo noi con grande virtù e gloria
morir per la patria, preferir di vivere nell’infamia e nella viltà; ed essendo noi pronti ad
affrontar pericoli per gli amici, pei
parenti, e per tutti gli altri
congiunti, non voler mettere la nostra vita a
vantaggio della repubblica, la quale, non che tutte queste cose, il santissimo nome di patria in
sè racchiude. Pertanto come è da biasimare colui, che , in una burrasca cerchi di salvar sè
unicamente piuttosto che tutta la nave,
così è da condannare colui, che nel
pericolo delia repubblica antepone la
salute sua alla salute comune. Imperciocché,
rotta per ventura la nave, molti pure scampar possono sani e salvi, ma
nel naufragio della patria non ci ha
veruno, che possa scamparne. Il che mi pare
aver Decio assai bene inteso, il quale, dicono, votò sè medesimo, c per
salvar le legioni si precipitò in mezzo
a’nemici; nel qual fatto ben lasciò la vita, ma non giltolla indarno; perchè
con una cosa labilissima ne riscattò una durevole, e dandone una di poco prezzo n’ebbe una assai preziosa.
Donò la vita, e ne ricevette la patria,
lasciò lo spirito, ed acquistò la
gloria; la quale perpetuandosi nell’ ammirazione dei secoli , coll’ invecchiare
diviene ognora più splendida. Che se
colla ragione è dimostralo, e confermato coll’esempio, che affrontar si debbono i pericoli per amor della cosa
pubblica, egli è adunque d’uopo avere in
conto di savii coloro che per salute della patria non si sottraggono a pericolo alcuno. » Tali sono le diverse
maniere di espolizione; intorno alla
quale figura noi ci siamo trattenuti a lungo, non solamente perchè dà forza ed ornamento al discorso, quando noi
trattiamo una causa, ma soprattutto perchè essa presenta il miglior mezzo di
esercizio nella facoltà del ben dire.
Bisogna adunque che nella trattazione di
una causa non vera noi ci esercitiamo nelle diverse maniere della espolizione,
e che ce ne serviamo pure nei pubblici ragionamenti, quando abbellir vorremo
l’argomentazione, di cui parlammo nel
secondo libro. La commorazione è quella, per la quale noi ci fermiamo a lungo e ritorniamo sovente
sopra il punto più solido della causa, quello al quale tutta intera la causa si riferisce. È
vantaggiosissimo il far uso di questa figura, c ai buoni oratori è molto
famigliare; perciocché per essa non si permeile all’ uditore di allontanarl’
attenzione dal punto più importante. Non mi è possibile il dar qui un esempio abbastanza idoneo, perchè questo
punto non è mai separato da tutta la
causa intera, come membro distinto dagli
altri, ma egli è come sangue che circola in tutto il corpo del discorso.
L’antitesi è quella figura, per cui oppongonsi contrarii a contrarii. Essa è nel numero delle figure
di parole, come vedemmo più sopra conquell’ esempio. « Ai nemici placabile, agli amici implacabile
ti mostri; » ma appartiene altresì alle figure di pensieri, come si vede in questo esempio: « Voi
piangete le disgrazie di costui, c
costui gioisce dei mali della
repubblica. Voi vi diffidale delia fortuna vostra, costui solo si gonfia
tanto maggiormente della sua. » Fra
queste due sorte d’antitesi ci ha questo divario, che la prima consta di due
parole immediatamente opposte, e qui bisogna ciré si presentino due pensieri contrarii messi a confronto. La
similitudine è una figura, che applica ad una cosa alcun che di somigliante
tolto da una cosa diversa. Si fa uso di
essa o per abbellire, o per provare, o
per dilucidare una cosa, o per metterla dinanzi agli occhi; e siccome se ne fa uso per
quattro motivi, così essa si tratta per quattro maniere: per contrario, per negazione, per laconismo, per
confronto. Noi verremo mostrando come a ciascuna di queste quattro maniere
corrisponda uno dei quattro motivi, che
usar ci fanno la similitudine. Quando la similitudine ha per fine rabbellire,
si prende per contrario così: «Egli non si
deve giù pensare che, come 1’ atleta, che riceve l’ardente fiaccola, meglio sostiene nella
palestra la celerità del suo corso, che
rallcla,il quale gliela trasmette, così
abbia ad esser migliore un nuovo
generale, che viene a prendere il comando dell’esercilo, di quello al
quale succede; perciocché là è un
cursore affaticato, che ad un cursore fresco
di forze consegna la fiaccola, equi è un generale sperimentato, che consegna l’esercito a un
generale ancora inesperto ». Anche senza una tale similitudine potevasi dire
con bastante chiarezza, evidenza e
verità in questo modo: « Che i meno
abili generali succeder sogliono nel comando delle armate ai generali più esperti »: ma la
similitudine fu presa per abbellire, onde il discorso risplendesse di una certa
quale dignità. Essa fu poi trattata per contrario; c prendesi appunto per
contrario, quando noi neghiamo che una cosa sia simile a quella che noi
rechiamo nel mezzo , in quella maniera
che qui abbiam veduto in parlando degli
atleti che corrono. Quando la similitudine ha
per fine il provare, si fa per negazione a questo modo: « Nè un cavallo indomito, quantunque
sia ben conformalo dalla natura, esser
può idoneo a que’ servigi che da un cavallo si vogliono, nè un uomo indòtto , benché abbia naturale ingegno
, può pervenire alla virtù». Ciò che
prova questa sentenza, si è, che diviene
più vcrisimilc che senza dottrina non si può giungere alla virtù, quando siasi riconosciuto che un cavallo indomito
non potrebbe esser alto al bisogno. Dunque la similitudine è stata presa a fine
di provare, e si è trattata per
negazione; il che chiaramente si manifesta sin
dalla prima parola della similitudine.
XLVII. Quando la similitudine avrà per fine di render più chiara la cosa, si prenderà per
laconismo, come: « Nei doveri dell’amicizia non bisogna, come nelle corse del circo, limitare i
proprii sforzi al punto di toccare la
mela, ma sì usare tanto di zelo c di
forze da oltrepassarla agevolmente ». Il
fine di questa similitudine è quello di far conoscere più' chiaramente
che sarebbe cosa indegna rimproverar coloro, che, per modo d’esempio, dopo la morte di un amico, pigliassero cura
de’suoi figliuoli, perciocché un atleta, che corra, basta che abbia tanto di velocità da toccar primo la
meta, ma un amico deve aver tanto di
benevolenza da pervenire, nella devozion dell’ amicizia, più in là di quello, che sentir possa l’amico. Questa
similitudine è esposta per laconismo: imperciocché i due termini di attinenza non si presentano già
separati, come negli altri esempi, ma bensì congiunti ed incarnati l’uno nell’altro.
Quando la similitudine avrà per fine di
metter la cosa sotto agli occhi, si farà
per confronto: per esempio: « Come un citaredo, il quale ne venga innanzi
magnificamente vestito, coperto di un
mantello dorato, trascinante una clamide
di porpora di varii colori tessuta, ornalo il capo di una corona d’oro di
grosse scintillanti gemme tempestata, avente tra le mani una elegantissima celerà fregiala d’oro e
d’avorio; e sia inoltre egli stesso
ammirabile per fattezze, beltà, e statura conveniente alla dignità; se dopo
avere per tutte coleste cose mossa nel
popolo una grande aspettazione, fattosi di repente silenzio, mandi fuori una voce spiacevolissima, accompagnata
da sgarbati movimenti di persona, quanto
più avrà sfoggiato di ornamenti, ed
eccitala l’aspettazione, tanto più fra
derisioni e fischi sarà via cacciato;
non altrimenti un uomo, il quale, collocato in alto grado di nobiltà c pieno d’agi e ricchezze,
abbondi di tutti i favori della fortuna,
c di tutti i vantaggi della natura, se
manchi di virtù, c di scienza, la quale
di virtù è artefice, quanto più sarà di tulle
le altre cose ricco, c per quelle chiaro-ed invidiato, tanto
maggiormente fra derisione e disprezzo
sarà cacciato da ogni usanza de’buoni ». Questa similitudine, dipingendo con vivi colori le
due parli della comparazione, c facendo
eguale confronto dell’ imperizia d’arte dell’uno e dell’ignoranza dell’auro,
molle la cosa dinanzi agli ocelli. Essa
fu qui trattala per confronto, perchè, stabilita l’attinenza di similitudine, tutte le parti
corrispondono fra loro. Nellesimililuilini converrà diligentemente osservare di
sceglier parole acconce a significar con
giusto rapporto le idee clic voglionsi esprimere nei due termini della
comparazione. Se noi, per esempio,
avremo detto: «Come le rondinelle se ne
abitano jn mezzo a noi nel tempo estivo, e da
noi si partono cacciate dal freddo »; converrà che noi dalla stessa similitudine prendiamo
parole traslate, dicendo: « Così i falsi amici restano con noi nel tempo sereno di nostra vita, ma appena
‘veggono spuntare il verno della fortuna, se ne volano via tutti ». Egli ci sarà facile trovare
rapporti siffatti, se polrcm porci dinanzi agli occhi tutti gli esseri animati
o inanimati, parlanti o muti, feroci o
mansueti, terrestri o celesti o marittimi, o dall’arte creali o dal caso o dalla natura, ordinarli o
straordinarii, c scoprire in essi similitudini che contribuir possano o ad
abbellire o a rischiarare la cosa, o a
porla dinanzi agli occhi. Non è però necessario
che le.due cose fra loro paragonate siano interamente simili: basta che
abbiano in parte fra loro una tal quale
analogia. L’esempio è allegazion di un fatto o di un detto con nominazione del suo autor.e. Questa
fi gara si usa per gli stessi molivi della similitudine. Essa rende più abbellita la cosa, quando noi
non 1* usiamo die per cagione di
abbellimento; la rende più chiara, se non ha altro scopo che quello di rischiarare ciò che è oscuro; la rende più
probabile, quando presenta la verisimiglianza; la pone dinanzi agli occhi,
quando esprime tutto con tale evidenza
clic si possa, direi quasi, toccarconmano
la cosa. Io avrei qui aggiunti gli esempi di ciascuna specie, se non
avessi già fallo conoscere nella
espolizionc il carattere di questa figura, e non avessi nella
similitudine falli aperti i motivi di doverla
usare. Ecco il perchè io nè ho qui voluto limitarmi a dir poche parole, onde non mi avvenisse di
non essere inteso, nò dirne di troppe
nel mentre che la cosa era già
bastantemente intesa. L’immagine è
paragone di forma con forma, fra cui sia una
certa simiglianza. Essa si usa o per motivo di lode, o di biasimo. Per motivo di lode si dirà, per
esempio: « Egli andava a battaglia simile per membra al più vigoroso toro, per impelo al più
terribile leone. « Per motivo di biasimo
l’immagine deve addurre o nell’odio, o
nell’invidia, oneldisprczzo. Nell’odio,
così: « Questo mostro striscia tutto il dì
in mezzo al foro come un crestuto drago con adunchi denti, con infocato
sguardo, con mortifero alito, girando qua c là gli occhi per iscoprirc una vittima da avvelenar col respiro, da lacerar
coi denli, da coprir coll’ immonda sua bava. » Per addurre nell’ invidia, così:
« Costui che vanta le sue ricchezze,
curvalo ed oppresso dal peso del suo
oro, grida e giura, siccome un sacerdote di Cibele, od alcun altro
indovino. » Per addurre in disprezzo, così: « Costui è simile a lumaca, che
nascondendosi e rannicchiandosi in se stessa silenziosa,^ tutta quanta portata
via con la propria casa per venire
mangiata». L. Il ritratto, o la
prosopografia, è quella figura, che per mezzo di parole esprime e rappresenta
Testerno di una persona tanto fedelmente che basti a farla riconoscere: per
esempio, così: « Io parlo, o giudici, di
quest’uomo rosso in viso, piccolo,
storto, a capelli bianchi e alquanto
ricciuti, con gli occhi azzurri, che ha una grande cicatrice sul mento, se pure in qualche modo
ei può larvisi presente alla memoria. »
Questa Ggura torna utile, quando si vuol
far riconoscere alcuno; ed è pure
graziosa, quando sia fatta conbrevilà e
chiarezza. L’etopea è quella, che descrive il carattere di alcuno,
presentando certi tratti, che ne
mostrino esso carattere. Se tu vuoi, per esempio, descrivere non già un uomo ricco, ma chi si
vuol dar l’aria d’ esser ricco, dirai
così: « Osservate, o giudici,
quest’uomo, che trova sì bello di passar
per ricco; osservate in prima con qual occhio ci guardi. Non sembra egli dirvi: Io vi farei un
presente, se ve ne credessi degni? E allorché con la mano sinistra egli sollevasi il mento, crede
di abbagliare la vista di tutti con lo splendor de’ diamanti e il luccicore
degli anelli che porla nelle dila. E allorché si volge indietro a chiamare il
suo unico servo, che io ben conosco, c
che non è, credo, da voi conosciuto, ei lo chiama ora con un nome, ora con un
altro, e poi con un altro ancora. Olà,
grida egli, vieni qui tu, o Saninone, chè io
non vorrei che colesti zoticoni facessero le cose a rovescio: di maniera che coloro, che odono
gridare e altro non sanno, si pensano eh’ egli ne preferii sca uno tra i molti suoi schiavi. E che cosa
dice a Sannione di fare? Gli dice piano
all’orecchio o di mettere in assetto i
lctticciuoli per la mensa, o di andar a
prendere da suo zio uno schiavo Etiope,
che lo conduca ai bagni, o di approntar dinanzi alla sua*porla un cavallo delle Asturie, o di
apparecchiare qualche altro fragileornamcrvtodellasua falsa gloria. Di poi grida sì che lutti
l’odano: Bada che la somma sia per
intero pagala, se è possibile, avanti
notte. Il servo che già da tempo conosce il
debole del suo padrone, risponde: Bisogna che voi mandiate più d’un servo, se volete che la
somma sia per intero contala c portata a
casa. Ebbene, dice l’uomo, conduci con le Libano c Sosia. Padron sì, risponde l’altro. In appresso vengono a
trovare per caso il nostro vanitosa
alcuni ospiti, i quali nell’occasione di un viaggio, ch’egli fece, lo avevano
accollo in loro casa e trattato splendidamente.
Senza dubbio a tal vista ei rimane turbato, ma pure non gli dà l’animo di tradire il proprio
carattere; e, Ben faceste, dice, di
venirmi a trovar qui ; ma avreste fatto
meglio, se foste andati dirittamente a
casa mia. L’avremmo fatto, rispondono essi, seavessimo saputa la vostra
abitazione. — Ma era pur facile di
saperla, domandandone a chiunque; tuttavia venite con me. Quelli lo seguono:
Intanto, strada facendo, ogni discorso
va a terminare in ostentazioni. Domanda
qua e colà come si presentino le messi nei campi: dice che non può recarsi a visitar le sue terre perchè le sue case di
campagna gli sono stale incendiate, e che non s’attenta ancora di riedificarle; però, aggiunge egli,
ho cominciato ne’ miei fondi del Toscolo a spendere e spandere, e a costruire sui medesimi
fondamenti. LI. Infraliamo ch’egli
parla così, giunge ad una casa, dove il
giorno stesso doveva aver luogo un
banchetto di amici, e dove, conoscendone egli il padrone, entra insieme cogli ospiti. Ecco,
dice, dove abito. Va osservando
minutamente le argenterie disposte sulla tavola, e i Ire letti preparati: approva ogni cosa. Gli si avvicina un piccolo
schiavo, che gli dice piano all’orecchio che il suo padrone sta per venire, e
ch’egli s’accontenti di uscire. Oh! è ben vera la nuova, esclama egli? Andiamo,
o miei ospiti; il frale! mio arrivada Salerno:
10 voglio andargli incontro: voi ritornate costà alle dieci ore. Gli ospiti partono: costui di
soppiatto cacciasi dentro alla sua casa.
Alle dieci ore, sccondocliè egli aveva fissato, tornano gli ospiti: domandano
di lui: allora vengono a conoscere chi sia
11 padrone della casa, e pieni di vergogna si ritirano ad un albergo.
All’indomani trovano l’uomo, narrano l’avvenuto,
si querelano, glidiconolemale parole. La
rassomiglianza de’luoghi, risponde egli,
vi ha ingannati: voi avete preso abbaglio di tutto un viottolo; io vi ho aspettati ad ora assai
larda, il che è contrario alla mia
salute. Egli aveva già innanzi dato incumbenza a Saninone di andar a cercero in
prestito vasellami,. arazzi, servidori. Il piccolo schiavo, destro non poco,
adempie con bravura e prontezza al comando: costui introduce m sua casa gli ospiti. Afferma di aver prestato
i suoi grandi appartamenti ad un amico
per celebrarvi le nozze- Tutto ad un
tratto il scrvidorctto gli viene a dire,
che si ridomandano le argenterie (peroc _chè chi le aveva prestate non istava
scnzasospelli). Levali via di qua, grida
il padrone; io ho prestato i miei
appartamenti, ho dati i miei schiavi, e si vogliono anco le argenterie? Ma benché
io abbia degli ospiti, alla buon’ora,
se ne giovino pure; noi ci contenteremo
dei vaselli di Sarao. — Dirò io tutti i
fatti di costui? Tale è il carattere di questo uomo, che tulli i tratti di
vanità e di ostentazione, clic ogni di
gli sfuggono, non potrebbero essere da
mq raccontali in un anno intero. » Siffatte elopee, clic dipingono al naturale
il carattere di un uomo, porgono un
grandissimo diletto. Conciossiacliè esse pongono dinanzi agli occhi l’animo e
i costumi di chiunquc,o di un vanitoso,
come nel precedente esempio, o di un invidioso, o di un pusillanime, o di un
avaro, o di un innamoralo, o di un
dissoluto, o di un truffatore, o di uno spione; insomma non v’ha
tendenza dell'animo che per mezzo di questa figura non possa venire al vivo
dipinta. LIl. Il dialogismo è, quando
si attribuisce un discorso a qualche
persona esponendolo nella maniera che conviene alla dignità sua, per
esempio: Allorché la città era inondata
da soldati, c gli abitanti, tutti presi
da spavento, si stavano chiusi nelle
loro case, si presentò costui vestito alla militare, con la spada al fianco, e
un giavellotto In mano. Cinque giovani armali come lui lo seguivano. Tutto ad un tratto si precipita nella casa, c
grida ad atta voce: Dov’ è il fortunato
padrone di questa abitazione? perchè non
viene innanzi? ond’è questo silenzio? Immobili per lo spavento, gli altri tulli non osano aprir bocca. Sola la moglie
di questo infelicissimo sciogliendosi in lagrime giltasi ai piedi di costui, e. Grazia, dice ella, grazia;
in nome di ciò, che liai di più caro al mondo, abbi pietà di noi; non- voler
uccidere chi non ha più vita: sii
temperante nella fortuna; anche noi fummo felici; pensa che sei uomo. Ma egli continua a gridare: diesiate aspettando per darlo nelle mie
mani? Cessate di assordarmi coi vostri
lamenti. Egli non isfuggirà. Frattanto
si annunzia al misero che il suo nemico
è in casa, e che con g'rande schiamazzo minaccia morte. A questa nuova esclama:
Old mio Gorgia, oh! fedel custode de’
miei figliuoli, nascondili a questo
barbaro, difendili, fa di potermeli condurre sani e salvi alla adolescenza.
Appena ha egli profferite siffatte parole, che in un momento si avanza questo
assassino, e grida: Tu dunque stai nascosto, o temerario? La mia voce non
fi ha già levata la vita? Appaga
l'inimicizia mia, c nel tuo sangue
s’acquieti la mia collera. Allora coraggioso il cittadino rispondevo pensava di
non esser vinto appieno; ma ben veggo
che sì: tu non vuoi terminar meco la
contesa dinanzi ai tribunali, dove la
disfatta è vergognosa e la vittoria onorevole; tu vuoi uccidermi. Ebbene, io perirò
assassinalo, ma non vinto. Costui allora: Come! anche nell’ora estrema del tuo vivere vuoi dir sentenze, e
abborri di supplicare chi ti tiene in
suo potere? — Allora la donna: Anzi ei
prega, ei supplica. Ma deh! tu non
essere inesorabile; e tu, mio caro marito, in
nome degli Dei, stringi supplicante le sue ginocchia. Egli è padrone di
te; egli li ha vinto; sappi or tu vincere te stesso. Perchè non cossi, o donna,
dice il marito, di parlarmi cose affatto indegne di me? Taci, e pensa solo ai tuoi doveri. E
tu, a che tardi di togliermi la vita, e
di levare a te medesimo colla mia morte
ogni speranza di onorato vivere?
L’assassino respinge da sè la donna piangente, eal misero, che apriva
bocca per profferire non so quali parole
degne del suo coraggio, pianla d’un
colpo la spada nel fianco. » Io credo di avere in questo esempio dato a ciascuno il linguaggio
che conveniva alla sua dignità, il che è
la cosa più imporlanlQ.in questa figura. Vi sono, ancora dei dialogismi, che si
porgono come conseguenze: per csempio: « Che si dirà mai se voi darete una
tale sentenza? Non parleranno forse
tutti gli uomini in questa maniera? » E
qui si soggiungeranno le parole acconce al dialogismo. LUI. La prosopopea è uua
figura, per la qualeuna persona assente è presentala come se fosse dinanzi a noi; una figura, che attribuisce ad
un essere muto o immateriale un
linguaggio, e una forma, e lo fa operare
c parlare secondo la propria natura: per
esempio: « Se ora questa nostra invittissima città avesse lingua per parlare,
non vi farebbe ella questi rimproveri? Io,
la quale adorna sono dei più belli
trofei, e ricca dei più gloriosi
trionfi, e accresciuta delle più luminose vittorie, sarò ora, o cittadini, dalle sedizioni vostre
lacera unno iv. tu? Quella Roma, cui nè le astuzie della perfida Cartagine, nè le forze della formidabile
Nnmanzia, nè i trovati della dotta
Corinto fiatino potuto rovesciare, soffrirete voi che or venga dai più tristi
omicialloli disfatta e conculcata? » E parimente: « Se ora vivo tornasse quel Lucio Bruto, e
qui dinanzi al cospetto vostro venisse, non vi parlerebbe egli in questa guisa? lo ho i re
discacciali;' voi i tiranni introducete:
io la libertà, la quale non era, ho
recata; voi, che quella avete, non la volete serbare: io con pericolo della
vita ho la patria liberato; voi, polendo esser liberi senza pericolo, ciò non curate? Questa figura pedo più
personificando le cose mule e inanimale», è di una utilità grandissima nelle parli
diverse dell’ amplificazione, e nell’
eccitare la commiserazione. La significazione,
, della anche enfasi, è quella figura, che lascia più a immaginare di quello che non esprimano le
parole. Essa si tratta per esagerazione, per ambiguità, per conseguenza, per
reticenza, per similitudine. Per esagerazione, allorché si dice più di quello che la verità non permette, allo scopo
di aumentare la sospizionc: per esempio:
« Costui di tanto patrimonio in sì corto
spazio di tempo non ha salvato pur un
coccio-con cui recarsi a limosinare un po’ di fuoco. » Si tratta per
ambiguità, quando una parola può
riceversi in due o~più significati, ma si riceve in quello che vuol dargli l’o
latore; come se volendo tu parlare di un uomo,
che è ilo buscacciando di molle eredità, dicessi: « Osserva bene tu, che
hai cosi buona vista. » I.IV. Quanto
però sono da evitarsi le ambiguità, che fanno oscuro il discorso, altrettanto
sono da cercare quelle che generano significazioni di questa guisa. Noi le
troveremo facilmente, se conosceremo e ben considereremo i dubbiosi o molteplici significali delle
parole. La significazione si fa per
conseguenza, allorché non si nomina che
ciò che può essere conseguente di una
cosa a fine di far nascere l’idea della cosa stessa, come se tu dica al figlio
di un pizzicagnolo: « Statti cheto, o tu, il cui padre solca forbirsi il naso
col gomito. » Si tratta per reticenza, allorché, dopo avere incominciato un
discorso, lo tronchiamo, c da ciò che abbiamo detto, lasciamo bastantemente
conghietturare ciò che manca: per
esempio: « Questi, il quale si bello, si
giovane poco fa in estranea casa io
non vo’dire di più. » Si tratta per
similitudine, allorché, raccontalo un fallo analogo, non aggiungiamo altra
osservazione, ma da quello lasciamo intendere ciò che pensiamo: per esempio: «
Non voler troppo fidarli, o Saturnino,
di questa moltitudine di popolo. I Gracchi sono caduti, c la loro morte è invendicata. » Questa figura unisce
qualche volta molta piacevolezza a molta dignità; perocchè lascia indovinare
all’ uditore ciò che l’ oratore punto non dice. 11 laconismo è quello che non usa che le parole necessarie ad esprimere
la cosa: per esempio: Prese Lenno in
passando; quindi lasciò un presidio a
Taso; poi atterrò una città in Bitinia;
di là cacciatosi nell’ Ellesponto, subitamente
s’impadronì di Abido. » E similmente: « Testò consolo, prima tribuno, divenne
poi capo della repubblica. » E ancora:
Parte per l’Asia, si dichiara esule e nemico, appresso si fa comandante, c
finalmente consolo. » Il laconismo
racchiude in poche parole assai cose; e fa d’uopo usarlo di sovente, quando o le cose non hanno
bisogno di un lungo discorso, o il tempo non permette d’interienervisi
attorno. LY. L’ipotiposi è quella
figura che presenta un fatto con tanta
verità che si crede di averlo sotto gli
occhi. Si ottiene questo effetto, se si riunisca in un sol quadro ciò che ha preceduto,
seguito, e accompagnalo l’azione; o, in
altri termini, se non si trascurino nè
le circostanze, nè le conseguenze; per
esempio: « Appena Gracco vide che il popolo
fluttuava c dava segno di temere non forse egli medesimo spinto fosse dall’ autori là del
senato a rinunciare al suo progetto,
fece tosto bandire il parlamento. In
questo mezzo costui, non agitando in sua
mente che delitto e mali pensieri, corre giù
a volo dal tempio di Giove, e grondante di sudore, con gli occhi
ardenti, coi capelli rabbuffati, con la
toga raccolta, seguito da molti altri congiurali precipito il suo corso. In
questo momento il banditore domandava
silenzio per Gracco: arriva costui, e premendo col calcagno uno de’ sedili, ne
rompe colla destra mano un piede, ed ordina agli altri di imitarlo. Nel mentre
che Gracco comincia a dire la solila
preghiera agli Dei, questi congiurati correndo si slanciano sopra di lui; da ogni parte concorrono altri volando:
allora uno del popolo grida: Fuggi, o
Tiberio, fuggi: non vedi tu? risguarda,
dico. Ben tosto la incostante moltitudine
presaga subitaneo spavento dassi alla
fuga. Costui, spumante la bocca di scellerata rabbia, e respirante
crudeltà dall’ imo petto distende il
braccio, e a Gracco, che ancor dubita di ciò che è, e pur non abbandona il preso posto, pianta
il pugnale in una tempia. Egli non
Smentendo punto neppure con una parola
la solita sua costanza cade in silenzio.
Costui coperto del sangue, da deplorarsi pur sempre, di quest’uom generoso,
volgendo intorno gli occhi, come se compito avesse la più gloriosa aziono, e allegro porgendo la
sacrilega mano ai gratulanti, se ne ritorna al tempio di Giove. » Questa figura in siffatti racconti è
di un gran vantaggio, sia per
amplificare, sia per eccitare la compassione: essa mette l’azione in iscena, e
la pone, per così dire, sotto ai nostri occhi. Abbiamo con molta cura raccolti
tutti gl’insegnamenti atti a render adorna l’elocuzione. Se tu, o Erennio, vi aggiungerai un assiduo
esercizio, potrai nel dire aver gravità,
dignità e soavità, per parlare da vero
oratore qnon presentare un’invenzione nuda c disadorna in linguggio triviale.
Ora noi, per un comune scopo, metteremo
in comune i nostri sforzi; cercheremo
cioè di raggiungere con lo studio e
l'esercizio continuo tutta la perfezione
dell’arte; il che agli altri non è agevole fare, per tre ragioni principalmente: o perchè non
hanno con chi possano di buon grado
esèrcilarsi, o perchè di sè stessi diffidano, o perchè ignorano il metodo da
tenersi. Queste difficoltà sono tutte da noi
lungi, chè e volentieri ci esercitiamo insieme per l’amicizia nostra, cui il parentado originò e
l'uniformità degli studi filosofici rese più salda; e non disperiamo di noi poiché qualche progresso
facemmo e ad un più nobile scopo accesamente aneliamo; talché se non perverremo
nell’oratorio aringo dove è pur nostro
intento, poco ci mancherà per conseguire
nella vita sociale un grado onorevolissimo; e sì conosciamo la via da battere,
perchè in questi libri niun precetto
rcttorico abbiamo intralascialo. Infatti si è mostrato come trovar si possano
le cose proprie a ciascun genere di causa; si è
detto in q ual modo abbiansi a disporre; con quali regole si debbano
pronunziare; con quai mezzi ce ne possiamo ricordare; si è finalmente spiegalo
come acquistarsi possa una perfetta
elocuzione.I quali insegnamenti tutti se porremo in uso, la nostra invenzione
sarà ingegnosa e pronta, la nostra disposizione
distinta e chiara, la nostra pronunciazionc nobile c non priva di venustà, la nostra memoria
fedele e tenace, la nostra elocuzione adorna e piacevole.Ecco quanto nell’arte rettorica si comprende.
Tutte queste condizioni conseguiremo, se agli insegnamenti deli’ arte
aggiungeremo un diligente esercizio. UN E DELLA RETTORICA AD ERENNIO LE OPERE
TUTTE CON LE VERSIONI A FRONTE:
DELLA RETTORICA AD.., Galloni IP DELLA BETTORICA AD ERENNIO CALLOSI
LA RETTORIA unito PRIMO ESrSSSE aess
\UI. M.i ik-N'n.iiiil^ Li, li il lìn Hi:
LA RETTOBULl 'I un uni
i|!iii],| U .r luminili mi nlilili.lcrii iieniiv.ni '.al
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imi. Hiilnria e,( re* piM.i. ..'.! al, iu l„li, inijir.i. min I ii'lili.in. in. un, lui,, emi In™ in eiccrcnilii Ican-iìieiiln frinii, ni 1 h ,1 t .[lloiiio.l.i ueneri.II primoèi|uaiuln espnniamu un
faUO.C ne liii,i neni Lii.:,i-MriM j
iic-lm \ / 1 1 |n:r ulIrncre villnrillil
l|,l„l |lilli,T(: Il 1 1 fu r I lei 1 1; il |||>|I[II,I J ig, che ni r,i, n ti, no ai! i-s^-cr
gi-iJirali' li -.--fi-ii.Lo ei-ni-Ti- tii narrazioni i qni'lln, dio il.olla
iillcriieii.' nei m.vz.i ,],:llr r.nih. per inolilo ili |iroia. o iti accusa, n
ili irunsitnuie. « ili ani:iclii.inieiil.,.u ili lr,.lc.ll Icrzo e.,:n tu è
(]ijrllu, (i lic-n.l «li.ncu alla eau.a
ci ri In, mi nel quale imiti™'
niill.i.liriieii.i ccrciucsi |"r |,til,-r jiiii leccai ci ani crii e
Irallic ncllii cause rjuci duo iwnciidi
narratine, clic iililii.nim .Inno ili -'i|ir.i.l>i cnlosu niritóoiio ci In il ih' specie, l'uni die
numerili lg chip, Pulirà Ir i-prsonn.
guniti >pi..ic, cli« i itjiKirda le .ose. ha Ire ciurli, la involo, la
hlocia, la molli.- il ione. Lo limici è , india, clic eoiilicne cose. cu o mi
|i.'si/n è imi l'i.-.i liiila.ma die iiii,,liini-|m [une. nrcadccc. eulm: i r.i'.l, mi-,|i,isIÌ .Ielle
c.jiinic.lie. Onci funere ili narrai
mie. l ini riguarda le perso„,'. il.'u- coni, mere In orarie ,l.'l .Inc. 1,1
rtiiersiL.'. in ni. II. i lai laici
III, .Ielle alia Ii'Iii|ih|. rum.
pcrsonnrum ll'(lin , alos,roasili,,| 1,111 riiliiu,,'.. : n-MIi [Wa
ll. ni s-eepa vcrila-, ciii linci- serrala siili. IìiImii f,.rcro non pelosi: sin crii fida, e m.cis
mini iil.-.TVIirirla.II.' iis rollìi,
ranle aliala.;. -minili i'sl, .il,,.
.inVIalnr i h US. nini qnae de il ili rms Ipraelfr crlcr(*| in Iria lui., alimi. i:n:i - |-i.:i-. | -i
nulli..;. |i -H.l.iHl, a.i.i. t.-ril
i"-. I.:i.|...ir -in in ilil.i cìclieenus Sfiorirà, ipiiil niil'is
..ni.'aiil al nielli. r|l]iil in r.nil nsia i rli',|.i.1iir L II. ni
iii.i.|..; Ini. rleilani al. dr. :
l nu:,: -| . . i 1.1 1:1 coalraior-ia. 1 1 rr-. 0 cannarlo, Aaaaa'in. linncm esse a Civile Ira inni- .',,11
Nielline; i| Il ili ila sii. Ilio
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Illudo non ora cyaMTiiiali.'.n cllWnf.i..^o. ii C .iini.«irn'ieilij -l-'n; t il Ci l- f -ti . |iff. hi il ,1
r^c f j i mcrj tenti pctieulj». e pud
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cosi Ir^l.p f-'ilc al lis:^ii. I.V-r,m i*iinn' irni'ivi' m i j
iv mimici i'iiii liri ilià ^ >ev;.i iiniim*-ijiii ri», .|iii Rullici- liTii|icslalriii naiim
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r.fi.iMTNMjnfHa sii, imi ri- n-i-riiH in n.vi, Mv ,'rihi.lirt- : t n i ;i ( L i r r.iii:,.-,
[Vrknili liniin ili-,;iOiiU.I tli.I
•lilfn, i liliali UT c.liiiiair di lumaca aM.an Inaino Ij navi-, ilHilurm
prr.kiu la n.mC oglil cojn; ( clic, JC la naie vada in aai>u, laulu LA
RETTORICA I :h!jiu o n j I- w 111L.. IS lom imi "Mio it-o, t fin rnnoiiom f rr
fi..ì.ir.,.i LA RKTTORICA DlJtiZ'XI t.
Ci LA RETTORICA iimm gssssssssasses wmm
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ÌISÌIfÌɧ sssdfasr'- LA
RETTOHICA ir.rr-l.iri iipmliTC;
illuni iirrlt ucr oliassi- Ila ilia;sn ni. mini tjtlii™ni r iio .(> ni a Ir
[ir in ni miri ulici*c. DcftBSOf prlaiu ni domomuobil illim lotcprsm, si pnlcrit:
ili fi non pnlcril. cniinjgk-t sii
in.nrnilF.nliam, slullilioni , eilol^i'lilioili , vim, giui «Ira Ilì f piincri turni, timi ilc-bcal
abiuri, n.n itlimicnlrr iinuiizii:
liirpili.ilinr i.nr...;i|.]-.ir .1
infamia, prins iloliil op-rram, ili Msos runinrrs .liiiipaliii r..c uicul .Ir ÌMinccn'1' : pi
ulclur loco u uni ni uni, minori bus
mali unii Sin niliil horuin fieri
polon), ulular .-Uruiiu virltfnjiiitie ;
iiicot, muli ino li bui risa o|iud censore), ied ut iiiiiii.iil.us ailicr:a iuruui "l'in:
iiiikirs Juiirc. nvoro. lo dimostri --e in qtliilr.hc rn.jiln il può,
corrompilo» e misleale ; in Don per uno o più litri villi lui lordo i' .mimo del suo acculalo ; e
cunchlndmt, elio non dH far menilnlh, che quello sic.so uomo, cuc in oiUielro operò tosi male,
abliia. ora commisio quell'idra nvsfjilo. Se I oberarlo gt idri nome puro ed
Intinti, dirà che bho. gna li? ncr conio
dei foni, n»n del nome; ch'rnli per lo
posino srnrc orcullirc lo sue lurpilutiim;
ini clic ora esso acouijlore (ari aperto che colui i reo ili ini.f.ilto. IVr quello spella il
.lilsniore, ili ni prillili Illudo vena
u.mOilrando, se polra, che lo vila dell'
incolpilo è iena macchio; se ciò
ili.'lo prrsnnsiniir: „.-i lcin.ili scuse .erri ad allonlinaro ila liti
il bn.iiiio .l. lk- mitmi .interiori
oll'occiisj, di cui presente meni e si Irolla. Mo se il iliti'nsari: si Isinerii t.irte imbaulalo
dalle lurpi IV, Collallu cst.quurnacruiiilor
id,ip , oc.ll s'appiglierò iti'
Mira tomo ni coslumi di lui d»i rin.ili
ci 3 clic * u" unr-n clic l oiinnc sia alata ilsgcms.-i ad dire perdine, r> che allrc
persimi' unirò .ihttjnn rinvilii tare ni
ili cui f arresalo un clicnle. Il segno
t rjur-llo |ior cui ni Jimtj fari; l'azione. l;-=o r.nni|ir In nei pirli: 11
Ino lili; quo dici, qua Docili hors «P'iii'iui II» c unsi li cu li il ii r :
-aliw liingum [unii i", poili
che riuso II «UH; pe ittdiitodnian
atcìlìil i-.i m;Tr.inii:i qllml qo l'i lliiinn |ni"ii i[ln[llii=
1.ir|i.'rrl .In i|uulilicl rumoreio proferì' ,[ cul:licu!]l Libuhni ili*
iip.ro. \>tu mi rumor i.mmnenu-r pnilni fisi- vi.lcljhur. areumcnlandu
farti) s li il ero ^olecimus abrogure. !
dillkilliina Irai-lalu ,.-1 concimilo
couicrliir.ilii , ci in icris caussis
-.ilal'i ne, i[iiiJ icri|-::irii 11;, ini'! ictaa dicaul, quid Indiali ssqui in M .[un.] riihiRrnler pcrscripluni iilrr.i-nciici'il':, ii^r.uo. ...vlj rimi
raim-it. Ili" In ennupla
[nfirelilur, niut- re., quuni uli iola, « addurremo rimici» unto racconto
conno ai insili nrrrrsani, || ,|u,| dir
Emo estero rir.elnlu ila tulli ; 01I
anche, allculiercroo uria vu ce vera, di
cui CHI abbiano ld arri» il re, ino li sia 11 'lo perielio 11. i inni |irc'>, m Mi.luiti, dell' cui 12. dia paliamo a I Quando ini 1 parli della qnUllon lc-g. ' inlmiimic ili colui eli olitole
allo scrina Ili |i "i domanderò,
inlcniinu? di si.ri.cri' nel minio dio n'inlcrpreu •|iial COKI lo impedì di Krlnre eppunlocusì?
Dopi ciò noi faremo apcrlo qoal s'i il
itro senso, e nielleremo in luce la cagione, par cui io ieri Ilare semi Ippolito c.injo scrisje, e proveremo che
quello senno è ciliari), mutili],
mimale, compililo, delerminiiio, E qui n.iì produrremo esempi di giudilll
pronuuiiali 1 favore dello aerino, aneguacliS
«li aTversarii aiiiiuccMero utll' aulire di quello 0 mm-m a-SSSSSsS
SS assaai ,,,,ir, ; ., ì .,.i,»i.,r
Ss il. -r[ua« [i'|jilii:s
ijlifiTtjoJj siinl, dui: niuilii, n li pa«U iucio Ani» i LA BETTOMCA
nn'tiiii, bi suburra clic no
jc in sbollila iurldiciuli 'm-ìciiIihii li cioni, non mtno rn i: !i'im?:o ilei fi :iJ
itali, chn furono in livore- a in LÌjimn
1VII1 .twi. !>j!l"c-r|inlj
ipmbti fonde lo ! olla tir Dille
comune; corno: : Clii fia più di ed è
impellila di maialila, può fini in
^iiuliji.j pur mozzo di procuraloa ili i|o.'S|.i principio può coslllulriì il incKosiornu i. Stallerà I ioLCrVCEllO
Ùi i di con'emiune, I quali Liuno ir. i ilmini nominili veneri!. I. I:sli rrf hit l .liu.Tn;;
iri:ni;'..iiM':ii:j] :i-.'or:i.ii;:iii il" più mi ni ['tura c |i i -j pnlcsu si
i il I::
in ri Ji.:= li; Li | r. : ;
.1 i 1 rruiiiliiljiiuii;. I n |ini;i.>.iji.iin' iii;.li:Mìii-ii ili ciò l'Nc tnjlLirrm OH'! ri il |iririr. : [lio, riic
iliirmilm , 1 fui Mulinimi, s.i;ij
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unr.Tin.iildii.ì-lliHEjii.jiirèfiirrl1)11 mcillr n : □ fili . li;
linsioai silos». I.' unni iiiciiln {
[udii. Ji o per aliUcllire ed am.'.-liirc
Li XLV. S.- iciromn n 'in:|ul' pjrli, co l'Olii: li;.i:, r..|:l,i
l'in -nrn.?nninne: ir Noi aUiiamn a itn cu ni parare; Hiiuui-ttMI, Fi iure litui | ral. riinvii inimi i ì:iìjjiì.;.j
riiiiiini ulaelii iijii. ' li rei unii - iin-i-"i;i l'i! ili*
le^liiiKiniiuu dal. Urini ri radili
perniili liurlitialur, cum inlcrirnere. a ino ii|iplir i iini icnhilur, i'1
condurli] ! ll rr_ i il L- i\irlisii'iiuin
, hl-vnrr li, iiMiiii.:i1inrnin p-'.->i- i|ii-i.!i-.il 1 ininii.i
laie..:ln;il.ir:i ei-'l-tililrnii levo
torre iti Ha.-i-.,a:r>. [inp; rei. indo ^'tncl^ll» a'ml i f.illi'iiù 1. ^..Ti.'JrmTiihimo^ I-re i.kli.n nf, grandi, allora die r.-rri
f0 : 10 ,!i spirili r°rrao!,"m,7 s
.ÌX°^",»u deteold»™»! ' ' arai!
l'Irte di-eli iinrnirii n'Iln-.i nei delilli
li'a-- : .'ro [|nail.i_'-io a pr.nn della pin gronda inibiti, rlii
^imera.i^li.rj l |,eeo=lui,li:;,i,rif.. c iaM
ilrm I..,-. mini ni l.ilin :. , ijiil rj i Ij..>Ii.k lideainui aliirn's l'I era-lai inliif, li e
allcii Li ' : "' I' 1 '"- min
m.i-ì a, renalo da un ni 'tre "mi p:'i,lai,Hia a' iremiri. nlLraggiiio,
trrilalo.' mala™ rslionem videi
mua, in ilio più rimai ti pei «eie |.r«- sl.ili .-ji.iirlii E grandissimi I do, l> sogna allora aslener.i .1
ill'eiiiar I rccopìlolllìono. In orjni
arjomenlaii oifliiizM T.juatllic ti
.u-i.:oiii>L-iiMf.' aiKlic qumo, di udii
iMk,™..- atrofia iiiirkM-umal,.. ,|i,aiL», '" '» »"r apparai,? CI, paura ,1 la in ala; a la
auui.lijia a r 1 , a l.'raa
^Xi"™"q««l•»S" lqU,11^, "' iz,tr™.",r rm """ 1
"'-'™ l ìi Irti •unii s [mirili.]
in a[.|iic ilisi.Miini. Nani Iidln.lioiins r:i>i fal..ae r'.i'iit,
«niishicnr-s ijiiiii|uc taluni versi esse conflli'ri'uiur. Ili-m inlirma
ralle ni, quae non nceesaariam caussam
aCcrl ciposi I '.i:ui.-]r, ini.iri.iiji e-ie li.i. Li tlii'niio rii. a. pi u
lif min ledi, il lungn iliiv'rll.i
ilr-vn ii-*ar,i; Molla, |:cr.Ni- e rrudcl?, hi..Ila, imluliilr- iii-.in.alii,
|iit.Iii> nijii.ii .li,liii-uiTE ni' ilii iii.tìIii ni' rln il.'inriilii.
A'.Ni lito".li imi li sono, i
i|iiali ncgiiii» e-si'rrl |nt tngjun ili
n-rluna veruni miseria, un Milli- En.E rcg.-erM ibi a, t.;j i
: r 1 1 luminili j -f -
cala il il a ben tur. Itera viliusum csl. quum iJ pio litio - 'lur.
ji=- -ci li.ln iur.es nuli causi
11 , quin Clio In, idi, t/luliu.s ttt
pulprfiM nulli.' hj«h(i,l alrjue
(nftrSm, |>rlccin inlersisè cucili,
Hit, r-ou/.- rmir .on. or li: ni Hji
jitii snu iure lice i.'i:ui[.|n usuri; 1 j'.'^.'iiiil Imi Km, in. iuilnrl. ignu-i i.im -tnij crii,
riilitnii ani i|ii.i!.i M-fi) alfine urlìi iirruliu ilici iiuV llir. imil
lll.illiH III HICIllClll lllilli fi ll lli^rl. tjllili iol| nnm hoc uni hoc
[eduen ; "o^raMiiroìiim mliu Ujgil.
Uriti liliosnm est, quinti iil, i|imi1 in
Inr iliTcìi-inne, lice modo:
Smani Ir. pj-iKidttBI omnej, /Icrrmlusiino l'^norpltyiii; ni.» [iisiTliim oc
omnlolis miii.nii, jìl'j iti.) sol'i ni
rolli iiuiii pira. IH Li ti r1i,..l |„||,.. :
È ari roti mr.uo n.atc uni ilif, ; n, clic sin comuni'; pei
rsruiiiiiK Colui jiivri'i por
irnrunilia, o tu r inrspcr.cii iti, tv
jilt ciuuc..-ir ,1 uoiui ij M |bui(lprsliT.ì"i" I ' liminoti;! ..iiifrrriiiiiiiiir il;0ln r.i.'iorp ; in
tornii», qir: n.'iiliu, Hill ,1 narrai ieri! Ivj.M r nuli,) [ ni- ,: l'ori! ili 1 mirili' .i.liiniriii,. :;ll;i
narr.uinn,'. |,rr rlii- li inserirai
^i ii.inr'l.lin Inv.irjm c |irr|nir,l,> ri n-;1. T'n.'j.r. r :i! il min
riniri'i Hill -, tnrr:i:i f'iT In inni
ri-n r.vi\rr;:'i l'i.ml-n-nrr' I' rm]ine:.> ili]in a ili, Mone : ilmn.lr: eriiinc brevi
Icr ci |ili • in lall.T lini-inni', i!
i[il,is : rtn :id iiiTi ìni r-, ! r ,iioTivÌ
;mj imi lini ,1 eli |i'l>rii
r; indirne ni im't, ri r '. NÉÉ liti «a;
noi .l:|,|.|.'Ìi:-:uiiu i il .,!ri ijiuui.'i. c ria siri l'iri'iiSi, i.ipji, i no. ni . i ii,,,1i
k, : i,ì ri. ,IHikiri,,iil.. nel
m-.-Ji^n.u U-Jn|io clja fi 11 [..ni t.-,
etimi t'i .in Rinfili 'nuli; noi ritonl.T,'
:,.'"\ vSSH LA RETTORICA
unno l'Enzo ,1, ,Jn,iii.,I.T.IL,.|i^ rcip.iLI-..,- ::nì,l.c H.k'iiiNi.
liGcii. Usa uppollolur pruiiciilia rerum mulurum po più opportuno, se ni... ;|i r ,:i..-ii t
'rù l'iubm L ciiln^uc. Forliluilo csl return nuoniruin oppeii imùj 1 : J :hi;ili],! ( li.l,ì.,v.,-.III l
r,iLT prendo siisi grurnli coso, il
disprelr.0 delle miglili, e la lolleroma dello lutici in ragiono della loro
ulllilb. Li le,uporon« 6 nell'ani.™ uno
r.,r,:-l, innJmlMoe, r.jii:irni! lo
passioni. SS2SS a&ssssrass iiim.lr.Tnw. ikm™ r.-liyiw
nc^ili: o.-==.?rvarp .ln lil.rl |.ro patria, i>jrcnl:lnn.
lio-|iiIil>n., nuiim d '™. s.i
iin.-rrn,., r : , •umilila aiiilEkì tinnii
nuoji, dell'irò, ù .. J:, OpII «n
mo. c moniti cosci eomelorumo io «ci
[•;. -i -iti"-..u> : Ji.l.Jf Ji. p. iK'U>'u«n.eln»ic ,j;.-.o .U . >] f. 'il.. i.. r >J f.
r-M Fs lirlÙ 0 1 sono lo sue concilo, le
tuo Rlonr. le toc OOJ.tbrif, ?BEE :
.5ss ced ™:;,r~::i!;.::i:r= ii(ii|i-r..1ioik'ri] lran=fcrro, |ir.
].[; rei |u..J irpo ulqO, n n i:. n,n, rr:|.LT ir-, |,jr' >rpn ri.i-n Ir.. ].c minriiM:,,,!
,l„wiiiim c.-.cr lirici ; S3SÉ !:*[il£r]]fiir->rni M - l lt:irL'; 1
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SSES&SSS filiti r., «Hit
«i-S;»i. « o.ifioj tvqlrMm M MMoiMti
iwnpoattu o ioMMm;aM alcuni EEÌéllHEE
luco piullo pus dlonnos. iilllÉ sssbsmksss
uW.ri-ww:. in. fine del di«w..7^^™^'*». 'e™w nò eh. e, i.gisiio ni. (.mi r,„] ( i s rj r
tl..m-(iir. .ci ..fnruir. r incidi.,,*;
il, in in lo™ ri r,,dir, e ..ll.r.l»
iveislmo datimi a s ii «u n un ii-m ili noltim, cui pr> rumili' il
sii llcriiiui ; ili iinli: facili; e' il
.le ilici siniik'? nel!' 'pillilo 'ineiiiiHnca ccl 1,1 iaculi'; pi'M'Iit le iiiimjgirv, siccome
le Ii-IIitc, miri riirruJiitic usn, si
rjricolloon; ini i Ir.nglli, lincine
lor.iiolclli'. dclilinnn semine i-immuni,
li aodocehS li jcunta quBTlUll do' luoglii non ot Piccia cidere in l'irurc. Mirri [imi! fili!
ceni rjuirilu Ini)"!] icnja
ciiiilrc.i'vnrilo : p.'r esempli], ss nel
.|niiifri Iiiiim li nillni fiiiiim ima mano d'orn, e. Dn locìi s=Ii> «limi'" csl: mine ai]
inchinimi riliormm nausearmi'. Oumiiom cto.0 veruni binili) m.J^inc^ n|"'flcl, er lii,
i.nliis linb-i silllllililillili's i lince ijcl.cmus, ilu [.lice-
siiiiiìiliiJini-s e; se ilclicin. iinas rerum, alleai i diramili. 11.-;iiiti
i-irnililnililic-. i'i|iiir.iioii1ur r
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olla Repubblica provi ecics'.i, ni apli amici piovasi!, ni ai nemici rfsi.K-sli. i Si ridami
articolo, 0 inciso la divini ione, clic si fa di ciascuna parola por piusc, Lenendo sospeso la fraso sino air
ultimo : per esempio: i: Culi' impelo,
cui la race , coll'a^irlI, li.,.. Ili.-.-. Il, li -li ai/.erssrii. l f.
parimene: r. Tu cull'iiKiilia , Hill'
tngiii ~'.ijiii. coli' autorità, colla
peritola hai lolto vii i nemici, i Tri li vecmcnio ili qiresla fipurn, fi i[uclla .Iella
prcci'tlenle ci In ipifhla .liv.arin.
f.'io .|jel]j P.i pa's- piti Unii e |iù
più rapida e più proli" :o
il pe no uà colpi spessi cale nazioni]
di paiole in il Irarrcmo
Brandissimo limila vL-iinn ri 1
c:i..i, (j.inl iNtiii.j si (.vallile I .:
eli potrà il caso? • nella conclusione; per esempio: : Se la fortuna puil mutlissiuw su di (| nel
11, clic LIU1I0 IV. iuj[iu.ili:
IJiiiil veiilam, igui sin], nuaro \i«HMilok',su as,L'HiiiHlnlfÌNalL:a miwii'ra n-y.i multa ditoni. XXII. Vi ha a Uro |H rari Olii Mio, in cui
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buoni, o por meglio dire li perseguili
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ed, '|ii:iiii curimi, 'le |'ii!ii|i difiiii'H, ani Dir |Ue ani imam i|iioi!-pic cerio
conclmlilur Karl lag incni silslnlil,
i^ii-i. ini in il. I laris adiumcnto full; niliil Cormllnii cimlila calliilUni
jirjesiilii irli".- nLliLI [- r.-j.i il ani- nicriun ri iernionis sociclos
opilulaia ci: irem Koirn.f -.li _r 1 1 - 1
ani umilio, ilillo-e-cil ani \ iUj^:,i1i- iTlinimiliit-, lue. i Ducila tipnra a mila, se a na«irri
iiil-.'reisc ili lasciar iulaiidare una
cosa. 0 che nan È espodicalo ili mainare par mintili], a alle e- lunga a dire,
o elio è Ignobili), o die non si può prorare , o die e fonile 3 caidnlire ; ili maniera clic
sia meglio per noi 1' nver follo nascere copi' ri a meo Le un sojp'.'llo, clic l'jfar pTcsn a sviluppar
cesa clic ve. uir ri [insilino
cannila!,'. La ili. gin ai hi ne li: luogo, allorquando o l'una o l'olirà delle
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pi-r .;.citipi.i; que rein cerio verbo
cucinili viilcruus. Coiiimn-lin esl,
ijuum inlf [posinone, varili ci super orli ani lindo: 1-ormac liisnilus aul
morbo ikHorr-n-I nnne Cariatine , di,
lece Cornila , rovescili r'rescllc.
TViclile Ji Snnanlliii K : «infoila li- (orla ilei corpo; ni ai r.a'lapiiie-i fu ili iiriifilln sckiir
ililare; nien'C ai Corinzi In di presidio la scallrila pnlilica ; nienle.iì Kregellani recò
carnaggio la «i LA RETTOIIC.l raralim
rei ift'iidll plurali.f']i;3i-i;ir. |i|oIiI(DHji? Militale loltao rnlpac
si Digiiized by Google Liaiio iv. irrs Islam reni filari! :c villi l'
delirimi? [k.iniliimini, i|uns lialmcrilh dcrerrsorr?; SI ni] in torum udii* ai, le trulli- |irr.|nniiU'; il rimla
1-1ÌI115 omnium tonai .Ir «le. Timi
vouis vcnicE in niciileni. ul vere
iJk-artl, ri t liliali li ;i i.slm «iic i t maii.i inilins ill'j. ojuncs arile nculu» vulriis Iruciiljìos «,
iriiniieoj cornai vralrii suflriipii; in nmulisiim ini Inediti [ir tu: ni ni. [lem ; .Nani ijukl Inil.
indiaci, i|Uare in .-.! ili ijuilti, rhc
avc-sla rinr iliii nitri ; poriclni
dimiiiri rifili urtili [r hollt-i-ìtndilli Imo [ter voi ; c .nn,iil«r;le i[nale
tiini|, tristi indi irrlib.ro inni
Allora ti tetri in mcnlò, sa ero
™fi'.tìiT i affline, rlm voi |nr ricjlipn,;; ,i
ninnalo |.rr lill.ì li lairiHle Irimdrir.' .olii, ali o, 'Ni mslri, a rl.c rn'voiiri ?iilTrn.qi
inalM.lc ai jiiii ilislinlì moiri i nemici
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i:nr..irir .mitrimi V n In r.-;; mal v'iildn-,,c Eli ioli na iurta
niidimia ri n!i;i!il« » velismo [ni i.ii.n-i-H,! „:;,!, - j mi r r r fugil, Cmiril... ,: miserino COIMqui M'
|>"-l "("ir" 1! Hn-i "l:|-mi il-' IIL' 1-1 ÌIÌ ìH I..:ii i-n.Iru: lumina MiiUki ic, lin/
-sui ku I1I111É T-A BEFTORICA Cur rp;n mine Ulti qunlquam i. linciato ?
Si jin.l iis '1 EÌUb merlo vouicl.al, ci
Illa Ini ^ii.ÌMa,:iiirpi ;i hiij, 0
nimusa.irÌ5sirnu!,rorlunH ISIS ;pn ; ci pracl.'rra rimo, (pana rii cìhui-
lanini is osi, i.le n'usi rn in re Ioni.
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Ji f =„l„li,,(MÌi un l,„:l,.IOJ.: . n .li mi» -|n..|K ; i:i 1.1:.'. 'i.i U.Ji.'-L ' .ni' :'i...l.-i .1
i" ni.. no. Cinqui empiii arami
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reliquil. l'.-r ™bi 8 uum , q,,um .1
ili ; in ili: i.u si ilicas , qui mulini liereuluilis. ni. mi : l'rojiiiM In, qui (ilurimuni «anis.
-in., in Il luni |.„i,i„lii ,cHj, |[jqc cior
iialin | -1 li rim |n.,..tel mi ci tonimi. bj.l, r ruJliir:irttii iIilvkKi. ihlì'
<li*Lcnili: il bracciu, c l Gtri.i.i,
clic ''ir dubiln ili ciò i lir i, e pur
non nlibunkiu il preso posto , pianla il i ìiLlTimia Ali MIKKMU. DELLA aoi,
INVENZIONE RETTORICA TRADOTTI DALL’ AD. TOMMASINI NAPOLI
Presso MORELLI Editore Strida S. Sebastiano n. SI. Asserisce
Tullio ( De Orai. , sul line) che nei tempi anteriori a lui nessun buono
oratore si era trovato per islagione lunghissima, e solo di tollerabili appena
uno per ugni gran periodo di tempo. Eppure si nella Grecia e si in Roma
per insino dalla fondazione di quello repubbliche le concioni e il diritto
parlamentare a lutti concesso davano agio e opportunità agl'ingegni di
mettere in azione quanto aveano dalla natura e dallo studio, e di salire con
l'esercizio e la pratica all'eccellenza nell'arte del dire. 1 fatti
stupendi e vnrii di cui essi erano attori, le congiunture di malagevole
scioglimento nate dagli attriti della politica, dalle tentazioni
dell'orgoglio, dai pericoli delle guerre continue, domandavano dalla parola
pubblica i provvedimenti clic ai nostri tempi son la più parte il còmpito
esclusivo della misteriosa burocrazia. Gli uomini che pei grandi talenti
politici aveano primaria autorità di parere, nelle concioni volevano
necessariamente essere oratori. Era questo un dovere della loro eccellenza, c
d’altra parte un bisogno dello Stato. Gli effetti anzi dimostrano che
essi sapevano in qualche modo ottenere i fini oralorii, e che erano
stiflìcienti alle circostanze, e a quel grado d'inlciligcnza c di civiltà in
cui s'attrovavano gli uditori. Laonde l’osservazione che fa Tullio non viene
altro a dire, se non che la natura andò sempre molto ristretta in formare
ingegni di tanta potenza, che fossero capaci di mettere nel più grande
rilievo i dettami o i suggerimenti di lei, c scolpirli, dirò cosi, nella
straordinarietà degli effetti prodotti dalla loro parola, tanto che i venuti
dappoi avessero modo di convertire quei dettami e quei suggerimenti della
natura in altrettante regole di effetto indubitato. In una parola, non
vuol dir Tullio se non che furono rarissimi gli oratori clic sapessero
mostrare nei loro ragionari una cosi magistrale disposizione di pensieri e di
parole da servire di sicura guida a chi avesse poi voluto raggiungere il vero
scopo dell'oratoria. Non fu dunque causa di tanta scarsezza di veri oratori là
mancanza di precetti elementari, poiché questi si sono compilali a poco a poco,
riducendo a norma e canone i modi di certo effetto seguili dai migliori,
i quali modi separali in ispecie, formarono quel corpo d'insegnamenti che
costituisce l'arte di fare un'orazione. Anche dell'oratoria avvenne ciò
che di tulle le altre arti : le regole furono posteriori ; si son nobili
gli effetti, e si ridusse a precotto la causa che li produsse: la prima maestra
fu sempre la natura, e i mezzi con che essa porse i suoi insegnamenti
furono gl’ingegni modelli ed esemplari ch'cssa ha crealo di tempo in
tempo. Giova qui a maggiore chiarezza c conferma di ciò che ò detlo allegare
quel luogo di Quintiliano che si Irovn nel lib. V. cap. 10, verso il
line: « Non è già che dall’essersi date le regole ne sia venuto che si
trovassero gli argomenti; ma si usò anzi ogni maniera di argomenti prima
che se ne desser le regole : dipoi gli scrittori ne fecero le
osservazioni, ic misero insieme, e le pubblicarono. Una prora di ciò che
io dico si è, che gii esempii che recano son ludi presi dagli oratori antichi:
essi non ne adducono veruno di nuovo, e che non fosse adoperalo prima di
loro. Laonde gli autori dell'arle sono stati gli oratori. Dubbimnu però
saper grado altresì a quelli che ci hanno diminuita la fatica. Perocché
ciò che i primi, mercè il loro ingegno, inventarono a poco a poco, noi non
l'abbiamo più a ricercare, essendoci oggimai conosciuto. Questo però non basta
ancora, come non basta per esser atleta l'aver apparala la ginnastica, se
il corpo non sari aiutalo daH'cscrcizio, dalla continenza, da un buon
nutrimento, e soprattutto dalla natura ; siccome dall’altro canto neppur
questi vantaggi gioveranno gran fatto senza l’aiuto dell'arto, n Non si
vuol perciò credere clic i soli precetti abbiano la forza di condurre alla
debita perfezione un oratore. Ogni arte ha i suoi priucipii elementari, le sue
regole da dover seguire, chi vuole in essa acquistar attitudine a .maneggiarla;
ma non lutti quelli che ad essa si applicano vi acquistan lo stesso grado
di desterilii. Le regole in un’arto sono come altrettante fila gettate qua e là
nelle diverse sue parli ; ma gl'ingegni comuni non arrivano a impadronirsi di
tulio il complesso c la collezione di queste fila : so l’arte è di specie un
po’rilevala bisognano ingegni superiori ai comuni per venire a quell'inlicro
possesso. La ragione adunque perchè, a dello di Tullio, furono rari i veri
oratori anche dopo la collezione dei precetti, si è perchè nel trattarli,
nell'applicarli, v'ha di bisogno una capacità riservata unicamente all'ingegno
umano, il quale dee saper discernere non solo la forza enlrinseca di
ciascun precetto, ma il modo e la varietà con che ne dee far uso. perchè le
circostanze diverse domandano una diversa applicazione del precetto istesso ; e
l'effetio non dipende dalla materiale collocazione di una regola, ma dalia
opportunità di tale collocazione: anzi farebbe danno al suo ragionare chi non
facesse apparire che la propria servilità alle regole, mentre l'arte ci
dee stare nascosta e sfuggire, per cosi esprimere, fin anche all’indagine
dell'uditore. Senza dubbio l’arte è un aiuto, ma l’arte sola non farà mai un
oratore. Ci bisogna un’nttiludino naturale, una visiva acuta per vedere le vie
che menano al vero effetto, una ferliliià di espedienti per sopperire ai
casi in cui l’arte è monca o inetta, una, sto per dire, inesauribile
sorgente di concetti e d’idee da adoperare all'uopo, una profonda conoscenza
dell’indole di ogni circostanza per commisurarvi il ragionamento e rendervelo
adatto, e soprattutto una vasta cognizione del cuore umano, di tutti i suoi
penetrali e latibuli, di tutte le fonti delle sue affezioni, e di quegli
intrighi ed inganni onde il cuore sfugge sovente al contatto di chi lo tocca e
lo lenta. Certo una voce così vittoriosa che pieghi a sè la renitenza
delle opinioni contrarie e lo assimili alla propria; che tragga
irresistibilmente altri alla convinzione di avere stortamente pensato; che
svegli idee nuove e troppo più salutari di quelle che s’erano concepite
in generale; clic conduca ad assolvere o a condannare a dispetto delle
presunzioni contrarie; che svegli l’ainmirazione per un individuo stimato
fino allora abbietto, o la compassione per chi ha il dosso curvo dal gran
fascio delle sue scelleraggini; che induca un popolo intiero a intraprendere
una guerra che domanda lo sue sostanze e la sua vita; che faccia alle
parti aspiranti a una indulgenza o a un privilegio applaudire la parola che
toglie loro ogni speranza, ed opera anzi la loro sconfitta, cosi leggo in
Plutarco esser avvenuto, per l'orazione di Tullio, ai tigli dei proscritli; che
insomma abbia in suo potere il maraviglioso secreto di dominare gli animi ,
come la legge domina sullo masse . come il signore padroneggia sullo schiavo;
questa voce 6 come un miracolo che non si può sentire se non sommamente di
raro. Che se tanto pochi, come accenna Tullio, furono gli oratori nei tempi
in cui si può dire che l'interpretazione delle leggi c le misuro di
governo risiedevano nella parola degli oratori, e ch’essi erano la molla
più ordinaria del congegno politico, non è maraviglia che neppure ai
tempi nostri non v’abbia oratori, quando l'uflìcio della parola è rivolto
a ben altri usi. Infatti quell'oratoria che è rimasta in retaggio ai causidici
odierni è inceppata da'molli rilegni impostile dalla nalura e dalla
costituzione dei governi assoluti (1), per cui n’è messa mai sempre in
cesso la parte amplissima che riguarda il sindacato degli stessi atti
governativi e le immense complicazioni della politica; parte clic negli
stati liberi, come erano le repubbliche antiche colle loro concioni ed
assemblee, offeriva infiniti temi all'arte oratoria, poiché il negozio
pubblico era per ciascuno come un negozio di casa, e per ogni capacità
una continua occasiono d'incremento e di maggiore sviluppo. Di più Ut
molliplicilà delle leggi, per cui ogni azione ha, si può dire, un precetto che
la previene, e una sentenza anticipatamente pronunziata, non permettono
all’oratore di condurre con la potenza del proprio ingegno nè uditori nò
giudici a cavar dal proprio cuore quelle miserevoli transazioni, quelle
indulgenze eccezionali che l'umanità le tante volle facca sostituire alla
severità dello leggi : e per verità poleano le leggi meno parlicolarizzale
essere L' Autore di questa Prefazione scrive a Venezia, sodo il regime
Austriaco. meno inflessibili. S'arrogc il manco della pubblicità, salvo
in argomenti criminali presso alcuni Stati, la quale è il più potente incentivo
allo studio e alla diligenza del dicitore che sa d'avere in ogni
ascoltante un giudice che non sentenzia sulla causa, ma sulle sue stesse
parole; e in One un esercizio di professione clic aspira a lucro, non ad
clogii, non a discorsi ricisi e percntorii, ma a stancheggi c lungherie per
tranghiollire più a dilungo le propine e le strenne dei clienti ; son
tutte cose che s'oppongono allo sviluppo, agl'incrementi, alla perfezione
deU'ufflcio oratorio. Ci sono, è vero, dei governi che hanno assemblee
parlamentari : ma gli oratori che più vi splendono son uomini di
circostanza, non addetti esclusivamente all'oratoria, lalorn obbligati dal
Umore o dalla adulazione a falseggiare per insino i proprii convincimenti, e
andare alle seconde del potere o geloso di piaccnleria o troppo sensibile nel
sentirsi urlare ; talora scuorati dalla certezza che le loro parole non sono
tenute se non per un assaggio di prevenzioni individuali, e non come seniori e
parli compendiose della opinione pubblica c dei reclami mossi dai bisogni
comuni. Insomma nello stato presente delle società, nel moto meccanico e
puramente macchinale delle aziende govemaUve, nella passività delle forti
passioni che non hanno nessun campo in che poter agire, gii oratori, nun dirò i
sommi, ma neppure i mediocri non sono generalmente possibili. Non parlo
dell'oratoria sacra, perchè essa ha delle specialità, che non si vogliono
confondere colle forme delle trattazioni civili, benché sieno le stesso
fonU degli argomenti e le partizioni generali in che vuol esser diviso un
discorso; quantunque dai Padri in fuori, se si eccettuano pochi ingegni
brillanti della Francia nell'andato secolo, non ha troppo di che lodarsi questa
specie di oratoria nella nostra Italia. Dico bensì, che qualunque ne sia la
causa, che già facilmente si trova giustificabile, se il detto di Tullio era
una verità rispetto ai suoi tempi c a quelli che lo precessero, non lo è
meno rispetto ai tempi moderni. Ma per tornare agli antichi, molli, fino
dalle età dei Greci, trovando troppo arduo il poter venire perfetti oratori, si
gettavano nella via più facile, lasciando l'opera del sentimento e della
immaginazione per abbracciar una speculativa più materiale, e si fecero a
compilare ed apprendere altrui i precetti c le regole, sfiorate dalle orazioni
dei migliori. Questi precetti, per quanto avviso, non furono sin da principio
che masse informi di regole, senza una certa distinzione di quelle che
spettano all’oratoria da quelle che si riferiscono alla trattazione degli
argomenti filosofici. E tuttoché Aristotele, con quella sovrana maestria
con che svolse tanta parte dello scibile, sia stato forse il primo che divise e
fissò con una cotale ragionevolezza le leggi dell'oratoria, pure non potè
fare che cavasse di ogni pastoia quel suu sistema, e clic i posteri non
mettessero in questione le varie specie dei precetti spettanti
quest'arte, volendo ciascuno, come addiviene in lutto, che la propria maniera
di vedere le cose dovesse divenire il modello al vedere di ogni altro.
Tullio per non lasciare l’Italia sprovvista di questo genere di
disciplina, mentre la Grecia ne aveva già abbondanza, e perchè l'azione continua
del Foro bisognava di questi sussidii artiflziali, c forse ancora perchè
vedesse non ben chiarita dai più antichi di lui si fatta trattazione, pigliò a
farne pur esso questo opuscolo ; e certo con più ragione di ogni altro si mise
a riprendere certe distinzioni fatte dagli antichi, come si pare dal
primo libro, cap. 6, dove scardassa bene Ennagoni circa il suo dividere
la materia oratoria, dopo di aver già disapprovato la estensione quasi
infinita clic attribuisce Gorgia Lconlino a questa materia. Nella
presente operetta non tanto intende Tullio di svolgere le norme, dietro cui
dee una orazione esser condotta, e di metter quasi sottocchio l'ossatura
e il tessuto intrinseco del lavoro, quanto di facilitare la invenzione
degli argomenti necessarii ad ogni genere di causa. Ei tocca di passo la
prima bozza della tela , o macchia , come dicono i pittori , ma il più
che si occupa è dello impasto de’ colori per andar su col pennello allo
sgrossato, c di rilevarne le tinte, e il vaneggiar della pannalura,
finché si venga a compimento la dipintura intiera. Avvegnaché però ei si
frammetta specialmente delle orazioni spettanti al Foro, non lascia pur
di essere a un tratto maestro d‘ invenzione per ogni genere di diceria
privata ; poiché siccome i fini generali di ogni ragionamento deono essere,
persuadere , commuovere, dilettare, cosi tutti i ragionamenti cho si
riferiscono alfintellello perchè pieghi a convinzione, al cuore perchè metta in
attività i suoi affetti, al sentimento perchè riceva sensazioni dilettevoli c
soavizzate, polcano fornirsi, mediante le regole di questa invenzione oratoria,
di argomenti che avessero identità o che tenessero analogia con quelli
che son qui porli specialmente a materia delle orazioni forensi. Non si
vuol però lasciar ili ammonire clic questi due libri non son un trattalo
formate clic nulla ci lasci a desiderare, mentre anzi è meno perfetta e
lucubrala che altre opere di Tnl iogle lio in quello genere.
Egli non fece clic un Commentario nella sua prima gioventù , come usava
fare di alcune sue orazioni e brani di esse, cioè dire un compendio, in cui
scrivacchiava le cose che prime gli venivano in mente, senza porvi troppa
pulitura , o per usufrultare qualche ora di scioperio, o per avere in serbo ciò
che a tempo più opportuno avrebbe disteso e ordinalo pensatamente c con
accuratezza. In prova piace recar qui le testimonianze di Quintiliano, il quale
per essere un devoto passionalo di Tullio non può dar sospetto di esagerare a
carico di esso. Dice questo autore nel lib. ni, cap. S, delle Istituzioni : 6
Cicerone pretende che la lesi non s’appartenga punto all'oratore, e assegna ai
filosofi questa specie di questione. Ma egli mi ha risparmiato il rossore
di confutarlo, disapprovando egli stesso i libri ove parla cosi (ciò sono
questi due della Invenzione retorica ), e raccomandandoci nell'Oratore e
nella Topica che allontaniamo la disputa dalle particola riti delle
persone c dei tempi ». E nei cap. 6: « M. Tullio non ebbe difficoltà di
condannare egli stesso alcuni suoi libri già pubblicati, come il suo
Catulo, il suo Lucullo, e questi stessi libri Retorici... con iscriverne altri
dappoi. Infatti sarebbe superfluo affaticarsi tanto negli sludii, se non fosse
permesso d'inventar cose migliori delle inventate prima ». Ma ciò che dà
a divedere più lucidamente la vera qualità di questa operetta è ciò che
aggiunge lo stesso autore nel citato cap. fi. « Non ine ignoto che da
Cicerone nel primo libro della sua Itetorica s’interpreta in altra
maniera il punto negoziale, trovandovisi scritto cosi : La specie negoziale ò
quella che concerne le questioni di diritto che si decidono secondo l'usanza
civile e l'equità : al qual impiego presso di noi, come si stima, presiedono i
giureconsulti. Ma qual giudicio abbia fatto egli stesso di questo libro l’ho
detto di sopra. Perciocché sono come una specie di Commcnlurii, in cui
registrato avea tutto ciò che in sua giovinezza venitegli appreso nelle scuole
; e però se vi ha qualche errore, hassi ad imputare al maestro ; o il movesse a
così scrivere il vedere che Erntagora a questo proposito citò in primo
luogo osempii tratti dalle questioni di diritto ; o il vedere che i Greci
chiamano grammatici gl'interpreti della legge. Ma nondimeno Cicerone a
questi sostituì i bellissimi libri dell'Oratore ; e però non può essere
accusato di avere dati falsi precetti ». Nelle edizioni questa operetta
è comunemente intitolata De Arie Rhetoriea, eccello alcuna che ha queste sole
parole, De Invenzione, tenute anche dalla edizione di Venezia. Nò mancò da
chi fosse appellala Ars velus. 11 titolo da noi qui apposto è il più vero,
perchò ò indubitato che qui son porli precetti retorici, ma che in
ispeciattà son tocchi quelli che risguardano la Invenzione, cioè dire il trovar
il vero aspetto sotto cui vuoisi riguardare ogni causa, perchè non si
pigli errore nel dare o negar importanza ai punti che ne sono o non ne
sono i precipui ; il trovare gli argomenti opportuni dalle fonti che li
somministrano ; l’cscogilare i varii arliflzii che si vogliono porre in opera
perchè resti più energicamente convalidata la ragione dell’oratore, o sia
tratto il torlo islesso ad avere apparenza di ragiono, c di verità : il
trarre dalle circostanze del fallo che si agita la forza necessaria per
dipingerne con adatti colori o l'atrocità, se si accusa, o le mitigazioni
clic lo rendano giustificabile, se mai se ne piglia la difesa; infine
('amplificare i motivi clic possano trarre gli ascoltanti c i giudici a
severa sentenza o a indulgente compassione. Conviene però osservare che in
questi due libri non c fatto mai molto nè della collocazione delle parti
costituenti l’intiera aringa, nè dell'ordine che debbono tenere le unc rispetto
nllu altre, nè della pronunzia, nè di altre cose che bisognano a una
trattazione completa : il che lascia supporre che questi due libri non
sieno propriamente il quanto scrisse Tullio sulla Invenzione retorica, ma solo
una parte di trattazione più estesa. Queste osservazioni stesse indussero
i dotti a sospettare che i libri di quest'opera potessero esser quattro,
se si considcran dalle materie trattate quelle altre che reslerieno da
trattare. Fra gli altri difende questo asserto il Yossio (de Nat. lthel.
cap. 13). Nè punto è da dire che sia questa una congettura avventata, poiché
Tullio stesso le somministra in favore un argomento di gran forza. Egli
infatti chiude il libro 11 con queste parole: Quare, quoniam et una pars ad
exilnm hunc ab superiore libro perducla est, et liic liber non panini
conlinel litterarum, qua e restarli in reliquie dicemus. E siccome nelle
altre opere appartenenti alla oratoria Tullio non traila exprofesso della
Invenzione, cosi ciò ch'egli accenna restar da dire sopra la stessa materia, si
dee necessariamente credere che esistesse in altri libri susseguenti a questi,
ma che il tempo ha lasciali perire. Per antico quasi tutti i dotti
clic trattarono di queste opere attribuirono costantemente a Tullio i
libri dal loro autore dedicati ad Erennio, i quali trattano la stessa materia.
(Hu oggi per ragioni solidissime si disdice questo possesso a Tullio. Gli
antichi furono senza dubbio traili in errore dal vedere una grande
uniformità nei precetti e negli esempii citali dall'uno e dall'altro
autore, c ncITnccordarsi elio fanno presso che in ogni cosa, ila non fu
osservato che si Comincio come Cicerone si tennero strettamente ad Erinagom, e
che la comunanza dcU’anlico maestro fece dir all uno ciò che disse anche
l’altro. Sarebbe assurdo attribuire a Tullio un’altra opera dello stesso
genere, in cui non avesse fatto atiro clic ripetere quello che avea già dello
prima. Se poi si riguarda quest' opera dal lato della utilità ch’essa
può prestare all’oratoria dei nostri tempi, convien confessare che quanto
essa può recarci buon servigio nell’insieme e nella generaldà delle
regole, altrettanto ò poco acconcia a certi casi clic pigliano la loro
qualità dai costumi c dalle leggi dei nostri secoli 11 Crisliane-imo, che con
la sua spiritualità, ignota agli antichi, si è l’alto guida invariabile a lutti
i sentimenti deU'uomo, ha lasciato trapelare le sue ispirazioni in tutte le
leggi, ha impresso nei rapporti sociali principii inconcussi di sapienza
o di verità, lui spiegalo agli uomini il segreto dei loro destini, c lo
scopo verace della lor vita, la quale i gentili credevano gcitala dal caso nel
mondo delle esistenze perchè passasse come quegli allori leatrici che si
lascian vedere al pubblico traversare la scena per non più comparire, o perchè
risorgesse a una immortalità fantastica, suggerita dalla non dubbia
convenienza ili un'ultra vita. Ha impresso il suo marchio divino nella
religione, ncll’oiiorc, nella pietà, in tulle insomma le virtù clic erano
sanzionate dalla convenzione e dalla esperienza dei secoli. Di che è
venuto un cssenzial mutamento in quel giure comune clic istituisce le
relazioni più necessarie fra nazione c nazione, come in quei giure
privato che lega fra loro i rapporti che passano tra individuo c individuo.
È dunque incompatibile con le idee dei tempi nostri lo ascrivere Tullio
(lib li, cap. 22) la vendetta, come ascrive la religione c la pietà, fra
i diritti naturali, mentre la giurisprudenza presente come per amore del Crisi
ancsimo trova meglio dominante nella pietà c nella religione il diritto
divino, che imprime alle azioni una ben diversa gravità da quella clic
imprimeva loro questo diritto medesimo consideralo per naturale, attesoché
rispetto alla religione c alla pietà avevano i gentili idee assai
ristrette; troia essa giurisprudenza anche dominante il diritto fraterno
che riprova la vendetta come contraria a quei precetto della natura, che
comanda il fare o il non fare ciò che a noi stessi vorremmo fatto o non
fatto, perchè t’individuo non è un essere solitario o spiccato dalla
società, ma un fratello, un membro, una parte della grande famiglia
umana. Nò questo è da dire di ciò solo, ma di quanto altro ha ricevuto
dal Cristianesimo una impronta diversa da quella che gli aveva stampata
l'antichità. È perciò quest' opera uno di que’ monumenti antichi, a cui s’inchinano
per riverenza le età clic gli passano innanzi, e da cui ricopiano le singole
parti come bellezze confacenti ancora al loro gusto, ma il cui insieme
non risponderebbe appunto al genio e al costume che le domina. Inoltre
l'antico diritto civile mollo diverso dal presente, perchè diversa la
costituzione politica degli Stati: la forma del governo libero troppo
lontana dal governo assoluto dei nostri secoli ; le formalità dei tribunali c
ilei giudici clic hanno ricevuto dal tempo essenziali mutazioni, son cose
che non rendono in lutto acconcia alle nostre cause questa Ciceroniana
trattazione, quantunque, siccome è dello di qui a dietro, non lasci di
presentar un certo utile nelle parli del suo insieme e nella generatila
dei precedi che vi si trovano abbondantemente radunali. Anche
qucslo, come gli altri testi Lalini, andò soggetto a varietà nella lezione : il
clic non dee far maraviglia mentre al tempo di Tullio stesso e viverne
lui avvenivano nc' suoi scribi, non altrimenti clic in quelli degli
altri, delle non piccole mutaz oni: di che si lagna Tullio nel terzo delle
lettere in una diretta a Quinto suo fratello, che è di quel libro la
5." Pietro Vittori esaminò attentamente i codici Fiorentini , c
riuscì a dar questa operetta più emendata che non lo fu da due secoli
addietro: talché il Grevio parlando ili lui , nella Prof. alle Epistole
di Tullio, ilice che Cicerone dee più al solo Vittori clic a tulli gli
altri clic si occuparono di emendarlo, poiché gli al ri gli guarirono qualche
piaga . ma il Vittori lo ridonò a buona salute. Paolo Manuzio aiutato da
codici , ili Venezia specialmente, fece anch’ egli qualche prò a questa
opcrctla dopo il Vittori, ma non con plauso eguale, perchè non fu fedele
come quello. Ed eziandio che dica il Muralo esser dubbio se sia più
debilorc il Manuzio a Cicerone, o se Cicerone al Manuzio, tuliavin non
mancano parecchie fra gli altri Enrico Stefano, Psc udne. p 59, che lo accusano
ili audacia troppo pericolosa l'iù audace è nondimeno Dionisio bambino, il
quale stampò Cicerone trentanni dopo il Vittori, aiutato dai copiosissimi lesti
delle biblioteche Parigine: ma ebbe spesso la pecca di preferire il
proprio giudici» alla autorità e al consenso di quei testi rinomatissimi.
Laonde dice di lui il Muralo, Var. Lcz. xvm, 7, clcrgli non correggeva
già gli errori de' librai, ma correggeva Cicerone stesso, quando gli sembrava
che avesse piu'.kazium: ({ualclie uscurilù. Tuttavia aveva il Lambino
somma acutezza (l'ingegno, talché scopriva o subodorava ciò che era sfuggilo
agli altri; ina il suo stesso acume lo portava talvolta ad essere audace.
Finalmente Ciano Crutcro avule alle mani quante copie di opere
Ciceroniane si trovavano nelle biblioteche Belgiche, e poi oltre a
dugcnlo manoscritti della Palatina, sudando fra lami codici fino
all'eccesso, pubblicò le onere Ciceroniane in modo, come attesta egli slcsso
nella Prefazione, da contar più di mille luoghi illustrali, corretti,
accresciuti. li vero clic questa asserzione perde mollo in bocca del Crutcro,
ma non si può negare che ne sia insigne il suo inerito. Corre il dello fra i
critici, che mollo maggior bene saria venuto a Cicerone se il Lambino
avesse avuto alle mani alquanti dei codici clic ebbe il Crulcro, poiché
il Lambino sarebbe stato più divolo alle membrane antiche, c Crutcro lo
sarebbe stato queU'uii po’ meno clic gli bisognava, tn quanto alla presente
versione io non mi sono che di raro valuto delle varianti, avendo fallo
uso di una edizione di Lipsia, pubblicala nel 1831 con piena c curala
esattezza. Discorre Tullio dello utilità dello eloquenza, del suo
principio, progresso, abuso, aladio, e dell' orlo die h.; j suoi precetti
proprii. Quale sio l’unicio della eloquenza, il fine, la materia, le
porli. Della Invenzione che n è la parte più precipua, c quale debba
essere In ogni cosliluzionc di causa si congetturale, si definitiva, si
generale. Dell’esordio, narrazione, partizione, confermazione,
confutazione, e delle varie specie di tulle queste partì dell’ orazione, delle
parti secondarie, dell’efficacia c dei diletti loro. Seppe et mulliim
liocinccum cogitavi, bolline i,n inali plus altulcril hominibus el
drilalilius copia dicendi ac sumimim cloquenliac sludium. Nani quum et
noslrac rei piiblicuc delrimcnla considero, et nuiiimarum civituium velercs
animo calamilales colligo, non minimam video per discrllssimos liomines
invecbtm parlcm incommodorunt ; quum autem res ab nostra memoria propler
vcluslalem rcmolas ex lillerarum monumenlis repeterc insilino, rnullas urbes
consliluias, plurima bella rcslincla, (irmissimas socictales,
sanclissimas amicilias inlelligo quum animi ralioiic tum facilius eloqucntia
comparalas. Ac me quidem diu cogitanIcm su pioti tinnì sinc cloquentia parimi
prodessp civilatibus,eloquenliam vero ainesapienlia nimium obesse
pleriimque, prodesso numquam. Quare si quis, omissis rcctissimis atquc
lioncstissimis sludiis raiionis et ollicii, consumi! omnem operato in
eicrcilalionc dicendi, is inulilis sibi, pcrnicinsns palrioc civis alilur
; qui vero ila sete armateloquenlia ut non oppugnare conimnda palriae,
sed prò bis propugnare possil, is milii tir et suis et publicis
raliouibus utiussimus atquc amicissimus civis Ture vidclur.Ntc si volumus huius
rei, quac vocalur cloquentia, site arlis, sivc sludii, sire
cicrcilalionis cuiusdam, sivc facultatis ab natura profcclac considerare
principitim,repcricmus Spesso edi vantaggio andai meco esaminando se
un saper fare molle parole, c uno studio assai grande dell - eloquenza
recasse più di bene ovvero di male agli uoiu ni ed alle città. Quando io
considero la nostra repubblica venula in peggio, e richiamo al "disierò le
ani che miserie di cillà cospicue, io vi troru già inlrndotla non piccola
parlo di pregiudizio c di danno appunto da uomini della più alla
capacitò di ragionare. Che se per conira io piglio a esaminare i
monumenti lellerarii della amichila, e vi riandò i falli lontani dalla
nostra memoria, io ci ravtiso non solo per disposizione di animo,
ma mollo più col mezzo della eloquenza fondale molle cillà, cslintc assai
guerre, slrelle società saldissime, c amicizie le più sacre c inviolale.
E già mentre io buona pezza me no sio sopra pensiero, mi (rovo condono
dalla ragione stessa a giudicare clic la sapienza scompagnala da
cloquenle linguaggio poco profilta alle cillà, laddove il linguaggio
eloquente scompagnalo dalla sapienza può nuocer loro le più volle,
giovare non mai. Il perebì quando bene alcuno, lascialo slarc lo studio
sommamente buono e onoralo della dirittura c del dovere, consumasse lulla
l'opera sua in esercitarsi a perorare, coslui diverr. hbc un cittadino
siccome inutile a sè slesso, cosi offendetele c funesto alla patria; mentre
olii si orma della cloqucn ili ex honcstissiniis causi: naliim, alque
optimi: ralionibus profcclum. Nani tuli quoddain tempii:, quiim in
agris lioinincs passim bcslmrum more vagabsntur, el sibi victu toro
vilamprnpagabanl.ncc ralionc animi quidquam, seti pleraque viribus
corporis adirimislrabanl ; nominili divinac rcligionis, non Immani oflicii
raiio colebatnr, nomo nuptias viileral leghimas; nouccrlosquisquom inspcieral
libcros;non, ius acquabilc quid utililatis haberct, accepcrat. Ila
proplcr errorem alque inscientiam cacca oc temeraria dorninalris animi
cupidità» ad se czplcndam viribus corporis abulcbatur, perniciosissimis s
ite! litibus. Quo tempore quidam, magnus vidclicel vir et sapiens,
cognovit quae matcries et quanta ad maximas res opportunità: in animi:
incsset homimmi, si quis cani posse! elicere et praecipiendo mcliorem
redderc; qui dispersos hominos in agris t in tectis silveslribus abdilos
ralione quadarn compulit unum in locum et congregavi!, el cos in
imam qnamque rem inducens ulilem alque lioncslam, primo propler insolcntiom
reclamantcs.deinsa eloquenza ridondano a uno stato di molli beni, purché la si
accompagni con la sapienza che modera ogni rosa; da essa deriva a quelli
clic lo possedono c lode, c onore, c dignità; da essa gli amici
altresì di chi n'ha Tatto acquisto guadagnano giovamento il più certo c il più
sicuro. E tuttoché per più versi gli uomini sieno mollo degradali per debolezza
c viltà, pure più che per altro per la dote ch’essi hanno della parola
vanno at di sopra delle bestie. Ondechè mi pare aver fatto un
acquisto assai ragguardevole edui clic per la stessa cosa onde sopra le bestie
si vantaggia, per quella si vantaggia sopra gli stessi uomini. Ora, se
ciò non pure si Ta col mezzo della natura e dell'esercitazione, ma
eziandio si ottiene con un colale artifizio. non i fuor di proposito che ci
mettiamo a sapere clic uc dicano quelli, i quali di artifizio sifTaito ci
hanno lasciati dei precetti. Però innanzi clic tocchiamo i precetti
dell'oratoria, s'ha a dire della essenza di qucsl’arle, dcll’uflb.io, del
fine, della materia, delle parti. Conosciute queste cose, potrà ognuno
più agevolmente c con più speditezza porsi a considerare il magistero e
l’andamento dell’arte stessa. V'ha una scienza civile che si compone di
elementi molti e di mollo rilievo, lino ben grande c vasto è l’eloquenza
artificiale, che si noma retorica. Io non mi consento insieme con
coloro clic stimano la scienza civile non aver uopo di eloquenza, ma sono
altresì assai lungi dal pensare come quegli altri che fanno essa scienza
consistere tutta nella potenza e nell' artifizio del retore, lo fo
ragione essere la facobà oratoria di tal genere, da doverla dire una parte
della scienza c vile, n politica. Quanto è all’ufllcio di essa facol liane,
lnter olìlcium el linoni hoc inlercsl, quoti in oOlcio, quid Iteri, in
line, quid ofllcio convcnial, considcralur. Ut medici offlcium dicinius
esse curare ad sanandum apposite, lìnem sanare curalione ; ilein oratori:
quid ofltcium et quid linem esse dicamus, ìnlclligcmus, quum id, quod
Tacere debet, ofltcium esse dicemus ; illud cuius causa Tacere
debel, lìnem apoellabimus. ilaleriam arlis cam dicitnus, in qua omnis ars
et ea Tacultas, quac conflcitur ex arte, vcrsalur. Ut si medicinac
malcriam dicamus morbos ac vulnera, quod in bis omnis medicina versclur; item,
quibus in rebus versatur arse! Tacultas oratoria, casres materiam arlis
rhetoricacnominamus. Has aulem res alii piures, alii pauciores eiistimarunt.Nam
Gorgia: Leonlious, anliquissimus Tcrc rhetor, omnibus de rebus oratorem oplime
posse dicerc existimavit. llic inlìnitam ctimmensam huip artificio
materiam subiicerc tidelur. Arislolcles autem, qui Imic arti plurima
adiumenta alque ornamenta subininislravil, tribù: in generibus rcrum versari
rhetoris offteium putavil, demonstratito, deliberativo, iudi. ciati.
Itcmouslrativum est, quod Iribuilur in ali* cuius ceilae personae laudem
aut vituperalioncm; deliberalivum, quod posilum in disceplatione citili
habet in se senlenliac diciionem ; iudiciale, quod posilum in iudicio
habet in se acctisalionem cl dcTensionem, aut pclilionem et
recusalionem. El quemadmodum nostra t|uidem Tori opini», oratori» ars et
Tacultas in hac materia tripartita versori existimamla est. Vani
Ilcrmagoras quidcui nccquid dica! attendere, noe quid polliceatur inlctligere
videlur, qui oratori: materiam in causani eliti quacstioncni
dividal. Causam esse dicil rem, quac balieat in se eon! roveri iam
indicendo posilamcum personarnm ccrlarum inlerpositione; quatti nos
quoque oratori dicimus esse altribiitam. Matn tresci parles, quas
ante diximiis, supponimus, iudicialcm, deliberativam, demonstrativam.
Quacstioncni autem cani appellai, quae habeal in se controversiam in
dicendo posilam sinc cerlarum personarum inlerpositione , ad butte modum :
Ecquid sit bonum praeter honestalem. Verme sinl scnsus? Quac sit
mundi Torma ? Quac sit solis magnitudo ? Quas qtiacslione5 pronti ali
oratori: olticio remota: Tacile timnos inlelligerc eiisliiuamus. Mani
quibus in rebus stimma ingcnia philosoplioruni plurimo cum labore
consumpla intelligimus, cas sicul alì lè, queslo a mio avviso
consiste nel discorrere in guisa adalla a persuadere, come it (ine
consiste nel persuadere col mezzo del discorrere. Dall’uT flcio al
fine v'ì queslo divario, clic nell' ufficio si considera ciò che sia da
Tirsi, e nel line ciò che all'ufficio convenga Tare. A quel tnodu che noi
d damo esser ufficio del medico Tar cura di modo approprialo a risanare,
c il fine essere il risanare col mezzo della cura; allo stesso modo
intenderemo che sia l'ufficio c clic il line dell'oratore, quando si dirà 1*
ufficio dell' oratore essere il Tare ciò che dee, c il line essere ciò
per che dee Tare, materia dell' arte io appello quella , intorno a
clic l'arte tutta s’aggira, come ancora la facoltà che dall'arte si
deriva. Diciamo maleria della medicina le malattie e le Tcrilc, però che la
medicina si volge tutta intorno a queste: ebbene, allo slessn modo
diciamo materia dell' arte retorica quelle lutte cose, intorno a cui si
volge l'arte c la faco’tà oratoria. Or queslo cose chi le Ta molte, c
citi le riduce a podio. Gorgia l.contino, clic dei relori Tu uno
de'più antichi, pensava che l’oratore può ragionar oli imamente di ogni
cosa; ond'egli assegna a questo artifizio una materia smisurala e senza
termine. Per contra, secondo Aristotele, il quale a qucst'arlc somministri di
molti ornamenti ed approvecci, l'ufficio del retore si avvolge
intorno a tre maniere di trattazione, alla dimostrativa, alla
deliberativa, alla giudiciale. La dimostrativa si adopera al lodare
^biasimarsi di una determinala persona; la deliberativa risiede nella
deputazione civile, e consiste nell’ esporre i deliberanti il loto
parere; la giudiciale sia nel Tare il giudicio, c comprende l’accusa e la
difesa, o la petizione e la replica incontro. Or l'arte e la facoltà
dell’oratore, secondo che io penso, si aggira intorno a questa maleria cosi
tripartita. VI. Ermagora dà due parli alla materia dell'oratore, ciò è
dire la causa c la quislionc; ma ei mostra di non avvisar bene quello
ch’ci dice, nò intendere ciò che propone Ei dice causa una trattala clic
ammette contrasto di parole coll' intervento di determinale persoue; la qual
trattola ho dello io slcsso esser dovuta all' oratore, pcrchft gli
reputo le tre specie toccate qui addiclro, la giudiciale, la
deliberativa, la dimostrativa. Egli poi nomina questione quella die
ammette il controvertere di parole, ma senza intervento di determinale persone,
come sarebbe il cercare, Che altro v'ha di buono oltre l'onestà. Se sieito
veraci i sensi, Quale sia la Torma del mondo, Quale la grandezza del
sole. Le quali quislioni credo che ognuno agevolmente intenda essere di
lunga mano estranee all’ufficio dell' oratore. Attribuire inTalli ali'oralore
come cosa di poco momenlo una quas parvas res oratori otlribuere magna
amcntia ridelur. Quotisi magnam in his Hermagoras habuissel facullolem
studio cldisciplinacomparatam, vidcrclur frclus sua scicntia falsimi
quiddam constiluissc de oratoria otDcio, et non quid ars, sed quid ipsc
possel, czposuisse. Nunc vero ca vis est in lioininc, ut ci multo rheloricam
cilius quia ademeril, quam philosopliiam concesscril: ncque co, quod cius
ars, quam cdidil, mihi mendosissimo scripla lidealur ; nam salis in ea
videtur ex antiquis arlibus ingcniose et diligcnter eleclas res collocasse, et
nonniliil ipse quoque novi protulisse ; vcrum oratori minimum est de arte
loqui, quod lue fedi ; multo maximum ex arte dicerc, quod eum
minime potuisse omnes videmus. Quare materia quidem nobis rlictoricae
videtur ca, quam Aristoteli visam esse diximus; partes outem lise, quas
pleriquc dixerunl, inventio, dispositio, eloculio, memoria, pronuncialio.
Invcnlio est excogitalio rerum verarum aul veri similium, quae causam
probabilem reddant; disposino est rerum inventarum in ordinem
disltibulio; eloculio csl idoncorum verbotum ad sentenliarum
invenlionem accommodatio ; memoria est firma animi rerum ac verborum ad
invenlionem peree. ptio; pronuncialio csl ex rerum et verborum dignilalc
vocis et corporis moderatio. Nune his rebus breviler eonstitulis, eas raliones,
quibus estendere possimus geiius et ofllcium et llncm buius arlis, aliud
in tempus difTcremus. Nam et multorum verborum indigeni, et non tanlopcre ad
arlis descriptionem et praecepla Iradcuda pertinenl. Eum outem, qui
arimi rliclorieam scriba!, de duabus nliquis rebus, de materia arlis ac
parlibus scribere oporlcreexislimamus. Ac ndlii quidem videtur coniunctc
agendum de materia ae parlibus. Quare inventio, quae princeps est omnium
partium, potissimum in omni eau-arum genere, qualis debeat esse,
considcretur. Umnis res, quae liabct in se positam in dictionc ac
disceplalionc aliquam controvcrsiam, aut facli, aul nomiuis. ani generis,
aut actionis comincili quacslionem. Eam igitur quaeslionem, ex qua causa nascitur,
constitulionem oppcllamus. materia, a cui trattare logorarono
l'ingegno con assai di fatica i filosofi, codesto è ben una folle
forscnnalezta. Che se Ermagora avesse pure con lo studio c le apprese
dottrine acquistata una grande perizia di tali cose, ci mostrerebbe d'aver
messa in piedi sull' appoggio della scienza sua propria una falsità circa
all'ulllcio dell'oratore, e fatto vedere non ciò die l’arte, ma ben ciò eh’
egli stesso sapesse fare. Egli è poi da natura si condizionato, clic
molto più tosto altri gli negherebbe sufficienza in fallo di retorica, clic
non gli concederebbe sufficienza in fallo di filosofia. Nò questo io dico
perclii Ermagora nel trattar che fece l'arte retorica sparnicciassc qui e qua
di sbardellati errori, quando anzi vi Ita posto cose qua e là Irascelte
con abbastanza d'ingegno c diligenza dagli antichi trattali di retorica, c
parie v'aggiunse egli stesso un po' di nuovo: ma parlare dell'
arte, come fece Ermagora, per un oratore i cosa da nulla; il
malagevole è ragionare secondo le leggi dcll'arlc; ciò che ognun vede non
aver Ermagora saputo fare. Il perchè io sono d'avviso la materia
della retorica esser quella che, come io dissi, fu indicala da
Aristotele; c le parli di essa, secondo che molti hanno scritto,
l'invenzione, la disposizione, la locuzione, la memoria, la pronunciazione
Invenzione è trovar col pensiero le cose vere o verisimili che rendati la causa
probabile; disposizione è distribuire ordinatamente le cose trovale;
locuzione è adattar le parole, rhc sono acconce, al Irovamenlo
dc'concelti; memoria è percezione fermata nella mrnle delle cose c delle
parole che servono alla invenzione; pronunciazione è reggere la voce c la
persona secondo che s’avviene alti digitila delle cose e dello parole.
Dcfinile cosi alla breve queste parli della rclorica, rimandiamo ad
altro tempo le ragioni con che si possa dimnslrare l’essenza, ruttici» c il
fine di essa, poiché domandano esse parli assai di parole, c d'altronde
non hanno uno stretto rapporto col metter in trattalo quest’arte e somministrarne
prccclli. Chiunque volesse compilare una Irallaziotie compiuta dell' arte
retorica, dovrebbe scrivere, io penso, della materia dell’arte
divisamente dalle parli di essa: io però c della materia e delle parti
non debbo trattare clic a un tempo stesso. E poiché di tulle qucsle
parli la invenzione è la più principale, si vuol considerare quale in ogni
genere di cause ella si debba essere. Vili. Ogni affare clic
Involge qualche controversia in genere esornativo o giudichile, conlienc
qucslionc o di fallo, o di nome, o circa il genere del fatto, o circa le
persone a cui compelc agire. La questione, da cui nasce la causa, io
l'appello utino i. Conslilulio c>l prima confliclio catisarum ex
dcpulsione intcnlionis profocla, hoc modo : Fecisli. Non feci, aul: Iure
feci. Quum farli conlrovcrsia est, quoniam coniccluris causa (ìrmalur,
cnnsliiulio roniccluralis appcllalur. Quum aulem nomini*, quia iis
vocahuli dclinienda verbis esl, conslilulio definitiva nominalur. Quum
vero, quali» rcs sii, quacriiur, quia cl de vi et de genere ncgnlii
conIroversia est , conslilulio generali» tocalur. Al quum causa ex co
pendei, quod non aul is agere vidclur, quelli oporlct. cui non cum co,
quicum nporlct, aul non apud quo», quo tempore, qua lege, quo
crimine, qua poemi operici, Iranslaliva dicilur conslilulio, quod aclio
trauslalionis el commulaiionis indigere vidclur. Alque haruin aliquam in
omne causar gcnus incidere necesse esl. Ram in quam rein non inridrril,
in ea niliil esse polcril controversine; quarc cam ne cansarn quid“in conventi
pulari. Ac facli qiiidcm controversia in omnia tempora polesl distribuì. Nam
quid factum sii, polcsl quaeri, hoc modo: Oeciderilnc Aiaccm Uli ics. El
quid dal, hoc nonio : llononc animo siili erga popolimi ilnmauum
Fregollani. El quid fuluruin sii, hoc modo : Si Cnrlliugìnem roliquerimus
incoiumcin, num quid sii iucnnmiodi ad rem putdicam perveuturum. Nomiuis est
controversia, quum de farlo conventi, et quacriiur, id quod factum est
quo nomine appcllelur. Quo in
genere neccssc est ideo nomini» e. se con!rover.-iam, quod de re
ipsa non convenial ; non quod de facto non conslcl, seri quod id, quod
factum sii, aliud alii videa tur esse, ri idcirco aliti» alio nomine id
appellel. Quare in eiusmodi gcnerihus definicnda res eril verbi», el
brevih r dose ribellila: ut, si quis sacrum ex privalo surripueril, ulrum
fur an sarrilegus s.l iudieamlus. Ram id quum quacriiur, necesse eril dcOnirc
ulriimque, quid sii fur, quid sacriirgus, el sua dcsmplione cisterniere
alio no mine iilam reni, de qua agilur, appellari oporlere, ulque
adversarii dicunl. IX. Generis esl conlrovcrsia. quum cl,
quid factum sii, convelli!, cl, quo id factum nomine ap pellari oporteal,
constai; et (amen, quanlum cl I cuiusmodi el omiiinn quale sii, quaentur,
hoc modo: Jusluin an iriiusl uni, utile au inutile, et costituzione.
La costituzione è la prima contesa delle cause, derivante dalla replica
die si fa conIru l'accusa, come sarebbe: Hai fallo Non Un fallo, oppure:
ilo fallo a buona ragione. Quando è controversia circa un fallo, poiché la
causa si fiancheggia di eongdiure, la costituzione si domanda enng'
Ituralc. Quando è circa un nome, siccome si dee definire a parole
l'essenza del vocabolo, la co-tiluzionc si appella definitiva. Qualora j'
investiga di clic qualità sia una cosa, giacché si controverto sull' essenza e
sul genere di essa, la costituzione si appella generale. Sia quando la causo
dipende da questo, che o non è odore chi dee, o non è contro chi lo dee
essere, o non presso dì quelli clic si conviene, non in quel tempo, o
secondo quella legge, o per quel dcbllo, o per quella pena che il dovrebbe
essere, la costituzione diccsi traviatila, poiché la trattala abbisogna
di eccezione dedicatoria e di permuta. Di lati questioni è inevitabile clic
una o un'allra vi abbia in ogni genere di causa, perocché l'altare che
non ne involgesse alcuna , non può ammollerò controversia ; non può
quindi aver natura di causa. I.a conlrovcrsia di Tallo puossi riferire a
tulli i tempi. Si può inqtiircrc su ciò che fu fallo, di qiuslo
modo: Se Ulisse uccise o no Aiace. E su ciò clic si fa, a questa maniera:
Se quei di Fregellc sieoo o no ben volli verso i Romani. E su ciò clic è
fulcro, come se si chiedesse: Se noi Irsecreto in buon essere Cartagine, ne
verri egli alcun detrimento alla repubblica? È conlrovcrsia di nome,
quando essendo ludi d'accordo sul fallo, si cerca di clic nome il fallo
s'abbia a domandare. Nel qual caso non può non esserci conlrovcrsia
di nome, però clic le persone non sono in accordo sulla materia stessa clic si
traila; non perchè non consti il fallo, ma perché questo fatto a
chi Ira paruta d’essere d'uno qualità, a chi di un'allra; e però da
alcuni è appellalo con un nome, da alcuni con un nome diverso. Laonde in casi
di falla simile si vuol la cosa definire a parole con alquanla poca di
descrizione, acciocché se alcuno avesse, a mo’ d' esempio, privalamcnlc rapilo
un oggetto sacro, si vegga se e’sia da giudicare per ladro, o per sacrilego.
Quando dunque sia tale il punto della causa, converrà defluire clic si
voglia intender per ladro, e clic per sacrilego, e con una acconcia
sposizionc dar a conoscere come il fallo che si ag la è da appellar d'un
nome diverso da quell", onde dagli avversari! i appellalo.
IX. b conlrovcrsia circa al genere,' quando le parli sono belisi
d'accordo sul fallo, e sul nome con che il fallo si convien designare, ma
lulljii.i si cerea di clic gravezza esso sia, di clic specie, di
clic qualità, a questa guisa: Se il fallo è giu. lo o umilia, in quibus, quale
sii i'I, quud factum esl, quaerilur sine ulla nominis controversia Iluic
generi Hermagoras parlcs qualuor supposuil, deliberalivam, dcmonslraliram,
luridicialcm, negolialem. Quod eius, ut nos putamus, non mediocre
pcccalum reprehendendum vidclur, vcrum lirevi, ne aul, si laci-i
pradericrimus, sino causa non se culi ctim pulemur ; aul, si diulius in
hoc constilerimus, moram alque impi-dimentum reliquia praeceplis
intulissc videamur. Si deliberano el demoiistralio genera sunl causarunv,
non possimi recle parles alicuius generis causac polari. Eadem cium res alii
gcnus esse, alii pars polesl ; cidem gcnus esse et pars non polesl.
Dclilieralio aulem ci demonstralio genera sunl causarono. Nani aul
nnllum causae gcnus esl , ani iudiciale solino, aul cl iudiciale cl demouslralivuin
et doliboralivum. .Nu I Inni diccrc causae esse gcnus, quum causas esse mullas
ilical, el in ca9 praecepla del, amenlia esl; unum iudiciale aotem solmn esse
qui polesl, quum deliberali» et demonslraliu ncque ipsae similes
inler se sinl, et ali iudiciali genere plurimum dissidi-ani, cl suum
quaeqiie linem liabeanl, quo referri debeanl? Rclinquilur ergo, ili omnia
iria genero sin! causarum. Deliberano imitar el demonstralio non possimi recle
parlcs alicuius generis causae pulari. Male igilur cas generai'*
conslilulioilis parles esse divii. Quodsi generis causae parles non
possimi recle pulaii, multo minus recle partls causae parics putabunlur.
Pars oulcui causac est conslilutio omnis. Non enim causa ad
constilutimiem , sed constilullo ad causam arcommodalur. Sed demonslralio
el dclihcralio generis causac parles non possimi recle pulari, quod ipsa
sunl genera; mullo igilur minus rccte parlis eius, quod liic dici!,
pnrles putabunlur. Dciiidc si conslilutio cl ipsa cl pars eius quaclibel
inlcntionis depulsio est, quae inleulionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio
ncc pars conslilulioilis esl. Al si, quae inlentionis depulsio non
esl, ea ncc conslilulio nec pars constilutionis esl, demonstralio cl
deliberali!) neqnc conslilulio nec pars conslilulionis est. Si igilur
conslilulio el ipsa cl pars eius inlcntionis depulsio esl, deliberali» cl
demonslratio ncque conslilutio neque pars conslilulionis est. Placet autem ipsi consti lutionem
inlcntionis esse depulsioiicm; placcai igilur oportei dcmonslralioncm cl
deliberalionein non esse ingiusto, se proficuo u inutile, c
ogni altro simile, in cui si inquerisce di clic qualità sia il fallo
senza veruna controversia circa al nome. Alla controversia circa al genere
Ermagnra attribuiva quattro parli, la delibcraliva, la ditnoslraliva, la
giurldiciolc, la negoziale. Non credo di dover cessarmi dal riprendere
questo di lui non mezzano errore, perchè se io me ne passassi in silenzio
non si credesse clic io mi scostassi da questo autore senza motivo;
avvegnaché il farò cosi di passo c alia brc;ualc ii sostegno della
difesa: le quali tulle cose debbono partire dalla costituzione. La questione è
quella conlroversia clic nasce dal conllillo delle rausc, come a dire:
Non facesti a buona equità. Ilo fallo a buona equità. Il conflitto
delle cause è quello in cui consiste la cos iluzione. I)a questa dunque
nasce quella colai controversia clic io appello queslione, come se si
diccsso:llacg!i fallo o no a buona equità? Ragione è quella clic cornicile il
motivo: lollo esso, non resta nella causa punto di conlroversia, come
se si dicesse, per servirmi di un esempio facile e a (ulti
conosciuto: Poslu che sia accusalo Oreste di aver moria la madre, se egli
non si esprimesse cosl:L’lio moria a tulio «tirino, perdio ella mi ho ucciso il
padre; ci non avrebbe difesa, c lolla la difesi, è lolla eziandio ogni
conlroversia. Laonde la ragione ovvero motivo ili quesla causa sla in
ciò che la donna aveva ucciso Agammenone. La giudicazione è la
conlroversia che nasce dall’ infermar che fa l'accusatore, c dall' avvalorar
che fa l’accusalo la ragione, ossia il motivo. Insidiamo nella
ragione qui sopra esposta. .Mia madre, dica Orcslc, mi ha ucciso il
padre. Ma non era dicevo I le, risponde l'accusaiore, clic lo uccidessi
la ma i die, lu clic le eri figlio, poiché poteva quel fallo Ei tuie
ileducliiinc ralifìnis illa somma mi scilur controversia, qoam
juilicatioiicm appella mus. Ea esl huiusmodi: Reclutimi: fueril ab Oreale
tnalrcm occidi, quum illa Orcslis patron occidissi l. Fiimamcntum est
(irmissinta argumcntalio defensoris, el appoailissima ad itidicalioncni:
ul si volil Orestes dircre cjusmodi aiiimum malris suao fuisse io
palrcni suum, in se ipsuni ac sororca, in regnimi, in famain generis el
rainiliac, ul ab ea poenas liberi sui polissimuin pelare debucruil.
Et in ceb ria quidenieonsliltilioiiilius ad lume modum judicalioncs
reperieulur ; in conjeelurali auleti) conslilulione, quia ralin non esl
((aduni cnim nnn conccdilur), non polesl ci dcduclionc ralinnis nasci
judicali». Quare neccssc esl camdem esse quacslioncni el judiealionem:
Facilini esl. Non est factum . Faelunine sii ? Quol anioni in causa
consliluliones ani earum parles eruul, lolidein neccssc erti qnacslioncs,
raiiones, judicalioncs, firmauiciila reperir! Ilis omnibus in causa reperlis,
luni denique singulau parles lolius causae considerandac sunl. Nani non
ul quidquc eli endum prillili ni, ita primuni anim i hcrlenduin lulelur;
ideo quod illa, quac prima dicaulur, si u liemenlcr velis rongrtiere el
cdiacrcrc cum causa, ex bis ducas operici, quac post direnila sunl. Quare quum
judicalio, et ea, quac ad judiealionem oportel argenteal i iineiiiri,
diligcnlcr eruul arlificio repcrla, cura cl cogitalioue pi-rtraclala, Inm
denique ordinalidac sunl cctcrac parles oralionis. Eac parles sei ose
umilino nobis videnlur: exordium, narralio, parlilio, conili
malio.repreliensio, conci u-io. Nuiic qtioniam exordium princeps omnium
esse debel, I uos quoque primum in ralionem cxordicndi praeccpla
dabinius. Evnrdiuni esl orali» animum audiloris ido nec eomparans od
reliquam diclioriem: quo I eveilici, si cum benctuluni, altcnlum, duodeni
con(eeeril. Quare qui bene exordiri caosam volel, rum necesse esl genus
suao causae diligenler aule cognoscere. Genera cau.-arum qiiinquc sunl :
lioneslnm, admirabilc, Immite, anccps, obscurum. Henesliim causae genus
esl, cui slatini sino oral ione nostra audiloris farei animus; admirabilc,
a quo esl ahvualns animus cerimi, qui autliluri sunl; esser puuilo sema
elle lu li gallassi in unascelleragginc. Dal torre all'accusato questa ragione
o difesa nc tien la controversia sul gran punto da decidere, che io appello
giudicationfi. Essa sla in questi termini: Se fu giusto che Oreste uccidesse
la madre perchè ella ad Oreste ateva ucciso il padre. Il sostegno della difesa
è la più furie argomentatone del di felli ire, c la più propria a determinare i
giudici; e sarebbe se Oreste de cise, tale essere stalo il inai talento
di sua madre si conilo il padre, sì contro lui slesso, e le sorelle, c il
regno, e la ripiilaxione della stirpe o della famiglia, che i suoi llgli stessi
avrian dovuto chiedere ch'ella fosse ponila. Cosi in tulle le altre
costituzioni si Irorcranno allo slesso modo i punii da giudicare: perù nella
cosliluiione congetturale, siccome non v'ha ragione (perchè il fallo non si
concede), cosi essendo sottraila la ragione, non può uscirne il punto da
decidere. Il perchè è mestieri ! he sia la stessa e la queslione e la
cosa da decidere, come in questo caso: Fu follo. Non fu fallo. Quel che
s'ha a vedere è, se veramenle fu fallo o no. Oliatile poi saranno nella
causa le costituzioni u le parli loro, allrellaulc dovranno essere le
questioni, i punii di difesa, i capi da decidere, i sostegni, di clic te
parli litigami s'avvalorano. Trovalo tulio questo, allora Cmatmcnle si
debbono ciiusidcrarc le singole parli di luna la causa; perocché non è
già clic s'abbia prima a ben avvertire quello che ha da dirsi prima dì tutto,
perchè le cose clic si dicono in prima, se vorrai che si
coufaeciano bene e si leghino con la causa, le dei derivare da quelle che
si vogliono dir poscia, bionde quando bene col mezzo dell'arte si sarà
csattamenle rinvenuto, c poi pensalo e ripensalo con diligenza qua'e sia
il punto decisivo che dee essere giudicalo, e insieme gli argomenti che
sono il caso, allora dovranuosi disporre per ordine le albe parli
dcll'oraziooe. Queste parli io penso essere al postullo sei: esordio, narrazione,
divisione, confermazione, confutazione, conclusione. E poiché l'esordio
dee essere la prima fra le parli deil'orazione, anch'io darò per primi i
preeellì che all'esordio si riferiscono. L’esordio è un discorso che
dispone convenevolmente l'animo dcll’ud ture a tulio il rcslo
dell'orazione: Il clic addiverrà -e si faccia di renderlo bcnvoglienle,
allento, e disposto a lasciarsi istruire. Oudcchè chi vorrà ben iniziare
la causa è incinero ch'egli conosca a fondo che specie di causa c'
prende a Irallarc Le cause sono di cinque specie: oncsla, disonorevole,
abielta, ambigua, o-cura. Causa onesta è quella, a cui gli udi i tori si
mostrano ben volli pur innanzi che noi co unno i. il liumilc,
quoti negligilur ab auditore, et non mag impero altcndcndum videlur; nnceps, in
quo aut judicalio dubia est, aut causa et honcslalisel turpitudini
particcps, ut et benevolenti pariat et offensionem: obscurum, In qun aut tardi
auditorcs sunt, aut ditBcilioribus ad cognoscendum negotiis causa
implicala est. Quarc quoniam lam diversa sunt genera causarum, eiordiri
quoque dispari Tallone in uno quoque genere necc3sc est. Igitur eiordium
in duas pnrtcs dividitur, ili principinm et insinualionem. Principinm est
omiìo perspicue et proiiuus contJciens audilorem benevolum, aut
docilem, aut allentum. Insinualo est oraio qua.lam dissiniulatione et circuilione obscurc
subicns audiloris animino. In admirab li genere eausac, si non
oinnino infesti audilores crunl, principio ticnevoleiilium comparare
licebiUSinerunl vetiementer abalienali, confugerc uecesse crii ad
itisinuationem. barn ab iralis si perspicue pai et benevolenti petilur, imn
modo ea unii invenilur, seri augetur alque infialimi, ilur odium. In Immiti autem genere causae
contcmplionis tollemic cau-a nccesse eril allentum cfllcere audilorem. Anceps
genus causae si dubiam judicalionem babebil, ab
ipsajudicalioiiecxordicndum est. Sin antem partem turpitudiuis, parlcm
boneslalis babebit, beneiolenliam captare nport. bil, ut in gcnus
li'.nesiitm causa transita lidealur. Omini autem crii lumeslum causae
genus, vel prueleriri principinm poleril, rei, si comniodum lucrit, aul a
uarralione incipicmus, aut a lego, aut ab aliqua (imissima rationc
nostrae diclionis; sin uti principio placebil, benevolcnliae partibus
ulcmlum est, ut id, quod est, angcalur. XV). io
obscuro causae genere per principimi! doi-ites audilores clllccre
oportcbil. Nunc, quoniam quas res esordio conficerc nporteat dietimi est,
reliquum est, ut oslendalur, quibusquaeque raliombus res confici possit.
Benevolenti quatuor i l locis comparatur: ab nostra ab
adversariorum, ab iudicuin persona, ab ipsa causa. Ab nostra, si de
noslris factis et nfllciis sinc arroganti diceiiius; si criniina illai et
aliquas minus honcslas suspiciones inieclas ililuemus; si, quac
incornino da acciderint, aul quae instcnt dilliculiatcs, profcreuius; si
prece et obsecralionc humili ac supplici utemur. Ab advcrsariorum autem, si cos
aut mincimo di parlare; disonorevole diccsi quella che
è contro l'opinione di coloro clic sono per ascollare; abietta si dice perchè è
sprezzata dall'uditore, siccome quella clic ha un oggetto da non farne
conto gran fatto; ambigua 6 quella, in cui o è dubbio il punto da
giudicare, o v'è mescolato l'onesto e il turpe, da cccilarc a un tempo c
bcncvoglienza c sdegno: oscura dicesi quella, cui gli uditori hanno le
fatiche a ben comprendere, o clic è intralciata di soggetti molto
difficili a esser co. mischili. Per esser dunque cosi diverso le
specie delle cause, vuole essere ciascuna in diversa maniera cominciala a
parlare. I.' esordio perciò ha due parlile, ii principio c
l'Insinuazione. Per prin • cipio s’ intende quel discorso che all’aperta
e Gn dalle prime renile l’uditore ben volto, o attento, o disposto
a lasciarsi istruire. Insinuazione è quel parlare clic mostrando altro,
con certe svolte di parete impercettibilmente si intromette
iiclt'animo dell' uditore. Nella causa straordinaria se gli uditori non
saranno al postutto di animo avverso, si potrà fare nel principio di
renderli benvoglienli. Ctie se fossero contrarli troppo forte, converrà
aver ricorso all’insinuazione. Perocché se vuoisi rappaciar all'aperta c
render benevolo chi è sdegnato, non pure non se oc verrà a capo, ma si
aumenterà e si rinfocolerà vie più lo sdegno. Nella causa abietta, a voler
rilevarla dallo sprezzo, si conviene rendere attento l'uditore. L'ambigua Ita
essa dubbio il punto da giudicare ? si vorrà da questa punto far esordire
l'orazione. Clic se sarà mista di turpezza e di onestà, donassi accattar la he
• nevoglietiza parlando di tal maniera clic paia essere la causa
diventata in ispecic solamente onesta. Quando poi sarà davvero di specie
onesta la causa, si potrà cessarsi dall'esordio, ovvero, se verrà in
concio, dorassi principio dalla narrazione, o da discorso sopra la legge,
o da qualcuna delle più sode difese della nostra orazione. Clic se
abbonasse all'oratore porci l'esordio, il farà ad acquisto di
benevolenza, acciocché quella che gli è già avuta si possa vie piò accrescere.
XVI. Nella causa oscura converrà con l'esordio rendergli uditori
inscgncvuli. Ora, giacché s'è dello a quali effetti l’esordio dee over la mira,
rosta che si dimostri per quali vie ciascuno di questi effetti si possa
raggiungere. La benvogl enza si procaccia per quatlro mezzi, per mezzo di noi,
per mezzo degli avversarti, dei giudici, della causa stessa. Per
mezzo di noi, se parleremo de' i.oslii fatti c mansioni senza
millanteria; se ci purgheremo da colpe che ci sicno imputale, o da altre meno
oneste sospieioni; se porremo innanzi le molestie che ne accalcarono, o ic
malagevolezze ila cui siamo premuti; se condiremo i preghi e le sup
ili odium, aul in invidiam, aul in conlcmplionem adducemus. In odium
duccntur, si quod forum spurcf , superbo, crudcliler, maliliosc faclum
proferclur; in invidiati), si vis eorum, polcnlia, divitiac, rognatio, pocuniac
profercnlur, alqtic eorum usus arrogans cl inlulerabilis, ul bis rebus
niagis vidcanturquam rausae suae confidcre; in contcmplioneni addueeulur,
si eorum inerba, negligendo, ignavia, desidinsum sludium et huuriosum
otium prufcrclur. Ab audilorum persona benevolentia caplabilur, si res ab bis
forlilcr, sapienlcr, mansuete gestae proferenlur, ut ne qua adsenlalio
nimia signiflcclur, ri si de bis, quain bonesla ciistimatio quantaque
coruin indici! et auctorilalis esspeclalio sit, oslcndelur; ab ipsis rebus,
si nosiram cau-am laudando cvlollcmus, advcrsarlorum rausam per
conlemptionem deprimeinus. Altenlus aulem Taciemus, si demonstrabimus ca,
quae dicturi crimuv , magna nova , incredibitia esse , aul ad omnes , aut
ad eos, qui audienl, aul ad aliquos illuslrcs homincs , aul ad deos
immorlales, aul ad summam rem publicam prrlinerc ; et si poUiccbimur nos brevi
noslram causam dcmonslraluros , alque eiponemus iudicalionem, aut iudicalioncs,
si plures ciunt. Doiilcs audilorcs faciemus; si aperte et breviler
summam causac eiponeinus, hoc est, in quo consistili con Iroversia.
Nani et quum docilem velis lacere, simili altcntum facias nportet. Piam is est mavirne
dncilis, qui allcntissime est paratus audirc. filine insinualiones
qnemadmodnm baciari conveuiant, deinceps dicendum vidclur. Insiuualione igitur
ulendum est, quum admirabile gcnus causae esl, hoc est, ut anle diximus,
quum animus auditoris infcslus est. Id aulem tribus ex causis fll
maxime; si aut inest in ipsa causa quacdam turpitudo; aut si ab iis, qui ante
dixerunt, iam quiddam auditori persuasum vidclur; aul co Icmpurc
Incus dicendi datur, quum iam illi, quos audire oporlet, defessi sunl
ambendo. Nani ex liac quoque re non minus, quam ex primis duabus,
in oralore nonnumquam animus audiloiis oflenditur. Si causac
lurpiludo conlrahel oflensìnnem, aul pliche di riverenza ed
iimillà. Per mezzo degli
avversari, se li faremo venire in odio altrui, o in inaIcvoglicnza, o in
disprezzo. Verranno in odio, se si spiattellerà qualche lor trailo di
turpezza, di superbia, di crudeltà, di malizia: in malevoglienza, se si
darà a conoscere cli’ei son forli, polenti, doviziosi, addanaiali, pieni di
parentele, ma clic usano questi mezzi per modi arrogami c incomportabili, da
far apparire eh' essi troppo più che nella propria causa hanno confidanza
o si tengono furti di questi lor mezzi. Verranno in disprezzo, se
si farà nota la inerzia loro, la negghieoza, la oziosaggine, l'amore alla
infingardia, lo scioperarsi a lascivire. Si accatterà bcnvuglirnza dagli
uditori, se si pronunzieranno falli di forza, di saviezza, di
mansuetudine da essi operati, cosi perù clic non vi Iraluca troppo di
piaggenleria; se si mostrerà quanto essi splendano per onorala
estimazione, e quanto si debba fare assegnamento sul loro giudi ciò
ed autorità; In fino si cattiverà henvoglienza per mezzo della causa
stessa, se noi lodandola porremo in sul grande la parie nostra, e faremo n -l
tempo stesso di screditare a forza di spregio la parie degli avversarli.
Ridurremo allento l'uditorio, se renderemo dimostro che sono di grande
rilievo, clic son nuove c maggiori della credenza le cose clic
siamo per esporre, ovvero se faremo conoscere clic esse riguardano o tulli
quanti, o quelli clic ne ascollano, o alcuni uomini insigni, o gli
dei immortali, ovveramenle i negizii più importanti della repubblica ; e se
prometteremo clic siamo per dimostrare di rorlo la giustizia della nnsira causa,
e porremo in veduta il punto da dover giudicare, o i punii, so saranno
più. Faremo inscgncroli gli uditori se sporremo chiaro c in brevi parole
il sunto della causa , voglio dire in clic consista la controversia.
Pcrocrhè quando lu voglia far 1' uditore inscgnevole , è mestiere
clic insieme lu lo Taccia atteso , poiché quegli ò il più disposto a
lasciarsi istruire , che è anche disposto ad ascollare con la massima
attenzione. XVII. Ora si vuol dire per Io seguilo come si
convengano ballare In insinuaz : oni. Dcesi usare insinuazione quando la
causa è di specie straordinaria, clic vien a dire, come toccai innanzi, quando
1'udilore i di animo avverso. Questo uso si fa spccialmcnlc per Ire
ragioni; o perchè nella slessa causa s' involge alcun che di lurpe; o
perché pare clic da quelli, i quali hanno ballalo prima, F uditore
siasi lascialo qualche cosa persuadere; o perchè ì data copia di parlare
a un'ora, in cui quelli che ascollar debbono hanno già tanto ascoltalo
ch’ei ne sono lassi e ristucchi. E diretto anche da questa cosa ultima,
non meno clic dalle due prò eo liomine, in quo olTemlilur, alluni
liomincm, qui diiigilur, interponi oporlcl; aut prò re. in qua
offenditur, aliato rem, quac probàlur ; aut prò re liomincm, aut prò
liomine rem, ut ab eo, quod odit, ad id, quod diligil, auditori» animus
traducami", et dissimulare id te defensurum, quod evistimeris defensurus.
Di-inde, quum iam mitior factus erit auditor, ingredi pcdelenlim in
defensionem, et diecre ca, quac indignenlur adversarii, libi quoque
indigna videri: deinde, quum lenieris eum, qui audiet, demonslrarc, nilul
coroni ad te pertinere, et negare le quidquam de adversariis esse
diclurum, ncque boc, ncque illud: ut ncque aperte laedas cos, qui diliguniur,
et lanicn id obscurc faciens, quosd possis, alicnes ab eis nuditorum toluntalem
; et aliquorunt iudicium simili de re aut auctorilalem proferre
imilalione dignam; deinde camdem, aut consmiilem, aut maiorent, aut
minorem agi rem in praescmia demonslrarc. Sin oratio adversariorum fidi-m
videbitur onditoribus fecissc (idque ei, qui intelligel, quibus rebus fides
fiat, Tacile erit cognito), uporb-l aul de eo, quod adversarii sibi
firmissimum putariut, et maxime n, qui audicnl, probarinl, primiiui te
diclurum polliceri; aul ab adversarii dirlo esordir!, et ab co
polissimum, quod illc tiiipcrriine divori!; aul dubilationc uli, quid
primum dicas, aul cui polissimum loco rospo mica- , eum
ndmiralionc. Nani auditor quum eum, quem adversarii pcrlurbatum pula!
oralionc, videi animo firnii-simo coti tra diccrc parai urn , pleruinquc se
polius temere adsensissc, quum illuni sine causa confiderò arivitratur.
Sin audiloris sludiuni dcTaligalio abalii-navil a causa, le brevius quam
paralus fueris, esse diclurum commodum est polliceri; non iniilaturum
arlvcrsarium. Sin rcs daini, non inutile est ab aliqua re nova aul
ridicula incipcrc ; aul ev tempore quac nata sii, qund getius, strepitìi,
ticclamalionc ; aul iam parala, quac sci apnlogum, vel Tabulant, vel
aliquam conlincal irrisionem; aul si rei dìgnilas adimct iocandi
Tarullatem, aliquid triste, novurn, liorribile statini non
incoinmodum. est iniicerc. Nam, ut cibi saliclas et Taslidium aul
subamura aliqua re relcvalur, aul dulci miligalur, sic auiinus defessus
audicudo aut admiralionc integralur aut risu novatur. prime, rascollonte
lai fiala piglia motivo di esser mal tolto verso l'oratore. Se il turpe
che v'ha nella causa è motivo di malevogl inula nell'uditore, allora
si conviene per la persona elicsi odia iniromeltere un'altra persona che
sia amata; o per la cosa, di cui l'uditore si otTcnde, un'altra cosa clic
sia degna di approvazione; o per la cosa una persona, o per la
persona una cosa, acciocché l'animo dell'udilore sia richiamato da ciò
elio odia a ciò che. ama; « conviene ancora clic tu l'infinga di non
tolcr difendere ciò clic si crede già clic tu difenderai. Dipoi, quando
l'uditore sarà cosi addolcilo, vorrai cnlrarc a passo a passo alla difesa, e
dire clic le cose, le quali muovono a sdegno gli avversarli paiono
a le pure da doversi avere a schivo: poi, insieme che avrai mitigalo
l'udilorr, verrai dimostrando che di colali cose niente si aspetta alla
tua orazione, c atTermei'ai che intorno agli avversarli non sci per dir
nulla, nè questo, nè quello; affinché non mostri di offendere apodamente
coloro che so» benvoluti, c nondimeno facendo questo in maniera
palliala, fino a che il possa, allunghi da loro il buon volere degli
uditori; c cilcrai, qual esemplo degno di servire per regola, il g udirlo
c la testimonianza di taluni sopra affare di fatta consimile: dipoi
mostrerai che al presente si tratta un alTar eguale, o simigliarne, o di piò, c
di meno rilievo. Che se il discorso degli avversarli panà avci
fatto clic gli uditori gli aggiustassero fede ( c facilmente si
conoscerà, chi sa con che meni ella si aggiusti), ti conviene promettere
che per prima cosa tu parlerai intorno a ciò che gli avversarli
hanno credulo il loro sostegno piò principale, e che gli uditori hanno
soprattutto approvalo; o pigliar l’esordio da quanto fu dello dall'avversario,
c massime da ciò ch’egli ha dello da sezzo; o mostrare di esser in
penderne circa a quello da che dei cominciare, o al punto a cui
particolarmente dei rispondere, incUcnda altrui alquanto di stupore.
Poiché l'ascoltante quando vede esser disposto a replicare
ardimentosamente quello stesso ch'ci crede sconcertalo dal discorso
dell'avversario, fa ragione le piò volte di aver egli aggiustato fede con
poca considerazione, anzi che quegli si confidi senza motivo. Clic se l'
uditore per islaneliez/a non si inoslra più interessato nella
causa, fi) al fatto che In prometta di essere per spacciarti più di breve
che non eri disposto a fare, e di non volere imitar le lungherie dell'avversario.
Non sarà anche inutile, se oflrirassono l'occos.one, far principio da qualche
cosa nuova o ridevole; owero da qualcuna naia d'improvviso, come sarebbe
qualche strepilo, qualche allo gridore; o da alcuna già preparala, che rnnicnca
vi un apologo, o una favolosità, o alcun rive ili bui Ac scparalim
quidcm, quac «te principio r-l Jc insinuatioiic dicenda vidclianlur,
lisce fere soni. Nane quiddam brevi cominunitcrdc utroque
praciipieiidum tidolur. Erordium scnlcnliariim cl gravitali* plnrimum
delie) liabcrc, cl umilino omnia, quac pcrlincnt ad dignitalcm, in se
continere, proplcrca quod id iqilìmc racicndum c-l, quod oratorcin auili
lori minime commendai: splcndoris cl fcslivilalis cl concinni ttnlinis
minimum, proplcrca quod ex bis susp ciò quacdani lipparalionis alquc
arliliciosac diligcnliae nascilur ; quac maxime nrationi (Idem, oralori
odimi) auclorilalcm. V'ilia vero baco sunl ccrlissima cxoriliurum, quac
summopcrc vitari oporlebil : rullare, communc, commulabilc, longum, separatimi,
Iranslatum, conira pracccpla. Volgare cs!> quod in plurcs catisas
potcst accominodari , ul convenire videalur. Commune, quod nibilo
minus in hauc, quam io conlrariam parimi causar, poIcsl convenire.
Commulabilc, quod ab adversariu polcsl leviler mutalum ex conlraria parie
dici. Longuni, quod pluribus verbis aul seutcnlHs ullra quam satis
est producilur. Scparalum, quod non ex ipsa causa duclum est, noe sicul
aliquod mcinbrum adnexum oralioni. Translalum est, quod aliud confici), quam
causau gcnus postulai ; ul si qui docilcrn facial audilorem quum
benevolcntiam causa desidero, aul si principio ulalur, quum
insinualioiicm rcs postulo. C.onlra pracccpla est, quod nihil corum efiicit,
quorum causa de cxordiis pracccpla Iradunlur; hoc usi, quod eum, qui
audii, ncque bcncvolum, ncque alteiilum, ncque docilem cfiicil, aul, quo
ndiil profeclo peius est, ul conira sii, facil. Ac de esordio qnidem
salis dicium est. Narralio csl gcslarum rcrum, aul ul gcslarum csposiliu.
Narraliouum genera Iria sunl. Unum gcnus csl, in quo ipsa causa et omnis
ralio conlrovcrsiac conliiiclur; allcrum, in quo digrcs' 1 aliqna extra
cau-am aul criminalionis, aul si Icvolc; oppure, se la gravili
dcH'afiarc non lasccrà tempo allo scherzo, si può far principio con
l’introdurre alla prima qualche cosa di serio, di nuovo, o che metta
orrore. Poiché come la nausea del cibo e la sazietà si rileva con qualcho
amarognolo, o si alleggerisce con un po'di dolce, così l’animo slanco di
ascoltare o si rinforza con la maraviglia, o col riso si rimane in essere.
XVIII. Queste a un di presso son le cose clic mi parve dover dire
del principio e della insinuazione spnrtatamcnlc. Ora si vuole cosi olla
breve dir qualche nonnulla di ambedue insieme. L’esordio dee tener mollo
del scntimcnloso e del grave, e comprendere in sé tulio quanto si appartiene
alla dignità, poiché si dee raffazzonare il meglio possibile, siccome quello
che più di ogni altra cosa raccomandal' oratore all’ udilorio. Non dee
avere però clic appena un menomo di splendore, di piacevolezza e di
acconcialura, perchè di qua si viene a dar sospetto di apparecchio e
di una diligenza consigliala dall’ arto; le quali snn cose clic
troppo lolgono il buon concedo all' orazione, e il credilo all’oratore. I
difetti die incontrano il piò snvcnlc negli esordii, e che si vorranno con
somma cura schifare, seno questi : esser volgare, che può servire a prò e
contro, mutabile, lungo, improprio della ca usa, fuori di
proposito, contrario alle regole. È volgare quello che può
accomodarsi ad ogni specie di causa, si che le paia star bene. Può
servire a prò e contro quello clic conviene alla parte In favore non meno
che alla parte contraria. È imitabile quello che con alquanta poca
di varietà può anzi che da noi esser recitato dal nostro avversario. È
lungo, quando si disfi ode in assai parole e concedi più che non è
mestieri. É improprio della causa, quando non é trailo da essa, e non
come un membro unito al resto della orazione. E fuori di proposito, se
conchiudc altro da quello che domanda la specie della causa; come sarebbe se
tendesse a render insegncvole l'uditore, mentre la causa il ionia benvoglienlc
anzi che no, o se adoperasse il principio quando l'affare esigerebbe anzi
la insinuazione. É contrario alle regole quando non raggiunge
nessuno di quei Din, per cui si danno precetti circa all’ esordio; come a dire,
quando non rende ben volto l'uditore, né allento, né bisognevole,
o, ciò che al postutto è troppo peggio, quando lo rende affililo
mal volto ed avverso. Quanto è all’esordio, abbastanza detto è. La narrazione è
un esposto di cose avvenute, o come se avvenute. La narrazione é di tre
specie. La prima è quella, in cui é compresa la causa stessa e lutto il
cardine della controversia: la seconda é quando si frammette una
qualcho tiiìliludinis, aul «Iclcclalionis non alienar ab co negolio,
quo '' e agitar, aut amplificatioiiis causa interponimi-. Tcrlium genus
est remoliim a civilibus causis, quoti tlcleclationis causa non inutili
cum ezetcilalinnc dicilur et scribìlur. Eius parles suoi duac, quaruin
altera in ncgotiis, altera in persona ma lime versatur. Ea quac, in nrgntiorum
cipositionc posila est, trcs habel parles, fabulam, liistoriain,
argumentum. Fabula est, in qua ncc vera e uec veri similes res
continentur, cuiusmodi est : « Angues ingcnlcs alitcs, iuncti iugo...
a llistoria est gesta res, ab actatis nustrac memoria remota; quod
genus: Appius indisi! Cartliaginiensibtis bellum. Argumentum est lieta res,
quac tamen fieri poluit lluiusnmdi apud Terentium; Hoc in genere
narralionis multa debet incsse féslivitas, conicela cs rorum varietale,
animorum dissimilitudinc, gravitale, lenitale, spc, mclu, suspicione, desiderio,
dissirnulationc, errore, misericordia, forlunac eommutalione, insperato
incommodo, subita laetilia. iucundu esitu rerum. Venmi bacc ex iis, quac
postea de clocutionc praecipicntur, ornamenta sumcntur. Nunc de narralionc
ca, quae causae cominci csposilioncm , diccndum
videtur. Oporlcl igilur eam trcs habere res: ut brevis, ut aperta, ut
probabili» sit. Brevis crii, ss unde Decesse est, inde inilium sumetur,
et non ab ultimo repetetur, et si, cuius rei satis crii summam
dixisso, eius parles non diccntur, (nani saepe satis est, quid factum sii,
diccrc, non ut cuarrcs, que madniodum sii faclutu); et si non lougius,
qtiam quod scilo opus est, in narrando proecdetur; et si tiullain
in rem aliam lransibitur ; et si ila dicctur, ut nonnumqtiam ex co, quod dicium
sii, id, quod nuli sit dicium, inleltigalur; et si nuli modo id,
quod obesi, veruni ctiain id, quod lice ubi si uec adunai, praeteiibilur;
et si Semel unum quid ili digressione che s'allunghi
dalla causa, o di querela, o di similitudine, o di diletto, elio non sia
straniero all'afTare di che si tratta, o che si faccia a (Ine di
amplificazione. La terza specie è
estranea alle cause civili, la quale con cs crc zio non inutile si
scrive e si recita per amore di dar piacere. Ila due parli la narrazione,
di cui la prima versa specialmente sui fatti, l'altra piuttosto sulle
persone. Quella clic consiste licita sposizione dei falli, ha
(reparti, la favola, la storia, l' argomento. Favola è quella clic conlicnc
cose nò vere, nè veri simili, come sarebbe : La narrazione clic versa
intorno a personaggi è fatta di modo clic insieme con i falli si possali
conoscere le parole o l'animo dei personaggi stessi. Tale i la seguente ;
( Ei viene spesso a me, mille tragedie Facendomi nel capo : o
Milione, Grida, che fai ? a clic ci perdi il figlio ? A clic gli
amori, e il vino ? a clic di queslo Gli dai le spese ? tu di troppe
gale Gli lasci far, e troppo esci dei termini. Troppo egli è
austero, oltre l’onesto c il retto • In questa specie di narrazione
bisogna molta piacevolezza, la quale si vuol trarre dalla varietà delle cose,
dalla dissomiglianza degli animi, dalla gravitò delle persone, dalla loro
mansuetudine, dada speranza, dal Umore, dal sospetto, dal desiderio,
dalla dissimulazione, dall'errore, dalla misericordia, dalla cambiatila di
fortuna, dalla disgrazia improvvisa, dalla subita allegrezza, dalla lieta
riuscita delle cose. Però questi ornali della narrazione si piglieranno
dietro i precetti clic ilano dati quando della locuzione verrà da
parlare. Ora s'ha a dire di quella specie di narrazione clic
comprende la sposizione della causa. E necessario di’ essa sia breve, clic
aperta, che probabile. Sarà breve, se piglicrasscnc il principio da ciò
clic preme, c non si comincerù da qualche punto che sia lontano di
troppo, e se bastando clic si esponga la somma dell' alTare, si
lascerà di divisarne le parli individuale (perocché spesso è sufficiente
che si dica ciò clic fu fatto, senza clic si racconti come fu fatto); c
se nel fare la racconlazinnc si schiverà di andar più là di quel
clic fa d'uopo perchè si sappia ciò clic imporla sapere; c se si eviteranno i
passaggi io altre cose diverso; e se si |>arlcrà in guisa che qualche
volta da quel clic fu detto s'intenda ciò clic fu taciuto; e que
dicelur; cl si non ab co, in quo proiimc desimin crii, deinccps ineipiclur. Ac
mulo: imilalio brcvilatis decipil, ul, quuin se breves pulentc-sc,
longissiml siisi; quuin detti operarli, ul rcs mullas brevi dicaul, non
ut omnino paucas rcs dicant, et non plures, qnnm necessc sii. Nani
plerisquc breviler videtur il cere, qui ila ilicil : Accessi ad aedcs. Pucru.'U
evocavi, liespondil. Quacsivi dominuin. Domi negavi! esse. Ilio torneisi lot
res brevius non poluil diccrc, lamen, quia salis fui! dixissc : Domi negai it
esse, IU rerum mulliludine longus. Oliare, Ime quoque in genere vitanda
est brevilatis imilalio, et non niinus rcrum non neccssariarum , quam
«erborimi mullltudiue supersedenduin esl. Aperta autern narrati» poteri! esse,
si, ut quidquc primum gcslum crii, ita printum opoueliir, et rerum ac
temporum ordo sorvabimr, ut ila uarrcnlur, ut gcslac rcs erunl, sul ut
potuissc gerì vid' buniur. lire crii considerandum, nc quid perturbale,
ne quid contorte dicalur, ne quam in aliam rem Iransealur, ne ab ultimo
repelalur, ne ad cvlrenium prodealur, ne quid, quod ad rem pertinenti,
praelereatur ; et omnia», quae praccepta de brevilate sunt, hoc quoque in
genere sunl conservando. Nani saepe res parum est intellccta longitudine magis,
quam obscurilate narralionis Ac verbis quoque drluridis uicndum esl; quo
de genere diccndum est in praeccplis clocu liullii. Probabilis erit
narrilio, si in ea videbuulur inesse ea, quae seleni apparerò in vcritale ;
si personarum digiiilalcs servabunlur ; si causae fadorimi cislabunl ; si
fuissc faeullales radunili viilebrintur ; si Irmpus idoncum, si spalli salis,
si bicus opporluuos ad camdetn rem, qua de re narrabitur, fuisse
oslendclur; si rcs et ad corum, qui agoni, uaturam, et ad vulgi morena,
et ad eorum, qui aiidicnt, opinionem accuininodabilur. Ac veri
quidem similis cvliis ralionibus esse polerit. Illusi aulem praetcrca
considerare oporlcbil, nc, aul quum olisi! narrati», aut quuin nihil
prosatameli intarponatur; aut non luco, aut non, qiicraaduioriunì causa
postulai, narrctur. Obest lum, quum ipsius rei gcslae evpositio magnam
eveipit olfcnsiouem, quam argiimciilando et catisam agendo Icniri
oporlcbil. Quoti quum ucciderli, membra- j tini opurlebil parlcs rei
gcslac dispergere ili cau- i sani, clad imam quaiuque coulestim ralionem
ac- j cotnuicdarc, ul vulneri praeslu mcdicamcnluin sii, |
se si Iralasccrà non pure ciò che nuoce, ma eziandio ciò clic nè nuoce,
uè giova; e se ogni cosa si dirò solo una fiala; c se si causerà di ricominciar
da quello, da cui si sarà finito. Molti allucinano nel seguire la
brevità, sicché quando hanno fantasia di esser brevi, sono per coulra
lunghissimi, perché danno opera a dir molte cose alla breve, nou ai
dirne al postutto poche, e non piò che non bisogna. E infal li credono
molli che saria breve chi parlasse cosi: Fui alla casa. Chiamai il
servo. Rispose. Chiesi del padrone. Mi disse che era ruori. Costui,
eziandio che lame cose non polea dire piò brevemente di cosi, lunaria,
perchè bastava aver dello; Rispose che era fuori, diventa lungo per
le troppe cose. Laonde anche in questa parie si vuol evitare d’i.-nitar
una falsa brevità, c si dee astenersi non meno dalle cose non necessarie,
che dalia moltitudine eziandio delle parole. Aperta potrà essere la
narrazione, se sarà esposto prima ciò clic prima addivenne, e ai manterrà
l'ordine delle cose e dei tempi cosi che le coso sien narrale come
cltellivamenlc sono addiv enute, o come pare che lo potessero essere. E
qui s'ha a veder bene clic uiciilc sia dello alla confusa, niente
c»n istiracchiatura; clic non si sdruccioli in co«c estranee, clic non si
ripigli il dello prima, clic non si vada innanzi fino allo stremo,
qualora sia inol io alla causa; elio non si trapassi nulla di quanto
s’atlicue al fullo:in somma ciò che sopra alla brevità si è prima
insegnalo, anche in questa parie si dee ritenere del lutto. Perocché avviene di
frequente che una cosa é poco inlcsa più per la sua lunghezza che
per la oscurità della narrazione. Anche si vorrà far uso di parole
ciliare; ma di questo in' incontrerà di dire nei precelli clic darò sopra
l'elocuzione. Sarà probabile la narrazione, se si troveranno in essa quei
seguali che sogiiuno manifestarsi nella verità; se si conserteranno i
caratteri delle persone; se sussisteranno le cause dei falli; se si
parrà cho l'agente avesse copia di agire; se si mostrerà clic al fallo
che si narra il tempo fu acconcio, lo spazio sufficiente, opportuno il
luogo; se la cosa sarà relativa alla natura di quelli clic vi avranno
parie, c al reslanle del volgo, e aU'opinionc degli uditori. Per queste
ragioni potrà il racconto esser anche verisimile. Conterrà inoltre
considerare pur questo, che non s'ha a far narrazione si quando nuoce, c
si quando non giova, o clic non s'ha a farla fuori di luogo, o diversamente da
quel che la causa richiede. Nuoce, allorché la dipintura del fallo é esposta a
qualche grate contrarietà, clic argomentando c trillando la causa
sarà necessario di miligarc. Quando avverrà il caso che nuoca la narrazione, si
dovrà il fallo distribuire a parie a parie nell' orazione, e et
odium stallar, detonilo miligct. Nihil prodcsl ilari alio lutti, quum aut
ab advcrsariis re cvposita, nostra nihil interest itcrum, aut alio modo
narrare ; ani quum ab iis, qui audìunt, ita tcnctur uegoliuni, ut nostra niliil
intersit cos alio paolo do. cere. Quod quum accideril, ninnino
narratione supcrsedcndum est. Non loco dicitur, quum non in ca
parte orationis collocalur, in qua res postulai ; quo de genere agcmus lum,
quum de dispostone diccmns; iijiii hoc ad disposiliimem pcrtinet. Non
quemadnindiim caus i postulai, narratur, quum aut id, quod adversario
prodesl, dilucidc et ornate cvponilur, aut id, quod ipsum adiuvat,
oliscure dieilur et ncgligcnter. Quare, ut hoc litium vitetur, omnia
turquenda sunt ad commodum suae causac, contraria, quae praclcriri
poterunt, praclercundo, quac illius eruut, leviter attingendo, sua
diligcnler et cnodalc narrando. Ac de narratone quidem salis dicium ìidclur ;
dcìnccps ad parliiioncin Irauseamus. Rrcle habila in causa parlilio
illustrerò et pcrspicuam totani cllìcil oralioncin. Parlcscius sunt
duae, quarum ulraqoc magno opere ad apericndam caosam, et constitucndam
pertinct controversiani. l'na pars est, quae quid cimi ad versa riis
convelli, il, el quid in controversia rclinqualur, oslendil; et qua
certum quiddam deslinalur auditori. in quo animimi dclical bobere
oceiipalum. Altera est, in qua reruni carimi, de quilius crimus
dicltiri, brciilcr eiposiiio poniliir dislribula ; ci qua connciiur, ut
ceri -s animo rcs tcncai auditor, quibus diclis inleliigal roro peroratimi.
Nunc ulroquc genere parlilionis quemadmodum convcnlat uti, brevitcr
dicemlum videtur. Quae partilio, quid convenial, ani quid non convcnial ,
oslendil, dace debel itimi, quod convenil, inclinare ad suae causac commodum,
hoc modo : Inlerfeclam malrcin esse a lilio convenil mihi cum
advcrsariis. lem conica : iiiierfeclom esse a Olytaenineslra Againemnonem
convenil. Nam liic ulerque et id posuil, quod convcniebat, cl laincn suae
causac commodo consuluit. Deinde, quid controvertiae sii, ponendum est in
imlicalionis esposilione ; quao quemadmodum invenirelur, ante dicium est. Quae
aulcin parlilio rcrum dislribularum conlinet ciposilioncin , haec Iutiere
dolici brevitaicui, absoliitioiiem , paacilalcni. Itrciilas esl,
quum uisi neccSsarium imi lum adsumilur ver soggiunger loslu a
ciascuna parie la sua ragione giiislilicaliva, acciocché alla ferita sia
subito in pronto In medicina, e ciò che olleude sia miligaIn dalla
ragione che tosto lo giuslillca. Non giova la narrazione, quando essendo
csposlo il fallo dagli avversarli, non è di nessun momento il ripeter noi
la slessa cesa, ancora clic in altro modo; o quando quelli che ascoltano
si conoscon dell'alfa, re co.) bene, che importa nulla che noi lo
porgiamo loro a sapere con olire parole. Allorché dunque imballerà questo caso,
s> dovrà affittii omettere la narrazione. È essa fuori di luogo quando
si colloca in ultra parie della orazione da quella che il fatto esige; ma
di ciò tratteremo quando si parlerà della disposizione, a cui questo caso
si riferisce È falla la narrazione diversamente da quel che
richiede la causa, quando o si espone con chiarezza c adornalo ciò che
prolilla all'avversario, o diciamo oscuramente c alla spensierata ciò che dee
far prò a noi slcssi. Il perchè, a voler che questo difello non intervenga, si
dee pie gare ogni cosa al vantaggio della noslra causa, causando
delle cose sfavorevoli le più clic si possa, e facendo di attinger alla rieisa
ciò che fa all'avversario, e narrare ciò che fa a noi con diligenza e lucidità.
Della narrazione mi pare aver dello abbastanza; ora facciamoci alla
partizione. La partizione, quando sia ben falla, dà lustro e chiarezza a
tutta la diceria. Issa ha due parli, di cui ciasc 1 1.1 conferisce troppo
bene a chiarir la ragione dell i causa c (issare la conlrovcrsia. La
prima di qiieslc parli dimostra i punii, in cui si è in concerto con gli
avversari, e i punii che si lasciano alle parli da dover d-ballcre; nel
che ci si licite come ad assegnare all'uditore la parte di che la
sua attenzione si dee frammettere. L'altra è quella, io cui cun brevi parole si
spnngonn divisalamentc le cose, di cui siamo per ragionare; di che viene,
che l’uditore coirà a conoscere quelle date cose, ragionale le quali sa
che l'orazione dee esser finita. Ora, come si convenga far uso di
quesle due parlile, verrò dicendo sotto brevità. La partizione moslru
quello in cui le parli accordano, e quello in cui no. L'oralorc dee
però acconciare l'accordo al taniaggio della propria causa; «ciò
egli farà, dicendo: Che la madre sia siala uccisa dal (iglio, io accordo
con gli avversari!. E cosi per conira: Accordo io già che Agamennone sia sialo
morto ila Clilcnneatra. In questo dire l'uno c l' altro avversario toccò
un pillilo di comune accordo, c nondimeno provvide al prò della
propria causa. Dipoi, quanto v’è di coulro verso dee collocarsi là dove
si spone il punto da giudicare; c del controverso come venga a rilevarsi,
si è già delio di qui addiclro. La seconda parie, lium. Ilare in hoc
genero ideirco est utilis, quod rebus ipsis cl parlibns causac, non
verbis ncque cilrancis ornamenlis animus auditnris tencndus est.
Absolulio csl, per quain omnia, quac ioeidunl in causam, genera, de
quibus diccudum csl, arapleclimur. In qua parli Mone lidendum csl, ne aut
aliquod gcnus utile rclinqualur, aul sero dira parlilioncu),id quod
viliusissiinum aclurpissiinum csl, inferalur. Paucilas in partilione scrvalur,
si genera ipsa rerum pnnunlur, ncque periuiilc cum parlibus
implicaniur. Nam genus csl, quod plurcs partes ampleclitur, ul animai,
l’ars est, quac subosl generi, ul cquus. Sed saepe eadem res alii gcnus,
alii pars est. Nam homo animalis pars csl, Thebani aul Troiani gcnus. liaee
ideo diligcntius ìnducilur pracscriplio, ul aperte in'cllecla generali
partilione, paucilas gcucrum in partilione scrvari possil. Nam, qui ila
parlilur; Oslendain propler cupidilalcm cl audaciam et avariliam
adveisariorum omnia iocommodu ad rem publicam pervenisse; is non inIcllcxil in
parlilione, «posilo genere, parlem se generis admiscuisse. Nam genus est
omnium niinirmn l.bidinuin cupidilas ; eius autein generis sine dubio
pars est avaritia. Hoc igitur vilanduin csl, ne, cuius genus posucris,
eius siculi aliquam diversam ac dissimilem parlem ponas in eadem
parlilione. Quod si quod in gcnus plurcs incident partes, id quuin in
prima causac parlilione eri! simplioilcr expositum , dlslribucliir
lemporc co rommodissime, quuin ad ipsum venlum crii oiplieandum in causae
diclionc post parlilioncm. Alquc illud quoque pcrlincl ad paucilalem,
ne aul plura, qoain salis csl, demouslraluros nos diranius, li io modo :
Oslendain adversarios, quod arguimus, et potuissc faeere, el v*duissc, el
fccìs* se; nam fecisse salis csl osleuderc : ani, quum in causa
parlilio nulla sii, et quum simplex quiddam agalur, tamen ulamur
dislribuliouc; id quod perraro polesl aceidere. Ac suoi alia quoque pracccpia
parlilionum, quae ad hunc usum oralorium non laido opere perlincant, quae
vcrsanlur in pliilosophia, ex qmbus liacc ipsa Iranslulimus, qiuc
convenire videbanlur, ipioruin niliil in ceteris arlibns invciiicbamus Alquc
bis de parlilione praeceplis, in omni diclionc meminisse oporlebil, ul cl
prima qiiaequc pars, ul espusila esl in parlinone, sic ordine iran-igatur; cl
omnibus esplicali* peroratimi s i hoc modo , ul ne quid
posteriu» cioè dire quella che conlicno la sposiiione delle cose
divisale, dee esser breve, intiera, parca. È. breve, quando non si
pongano parole olire le necessarie. Questa qualità della partizione è
utile per ciò, clic l'addizione deU'uditore bassi a fermare per mezzo
delle cose stesse c delle parli della rausa, non per mezzo delle parole nè di ornali
estranei. È iutiera quando abbracciamo tulli i punii che cadono nella
causa, e de'quali bassi a ragionare. In questa dote della partizione
deesi aver l'occhio che o non si ommetta qualche punto vantaggioso,
o non si introduca troppo lardi fuori della partizione, il elio è difello
molto vizioso e da vergognarsene. È parca la partizione, se vi si toccano
I soli generi delle cose senza impigliargli e intrigare delle loro
specie. È genere quello che conlicno in sè più specie, come animale. È
specie quella che è soggetta al genere , come cavallo. Ma sovente
la stessa cosa da dii è adoperala per genere, da chi per ispecie. E
infatti uomo è specie di animale, è genero di Tcbano o Troiano. Questa regola
si vuole perciò inculcar bene, perchè inlesa clic siasi chiaramente la
partizione generale, si potrà serbare in essa la parsimonia delle parli. Poiché
chi facesse la parlilione cosi: Mostrerò clic, colpa la cupidigia,
l'audacia c l’avarizia degli avversarli, vennero addosso alla repubblica
tulli i malanni: costui non si avviserebbe che dopo esposto il genere ei
mescolò nella partizione una specie di esso genere. Perocché la cupidigia è un
geuere che abbraccia tutti i desideri i sfrenali, c l'avarizia è senza
dubbio una specie di qucslo genere. Si dee dunque guardarsi che quando è
posto il genero non si ponga nella slessa partizione la sua specie, come se
fosse una cosa diversa, che non avesse alcuna somiglianza col genere. Clic se
nel genere cadranno molte specie; poi clic si sarà esposto il solo genere
nella prima partizione della causa, si potrà a ludo agio scompartirlo
nelle sue spcc c allora che si verrà a (rattare di esso nel corpo della causa
dopo la partizione. Inoltro si spella anello questo alla parsimonia, voglio
dire, che non promettiamo di dimostrare più di quello clic basta, coinè
sarebbe: Mostrerò che gli avversarii e poterono fare, o vollero, c fecero
quello, di elio io li accuso; poiché il mostrare elio fecero è quanto fu:
ovvero che qualvolta la causa non patisce partizione, e si traila un
alTur semplice, non dobbiamo divisarlo in partile; ma queslo caso
non può occorrere che assai di rado. Ci sono altri precetti circa la
partizione, uia che non si roiifamio gran fallo con questo uso oratorio,
porcili spellano alle cose di filosofia, lo uè ho qui recali quelli che
mi parte fossero il raso, e clic noli (rovai in nessun altro trattalo di
retorica. praclcr conclusionem inferatur. l’artilur apud Tercnlium brevi
ter et commode scnci in Andria, qua e cognoscere libertum veli! :t Eo
paolo et gnati vilam, et consilium meum Cognosces, et quid Tacere in hac re te
velim. a Itaquc quemadmodum in parlionc proposuit, ita narrai,
priimim guati vitam : a Nam is pnslquam exccssil ci cpbcb ; s, Sosia... a
Delude simin ennsilium : Dipoi ciò eli’ egli pensa : o E di presente
a questo io penso In line ciò ch’ei vuol fatto da Sosia, il che dice da
ultimo perchè l’espose in ultimo nella partizione: « Or egli è ufficio
tuo Come dunque esso vecchio trattò per prima in parie che pose
prima nella partizione, e finito di ragionarle tutte, fece line, cosi sta
bene a noi pigliar per mano secondo ordine i membri della partizione, e
solo dopo svoltili lutti, farsi a conchiudcrc. Ora è da venire ai precetti
circa la confermazione, secondo clic richiede l'ordine finora tenuto. La
confermazione è quella, per la quale la orazione col mezzo dcH’argomcnlarc
aggiunge fede e autorità c fermezza alla nostra causa. Iti questa parte
della orazione v'ha alcune regole determinalo, le quali saranno sparlile
c applicate alle singole specie di causa, quando se ne Irallcià.
Nuli di manco non torna qui inopportuno mettere innanzi una certa selva,
ro'dirc un ammasso sfolgoralo di tulle le forme ili argomentazione, clic
finora non erano altro clic un miscuglio, clic un disordine, e poscia
insegnare come sia da farsi la confermazione in ogni maniera di causa con
tutte quelle formo di argomentare clic fra queste si saranno pigliale.
Ogni asserto si conferma con le argomentazioni clic si traggono o dalie
circostanze clic si riferiscono alle persone, o da quelle cheai falli. Alle
persone si riferisce il nome, la ualura, il vivere, la condizione, la
dispostezza, l'affczi iuic, gli sludii, i disegni o intenzioni, i falli,
gli accidenli, il discorso. Il nome è quella appellazione clic si dà ad
ogni uomo, pen ile sia chiamalo con proprio c dclcrminalo vocabolo- La
naluia è cosa forte a definire: più facile è annoverare quelle
patii di essa ilio a porgere questi nostri prerclli soli di bisogno.
Parli siffatte son proprie, alcune della specie divina, alcune della
specie nius ; cognatione, quibus malori bus, quibus consanguineis: actate,
pucr an adolesccns, nalu grandior an sene*. Praelerca commoda et
incommoda considerantur ab natura dala animo aul torpori, hoc modo:
valens an imbccillus; longus an brevis; fon ’osus an deformisi telox an lardus
sii; aculus an licbctior ; memor au oblis io^us ; comis, oIRciosus, pudens,
paliens, an conlra. Et omnino, qnao a natura danlur animo et
corpori, considerabunlur in natura. Nam quac industria comparantur,
ad habitum perllncnt, de quo poslcrius est dicendum. In vielu considerare
oporlel, apud quos, et quo more, et cuius arbitrali! sit cducalus,
quos habuerit arliuni liberalium magislros, quos livcndi pracceptores,
quibus amicis ulalur, quo in ticgolio, quacslu, artifìcio sii oecupatus, quo
modo rem familiarem adminislret, qua consuetudine domestica sit. In
fortuna quaeritur, scrvus sii an liber, pecuniosusan Icnuis, privalus an cum
polestalc : si cum poleslaie, iure in iniuria; Mix, eiarus, an conlra ;
qualcs libcros liabcal. Ac si de non vivo quaerctur, cliarn quali morte
sit adfcclus. crii considcrandum. Habitum autem appellamus animi aul corporis
constanlem el absolutam aliqua in re pcrfcclioncm, ut virlulis aut arlis
ali cuius pcrci ptionem, aut quamvis scicntiam , et item corporis aliquam
eominodilalem non natura dalam, sed studio el industria parlarli.
Adfcclio est animi aul corporis l-i tempore aliqua de causa
commutal o, ut taclilia, cupidilas, rnctus, molestia, morbus, debililas, et
alia, quac genere in codem rcpcriunlur. Studium est aulem animi adsidua el
vcliemcns ad aliquam rem applicata magna cum lolunlale occupatili, ut
philosopliiac, poèlicao, geometriae, littcrarum. Consilium est aliquid
facicudi, non faciendivc escogitala ratio. Farla alilem et casus et orationes
iribus e* temporibus considerabunlur : quid fcccril, aut quid ipsi
acci' derit, aut quid diserit ; et quid facial, quid ipsi acridi!,
aut quid faelurus sit; quid ipsi casurum sii, qua sit usurus oralionc. Ac
personis quidem bore vidcnlur esse attribula. umana.
Quelle della specie umana, altre si coniano nell'uomo, altre nelle bestie.
Quelle clic nclFuorno, sono il sesso, o virile o muliebre, la nazione, la
patria , la parentela, l'età: la nazione, se è greco o barbaro; la
pairia, se Ateniese o Sparlano; la parentela, cioè dire quali ha antenati
, quali consanguinei; la clà, se è fanciullo o adolescente, se
adulto o vecchio. Si riguardano oltracciò i comodi o le incomodità che son
date, dalla natura all' animo o al corpo, quali sono l'csscr l'uomo
possente 0 debole; lungo o orlo; bello o brullo; veloce o lardo; acuto o
ottuso; memore o smemorato; dolce, obbligante, verecondo, pazicnlc, o
all'opposto. In somma quelle qualità che son date dalla natura all' animo o al
corpo si vorranno considerare per palli di essa natura: giacché le
qualità che si acquistano coll'Industria sospettano alla vlisposlezza, di
cui s'ita da dire dappoi poco. Nel vivere ò uopo osservare presso cui
l'uomo fu educato, a quali coslumi, ad arbdrio di chi, quali maestri
abbia avuti delle arti liberali, quali precettori della maniera di
vivere, con quali amici egli usi, di quali faccende, di quali guadagliene, di
quale prie si frammetta, come amministri il patrimonio domestico, quali usanze
c modi ci tenga in casa. Quanto è alla condizione, s'ha a vedere se
l'uomo è servo o se libero, se bene o se male accivilo di danaro, se
privalo o in uIHcio pubblico; e dato clic in ulllcio, se vi fu eletto, 0
se vi s'intruse; se felice, se nominato, n all'opposto, se i suoi Agli sono di
buona o di malvagia qualità. E se si parlasse di un trapassato, si
dovrà vedere di qual morto c’iiniva. Dispostezza o abito si appella
una cosiamo e assoluta perfezione dcll'aiiimo o del corpo in una cosa, come
sarebbe la conoscenza pratica di una virtù o di un'arte, ovvero una
scienza qualunque, e similmente una qualche dote del corpo, non impartita
dalla natura, ma acquisita con lo studio e l'industria. Affezione è ogni mnlanza
che succede improvviso o nell'animo o nel corpo, originala da qualche
causa, come allegrezza, desiderio, paura, moleslia, malattia, debolezza,
0 altrettale. Studio è un'assidua e forte occupazione dcll'ouinio intorno
a qualche cosa, accompagnata con grande inclinazione di volontà, come
sarebbe intorno a filosofia, a poesia, a geometria, a erudizione. Disegno
n inb-nzioiic diccsi un avviso pensato di fare o non fare alcuna
cosa. I fatti la ultimo, gli accidenti, 1 parlari vogliono considerarsi
relativamente ai Ire tempi, cioè attendere clic cosa altri abbia già
fatto, che gli sia intervenuto, che abbia detto; che cosa faccia, che
gl'inlcrvenga, che dica; clic sarà per fare, che per avvenirgli, che
discorso sarà per lenere. Tutto questo si riferisce alle persone. Negotiis
aulem quae sunl atlributa, partim sunl contincnlia rum ipso ncgolio, pari irn
in gestione negotii consideranlur , parlim adiuncia negolio sunl,
parlim gcstuni ncgotiiim consequunlur. Conlinenlia cum ipso negolio sunl ea,
quae semper adlìxa esse vidcnlur ad rem, neque ab ea possunl
separari. Ei bis prima est brevi compieaio totius negolii, quae summam cominci
facli, hoc modo: Pareniis occisio, palriae prodiiio; dein de causa
cius summae, per quam el quam ob rem et cuius rei causa factum sii
quaerilur; deinde ante geslam rem quae farla sinl, conlinenlcr usque ad
ipsum negolium; deinde, in ipso gerendo ncgolio quid aclum sii ; deinde,
quid pò- le a factum sii. In gestione autem negolii, qui locus sccundus eral de
iis, quae negnliis atlributa sunl, quacrctur locus, lempus, occasio,
modus, facullalcs Locus considcralur, in quo res gesta sii, et
opporluuifalc , quam videatur liabuissc ad negolium adminislrandum. Ea autem
opporluuilas quaerilur ei magnitudine, immollo, longinquilalc, propinquilale,
solitudine, cclcbrilale, natura ipsius loci el «icinilate lotius regionis
; ex bis etiam allribulionibus : sacer an profanus, publicus an privalus,
alicnus an ipsius, de quo agilur, locus sii aut fueril. Tcmpus est autem id,
quo Dune ulinaur ( uam ipsum quidem generallter defluire difllcile
est ), pars quaedam aelernilalis cum ulicuius annui, mensurni, diurni,
noclurnirc spalii certa signiflcatione. In hoc et quae
praclcrierinl consideranlur; el eorum ipsorum, quae propter
velustalem obsolcterinl, ut incredibilia tidcanlur, et iam in fabularum
numerum reponanlur;cl quae iam diu gesla et a memoria nostra remota,
lamen faciant (idem «ere tradita esse, quod eorum monumenla certa in
lilteris exslent ; et quae nupcr gesla sint, quae scire plerique possinl
; el ilem quae instenl in praesentia, et quae quum maxime flant, et
quae consequanlur. In quibus polest considerari, quid ocius et quid serius
fulurum sii. El ilem communiler in tempore perspicicndo longinquilas cius
est considerando. Nam saepe oportel commctiri cum tempore negolium, el
«Mere, potueritne aut magnitudo negolii aut mullitudo rerum in co
transigi tempore. Considcralur aulem lempus et anni et mensìs el dici et noclis et
vigiline el borac et in aliqua parie alicuius borimi. Quanto poi alle circostanze che si riferiscono
ai falli, parte di esse son congiunte col fallo stesso, parie si riconoscono
nella gestione del fallo, olire sono come una aggiunta, altre vengono in
conseguenza del fallo. Congiunte con esso sono quelle che se nc stanno
costantemente appiccale al fallo, senza che le si possano da esso
dispiccare. Fra queste la prima i il breve sunto che contiene la somma
del fallo, per esempio: La uccisione del padre, il tradimento contro la
patria: la seconda è la causa di quella somma, per la quale si cerca
quale sia il movente, e quale lo scopo del fallo: la terza è il cercare
quali sicno gli antecedenti che avvennero sino all' istante del
fallo: la quarla £ il vedere clic si fucessc nell'ano stesso di trascinar
quell’azione; in One il cercare che si facesse dappoi. Circa alla
gestione del fallo, clic è la seconda tra le specie di circostanze che si
riferiscono alle cose, si cercherà quale ne fosse il luogo, il tempo, la
occasione, il modo, la attitudine di citi lo trascinò. Per luogo s'
intende il dove fu operalo, rclalivamenlc alla opportunità che
offerse di poterlo maneggiare. Questa opportunità si cerea di trovarla nell'
ampiezza del silo, neU'intervallo, nella lunghezza, nella
prossimità, nella solitudine, nel bazzicarvi la genie, nella natura del
luogo slesso, nel suo vicinare col rcslo della contrada. Ccrcherassi
l'opportunità eziandio in questi altri caratteri del luogo; ac esso £
ovvero fu sacro o profano, se pubblico o privato, se d’altrui o di quello
stesso, di clic si traila. Il tempo quale £ quello che noi usiamo oggi
(poiché il definirlo in generale £ malagevole), £ una parie deli’clernilà, che
porla seco la speciale significazione dello spazio annuo, del mensile, del
diurno o notturno. Quanto al tempo si dovrà considerare le cose
passale; e fra queste si daranno a credere per false c da ripor Ira le
favole quelle clic per vecchiezza sono andate In disuso; e quelle
altresì che furono operate pezza fa, c che son venule a quasi non
si sapere; le quali però si mostrerà che son vere, e che la tradizione
che le rapporta è giustificala da monumcnli non dubliii che restano
tuttavia nelle storie; e quelle inoltre che furono fatte di fresco, e che
possano per ciò essere a molti sconosciiilc; e similmente quelle che
addivengono in presente, c quelle che il più spesso, c quelle che
poscia seguiranno. Tra queste ultime si può far attenzione quali più
tosto, e quali saranno più tardi per accadere. Arrogo, clic quando bassi
ad argomentare dal tempo, convien d' ordinario por mente alla
lunghezza di esso; poiché incontra sovente che si debba coinmisu rar con esso
la cosa, e vedere se in un dato andare di esso polessc essere dalo
spaccio a un affar di rilevanza o a molte Occasio aulcm est pars lemporis
Imbens in se alicuius rei idoneam faciendi aul non faciendi
opporlunilaiem. Quarc cum tempore hoc differì : nam genere quidem ulrumque idem
esse iiitelligitur ; vcrum in lemporc spalium (|uodam modo
deelaralur, quod in anni», aul in anno, aul iu aliqua anni parie
spcrlalur , in occasione ad spalium lemporis faciendi quacdain
opporlunilas inlelligilur adiuncla. Quare quum genere idem sii, fit
aliud, quod parie quadam cl specie, ul dixiinus, ditterai. Haec disi ributtar
in Iria genera, publicum, communo, singolare. Puhlicum esl, quod
clritas universa aliqua de musa frequentai, ul ludi, dies feslus,
belluin. ('.orninone, quod accidil omnibus codcm fere lemporc, ul messis,
sindemia, calor, frigus. Singolare aulcm est, quod aliqua de causa
privatilo alicui solcl accidere, ul uupllac, sacrillcium, funus,
convivium, somnus. Modus aulcm est, iu quo quemadmodnm cl quo animo
factum sii, quaerilur. Kius parics sunl prudenlia cl imprudenlia. Prudenliae
aulcm ratio quaerilur ex iis, quae ciani, palam, vi, persuasione feceril.
Imprudenlia aulcm in purgationem ronferlur, cuius parics sunl Inseienlia,
casus, neeessilas, cl in adfeelionem animi. Ime esl, tnulcstiam, iracundiam,
amorem, cl celerà, quae' in simili genere vcrsanlur. Facullalcs sunl, aul quibus
facilius fit, aul siile quibus aliquid ronfici non potosl. Adiunclum
negolio aulem jd inlelligilur, quod majus, el quod iniiius, el quod
sìmile, eril ei negolio, quo ile agitur, el quod aeque inagnum, el quod
contrarimi), cl quod disparalum, el genus et pars cl ciculus. Majus el
minus el acque magnum ex vi el ex numero et ex figura ncgolii, sicul ex sialura
corporis, consideratur. Simile
aulem ex specie comparabili : comparabile aulem ex conferenda aique
adsimilanda natura judicolur. Conlrarium esl, quod positum in genere
diverso, ab codcm cui conlrarium esse dicilur, plurimutn disiai, ul
frigus calori, vilae mors. Disparatuni nnlcm evi id, quod ah aliqua re per
oppatilioncm negalionis separalur, hoc modo: sapere, el non sapere. Genus esl,
qund parles ali quasampleclilur, ul cupidilas. Para osi, quae subesl generi, ul
amor, ovaritia. Kvenlus esl exilus cose insieme. Si fa aitarsi allenzionc
al tempo ri spello all'anno, al mese, al giorno, alla notle, allo
vigilia militare, all'ora, e ai ritagli di ciascuno di questi periodi.
Occasione è una parlila di tempo clic contiene in sè l'opportunità o
l'adatta congiuntura di fare o non fare alcuna cosa. Quindi da occasione a
tempo v’ha questo divario, clic sebbeoe c questo e quella son compresi
nello slesso genere, puro nel tempo si vieti a significare solo un
qualche spazio che si trova o in più anni, o in uno, o in qualche parie
di esso; laddove nell'occasione s'intende allo spazio dei letnpo aggi
mila una colale opporlunllà di fare. Epperò, tuttoché eguali nel genere,
diventano pure due cose differenti; perchè, come dello è, si
differenziano in una parie, ossia nella specie, che è l'opportunilà.
L'occasione si divide in tre, cd è o pubblica, o comune, o particolare. E
pubblica quella che si presenta bene spesso alla città intiera per
qualche ragione, come sono i giuochi, i giorni festivi, la guerra.
È comune quella che dà a tulli quasi nel tempo medesimo, come è la messe,
la vendemmia, il calore, il freddo. É particolare quando si presenta
privatamente ad alcuno per qualche causa, come sono le nozze, il sacrifizio, il
funerale, il convito, il sonno. Modo è quello, nel quale si cerca come
e con che intendimento è falla una cosa. Ila esso due parli,
prudenza c imprudenza. S'indaga inumilo alla prima badando a ciò che altri fece
di nascosta, in palese, con la forza, con la persuasione. La imprudenza
si risguarda come ragione giustiflconlc. e si divide in ignoranza, caso,
necessità; o si risguarda come affezione dell'animo, e si dipari le in
moleslia, iracondia, amore, e negli altri inoli interni dello slesso
genere. Attitudine è quella facoltà, per cui si fa con molta agevolezza alcun
che, o senza coi niente si può fare. È circostanza aggiunta al fallo ciò
che è di maggior importare o di minore, o simile al caso di clic si
Iratta, e ciò che £ egualmente grande, e ciò che conlrario, c ciò che
disparata, e il genere del fallo, e la specie, e l'avvenimento di
esso; cose tulio che per avere attinenza col fallo oifrono materia di
argomentazione. Come dalla sta tura si deduce la grandezza di un corpo, così
dal nerbo, dai punii, dalla forma dui fallo si conosce la
circostanza clic gli è maggiore, o che da meno, o che lo pareggia. Il
simile si rileva da specie che possono ira loro paragonarsi; e si può
paragonare ciò clic Ita natura suscettiva di confronto e di essere
rassomigliata. Conlrario è ciò che balle in genere diverso, e clic va
mollo di lungUla quello a cui si dire conlrario, come il freddo va lungi
dal calore, la morie dalla vita. Disparate dieonsi dite LI litio
I. alicujus negotii, in quo quocri solfi, quii) pi quoque re cveneril,
evenirli, cvrnlurum sii. Quarc hoc jn genere, ut commodius,quid eventurum
sii, aule animo colligi possi!, quid quaque ei re solcai evenire,
considerandum est, hoc modo: Ex adroganlia odium ex insoleoiia
adrogaqlia. Quarta aulem pars esl ei iis, quas negotiis dicchamus esse
allrihutns, consentilo. In Irne rae rcs quaerunlur, quae gcslum negotium
conscquuntur: primum, quod factum esl, quo id nomine appellar! coni miai;
delude ejus facti qui sin! prtneipes et invenlores, qui denique
aucluriialis ejus cl invcnlionis comprohalorcs alqoe aemuli; deinde ccquae de
ea re aul cjnsrci sii lev, consuclmlo, urlio, judicitim, scintila,
arliOcium; deinde natura cius evenire vulgo solcai au insolcntcr cl raro;
poslea lioinines id sua auclorilalc cnmproharc, an offendi re in iis
consueriol; et celerà, quae fariuin aliquod simililer confeslim, aul ex
intervallo solent Consequi. Deinde proscenio allendcudum esl, cium quae res
ci iis rebus, quae positae sunl in parlihus honcslalìs aul ulililalis,
consequanlur; de quibus in delheralivo genere causae distinclius crii
diccndum. Ac ncgoliis quidem fere res cae, quas commemoravimus, sunl altribulac. Oninis
auleta arguii» ulali", quae ex iis locis, quos commetnoraviinus,
sttnielur, aul probahilis, aul necessaria debt-bii esse. Elcnini, ut
breviler describamus, argumenlalio vidclur esse Intenlum aliquo ex
genere, rem aliquam aul pròbabiliter oslcndens, aut necessarie
demonstrans. Necessarie dcmnnslranlur ea, quae aliler ac dicunlur noe
fieri ncc probari possuul, hoo modo : Si pepcril, cum viro concubuit.
line gcnus argumentandi, quod in necessaria dcmonslralioncvcrsatur, maxime
Iraclal tir in dicendo atti per compleiionem, aul per enumerahoneni. aul per
simplicem eonclusionem. Coitiplcxiu esl, iti qua, uIrunt concesseris,
rcprchendilur.ad liunc modum: Si intprobus esl, c.ur uteri» ? si probus,
cur accusas ? Enumcralio esl, in qua pluribus rebus exposilis et ccleris
inlirmatis, una rcliqua necessario conlirntalur, hoc pacto: Neces.sc esl
aui iniiiiicitiarum cuu-a ab Itoc esse occialini, aul inclus, aut o più
cose die si separano l'ulta dall'altra per nte-: 10 di negativa, come
sarebbe: sapere, e non sapere. È genere ciò che abbraccia alcune specie,
come cupidigia. È specie quella clic è soggetta al genere, come amore,
avarizia. Avvenimento del fallo significa la sua riuscita, nella quale si
cerca ciò che sia avvenuto, ciò che avvenga, ciò che sia per
avvenire da una cosa qualsiasi. Epperfi, quanto a questo, perchè si possa prima
agevolmente comprendere dò che sia per avvenire, o die soglia avvenire da
una cosa qualsiasi, bassi a far deduzione a questo modo: Dall' arroganza nasce
l’odio, dalla superbia l'arroganza. Delle circostanze che, cotn'i dello,
s'appropriano ai falli, la quarla parte comprendo quelle clic al fallo
tengono dietro. Qui dunque si ccica lituo clic seguila poi clic 11 fallo
è venuto a compimento; c prima, di clic nome il fallo sia da appellasi;
di poi chi simo gii autori di esso c gli agenti precipui, e in fine
quali sieno quelli che approvarono e seguirouu l’ordinamento del fatto:
poscia si ceri Iterò qual sia la legge, sotto cui cade il fallo, quale la
usanza clic gli si oppone, quale l'azione giudiciaria, fi giudiciò, la
scienza, l'arte; poi se per sua natura ci suole accascare comunemente, o per
islraordinario c di raro; indi se le persone Itati costume di
auloriz. zarlo con l’approvazione loro, ovvero se esse di cose di
lai falla si olTmviono; e cosi si cercano vki via le altre cose che a
modo simile sogliono seguire o immantinente, o dopo qualche intervallo.
In fine decsi badare se consegnano di quelle cose che t si
riferiscono all" onesto c all’ ulile; ma di qucsle verrà di discorrere
più dislinlamcnlc, quando si tratterà della causa deliberativa. Or queste
clic si sun delle sono a un di presso le circostanze proprie dei falli.
Ogni argomculaziunc che piglierassi dalle fottìi di qui addietro ricordale
dovrà essere o necessaria, o probabile. Perocché l'argomentazione è, per
dirlo in breve, un trovalo di qualche sorte, che dimostra con ragioni
probabili o con necessarie una qualche cosa. Si dimostra con ra gioni
necessarie ciò che non può nè essere nè provarsi divcrsamcnle da quello elle si
dice, come sarebbe: Se partorì, dunque giacque con un uomo. Questo modo
di argomentare die versa nella dimoslrazionc necessaria , si licite
specialmente quando si parla o per dilemma, o per enumerazione, o per
sola conclusione. Dilemma è quello, in cui si ribalte o l'un pittilo o
labro che lu conceda; per esempio: S'egli è un malvagio, perchè li vali
di lui? se uomo probo, perchè lo accusi? Kniimerazione è quella, in cui esposte
più cuse, se uc conferma necessariamente una, dopo aver mandale a nulla
tulle le altre; ionie sarebbe : h no spei, 3ut alicujus amici grafia; aul,
si tiorum nihil esl, ab hoc non esse orcisum; nani sine causa malelicium
susceplum non polest esse. Sed ncque inimici) ac ruerunt, ncc melus ullus,
nccspcs ex morie illius alicujus commodi, ncque ad amirum liuius aliqucm
mors illius perlinrbal. Rolinquilur igitur, u) ab boc non sii occisus.
Simplex auiem conclusio ex neerssoria conscculione confi cilur, hoc modo:
Si vos me islud co tempore ferisse dicilis , ego aulem eo ipso tempore
trans mare fui, relinquitur, ut id, quod diritis, non modo non fecerim,
sed ne polucrim quidem Tacere. Alque hoc diligonlcr oporlebil xidere, nc
quo pa. cto genus hoc refelli possi!, ut ne conlirmalio modum in se
argumentaliouis solum habeat et quamdam simililudinem neccssariae conclusionis,
rerum ipsa argumenlalio ex necessaria ralionc consista). Probabile aulem est
id, quod fere sole! (ieri, aul quod iu opinione posilum est, aul quod
habcl in se ad lisce qtiamdam simililudinem, site id falsum est, sivc
veruni. In co genere, quod fere (ieri solel, probabile buiusmodi est: Si
mater esl, diligi! fllium: si avorus est, negligi! ius iurandum. In co
autem, quod in opinione posilum esl, buiusmodi sunl probabili: Impiis
apud inferos pocuas esse paratas; eos, qui philosopbiae doni
operali!, non arbitrari dcos esse. XXX. Similitudo aulem iu
coulrariiset paribus et ni iis rebus, quae sub camdrm rationem cadimi,
maxime speclatur. In conlrariis, hoc modo: Nani si iis , qui imprudciites
laeserunl, ignosci ronvenil, iis, qui necessario profucriml,
liaberi gratiam non oportcl. Ex pari sir: Nani ut locus in mari
sine porlu naxibus esse non potrsl tulus. sic animus sine fide stabills
aniicis non polest esse. In iis rebus, quae sub eanulem rationem caduul, boc
modo probabile considcralur: Nani si Ilodiis turpe non esl porlorium
locare, nc llcrmarrconli quidem turpe est ronducere. llaec Ioni vera
sunl, hoc pacto: Quoniam cicalrix esl, fuit vulnus; tum veri similia boc
modo: Si mullus ei al iu calceis pulvis, ex ilinrre cum venire oporlebal. Omnc
autem ( ut certas qtiasdant in partes disiribuamus) probabile, quod
sumilur ad argumentalionem, aul signum esl, aut credibile, aut
indicatimi, aul comparabile. Signum esl, quod sub scusimi aliqucm cadil
et quiddam significai, quod ex ipso profectum tidclor, quod aul aule.
, Inerii, aut in ipso nrg u tio, aut posi sii eonsecu- ; lum, et
lame» iudigrt lestimouii et gravioris ron ressario ch’ei sia sialo
morto da costui o per motivo di nimicizia, o per motivo di timore, o di
sperarne, o per far piacere a un amico; o se non fu nessuno di questi
motivi, non fu dunque morto da costui; da che senza motivo non può esser
commesso un misfatto. Ma non vi fu nimicizia, non timore alcuno, non isperanza
chea quella morte rispondesse vantaggio, nò profittava essa a nessun
amico dell' uccisore. Resta dunque che e' non fu ucciso da costui. La
conclusione schietta si forma dalla conseguenza necessaria, a questo
modo: Se voi dito che io feci questo in quel tempo, e io in quel
tempo era oltremare, resta clic questo clic voi dite, non solo io noi
feci, ma neppur il poteva fare. Vorrassi altresì ben attendere che una
tatù conclusione sia fatta in modo clic per nessun verso non possa essere
ributtala, affinchè la confermazione non solamente abbia forma di
argomentazione, c come una scmbiauza di conclusione necessaria, ma si faccia in
effetto per ragioni clic necessariamente concludano. Probabile è ciò che
le più volle suol essere, o ciò che si opina che sia, o ciò che lia
in se qualche somiglianza col vero che determina la nostra opinione, sia
esso vero effettivamente, o sia falso. Quanto a ciò che suol essere, ecco un
esempio del probabile: se ella è madre, ella ama il figlio: se costui è avaro, non
si cura del giuramento. Quanto a ciò clic si opina die sia , il
probabile è questo : Agli empi nt-1l' inferno sta preparala la pena ; coloro
clic metlon opera alla filosofia non pensano che ci siano gli dei. La
similitudine si ravvisa specialmente licite coso contrarie, c nelle pari,
e in quelle clic cadono sotto una stessa qualità. Nele cose contrarie, a
questo modo : Se a quelli che offcscro senza avvertire , si conviene dar
perdonatila, a quelli che giovarono perchè non poterono a meno, non è
necessario aver obbligazione. Nelle pari, di questa maniera: Come nel mare un
silo che manchi di porlo non può prestar sicurezza alle navi, cosi
un cuore clic mauclii di fede non può esser costante in amar le persone.
Nelle cose clic cadono sotto una stessa qualità il probabile si deduce
cosi: Se i Rodiani non commettono disonestà a dar in affitto il pedaggio,
neppure Ermacreuntc noti commette disonestà a prenderlo in affilio. Il
probabile poi passa a verità quando si enuncia a questo modo: Poiché rimane
cicatrice, c'ci fu ferita: o a verisìmile, quan to si enuncia cosi : Se te
scarpe tencano di molla polvere, essa volea esser lolla sii nel viaggio.
Ogni I probabile ( per volerlo dividere in alcune parti determinate
) , clic si adopera per argoineiila; rione, o consiste in un segno , o in una
cosa firmaliouis, ut cruor,
Tuga, pallor, pulvis, et quae li js sunt similia. Credibile est, quod
sine ullu leste auditoris opinione firmalur, hoc modo: Memo est, qui non
liberos suos ìncolumes et beatos esse cupial. Judicalum est resadsensione, aut
aucloritalc, aut iudicio alicuius, aut aliquorum comprobala. Id trìbus in
generibus spectaiur, religioso, commu ni, approbato. Heligiosum est, quod
turati legibua iudicarunt. Coinmunc est, quod omnes vulgo probarunt
etsecuti sunt, huiusmodi: ut maioribus natu adsurgalur, utsupplicum
miserealur. Approbatum est, quod homincs, quum dubiurn essel, quale
haberi oporteret, sua constitucrunl aucloritate: rei ut lloratii factum a
popolo approbalum, quod occìdd sororem, quum illa deviclum Curiatium
hostem deflerel; vel ut Gracchi patria factum, quem populus Romanus ob id
faclum, quod insciente collega in censura nihil egissel, post
censuram consulem feci!. Comparabile autem esl, quod in rebus diversis similem
aliquam rationem contine!. Eius parles sunt Ires: imago, collatio,
eiemplnm. Imago esl oratio demonslrans corporum aut naturarum
simililudinem. Collatio est oratio rem cum re ex similitudine
conrerens. Esempi um est, quod rem aucloritate, aut casu alicuius
hominis, aut negotii confirmai aut infirmai. Ilorum esempla et descriptiones in
praeccptis clocutionis cognoscenlur. Ac fonsquidem confirmationis, ut facullas
tulit, apertus esl, nec minus di lucide, quam rei natura fercbal, demonstratus
est: quemadmodum aulem quaeque conslilulio et pars conslilutionis et omnis
controversia, sire in ralione site in scriplo versabitur, traeteli
debeai, et quae in quamque argumenlationes convenianl, singillalim in secundo
libro de uno quoquo genere diccmus. In praesenli lantummodo numcros et modos et
parles argumenlandi confuse et pernii Miro dispersimus; post descriple et
electe in geiius quodque causae, quid cuiquc convenia 1, ci liac
copia digeremus. Alque inveniri quidem omnis es bis locis argunienlalio
poterli: inventaro ciornari et certas in parles distingui et suavissirnum
esl, et suinroe necessarium, et ab artis scriplnribus maiimc negleclum. Quarc
et de ea praeceptioue nobis et in hoc loco dieendum visum esl, sii ad
inventionem arguincnli absolulio quoque argumcnlandi adiungerelur. Li magna cum cura et diligenfia locus
file omnis considerando esl, quod rei non solum magna ulilitas esl, sed
praecipiendi quoque summa difllcullas. credibile, o in una giudicala , o
iu una paragonabile. É segno ciò che cade soilo qualche senso e significa un
che, il quale par derivato da esso segno, c fu prima del fatto, o nella
gestione, o vrnne iu conseguenza di esso, ma che nondimeno ha uopo
di testimonio e di esser meglio confermalo, come è il sangue, la fuga, il
pallore, la polvere, e cose altrettali. E cosa credibile quella, cui l'
uditore si rappresela per si falla senza esservi indotto da alcun
testimonio, come sarebbe : Non *' ha nessuno che non brami sani, salti e
felici i suoi figliuoli. Il giudicalo i una cosa che vien renduta ferma e
immutabile o dall' assenso, o dalla autorità, o dal giudicio di una o più
persone. Questa specie di probabile è di tre maniere, religioso, comune,
approvato. Religioso ò quello che tiene stabilito da un giudicio fallo secondo
le leggi da persone giurale. Comune è quello che da lutti è
generalmente commendalo e seguila, coma sarebbe: clic si dee levarsi al
sopraggiungere di uomo attempalo; clic si dee aver pietà dei supplichevoli.
Approvalo i quello che, scndo dubbio se si dovesse aver in conio di bene
o di mal fallo, gli uomini stessi con la loro autorità hanno
stabilito in che conio si dovesse avere; per esempio: Fu approvato dal
popolo il fallo di Orazio che uccise la sorella, mentre essa andava in
pianto perchè era slato vinto il Curiazio nemica dei Romani; oppure fu
approvalo il fallo di Gracco il padre, tanto , clie il popolo Romano per
rimeritarlo di esso, cioè dire di aver nella censura operala ogni
cosa di ron-erlo col collega, dopo la censura lo fece entrar consolo.
Paragonabile è quello che in cose diverse pur contiene alcun che di
simile. Ila Ire parli: imagine, confronto, esempio. Imaginc è un
discorso che dimostra la somiglianza dei corpi o delle nature. Confronlo è un
parlare che conpara una cosa con un'altra per ragione del loro
assomigliorsi. Esempio è ciò clic conferma o abbaile una rosa con l’autorità, o
con l'accidente avvenuto a una persona, o col successo di qualche altare.
Di qucsle specie di paragonabile si vedranno gli esempi e una sposizionc piu
distesa là dove si daranno 1 precetti della elocuzione. Fin qui si
son messi in manifeslo i principii della conferma- • zinne, secondo che
io ho saputo fare, e illustrato con quella chiarezza elle domandala la
natura dell'argomento che trotini. Come poi debba maucg giarsi ogni
costituzione ed ogni parie di esia, e cosi ancora ogni conlrotcrsia, sia
die essa versi circa la mente dello scrillore, sia che circa le parole
stesse dello scrino, e quali argomentazioni calzino bene a ciascuno di
questi articoli, si vorrà dire sparliiamenlc nel secondo libro. Finora io
ho posto qua e là soltanto in ammasso c alla confusa Omnis igilur
argomentalo! aul per induclioneni (racla mia est , aul per
raliocinaliouem. Induclio est oratio. quae rebus non dubiis captai
adseusiones eìus, quicum inslituta est; quibusadsensionibus facil, ut illi
dulia quaedain res propter similitudincm carum rerum, quibus adscnsil,
probetur; velili apud Socralicum Aeschinem dcmonslrat Socralcs min
Xenopliuntis uxorc cl cum ipso Xcnnplionte Aspasiam locutam: Die milii,
quaesn, Xcnopliomis uxor, si vicina tua melius habeat aururn. quani tu
habes, utrum iltiusnc an luutu malis? Illius, inquii. Quid, si vestem et
cetiTuin oruatum mulicbrcin preti! maioris habeat, quain tu habes, luumnc
an illius, melisi Itespondil: Illius vero. Agcsis, inquii, si virum itla
indiorem habeat, quam tu habes, ulrunine luum virum malis, an illius? Hic
inulier erubuit. Aspasia autem sermonom cum ipso Xenophqule instiluil.
Quaeso, inquii, Xcnophon, si vicinus tuus equuin meliorem habeat, quain
tuus est, luumnc equuin malis, an illius? Illius, iuquil. Quid, si
luminili meliorem luibeal, quam tu habes, utrum tandem fondimi
Iutiere malis? illuni, impili, meliorem scilircl. Quid, si uxorcin
meliorem liabeal, quam tu habes, iilriim illius malis? Alque Ine
Xenoplion quoque ìp-e lacuil Posi Aspasia : Quoniam ulerque vestrùin,
inqud, id nnhi solum non respondil, quod ego sobilli uudire volucram, egomel
dicam, quid ulerque cogilel. ,\am el lu, uiulicr, oplimum virum vis balere, cl
tu, Xcnophon, uxoretn liaberc loclissimatn maxime vis. Quare, nisi hoc
perrecerilis, ul ncque vir mclior ncque femina liclior in lerris sii, profeo.lo
semper id, quod oplimuin potabili! esse, imillo maxime pcquirelis, ul cl
lo marilus sis quam oplimae , el lisce quain optimi) viro mipla sii. die
quum rebus non dubiis ossei ad*cn : um, factum esl proplcr simi
li numero delle argomentazioni, e i modi di farle, e le parli di
esse: verrò poi da dover (ulta questa materia disporre con ordine e
sceltezza rispetto a ciascun genere di causa c a ciò che a ciascuna
causa si conviene. Dal dello finora si potrà rinvenir ogni argomentazione clic
fa d’ uopo; ornarla poi che si ì rinvenuta, c distinguerla uclle
sue parli, è cosa assai piacente a fare; senzachè è al sommo
necessaria, eziandio clic dagli scrittori di retorica affano niente
curata. E per questo Ionio ch'io trovo di dover qui dare alcuni preconi
eziandio sopra ciò, perciò dopo la invenzione dell’ argomento si venisse anche
a sapere in quali modi ci si debba pur adoperare. E questa parie
vuoisi svolgere tutta con mollo di attenzione c di esattezza, non pure
perciò essa è di grande utilità, ma ancora perchè è diOicilc assai il
darne i precetti relativi. Ogni argomentazione bassi a fare ri per
induzione, o per raziocinio. Induzione 6 un discorso, ii quale alle cose non
dubbie accatta l'assenso di colui con cui si parla; c la che per (aie
assenso egli approva una cosa dubbia per la somiglianza die passa tra questa e quelle,
a cui altre volte egli ha già dato il suo assenso. No dà un esempio
Socrate presso Eschinc, clic tu della sua scuola , là dove dice che
Aspasia tenne questo ragionamento con la moglie di Senofonte e con
Senofonte istesso: Diurni, di grazia, o moglie di Senofonte, se la tua vicina
avesse più bello fornimento d'oro che tu non hai, ameresti meglio
il tuo, o qucllu di colei? oh! quello di colei, rispose. E se porlasse il
vestire c l’altro ornalo muliebre di prezzo più vantaggialo che non porli
lu, vorresti le robe tue, o non più preslo quelle dì lei? Affò,
rispose, quelle di lei. Dimmi ancora, soggiunse, se ella avesse marito
migliore del tuo, vorresti il tuo, ovvero quello di lei? Qui la
donna arrossì. Aspasia poi rivolse la parola a Senofonte istesso, e
gli disse; Di grazia, Senofonte, se il tuo vicino possedesse un cavallo
più prestante die non è il tuo, vorresti anzi ii tuo, clic avere quello
di lui? Quello di lui, rispose. E se possedesse un fondo che avesse
miglior essere che il tuo non ha, vorresti piuttosto quello di costui? Si
certo, rispose, qucllu di costui. E se aresse moglie mi; gliure
della tua, quale brameresti delle due ? E qui lo stesso Senofonte si
tacque. Allora Aspasia: Giacché l'uno e l’altro di voi, disse, ciò solo
non mi rispose clic anzi era il solo elle io voleva udire, dirò io ciò
che voi due pensale. Tu, o moglie, vuoi avere il miglior di lutti i
mariti: e tu. Senofonie, la moglie di tutte migliore. Laoude, se voi non
giungerete a fare che non ci sia al mondo nò un uomo migliore degli altri,
nè una donna delle liludinem, ut etiam illud, quoti dubium videbatur, si
quis stqiaralim quacrercl, id proptcr rationcm rogandi conccderetur. Hoc modo
sermonis plorimum Socralcs usus est, propterca quod nihil ipsc adrerrc ad
perSuadcndum volcbal , sed ci co, quod sibi ilio dederat, quiciim
dispulabat, aliquid coufìcere malcbal, quod iJlejci co, quod iam
concessissel, necessario approb. ro debercl. Hoc in genere praacipiendum
nobis vi delur primum, ut illud, quod inducemus per simillludinem, ciusmodi
sii, ut sit necesse concedi. Nani ex quo poslulabiimis nobis illud, quod
dubiuin sit, concedi, dubium esse ìd ipsum non oportebit. Deinde illud, cuius
coniìrmandi causa Gel induetio, tidendum est, ut simile iis rebus
sit, quas rcs quosi non dubias ante induxerimus (nam aliquid ante
concessum nobis esse nihil proderit, si ei dissimile crii id, cnius causa
illud concedi primum xoluerimus) ; deinde non inteltigal, quo
sperlcnt illae primac induclionrs, et ad quem sin! cxiluni porventurae.
Nam qui vìdei, si ei rei, quam primo rogetur,rectc adsensciil, illain
quoque rem, tjuae Sibi displice.it, esse necessario conccdcndam,
plerumquc aut non respondendo, aut male respondendo, longins rogalioncm
procedere non siml. Quare rationc rogationis imprudens ab eo, quod
concessi), ad id, quod non sull concedere, deduccndus esl. Evlremum
autein aut taccalur oporlcl, aut conccdatur, aut urgetur. Si negabilur,
aut ostcndenda similitudo est carum rerum, quae ante conccssae sunt, ani
alia utendum induellane. Si concedctur, concludonda est argumenlatio. Si
tuccbilur, aut clicieuda responsio esl, aut, quoniani lacitumilas
imilatur confcssioncm, prò eo, ac si concessum sit, concludere
oporlebit argunienlationcm. Ha fu hoc gentis argumentandi
Iripertilum: prima pars ex similitudine constai una pluribusvc; altera ci
co, quod concedi volumus, cuius causa simililudincs adhibilac sunt ;
tcrtia ex conclusione, quae aut conGrmal concessionem, aut quid ex
ca conOciatur oslcndit. altre più egregia, per fermo voi sempre agognerete
ciò die slimìatc essere il migliore, voglio dire che tu vorrai esser marilo
della più prestante, e che costei vorrà avere il più prestante per
suo marilo. Qui dunque fu dato assenso a cose non dubbie, cppcrò
per ragione delia somiglianza avvenne che anche quello, die saria partito
dubbio a chi I* avesse cerco separatamente, fu conceduto per certo
per la somiglianza delle interrogazioni. Usò più volte Socrate questo
modo di ragionare, siccome colui che non volea da sè proferir nulla clic
conducesse a persuasione, ma amava meglio da quello che gli porgeva la
persona con cui dispulaia, trame una illazione tale, che quella persona,
appunto per causa di quanto avea concesso, dovesse necessariaoienle approvare.
Circa alla induzione, il pruno precetto che io fo ragione di dover
dare.'ù questo; clic li induzione che si fa per similitudine sia (ale
elicsi debba di necessità concedere. Non dovrà punto esser dubbia
la cosa, merci di cui domanderemo che sia dato assenso a quella che è
dubbia Inoltre c da ba dar bene che quello, in conferma di clic si farà
la induzione, sia simile alle cose clic avremo innanzi rappresentale per
quasi non dubbie ( giacchi non ei gioverà punto che qualche cosa ne sia
stala innanzi concessa, se a questa Ila dissimile quella, per cui cagione
avremo voluto che ne sia conceduta' la prima ) ; dipoi s’ ha da
provvedere che l'avversario non possa addarsi dove vadano a batter le prime
induzioni, c a quale uscita sieho per venire. Conciossiacbi chi si
accorgesse clic se darà assenso olla prima cosa di elle è interrogato,
dovrà necessariamente darlo altresì a quella che gli ripugna, costui o
col non rispondere, o col risponder male, non lasccràebc la
interrogazione se ne vada molto alla lunga. Laonde s' ha da teucre una
lai guisa d’interrogare, che l'avversario, senza clic vi faccia pensiero,
sia condotto da quello clic concesse a concedere anche quello che non
vorrebbe. Però I' ultimo punto della interrogazione dee esser taciuto ,
o concesso, o negalo. Se lia negalo, allora o deesi mostrare la
similitudine che t’ha tra esso e gli altri punti clic prima furono conceduti,
ovveramentc deesi lar uso di nu'allra induzione. Se il punto ultimo Ga
concesso, si dee chiudere l'argomentazione. Se in Gne sarà taciuto, o si dee
fare di prò vocaruc come die sia la risposta, ovvero, siccome il silenzio
rassomiglia in ccr o modo alla confessione. si dovrà venire alla chiusa
dcll’argomcnlazionc appunto come se l’avversario avesse risposto
affermatitainenlo. Cosi questa maniera di argomentare viene ad aver tre parti;
la prima con- l.i di una o più similitudini, la seconda consta di Seti
quia non salis alicui videbilttr dilucitle demonstralum, nisi quid ei
chili causarum genere esempli subiccerimus, videlur eiusmodi quoque Sitcndbm
t^cVnpió' noti quo' pweceplio dilTeral, aul aiitcr hoc in sermone atque
in dicendo sii ulendum, se'd ut eorum volunlaii aqtis Dal, qui,
quoti allrjuo in loco viderunl, alio in t ‘ loco, Risi
mpnatratum.mequeSnt cognoscerc. Ergo in hac causa, qaoe aputTGraeeos
eaLpgnagala, quod Epaminondas, Thebanorum imperaler, ei, qui sibi
ci lege praclor successcrat, eiercilum non Iradidit, cl, quum paucos ipsc
dics conira legem oneri inni) lenuisset, Lacedaemonios funditus vici!,
poleril occupato* argumenlatione uli per inly^clioncm, quum scr : ptum legis
conira senlenliam defendat, jd hunc modum: Si, iudiccs, id, quod
Epaminondas ail legis scriplorem sensissc, as ribat ad legem, et addai
Itane ezceplionem: exira guani si quia rei publicae causa exercìlum
non tradideril, paliemini ? Non opinor. Quod ai vosmel ipsi, quod a
vostra religione cl sapienlia remolissimum est, islius honoris causa
liane eamdem eiceplionem iniussu populi ad legem ascribi iubealis,
populus Tliebanus id patieturne Aeri ? Profcclo non palietur. Qu«t, ergo
ascribi ad legem nefas est, id sequi, quasi aseriplum sii, recium vobis
videalur ? Novi veslram inlclligenliam; non polcsl ila voleri, iudices.
Quod si lillcris corrigi neque ab ilio neque a tobis scriploris voluntas
polest, videle ne multo intlignius ail, id re et iudicio vestro mulari,
quoti ne verbo quidem comrrttibiri polest. ,tc de inductionc quidem salis
in prac^|tia dictuin videlur. Nunc deinceps ratiocìnalionteyim et naluram
considercmus. Ratiocinalio est oralio ei ipsa re probabile aliquid eliciens,
quod eiposilum el per se cognilum sua se vi cl ralione conflrmel. Hoc
de genere qui diligenlius cousitlerandum pulaverunl
quello che vogliamo ne sia concesso, e per cui le similitudini si
sono adoperate ; la terza contien la chiusa, la quale o conferma la
concessione o mostra che conseguenza se ne può trarre. Ma poichi poiria
sembrare a taluno che tulio questo non fosse dimostralo con chiaroaza, ai
^ansassi dall' apparvi qualche poco ‘•d'csernjift trailo dalle cause di
qualità civile, io vorrò pur addurle un esempio adatto alla matc> ria,
non perchè belle cause, sia diversa la regola, di farej' induzione o nel
linguaggio oratorio sia da farne altro uso da quello che si fa nel filosofico,
ma per àStjàr a' versi di quelli che ciò che hanno veduto in un luogo non
sanno ravvisar in un altro, se loro non sia dimostro e fatto conoscere.
Or bene, togliamo l'esempio da quella causa che presso i Greti caper le bocche.
Epaminonda comandante de* Tebani non volle consegnar l'esercito, come era di
legge, al pretore che veiùvqgli "àufrogalo, e tenutolo cosi
illegalmente alquanti giorni, in questo mezzo ruppe di santa
•ragione i Lacedemoni. Qui potrà l'arcusalorc argomentar per induzione , difendendo
quanto è scritto nella legge ad onta del senso che vi si volesse
sottintendere. Procederà dunque cosi : Se Epaminonda, o giudici,
aggiungesse alia legge ciò eh' egli dice aver avuto in intenzione il
legislatore , e vi affibbiasse questa eccezione, che non è espressa:
salvo il caso che tui capitano trovasse esser d' utilità alla repubblica il non
consegnare l'esercito a chi si spella, ve lo comportereste voi? No, mi do a
credere. Che se voi stessi ( il clic troppo si dilungherebbe dalla vostra
co scienza e saviezza) comandaste che per onorare Epaminonda si
dovesse aggiungere alla legge la eccezione stessa, che della è, se ne
starebbe forse contento questo popolo di Tebe? Non se ne starebbe egli
per certo. Ciò dunque che non si può aggiungere alla legge vi par ben
fallo che si metta in pratica come se aggiunto già fosse ? So che voi
siete persone d'intelligenza, e per questo io credo che ben fatto, o
giudici, codesto non vi debba parere. Che se Epaminonda nè voi altri non
potete per veruno scritto correggere la volontà del legislatore, badale
che saria cosa troppo più indegna che voi con l'opera e giudicio vostro
veniste a mutare quella volontà che neppure con lo scritto non si può ni
anehe correggere. Ma della induzione mi pare aver detto abbastanza per
ora. Entriamo a far parola stilla forza e sulla natura del
raziocinio. Raziocinio è un discorso che dalla cosa probabile trae fuori
qualche nuota proposizione, la quale esposta che sia, siccome è nota per
si, è confermata dalla slessa sua forza e carattere, Digitized
by Google unno i. quum idem usu direnili
scquerenlur, paullulum in praccipicndi ralione disscnscrunt. Nani par
litri quinque cjus partes erse dixerunt, panini non plus quam in
Ircs parici posse distribuì putaverunt. Eorum conlrovcrsiam non incommodum
vidclur cum ulrorumque ralione ciponere. ft'ain cl brevis est, cl non
ejusmodì, ut alteri prorsus nihil diccre pulcntur, et locus hic n -bis in
dicendo minime negligendo videtur. Qui pulanl in quinque distribuì parles
opurlcrc, nj uni primum convenire cxponcrc summam
argumcntalionis.ad liunc modum : Melina accuranlur, quae consilio
gcrunlur, quam ipjae siile consilio adininistranlur. liane primam parlcm
numeranl ; cain dedico ps ralionibus variis cl quam copiosissimi! verbis approbari
pulant oporlcre, boc modo : Humus ca, quae ralione regilur, omnibus est
inslructior rebus et apparalior, quam ea, quae temere et nullo
consilio administralur. Esercitila is , cui praepositus est sapiens cl
callido impcrntor, omnibus partibns commodius regilur , quam is , qui
slullilia et Icmcrilalc alicujus adminislralur. Eadem navigli rollo est.
Nam navis oplimc cursum coniìcil ea, quae scientissimo gubcrnatorc
ulilur. Quum proposilio sii boc paclo approbala, et dnac parles Iransierinl
raliocinationis, Icrlia in parie ajunl, quod oslenderc velis, id ex vi
proposilio* nis oporlcre adsumcrc, hoc paclo : Niliil aulem omoium
rerum melius, quam omnis mundus, ad* minislraiur. Ilujus adsumplionis
quarto in loco aliam porro inducunl approbationem, hoc modo : Nam
cl signorum ortus cl obilus delinitum quemdara ordinem serrani, cl annuac
commulalioncs non modo quadam ex necessiludinc semprr eodem modo Qunl,
veruni ad ulililalcs quoque rerum omnium sunt accomodarne, et diurnao
nocturnaeque vicissiludines nulla in re umquam mutalae quidquam nocuerunl; quae
sigilo sunl omnia non mediocri qundam consilio naluram mundi adminislrari.
Quinto inducunl loco complcxionem cam, quae aul id inferi solimi, quod ex
omnibus partibns cogitur, boc modo : Consilio igilur mundus
adminislralur: aul unum in locum quum conduxeril breviler propositionem
el adsumplio* nem, adjungil, quid ex bis conlìcialur, ad lume
modum: Quodsi melius gcrunlur ca, quae consilio, quam quae sine consilio
adminislranlur, nitrii aulem omnium rcrum melius adminislralur, quam
omnis mundus ; consilio igilur mundus adminislraiur. Quinquopertilam igilur Ime
paclo pulsiti esse argumentationem. Quelli clic hanno posto più di
csaltczza nel trattare su questa specie di argomentazione, benché si
attenessero nel discorso alla sostanza slessa, si allungarono perù
alquanto gli uni dagli altri nel sottoporla a regolo. Alcuni dissero
avere il raz n cinio cinque parli, altri non gliene diedero più
clic tre. i\on è dunque fuori di proposito clic io venga discorrendo la
costoro conlrovcrsia c le ragioni di clic e gli uni e gli altri si
avralorano, tanto più ch’cssa è breve, e uon di lai sorla, clic non
vi si trovi della cosa di qualche mollicelo; e d'allro lato è una
argomeutazionc elio ncll'arringarc non si vuol mcllorc in cesso. Quelli
clic stimano doversi il raziocinio dividere in cinque parli, dicono
che si conviene per primo pronunziare la somma dell'argomentazione, come
sarebbe: Meglio si procurano le cose elio si fanno dietro considerazione, di
quelle clic si fanno senza di essa. Que-un mi Mono in conto di prima
parte, e credono clic la si debba ili mano in innno comprovare tra con
ragioni varie c incisi assai abbondanti di parole. Foniamone questi
esempli : l.a casa clic ù diretta giudiziosamente è mollo più fornita
ili bisogni o di apparalurc clic non è quella , la quale è diretta
a capriccio e senza fior di buon senno. L'esercito che ha per capo un
uomo savio e sagace è regolalo per ogni verso più con vcncvolmcntc che
quello non è, il quale ha per sopracciò un midollonaccio temerario.
Dicasi lo stesso della nave; poiché la nave fa ottimamente il suo
corso, se 6 guidata da un pilota clic si cono sca bene dell'ano sua.
Comprovala clic sia ili que sio modo la proposizione, e toccale cosi due parli
del raziocinio, dicono clic nella terza parte si dee pigliare dal forte
ridia proposizione ciò che lu vorrai dimostrare, come sarebbe: Ma di
tulle cose nessuna è meglio governala elio il mondo universo. Di
qucsla nuova proposizione aggiungono pure la sua prova, a questo modo. Foicliè
il nascere c il tramontare, degli astri serba un ordine inalterato, e le
stagioni dell'anno noe solo succedono sempre allo stesso modo per quella
certa necessitò che loro ha imposta la natura, ma son altresì
accomodale all'ulile andamento di tulle cose, c le vicissitudini diurne e
nolturnc in nessuna parie mai minale non recarono mai di nocumrn 10 nè un
menomo che; le quali cose danno sicurtà che il mondo è governalo da
provvidenza non lieve. Danno il quinto luogo alla chiuso dcll'argoincnto,
la quale o ciò solo concliiude, che da tulle le parli si viene a
conchiuderc, siccome sarebbe : 11 mondo è dunque governalo con
provvidenza: ovvero allora quando e la prima e la secooda proposizione
saranno brevemente condoltc n far capo c conchiuderc, aggiunge la
illazione che da queliti Qui aulem Iripcrlilam esse dicunt , li non
aliler Iraclari puljiit oporlere argumenlationcin, srd parlitionem borimi
rcprchendimt. Ncganl cnim ncque a proposiliouc ncque ab adsumplionc
approbaiioncs caruin separar! oporlere, neque propnsilioncm absolulam ,
ncque adsumplionem sibi pcrfcctam vldcri, quac approbalionc coufirniala
ncn sii. Quare quas illi duas partes numcreDt, prnposilioncm cl
apprubalioncm, sibi unam partem vidcri, proposi lionem ; quae si
apprettala non sii, proposìlio non sii arguincutalionis. Item. quae ab illis
adsuinptio el adsumptionis approbalio diralur, eamdcin sibi adsumptionem solam
vidori. Ila (ir, ni cadeni raliouo argumentatio Iraelala aliis Iriperlila, aliis
qoinqiicpcr lila tidealur. Quare evcnit, ul res non lam ad Usiim
diccndi pei lineai, quain ad ralionem praeceplionis. .Nobis aulein cormnodior
illa parlilio vidclur esse, quae in quinque parlcs dislribula est, quain
omnes ab Aristotele el Tlieopbraslo profecli ma lime seculi suiti. Nani
queinadinuduni illud superius gcnus argumcntandi, quoti per inducilonem
sumilur, inastine Socralcs cl Socratici Iraclamnl, sic hoc, quoti per
raliocinalionem espolitur, stiniute est ali Arislolelc alque a
l’cripalclicis el Tlieopbraslo frequenlalum, deinde a rlieloribus
iii, qui cleganlissinii alqun arliliciosissimi pulali sunl. Quare aulem
nobis dia ruagis parlilio probetur, dicendum vidclur, nc Icmere seculi pulemur;
cl bretiler dicendum, nc in liujusmodi rebus diulius , quain ralio praecipiendi
postulai, emumoremur. Si quadam in argumcnlutione salis esl
uli proposiljonc, el non nporlet adjungcre apprabalionem propositioni, quadam
aulem in argumcnlaiinne infirma esl proposito, nisi adjuncla sii npprobalio,
separnlum esl quiddam a proposiliono approbalio. Quod enim el adjungi et
separali ab aliquo potasi, id non polcst idem esse, quod esl id, ad
quod adjungilur cl a quo separalur; est aulem qunedam argumenlalio, in
qua proposìlio non indigel approbationis, et quaedam , in qua
le si Irac, siccome sarebbe: Che se meglio vanno le cose che
son governale da provvidenza di quelle clic noi sono, e se di lune la
meglio governala è il mondo universo; il mondo adunque si governa
per provvidenza. Per queste ragioni erodono che il raziocinio sia
divisalo in cinque parli. Quegli altri poi che dicono esser il raziocinio di
Ire parli, non credono già che s'abbia da variare l'argomentazione:
disapprovano le cinque parli solo perchè non credono clic si debba dalle
due proposizioni sceverare le due prove, e trovano nè intiera la
proposizione prima, nè ben compiuta la seconda, so E una c l'altra non
porla seco la prova clic la conferma. Laonde mentre i faulori delle
cinque parli fan due parli distinte la proposizione e la prova, i faulori
delle Ire riducono queste due a ima sola, c la dicono ricisamente
proposizione ; la quale se non ha unita la sua prava, non è punto la proposta
dell’argomentazione. Similmente la seconda e la prova di essa , clic
i primi dicono esser due parli, i secondi ristringono a una parie sola.
Da ciò deriva che un’argo lucidazione per raziocinio, comechè (rullata
nello slesso modo, da altri è tenuta perdi tre, da altri per di
cinque parti ; il che non lanlo risgu8rda I' uso clic ne dee far
l'oratore, quanto riguarda la maniera di stabilire i precelli circa a
questa malerio. Se ho a dir ciò clic io senio, io trovo esser più
acconcia la dislribuzione del raziocinili in cinque parli, la quale fu
seguila da quanti vennero dopo Aristotele c Teofraslo. E elio quesli nomi
perchè come l'argomcnlar che si fa per induzione, di rhe è dello,
fu seguilo da Soerate c da quelli della sua sella, cosi questo argomentar
clic si fa per raziocinio fu mollo di frequente usalo da Arislolelc c dai
Peripatetici c da Teofraslo, 0 poscia da quei relori che furono de’ piò
nominali per eleganza ed artifizio. Quale sia poi l'itnpcrcliè, onde 10
approvo la partizione in cinque, fo ragione di doverlo dire, a causi che non
si credesse che io m’avventassi in questa opinione senza pensarci
sopra. Il farò uundimeno alla breve, per non di morar in queste cose
troppo piò che non richieda 11 mio assillilo di sporre i precelli dell'
arie che ho per mano. Se v' ha di quelle argomentazioni in cui
basta la proposizione sola, c non v’ è mestieri soggiungerne la prova, c
se per conira v’ ha di quelle che ini Illudono una proposizione clic
vacilla, c non regge, ove non le sia aggiunta la sua prova, nc segue che
la prova è un che di separalo dalla proposizione. Perocché una cosa clic
s'aggiungo a un' ultra, o che si separa da essa, non può esser la slessa
con quella a cui si aggiunge, o da cui si separa. Ma c vi sono
argomentazioni , mini valel sino approbalioue, ul oslcndemus. Separala
igilurcsla proposilione approbalio Ostendctur autem iti, quod pollicili surcus,
hoc modo: Quae proposilio in se quiddam conlinct perspicuum, el quod
slarc inler onmes nccessc est, liane velie approbarc el Ormare nihil
allinei. Ka est hujusmodi : Si, quo die isla cacdcs ltouiac racla est,
ego Allienis eo die fui, iu cacdc interesse non po lui. Hoc quia
perspicue veruni est , nihil allinei opprobari. Quarc adsunii slatim
oportcl, hoc modo: Fui auleni Allienis eo die. lloc si non constai, indiget
approbalionis ; qua iuduela, complctio coDsequeltir. Esl igilur quaedam
proposilio, quae non indiget approbalioue. Sani esse quideiu
quumdaui, quae indigeni, quid allinei oslendcrc, quod cuivis facile
perspicuum est? Quod si ita est, ex hoc, el ex co, quod proposueranms,
hoc coiiflcitur, separatum esse quiddam a propostone approbalionem. Sin
autem ila esl, falsum esl non esse plus quam Iripcrlilain
argumcnlalionem. Simili modo liquet allcram quoque approbalio nem
separalam esse ab adsumplionc. Si quadani io argumenlalione salis esl uti
adsumplionc, el non oporlct adjungcrc approbalionem adsumptioni; quadam
autem in argumenlalione infirma esl adsumptio, nisi adjuncla sii
approbalio: scpnralum quiddam exira adsumptiooem est approbalio. Est autem
argumculalio quaedam, in qua adsumplio non indiget approbalionis; quaedam
autem, in qua nihil vaici sino approbalionc, ul ostendemus. Separala
igilur est ib adsumplionc approbalio. Oslendcmus autem, quod pollicili
sumus, hoc modo : Quae perspicuam omnibus vcriialem cominci
adsumptio, nihil indiget approbalionis. Ea est hujusmodi : Si oporlct
velie sapere, dare operaci philosophiae convenil. Hacc proposilio
iudigel approbalionis ; non rnim perspicua esl, neque constai inler
omnes, proplerea quod multi nihil produsse philosophiani, plcrique ctiam
ohesse arbilranlur. Adsumptio perspicua osi; est cnim baco: Oporlct aulem
vello sapere. Hoc quia ipsum ex se perspicilur, el vergai esse
inlcliigilur, nihil allinei approbari. Quare slatim concludenda est
argumculalio. Est ergo adsumptio quaedam, quae approbalionis non indiget ; nain
quamdam indigere perspicuum esl. Separala est igilur ab adsumplionc
approbalio. Falsuin ergo est non esse plus quam Iripcrlitam
argumcnlalionem. in cui la proposilione non ha necessaria la prova,
e v’ ha di quelle, in cui la proposizione senza la prova non ha nessun
valore, come si dimostrerà. È dunque la prova una cosa separala dalla
proposizione. Or io dico, secondo clic ho qui promesso di dimostrare, che
una proposizione , la quale contiene iu se qualche verità evidente, c che
non può clic non sia da tulli tenuta per ferma, non ha necessità di
esser provata e ribadita. Jio sia questo un esempio : Se io era in Alene il
giorno in cui fu fallo a Roma questo gran taglio di gente, è cerio
che iu non mi vi poteva trovare iu mezzo. Quella proposizione che è
evidente, non ha bisogno di prova. So dee perciò porre in mezzo la seconda
proposizione, cioè : Ma in quel giorno io fui in Alene. Se questo non
consta, se ne dee dar la prova, e datala ne seguirà la conclusione.
V’ha dunque una specie di proposizioni che non hanno uopo di prova
: esservene poi di quelle clic ne hanno uopo, non imporla dimoslrarlo,
perché non c’è chi non se lo sappia. Che se cosi è, si per questo e sì
per quello che ho dimostralo, ne consegue che la prova è un che di separalo
dalla proposizione. E se questo é vero, dunque è falso che
rargomcnlazione per raziocinio non abbia piò che Ire parli. Per cgual
modo ì chiaro clic anche la seconda prova è separata dalla seconda
proposizione. Se in qualche argomentazione basta toccar la proposizione
seconda di per sè, c non è mesliero di aggiungervi la prova ; c in qualche
altra la proposizione seconda è debole, se la prova non le sia
aggiunta, ne segue che la prova seconda è audio essa un clic di separalo
dalla seconda proposizione. Mn v'ha argomentazioni iu cui la della
proposizione non abbisogna di prova, c ve »’ ha altre, in cui essa
proposizione non tal punto, se non sia provala, come si dimostrerà. È
dunque la seconda prova separala dalla seconda proposizione. Or io dico,
per dimostrare ciò clic qui ho promesso, che la seconda proposizione che
contenesse una verità a tulli evidente, non abbisogna di prova. Eccone un
esempio: Se preme di voler venire in sapere, e' si dee metter opera alla
filosofia. Questa proposizione ha bisogno di prova, perchè non è
evidente, nè tenuta da lutti per vera, essendo che molli sou di credere che la
filosofia non giova, c molli piò che anzi ella nuoce. Bensì è evidente la
seconda proposizione , cioè : Ma dee premere il voler venire in sapere. E
questa, perchè è una verità per sè patente e da lutti ritenuta per tale,
non abbisogna di essere comprovata. Si vuol quindi venir subito alla
chiusa dell' argomentazione. V ha dunque una specie di proposizioni,
parlando delle seconde , che non hanno mestieri di prova, c ve n’ ha dì
quelle che si »ede chiaro »eme mestieri. Dunque la proposizione seconda è
cosa separala dalla sua prora. Epperò è falso non potersi l’
argomentazione per raziocinio dividere in più che tre parti. Alque ex his
iltud jam pcrspicuum Da tutto questo si par chiaro che si est, esse
qnamdam argumcnlationem, in qua nc- dà una specie di argomentaiione, nella
quale ni i|uc propositio ncque adsumptio imligcat appro- 13 prima ni la
seconda proposizione ha bisogno hationis, hujusmodi, ut crrtum quiddam et
breve jj prora. Ne reco qui un esempio, brere, e che esempli causa
ponamus: Si summo opere sapien- sta garante di quanto io dico : Se si dee
cercare lia pe tenda est: summo opere stultitia vitanda di gran maniera
la sapienza, si dee di gran mais! : Summo aulem opere sapicntia pctcnda est :
uiera guardarsi dalla stoltezza : ma la sapienza si tummo igitur opere
stultitia vitanda est. tlic et dee cercare di gran maniera; si dee dunque guar
udsumptio et propositio perspicua est ; quare darsi di gran maniera dalla
stoltezza. Qui si la neutra quoque indiget approbatinne. Ex bisce prima
che la seconda proposizione £ una verità , omnibus illusi pcrspicuum est
, approbationem non abbisogna dunque di prora nè l'una nè l'altra, min
adjungi, lom non adjungi. Ex quo cogno. Di qua apparisce a chi che siasi che la
prora ora scilur ncque iu propositionc neque in adsum- si aggiunge, ed
ora no; onde è chiaro altresì quepliono contineri approbationem , sed utramque
sto, che nè nello proposizione maggiore, nè nella suo beo poiitam vim
suoni tamquam certam et minore non si contiene la prova lor propria, ma
propriam oblinerc. Quod siila est, eommodc che ciascuna di esse proposizioni
posta a suo luopartili sunt illi, qui in quinque partes distribuc- go ha una
forza sua, che ì come una determinata runt argumcnlationem. Quinque suoi
igitur par- proprietà. Clic s'ella è cosi, ben fecero coloro che Ics ejus
argumcnlationis, quac per raliocinatio- hanno divisa in cinque parli siffatto
argomcntaiieui tractatur; propositio, per quam locus is bre-_.zioue. Cinque son
dunque le parli della argoviter eiponitur, ex quo vis omnis oporlct cmanel
mcnlazionc che si conduce per via di raziocinio, ratiocinalionis:
proposilionis approbatio, per quam voglio dire: la proposizione maggiore, per
la id, quod breviter exposilum est, rationìbus adlir- quale si spone
brevemente il punto che contiene matum, probabilius et apertius IH ;
adsumptio, tutto il forte del raziocinio : la prova di questa per quam
id, quod ex propositionc ad ostenden- propositionc, per la quale ciò che
brevemente è dum perline!, adsumilur; adsumptionis approba- cspo-lo, e
ribadito con le ragioni , si rendo più tio, per quam id, quod adsumptum
est, rationi- probabile c più manifesto : la proposizione minobus firinalur;
corapiciio, per quam id, quod con- re, per la quale si pronunzia ciò che dietro
la fiuitur ex ornili argumcntalione, breviter esponi- maggiore bassi a
dimostrare: la prova di questa tur. Quac plurima» habcl argumcntalio
partes, ea minore, per cui si conferma con ragioni ciò che constai ex his
quinque parlibus ; secunda est qua- fu pronunziato : la conclusione, con cho di
corlu dripcrlita; lerlia Diportila ; deiu bipartita; quod si espone ciò
che risulta dall’ argomentazione inni controversia est. De una quoque parte
potcst fiera. Ogni argomentazione ha più parti : la più ulicui vidcri
posse consistere. numerosa conta le cinque prelato ; altre ne hanno
quattro, altre solo tre, c ve n' ha che non ne conta più clic due, ma
quest'ullima è in controversia. V ha chi crede che anche ci siano
argomentazioni di una parte sola Eorum igitur, quac Constant, esempla
Pertanto parlando dello parli del raponemus lioruin, quac dubia sunt, ralioncs
adfe- ziocinio da tulli adollalo, io ne verrò adduccndo remus.
Quinqucpcrtila argumcntalio est buiusmo- gli esempli; c di quelle che son
coiilroversc ne di : Omncs leges, iudices, ad commodum rei pu- porrò in
campo le ragioni. Il raziocinio di cinque blicac referre oporlct, et eas
ex militate communi, parli ò qui: Tullcquante le leggi, 0 giudici, si vonon ex
scriplionc, quac iu littcris est, inlerprclari. gliono riferire al bene della
repubblica, e intorba chini tirtulc et sapicntia maiorcs nostri lue- pretore
secondo il vantaggio comune, non seconrunt, ut in legibus scribcndis niliil
sibi aliud, ubi do che suonati le parole presentate dallo scritto,
salulem alque utililatcm reipublicac.proponcrcnl. Erano i nostri anhpassati di
tale sapienza c virtù, Neque eoim ipsi, quod ohcsscl, scribcre volcbant;
che nello scriver le leggi non si proponcano altro et, si scripsisscnt,
quum ossei intcllectum, repu- clic la salvezza cd il vantaggio della
repubblica, dialum iri legein iiilclligcbanl. Nomo enim leges Nuli
vulcano scriver cosa elio avesse potuto nuoIcgum causa salvas esse vull, sed
rei publicac. cere; esc pure l'avessero scrilla, conosccano come quod et
lcgibus omnes rem publicam oplime puiant administrari. Quam ob rem igitur Icges
servar! oporlal, ad eam causam scripta omnia inter prctari convenit: boc est,
quoniam rei publicac servimus, e* rei publicae commodo atqoe
utiiilate interpretemur. Narri ut ci medicina nihii oportet putire
proflcisci, disi quod ad corporis utilitatcm spectet, quoniam cius causa
est insliluta, sic a legibus niliil convcnil arbitrari, Disi quod rei publicae
conducat, proflcisci , quoniam eius causa suol comparane. Ergo in hoc
quoque iudicio desinile litteras legis perscrutari, et legem, ut aequum est, ei
utililate rei publicae considerate. Quid magis utile fuil Thebanis quam
Lacedaemonios opprimi r Cui rei magia Epaminondam The banorum
imperalorcm, quam vicloriae Thebanorum consulere dccuit? Quid hunc tanta
Tbebanorum gloria, taro darò atque cromato tropaeo carius atque antiquius
habere convenit? Scripto videlicel legis omisso, scriptoris sentenliam
consi dorare debebat. At hoc quidem salis consideralum est, nullam
esse legem nisi rei publicae causa scriptam. Summam igitur amentiam esse
eiistimabat, quod scriptum esscl rei publicae salutis causa, id non ei
rei publicae salute interpretari. Quod si leges omnes ad utilitatcm rei
publicae referri convenit, bicautem saluti rei publicae profuit, prorecto
non potest codcm faclo et comuiunibus fortunis consuluissc, et lcgibus non
oblemperasse. Qualuor auletn parlibus constai argumentatio, qtitint aut proponimus, aut
adsumimus sino approbatioue. M Tacere oportet, quum aut propositio
ex se inlelligitur, aut adsumplio perspicua est, et nullius approbatiunis
indiget. l’ropositionis approbatioue praetcrìta, qualuor ci partibus
argumcntalio tractatur, ad liunc tnodutn : ludiccs, qui ex lege turati
iudicalis, obtemperare legibus dibetis. Oblemporare aulem lcgibus
non potestis, nisi id, quod scriptum est in lege, acquattimi. Quodenini
ccrtius legis scriptor teslltnonium volunlatis suae relinqucrc
poluit, quatti quod i|»»c insieme clic ciò si Tosse inteso, la legge
sarebbe siala abolita. Nessuno
inTalli vuole conservalo le leggi perchè son leggi, ma perchè
conferiscono al bene dello Sialo, giacché luti! sono d'avviso ebe
per governare il meglio la repubblica fan di bisogno le leggi. Quale adunque £
il One per cui le leggi si deono mantenere, tale dee esser il One a
cui si vogliono interpretare tutti gli scrìtti che son di regola allo
Stato: voglio dire, che siccome noi ci adoperiamo in servigio della
repubblica, cosi dobbiam vedere d' inlerprelar le leggi secondo il
vantaggio e rutilili di essa. A quella guisa ette si dee credere non altro
venire dalla medicina, se non ciò che aspetta al ben essere del
corpo, perchè essa è per ciò appunto islituita; alla guisa slessa
si vuol credere che altro servigio non ne venga dalle leggi, se non
quello che concorre a mellcr In buon essere io Stalo, perchè per ciò appunto
osse furono stabilite. Laonde anche in quoslo giudicio lasciate, o giudici, di
ragguardar pel sonile le parole della legge; e voi Tjrctc cosa più
giusta e dicevole, se voi applicherete la legge secondo che profitta alla
repubblica. Qual piè vantaggio pei Tcbani, che quello di stremar la potenza dei
Lacedemoni? Quale altra cosa s’addiceva meglio a Epaminonda comandante
dei Tcbani, clic di arrabattarsi per la vittoria de'suoi? Che altro potea
quest’ uomo aver tanto caro ed accetto, quanto si sfolgorala gloria dei
Tcbani, e si cospicuo trofeo e si magnifico ? Certo a ciò ottenere ei non
polca che lasciare dall' un de’ (ali il testo della legge, e por meole
all’ inlcozione del legislatore. E per vero ei facea ragione ebo non v’
Ita legge che non sia scrìtta per lo vantaggio della repubblica.
Slimava dunque essere un* avventata pazzia che quello scritto medesimo,
Il quale era fallo a vantaggio dello Sialo, s’ interpretasse a diservigio
di esso. Che se tulle le leggi si vogliono riferire al vantaggio della
repubblica, e se quest' uomo alla salute della repubblica bene contribuì, cerio
non è da inpulargli che ei disobbedissc alle leggi con quel fallo stesso
con cui provvido al ben essere dello Sialo intiero. Ha quattro parli il
raziocinio, quando è senza prova la proposizione maggiore, o la minore,
il che addivieneo come la maggiore s'intende di per sé, o come la minore è si
evidente che non ha necessaria alcuna prova. Quando dunque la maggiore fa
senza di prova, il raziocinio Ita quadro parli, e si svolge in questo
modo : Voi altri, o giudici, clic giuraste di giudicare secondo la legge,
dovete fare la felicità c il comandamento di essa. Ma farlo voi non potete, se
voi liuti se guitc ciò clic nella legge è già scrino; poiché qual
testimonio piè certo della sua volontà potea la magna curii cura alquc
diligcntia scripsit ? Quod si liucrai» non ezstarent, magno opere eas
requireremtis, ut ex iis scriptoris rolunlas cognoscerctur ; nee tamcn
Epaminondae pernii tleremus, ne si extra itnlieintn quidem esset, ut is
notiis sentenliam legis inlerprelaretur, netlum nune istum patiamur,
quuiii praeslo lex sii, non ex eo, quod apertissime scriptum est, sed ci
co, quod suae causar convenit, scriptoris roluntalem intcrprelari. Quod
si vos, ìudiccs, legibus olilemperare debelis, et id fanere non potcslis, nisi
id, quod scriptum est in lego, scquamìni, quid causaci est, quin islum
cuntra legnili fecisse iudicelis ? Adsumptionis aulenti npprobalionc
praeterita, quadripertila sic (ini argunicnlalio : Qui saepcnuincro nos
per Qilem f-fei I ir un t , eoruni uraliani ruleni liabere non
debemus. Si quid enim perfidia illorum detrimenti accepcrinius, ricino erit
praetcr nosmet ipsos, quem iure accusare possimus. Ac primo quidem
decipi incommodum esl; ilerunr, stullum; terlio, turpe. Cartbaginenses
aulem persaepe iam nos fcrellcrunt. Somma igitur amentia est in eorum
fide spem liabere, quorum pciQdia lotiens deceptus sis. (Jtraquc
approbatione praeterita, Iripertita (il, hoc parto: Aut mcluamus
Carlbaginienses oportet, si incolumcs cos reliquerimus; aut corum urbem
diruamus. Ac
meluere quidem non oportet. Ueslat igdur, ut urbem diruamus. Suiil
onte in qui putant uounumquam posse complexione et oportere supersederi,
quum, id perspicuum sii, quod conficialur ex ratiocinatione; quod
si fiat, biperlilam quoque bari argumenlalionem, Irne modo : Si pcperil, virgo
non est: pcpcrit autom. Ilic salis esse dicunt proponere et adsumerc,
quoniam perspicuum sii, quod confici, itur ex ratiocinalione ; quod si fiat,
compleiionis rem non indigere. Nobis aulem vidclur et omnis ratioeinatio
concludenda esse, et illud vilium quod illis displiccl, magno opere
vilandum, ne, quod perspicuum sit, id in complciiunem inferamus. Hoc autem fieri poteri!, si comptexionum
genera inteliigenlur. Nani aut ita complccteuiur, ut in unum conducamus
propositionem et ndsumptionem, huc modo: Quod si leges omnea ad ufilitalem rei
publicac referri convenil, hic autem sciare il legislatore,
se non quello di aver egli scritta la legge con tutta la diligenza e la
cura? Che se il lesto della legge non si avesse alle mani, noi faremmo
ogni potere di trovarlo, per conoscere indi qual fosse la volontà del
legislatore. E se noi non pcrmclleremmo od Epaminonda che, ni
eziandio nel caso che questo giudizio non gli riguardasse, prclendcsse di
voler inlerpretare il sentimento della legge; mollo meno dobbiam
permettere nel caso presente, in cui la leggo è qui in pronto, eh' ei ci
venga interpretando la volontà del legislatore non già secondo quello che
manifestamente è scritto, ma secondo quello che risponde meglio alla sua causa.
Che se voi, o giudici, dovete Tare il comandamento delle leggi, e
tuttavia noi potete, se voi non vi atteneste a ciò clic nella legge è
scrino, con quale appoggio voi giudicherete che quest’ uomo non fece
contro la legge? Quando poi la proposizione minore fa senza di
prova, il raziocinio è di quattro parli, e si fa a questa maniera: Coloro
che ne hanno piò volle rotta fede non son degni che noi delle loro parole
facciamo a fidanza con essi; poiché se dalia perfidia loro noi abbiamo
rilevalo alcun che di danneggioso, non nè potremo giustamente corre
cagione ad altri che a noi stessi. Lasciarsi garabullarc una volta £ cosa
incomoda; lasciarsi un’altra, è sciocchezza; una terza, £ vergogna. Ma i
Cartaginesi ne hanno gabbato delle volle assai, e non tenutisi alla
fedeltà. K dunque una matlezza avventala Tare a sicurtà con quella fede loro,
clic tenie volte nc ha perfidamente IrufTati. Qualvolta si lascia
i'una prova e l'altra, il raziocinio £ di tre parli, come sarebbe: 0 cl
conviene slar in timore dei Cartaginesi, se concederemo loro
incolumità, o ci conviene dar a terra la città loro. Ma star in
timore e' non ci conviene. Resta dunque che ci convieuc darne a terra la
città. XL. Ci son tali, che stimano potersi talora, ed anzi dover
fare a meno della conclusione, quando sia di per sé evidente quale del
raziocinio debba esser la uscita : e in questo caso dicono di due
parli il razionioio, che si enuncia cosi: Se infantò, essa non è vergine:
ma infantò già. Qui dicono esser baslevoli le due proposizioni, perchè è
chiaro a che devenga il raziocinio ; e in questo caso non y’esser
uopo di concludere. Quanto è a me, io son di credere che qualsisbi
raziocinio debba avere la sua conclusione; con questa avvertenza però,
che s'abbia attentamente da evitare il difetto che dispiace pur a que’
tali, di introdurre nella chiusa ciò che £ evidente per s£. Si potrà
evitare questo difetto, se si conosceranno bene le varie specie di
conclusione. Perocché ovvero si conchiuderà in modo da abbracciar nella
chiusa sì Cuna che l' al saluti rei pubbeae profuil, profecto non polesl
cotieni paclo et saluti communi consuluisse, et lcgibus non oblempcrasse : aut
ila, ut ci contrario couliciatur senlcnlia, hoc modo : Summa igilur
amentio est corutn in fide spem liabere, quorum perfidia toliens deceplus
sis: aut ila, ut id solimi, quoti conficitur, infcratur, ad liunc niodum
: Urbem igilur diruamus : aut, ut id, quod cam rem, quac conficitur,
sequalur necesse est. Id est Ini immolli : Si pcperit, cuni tiro
concubini : pcpcril aulem. Conficitur hoc: Concubuil igitur cum
viro. Hoc si nolis inferro, et inferas id, quod sequilur: Kecil
igitur incestimi ; et concluseris argumenlationem et perspicuam fugeris complexiuncm.
Quare in longis argumentalionibus aut et conduclionibus, aut ex contrario,
complecli oporlel: in bretibus id soluin, quod coniicitur, exponcre, in
iis, in quibus exitus perspicuus est, consecutinnc uti. Si qui
aulem ex una quoque parte putabuul constare argumunlationcm, potermi! dicere
saepe sali» esso hoc modo argumcntationcm Tacere : Quoniatn peperit, rum tiro
concubuil: nam hoc nullius iici|iic approbationis ncque contplexionis indigere.
Sed nobis ambignilale nominis videnlur errare. Nam argumentatio nomine
uno res duas significai, ideo quod et iiiventum aliquam in rem
probabile aut nccessarioni argumentalio tocalur, eteius inventi
artificiosa cxpolitio. Quando igitur proferent aliquid huiusmodi: Quoniam
pcpcril, cum tiro concubuil, invcnlum proferent, non cipolitionem ; nos
aulem de expolilionis parlibus loquimur. xt.l. piiliil
igilur ad liane rem ratio illa pcrtineliit; otque hac distinclionc alta quoque,
quac vi» debuntur olilcere buie partitioni, propuUabimus, si qui
aut adsumplonem aliquandn tolti posse pulci, ani proposilinnem. Quac si
quid habd probabile aulnecessarium, quoquo modo eommoveat audiiorcm
necesse est. Quoti si soluni spcctarrinr, ac nihil, quo pacto Iraclorclur
id, quoti cs«ct excogitatum, referret nequaquani lanlum inlcr summos oratore»
et mcdiocrcs interesse oxislimaretur. Variare autem oralionem magno opere
oporlebil ; nam omnibus in rebus similitudo est salietalis ma
fia proposizione, come in questo esempio: Che se sia bene diesi
riferiscano le leggi tutte al ben essere della repubblica, e costui alla salute
della repubblica ita giovalo, certo ci non polca per la stessa
guisa e provvedere alla saiote comune, e farsi disobbcdienle alle leggi:
ovvero si conchiuderà in modo da trarne la chiusa dai contrario, come in
quest' altro esempio: fi dunque una maltcxza avventata porre speranza di
fedeltà in coloro, dalla cui perfìdia tante volle fosti raggirato :
oppure in modo da pronunciare ciò solo che si vien a concludere, come:
convicn dunque clic no diamo a terra la città: o in maniera da enunciare
ciò che segue necessariamente a ciò clic s'ò concluso; corno ili
questo esempio: Se quella tal donna partorì, certo ella giacque con un uomo :
ma partorì già. La conclusione i : Dunque giacque con un uomo. Cile
se non vuoi dir questa conclusione, e vuoi piuttosto enunciare ciò che ad
essa consegue, dirai: Commise dunque un incesto ; e così avrai
bensì concliiuso il raziocìnio, ma avrai schifalo la chiusa già evidente
da sè. Per lo clic nei raziocini! lunghi la chiusa si dee trarre o
dall'aggregato delle due proposizioni, ovvero dai contrario: nelle
brevi s'ha ad esporre solo ciò clic si conchiude ; e in quelle, in cui la
conclusione ì evidente, si dee pronunciare ciò che dal raziocin io ne
consegue. Se v’ Ita poi di quelli, che credano esservi raziocino anche di
sola una parte, costoro potranno dire clic basta sovente fare II
raziocinio a questa maniera : Ella ha partorito; questo è segno che giacque con
un uomo; poiché qui non v'ha bisogno nè di prova, nè di chiusa. Ma io fo
pensiero elle costoro sien tratti in errore dall'ambiguiià del nome,
poiché raziocinio è un nome solo, ma significa due cose. E infatti appellasi
raziocinio e il trovato probabile, o necessario, a favore o contro uu
che, c f artificioso raffazzonamento e pulitura di esso trovato. Quando
dunque enuncieranno a questo moiio: Poiché ella partorì, certo conobbe
qual» che uomo ; essi spolmono il trovalo, ma non la pulitura di
esso: in invece parlo delle parli della pulitura medesima. Non pcrliene
dunque ni tema eh’ io svolgo quella loro opinione ; anzi se mai ci sarà
ehi ctede-se potersi talora omettere la proposizione minore, o la maggiore, io
farò di confutarlo con la distinzione testé annunziala, e dissipare ogni
altro argomento che si combattesse con la partizione che ho
seguila. Dico intanto che se il raziocinio lidio sue proposizioni
contiene uu probabile o un necessario, ileo per uno o per altro modo
commuovere inevitabilmente l'uditore. Nondimeno, se si mirasse al solo
necessario o ai probabile, t non si facesse alcun caso del come si
tratlassc la ma Icr. Id Iteri palerii, ti non similiter scmper Ingrediainur in
argumcnlaiioncm. Nam primum oraninni gcneribus ipsis distinguere convcnit
oralioncm, hoc est, tura indnclioric uti, tura raliocinalionc. Deinde in ipsa
arguraenlatiunc nuli scraper a proposilione inciperc, ncc scraper quinquc
parlibus abuti, ncque cadcm ratione parliliones cxpolirc ; scd tura ah
adsumptiunc inciperc licci, lum ab approbationc alterutra, Iran utraquc,
tura hnc, lum ilio genere complexionis uli. Id ut perspicialur, aut
seribamus, ani in quolibct «empio de iis, quac propesila sunl, hoc idem
cicrceamus; ut quam Tacile facili sii Ac de partibus quidem
argunicnlalionis salis nubis dirlura videtur. Illud aulcm volumus
inlclligi , nos probe tenere aliis quoque rationibus Iraclari
argumentalioncs in pliipisnphia mullis el ubscuris, de quibus ccrtum est
arlilicmni conslitulura. Veruni illa nobis abhorrcrc ab usu oratorio visa
sunt. Quao pertincre aulem ad diccndum pillarmi*, ca nos coniraodius,
quam celeros, allendissc non adlìrmamus ; perquisilius et
diligcnlius conscripsisso pulliccmur. Nane, ut iiistiluimus, prollcisci
ordine ad rcliqua pergemus. Ucprchensio csl, per quam argumenlando
adversariorum coullrmatio diluilur, aut infirmatur, aut cteiolur. Ilare
Tonte invcnlionis codcm utelur, quo utitur confìrmatio, proplerea quod,
quibus ex locis aliqua res confirmari potcst, iisdem polcsl ex
locis infirmari. Nibil cnim considerandum est in bis omnibus
invenlionibus, nisi id, quod personis aut negotiis attributura est. Quare
invenlioucm et argumentalionum expolitioncm ex itlis, quac snlc
praecepta sunt, liane quoque in parlem orationis IransTcrri oportebil.
Verumtamen, ut quacdaui praeccplio detur liuius quoque partii, cipouenius modos
reprehensionis ; quos qui obscnabuut, facilius ca, quac conira dicenlur,
dilucre aut infirmare potcrunl. Omnis argunienlatio repreliendilur, si
aut ex iis, quac sinopia sunt, non concedilur aliquod unum plurale, aut, his
concessi!, complexio ci iis conGci ncgalur, aut si gcnus ip s uni
argumcnlatiunis «itiosum oslendilur, aut si contro firmam argumcnlaliunem
alia aeque firma tcria che s' ha in mento, non si crederebbe
che passasse quella si grande distanza che pur passa dai sommi ai
mediocri oratori. È poi di troppa necessità variare il discorso, poiché
in tulle cosa la somiglianza d madre di stucchevolezza. Detrassi variare,
se entreremo nell’ argomentazione ora d' uno, ora di un altro modo : perchè
innanzi a lutto conviene aver l' occhio di ornare il discorso con
la varietà delle argomentazioni, voglio dire, Tar uso ora della
induzione, ora del raziocinio. Inoltre nella argomentazione istessa non
va bene cominciar sempre dalla proposizione, nè sempre Tare, sto
per dir abuso, delle cinque parti, nè rafTazzonar alla stessa guisa i membri
deU’argomcnlaxiunc ; ma ora giova cominciar dalla proposizione minore, ora
dalla prova dell' una, o da ambe le prove delle due proposizioni, ora da
questa, ora da quella specie di chiosa. Perchè questo si possa ben
ullncìare e scorgere, Tacciamone prima una bozza di scrittura, cd
esercitiamoci in qualche csempio relativo alla materia che dobbiamo trattare :
Tatto questo, la varianza nel discorso ne verrà più agevole a introdurre.
Mi pare di aver detto a bastanza sopra le parti dell'argomentazione.
Voglio però che s’ intenda come io so bene che in filosofia le
argomentazioni si maneggiano per altri modi, che paiono oscuri, intorno ai
quali v’ha un sistema proprio di trattazione. Ma io credo che quei modi
non si conTacciano punto con gli usi oralorii. I modi che si debbono
seguire nelle orazioni io non dirò d'avcrli avvertiti meglio degli altri
; ben Tu Tede d'avcrli cerchi con più diligenza, e scritti con più
precisione. Ora, come ho proposto, passerò alle altre cose che sono
ordinatamente da dire. ConTulazionc è quella parie del discorso,
per la quale col mezzo degli argomenti si ribalte, o s'indebolisce, o si
scema la contermazionc degli avversarii. La cunTutazione dee attingere
allo stesso Tonte d'iiivcnlive, a cui attingono le prove, poiché per gli stessi
modi onde una cosa comprovasi, la si può altresì confidare. I’erò in queste
inventile si dee aver mira di non far uso se non di quello che può esser
appropriato alle persone o aile cose. Ond’è die anche in questa parte
dell'orazione si dee ripetere quanto s’è insegnalo prima circa al trovare
le argomentazioni e all’ a frazionarle come conviene. Nondimeno perchè anche
questa parte abbia in proprio qualcosa di regole, metterò innanzi i modi
onde si può fare la confutazione: i quali daranno all' oratore di polcrc
più leggermente ribattere e indebolire le obbiezioni che gli
fossero poste in mezzo. Si confula ogni specie di argomentazione col
ricusar di concedere uno o più puuli di quelli diedra pigliati per aut
flrmior ponilur. Ex iis, quae sumuntur, ali. quid non concedilur, quum
aut id, quod credibile dicunt, ncgatur esse oiusmodi, aul, quod comparabile
putanl, dissimile ostenditur, aul iudicalum aliam in partcm traducilur, aut
omnino iudicitim improbnlur, aul, quod signum esse adversarii dixerunl,
id eiusmodi ncgatur esse, aut si complexio aut una, aul ulraque ex parte
reprehendilur, aut si enumeratio falsa ostenditur, aut si simplex
conclusio falsi aliquid conlinere ilemooslratur. Nani omne, quod sumitur ad
argumenlandum site prò probabili sire prò necessario, neccsse est sumaturex bis
locis,ulante ostendimus. Quod prò credibili sumplum crii, id inflrmabilur,
si aut perspicue falsum eril, hoc modo: Remo est, quin pecuniam, quam
sapirnliam mali! ; aut ex contrario quoque credibile aliquid habebil, hoc modo:
Quis est, qui noti oflicii cupidior, quam pecuniacsil? aut erit omnino
incredibile, ut si aliquis, quem consto! esse avarum, dica! alieni)»
mediocris oflicii causa se maximani pecuniam neglexisse;aut si, quod in
quibusdam rebus ant hominibus accidit, id omnibus dicitur usu venire, hoc
paclo: Qui pauperes surit, iis anliquior officio pecunia est. Qui locus desertus est, in
eo cacdctn factam esse oporlet. In loco celebri homo occidi qui poluit ? aut si id, quod raro flt,
Aeri omnino negatur, ut Curio prò Fulvio: > Nemo potest uno
aspectu ncque praetericns in amorem incidere. > Quod autem prò signo
sumetur, id ex iisdem locis, quibus eoofirmatnr , inlirmabilur. Nam
in signo primum verum esse oslcndi oporlet; deinde esse eius rei signum
proprium, qua de agitar, ut cruorem caedis ; deinde factum esse quod non
oportuerit, aut non factum quod oportuerit; postremo scisse eum, de quo
quaerilur eius rei iegcm et consuetudinem. Nam eae res sunt signo
altributae ; quas diligenlius aperiemus, quum separatim de ipsaconieclurali
constilulione dicemus. Ergo liorum unum quidquc in reprehensione,
aul non esse signo, aut parum magno esse, aut a se potius.qusm ab
adversariis stare, aut omnino falso dici, aut in aliam quoque suspicionem
duci posse demonstrabilur. mano, o col negare, quando pur si
concedano, che si possa Irar da essi la pretesa illazione, o col
far apparire viziosa quella tale argomentazione dell’avversario, o se ad una
argomentazione forte se ne contrapponga un'altra egualmente forte, o più
forte di quella. Dei detti punti si ricu-a di concederne uno o più,
quando si oppone non esser credibile ciò che ci vien dato per tale, o
si mostra essere di specie diverse le cose che ci si vorricno dare
per paragonabili, o si devia il giudichi da un punto per fermarlo sopra un
punto secondario, o il giudicio stesso si riprova in lutto; o se si
nega essere indizio o segno quello che dagli avversarii si caratterizza per
tale, o se si ribatte la conclusione del raziocinio come non corrispondente ad
una o ad ambedue le premesse, o si mostra falsa la enumerazione, o si
dimostra che almeno la chiusa contiene alcun che di falso. Poiché
ogni punto che si adopera per fare l'argomentazione, sia rispetto al probabile
e sia al necessario, non può che non sia preso di qui, siccome addietro io
dimostrai. XUII. Ciò che ci sarà dato per credibile, si abballerà, o clic
evidentemente sia falso, come sarebbe il dire : Nessuno è che non ami meglio
il danaro che la sapienza; o che abbia qualcosa di credibile in
confronto del contrario, come se si dicesse: Chi v’ha che non abbia più voglia
di una carica,che di danaro? o che sia affatto incredibile, come
sarebbe se alcuno, clic si sa essere un gretto, una pillacchera, dicesse
d’avere un ufficio mediocre anteposto a una cospicua somma di danaro: o
se ciò che abbatte solo a certi uomini o cose si dicesse esser solilo
abbattere a lutti, come sarebbe il dire: Chi è povero ha più a caro il
soldo che non un ufficio pubblico. In luogo solitario dee certo
essersi commessa l’uccisione. In luogo frequentalo come potè un uomo
essere tolto di vita? o se quello che accasca di raro si dicesse che non
accasca mai, come disse Curio in quella a prò di Fulvio: a Nessuno può
lasciarsi andare in amore al veder di passaggio e a prima giunta una
persona. » Quando qualche incidente verrà preso per indicio e segno, esso
si abbatterà con quegli stessi argomenti, con che si avvalora. Perocché, la
prima cosa.deo mostrarsi ch’esso è segno vero; dipoi che i un segno
proprio della cosa di che si (ratta, come il sangue è segno di uccisione;
inoltre, che fu fallo ciò che punto non si doveva, o non fatto ciò
che pur dovevasi; da ultimo, che l’ accusato sapea troppo bene a che
legge quel tal fatto e a die consuetudine si opponeva. Queste son le
cose che si riferiscono al segno, delle quali darò più distinta
spiegazione quando mi verrà da parlare separatamente delle cause
congetturali. Or dico Quum autcm prò comparabili nliquld in ducetur,
quoniam iti per simililudincm maxime Iraclalur, in rcprehendcndo
convellici simile id negare esse, quod conferelur, ei, qnicum confcrelur.
Id Ceri poteri!, si demonstrabilur diversum esso genere, natura, vi,
magnitudine, tempore, loco, persona, opinione ; ac si, quo in numero
illud, quod per simililudincm adfcrelur, et quo in loco hoc, cuius causa
adferetur, haberi conveniat, ostcndclur. Deinde, quid res cum re
ditterai, demonstrabimus: ex quo doccbimusaliudde co, quod
eoniparabilur,et de eo,quicum comparab itur, exislimari oporlere. liuius
facullalis maxime indigemtis, qtium ea ipsa argumcnlatio, quac per indùclionem
Iraclalur, eril reprehendenda. Sin iudicalum aliquod inferelur, quoniam id ex
bis locis maxime firmalur: laude corum, qui iudicaruut;
similitudine eius rei, qua de agiiur, ad cam rem, qua de iudicatum est;
et commemorando non modo non esse reprebensum iudicium, sed ab omnibus
approbalum ; et dcmonslrando difilcilius et maius fuissc id iudicatum
quod adleralur, quam id, quod inslet : contrari» locis, si res aut
vera, aut veri similis permittet, inCrmari oporlebil. Alque crii
observandum diligentcr, ne niliil ad id, quo de agalur, perlincal id,
quod iudicatum sii ; et videndum, ne ea res proferalur, in qua sii
offensum, ut de ipso, qui iudicaril, iudicium (ieri videatur. Oportet
aulem animadverlere, ne, quum aliler sint multa iudicata, solitarium
aliquod aut ramni iudicatum adleralur. Nani bis rebus auctorilas ìudicali
maxime potesl inCrmari. Alque ea quidem, quae quasi probabilia sumentur,
ad Iiudc modum tentari oporlebil. Quae vero siculi necessaria
induccnlur, ca si Forte imilabuntur modo necessariam argumenlationem,
neque crunt eiusmodi, sic reprehendentur. Primum complexio, quae, ulrum
con adunque che nella conFutatione s’ha a dimostrare qualcuno
di questi punti, ciò sono, o quel tale non esser segno del Fallo, o
esserlo troppo lieve, o star a vantaggio dell' oratore più che degli
avversarli, o esser dolio segno Falsamente, o poter esso dar sospetto che
l atrare sia ben d' altra maniera. XLIV. Allorché vten posto in campo
alcun che siccome paragonabile, essendo che questo sì tratta per mezzo
della similitudine il più delle volte, converrà nella confutazione
asserire clic il paragonalo manca di somiglianza con quello a cui si
paragona. Il che si potrà fare, dimostrando che Fra l'uno e l'altro v’ha
diversità nel genere, nella natura, nella Forza, nella grandezza, nel
tempo, nel luogo, nella persona, nell' opinione; o dimostrando in qual
conio c pregio s'Im da tenere il punto che si reca per istituire la
somiglianza, in quale quello con die esso si vuol ragguagliare.
Dipoi si dimoslrcrà in che risieda la diOcrcnza da cosa a cosa; e di qui
si verrà significando altra essere l'idea che s'ha da avere di ciò che
paragonasi, altra l’idea di ciò con che quello si paragona. I)i questa qualità
d’argomentazione abbiam mestieri massime allora che saran da confutare
gli stesa! argomenti della induzione. Se verrà esposto qualche
punto già passala in giudicio, siccome esso si rafTerma c consolida o con
la lode di quelli clic giudicarono, o col mostrare la somigliania
che v'ha Ira la cosa giudicala c quella che trattasi attualmente, o col
rammentare che il giudicio non pure non ebbe biasimo, ma che anzi tulli
se no sono lodali, o col mettere a vedere che il punto giudicalo
era più rilevante c più difficile del paolo che non ancora ha subito il giudicio;
se verri esposto, dico, questo tal punto, converrà confutarlo col mezzo
de’ luoghi contrarli, secondo che il fallo o vero o vcrisimile lo
permetterà. Sarà altresì da attendere con diligenza che ciò che trattasi abbia
relazione a ciò die Fu giudicato, ma vedere che non si ripeta cosa in die il
giudice abbia posto il piede in Fallo e incespicalo, a causa che
non paia che si voglia Fare il giudicio delio stesso giudicatore.
Conviene anche osservare clic se molli punti furono diversamente giudicati, non
si alleghi qualche punta isolalo c non troppo solilo n venire in
giudicio; poiché per questa via si può addcbolirc l'autorità dd giudicio
che Tu fatto. A questo modo adunque converrà che sien maneggiati gli
argomenti che si allegheranno siccome probabili. XLV. Quelli poi
che si allegassero siccome necessarli, se per avventura imiteranno
l’argomentazione necessaria, senza però esser necessari), si confuleranno
di qucsla maniera. Innanzi a tutto cesserò, Betel lollerc, si «era esl,
numquam reprchendelur ; sin falsa, duobus moilis, ani conversione, aul alterius
parlis inflrroalione. Conversione, hoc modo: «Nani si vcri'lur,quid cum
accuies, qui est probus? Sin inverecundum animi ingenium possidet,
Quid eum accuscs, qui id parvi audilu acslimd?» llic, sive vereri diieris,
conccdcndum hoc pillai, ul neges esse accusandum. Quod conversione
sic reprehendetur : linmo vero accusandus esl. Nam si vcrclur,
accuses ; non cnim parvi audilu acslimabit. Si inverecundum animi ingenium
possidet, la me n accuscs; non cnim probus esl. Allcrius autem parlis
infirmaliono hoc modo rcprcheiidclur: Verum si vcrclur, accusalionc lua
corrcclus ab erralo recedei. Enumcralio vinosa intelligilur, si aul
praeterilum quiddam dicemus, quod velimus concedere, aut infirmimi
aliquid adnumcralum quod aul conira dici possi!, aul causa non sii quarc
non honeslc possimus concedere. Praclcrilur quiddam in ciusmodi
cnumeralionibus : Quoniam habes islum equum, aul cnicris oporlct, oul
hcreditale possidcas, aul muncre accepcris, aul domi libi ualus sii, aul,
si horum nihil est, surripueris neccssc est : sed neque enusli, neque
hcrcdilale venil, ncque doualus est, neque domi nalus esl ; Decesse
esl ergo surripueris. Hoc commode reprehendilur, si dici possil ex hoslibus
equus esse captus, cuiua predac seclio non venierii ; quo iliato,
infirmelur enumcralio ; quoniam id sii induelum, quod praeterilum sii in
enumeralione. Altero autem modo rcprchendilur, si aul conira aliquid
dicelur, hoc est , si esempli causa ut in eodem versemur, poteri! oslendi
hcrcdilale venisse; aul si illud estremimi non crii turpe concedere, ut
si qui, quum diserint adversarii : Aut insidias faccre voluisli, sul
amico morem gessisi!, aut cupfdilale clalus cs, amico se morem
gessisse faleaiur. Simplex aulem conclusio reprehenditur, si hoc,
quod sequilur, non videalur necessario cnm eo, quod anleccssit,
cohacrere. Nani hoc quidem ; Si spirilum ducil, vivil : Si dics esl, lucei
! ciusmodi esl, ut cum priore necessario posterius cohacrere
videalur. Hoc aulem: si maler est, diligi! : Si aliquando peccavi!, numquam
corrigelur ! tic convellici reprehendi, ul demonslrolur non ne
non si confuterà mai il dilemma, il quale da sè dee togliere o
l'uno o l'altro dei punii conceduti, se è dilemma vero; o se falso, si
confuterà in due modi, o invertendo, o abbattendo l'ima o l'altra
proposizione. Si inverle cosi: a S’cgli sente rossor, perchè l’accusi,
Mentre è da por fra i buoni ? Se affolli inverecondi in seno ha
chiusi, Perchè ne lo incagioni, Mentre d'aver infamia ei non si
cura?! Qui, sia che lu dica esser verecondo costui, sia che
inverecondo, l'avversario le lo concede, affinchè lu dica clic e' non si dee
accusare, àia lu confuterai cosi per inversione: Anzi ei dee pur
accusarsi, giacché se è verecondo, si dee, perchè non porrà a non calere
la infamia; e se nulre affolli inverecondi, si dee dot pari, poiché non è
punto persona proba. Se poi lu vorrai addebolire l’una delle due
proposizioni, dirai cosi: che s'egii è pur verecondo, venendosi per la
tua accusa a emendare, si cesserà dal suo fallo. La enumerazionc si parrà
difettosa, o se riporteremo qualche punto già omesso, il quale vogliamo
concedere, o se nell’enumerazione si sarà inserita qualche cosa mal
fondala, la quale o possa essere contraddetta, o non offra ragione perchè
onestamente la si possa concedere. Un esempio di punto omesso si ha
nella seguente enumerazione: Poiché lu hai questo cavallo, è inevitabile
elio tu o lo abbi compero, o acquistato in eredità, o avuto in dono,o che
li sia nato in casa: che se nessuna è vera di queste eose.lu lo del cerio
aver rubalo. Ma nè l'hai compero, nè acquistalo in eredità, nè avuto in dono,
nè ti è nato in casa; è necessario dunque che lu l'abbi rubato. La
confutazione qui viene a taglio, se si può dire che il cavallo fu (olio
ai nemici, ma clic non era compreso nella parte di preda che fu venduta.
Aggiunto che sia questo, la enumerazione verrà riballula per difettosa,
poiché s'é posto in campo un punto che v’era stalo pretermesso.
XLVI. Si fa la confutazione in secondo modo, se si contraddirà un qualche
punto, voglio dire, per attenermi all'esempio testé citato, se si
potrà mostrare che colui ebbe quel cavallo per eredità: ovvero se
un tal punto si potrà ultimamente concedere senza vergogno, come se, dicendo
gliavversarii: 0 tu hai voluto tender insidie, o fare a fantasia dell'amico, o
li se'lasciato vincere alla cupid già, si rispondesse: si, ha fallo a fantasia
dell'aulico. Si confuta la conclusione sola, se Cièche segue non sembra
legarsi necessariamente con ciò die precesse. Queste conclusioni: Se
respira, dunque vive; se è giorno, dunque è chiaro; son tali clic
il detto poi si lega necessariamente col detto prima: laddove queste: Se è
madre, dunque ella Cessarlo cum priore posterius cobaerere. Hoc genita cl
celerà necessaria, et omnino onmis arguinenlalio, el eius reprcliensio maiorem
quamdam vini cornine!, el lalius palei, quam hic esponilur; seti
eius arlilicii cognilio ciusmodi esl, ni non ad buius arlis parlem aliquam
adiungi possil, sed ipsa separatine longi lemporis et magnae alque arduac
cognilionis indigeni. Onore illa nobis alio tempore alque ad aliud
instilulom, si facullas crii, explicabuntur; nunc bis pracceplionibus
rbelorum ad usum oralorium conlcnlos non esse oporlcbil. Quum
igilur et iis, quac sumunlur, aliquid non concedilur, sic
iulirmabllur. Quum aulem, liis concessis, complciio ei bis non
conOcilur, hacc erunl considerauda : mi in aliud conficialur, aliud
dicalur hoc modo : Si, quum aliquis dical se profeetum esse ad exerrilum,
contro eunt quis tclil bac uli argumcnlalionc: Si venisses ad excrcitum, a
tribunis mililaribus visus esses ; non es aulem ab bis visus; non cs
igilur ad exercilum profcclus. llic quum concesseris proposilioncm ut
adsumplioncm, coinplexio est inlirmamla. Aliud enim, quam cogebalur,
illulum est. Ac nunc quidem, quo facilius res cognosccrelur, perspicuo el
grandi vitio pracdilum posuiwus ciemplum; sed saepc obscutius
posilum vilium prò vero probalur, quum aul parum meniiucris, quid concesseris,
aut ambiguum aliquid prò certo conccsseris. Ambiguum si concesseris
cs ea parte, quam ipse intcllexeris, eam parlem si adversarius ad aliam
parlem per complciioncm veli! accommodare, demonslrare oporlcbil non
ci eo, quod ipse concesseris, sed ex eo, quod ilio sumpseril,
confici complexionem, ad liunc mollimi : Si indigelis pecuniac, pccuniam non
babetis ; si pccuniam noti habetis, pauperes eslis : indigelis autem pccuniae :
mcrcalurae enim, ni ila cssel, operano non darelis : pauperes igilur
eslis. Hoc si rcpreheqdilur: Quum diccbas : Si indigelis pccuniae,
pccuniam non habetis ; hoc inlclligcbam : Si propler inopiam in egcslatc eslis,
pecuniam non habetis ; et idcirco concedebam : quum aulem hoc sumebas :
Indigelis autem pecuniac ; illusi accipicbam; Vullis aulem pecuniac plus
ha bere. Exquibus conccssionibus non coulìcilur hoc: I auperes igilur
eslis ; eonilcerelur aulem, si libi primo quoque bue conccssissem, qui
pccuniam maioreui velici babere, cum pccuniam non habcrc.
ama: Se una volta ha fallalo, dunque dal suo fallo non si
correggerà più mai ; converrà vengano confutate in modo che si dimostri
il detto poi non collegarsi col dello innanxi. Queste e le altre
argoinenlaiioni necessarie, ansi al tulio ogni argomentazione con le relative
risposte coufulaloric hanno una forza maggiore, e pigliano più del largo
clic qui non è dello; ma il conoscerne l'arlifizio è cosa che non si può
trattare in unione con veruna di queste parti della retorica,
perchè vorrebbe per se sola una trattala assai lunga, cd esigerebbe
di grandi c difficili cognizioni. A tema sifTallo io darò mano, se pure io ne
avrò il potere, quando me ne verrà acconcia altra occupazione: per ora
conviene ch'io mi stia contento a porger questi precetti retorici relativamente
all'uso che n’ ha da far l'oratore. Cosi dunque, come detto è, si
ribalteranno i punti clic non si vuol concedere. Qualora poi, concessi
che sieno i punii, non ne vien traila una cnnclusione che quadri,
si dovrà osservare se sia stato conchiuso diversamente da quello che
comportano le premesse; come in quesla argomentazione, dalo che un tale
volesse opporre a un lai altro che dicesse d’essersi mosso in via per
l'esercito: Se tu fossi venuto all'esercito, saresti stato veduto da'lribuni
militari; ma non sci stalo da loro veduto: tu dunque non ti
se'mcsso in via per aU'esercilo. Qui tu concederai la maggiore e la minore, ma
dovrai confutar ta illazione. Per dire il vero, a causa che si intendesse
meglio quello che io dico, ho qui allegalo un esempio che ha un difetto
grave o facile ad esser conosciuto; ma avviene di sovente che per essere il
difetlo poco riconoscibile, si piglia per vero quello che non lo é ; e
ciò avvidi quando o non avrai bene a memoria quali punii lisi conceduti,
o avrai conceduto per cerio quello che non era che ambiguo. Se
avrai concesso l'ambiguo in quella premessa che li era noia, conterrà che
l'avversario, se vorrà connettere quella premessa con un' altra per
mezzo d' una conclusione, dimostri che non dal punto che tu bai conceduto,
ma da quello elio egli ha introdotto si trae la conclusione. Per esempio
: Se bisognate di danaro, dunque voi non ne avete : se non nc avete,
dunque siete poveri: ma di danaro voi bisognale, poiché so ciò non
fosse non vi sareste dati alla mercatura : dunque sicle poveri.
Questa argomentazione si confuta cosi : Quando dicevi : Se bisognale di
danaro, dunque voi non nc avete, io ci capiva : Se per sostenere
inopia siete in bisogno, dunque non avete danaro; eper questo io
concedeva. Quando poi lu aggiungevi : àia voi bisognate di danaro; io invece
trovo clic dovevi soggiungere : Ha volete venir iu più Saepe autem
oblilum pulanl, quid concesseris, et idcirco id, quod non conficitur,
qnasi conficialur, in conclusione infertur, lioc modo: Si ad illum
hercdilas vcniebat, veri simile est ab ilio necalum. Deinde hoc approbant
plurimis terbis. Tosi adsmnunt: Ad illum autem hcredilas vcniebat. Deinde
inrertur: lite igilur occidil; id quod ex iis, quae sumpserant, non
conficitur. Quare
observare diligenlcr oportcl, et quid sumatur, et quid ex his
conficialur. Ipsum autem genus argumentalionis vitiosum his de causis
ostendelur, si aul in ipso viliuni crii, aut si non ad id, quod
inslituit, accommodatiilur. Atque
in ipso vitium crii, si omnino totum falsum erit, sì commune, si vulgare,
si leve, si remolum, si mala dellnitio, si controversum, si perspicuum, si non
concessimi, si turpe, si offensum, si conlrarium, si inconstans, si
adversum. Falsum est. in quo perspicue mcndacium est, hoc modo: Non polesl esse
sapiens, qui pccuniam negligi!. Socrates autem pecuniam negligebal:
non igilur sapiens crai. Commune est, quod pillilo magis ab adversariis,
quam a nobis fucil, hoc modo: Idcirco, iudices, quia vcram causam
habebam, brevi peroravi. Vulgarc est, quod in aliam quoque rem non
probabilem, si none concessum sii, transferri possi!, ut hoc: Si
causam vcram non haberet, vobis se, iudices, non eommisissct. Leve est,
quod aut post tempus dicilur, hoc modo: Si in menlem venisset, non
commisissetiaut perspicue lurpem rem levi legere vult defensionc, hoc
modo : a Quurn le expetcbanl omnes, fiorentissimo Regno rcliqui :
nunc dcserlum ab omnibus Summo pcriclo, solu' ut restituam paro.
> XI Remotum est, quod ultra quam satis est,
petitur, huiusmodi : Quod si non P. Scipio Corneliam filiam Ti. Giaccho
collocasset, atque ex ea duos Gracchos procreasse), tanlae seditiones
natae non essenl ; quare hoc incommodum Scipioni ascribendum videtur. ltuiusmodi
est illa quoque conquestio : « t'iinam ne in nemore Pelio
securibus a Coesa accidissct abiegna ad terroni Irabcs I copioso danaro.
Dalle quali concessioni non s' inferisce già: Voi dunque siete poveri.
Inferirebbcsi bensì, se io t’ avessi prima concedutoianchc questo. che
chi vuol venire in più copioso danaro, ei non ha donaro. Spesse volte
credono gli avversarli che tu li sii smcniicato ciò che bai conceduto,
epperò mcltono nella conclusione come inferito ciò che non lo fu,
per esempio: se toccava o lui l’eredità, è verisimilc che da lui l’ infelice
sia sialo ucciso ; e a provar questa illaiione si distendono in
parole. Indi vengono alla proposizione minore: Ma l’ erodila toccava a
lui. In fine conchiudono: È egli dunque l’ uccisore : il che dalla delta
premessa non si può inferire. Il perchè si vuole avvisar con
attenzione c ciò che vien aggiunto alla minore, e ciò che giustamente sia
da conchiuderne. Questa specie di argomenlazionc si mostrerà esser
viziosa o per l'uno o per Patirò de’ seguenti capi, cioè se il
difetto risederà in essa, e se essa non sarà acconcia al punto che si trossina.
Risiede il difetto nella argomenlaxione, se essa è al latto falsa, se
comune, se volgare, se leggera, se rimota, se inchiude una definizione
errala, se ì questionevolc, se perspicua, se inopportuna, se turpe, se
offensiva, se rontraria, se inconsunto, se avversa. E falsa quando vi si
avvista chiara la menzogna, come sarebbe: Non può esser sapiente chi fa
nessun conto dei danari: ma Socrale di danari non facea conto veruno: non
era dunqne sapiente. Comune è quando non giova n enie più a noi che agli
avversarli, come a dire : Per ciò, giudici, io mi spacciai di corto, perchè
avea per le mani una causa giusta. Volgare è quando essa può accomodarsi, se ne
venga il concio, anche a un' altra cosa non probabile, come il dire: Se
non avesso dai suo lato la giustizia della causargli, o giudici, non si
sarebbe affidalo a voi. È leggera, so si diresse dopo il suo tempo,
per esempio: Pur che se ne fosse ricordalo, non avrebbe commesso il lai
fallo: o se volesse con lieve difesa giustificare un'azione aperta mente
turpe, come qui: « Quando avevi amicizie e in fior il regno, Olii
poco io l' essendo, ito ne sono. Or die perigli, e t' han già tulli a
sdegno, Peno so! io di ritornarti in trono, a E rimota
l'argomentazione, quando si pianta da punti più ionlanichcnon bisogna,
come la seguente : che se P. Scipione non avesse collocala la
figlia Cornelia in matrimonio a Tiberio Gracco, o non avesse da lei avuti
nipoti i due Gracchi, non sarebbero addivenutesi gravi sedizioni: il perchè
questo infortunio s'ha da riputare a Scipione. Di fatta simile ì altresì
quel lagno che siiegge in Ennio : iDngius cnim reputila est, quam rcs
postulibal. Mala (leQnilio est, qiium aut communia deseribit, hoc
modo: Scdiliosus cstis, qui inalos atque inulilis est civis (nam hoc non magis
seditiosi, quam anibiliosi, quam calumniatoris, quam alicuins hominia
improbi vini deseribit); aut falsum quiddam dicil, hoc pacto : Sapientia
est pecuniae quaerendno inlclligentia ; aut aliquid non grave ncc magnum
conlinens, sic: Stullilia est immensa gloriae cupiditas. Est liaec quidem
stullilia, sed ex parte quadnm, non ex omni genere definita. Controvcrsum
est, in quo ad dubium demoustrandum dubia causa adferlur, hoc. modo : x
Elio tu, di, quibus est polestas motus superùm atque inferòm, l’accm
iulcr scse conciliant, confermi! concordino]. a l’erspicuttm est, de quo
non est controversia, ut si qui, quum Orcstcn accuset, planimi
facialab co malrem esse ocrisam. Non concessum est , quum id, quod
augetur, in controversia csl, ut si qui, quum Ulixen accuse!, in hoc
maxime commorclur : Indignimi esse ab liomine ignavissimo virum
fortissiinum Aiacem necalum. Turpe est, quod aut co loco, in quo dir-ilur, aut
co Domine, qui dicil, aut co tempore, quo dicilur, aut iis, qui
audiunt, aut ea re, qua de agitur, indignum propter inhonestam rem videtur.
OlTensum csl, quod corum qui audiunt, voluntatem laedit: ut, si qui
apud cquilcs Homnnos, cupidos iudicandi, Caepionis legem iudiciariam
laudcl. Conlrarium est, quod contra dicilur atque li, qui audiunt,
fccerunl: ut si qui apud Alcxandrum Maccdonem conira aliquem urbis
expngnalorem dicerct uiliil esse crudelius, quam urbes diruerc,
quum ipsc Alexander Tlicbasdiruissel. Inconslans est, quod ab codem de
eadem re diverse uicilur : ut si qui, quum dixeril, qui lirlutcm
Italica!, cum nultius rei ad bene vivrndum indigere, neget postea sinc
bona valetudine posse bene vivi : atti, se amico adesse proplcr
benevolentiam, sperare tamen aliquid commodi ad se pervenlurum. Advcrsum csl,
quod ipsi causac aliqua ex parte oIDcil, ut si qui hoslium vini et copias
et felicitatoli au gcat, quum ad pugtiandum mililcs adhortetur. Si non ad id, quod insliluilur,
accommodubilur aliqua pars argumenlalinnis, borimi aliquo in vitio
reperielun si plura pollicilus pauciora dcmonslra poiché è ripetuto
da più lontano che la circostanxa non richiedeva. Incltiude definizione
errata, quando o spiega cose comuni, a questo modo ; Sedizioso è colui che fa
da cattivo c inutile cittadino (poiché questo spiega il carattere del
sedizioso né più nè meno che del calunniatore, del rollo alla
ambixione, e di altri malvagi); o dice alcun che di falso, a questo modo:
È sapicnxa I’ essere esperto a cercare danaro; o contiene alcun che di
non graie nè grande, come : È stoltezza un' immensa brama di
gloria. Anche questa, 6 vero, è una specie di stoltezza, ma non è
definita che per parte, e non nella sua generatili. Qucslionevolc è I'
argomentazione, quando per dimostrare una cosa dubbia si reca un' altra
cosa o un esempio dùbbio, come il seguente; « Con me far cruccio ?
ve’ gli dei contenti D'csser concordi e consigliarsi a pace: E sì
che a scombuiar ci son possenti Quanto v’ ha in cielo, e quanto in terra
giace. Perspicua è l' argomentazione, quando contendo sopra un
punto chiaro e confessato ; come chi volendo accusare Oreste, dimostrasse
ch'egli ha uccisa sua madre. Inopportuna è quando ciò che si
amplifica è il punto stesso della controversia, come allora che alcuno,
accusando Ulisse, si fermasse specialmente in questo: È cosa indegna cito
il fortissimo Aiace sia stato morto da uu uomo così vile come se mai
alcuno. Turpe, è quando per la vituperevole cosa eh' essa tratta riesce
indegna o del luogo in che la si dice, o della persona che la
espone, o del tempo in che viene esposta, o di quelli che l’ascoltano, o
della causa stessa che si trassina. Offensiva è, se si urlano le voglie
degli uditori, come se alcuno alla presenza dei cavalieri Romani, vogliosi
d'esser soli in fare i giudicii, lodasse la legge giudiciaria di Cepionc.
L. Contraria è quando si parla contro a ciò che fecero quelli clic
stanno ad udire, come se alcuno in presenza di Alessandro Magno, movendo
rampognosc parole coui ro alcuno che avesse espugnata una terra, si dicesse non
v’ esser fallo più crudele che il dare a terra una città, mentre lo
stesso Alessandro avea dato a terra la città di Tebe. È incostante se lo stesso
oratore, dopo aver parlalo a un modo di una cosa, ne parli poi a modo
diverso; come chi avendo prima asserito che chi possedè la virtù non
difetta di nulla al ben vivere, dicesse poscia che senza prospera salute
non si può viver bene;o se dicesseche ei favoreggia l'amico per sola
bonevoglicnza,ma che tuttavia spera sia per venirgliene qualche buon
servigio. Avversa è, quando in qualche parte nuoce alla stessa causa,
come se chi è suii’csortare i soldati a coni bit; aut si, qmim tolum
debebit ostcndcrc, de parte aliqua loquatur, hoc modo: Mulicrum
gcnus avarimi est ; nam Eriphjla auro viri vitam vendidii : aut si non
id, quod accusabilur, defcndcl, ut si qui, quum ambitila accusabilur,
manu se forlem esse defcndcl; ut Ampbion apud Euripidcm (ilem apud
Pacuvium ), qui vituperala musica, sapicntiam laudai ; aut si rcs ex hominis
vilio vituperabilur, ut, si qui doctrinam ex aiicuius docli vilio
reprebendat ; aut si qui, quum aliquem volet laudare, de felicitate cius, non
de «inule dica! ; aut si qui rem cum re ita comparabit, ut alleram
se non pulci laudare, nisi alleram vituperanti aut si alleram ita
laude!, ut alterius non faciat mcntiotieni ; aut si, quum de certa re
quacrelur, de communi iiisliluctur oralio, ut, si qui, quum aliqui dcliberenl,
bellum gerani an non, pacem laude! crollino, non illud bellum inutile esse
demonstret ; aut si ratio aiicuius rei reddetur falsa, hoc modo :
Pecunia bonum est, proplerca quod ea maxime vitam bealam cflicial ; aut
si infirma, ut Plautus : • Amicura castigare obmerilam noxìam.
Immune est facinus ; veruni in aelatc utile Et conducibile ; nam ego
amicum hodic incum Coneastigabo prò commerita noxia, Invitus , ni
me id invitcl ut faciam fldes : a aut eadem hoc modo : Maximum malum est
avarino; mullos cnim magnis iucommodis adfccit pecunie cupidilas ; aut parum
idonea, hoc modo : Maximum bonum est amicitia; plurimae enim sunt '
deleclalioncs in amicitia. Quartus modus era! reprehensionis, per
quem conira Ormam irgumcnlationem aeque firma aut firmior poncbalur. Hoc genus
in delibcratìonibus maxime versabilur, quum aliquid, quod conira dicatur,
aeqtium esse concedimus, sed id, quod nos defendimus, neccssarium esse
demonstramus ; aut quum id, quod illi defendant, utile
battere, esaltasse la fortezza dei nemici, il numero, la feliciti delie
altre lor pugne. Quando alcuna parte dell’ argomentazione non s'
acconciasse' bene con ciò che si venne a proporre, sarà difettosa per una
o per un'altra di queste ragioni, cioè se l'oratore dimostrerò meno punti
di quei molti che aveva promesso; o se, quando avrà a mostrare un lutto,
parlerà solo di alcuna parte, come se dicesse: Le donne sono avaro;
poiché Enfila vendette per oro la vita di suo marito; o se nel difendere non
adatterà la difesa a ciò che è posto in accusa, come se colui che fosse
incagionato di broglio si difendesse con dire di esser forte di mano;
come Allibine appo Euripide (e similmente appo Pacuvio), Il quale
parlando a biasimamenlo della musica finisce col lodare la sapienxa;
oppure se sviluperassc una cosa per cagione del difetto d'una persona,
come se alcuno improverasse una dottrina per aver qualche magagna colui che la
possedè; oppure se volendo commendar altrui nc lodasse la felicità, non la
virtù; o quando si facesse paraggio di una cosa con un' altra, e si
credesse di non lodarne questa se non se sriluperando quella; o
quando se ne facesse l' elogio dell' una senta far motto dell'altra;
ovvero se si facesse un discorso applicabile ad ogni questione, mentre
non si tratta che di una questione determinata, come sarebbe se
altri, essendo in deliberare se abbia a farsi la guerra, ovveramente no,
venisse lodando la pace, senta dimostrare se quella guerra sia utile, o
non sia; o quando d'uria cosa si renderà una ragione falsa, come sarebbe
il dire: Il danaro é un bene, perocché esso più clic altro fa felice la
vita; o quando se ne renderà una ragione debole, come in quella di
Plauto: a L'amico improverar del suo malfatto É forte si che ad
un amico incrcscc; Ma se 'I rimproccio in suo momento è fatto, A
laudabile prò pur gli riesce: Ond' io rabbufieronne oggi l'amico.
Ma dirò per amor quello eli' io dico; a oppure in quest' altro esempio:
Gravissimo male è l’avarizia, poiché I' agonia di danaro trasse di
molli a gran mal essere: o se si renderà una ragione poco idonea, come a dire:
Un sommo bene è l'amicizia, poiché in essa si trovano piacimenti
pure assai. LI. S'è detto il quarto modo di confutare esser quello, per
cui a un'argomentazione solida se nc mette incontro una egualmente
solida, opiù solida di quella. Argomentazione si fatta sarà da
usare specialmente nelle deliberazioni , quando concediamo esser retto c
giusto ciò che no vien replicato, ma dimostriamo come quello che
per esse fateamur; quod nos dicamus, honeslum esse demonslremus. Ac
de reprehensione quidem hacc existimavimus esse diccnda. Deinceps mine
de conclusione ponemus. Ilermagoras digressiotiem deinde, lum
poslremani conelusionum pomi. In hac auleni digressione illc pulal
oportere quatndam inferri oralionem a causa alque a iudicalionc ipsa
remolam, quae ani sui laodem, aut adversarii vitupcralioncm conlineat, aut in
aliam causam deduca l, ex qua confidai aliquid confirmalionis aut
repreliensionis, non argomentando, sed augendo per quamdam amplilìcationem.
liane si qui partimi pularii esse orationis, sequatur Ermagoram liccbil.
Nam et augendi et laudandi et vituperandi praccepta a nobis parlim data sunt,
partito suo loco dabuntur. Nobis aulem non placuit batic parlcm in
nutnerum reponi, quod de causa digredì, nisi per locum cominunem, displicet :
quo de genere poslerius est dicendum. Laudes aulem et
vitiiperalioncs non scparalim placet tractari, sed in ipsis
argumcntalionibus esse implicalas. Nunc de conclusione
dicctnus. Conclusio est eiitus et determinano totius orationis.
llaec habel parles tres, cntimeralionem, indignationem, conqueslionem.
Enumeratio est, per quam res disperse et diffuse diclae unum in
locum cogunlur, et reminiscendi causa unum sub aspcctum subjieiuntur.
llaec si semper eodem modolraclabilur, perspicue ab omnibus artificio quodam
tractari intclligetur; sin varie flct, et hanc suspicionem et salictatem sitare
poteri!. Quarc lum oporlcbit ita Tacere, ut plcrique faciunt
propter facildalcm, singillatim unam quamque rem attingere et ita omnes
transire breviter argumentationes; tum aulem, id quod diOlcilius est,
dicere quas partes exposucris iu partitone, de quibus te pollicilus
sis diclurum, et reducere in memoriam quibus rationibus unatn quamque
parlcm confirmaris; tum ab iis, qui audiunt, quaerere quid sii, quod sibi
velie debeant demonstrari, hoc modo ud docnimus, illud planum fccimus. Ita
simul et in memoriam redibit auditor, et pntabit nihil esse
praelerea, quod debeat desiderare. Atque in bis gencribus, ut ante dictum
est, tum tuas argumcutaliones transire scparalim, tum, id quod artiliciosius
est, cum luis contrarias conjungerc; et quum tuam dixeris
argumenlationem, tuum, con no! si difende, è necessario; o quando
confessiamo esser vantaggioso ciò che gli avtcrsarii sostengono, ma esser
onesto ciò che sosteniamo noi. Questo è quel tanto che della confulaxione ho creduto si dovesse dire.
Da qui innanzi tratteremo della conclusione. Ermagora prima di trattar
della conclusione tratta del digresso. In questo ci fa fantasia che
s'abbia da porre un discorso che sia spiccalo dalla causa e dal punto che
ì a giudicare, e clic in tal discorso debba l’oratore far un elogio a sè stesso
o metter in biasimo gli avversarli; ovvero toccar un'altra causa, da ritrarne
alcun che di conferma a suo prò; o di confutazione a donno degli
avversarli, non coll'argomcnlare, ma coll’anncrvar la difesa per mezzo
d'una cotale amplificazione. Chi amasse tener il digrosso per una parte
del discorso oratorio, il tenga pure a suo grado con psso Ermagora; già
dei precetti circa all' amplificare, al dar lode, al muover
biasimo, parte io ne bo dati, e parte a luogo acconcio ne porgerò.
Che se io non pongo il digrosso nel novero delle altre parli, noi pongo perchè
non mi abbclla che si faccia digressione dalla causa se non per
mezzo di qualche luogo comune, spettante a vizio o virtù; ma di questo ò già a
parlare da poscia. Delle lodi e de' biasimi quel che mi resta a
dire non lo tratterò separalamcnlc, perchè io considero e questi c quelle
come innestate nelle argomentazioni stesse. Ora veniamo alla perorazione
o conclusione. La perorazione, o conclusione, è la uscila e il termine
del discorso intiero. Ila tre parli, enumerazione, indignazione,
commiserazione. Enumerazione è quella, per cui si raccozzano in un luogo
solo le cose che si son dette sparsamente qua c là, e si mettono come in
un quadro davanti agli occhi per potersene rammentare. Se 1' enumerazione
si maneggiasse mai sempre di un modo, ognuno verrebbe agevolmente a sospirare
esser essa maneggiala per un cotale artifizio; ma se sia fatta con
qualche varianza, potrassi rimuovere da chi ascolta tanto questo sospetto,
quanto la sazievolezza ingenerala dalla uniformità. Laonde ora
converrà farla, come la fanno di molli alla foggia più facile, voglio dire,
toccar le cose ad una ad una, c cosi passar di volo sopra ogni
argomentazione; ora invece, il che è più forte a fare, ricordar i punti della
partizione di che hai promesso che ti verrebbe da discorrere, e rider alla
memoria le ragioni con che ogni parte bai confermata; e talora chiedere agli
uditori che altro possono volere che loro sia dimostrato, come sarebbe
il dire: Che volete di vantaggio 7 questo io ho fatto vedere, di
quest'auro ho già la evidenza rilevala. Per iti modo e l' uditore potrà
risovvenire che ira eam quoti adTcrcbatur, quemndmodum dilueris,
oslendcre. Ila per tircvcm comparalioncm audiloria memoria «1 de confirmalionc
el de reprchensioue redinlcgrabilur. Atquc liaec aliis aclionis quoque modis
variare oporlebit. Nam luin ex tua persona enumerare possis, ut, quid et
quo quidque loco dixeris, admoncas; tum vero personam aut rem aliqnam
inducere, et cnutneraiionem ei totani atlnbuere. Pcrsonam boc modo: Nam si
legis scriplor exsislal, et quaerat a vobis, quid dubitetis; quid
possilis dicere, quum vobis boc el boc sii demonslralum? Alque hic, ilem
ut in nostra persona, licebit alias siugdlalim transire omnes
argumenlationes, alias ad partilioncs singula genera relerre, alias ab
auditore, quid desidercl, quaerere, alias haec Tacere per cnmparationetn 9
uarum et conlrariaruin argumenlatioiium. Res autem inducetur, si alicui
rei huiusinodi, legi, loco, urbi, monumento oratio allribueliir per
enumerationem, boc modo: Quid, si leges loqui possenl ? Nonne baec apud
vos quaercri nlur ? Quidnam amplius desideralis, judices, quum vobis boc
et hoc planurn factum sii? In hoc quoque genere omnibus iisdem modis uti
licebit. Commune autem praeceptum boc datur ad cnumeralionem, ut ex una quoque
argumentatione, quoniam lotaiterum dici non polesl,id eligalur, quod eiil
gravissimum, et unum quidque quam brevissirne transealur, ut memoria, non
oratio rcnovala videa tur. Indignalio est oratio, per quam
conficilur, ut in aliqurm hominem magnino odium aut in rem gravis
olTensio cnncitcllir. In hoc genere illud primum intelligi volumus, posse
omnibus ex locis iis, qoos In conlirniandi pracceptis posilimus, trattari
iiidignalionetn. Nam ci iis rebus, quac persomi, et quac ncgoliis
ullribulac suol, quaevis ampMficaliones el iiidigualioncs nasci possuiti;
sed lamon ea,quac separalim de indignalio ne praeripi possimi,
consideremus l'rinus locus questo o quello fu dello, e insieme si
persuaderà non v'csserc cosa ch'egli debba di vantaggio desiderare. E
seguendo a dire dei modi con clic si può variare la enumerazione, tu
dovrai, come ho dello innanzi, ora toccar di passo e a parte a parte le
tue argomentazioni; ora, ciò clic domanda più arte, metter vicine delle
tue le argomentazioni dell' avversario; c poscia che avrai tocche le tue,
mostrare come abbi confutale le repliche di quello. Cosi per questo breve
raffronto l'uditore potrà farsi ricorrere alla memoria e la
conferma dei punti ricordati e la confutazione clic se ne fece. E queste
cose medesime si dovranno esporre in modi differenziali, secondo clic
comporterà la specie di orazione: poiché ora potrai enumerare in
persona tua, ricordando quali cose bai dette e a quali propositi; ora
introdurre altra pcr-ona o cosa, e farne far da essa tutta la
enumerazione. S'introduce una persona a questa maniera : Poiché se
esistesse lo scrittore stesso della legge, e vi chiedesse di clic siete
dubitasi, che potreste rispondere ora che vi fu dimostro c questo c
questo? E qui similmente, come iu nostra persona, potremo toccare ad una
ad una le argomentazioni tulle; c alle volle scorrer i singoli capi
secondo le divisioni che si son fatte; alle volle chiedere all' uditore che
altro egli amerebbe, c late altra volle invitarlo a dire se volesse pur
altro dopo avergli messe le nostre argomentazioni a raffronto con
quelle della parte contraria. Si ottiene la enumerazione mercé una cosa, se si
attribuisce il parlare dc'sunmii capi o a una legge, o a un luogo, a
ima città, a un monumento, eccetera. Per esempio: Or clic sarebbe,
se le leggi potessero parlare? non si lagnercbber esse appo voi di cose
s) falle? Che volete di vantaggio, o giudici, mentre vi fu mostralo
a evidenza e questo e questo ? Ne' quali casi si potrà egualmente far uso
de' modi sopra indiroli. Però il precetto sempre applicabile ad
ogni specie di enumerazione é questo, sfiorato anche sopra, che, siccome non si
può ogni argomentazione di bel nuovo ripetere, si dee scegliere da :
ciascuna il punto clic più rileva, e toccarlo alla succinta, tanto che
sia richiamata la memoria del| le cose, non già rifatta la orazione,
LUI. Indignazione é un discorso, per cui si vieti a capo clic sia colto
addossa a qualche persona un odio acerbo, o a qualche cosa una forte c
dura avversione. E qui innanzi a tutto voglio che si sappia come della
indignazione si può trattare con 1’ appoggio di tutti quei lunghi elio ho
svolli nel dar i precetti sopra la confermazione: poiché lutto
quello che s’appropria alle persone c ai Tatti é una Tonte copiosissima,
da cui si può torre quanto bisogna per Tare qualsiasi amplificazione, e per in
121 .'ili siiniilur ab auclorilalc, i|uum commomoranius ,
quanlac dirne rcs ca Inerii, nc per indignationcin oslendilur, ani ad
omnes ani ad majorem parlem, quod alrorissimum esl, ao ad superiorcs,
qitalcs suoi ii, quorum ex attclorllalc indignano sumitur, quod
indignissimunt esl, an ad pnros animo, fortuna, corpore, quod
iniquissinittm esl, an ad iitleriores, quod superbis stimmi esl. Terlius
Incus esl, per quom quoeri tnus qiiidtiam sii evcntiiruni, si idem celeri
fa ciani; el simili oslendinius, buie si concessimi sii, inulliis
aemttlos ejusdem audiciac fuluros; ex quo quid mali sii cvcnluruni,
dciuoiislmbiinus. QuarI its locus esl. per qttem dcniuiislramus mullus alacrcs
«spedare, quid slalualur, iti ex eo, quod otti conecssuni sii, sibi
quoque (ali de re quid li* c.eal, inlelligcrc possinl. Quitilus locus
esl, per quem oslentliinus cclcras res perperatn conslilulas, inlellecla
fCrilale, conimulalas corrigi posse; Itane esse rem, quac si sii semel
judicala, ncque alio ronimulari itidicio, ncque ulla poluslale corrigi
possil. Sexlus locus esl, per quem eonsullo ri de industria faclum
demonstralur, cl illuci ad itingilur, toluulario maleficio vcuiam ilari
non o porlere, imprudenliae concedi iionnuniqtiam convenire. Seplimus
locus est, per quem iudignamur, quod lelrum. crudele, nefariurn,
Ijraimicuni facilini esse dicanola, per vini, matium, opulenllam, quac
res ab legibus el ab aeqtiabili iure rcmolissiinae siili. Octavus locus
est, |>cr quelli demonslratnus non vulgnre ncque faclilalum esse ne ab
audacissimi* qiiidem liomnibiis id malelicinm, de quo agilur; al. pie id
a feris quoque liuminibus cl a barbaris gcntibiis el immanibus bcsliis
esse reinolimi. Dace crunl, quac in parcnles, libcros, conj tgcs,
consanguincos, supplice., erudclilcr far generarci lo sdegno. Ora
perù dubbiamo trattar i preconi clic riguardano la indignazione in
particolare. Il primo luogo oratorio, ovvero sorgente, donde essa si fa
derivare, 6 l'autorità, il credilo; per esempio se ricordiamo quanto la
lai cosa fu a cura degli dei immortali, o di quelle persone, il cui
credilo e l'autorità dee esser avuta perdi gran peso. E qui se ne caverà
argomento o prova dalle . sorti, dagli oracoli, dai vali, dagli eventi
moslruo! si, dai prodigii, dai responsi, e da cose altrettali; ; c per
islesso modo dai nostri maggiori, dai re, dalle ciilà, dalle genti,
dagli'uomini più satii, dal senato, dal popolo, dai legislatori. Il
secondo è i quello, per cui si mostra a quali persone fece dati1 no il
lai fallo, eccitando lo sdeguo con quanto si i può di amplificazione; o
se lo fece a tulle, ovvero alla piò parie, il clic è estrema atrocità; o
se a* superiori, ebe à cosa indegnissima; c qui si farà nascere
Tudiu dalla ragguardevolezza clic in loro fu offesa; o se danneggiò altri
che siano eguali per qualità di animo, di fortuna, di corpo, il
cito è somma iniquità; o se gl'inferiori, clic è callivez] za piena di
superbia. Il Icrzu luogo è quello, per | cui si cerca che ne avverrebbe, se
tulli facessero ; a quel modo, c insieme si mostra clic se si desse
pus-ala a quel tale, si Accrebbero molli altri an1 dare alla stessa audacia; c
qui si mostrerà quanto gran danno incontrerebbe per ciò. Il quarto
6 quello, per cui diamo a conoscere che molli a orccclii lesi espellano
che venga deciso, per sapere da quanto s'indulge all'accusato quanto essi
possano assicurarsi in caso simile. Il quinto luogo è, quando mostriamo
che si può bene ogni altra decisione, appoggiala a cadivi dati, mutar e
correggere, insieme elio se no conosca la verità ; ma il I fallo presente
essere di lai sorla, che giudicalo i una volta, ili si può mutare per
altro giudicio, ni per veruna podestà se ne può alterare la decisione. Il
sosto tende a dimostrare clic il fallo fu commesso da seuuo e a bella posta ; e
qui si aggiungerà altresì clic a un misfallu lolouiario non si coui viene
perdono: convenirsi solo alcuna volta indulgere alla inconsideratezza. Il
settimo i quello, per cui facciamo cruccio per essere il fallo
orrendo, crudele, nefando, tirannico, condodo con la vioi lenza, di mano
del tale, con lo spreco di contanti, le quali cose sono di troppo
aborrenti dalle leggi C d >lla nin i. -razione. L'ollavo luogo, o
sorgente d'indignazione, I ì quello per cui mezzo dimostriamo che il
delitto di clic si traila non è nò proprio del volgo, uè praticalo
eziandio dagli uomini più audaci; anzi esser nuovo agli stessi barbari,
ai selvaggi, alle fiere piò immani. Tali sono le sevizie con le quali
diremo essersi albi incrudito coirli o i genitori, i figli. la
diccntur, cl doinceps si qua prolcranlur in majores ualu, ili liospilcs, in
vicino*, in amicos, in eos, quitiuscum vitaio lineria, in cos, apud
quos educai us sis, in eos, a quibus erudilus, in morluos, in miscros el
misericordia dignos, in liomine-s claros, nobile* el lionore usos, in eos, qui
ncque laedere alium noe se defendcrc poluerint, ut in pucros, scncs,
inulieres ; quibus et omnibus acrilcr cucitala indignatio suiumuin in cum,
qui violarii horum aiiquid, odiuni comnioverc polcrit. Nonus locus est,
per quem cumaliispeccalis, quac Constant esse peccata, hoc, quo de
quaestio est, comparatur, et ita per conlcnlioneni, quanto atrocius
et indignius sit iilud, de quo ogitur, ostenditur. Dccinius locus est,
per quem omnia, quae in negotio gerendo acta aulii, quaeque post
uegolium consecula sunl, cum uniuscujusqucindignalione et criminalionc
colligiinus, cl rem verbis quam maxime ante oculos ejus, apud quem
dicilur, ponimus, ut id, quod iudignum est, pcrinde illi videalur iudignum, ac
si ipse inlerfucril et praesens videril. Undccimuslocus est, per
quem ostendimus ab eo factum, a quo minime oporluerit, et a quo, si alius
Tacerei, proliiberi convenire!. Duodccimus locus est, per quem indignamur,
quod nobis hoc primis accideril, ncque alicui umquam usu venerit. Tcrtius
dccinius locus est. si cum injuria contumelia juncla dcmonsiralur,
per quem iocum in superbiam el adrogantiam odium concilatur. Quarlus
dccinius locus est, per quem pelimus ab iis, qui audiuut, ut ad suas
res noslras iujurias referant: si ad pueros perliiicbil, de libcris
suis coglioni; si ad muliercs, do uxori. bus;si ad scncs, de patribusaut
pareulibus. Quinlus dccinius locus est, per quem dicimus, inimicis quoque et
lioslibus ea, quac nobis accideriul indigna vidcri solere. El indignatio
quidem bis fere de locis gravissime sunielur. Conqucstionis anioni
liujtismodi de rebus parles pelcrc oporlcbil. Coi uj in sti o est oratio audiloruni miscricordiam
caplaus. In liac. priuium animum audiloris milem cl misericoidein
conli' cere o porle!, quo facilius cnnqueslione commoveri possi!, ld
locis communibus eflicere nporlebiti per quos fortunae vis io omnes, el
lioniinum inGrmilas ostenditur; qua oratiune ballila graviler el
scnlenliose, maxime dimiilitur animus liomiuum, el ad miscricordiam
comparalur, quum in alieno malo sua in infirmila toni consideralo! .
Delude priuius locus est miscricordiae, per quem quibus in ài il
inarilo, la moglie, i parenti, i domandami mercè; c cosi via via, i
debili cunlru i maggiori di elà, gli ospiti, i vicini, gli amici, quelli
con elle vivesti . 0 presso cui fosti educalo, o da cui istruito, i
morii, i miseri e degni di piulft, gli uomini illustri, i nobili, c
quelli clic liaiuiu sostenute onoranze pubbliche, quelli clic non poterono né
offendere altrui, uè difender sè slessi, come sono i fanciulli, 1
vecchi, le femmine. Per (ulti questi molivi eccitandosi forte la indignazione,
potrà fare che ognuno venga in grossezza e ira con chi avesse adontala 0
luna o l'ultra di queste persone. i*el nono luogo si mene a riscontro la
colpa, onde si controverte, di altre colpe da tulli confessale per tali,
c si dimostra argomentando esser di tulle quelle più atruce c più infame
questa, di che si traila. Cui decimo razzoliamo tulle le circostanze
chcaccunr [lagnarono il fallo e le conseguenze che ne soli poi
venule con isdeguo c querela d’ognuno, c nielliamo il fallo davanti agli ocelli
dell' uditore per Tarma che ne ravvisi la indegnità come s'egli stesso ci
fosse staio in mezzo e avesselo di presenza veduto. Coll' undecimo
meniamo a vedere essersi fornito il fallo da chi meno il dovea, da ehi
anzi avria dovuto far rimanere qualunque altro l'avesse Imlaio. Il
duodecimo è quello, per cui ci scorrubliiamo della mala ventura di aver dovuto
esser 1 primi a trattar un fallo, clic mai a nessun altro avvenne
di dover Irailare. Il licdicesimo è, se si dimostra all' offesa esser anche
aggiunto lo scherno e la villania ; e in questo caso I' odio se la piglierà
ancora con la superbia c l' alterigia degli offensori. Il quarlodecimo
luogo è quello, per cui preghiamo gli uditori che vogliano immaginare
di aver ricevuto essi I' offesa che abbiamo ingozzalo noi ; e se
essa sarà caduta sopra fanciulli, ripensino essi ai Agli proprii ; se sopra
femmine, pensino alle lor mogli ; se sopra vecchi, ai genitori o parenti
loro. Il quindccimo è quello, per cui diciamo clic quanto occorse a noi è cosa
clic si tiene per indegna pur dai nemici c dalle persane più ostili. Ua
tulli questi luoghi e sorgenti si farà nascer gravissima la indignazione.
l.Y. Converrà ora vedere cumc dal fin qui dello si traggano i
mezzi e le fonti della commiscraziuue. È questa un discorso clic accada la
compassione degli uditori, l'or accanarla prima cosa è render inde e
benigno l'animo di chi ascolla, colalcliè possa dalle querimonie esser
ageminicele commosso. Questo sì potrà conseguile per mezzo dei
luoghi e fonti comuni, pei quali si dj a vedere la forza che esercita su
tulli la fortuna, e la fralezza che fa declinar l’uomo ai male; c con
questo discorso fallo con parole gravi e senlcnziosc, si viene ad
ammollir furie il cuore degli uomini fi8 bonis fuerint, et nunc qnibus in
malis sinl, ostcnditur. Sccundus, qui in tempora Irìbuilur, per quelli,
quibus in malis fucrint, et bini, et futuri sinl, demoustralur.Tertius,
per i|uem unum quodque deploralur incoromodum, ut in morte Dlii pueriiiae
dcleclatio, amor, spes, solatium, cducalio, et, si qua simili in genere
quolibcldc incommodo per conqueslioncm dici poterunl. Quartus, per
quem res turpes et bumiles et illiberalcs profercntur et indignac aelatc,
genere, fortuna, pristino honore, bcncficiis; quae passi perpessurive
sinl Quinlus, per quem omnia ante oculos singillatim incommoda
ponunlur, ut vidcatur is, qui audit, siilere, et re quoque ipsa, quasi
adsit, non terbis solurn ad miscricordiam ducalur. Seilus, per quem
practcr spem in miseriis dcmonslralur esse, et, qumn aliquid eispeclarel,
non modo id non adeplum esse, sed in summas miserias incidisse.
Seplimus, per quem ad ipsos, qui audiunt, similem casum converlimus, et
petinrus, utdesuis libcris aul parentibus aut aliquo, qui illis carus debeat
esse, nos quum videanl, rccordentur. Oclar us, por quem aliquid dicilur esse
factum, quod non oporlueril, aut non factum, quod oportueril, hoc
modo: Non adfui, non ridi, non posircmam vorem ejus nudivi, non estremum
spirilum ejus eicepi. Itcm: Inimicorum in manibus mortuus est,
lioslili in terra lurpiler jacuit insepultus, a feria diu vcialus, eommuni
quoque lionorc in morie caruit. Nonus, per quem oralio ad mutas et
crpertes animi res refcrclur, ut, si ad equum, dutnum , tcslem , sermnnem
alicujus accomodes , quibus animus corum, qui audiunt et aliquem
dicierunl, vehementer commovclur. Decimus, per quem inopia, iulirmi tas,
soliludo dcmonslralur. Endccimus, per quem aut liherorum, aul parentimi ,
aut sui corporis sepeliendi , aut alicujus ejusmodi rei commendano lìl.
Duodeeimus, per quem disjunctio deploralur ab aliquo, quoti) diducaris ab
eo, quicum libenllssime vlzeris, ul a parente, (ìlio, fratre, familiari.
Terlius decimus, per quem cum indignationc conqucrimur, quod ab
iis, a quibus minime convcnial, male traclc mur, propinquis, amicis, quibus benigne
feceri mus, qnos adjulores furo pularimus, aut a quibus indignum sii, ut
servis, liberili, ebentibus, supplicibus. disporlo a esser
misericordcrole, siccome quello che nel fallo altrui riconosce la propria
debolciza. La prima fonte di compassione è il mostrare di quali
beni si borano forniti, e da che mali si trovano essi sbattuti gl'infelici. La
seconda si diride per tempi, c viene a descrivere le calamità dreni
ban sostenute, che sostengono in presente, e che sono per sostenere
appresso. La lena lagna di qualsiasi crepacuore: cosi nella morie di un
figlio compiangesi la gioia che ne recava la sua puerizia, l’amore,
la speranza, il conforto, l'educazione, c quanl' altro di simile potrà
esser motivo di commiserazione. La quarta è quella, per cui si fa vedere che
turpezze, che umiliazioni, che incivilii ha dovuto e dovrà trangugiar l'
infelice, indegne della sua età, della sua slirpc, della sua condizione,
dell' antico splendore, dei bencllzii da lui imparlili. La quinta è quella, per
cui si schierano dinanzi agli occhi dell'uditore ad una ad una le disavventure
deli’ infelice , affinchè ascoltando le possa quasi clic vedere, e siane
condotto a compassiono non pur dalle parole dell' oratore, ma dal
figurarsi d’essere quasi presente ai fatti stestiLa sesta è quando si dimostra
esser un tale irretito nelle disgrazie senza speranza di poterne uscire.e
mentre se u’atlcndcva qualche allcviazione, non solo non esserne venuto a
capo, ma precipitato anzi nelle miserie più dure. La settima ì quando
imaginìamo in quelli che neascollano un infortunio simile al nostro, e ii
preghiamo che nel veder noi rammentino i loro figli, i genitori, o
qualche altro che lor debba esser caro. L’ ottava, quando si dice
essersi fatto ciò die non bisognava, o lasciato di fare ciò che si dovea, come
a dire : Non fui presente, non vidi, non ho udite le ultime di lui
parole, non ne ho raccolto il respiro eslrcroo; oppure : E morto in
potere dei nemici, giacque indcccnlcmcnle insepolto in terra ostile,
mislratlato a lungo dalle fiere, senza avere nè in morie i comuni onori.
La nona è quella, per cui s'appropria il discorso ad esseri muti e privi di
ragione, come se lu facessi parlare per altri un cavallo, lina casa, una
veste; c questo è caso in cui quelli die ascoltano e che hanno portato
amore a qualcuno, restano vivamenlc commossi. La decima è quando si
dimostra l'altrui miscrlà, la debolezza, l'abbandono di tulli. La
undecima è quella, con che si raccomanda che non manchino di sepoltura i
figli, i genitori, il proprio corpo, o clic sia foritila qualche altra cosa
consimile. La duodecima deplora la separazione che dei sostenere da
qualche tuo amorevole, con cui menasti vita della migliore tua voglia, come
sarebbe dal padre, dal figliuolo, dal fratello, dall'amico. La tcrzadccima
è quella, per cui alle querele accoppiamo altresì (joartus decimus, qui per
obsecralionem sumilur; in quo oraninr modo illi, qui audiunl,
humili el supplici oralionc, ut miscreanlur. Quintus decimus, per quem non
nostras, scd corum, qui cari nobis dcbcnl esse, forlunas conqueri
nos demonstramus. Sextus decimus, per quem animum nostrum in olios
misericordem esse ostendimus, et tamen amplum et escelsum et patienlem
incommodorum esse, et futurum esse, si quid acciderit, demonstramus. Nam sacpe
virlus et magniCcenlia, in quo gravilas et auctoritas est, plus proOcit
ad misericordiam commorendam quam liumililas el obsccralio. Commotis
aulcin animis, dlutius in conqucslione morarì non oportebit.
Qucmadmodum enim dilli rbctor Apolionius, lacrima nihil citius aroscil. Sed
quoniem et satis, ut (idemur, dcomnibuspartibusoralionis diiimus,
el hujus «nluminis magnitudo longius processil, quac scquuntur dciriceps,
in sccundo libro diccmus. SS) 10 sdegno di esser duramente
tribolati da chi noi dovca, come a dire dai parenti, dagli amici,
da quelli che hanno da noi ricevuto del bene, i quali ci snidavamo
dovessero esserci aiutatori , o da quelli che non ci potevano mislratlare
se non con la più nera indegnità, come sono i servi, i liberti, i
clienti, e quelli che altre volte sono ricorsi a noi supplichevoli. Il
quartodecimo luogo o fonte di compassione £ la preghiera, con clic facciamo
forza al cuore di quelli che ascoltano, per discorso reumiliato c che va
alla mercede loro, perchè ne facciano misericordia. Col decimoquinto
mostriamo di compiangere non le nostre disavventure, ma quelle di
coloro che ne debbono esser amati e cari. Col seslodccimo dimostriamo che il
nostro cuore è pietoso verso altrui, ma che tuttavia nelle presenti
disgrazie è magnanimo, elevalo o sofferente, quale altresì sarebbe, se altro
gli fosse per incontrare. Ed è un fatto, che sovente la virtù e 11
portamento di grand'animo in uomo autorevole e grave fa più al muover la
compassione che non farebbe rumiliamcnlo e la preghiera. Commossi
gli animi, non si vuole esser lungo nella querimonia, poiché, a detto del
retore Apollonio, niente si asciuga più presto che le lagrime. Or,
poiché ho dello a bastanza, per mio avviso, circa le parti tutte
dell'orazione, e questo libro m’è anche venuto un po' troppo allungalo, dirò a
mano a mano nel secondo libro le cose che mi restano da cs porre. Tullio
culla eoo una elegante narrativa, e poi passa a trattare del genere gludic
iato, e della costituitone congetturale, e deferiti a che per agitare si
fatte cause dee ricorrere e ruttore c l'accusato. Della costituitone
definitiva,' indi della traslativa. Della costituitone generate, di cui
spiega Tullio le due parti in che essa ai divide,
eiósonolinegotialcelagioridiciilc. Delle controversie circa lo scritto.
Del genere deliberativo, e delToncslo e deU'utile. In Due, del
genere dimostrativo. Crolortialac quondam, quum llorcrent omnibus copiis,
et in Italia cum primis beati numcrarcnlur, lemplum Junonis, quod
religiosissime colebaul, egregiis picturis locupletare toluerunl. Ilaque
ileracleolem Zeuxiu, qui lum longe ccteris ciceilere pirloribus csislimabalur,
magno prelio conductum adhibucrunl. Is et cclcras contplurrs fabulas pinxil,
quarum nonnulla pars usque ad nostrani memoriam propter funi religloncm
retnansil, el, ut exccllcnlem muliebris formac pulcritudinein muta in scse
imago contiueret, Ilelenac pingcrc se simulammo velie diiil; quod Crotonialac,
qui eum muliebri in corporc pingendo plurimum aliis pracstarc saepe
acccpisscnt, libcnler audicrunl. rulavcrunt enim, si, quo in genere
plurimum posscl, in co magno opere elaborasscl, egregium sibi opus ilio
in fatto rcliclurum. Ncque tum cos ilia opinio fefeliil. Nani Zeuiis
illico quacsivil ab cis, quasnain virgines forntosas liabcrcnt. Illi
aulem statini hominem dcduicrunt in palestram, atquc ci pucros ostcndcrunt
multos, magna praedilos dignilalc. Elenim quodam tempore Crolonialac
mullum omnibus corportim viribus et dignitalibus anlcstclcrunt, alquo
lioncslissitnas ci g vinilico ce riamine viclurias domum cum laude
maxima rclulcrunt. Quum pucrorum igiiur formas Croloniesi, allorché erano
in florido e di ogni bene rinfusi, c in Italia coniali Ira i popoli
più felici, fecero su pensiero di voler arricchire di dipinli i più
squisili il (empio di Giunone elio veneravano a grande rispello ed onore.
A ciò insilarono Zelisi di Eraclea, che di quei tempi avea nome di
eccellente in pittura sopra ogni altro, c a gran contante patlovirono con
esso il lavoro. Costui vi condusse parecchie dipinture, delle quali
alquanto poca parte si conservò lino ad oggi per la venerazione in che il
tempio fu sempre avuto; c per comporre una imaginc clic nella sua mutezza
esprimesse quanto può avervi di sfolgorala belili in fattezze muliebri, si
profferse di voler fare il ritratto di Elena. 1 Croloniesi udirono questo
del miglior grado, siccome quelli ebe spesso arcano udito come in
dipinger sembianze di donna ci lasciavasi in dietro ogni altro di lunga mano.
Faceano ragiona che se egli, il quale in dipinger donne era al postutto
vaiente. Tosse stato attorno a quel lavoro con proposito di farne ogni
suo potere, avrebbe lasciato nel tempio un’opera di somma eccellenza, Mési
apposero in fallo. Zcusi chiese tosto quali avessero donzelle di più
bellezza. Esssi lo condussero inconluuculc nella palestra, e gli
fecero vedere molli garzoni di maestosa av CI et corpora magno liic
opero mlrarelur: llorum, inquilini illi, sorores suol apuli nos virgines
Oliare, qua siili illac ilignilalc, polcs ex his suspicari. Pracbetc
igilur milii, quaeso, inquit, ex istis virginibus formosissimas, dum pingo id,
quod pollicilus suiti vobis, ul mutui» in simulacrum ex animali esemplo vcrilas
Iransferatur. Tum Crotoniatae publico de concilio virgincs unum in locum
coiiduxcrunl, cl pictori quam velici eligendi potèslatcm dedcrunl.Ille aulein
quiuquedelcgit; quarum nomina multi poiitac mcmoriac prodiderunt, quod
ejus csscnt judicio probalac, qui pulcriludinis habere verissimum judicium
dcbuissel, Ncque cnini putavil omnia, quac quaercret ad i cuti slalom,
uno se in rorporc reperire posse, ideo quod niliil siuiplici in genere
omnibus cv partibus perfeclum naluru expolivit. Ilaquc, tamquam ccleris
non sii habilura quod largialur, si uni cuncla enncesseril, alimi olii
commodi aliquo adjuucto iurommodo muneralur. Quod quoniam nobis
quoque toluulatis acridi!, ut urlcui diccildi pcrscribcremus, non unum
aliquod proposuimuscxeinplum,cujusonines parics, quoenmqnc esscnl io genere, exprNneodac
nobis necessario viderenlur; sed, omnibus unum iu locum coaclis
scriploribus, quod quisque commodissime pracripere videbalur, cxcerpsimus,
et ex variis ingcniis excelleulissima quaeque libaviinus. Ex iis Chini,
qui nomine et memoria digiti sunl, ncc mini optiine, nec omnia
pracclarissimc quisquam diccre nobis videbalor. Quaproplcr stultitia visa
csl aul a bene inventis ulicujus recedere, si quo in vitto
cjusoITemJerctnur, aul ad vilia quoque cjus accedere, cujus aliquo bene
pracccplo duccremur. Quodsi in ccteris quoque sludiis a umili,
cligere boni ncsconnnodissimuin quodque, quam sesc uni slicui
eerto/cllcnl addiccrc, minus in adrogantiam oOenderent; non tanto opere
in viliis perseverami! ; aliquanto levius ex inscienlia laborarcnl.
.Ve si par in uobis liujus arlis atquc in ilio picluruc scienlia fuisscl,
fonasse magis Ime in suo genere opus nuslruin, quam ilio in sua pictura
nobilis enilercl. Ex majore cium copia uobis quam iili fuil eiempiorum
eligendi poleslas. lite una ci urbe et cv co numero virginum, quac
tum eranl, cligere poluìl: nobis omnium, quicumque fueruut ab
ultimo principio liuj-is pracceplionis veneroleixa. E
infatti una volta I Crotonicsl andavano innanxi a ogni altro popolo per corpi
fatticci e di nobile appariscenza, c negli agoni ginnastici vernano
riportando con ispantc lor lodi vittorie onoratissime. Or mentre Zcusi si
dava attorno ad ammirare i corpi c le fattezze di quei garzoni; Son
qui fra noi, dissero i Croloulesi, le vergini sorelle di colesloro, le
quali quanto sieno di bellezza vantaggiale, da questi loro fratelli ne puoi far
saggio. Ed egli: di grazia, me ne date le meglio leggiadre finché io travagli
il dipinto clic vi ho profferito, c annesti nella mula effigie la verità
dell'animato esemplare. Altura i Crotonicsi di comune conserto ragimarono
insieme le loro donzelle, c fecero copia al dipintore di scerre delle
tante quella ch'egli volca. Egli ne fece eletta di cinque, i cui
nomi dappoi per molli poeti furono messi in celebrità per esser esse in
conto di belle nel giudichi di quell'imo, clic della bellezza dovea essere
giustissimo estimatore. Ne volle cinque, perchè non andava capace di trovar in
solo un corpo quanto ei cercava di venustà, però clic non v' ha
individuo di veruna specie, in cui la natura alftzzunassc e rendesse perfetta
ogni sua parte; tanto che essa, come se non avesse più die dare agli
altri se concedesse lutto ad uno, alle doli clic dispensa a questo o a quello
mette sempre allato una qualche imperfezione. II. Or poiché avvenne
pur a me ch'io fossi d’animo di scrivere sopra l' arte di parlare, non mi
proposi io già mi qualche modello speciale, da dover di necessitò
ritrarre in tutte le sue parli, di qualunque ragione esse si fossero; ma
mi raccolsi innanzi quanti di tale materia hanno già scritto, e ne presi
da ciascuno i precetti clic uh parvero il caso, sdorando dai v arii
ingegni quanto di più eccellente ti Iruvai. Perocché di lutti gii
autori die son degni di esser nominali c tenutane memoria io m'avvisai
die ognuno dice belisi quatdie cosa di gran rilievo c peso, ma clic noti
ogni sua cosa è della stessa qualità. Oud' è dio io repulai non
essere da buon senno clic io rifiutassi ciò die alcuno ha ritrovalo di
buono, solo perchè io mi fussi imbattuto ili quulelic suo difetto, che mi
spiacesse, ovvero che io ne andassi dietro fin anche alle pecche, se di
qualche suo buon precetto avessi preso piacere. Che se anche negli altri
studii amassero gli uomini scerre da molli il lior delie cose più
presto clic attenersi agl'insegnamenti di uno svio, saiieno meno
presontuosi, itoti islarcbbero nei difetti cotanto alla dura, ed anche s'
uvrebbero d’ignoranza alquanto meno, E se io dell'arlc retorica avessi una
scienza clic stesse iu ragguaglio con quella clic avea Zeusi della
pittura, forse clic quest'opera risponderebbe nei suo gc li usquo od
hoc tempus, eiposills copiis, quodcum quc placerct, eligendi poteslas
fuil. Ac vcleres qui dem scriplorcs artis usque a principe ilio
alque inventore Tisia rcpelilos unum in Incum condoli! Aristolelcs,
et nominalint cujusquc praccepla magna conquisila cura perspicue conscripsil,
alque enodala diligentcr ciposuil; ac tantum invenlorilius ipsis
suavilale et bretitale diccndi praestitil, ut nemo illorum praccepla ex
ipsorum libris cognoscat, sed omnes, qui quod illi praecipiant vclint
intelligcre, od liunc quasi ad qucmdam multo commodiorcm eiplicalorcin
revertanlur. Atquc hie quidem ipse et so ipsum nobìs, et ens, qui ante
se fucrant, in medio posuit, ut celeros et se ipsum per se
eognosccrrmus : ab hoc aulem qui profccli stilli, quamquam in maximis
philosophiac partibus operae plurimum consumpserunt, S'cul et ipse,
cuius instiluta sequebanlur, beerai, tamen permulla nohis praccepla dicendi
reliquerunt. Alque alii quoque alio ex fonte praeceplores dicendi
emanavcrunl, qui ilem permullum ad dicendum. si quid ars prolicit,
opilulati sunt. Nani fuit tempore endem. quo Aristutcles, magnilo et
nobili* rhclor isocrales; cuius ipsius quam conslet esse arimi, non
invenimus. Discipulorum aulem, ali|ue eorum, qui prolinus ab hac suoi
disciplina prufccli, multa de arte praccepla repcrimus. Ex bis duabus
diversi* siculi ramiliis, quartini allora quum vcrsarelur in philosophia,
nonnullam rhcloricae quoque arlis sibi curam adsumebal, altera vero omnis in dicendi
crai studio el pracceptione occupala, unum quoddam est connatum genus a
poslerioribus, qui ab ulrisque ea, quae commode dici vidcbanlur, in suas
arles conlulerunl, quos ipsos simul alque illos supcriores nos nobis
omnes, quoad facullas lulit, proposuimus, et ex nostro quoque noniiibil in
commune coiiluliinus. Quud si ea, quao in bis libris expotiuiilur, laido
opere eligenda fuerunl, quanto studio ciccia suut, prorecto ncque nos ncque
alios iuduslriae noslrac poenitebit. Sin autem temere aliquid
alicuius praclcriisse, aul non salis degan nere più che nella
pittura ci non fece; poiché io a potere far scella ho maggior abbondanza
di modelli ch’ei non ebbe polulo avere. Egli raccolse il meglio in 3ola
una cillà e fra quel numero di donzelle che vi Bveano allora: io per contra
ebbi innanzi agli occhi tulio il gran capitale che hanno ammassalo quanti
furono lino da quando si cominciò di ridur quest' arte a precedi, e vi
potei scegliere ciò che meglio mi abbellava e piaceva. Quanti v'ebbero
scrittori di retorica per insino da Tisia che ne fu l' inventore, e primo
ne scrisse, tutti gli raccolse insieme Aristotele, e i precedi che
con molla cura rauuò da questo e da quello, citandone anche il nome, pose
con tutta chiarezza in iscritto, e sviluppò e svolse con precisione; e
tanto seppe eccellere gli stessi primi inventori per piacevolezza e
brevità di dedalo, che nessuno sa conoscere esser quei loro precetti
tolti dai libri loro, ma conviene che qualunque, il quale voglia sapere che si
dicessero con quei loro precedi gli antichi, ricorra a lui come ad
esplicalorc molto più frullcvolc e più giudizioso di ogni altro. Anche
più, che questo autore ne pose innanzi sé steso oltre quelli che erano stali
prima di lui, acciocché per mezzo suo conoscessimo e gli altri e lui
medesimo. Quelli poi che lo secondarono oppresso, eziandio che mollo
spendessero ili fatica piai disio nella trattazione delle parli
cssenzialPdclla filosofia, come avea fallo quell'esso, di cui seguivano
le dottrine, tuttavia ne lasciarono un buon dato di precetti pur sopra
l'arte del dire. Prece dori di quest' arte nc uscirono fuori anche da
altro fonte, i quali similmenle recarono assai soccorsi al dire, se
pur l' arie si lascia alcuna cosa soccorrere. E infatti a’ tempi stessi di Aristotele
fu un grande ed eccellente retore, Isocra'e voglio dire ; ma quali
leggi ci seguisse dell' arte sua, non ho trovalo chi il sappia. Bensì i
suoi discepoli, e quegli altri che vennero da questa sella troviamo aver
lascialo ben molti precetti di retorica. HI. Da queste due dirò cosi
diverse famiglie, l’uno, avvegnaché di professione trattasse
filosofia, pur facea qualche sludio anche dell’orle relorica, e
quella d’ Isocrate era tutta iu faccende solo nel far l'esame e dar
leregple del ragionare. Or queste due famiglie furono ridotte a una sola dai
posteriori, i quali introdussero nell' arte che insegnavano quaulo han trovato
di buono c di meglio negli uni e negli altri ; c son questi medesimi
e quelli più antichi che io mi proposi di seguire quanto lio
potuto, e coi quali ho messo in comune pur qualche poco di mio. thè
selccosc che ho esposto in questi miei libri io le ho Irascelte con
quella colatila cura che una scella cosi rilevante pur domandava, corto
della mia industria né io posso, né ler scemi viilcbimur, dodi ab aliquo
Tacile cl libenler commutabimur sen'cnliam. Non enim panini cognossc, sed in
parum cngnilo stililo et din perseverasse turpe est, proplerea quoti
nllcruni eommutii linminum iuflrmitali, allcrum singolari unius
cuiusque litio est atliihulum. Quarc nos quidem sinc ulta adfirmalione
simut quacrcntes dubilanter unum quidquc dicemus, ne, riunì parvulum Ime
eonsequinmr, ut salis linee rommnde perscripsisse videamur, i limi amitlamus,
quod maximum est, ut ne cui rei temere alque adroganter adscnserimus.
Verum Ime quidem nos cl in hoc tempore et in onini vita studiose, qnoad
Tacullas lerci, consequeniur. None autem. ne longius oralio progresso
ndcalur, de reliquia, quae praeeipicnda videntur esse, dicemus. Igilur primus
liber, ciposito genere liuiusarlis el olllein, et (Ine, et materia,
et partibus , genera controversiarum et inventiones el eonslitutiones et
iudieationes eontinebal, deinde parles oralionis et in eas omnes omnia praecepla
Quarc quum in co ccloris de rebus dislinctius dicium sii, disperse autem de
con llrmalione el do reprchensione, nunc cerlos confirniandi cl
repreliendendi in singula caiisarum genera locos tradendos arbiiramur. El
quia, quo pacto traclari convenirci argumentaliones, in libro primo non
indiligcnlcr espositum est, hic tantum ipsa inventa unam quantque in rem
exponentur simplieiler sinc ulta eiornalionc, ut ex hoc inventa ipsa, ex
superiore autem eipoldio invenlorum pelalur. Quarc liacc, quac mine
prnccipicntur, ad confirmationis et reprchensionis parles rcferre
oporlcbil. Omnis cl demonstraliva cl deliberativa cl iudicialis
causa necesse est in aliqno carimi, quac ante exposila sunl,
eonstilulionls genere, uno piu ribusve, verselur. Hoc quamquam ila est,
lumen quum communilrr quaedam de omnibus praeripi possi»!,
separatilo quoque aliac sunl cuiusque generis diversac pracccptiones. Alimi enim laus ani vituperano, aliud
sente.nlian dictio, alimi accusatili aut rccusalio conflecrc debet. In
iudiriis, può andare scontento chi che sia. Se poi dì qualche autore io
avessi senxa avvisarmene prelermesso alcun che, o trascrillo con meno di
pulitezza !e cose clic mi pareano da dover adottare, quando io ne
sia fallo accorto da qualcheduno, io son presto a far di leggieri c della
miglior voglia le necessarie mulaiioni. Non è vergogna aver delle cose
una conoscenza rislrellu, ma bene è do vergognare a dii durasse
scioccamente c alta lungo in cono scema si fatta : poiché la primo è
propria della pochezza umana, c l’altra non è chorgrossn difetto di
colui elle se ne accontentasse. Laonde io laserrù nel loro dubbio le ricerche
die sono per fare, c delle cose clic dirò mi vorrò cessare da ogni
affermazione, acciocché mentre io vengo a capo ili scrivere questa
materia sufficientemente bene, die pur t cosa menoma, io non perda ciò
che più rileva, voglio dire il merito di non aver acconsenlilo a cosa
veruna da arrogante c inavveduto- Il che mi servirà di regola, per quanto
potrò, si nella circostanza presente, e si ancora in ogni altra occasione
della mia vita. Ma perché il mio discorso non si distenda troppo in
parole, vengo agli altri precetti die restano da insegnare. Or il primo
libro, dopo di aver detto che specie di orte sia la relntica, c quale sìa
il suo ufficio, il (ine, la materia, In parli, lia ragionalo de'tarii
generi di controversia, dc'modi di trovare gli argomenti, delle
costituzioni delle cause, dei punti da giudicare, dipoi delle porli dell’
orazione, e di lutti i precedi clic a lune codeste parli si riferiscono.
Il perchè , siccome delle altre cose si è parlalo in quello alquanto
distintamente, ma della confermazione C della confutazione non altrimenti clic
a spizzico, io Iroro da dover ora insegnare i luoghi ovvero le fonti
acconce a fare la confermai ione c la confutazione In ciascuna specie di
causa. E giacché nel primo libro lio dimostro non senza esali- zza come sian
ila svolgere c maneggiare le argomentazioni , qui si esporranno
nudamente c senza alcuna politura le invenzioni acconce per ogni bisogno,
affinchè da questo I bro si allindano solo le argomentazioni
trovale, mentre dal primo se nc attinge anche l'ornamento e la politura. I
precetti adunque che vengo ora a porgere si vogliono riferire olla
confermazione c alla conlu lozione. IV. Ogni causa, sia duno-lrativa,
sia deliberativa, sia gìudiciale, dee necessariamente aggirarsi in uno o
in un altro genere di cosliluzione, sia uno, o sic o più, dei tanti clic
sonosi per addietro dimostrati. Tuttoché non possa essere
altramente, pure siccome V ha precetti applicabili in comune a
tulli i generi di cause, cosi ve n‘ ha altri diversi che di ciascun
genere sono propri! e speciali. Perocché altro dee avere per Isropo la lode o
la dif tn quello, aitine di far apparire quanto gli sia possibile
che P accusalo fu indotto a misfarc da una ragiono che Iroppo gli
cattava bene. Se questa ragione era la gloria, ciduvrò far vedere
quanto di gloria colui imaginava gliene sarebbe seguilo; e cosi se la
ragione, se lo scopo era o dominio, o danaro, o incontrar amicixia,
o romper nimisiò , insomma qualunque ragione colui avesse di far ciò clic
fece, egli dovrò aniptiQcarla quanto piò sappia. Anche dovrò attesamente
speculare, non pure se fosse ragion vera che mosse l'accusato, ma
eziandio, c mollo piò, quale fosse la opinione clic esso n'avea: poiché
nulla molila clic non ci fosse o elle non ei sia nella ragione del fallo
un vantaggio o un dissutile, se può provarsi che l’ accusalo tenevo
realmente che questo o quello ci fosse. L'opinione fa allucinare
gli uomini per due modi, o quando una cosa è d’altra maniera ch'essi non
credono, o quando un successo riesce diversamente da quello ch'essi hanno
pensato- La cosa è d'altra maniera quando essi credono un male ciò che è
un bene, o per centra un bene ciò che ò un male, ovvero credono
male o bene ciò che non è bene nè male, ovvero credono nè male nè bene
ciò che è bene o male, inteso questo, se l'accusalo dirò non v' esser somma di
danaro che gli sia più accetta c più cara clic la vita del fratello o dell'amico,
o ancora del proprio dovere, non dovrò l'accusatore negargliene; poiché
ci si trarrebbe addosso una pecca, un odio acerbo, negando una asserzione
clic può esser vera nel tempo stesso che è pia. Solo potrò dire
l'accusatore che colui non pare essere di questo avviso, e darò rincalzo al suo
dello con gli argomenti elio si traggono dalie persone , dei quali
fla dello più sotto. VII. Il successo inganna quando esso riesce
allramenlc da quello che gli accusati o altri qualunque si promettevano; come
se si dicesse clic un tale ha moria altra persona da quella che
avria voluto, perchè trailo in errore o dalla somiglianza, o dal
sospclto, o da una appariscenxa fallace; n che l’ha uccisa perchè fu di
credere ch’essa nel testamento lo avesse nominalo suo crede, mentre
secondo il testamento l'crcdilò non era legala a lui. Non si dee desumere
la intenzio tasti utalur, ad rem pcrlincre. In hoc attieni loco
caput illud erit accusatori, si dcmonslrarc polerit alti neniini causam
fuisse faciendi; secundarium, si tanlam aul tam idoneam nomini. Sin
fuisse aliis quoque causa faciendi xidebitur, aut poteslas defunse aliis
demoiislranda est, aut farullas, aul voluntas. Polestas, si aul nescissc, aut
non adfuissc, aul enndeere aliqtt'd non poluisse dicelur. Eacultas, si
ratio, adiutore», aditi menta celcraquc, quae ad rem pertinebunl,
deruisse alicui deni'tusirabun tur. Voluntas, si animus a talibus
faclis vacilli» et integre esse dicelur. Pnslrcmo, quas ad defensionem
rationes reo dab mos, iis accusalor ad alins ex culpa eximendos abutelur.
Veruni M breii faciendtim est, et in unum multa sunlconducenda, ut ne
alterius defendendi causa huuc accusare, sed huius accusandi causa
defcndcrc altcrura videalur. Atque
accusatori quidem hacc fere sunt in causa faciendi consideranda. Defensor
autem ci contrario primum impul9Ìonem aut nullam fuisse dicet, aut,
si fuisse concedei, exlenuabit, et porvultm quamdam fuisse demonstrabil, aut
non ei ea solere huiusmodi facta nasci docebit. Quo erit in loco
demonstrandum, quae vis et natura sii eius adfcclionis, qua
impulsusaliquid rcus commisissc dicclur; in quo et exempla et
similitudincs crunl profercndae, et ipsa diliirenler natura
eiusadfeclionis quam lenissime quielissimam ad parlcni eiplicanda, ut et res
ipsa a facto crudeli et lurbulcnlo ad quiddam mitius et tranquillius
traducalur, et oratio Inmcn ad animum eius, qui audicl, et ad animi
qucmdam inlitnum sensum accommodetur. Ratiocinationis autem suspicione.»
infirmabil, si aut commodum nnllum fuisse, aut parvuin, aut aliis
magis fuisse, aut niliilo sibi magis, quam aliis, aut incommodum sibi
maius, quam commodum dicci; ut nequaquam fticril illius. cominodi, qund
expelilum dicalur, magnitudo aut rum co incommodo, quod accidcrit, aut
cttm ilio periculo, qund subcatur, comporti tela: qui omnes loci simdiler in
iucommodi quoque vitatione traclabunlur. Sin accusalor dixerit cum id esso
scculum, quod ei usi m sii commodum, aut id fugisse, quod putarit
esse ne dal successo, ma bensì badare quale Tu proprio
l'intensione c la speranza con che l'animo si è accinto a malfare:
perocché quel clic fa al caso si è il vedere la intenzione con la quale
altri fa un fallo, non la uscita a che il fatto stesso è venuto. E qui il
punto primario per l'accusatore sta in questo, che possa dimostrare come
verun altro, dall'accusato in Tuori, non ebbe la ragione ch’ebbe
egli di venir a quel fatto: il punto secondario è prmarc che nessun altro polca
avere unti ragione di si gran peso ed opportunità. Che se potrà pur
essere clic altri avesse la stessa ragione di fare, si dimostrerà che nondimeno
gliene mancava o il potere, o il destro, o la volontà; il potere, se dirassi
ch’egli non se ne seppe, n che non fu presente, o clic non ebbe i
mezzi per fare; il destro, se si rnoslrerà clic non ebbe nè modo, nè
nppnggialori, nè aiuti, nè quant'allro saria stalo di bisogno; la
volontà, se dirassi che egli ha un animo scevro c intatto da opere
dì si falla maniera. Da ultimo, le ragioni che daremo all’accusato per la
propria difesa son le stesse che tirerò al suo vantaggio I’
accusatore per purgare da colpa qualunque altro che invece di
quello fosse accusato. Questo però si vuol fare alla breve,
ammassicciando in uno piò cose, tanto clic si paia non clic s’accusi
questo per difender quello, ma che si difende l'uno per anzi
accusar l'altro. Vili. Tali sono le considerazioni clic dee far
l'accusatore rispetto alla ragione che mosse l'accusato a far quel clic fece.
Il difensore in quel cambio dee tenere diversa via. l a prima cosa
c! dirà clic quel fallo non venne da impulso d'animo, o se concederà elle
un impulso ci sia pure stato, farà di stremarlo e mostrare che fu
assai lieve, ovvero farà vedere clic falli di quella maniera per
l'ordinario non procedono da impulso interno. E qui ci verrà dispiegando
la forza c la natura di quella affezione, da cui si dice essere
stato impulso l’accusato a commetter I’ azione imputatagli: porgerà a
difesa esempii e similitudini, c svolgerà accuratamente quel molo dell’animo
dal suo lato più calmo e più tranquillo; talché il fatto stesso, che è
cagione di accusa, di crudele e turbolento pas-i ad aver sembianza
di mite e pacato, e il discorso sia nondimeno acconcio a svegliar nell'animo di
chi ascolta un sentire accostante alta sembianza elle si vuol dare al
fallo. Il difensore anche addebotirà i sospetti appoggiali a raziocinio, se
dirà che dal fallo non venne vantaggio di sorta, o che ne venne
pochissimo, o che esso profittò agli altri mollo piò, o che niente piò
all'accusato che agli altri rftin fece, o anzi gli tornò più a danno che
a utile; di forma ti incommodum, quamquam in falsa fucril opinione,
dcmonslrandum crii ilcfcnsori ncniinem Ionia esse slullilia, qui tali in
re possil verilatem ignorare. Quod si id conccdnlur, illud min ronccssum
ili, ne dubitasse quiilem lume, quid u-rius ossei, sed id. quod
falsimi Inerii, sino olla duliilalione prò vero protrasse. Quod si
duliiliirit, smuntile Inisse amctilioedtibias|ie inipulsiiin eerlurn in
periculiini se conunillere. Qiieniadniodum anioni areu-alnry quum
ab aliis culpam deiuovebil, defensoris Ineis ulclur, sic iis locis, qui
a-cusatori doli soni, utelur rem, quum in ilios ab se crimcn vote! Iran s
Terre. Et persona uulem eonicclura capielur, si rac res, rpiae
personis atlriliulae soni, diligenler eonsidcrabuntur, qnas omnes in
primo libro ovposuimus. N.un el tic nomine nonmunqunin aliquid
suspiciouis nascilur. Nomen ameni 1 poco scaltra, che possano essere ribattuti
evoltali a utile della parte contraria; della qual fatta sono i Ire clic
ultimamente ho toccati. Quanto (• alta querela gravissima, con che si
dimostra che seguirebbe scompiglio in tutliquonli i giudicii, ove l'
accusatore avesse licenza d' infligger la pena a chi non fu condannalo,
l'accusatore addebolirà essa querela primamente se farà vedere esser il
fatto una ingiustizia cosi acerba, ila non poterla portare un uomo
dabbene, e molto ancho meno un uomo libero; dipoi se farà conoscere esser
essa cosi evidente, ria non poterla mettere in dubbio neppure colui
medesimo elio la commise; poscia esser di tanta gravità, che colui
clic n’ha fatto punizione l’ha senza altro unno n. communis
accusatori in cum, qn>, quum id.qnnd argnilur, negare non possi!,
lamen al quii! sibi spai compn et ex iudlciorum pcrln» boli, no ,\ !
quc hic ulilitalis iudiciorum ocmonslrnliu et de co conquesti» ,
qui supplicium dederil indi miinlus ; in eius autem, qui sumpseril,
audacia!» pi crudrlilalcm indignali». Ah defensorp. In eius , quem ullus
sii, audacia!» sui conquesti» : rrm non ex nomine ipsius negolii, sed ex
consilio eius, qui fe ccril, et causa et tempore consideraci nporlerc
; quid mali fulurom sii ani ex iniuria aut ex seriore alicuius, nisi
tanta et Ioni perspicua audac a ab eo, ad cuius famam, aut ad parentes,
aut ad li beros perlinuerit, ani ad aliquam rem, quani caram esse omnibus
aut ncccssc est, aut oportel esse, fueril «indicata. Remolio criminis est,
quum eius inleidio f ieli, quod ab adversario inferinr, in atium aut
in aliud dem >velur. Id IH bipcrlito ; nam tum causa, lum res
ipsa removetur. Causae remotionis hoc nobis esemplo sit: Rhodii quosd.im
legarunl Ailienas. Legatis quacstorcs sumplum, quem oporlcbal dari, non
dcderunl. Legali profedi non stud Accusantur. Intenti» est : Profieisci
oportuit, Dipoi sio est: Non oportuit. Quaestio est: Opertucrilnc?
Ratio est: Sumptus enim, qui de publico dari sole!, is ab quacstore non est
datus. Inflrmalio est: Vos tamen id, quod publice vobis erat negotii
datum, conflccrc oporlcbal ludicatio est: Quum iis, qui legali eranl,
sumptus, qui debebatur de publico, non daretur, oporlueritnc eos conlieere
nihilo minus legalioncm ? Hoc in
genere primum, sicut in coieria, si quid aut ex conieclurali aut ex
alia constilulionc sumi possi! , viderì oporlcbil. Deinde pleraquc et ex comparatione
et ex rclaiione criminis in liane quoque causam convenire poterunt. Accusalor autem illum, cuius culpa id
factum reus dice!, primum dcfendel, si polcrii ; dovuta fare
di necessario; di modo clic se Tu cn-a giu-la, se fu onesta clic quella
ingiustizia veni.se portata in giudici», motto più fu onesta e
giusta rosa die si punisse a quel modo c da quello, ila cui fu cosi
punita; indi esser essa cosi manifesta, da non esser mestieri die neppure
se uè tenesse giudici». E qui con ragioni e circoslanrc simili si dee
dimostrare come si danno di molte altre cose egualmente atroci ed
egualmente chiare, le quali non solo non è necessario, ma ni eziandio
utile aspettar di punire quando ne sarà fallo il giudicio. A questo punto
toma acconcio un lungo comune: a carico dell'accusatore, mostrando la
parte arveisa clic non potendo egli negare il fallo, movente c causa del
fatto cli'cssa difende, va tuttavia a mendicare nello scompiglio dei
giudici qualche speranza di buona uscita. E qui s' ha a dimostrare
l'utilità dei giudicii, e menar doglianza sull'Infelice che doveltc
soggiacere a pena senza previa condanna, e far cruccio contro l'audacia e
la crudclvzza di colui che impose la pena. A carico del difensore,
dolendosi l’accu sante dell'arroganza di colui ch'egli ha punii».
Dirò, doversi riguardare il delitto non dal nome dell' a ITa re totale,
ma dalla intenzione di colui clic il fece, dal motivo, dalle circostanze
del tempo; c badar bene al male che ridonderebbe dalle ingiustizie c
dalle scellcranzc dei malvagi, se cosi grande e cosi Dolente audacia non
fosse punita dall'uomo clic se ne vede mistratiala la fama, o i
genitori, o i figli, o qualche atiro oggetto che necessità o convenienza
domanda clic da ognuno sia avuto a caro. È retnoziune del distillo allora
che un Iole riversa sopra un'allra persona o un'altra cosa il fallo che
l'avversario imputa contro a lui. Ciù si fa per due modi, poiché ora si
riversa sopra altrui la causa del fallo, ora il fatto stesso. Quanto alla
causa, abbiamone il seguente esempio: I Rodiani vollero mandare certi loro
ambasciadori in Alene, àia siccome i questori non diedero loro le spese,
come era dovere, gli ambasciadori per ciù non partirono. Sono accusati. Dice
l’attore: Si doveva partire. Replica colui che difende: Non si doveva. La
questione è: Sì doveva o no? La ragione, ovvero difesa: Poiché ii
questore non forni il danaro del comune, che si fornisce per consueto
agli ambasciadori. La confutazione è: Voi non di meno dovevate spedir la
bisogna che a nome del pubblico vi era commessa. Il punto da decidere si
i : Non essendo date agli ambasciadori le spese di quello del comune,
come pur bisognava, dovevano essi non ostante ciò andare in ambasceria? In quesia
causa, come in lolle le altre, é da vedere se si possa (or qualche punto
che profili! o dalla con si minus poteri!, ncgabil ad hoc iudicium
illius, scd liuius, qucm ipsc accuse!, culpam pei linere. Poslca
dicci suo quemquc officio consolerò oportcre ; ncc, si illc peccasse!, hunc
oporluisse peccare : deinde, si ille deliquerit, separabili illum sicut
hunc accusari oporlere,ct non cum huius dcfensioneilliusaccusalionem.
Defensoraulom quum celerà, si qua ex aliis incidenl
conslilulionibus, pertractaril, de ipsa rcmolionc sic
argumenlabilur. Primum , cuius acciderit culpa , demonstrabil ;
deinde, quum id aliena culpa accidisscl, ostcndel se aut non poluisse aut
non debuissc id tacere, quod accusator dica! oportuisse. Quod non polueril,
ex ulililalis partibus, in quibus csl necessiludinis vis implicata,
demonstrabitur; quod non dcbuerit, ex honeslate considerabilur. De
ulroque distinctius in deliberativo genere dicelur. Deinde omnia
racla esse ab reo, quac in ipsius Tuonili potestalc; quod minus, quatn
convencrit, faclum sii, culpa id allerius accidisse. Deinde in allcrius
culpa cxponcnda dcmonslrandum esl, quanlum volunlatis elstudii fuori! in ipso;
et id signis confirmandum huiusmodi ; ex celerà diligenlia, ex ante
factis aut diclis; alque hoc ipsi utile fuissc Tacere, inutile autem non
facere, et cum celerà vita fuisse hoc magia conscntaneum, quain quod
proplcr alterius culpam non feceril. Si autem non in hominem certum, sed
in rem aliquam causa demovebilur, ut in hac eadem re, si quaestor mortuus
esse!, et idcirco legalis pecunia data non essel accusatone allcrius el
culpae depulsione dempta, ccleris similitcr uli locis oporlebit, et ex
conccssionis partibus, quae convenienl, adsumere ; de quibus post nobis
diccndum erit. Loci autem communes idem ulrisque fere, qui superioribus
adsumplivis, incidenl ; hi tamen certissime : accusaloris , facli
indignato, defensoris, quum in alio culpa sii, aut in ipso non sii,
supplicio se adOci non oporterc. Ipsius autem gcllurjle, o da qualche
altra costituzione. Dipoi potranno anche in questa causa risponder
bene molti capi della comparazione c del lrasfc, a cui era interdetto
sacrificar vitelli. Giunti i naviganti a terra, c ignorando la legge,
sacrificarono il vitello votato. Il padrone della nave £ tradotto al
tribunale. L'accusa che gli si dà £ questa: Hai sacrificato un vitello a
quella divinità, a cui non si poteva La replica non fa che eoncedcrc. Il
motivo, o difesa, si £: lo non sapeva clic non si potesse. La confutazione 6:
Però, quando fu fallo ciò clic non era permesso, sci merilevolc del
casligo voluto dalla legge. Il punto da dover giudicare sarà così: Poichò
coslui ha fallo ciò clic non era permesso, ma ignorava clic permesso non
fosse, £ egli merilevolc o no di casligo? Il caso si rapporterà alla
concessione allorch£ mosirerassi che qualche ostacolo e impiglio fortuito
ovviasse che l'uomo non facesse a sua volontà, come in questo fatto: Era legge
in Fsparta che colui, il quale aveva l'appalto di somministrare le
vidimo, fosso punito di morte se non le avesse apprestate per un dato
sacrifizio. Cominciò adunque si fallo appaltatore di condurre dalla
campagna le villimc alla volta della città, praeslo non lucrimi. Dcpulsio
esl: Concessio. Ratio: Fluraen cnim subito accrcvil, et ra re traduci non
poluerunl. Inlìrmalio est : Tamcn, quoniam, quod lei iubct, factum non
est, supplicio digitus es. Iudicalio est : Quum in ea re contro Irgern
redemptor ali.quid fecerit, qua in re studio eius subita flutninis obstitcrit
magnitudo, supplicio dignusne sit ? Necessitudo autcm infcrlur, quum
li quadam reus LI, quod feccrit, fruisse defeudilur, hoc modo : Lei
est apud Rhodios, ut, si qua rostrata in porlu navis deprrhensa sit
poblicetur. Quum magna in alto tcmpestas esse), vis vcntoruin
invilis nautis in Khodiorum portum navem cocgil. Quaestor navem populi
vocat. Navis dominus negai oportrre publicari. Intenlio est: Rostrata
navis in porlu dcprchensa est. Dcpulsio est: Concessio. Ratio: Vi
ol necessario sunius in portum c acti. Inlirmatio est : Navem ex lego
tamcn populi esse operici. Judicalio est: Quum roslralam navem in
poi tu deprehensam L-s publicaril, quumque liacc navis invilis nautis vi
lempcstatis in pollimi conicela sit, oporleatne cam publicari? Ilorum tiium
gencrum idcirco in unum locum contuliuius esempla, quod siniilis in ra
praeccptia orgumeiibrum traditur. Nani in bis omnibus primum, si quid
res ipsa dabit fdculiatis, cnniecluram induci ab accusatore oporlcbit, ut
id, quod volunlulc factum oc gabilur, consulto faclum suspicione aliqua
demonslrelur ; deinde iuducere dclinitionem nccessitudinis, sul casus, aut
imprudenliae, et esempla ad eam dclinitionem adiungere, in quibus
iinprudcnlia foisse vidcalur, aut casus, aut necessitudo, et ab bis id,
quod reus infoiai, separare, id esl, estendere dissimile, quod levius,
facilius, non ignorabile, non forinitum, non neccssarium fueril. rosica
dcmonslrare poluissc vilari ; et hac radono provideri poluissc; si Ime
aut illud fecissct, aut, perchè avvicinava già il gioruo del sacriGxio.
Avvenne però caso che essendosi messa una fiera procella, il (lume Eurola
che scorre rasente a Sparla ingrossò di tanto c prese un andare si
impetuoso, che per nessun modo vi si poterono far passare le vittime. L'
appaltatore per dar a conoscere com'egli era d’animo di voler far
il dovere, appostò tutte le vittime sulla spiaggia per amore che le
potessero vedere quelli eh’ erano dall' altra parte del fiume, Avvegnaché
tutti sapessero die al desiderio di passare gii avea fatto ostacolo la si
tosta piena del fiume, nondimeno ci fu chi gl' intentò lite in fatto
capitale. Ecco l'accusa: Non furono in pronto lo vittime che tu
dovevi somministrare pel sacrifizio. La replica i: Vi si concede La
ragione giustificante : Giacché il Guuie fatto grosso d' improvviso mi
vietò dal tragittare le vittime alla città. La confutazione:
Tuttavia, siccome non hai fallo ciò clic comanda la legge, sei degno che
le ne sia inflitta la pena. Il punto che vuol esser giudicato è tale :
Poiché ('appallatole non apprestando le vittime ha mancato alla legge, ma
non le apprestò perchè gliene pose ostacolo la subita piena del fiume, è
egli meritevole o no di supplicio? La ncccssilà Ira luogo nella
concessione quando I' accusato deduce che a far ciò che egli fece
fu spinto da una cotale prepotenza delle circostanze. Per esempio: Vi ha legge
presso i Rodiani che in evento che sia sorpresa nel porlo loro una nave
rostrata di qualsiasi forestiere, essa diventa proprietà del comune. Or essendosi
gettato il mare a burrasca fierissima, avvenne che la furia dei
venti, nondimeno che i naviganti volesseio tener l'alto, spinse la nave loro
malgrado, nel porlu dei Rodiani. Il questore vanta per la legge clic
la nave è proprietà del comune. Il padrone sostenta che non dee al
postutto essere. Si viene alla petizione: Fu presa una nave rostrata dentro dal
porto. La rcplicu è la concessione del fatto. Il motivo di difesa : Fu la
forza dei venti cito necessarianiente u' ha avventalo addentro il porlo. La
confutazione : Tuttavia la nave a richiesta dc!la legge dee cadere in
proprietà del comune. Il punto da decidere: Essendo la riave rostrata,
che fu presa nel porto, fatta dalla legge di ragion del comune, ed
essendo questa nave avventata nel porto dulia furia delta procella a
malissimo grado dei naviganti, si dee essa o non si dee aggiudicar al comune
coinè sua proprietà? Ilo unito di seguilo gli esempli di queste tre parli
della scusa, perché son simili i precetti che si danno circa agli
argomenti proprii di tutte o tre. Difatti in tulle c tre converrà
primamente che l'accusatore, se il fallo stesso gliene olTrirà qualche
appiglio, ricorra alio parti della 9i ni sic ferisscl, praccaveri ;
el dcfinilionihns ostendere non tianc imprmlentiam, aut casum, aul
ncccssitudiricm, sed inertiam, ncgligonliam, faluilalem noininari oporlere. Ac
si qua nccessiludo lurpitodinem videbilur liabcre, oportebit per locorum
communium implicationem redargucnlcm dcmonstrarc quidvis perpeti, mori
denique salius fuisse.quam ciusmodi nccessitudini obtemperare.
Alquc lum ei iis locìs, de quibus in negoliali parie dictom esl, iuris et
aequilalis naluram oportobit quaererc, el, quasi in obsoleta iuridiciali,
per se, hoc ipsutn ab rebus omnibus separatim considerare. Atque hoc in
loco, si facullas crii, riempii* liti oportebit, quibus in s'mili
eicu«alione non sii ignotum, et contenlione, mauis il Iis ignosrendiim
fuissc , el delibcralionis parlibus turpe ani inutile esse concedi eam
rem, quac oh aihcrsario commis»a sit ; permagnuin esse, cl magno
fulurum detrimenln, si ea res ab iis, qui pntest ilern habenl viodieandi,
neglecla sii. ltiTensor aulein conversi! omnibus bis parlibus
poterit oli. Hhivime aulein ili vidimiate defeiidenda commnridiilur. el
in ea re adaugenda, quae vnluntati fiieril impedimento; el se plus,
qnam feeerit. tacere non poluisse ; el in omnibus rebus «oliintalem
speelari oporlere; el se convinci non posse, quod alis i a culpa: et et suo
nomine eomtnunem Immillimi inlirntilalem posse doni nari. Deinde n ini
esse indignius, qoam cuni, qui culpa careni, supplicio non rarere. Loci
aulein commuiies accussaioris, in contcssionem, el quanta pntestas
peccandi rclinqualur, si semel iuslilu questione
congetturale, per potere quando l’accusalo dicesse aver tatto contro sua voglia
ciò che egli fece, dimostrare col melterc in rilievo qualche
sospetto eh' egli anzi ha tallo a sciente c a bello studio ; dipoi si
dovrò porgere la definizione della necessità, o del ca-o, o della
ignoranza, e aggiustar a quella definizione esempii si falli che dimostrino
etTetlivomente o ignoranza, o caso, o necessità, c separare da questi il fatto
presente, voglio dire farlo conoscere ben diverso da quelli, asseverando
che qui il fallo era di meno importanza , più agevole, non ignoto, non
forlunevole, non necessario. Dipoi si vorrà dimostrare che l’accusalo
poteva schivarsene, e darsi attorno facendo questo o quello, perchè nulla
avvenisse, o almeno prevedere dò che sarebbe seguilo se nè questo nè quello
avesse fallo; e col mezzo delle definizioni mettere in chiaro che il fallo
presente non dee nominarsi o tratto d'ignoranza, o caso, o necessità, ma
più presto dipendere da inerzia, negligenza, stolidezza. Che se nella necessilà
fosse impigliala qualche azione ignominiosa, converrà all'accusatore col
mezzo ili varii luoghi comuni mostrare che saria sialo meglio patire
qualunque stremo, e fin anche la morte, che obbedire a necessità di
quella fatta. Inoltre converrà ilielio la guida di quei luoghi, di che si
è dello parlando dello stato negoziale, cercare quale sia la natura ilei giure
e dell'equità. c. come si Tu nella causa assoluta di genere giuridici.de,
considerar ciò medesimo di per sè, separatamente da ogni altra rosa. E
qui, se pure se n'avrà in pronto, dovrassi addurre esempii di
falli, che quantunque giustificali per mezzo di scusa simile, pure non
hanno ottenuto perdono, c mostrare por via di confronto che quelli
allato a questo erano perdonabili mollo più di vantaggio, ed entrando a
ragionare dietro le regole dello s'ato deliberativo, far vedere essereosa
turpe o inutile clic del suo delillo il reo se la passi liscia: esser
cosa di troppo momento, c elio ridonderà a gran male, tc di lai delitto si
volessero trascuratamente passare coloro che hanno l'autorità di esigerne
la pena. XXXIII II difensore all'opposto potrà valersi di tulli
questi argomenti, ma in verso contrario. Egli però si fermerà il più a
difendere il buon volere (l' Il'aecu-ato, e ad esagerare ciò che
gli intervenne inciampo e di ostacolo: sosterrà ch'egli non ha potuto
fare più di quello che fece; e clic in ogni azione deesi aver in mira
l'intendimento, e la volon'à: e che egli non può esser convinto
perchè da colpa è ben lontano; e che se si condannasse per questa sua causa, si
potrebbe egualmente condannare la debolezza comune a lutti gli uomini.
Dirà poscia, non v'esser cosa più crudele lum sii, ut non de facto, sed de
facti causa quaeratur : defcnsoris conquestio est calamilatis cins, quae
non culpa, sed si malore quadam accideril, et de forlunac polestalc, et
hominum iulirmitalc, et, uti suiim animum, non cvrntum considerent.
In quibus omnibus conquestioncm suarum acrumnarum, et crudelilalis
adversariorum indignalionem inesse oportebit. Ac neminem mirari convcniet, si
aut in his aut in aliis exemplis scripti quoque conlroversiam adiunctam
videbit. Quo de genere posteritnobisscparalim dicendum, propterca quod
quaedam genera causarum simpliciter ex sua vi considerantur, quaedam
aulem sibi aliud quoque aliquod controvcrsiac gcnus adsumunt. Quarc
omnibus cognilis, non erit difficile in unam quamque causam transferre,
quod ex eo quoque genere convenict; ut in bis exemplis conccssionis
inest omnibus scripli controversia ea , quae ex scripto et sentenlia nominatur
; sed, quia de concessione loquebamur, in eam praecepla dedimus. Rune in
alleram concessioni; partem consideralionem intcndemus. Deprecatio est, in
qua non defensio faeli, sed ignoscendi postulatio continetur. Hoc Bonus vix in
iudicio probari polest, ideo quod concesso peccato difficile est ab co, qui
peccalorum rindex esse debet, ut ignnscat, impetrare. Quarc parte
eius generis, quum causam non in eo constitueris, uti licebit. Uti si prò
aliquo claro aut forti viro, cuius in rem publicam multa suoi beneficia,
dixeris, possis, quum videaris non uli deprecalionc, uti tamen, ad hunc modum :
Quodsi. iudices, hic prò suis bencflciis, prò suo studio, quod in
vos semper habuit, tali suo tempore multorum suorum recte factorum causa uni
deliclo ut ignosceretis postulare!, tamen dignum veslra mansuetudine,
dignum virtute huius csscl, iudices, a vobis hanc rem hoc postulante
impctrari. Deinde angere beneficia licebit , et iudices per Iocum
communem ad ignoscendi volunlatem deducerc. Quaro hoc genus. quamquam in
iudiciis non ver di quella, che soggiaccia a pena quell'esso, che di male
fallo non è punto reo. I luoghi comuni che gli tornano a prò li piglierà
l’accusatore, l’uno da ciò che confessa il reo di aver fatto, l’altro
dal far osservare che si lasccrohbe a tulli un pieno arbitrio di
venire a nequizie, se una volta si autorizzasse l'abuso di far il processo non
del fatto, ma della causa del fatto. I luoghi a prò del difensore sono:
il deplorare quella disavventura che occorse non per colpa dell'accusato,
ma per una forza maggiore, cui egli non fu poderoso a ribattere; il
lamentare sopra la gran possanza della fortuna e la debolezza degli uomini, c
clic si voglia alle intenzioni di lui attribuire una pravità, anzi
che cercar la cattiveria del fatto nelle circostanze che lo
accompagnarono. In tutti questi punti dovrà il difensore mostrar
doglianza delle disgrazie del suo protetto, c sdegno della crudeltà degli
avtcr sarii. Nè dee prender maraviglia chi che sia, se in questi
esempi, come in ogni altro, vedesse involta controversia altresì di
scritto. Di questo però ho da parlare distintamente più sotto, poiché
alcuni generi di causa si riguardano puramente in sè e nel solo
punto controverso in cui s'aggirano, ed alcuni altri associano alla
propria qualche altra I specie di controversia. Quando adunque sieno
ben conosciuti i capi precipui di ogni causa, non sarà malagevole
introdurre in ciascuna quel tanto della controversia di scritto che l'è
occoncio o che vi calza: ed anzi in questi medesimi esempi della
concessione è inchiusa la controversia clic si domanda di scritto e di senso;
ma siccome si parlava della concessione sola, non ho dato altro clic i
precetti che erano relativi ad essa. Dello scritto e del senso parlerò
altrove. Ora passiamo a considerare la seconda parte della concessione. Preghiera
è quel discorso, in cui consiste non la difesa del fallo, ma la istanza che
gli sia dato perdono. La preghiera di questa specie è troppo
difficile che in giudirio possa essere poderosa, perchè quando il delitto è
confessalo, appena può darsi che lo perdoni colui che ne dee anzi essere
il punitore. Laonde, qualvolta la tua causa non sia così spallala, che tu
non le possa dar altro per appoggio che la preghiera, dovrai usarne
con parsimonia solo qualche parte. Per esempio se Iti arringassi a
prò di un personaggio di gran levatura o valore, il quale avesse recali di
molli benefizii alla repubblica, potrai, facendo partila di non dar punto
in preghiere, darvi non di meno a questa guisa: che se quest'uomo, o giudici,
clic sa di aver fatti imporlanti bcnclìzii, e preso per voi tulli
molto impegno e premuraci facesse istanza che in si grave sua disgrazia
voi altri a riguardo di latito buone e belle sue azioni gli aveste a perdonare
il satur, nisi quadam ex parie, lamen, quia el pars ' haec ipsa
ìnducenda nonnumquam osi, el iq se- nalu, aut in consilio saepe omrii in
generp, tractanda, in id quoque praceepla pnnemus. Nani in senalu el in
consilio de Syphacc diu deliberatimi | esl ; el de Q. Numilorio Pullo
apud L. Opimium | et eius consilium diu diclum est. Et magia in Ime
quidem ignoscendi quam cognoscendi poslulatio Tatui!. Nani semper animo
liono se in popolimi Romanum fuisse non lam Tacile probabili, quurn
coniccturali conslitutionc uleretur, quam ut propterpostcrius bcneDcium sibi
ignoseerclur, quum deprecationis partes adiungerct. Oporlebit igitur
eum, qui sibi ut ignoscatur , postulabit , commemorare , si qua sua
poteri! beneficia, et si polcrit ostendere ea malora esse, quam haec, quae
deliquerit, ut plus ab eo boni quam mali proTcclum esse videatur ;
deinde maiorum suorum beneficia, si qua cxstabuoi, proTcrre; deinde ostendere
non odio ncque crudclilate fecisse , quod fecerit , sed aut atuUilia, aut
impulsu alicuius, aut aliqua boneala, aul probabili causa ; poslea polimeri el
confirmarc se et hoc peccalo doclum, el beneficio eorum, qui sibi
ignoverint, confirmalum , ornili tempore a lati radono afuturum ; dcinilc
spem ostendere aliquo se in loco magno iis, qui sibi concessemi,
usui fulurum. Poslea, si facullas eril, se aul consanguincum, aul iam a
maioribus in primis amicum esse demonstrahit, el ampliludinem suac voluntalis ,
nobili latem generis eorum, qui scsalvum velini, el dignilalem estendere,
el celerà ea, quae personis ad honestalem et amplitudinem sunt allribula,
cum couqueslionc, aìne adrogantia, in se esse demonstrahit, ut bonere
polius aliquo, quam ulto supplicio digiius esse videatur ; deinde celeros
proTerrc, quibus moiora solo delitto ch’egli ha commesso,
sarebbe pure un tratto degno della clemenza vostra, o giudici, e
degno della virtù di tanto uomo clic voi scendeste a indulgenza si fatta
per essere si Tallo il personaggio clic la vi ehiede. Dipoi si potrò mettere
in sul grande i delti lienefizii, e col maneggio del luogo comune
clic è calzante ed alto a ciò, piegare il cuore dei gindici a volere pur
perdonare. Il perchè, sebbene dilla preghiera non si dee far uso ne’
giudicii se non che per qualche poco, lunaria perchè quesla porle
medesima si dee pur qualche rolla interporre, ed ami incontra
sovcnle che o in senato o in consulta si debba trattar la preghiera
per ogni sua parte, così verrò qui dando i precetti che a questo capo si
riferiscono. Certo è clic sull’ aliare di Si Tace cosi in senato come in
consulta si deliberò molto a dilungo se gli si dovesso perdonare, ed
altresì sopra Q. Numilorio Pullo fu parlato lunga pezza davanti L. Opimio
e ga sua consulta; c massime nella causa di Numitorio Tu senz'altro piò
valevole il fare istanza clic gli fosse perdonalo, elio non l'insistere
perchè ne seguisse il processo. Non era infatti troppo facile per lui,
essendo la sua causa basala sul congellurale, far vedere manifestamente
ed in prova ch’egli fosse stato sempre di buone intenzioni e voleri verso
il popolo Romano; ben per contrario gli fu facile ottenere che gli fosse
perdonato, Ira in vista del beneficio che da ultimo avea fallo, c mollo
piò per avere al suo ragionamenlo aggiunta la fona dello preghiere.
XXXV. Converrà dunque che colui il quale facesse istanza perchè gli
fosse perdonalo, vada ricordando i benefizii che potesse aver fallo, e
mostrando, se il caso gliene pcrtnclterà.ch’cssi in confronto sono mollo piò
rilevanti clic non le mancanze ch'egli lia commesse, tanto che si paia
che ha fallo del bene troppo più che del mole; dipoi dovrà recare
in mezzo, se polrà vantarne, i benefizii dei suoi maggiori; indi dar a divedere
come a ciò che egli fece non fu indolto nè da odio nè da
crudelezza, ma o dalla scioccaggine o dalle istigazioni di alcuno,
ogipure perch'egli n'ebbe una causa onesta o lodevole; dappoi dar parola
e far ad ogni modo fede eh’ egli ammaestrato dalla esperienza presa nella
prcscnlc sua colpa, e reso raffermo e savio dal beneficio di quelli che di
quel fallo gli perdonarono, non vorrà piò in nessun tempo adoperarsi mai
di quella maniera; inoltre mostrare anche speranza che in qualche occasione
ei polii pur fare avvantaggio mnlloe servigio a quelli die avranno
indulto con lui. Dipoi, se avrà ragioni da polerlo fare, dimostrerà aver egli
parentezza con quelli a che rivolge le suo preghiere, oppure
coltivala sempre l' amicizia che verso loro gli fu concessa dclicta sinl.
Ac mullum profìcicl, si se miscricordem, in polestalc propcnsum ad
ignosccndum fuissc oslendcl. Alque ipsuin illnd peccalum crii cxtcnuandum, ut
quam minimum obfuisse videatur, etani turpe aul inutile demonstrandum tali de
liominc supplicium sumere. Deindc loda communibus miscrieoMiam captare
oportebit ex iis praeceptis, quae in primo libro sunt
eiposila. Advcrsarius aulem malefacta augcbil: nibil imprudentcr,
sed omnia ci crudelitale et malitia fa da dicet; ipsum misericordcm,
superbum fuissc, et, si poteri!, ostendet semper immicum fuisse et amicum fieri
nullo modo posse. Si beneficia proferel, autaliqua decausa facla,
non proplcr bcncvolenliam dcmonstrabil, aut poslea odium esse acre
susccplum, aul illa omnia maleficiis esse deleta, aut levìora beneficia quam
maleficia, aut, quum bencficiis bonos habitus sii, prò maleficio pocnam
sumi oportere. Deinde turpe esse aut inutile ignosci. Deinde, de quo ut
polestas esse! saopé optarint, in eum polestate non uti summamesse
stulliliam; cogitare oportere, quem animum in cum et quale odium
habuerint. Locus aulem communis erit, indignano maleficii.et alter,
eorum misereri oportere, qui proplcr fortunam, non proplcr maliliam in
miseriis sinl. Quoniam ergo in generali conslilutione lamdiu
proplereius parlium mulliludinem commoramur, ne forte varietale et
dissimililudine rerum diduclus alicuius animus in qucmdam errorem
deferatur, quid etiam nobis ex eo genere resici, et quare resici, admonendum
videtur. Iuridicialcm causam esse dicebamus, in qua acqui et iniqui natura et
praemii aul pocnae ratio quaererelur. Eas causas, in quibus de acquo et
iniquo quaerilur, exposuimus. trasmessa dai maggiori, c farà conoscere il
grande suo buon volere, come altresì la nobiltà della stirpe e la
grandetta degli ufllcii tenuti da quanti il bramano salvo o risparmialo:
dimostrerà avere in sé, pure clic il faccia con parole dimesse e in tuono
presso ette lamentevole, tulli quei caratteri che son proprii delle
persone clic per grandetta c onestà ranno dagli altri distinte, sicché faccia
in certo modo apparire esser egli meritevole piullosto di qualche onore
ebe di un castigo: inoltre nominerà tulli gli altri, quanti ne sappia, a cui
furono perdonati delitti vie più gravi del suo. Mollo anche gioverà
alla sua causa, se mostri com'egli fu sem. pre compassionevole, e come
sempre che ebbe csercitio di autorità fu inchino ad usar perdonanti ed
indulto. Anche dovrà il difensore appicciolir la colpa dell' accusalo, e
mostrare che il danno indi venutone é da nulla, ed esser o cosa vana o da
far disonore il soggettare a castigo una persona tale. Dipoi si
vorrà con l'uso de' luoghi comuni accattargli compassione secondo i precetti
che nel primo libro se ne son dati. L'avversario per contro amplificherà
il delitto: dirà che niente vi fu fallo per ioconsiderama, ma lutto ami
per malizia e crudelezia: che egli fu superbo e senza pietà; c dove il
possa, farà vedere ch’egli fu sempre porlalo alle nimicizie, e che
amicarlo mai per nessun modo è possibile. Se toccherà i benefizii da lui
fatti, dimostrerà che essi ebbero origioe da qualche ragione di suo
vantaggio, non da animo proclive a ben volere, oppure eh’ egli poi ti attossicò
con l' odio acerbo in che colse i beneficali, o che i benefizi! furono
distrutti da altrettanti diservigii e male cose, o che il ben eh’ egli
fece fu da meno che il tanto male, ovvero che deesi oggimai, poiché hanno
avuto la debita mercede i suoi benefizii, volere il castigo delle
sue malvagità. Poscia verrà dicendo che il perdonare sarebbe una
inutilità, o un tratto vituperevole: essere un troppo scioccheggiare il
non volere punto far uso i giudici sopra costui di quella autorità che
sopra di esso hanno tante volte ambito di avere: dover essi riandar seco quanto
mal animo e qual odio a quel tristo hanno già portato. E qui il
luogo comune che fa al proposito è in prima lo andar in parole piene di
sdegno contro il delitto dell'accusato, secondamente mostrare che
si dee aver pietà s) bene, ma solo di quelli che sono flagellali dalla
fortuna, non di quelli che sono nelle miserie per loro propria malvagità.
Ma posciachè io mi trattengo cosi alla lunga circa la costituzione
generalo per la moltitudine delle parti eh’ essa comprende, voglio
ammonire che altro mi resti ancora di questa trattazione, e perchè mi
resti; e il vo' fare perchè qualcuno per ar Restai nunc, ul de praemio, et
de poena explieemus. Sun! cnim mullae causae, quae ex pracmii alicuius
pctilione Constant. Nametapud itidices de praemio saepe accusalorum
quaerilur, et a senaiu aul a Consilio aliquod pracmium saepe
pelilur. Ae neminem conxeniet arbitrari nos, quum aliquod exemptum
ponainus, quod in senatu agatur, ab iudiciali genere exemplornm recedere.
Quidquid cnim de homine probando aut improbando dicitur, quum ad cam diciioncm
scntentiarum quoque ratio accommodetur, id non, si per senleiiliae
diciioncm agilur, dcliberativum est; sed quia de homine staluitur,
iudicialc est habendum. Omnino autem qui diligcnter omnium causarum
vim et naturam cognoverit, genere et prima conformationc eas inlelliget
dissidere. Ccleris autem partibus aptas inter se omnes et aliam in alia implicatalo
videbit. Nunc de pracmiis consideremus. L. Licinius Crassus consul
quosdam in citeriore Gallia nullo illustri neque certo duce, ncque
eo nomine, ncque numero praeditos, ut digni cssent, qui hoslcs
pnpuli Romani esse dicerentur, qui lune cxcursionibus et latrociniis
infestam provinciam reddercrit, consectatus est et confecit. Romani rcilil :
triumphum ab senatu postulai, llic, ut et in deprccatione, niliil ad nos
allinei rationibus et inflrmationibus rationum supponendis ad
iudicationem pervenire, propterea quod, nisi alia quoque incidcl
conslitutio, aul pars constilulionis, simplex erit iudicalio, et in
quacslione ipsa contincbitur. In deprccatione, huiusmodi : Oporteatne
pocna adfici? In hac, huiusmodi: Oporteatne dari pracmium ? Nunc ad
praemii quacstionein appositos locos exponemus. Ratio igilur praemii
qoatuor est in partes distributa : in bcnelicia, in hominem, in
praemii gcnus, in facultates. Beneficia ex sua ri. ventura non pigliasse le
cose a rovescio, tratto in errore dalla varietà e dissomiglianza di esse,
lo già diceva, quella essere causa giuridiciale, in cui si cerca la
natura del giusto e dell' ingiusto, e la ragione del premio e della pena;
ed anche ho csposlo le cause, nelle quali del giusto e dell'ingiusto si la la
debita investigazione. Resta dunque adesso che si venga a parlare del
premio e delia pena. Ci sono di molle cause, le quali consistono nella
domanda di qualche premio. E infatti si controverte spesso davanti ai
giudici del premio da dover dare agli accusatori c cosi ancora molle
delle volte si domanda premio dalla consulta o dal senato. Nessun però creda
che quando io reco alcun esempio di causa che si agili in senato, io mi
diparta dagli esempii di genere giudiciale; conciossiachè ciò che si dice
o a lode o a biasimo di una persona, quantunque eziandio a questo
genere di dicitura vada spesso unita la pronunzia della sentenza, non si
vuole però per la ragione della sentenza ascriver al genere deliberativo
la causa di lode o di biasimo: nondimeno, siccome si tratta di persona da
prosciogliere o da condannare, la causa è per questo da agitarsi
con le forme del genere giudiciale. Del resto, chi conoscerà a fondo la
forza e la natura di ciascuna causa, intenderà che tutte hanno bensì una
differenza si nel genere primario e si ancora nella forma, ma che però
nelle rimanenti lor parti son tutte collegate fra loro, c come a dire l' una
impigliata nell' altra. Ora dunque entriamo a far parola circa 1 premii.
Il console L. Licinio Crasso nella Gallia citeriore s' avvenne in una
banda di armali che avea per capo una persona oscura, o a meglio
dire non avea nessun capo stabile, e ni pel nome con che veniva
designata, ni per lo numero dei combattenti, non meritava esser della al popolo
Romano nemica ; e solo con i ladroneggi e l'andare in corso molestava la
provincia. Il console non di meno le diede addosso, e la pose in rolla e
sgominio. Tornato a Roma, chiede che ii senato gli decreti il trionfo.
Qui, come anche nella causa che si fonda sulla preghiera, non ci i
mestieri di metter innanzi nè le ragioni giustiDcanti, nè le repliche incontro,
per venire al punto da giudicare, poiché se non interviene un' altra
costituzione, o una sua parte, il punto da giudicarsi è uno solo,
quello che si contien nella questione. Nello stato di preghiera questo
punto è, Se si debba o no infligger la pena: nel presente, Se si debba o
no dare il premio richiesto. Ora sporremo i luoghi acconci alla
questione di premio. La ragione del premio è di quattro maniere, secondo
che si riguardano o i benefizi!, o la persona che li fa, o la qualità del
premio, o ex tempore. Gì animo eius, qui feci!, ex casu consideranlur. Ex
sua vi quaercntur lioc modo : magna an parva, facilia an dilBcilia, singnlaria
sinl an vulgaria, vera, an falsa, quanam cxornalione honeslcnlur.
Ex tempore aulem, si lum, quum indigcremus ; quum celeri non possent aul
nollcnt opitulari ; si lum, quum spes deseruissct. Ex animo, si non sui
commodi causa, si co consilio fccil omnia, ut hoc conlicere posso! ; ex
casu, si non fortuna, sed industria faclum videbitur, aul si induslriae
fortuna obslitisse. In hominem aulem, quibus raliunibus viieril, quid
sumplus in eam rem aul laboris insumpserit ; cequid aliquando tale
fcceril ; num alieni laboris aut deorum bonitatis praemium sibi postulel ; num
aliquando ipse lalem ob causam aliquem praemio adOci negarli
oportere; aut num iam salis prò co, quod feccril, honos habitus sii; aul
num necesso fueril ei tacere id, quod feceril ; aul num ciusmodi sii faclum,
ul, nisi fecisset, supplicio dignus esse!, non, quia fecerit, praemio ;
aul num ante tempus praemium petat, et spem incertam certo vendilet
predo: aut num, quod supplicium aliquod vile), eo praemium
postulet, uti de se praciudicium factum esse videalur. In praemii autem
genere , quid et quantum et quamobrcm postuletur, el quo et quanto
quaeque rcs praemio digna sii, considerabitur; deinde apud maiores quibus
hominibus et quibus de causis lalis honos habitus sii, quaeretur ;
deinde, ne is bonos nimium pervagclur. Alque bic eius, qui conira aliquem
praemium postulameli) dicet, locus eril communis: praemia virtulis et oRìcii
sancta et casta esse oporlere, ncque ea aut cum improbis communicari, aul
in mediocribus hominibus pervulgari ; el alter : Minus homines virlutis cupidos
forc, virtulis praemio pervulgato; quae enim rara et ardua sinl, ea ex praemio
pulcra et iucunda hominibus v ideri; et tertius: le sostante dal
benemerente possedute. I bcnelìiii si vogliono considerare in quanto al
peso che hanno in sì, in quanto al tempo, nH'inleniione di chi li
fa.all'accidcnte da cui forse dipendono. Rispetto il peso che hanno in
sì, si cercherà se siano grandi o piccoli, se fatti con travaglio o
senta, se siano slraordinarii o comuni, se veri o se falsi, c da
quali speciose parole siano onestali. Rispetto il tempo, si
cercherà se ci furono falli quando ci andavano a bisogno; se quando gli
altri non potevano o non ri voleano aiutare ; se quando ogni speranza
ne facevamo già andata. Rispetto alla intenzione, se altri fece il
benefizio senza nessun disegno di proprio interesse, se operò tutto con l’
intento di poter elTeiluare quel bene : rispetto all'accidente, se il
beneficio ha vista di esser fallo non a fortuna, ma piuttosto a belio
studio, ovvero se fu il caso che oppose ostacolo alla premura e al buon
volere. Si vogliono considerare i benefizii relativamente alla persona che li
fa, badando quali furono i modi del trarre costui la vita, quali spese
abbia sostenute o quali fatiche per acquistarsi quel merito : se altre
volle abbia fallo azioni altrettali : se domandi un premio dovuto alle
altrui fatiche, o che non è largito che dalla sola bontà degli dei
; se abbia mai detto che per una tale ragione quel premio non dee
esser dato a nessuno ; o se per quello che ha fatto n'abbia già avuto una
sufficiente mercede ; o se egli fece niente altro che quello che non
poteva a meno di fare ; o se l' azione fosse di tale necessità, che se non
l’avesse fatta saria stato degno di supplizio, piuttosto clic esser
degno di premio per averla falla ; o se voglia esser premialo quando il
tempo non ì da ciò, non si sapendo ancora I* appunto del suo merito , e vender
per un prezzo certo una cosa ancora incerta e dubbia ; o se chieda un
rimerito con la mira astuta di cessarsi da qualche punizione, facendo
quasi apparire che si fosse già fatta un’ ordinanza a suo favore prima che
l'alTare n’andasse al giudicio. Quanto è alia qualità del premio,
bassi a vedere quale e quanto grande sia la cosa eh’ è domandata, e
per qual motivo, e poi di quale e di quanto premio ciascuna azione sia
degna : indi si verrà esaminando a quali persone fra gli antichi e
per quali cause siasi conceduta una tale mercede; dipoi si baderà che
mercede si fatta non abbia a divenire troppo comunale. E qui ecco il
luogo comune da dover usare chi arringherà contro il postulante: i premii
dovuti alla virtù c a qualche rilevante mansione volersi avere in luogo di
cosa santa e di pura, nè doversene far partecipe la gente malvagia,
o farsi tener a vile col lasciarsi andare alle mani di uomini mediocri e
volgari; ed ecco un Si exsislanl, qui apud maiores noslros ob oprepiani
virliilem lati lionorc (tignali smit, nonne de sua gloria, quum pari
praemio loles liomines alitici vulcani, dilibari pulenl ? cl coruin
enuineralio Ct rum eis, quns conira ilicas, comparano. Eius autem.
qui pracmiiim pelei, tarli sui amplificano, eorum, qui praemio adfccli
sunl. cum suis taclis conlenlio Deindc celeros a virlulis studio rcpulsum
iri, si ipse praemio non sii adfeclus. Facullales aulem considcranlur, quum
aliquod pecuniarum pracmium poslulalur ; in quo, ulrum co piane sii agri
vectigalium, pccuniae, an penuria, consideralur. Loci communes: Ka rullo
Ics augerc, non minuerc oporlere.cl : Impudcntcm e<se, qui prò
beneficio non graliam, verum merredem postulo! ; conira aulem de pecunia
raliocinari sordidum esse, quum de gralia reterenda dclibcrclur ; el, se
prclium non prò tarlo, sed honorem ila, uli faclilatum sii, prò beneficio
postulare. Ac dcronstilulionibus quidem salis dicium esl : nunc de iis
conlroversiis, quac in scriplo rersanlur, dicendum videlur. In scriplo
vcrsalnr controversia, quum cv scriplionis ralione aliquid dubii
nascilur. Id lì l ex ambiguo, ex scriplo cl scnlenlia, ex conlrariis
Icgibus, ex raliocinationc, ex definilionc. Ex ambiguo autem nascilur
conlruvcrsia, quum, quid setiscrii scriplor, obsrurum esl, quod scriptum
duas plurcsvc res significai, ad huno modum : Palerfamilias, quum lilium
hcredem tacerei, vasorum argenleorum contimi pondo uxori suae sic legavi!
: lleres meut uxori mene iiasorum argenieorum pondo cenlum, quae
rotei, dato. Posi mortem eius vasa magnifica ct pretiose cadala pelil a
(Ilio maicr. lite se. quae ipse velici, debere dici!. Primum, si fieri
poteri!, demonstrandum est non esse ambigue scriptum, proplcrca quod omnes in
consucludine scrmonis sic uti solenl eo verbo uno pluribusve io eam seatealiam,
in quam is, qui dice!. altro : Rendersi chi che sia meno bramoso della
virtù, se vedesse il premio ad essa dovuto divenire quasi che una
trivialità ; rhè le cose rare c mala, geroli a conseguire sono appunto
quelle che gli uomini, ore le ottengano in premio, hanno in conto
di gioconde c di belle; e tenamente : Se v' ha tra i nostri antichi di
quelli ebe per la sfolgorata loro virtù furono giudicati di tal premio
meritevoli, non crederebbero essi forse che la gloria loro se ne
andrebbe scemala, se vedessero un premio eguale cader nelle mani a persone
che non ne son degne? c qui viene in concio che tu venga noverando
quei tali amichi, e li metta a confronto con quelli, contro ai quali tu
arringhi. Quanto a colui che chieda il premio, ei maneggerà il seguente
luogo comune; darà Importanza al fallo ch'egli operò, e farà comparazione
di quanto operarono quelli che furono premiali con quanto ha operato egli
stesso. Dipoi farà vedere elicsi obbligherebbe ogni altro a rompersi
dall’ amore alla virtù, dove egli del suo ben fare non fosse rimeritato.
Alle sostanze si dee aver riguardo allorché é domandato qualche premio
in danaro ; e rispetto a questo caso si esamina se il petente è
bene avvantaggialo di campagne, di entrate, di dauaro, o se per contrario ne
patisce difetto. I luoghi comuni sono questi : Le sostante si deono
accrescere, non mica scemare, c : Voler avcre una fronte invetriata colui che
per un benefizio chiede una paga, anzi clic un alto di riconoscenza ; per
contra si dirà essere una grettezza che mentre si consultano consigli
intorno a grazie da riferire, sì faccia computi sul danaro da dover
numerare ; c, chieder egli non già il prezzo della sua azione, ma un
premio del suo beneficio in quel modo o misura clic altre assai volle fu
praticato. Or questo tanto potrà bastare ad essersi detto delle
costituzioni: adesso è da dire di quelle controversie che si aggirano sopra lo
scritto. XL. È controversia circa allo scritto, allorché dal modo
con che lo scritto fu espresso ne viene qualche dubbielà. Nasce essa
controversia dalla espressione ambigua , dallo scritto e dal senso,
dalle leggi che si fan contro, dal raziocinio, dalla definizione. Nasce
controversia dalla espressione ambigua quando é oscuro c non si può
compren* dere che volesse dir lo scrittore, però che la sua
espressione significa due o più cose. Per esempio; Dii padre nell'
istiluiro suo erede il figlio legò alla moglie de' vasi d'argenlo per lo
peso di cento libbre, e acrisse cosi: Il mio erede dia a mia moglie, per
lo peso di cento libbre, de’ vasi di argento quelli che vorrà. Poi che il
marito si mori, la madre domanda dal figlio de’ vasi magnifici, che aveano gran
lautezza d' intagliature. Costui risponde che le dovea quelli eh' egli volesse.
Or la pri aecipiendum esse demonstrabit. Deinde ex superiore el et
inferiore scriptum docciulum iti, quoti quaeralur, (Ieri perspicuum.
Quare si ipsa srparatim ei se verba considcrenlur, omnia aul plcraque
ambigua visiim iti ; quac auleni ex omni considerata scriptum perspicua Kant,
baec ambigua non oporlcre eiislimari. Deinde, qua in sentenlia scriplor
fueril, ci celerà eius scriplis et ex faclis, dittila, animo alque fila eius
stimi oporlebil, el cam ipsam scriplurnm, in qua inerii illud
antbiguum, de quo quaerctur, totani omnibus ex partibus pericolare, si
quid aul ad id appositum sii, quod nos interprclcmur, aut ei, quoti
adversarius inlelligat, Qdvcrsetur. Nani facile, quid verosimile sii
eum voluisac, qui scripsit, ex orniti scriptum , et ex persona
scriploris, alque iis rebus, quae personis attributac sunt, considerabilur.
Deinde erit dcmonstrandum, si quid ex re ipsa dabilur factillalis, id, quod
adversarius inlelligat, multo minus commode Aeri posse, quam id, quod nos
accipimus, quod illius rei ncque adminislratio neque exitus ulius ciste!
; nos quod dicamus, facile et commodc iransigi posse. Ut in hac lege
(nibil enim prohibel (iclam «empii loco ponere, quo facilius res
Intelligalur) : «eretrix coronarti ne habclo; si habueril , pubitea erto,
conira eum, qui merctricem pubi icari dical ex lege oportere, possi! dici
neque adminislralionem esse ullam publicac meretricis, neque exilum legis in
meretrice publicanda; at in auro publicando et adminislralionem et exilum
facilem esse, cUncommodi nibil incsse. Ac diligentcr illud quoque
allenderc oportebit, anni, ilio probato, quod adversarius inlelligat, res
utilior, aul honcstior, aul magis necessaria a scriptorc ncglecta videalur. Id
fìct, si id, quod nos demonslrabimus, bonestum, aul utile, aut
necessariitm demonslrabimus ; et si id, quod ab adversariis dicclur,
minime eiusmodi esse dicemus. Deinde, si in lege erit ex ambiguo conlroversia,
dare operam oporlebil, ut de co, quod adversarius inlelligat, alia in lego
caulum esse do ma cosa, in evento cito si possa, decsi
dimoslrare non essere punto ambigua la scrittura, conciossiacbè tutti
nell’ uso comune del parlare cosi sogliono adoperar quell' una o ptù voci per
esprimere quel senso, nel quale citi parla dimostra esse voci dover
essere intese. Dipoi è da ammonire clic ciò clic si cerca è già reso
evidente dal contesto che precede c da quello che segue. Se si volesse
attenersi a questa o a quella parola presa separalamente c di per sé, tulle le
parole, o almeno la più parte, potranno aver aspetto di esser ambigue;
ma non si dcono tenere per tali quelle che son già messe in evidenza
dall'esame del contesto e complesso dello scritto. Dipoi, a voler conoscere
qua; fosse la mente dello scrittore, si vorrà roviglior e razzolare
tutti gli altri di lui scrini, i falli, i detti, il modo di pensare, il
modo di vivere, e scrutar In ogni sua parte tutto lo scritto che porla la
della ambiguità, per conoscere se alla espressione ambigua che
interpretiamo ne sia soggiunta qualche altra che ne la chiarisca, o che
stia contro a quel senso che l' avversario crede di dover inferire: perocché
sarà anzi facile trovare ciò che verisimilmente abbia voluto lo scrittore,
quando si voglia por mente a lutto lo scrino, e alla persona che
scrisse, e a quelle altre cose clic alle persone si riferiscono. Dipoi
sarà da dimostrare, se la cosa slessa ne porgesse qualche appicco, che
ciò che intende l'avversario si può fare molto meno utilmenlc che ciò
clic intendiamo noi, poiché quello non è conduccnlc a vcrun vantaggio, a
vcrun successo ; mentre ciò clic diciamo noi può leggermente c con vantaggio
comporre ogni cosa. Citiamo per esempio questa legge ( che niente vieta
il pigliar ad esempio una legge immaginaria, purché s' intenda la
cosa più di facile) : Nessuna meretrice porterà corona : se una la portasse,
sarà incamerata. Contro colui che dicesse doversi iti for za della legge
por nel fisco la meretrice, si potrà rispondere non avere il comune alcun
provcnlo da una donna pubblica, nè v' essere nel recarla al fisco alcuno
scopo della legge : bensì »' essere e provcnlo al comune e scopa della
legge incamerando l’oro di che è composta la corona, senza che ne emerga
un menomo clic di svantaggio. Si vorrà eziandio ben attendere, se nel
caso che fosse adottato il seoso voluto dall’ avversario, possa
parere che lo scrittore abbia trascurala qualche cosa piò utile, o più onesta,
o più necessaria. E questo si farà, se porremo a vedere che ciò
cito adontatilo noi è onesto, od utile, o necessario ; e che ciò
che dicono gli avversarli non porta nessuna di queste qualità. Dipoi, se la
controversia sarà circa I' ambiguo che si trovasse in una legge, si
vorrà meller opera a dimoslrare che all' inconve ccalur. Pcrmullum aulem
prodcict illud demonslrare, qucmadmodum scripsisset, si id, quod advcrsarius
accipial, Acri aut inlclligi voluissct : ut In hoc causa, in qua do vasis
argenteis quaerìtur, possi! mulier dicere, nihii allinuisse ascribi,
quae volef, si heredis collimati permitleret. Eo enim non adscriplo
niliil esse dubilalionis, quin hcres, quae ipse vcllet, daret. Amenliam
igitur fuissc, quum hercdi velici caverò, id adscribere, quo non
adscriplo nihilominus hcredi cavcrctur. Quare hoc genere magno opere
talibits in causis uti oporlcbit : si hoc modo scripsisset, Isto verbo usus
non csset, non isto loco verbum istud collocasse!. Nani ex bis
scnlcntia srriploris maxime pcrspicitur. Deinde quo tempore scriptum sii,
quacrendum est, ut, quid cum voluisse in ciusmodi tempore veri
simile sit, intelligatur. Post ex deliberationis parlibus : quid ulilius, et
quid honeslius et illi ad scribendum, et bis ad comprobandum sii,
demonstrandum ; et ex his, si quid amplificationis (labitur, communibus
utriuque locis uti oportebit. Ex scriplo et sententia controversia
consistil. quum alter verbis ipsis, quae scripla sunt, utilur, allcrad
id, quod scriplorem scnsisse dicci, omnem adiungit diclionem. Scriploris
autem sentcntia ab eo, qui sententia se dcfendel, lum scmper ad idem spoetare
et idem ielle demonslrabitur ; lum ex farlo ani ex evento aliquo ad
Icmpus id, quod insliiuil, accommodatur. Semper ad idem spedare hoc
modo: Palerfamilias quum liberorum Imberci niliil, uxorem aulem haberel, in
testamento ita srripsit : Si mihi filivs genitur unni pluresve, is mi hi
heres calo. Deinde quae ad-oicnt.
Poslea : Si Mita ante morilur, quam in tutela m sumn venerii, lum inibì lite
sccundus heres eslo. Fillus natus non est. Ambigunt agnati cum eo, qui
est hcrcs, si fllius ante quam in suam tutelam venia!, morluus sit. In
hoc genere non potest hoc dici, ad tempus et ad eventum aliquem
scnlenliam scriploris oporlere accommodari, pròpterea quod ea sola esse
demonslratur, qua fretus ilio, qui conira scriptum dicit, suam esse
heredi nienza messa in campo dall'avversario fu gii provveduto con
altra legge. Gioverà poi gran fatto il mostrare come si saria espresso io
scrittore, ove avesse voluto che si facesse o s'intendesse ciò che
l'avversario crede d'aver inteso. Per esempio, nella causa, in cui s'
ioquerisce sopra le vasa di argento, potrebbe dire la donna, che se il
testatore avesse voluto lasciar l' arbitrio all' erede, non era di
bisogno che aggiungesse quelle vasa che vorrà. E infatti, se non ci fosse
quella giunta, non ci sarebbe neppure dubbio che l'erede non avesse date
alla madre le vasa eh' egli avesse creduto. Essere dunque stata una
mattezza che lo scrittore, volendo lasciar si fatto arbitrio all’erede, facesse
una giunta di tal sorta, che se anche non ci fosse, lo lascerebbe
niente di meno nell'arbilrio stesso. Eppcrò in cause di questa fatta
sarà mollo importante far uso dell'argomento che segue: se lo scrittore
avesse avuto un tale intendimento nello scrivere, ei non avrebbe
adoperata quella tal voce, non avrebbe allogato quella parola in questo
tal silo; conciossiachò son questi, più che ogni altro, gl’indizii
da cui si viene a riconoscere la mente dello scrittore. Dipoi si dee
esaminare in qual tempo fu messo giù lo scritto, per mettersi a sapere
ciò che vcrisimilmente in quelle tali circostanze lo scrittore volesse. Poi si
dimostrerà, dietro le parti del genere deliberativo, quale delle due cose
dibattute sia la più utile c la più onesta che l'autore dovesse scrivere,
e che gli avversari! debbano voler sostenere ; a dote alcuno di
questi punti sia da trattare col mezzo della amplificazione, dovrà l'una
parte e l'altra valersi de' luoghi comuni che sono da ciò. Sorge
controversia di scritto c di senso allora che l'uno de' litiganti
s'attiene alle parole stesse che sono scritte, c l'altro converte c
piega tutto lo scritto al senso ch'ei crede avere avulo in mente lo
scrittore. Quegli che sostiene il senso, mostrerà come con quel tale
concetto Io scrittore mira sempremai al senso stesso e ad esprimere
la stessa coso ; oppure che esso concetto è acconciato in tal senso a
questa tale circostanza per amore di qualche avvenimento, di qualche fatto, e
via via. Dcll'avcr sempre un concetto il senso medesimo ecco un esempio è
qui: Gn padre che non avea figliuoli, sì bene avea moglie, nel suo
testamento lasciò scritto cosi: Se mi nascesse un figlio, uno o più,
voglio che sia mio erede. E qui segue il testo secondo che è uso. Indi dice: Se
il figlio morisse innanzi che fosse giunto alla pubertà, allora quello che è
secondo sarà l'erede. Non nacque nessun figlio. I consanguinei del
padre entrano in litigio sul diritto di eredità con quello che
pretende clic il padre lo istituisse crede in talcm dcfendit. Allerum
autem genus est eorum qui senlenliam inducunt ; in quo non simplex
volunlas scriptoris ostemJilur, quae in omne tempus, et in omne factum
idem valeat ; sed ex quodam facto aut erenlu ad tempus interprctanda
dicitur. Ea parlibus iuridicialis adsumplivac maxime suslinetur. Nana tum
inducitur comparatio, ut in eo, qui, quum lex aperiri portas noctu
«darei, aperuit quodam in bello, et auxilia quaedam in oppidum
recepii, ne ab hostibus opprimercnlur, si foris essent, quod propc muros bostcs
castra habercnl ; tum relatio criminis, ut iu eo milile, qui quum
communis lei omnium hominem occidcre velare!, tribunum suum, qui «im sibi
adferre conarctur, occidit; tum remolio criminis, ut in eo, qui
quum lex, quibus diebus in legationem proflcisceretur,
praeslitueral, quia sumptum quaeslor non dedit, profeclus non est; tum
conccssio per purgatiouem et per imprudenliam, ut in viluli immolalionc,
et per vim, ut in nave rostrata, et per casum, ul in Eurotae
magnitudine. Quarc aut ila sentcntia inducelur, ut unum quiddam voluisse
scriptor demonstretur; aut sic, ul io ciusmodi ra, et tempore boc
voluisse doceatur. Ergo is, qui scriptum defendet, bis locis
plerumquc omnibus, maiore aulem parte semper poteri! uli : primum
scriptoris collaudatone et loco communi nihil eos, qui ìudiccnl, nisi id,
quod scriptum sit, spedare oporlere; et boc eo magia, si legitimum
scriptum proferelur, id est, aut lex ipsa, aut aliquìd ex lege. Postea,
quod vehemenlissimum est, facli aut intenlionis adversariorum cum ipso
scripto contenlione, quid scriptum sii, quid factum, quid iuratus index ;
quem locum mullis modis variare oportebit, lum ipsum secum
admirantem, quidnam centra dici possi!, tum ad iudicis ofOcium
reverlentem et ab eo quaereotem, evento die il figlio morisse innanzi alla
pubertà. In questa causa non si può dire che debbasi accomodare il dello
dallo scrittore al tempo c ad un avvenimento di qualche sorla , poiché si
dimostra senza contrasto essere quel detto non altro che il senso,
di che si fa forte il litigante che parla contro lo scritto per difendere che è
sua l'eredità. La seconda specied'interpretazione ammessa da quelli che
s'attengono al senso, si ò il dimostrare non essere la volontà dello
scrittore così semplice e condizionala, da avere in ogni tempo e per
ogni caso l'intento medesimo, ma doversi interpretare secondo la
circostanza, secondo che richiede quel tale avvenimento o quel tal fatto.
Questa specie di trattata appartiene specialmente a quella costituzione
giuridiciate che si domanda assunliva. E infatti egli avviene che ora si dee
istituire la comparazione, come rispetto a colui clic, vietando la legge
dall’aprire lo porle sempre clic dura la not•e, le aperse in tempo di guerra, e
mise dentro in città uno sforzo di aiuti, perchè stando fuori non
fossero oppressali dai nemici clic stavano a campo soltesso le mura ; ora
si dee riversare la colpa sopra un altro, come farebbe quel soldato che,
interdicendo la legge a tutti comune di levarla vita a chi che sia, la
levò al suo tribuno clic si lasciava andare a fargli le forze addosso ; ora si
dee venire alla remozionc della colpa, come farebbe colui che, avendo la legge
posti i giorni in cui si dovesse partire in ambasceria, non parti
altrimenti però che il questore non gli diede le spese ; talora si
dee venire alla concessione coll’addurreo la scusa o la ignoranza della legge,
come nel sacrifizio del vitello; o la forza maggiore, come nel fatto
della navcroslrata ; ol'accidente, come nella escrescenza detl’Eurota. Laonde
il senso di uno scritto si dee difendere per due modi, o mostrando
che lo scrittore con quel tale concetto ha sempre voluto esprimere una
cosa stessa, o facendo vedere che in questo tal fallo e in questo tal
tempo ha voluto esprimere nel suo scritto questa tale sua volontà. Il litigante
per contro che difenderà lo scritto quale esso è, potrà far uso le più
volte anche di tutti i seguenti luoghi, ma sempre perù della più parte:
primamente si loderà dello scrittore, ed uscirà in questo luogo comune:
dover quelli che hanno in mano il giudicio por mente solo a ciò che
è scritto; il che egli affermerà di più forza , se si trattasse di uno scritto
legittimo , corno sarebbe o la stessa legge, o qualche cosa che dalla
legge fosse cavata. Poi verrà al punto che ingagliardisce della maggiore
veemenza , voglio dire al far agguaglio dallo scritto al fatto o all'
accusa degli avversarli, mostrando ciò che fu scritto, ciò iOi quid
praetcrca audire aul exspcctare debeai; tum jpsum adversarium, quasi
intentanti loco producendo, hoc est, interrogando, utrum scriptum ncgel esse co
modo, an ab se conira ractum esse, aut contra contendi neget; utrum
negare ausus sit se dicere desilurum. Si neulrum neget, et contra
tamen dical nihil esse, quod hominem impudentiorem quisquam se visurum
arbilrctur. In hoc ita commorari conveniet, quasi nihil praeterea di-
j ccndum sit, et quasi contra dici nihil possi!, saepe Id, quod scriptum
est, recitando saepe cum scripto factum adversarii confluendo, atquc
inlerdum acritcr ad iudicem ipsum reverteudo. Quo in loco iudici
demonstrandum est, quid iuratus sit, quid sequi debeat : duabus de causis
iudicem dubitare oportere, si aut scriptum sii obscure, aul neget aliquid
adversarius. Quum et scriptum aperte sit, et adversarius omnia
conflteBtur, tnm iudicem legi parere, non intcrprelari Icgem oportere.
Hoc loco conflrmato, tum diluere ea, quae contra dici poterunl,
oportebit. Contra autem dicetur, si aut prorsus aliud scnsisse scriplor et
scripsisse aliud drmonslabitur: ut in illa de testamento, quam posuimus,
controversia; aut causa adsumptiva inferetur, quamobrem scripto non potuerit
aut non oporluoril obtemperari. Si aliud seusisse scriplor, aliud seripsisse
dicetur, is qui scriplo utclur, haec dice! : non oportere de cius
voluntate nos argomentavi, qui, ne id lacere possemus, indicium nobis
reliquerit suae voluntalis ; multa incomrnoda consequi, si instiluatur, ut ab
scriplo rccedatur. Nato et cos, qui aliquid scribant, non eiistimaluros
id, quod scripserint, rallini futurum; et cos, qui iudicenl, cerlurn,
quod sequantur, nihil habituros, si semel ab scripto recedere
consueverinl. Quod si voluntas scriptoris conscrvanda sit, se, non
adversarios, a voluntate cius stare. Nam multo propius accedere ad
scriptoris voluutatem cum, qui ci ipsius cam lilteris Inlcrprclctur, quam
illum, qui sententiam scriptoris non ci ipsius scripto special,
quod illae suae voluntalis quasi imaginem reliquerit, sed domcsticis suspicionibus
pcrscrutclur. Sin che fatto, ciò che sia di dovere al giudice che ha
giurato di osservare la legge; e questo luogo dovrà il litigante variare per
molti modi , ora mostrandosi ammirato che si trovi cosa da voler opporre; ora
tornando sopra alfuDlcio del giudice, c chiedendogli clic altro di
vantaggio ei possa ascollar cd attendere; ora con cerl'aria come di
minaccia appellandosi all'avversario, inlerroganI dolo cioè se mai po«sa dire o
che lo scritto non sia alTallo a quel modo, o ch'egli non faccia con| irò
allo scritto c contenda Dior di dovere; e soggiungendo che ove abbia il
coraggio di dire o l'uno o l’altro, ci si rimarrà dal più avanti
discorrere. Se non dicesse nè questo nè quello, e non di meno durasse a
dir contro, aggiungerà il difensore dello scritto, nessuno dover credere
di poter mai vedere un uomo più impudente di quello. In questo proposito
si dovrà dimorare un po’ a lungo , come se più altro non restasse da
dire, c come se non potesse colui aver più che rispondere incontro : si
reciterà più volle lo scritto, si combatterà spesso con lo scritto lo
adoperarsi dcll’atvcrsario, e qualche fiata con parole ardite si farà
appello allo stesso giudice. E qui si vorrà al giudice anche dimostrare
che s’intenda per giurato, e quale sia il partito eh' ci dee seguire , c
come per due capi è necessario che il giudice sia in dubbio, vale a dire,
se lo scritto Tosse oscuro, o se l'avversario negasse qualche punto dello
scritto. Qualvolta lo scrino è chiaro, c l'avversario stesso nc confessa di
ogni punto la chiarezza, devsi ammonire il giudice che suo dovere è
obbedire alla legge, non già farsene il turcimanno e lo sposilorc.
Raffermato questo asserto con le prove addotte, converrà ribattere ogni
obbietlo elicvi potesse esser mosso. Sarà obbietlo, se il nostro
avversario dimostrerà che lo scrittore intese esprimere ben altra cosa da
quella che porla lo scritto, siccome nella controversia circa il
testamento, cho qui sopra Ito toccala; ovvero se avrà ricorso a
costituzione di genere assuntilo per mostrar la causa onde non si potè o non si
dovette obbedire allo scritto. Se il nostro avversario dicesse aver lo
scrittore inteso d'esprimere ben altra cosa da quella clic dimoslra,
risponderà quegli clic allo scritto si attiene: non esser mestieri che
noi discutiamo circa alla intenzione dello scrittore, il quale appunto
perchè non ci fosse di che discutere ne ha lasciato della sua intenzione
un indicio non dubbio; venirne in conseguenza molli mali cQctli, se i *’
introducesse l'abuso di allontanarsi dallo scril< lo: imperocché quelli che
scrivono faranno ragione j che non si starà punto allo scritto loro ; e
quelli che deono giudicare non avranno nessun dato cer| to c sicuro da
dover seguire, ove avessero una causam adfcret is, qui a scntcnlia stobil,
primum crii conira dicendum ; quam absurdum non negare conira legem
ferisse, seri quarc fcccril, causam aliquam Rivenire ; di-inde, conversa esse
omnia ; ante solilos esse accusatorcs iudicibus persuadere, adlìnem esse
alicnius culpac eum, qui accusarclur; causaui prorerre, quae curii ad
pcccandum impulisscl: mine ipsuin rcum causam adferro, quare deliqucril. Deinde
liane inducere parlilionem, cuius in singulas parles mullac comeuieul
argumentalionrs : primum, nulla in lege ullam causam «mira scriptum accipi
convenire ; deinde, si in celeris logilnis «invernai, liane esse
eiusmodi legem, ut in ca non oporleal; postremo, si in hac quoque lege
oporleal, liane quidem causato accipi minime oporlcre. Prima pars bis fere
locis conBrmabilur: scriplori ncque ingcnium, ncque operam, ncque
ullam facullatem defuisse, quo minus aperte posse! perscribere Id, quod
cogitarci ; non fuisse ci grave nec difficile cani causam excipcrc,
quam adversarii proferant , si quidquam cvcipicndum putassct ;
consuesse eos, qui leges scribanl, ciccplionibus uli. Deinde opor'.et recilare
leges cum ciccptionibus scriplas, et maxime ridere, ccquae in ca
ipsa lege, qua de agalur, sii «copilo aliquo in capile, aut apud eumdem
legis scriptorem, quo magis probclur cum fuisse exceplurum, si quid
evcipicndum putarel ; et ostendcrc causam accipere niliil aliud esse itisi
legem tollere; ideo quod, quum semel causa considerclur, nihil allineai
cain ex lege considerare, quippc quae in lege scripta non sii. Quod
si sii institulum, omnibus dari causam et polcstalcm pcccandi, quum
intcllexcrinl vosex ingcnio cius, qui conira legem fcccril, non ex
lego, in quam iurali silis, rem iudicare; deinde et ipsis iudicibus
iudicamli et cctcris civibus vivendi ralioncs pcrlurbolum iri, si semel ab
legibus recessum sii ; nam cl iudices ncque quid sequan volla
piglialo l' uso di non si allenerò allo'scrillo. Dirà inoltre clic se
s’ba da conservare la intenzinne dello scrittore, è anzi egli, c non mica gli
avversarli, clic Iroppo meglio la conserva; perocché a questa intenzione
avvicinasi assai più colui clic la desume dalla scriltura slessa, clic
non qucll' altro clic indaga il sentimento avuto in animo dallo scrittore
diclro i suoi calcoli e congetture private , anzi clic volerlo
riconoscere per mezzo dello scrino stesso, clic 1' autore lasciò come
un ritrailo visibile della sua intenzione. Se poi quegli clic s'attiene
al senso a Idurrà il motivo perché si debba allonlanarsi dallo scrino, so
gli dovrà in prima così rispondere: esser assurdo, non negare egli
di aver fallo contro la legge, e nondimeno volere trovar un qualche motivo
perché cosi facesse; dipoi dirassi clic oggi si conduce il giudicio
ludo a riverso; per prima erano gli accusatori che meticano a vedere ai
giudici come l’accusalo era reo di qualche colpa, e poncan loro innanzi
la causa che in quella colpa lo fece cadere : ora è il reo stesso
che manifesta la causa della sua reità. Indi si dovrà discorrere queste Ire
parli, ciascuna delle quali olfrirà parecchie argomentazioni , voglio
dire: primamente non doversi per veruna leggo ammettere alcun molivo che si
oppooga allo scrino; in secondo luogo, se anche tulle le altre
leggi comporlassero tale ammessione , la legge presente essere di tale
natura che aliano non la comporla; in line, se anche la legge presente
ammetlcssc un molivo, non essere però tale il molivo addotto, che ommellere
punto si possa. La prima di qucsle parli comprovasi a un di presso cosi;
lo scrittore non mancava né di industria, nè di mezzi, nè di parole c facilità
per esprimcrc chiaro ciò eh’ egli pensasse; nè incontrava difficoltà o pena a
fare una eccezione in favore del molivo che meltono in campo gli
avversarli, so avesse credulo esserci cosa da dover eccelluare;
anco più che quelli che scrivono le leggi ne scrivono eziandio lo necessarie
eccezioni. Dipoi si dee citare il lesto delle leggi che recano le loro
eccettuazioni scritte, c soprattutto osservare se v’ ha e quale v’ ha
eccezione in qoalche articolo della legge questionala, o in altre dello
stesso scrittore perché si possa comprovar con più evidenza che
egli, ove una eccezione fosse siala necessaria, l'avrebbe s-'iiz' altro opposta
alla legge, di che si traila; e insieme deesi mostrare clic ammettere
la eccettuativa non posla dallo scrittore è nienle meno che distrugger la
legge, perù clic una volta che si abbia riguardo ad essa, non è più
bisogno di considerarla relativamente alla legge , siccome quella
che nella legge non è punto inserita. Che se si cominciasse di avere un
Iole riguardo, ognu tur babiluros, si ab co, quoti scriptum sii, recodatti
; ncque, quo paolo alios improbare possinl, quod conira legem iudicarinl
; cl cclcros civcs, quid agalli, iguoraluros, si ei suo quisque cotisilio
e! ex ca rationc, quac in mcnleoi aul in libidinetti vencril, non ex communi
pracscriplo civilalis unam quamque rem adminislrarit. Rosica quacrerc ab
iudicibus ipsis, quarc in alienis dclineanlur negoliis ; cur rei publicae
munere iinpedianlur, quo seriis suis rebus et commodis servire
possinl; cur in cena verba iurent ; cur certo tempore conveniant, cerio
discedanl, nibil quisquam adferat causac, quo minus frequenter operam rei
publicae det, nisi quae causa in lege cxccpla sii; an se legibus
obslriclos in lanlis molesliis esse acquutn censeanl, adversarios nostros
leges negligere concedati); deinde ilem quaerere ab iudicibus, si eius
rei, propler quam screus conira legem fecisse dica!, cxceplionem ipse in lege
ascribal, passurinc aint;poslca boc, quod facial, indigniusel impudcnlius
esse, quam si ascribal; ago porro, quidsi ipsi velico! iudices ascribcrc,
passurusnc sii populus? alqttc hoc esse indignius, quam rem verbo et
litlcris mulare non possinl, eam re ipsa et iudicio maxime commutare. Deinde
indignimi esse de lege aliquid dcrogari, aul legem abrugari, aul aliqua
ex parie commutari, quum populo cognoscendi et probandi aut improbandi poleslas
nulla fiat; hoc ipsis iudicibus invidiosissimum fulurum; non hunc
locura esse, ncque hoc tempus legum corrigendarum ; apud populum haec el per
popolimi agi convenire : quod si nunc id agant, velie se scirc, qui
lalor sii, qui sin! accepturi; se captioncs videro, el dissuadere velie :
quod si bacc quum summe inutilia lum mullo turpissima sint; legem,
cuicuimodi sii, in praesenlia conservai ab iudiribus, post, si displiceal, a
populo corrigi convenire ; deinde, si scriptum non extarct, magno opere
quaereremus; ncque isti, nc si extra pcriculum quidem ossei, crelercmus.
Nunc quum scriplum sii, amcnliam esse eius, qui peccarli, polius
quam legis ipsius verba cognoscerc. llis et huiusmodi ralionibus
ostenditur causam exira scriplum accipi non oporlere. no
avrà licenza e buona presa di fallire, perchè si avviserà che voi
giudicale dcll'alTare secondo che lalenta a colui che contravvenne alla
legge, non secondo la legge stessa, a cui avete giuralo di altenervi nel
giudicare: dipoi mostrerà che gli stes! si giudici avranno tutta in iscompiglio
la condotta del giudicio, c gli altri cittadini lutto in disordine
l’andamento delia vita, se si piglierà una volta ad andar a ritroso della
legge; conciossiacbè nè i giudici avranno una regola da seguire, se si
divertissero da ciò che è scritto, ni potranno convincere i contravventori di
aver fallilo, quando essi medesimi abbiano giudicato ad onta della
legge c gli altri cittadini non sapranno che far si debbano, se ognuno si
governerà in ogni caso non dietro i generali statuti della città, ma a
talento proprio, c dietro quella ragione che gli passerà per la
metile, o che andrà a seconda delle sue voglie. Poscia ci verrà
inlerrogando gli stessi giudici, perchè si frammettano di altari alimi,
che loro non si perlengono; perchè dall'ulllcio cltesostengon nella
repubblica si lascino impedire di attender alle gravi loro faccende e
provvedere ai propri! interessi; perchè giurino dietro una formola
prescritta; perchè a un posto tempo si raccolgano insieme, c ad una data ora se
ne vadano, senza che alcuno molla innanzi altra ragione che lo autorizzi
a prestarsi meno di spesso al servigio deila repubblica, eccetto quella
che è indicala nella legge: che? slimeranno giusto e ben fatto tenersi
essi obbligati alle leggi in mezzo a si gravi lor cure, o comportare clic
i nostri avversarli si gellino quello leggi medesime dopo le spalle?
Dipoi verrà similmente chiedendo ai giudici, se mai essi patirebbero che
I’ accusalo aggiungesse egli stesso nella legge la eccezione in favore
del molivo, da cui si dichiara indotlo a far contro alla legge, c
aggiungerà, ciò che fa l’avversario esser una sfrontatezza più indegna
che se apponesse alla legge quella eccezione : di più, dato anche il caso
che i giudici stessi la volessero apporre in proprio, forse che il popolo
se la porterebbe in pace? eppcrò esser cosa ben troppo riprovevole
che una legge eh' essi nè per parole nè per iscriltura non possono mutare,
vogliano invece mutarla più che più col giudicio e sentenza loro. Di. rà
appresso, essere uno scoocio indegno o detrarre alquanto alla legge, o
abrogarla a pieno, o cambiarne qualche parte, senza che siane data copia
al popolo di giudicarne i moliti, c di approvarli o riprovare: questo non
poter che riuscire di odio acerbo contro gli stessi giudici; non esser
questo nè luogo nè tempo da farsi a corregger le leggi; questo
esser un aliare da trascinarsi col popolo e per mezzo del popolo: che se
ora volessero Ira unno li. Seconda pars est, in qua est oslendendum,
si in celeris legibus oporleat, in hac non oporlcrc. Hoc dcmonslrabilur, si lei
aulad res maximas, ulilissimas, honeslissimas, religiosissimas ridebilur
pcrlinere ; aut inutile , aut turpe, aut nefas esse tali in re non
diligentissime legi obtcrnperare ; aut ila lev dlligenler pcrscripta
dcmonslrabilur, ila cautum una quoque de re, ila.quod oporluerit,
eiceplum, ut minime convcniat quidquam in tam diligenti scriptum praelerilum
arbitrari. Tcrlius est Incus ci, qui prò scriplo dicci, maxime
necessarius, per quem oporlet ostcndal, si convcniat causam contro
scriptum accipi, cam lamen minime oportere, quae ab adiersariis
adferatur. Qui locus idcirco est buie necessarius, quod semper is, qui
conira scriptum dicet, aequitalis aiiquid odierai oporlet. Nani summa
impudentia sii cum, qui conira quam scriptum sii, aiiquid probare
rclil, non aequilatis pracsidio id Tacere conari. Si quid igitur et hac ipsa
quippiam accusator deroget, omnibus partibus iustius et probabillus accusare
videatur. Nani superior oralio
hoc omnisfaciebat, uti iudices cliamsi noi leni, necessc esse! ;
baco aulern, eliamsi ncccsse non esset, ut yellent conira iudicare. Id
aulem (iet, si, quibus ex locis culpa dcmonslrabilur esse in eo, qui comparationc,
aut remolione, aut relatione criminis, aut concessionis partibus se
duTcndil ( de quibus ante, ut poluimus, diligenter perscripsimus ),
si de iis locis, quae res poslulabit, ad causam adversariorum
itnprobandam IransTeremus, aut causac et raliones adferentur, quare et
r|uo consilio ita sit in lego, aut in testamento scriptum, ut sentenza
quoque et voluulalc scriploris, non ipsa solum scriptura causa
con&rmata esse, videatur: aut aliis quoque constitutionibus factum
coarguetur. stillarlo essi, or chi n* è il proponente, e
citi son quelli clic approveranno? sé non vederci che calappi e trullerie,
c volere lor giù altrui dal lasciarsi cogliere: che se ogni disegno di
mutazione olire clic al lutto è inutile, ancora £ cosa sommamente
sconcia, dcono per ora i giudici mantenere intatta la legge, di qualunque
sorte ella sia; ove non piaccia, si vorrà più tardi emendare dal popolo.
Dirà inoltre; se lo scritto non ci Tosse qui presente, noi faremmo
ogni potere per averlo a rinvenire, n£ porremmo fede iu costui neppure s'
ei trattasse con noi sicuro da ogni pericolo. Ma siccome è qui
presente Io scritto, è dare iu pazzia senza più, voler essere inTormali delle
parole di uno clic falli, anzi che di quelle della legge medesima. Per
questi adunque e per simili altri argomenti si dimostra cotue una eccezione,
che non è nello scritto, non si dee per nulla ammettere. La seconda parte
£ quella, nella quale deesi dimostrare che se anche tutte le altre
leggi dovessero ammettere una eccezione, la legge presente non la dee per
veruna guisa. Questo si proverà, mostrando clic la legge rfsguarda cose
di grande rilevanza, di sommo vantaggio, onoratissime e della maggiore
santità; ed essere o vana, o turpe, o illecita azione non obbedire
puntatamente alla legge in circostanza si fatta: ovvero si porrà a vedere
essere scrina la legge con tale esattezza, si ben provveduto a ogni cosa, cosi
eccelle le circostanze che volcauo eccettuazione da non si dover
credere che in una scrittura cosi condot la fosse intralascialo n£ un
menomo clic. Il terzo luogo £ di tutta necessità per lo contendente
che sostiene lo scritto. Ei dee mostrare che se anche la legge ammettesse
un motivo eccezionabile, non £ però di tale qualità il motivo addotto
dagli avversarti, che si debba per esso seguire un senso non indicato
dallo scritto. Dissi esser necessario questo luogo, perch£ siccome chi
ragiona contro lo scritto dee sempre mettere innanzi qualche punto che
risguarda l'equità, c saria grave sfacciatezza, chi volesse provar qualche
punto che è in pugna con lo scritto, non far quanto potesse per aiutarsi di
quella; così l'accusatore, se farà di detrarre e mostrar qualche parte non
consentanea alla equità, sarà in casa di far credere la sua accusa
da lutti i laii più giusta e più probabile. E infatti le regole esposte
più sopra circa al non doversi ammettere ragione contraria allo scrino
riuscivano tulle a fare clic i giudici dovessero di necessità, ancora che non
volessero, portar giudicio contro al motivo ccccziouabile: le regole presenti
per conira parano a fare che i giudici vogliano dar giudiciu conira
quello slesso motivo, eziandio se loro non fosse necessario di cosi fare.
Or ciò si Conira scriptum autcm qui dicol, primum induco! cum lorum,
perquom aoquilas causae demonstrclur ; aut oslcndel, quo animo, quo
consilio, qua de causa fccoril ; cl, quamcumque causani adsumcl,
adsumplionis parli bus se defcndel, de quilius anlc dicium esl. Alquc in hoc
loco quum diulius commoratus sui Cacti ralionem cl equitatem cansac
cxornavcril, lum ex liis locis foro conira adversarios dicci oporlcrc
causas accipi. Dcmonslrabil nullam esse leeoni, quae aliquam rem
inuldcm aut iniquam Acri «clil; omnia sttpplicia, <1 ime ab lcgibus
profìciscanlur, cuipae ac malitiac «indicandac causa conslilula esse ;
scriplorcin ipsum, si cvsislat, factum hoc prohalurum, cl idem ipsum, si
ei lalis res accidissel, faclurum fuisse ; ca re legis scriplorcm certo
et ordine iudices certa aelate prandi tos consliluisse, ut essont, nun
qui scriptum suoni rccilarcnl, quod quivis pucr Tacere posse!, sed qui
cogilalionc adsequi posscnl cl volunlatcm interpretar! ; deinde
illum scriptorem, si scripla sua slultis liominihus et barbaris iudicibus
coinmilleret, omnia somma ddigentia pcrscriplurom fuisse ; nun - vero, quod
inlelligeret, quales viri res iudicaturi essenl, idcirco cum, quae
perspicua videro! esse, non ascripsissc; ncque cnim vos scripli sni
recitatore], sed volutilatis interprcles foro putavil. Poslea quaerere ab
adversariis : Quid, si hoc fccisscm ? Quid, si hoc accidissel ? Eorum
aliquid, in quibus aut causa sii honcstissima, aut neccssitudo
certissima, tumnc accusarclis ? Atqui hoc lei nusquam excepil; non
ergo omnia scriplis, sed quaedam, quae perspicua sint, lacilis
cxccpliouihus cascri ; deinde nullam rem ncque legibus ncque scriptura
ulta, denique ne in sermone quidem quotidiano atque impcriis domeslicis
recto posse administrari, si unus quisque vclit verba spedare, et non ad
voluolalcm eius, qui ea verba habuerit, accedere.
otterrà, se di que - luoghi, con che rooslrerassi esserci colpa in colui
che si accolla difesa o dalla comparatone, o dalla remozi one del delitto,
o dal rivcr.-arlo in allra cosa v persona, o dalle parli della
concessione (di che per addietro ho trattato con quella diligenza
migliore che ho sapulo), se di que' luoghi, dico, si farà uso secondo il
bisogno dell'aHare, per ribattere la eccezione ammessa dalla parie contraria, o
se si pareranno dinanzi le cause e le ragioni comprovanti e perchè e
con quale disegno sia stato cosi scritto in quella tal legge o in
quel testamento; con che si verrà a capa di ralTorzarc la causa non pure col
solo mezzo della scrittura, ma eziandio col mostrar in nostro
vantaggio il sentimento e la volontà dello scrittore', oppure si aumenterà
l'accusa contro il fatto facendo uso altresì di altre costituzioni.
Quegli che parlerà contro Io scritto, primamente si varrà di quel luogo con che
si dimostra la giustizia della causa, oppure farà vedere con che mente,
con che disegno, per qual motivo ha fatto cosi piuttosto che no; e
qualunque sia il motivo con che si parerà, dee pigliare a sua difesa le
parli dell'assunzione che furono di qui addietro vedute. E qui, appresso
ch'egli abbia un po’ alla difesa raffazzonalo di belle esortazioni i molivi di
ciò ch'egli ha fallo e la giustizia della causa; sosterrà contro
gii avversarli doversi animaliere quei suoi molivi a un bel circa con gli
orgomcnli che seguono. Dimostrerà non v' esser legge al mondo che comandi
cosa inutile ovvero iniqua; tulli i castighi che sono inflitti dalle leggi
essere stabiliii per punire la colpa c la malignità: lo scrittore
medesimo, se esistesse, approverebbe il fallo, anzi egli stesso sarebbesi
adoperalo di eguale maniera, se si fosse abbattuto in tale affare: per
questo lo scrittore della legge aver designato a giudici persone
appartenenti a una data classe, e giunti a un' età prestabilita, volendo
che tenessero i giudicii persone che sapessero non già recitare il testo
della legge, che da lauto è un fanciullo qualsiasi, ma raggiungere
col raziocinio e inlerpelrarc la sua volontà. Dipoi, se quello scrittore
avesse fatto ragione che il suo lesto saria venuto alle mani di gente
sciocca e di giudici selvaggi da ogni civiltà, avrebbe esposto ogni cosa
Alo per Alo e con la maggiore accuratezza; ma siccome ei s'
avvedeva troppo bene quali personaggi avrebbero avuto il maneggio
dei giudicii, non inserì nella legge ceni punti che vedeva essere da sì
di facile intelligenza: non vi tenne egli dunque per recitatori del suo
scritto, ma per interpetri della sua volontà. Poscia dovrà chiedere agli
avversari: Or che sarebbe, se io avessi fallo questo f che, so quest'
altro fosse mai acca scalo? V' Ita cose prodotte da un motivo MURO
Doindcei ulilitatis cthonestatis partibus ostenderc, quam inutile aut
quam lurpe sit id, quod adversarii dicant fieri oporluisse aut oportere;
et id quod nos feccrimus aut postulemus, quam utile aut quam honestum
sii; deinde leges nobis caras esse non proptcr lilteras, quac
tcnues etobscurae nolae sint voluntatis, sed propler carum rerum, quibus
de scriptum est, utililalcin, et corum, qui scripscrint, sapicntiam et
diligentiam, postea, quid sii lei, describerc, ut ea tidealur in
scnlentiis, non in vcrbis consistere; et iudci is vi* dealur iegi
obtcmperare, qui scntentiam eius, non qui scripluram sequatur; deinde,
quam indignum sit, eodem adfici supplicio eum, qui proptcr aliquod scelus
et audaciam contra leges fccerit, et eum, qui honcsta aut necessaria de
causa non ab scntcntia, sed ab litteris legis reccsserit ; atquc
bis et buiusmodi rationibus et accipi causam, et in hac lege accipi, et
cam causam, quam ipse odierai, oporlerc accipi demonstrabit. Et qucmadmodum ei
diccbamus, qui ab scripto dicerei, hoc Tore utilissimum, si quid de
acquitele ea, quac cum advcrsario starei, derogasse!, sic huic, qui
contra scriptum dicci, plurimum proderii, ci ipsa scriplura aliquid ad
suam causam converlere, aut ambigue aliquid scriptum oslendere ; deinde
ei ilio ambiguo cam partem, quae sibi prosit, defendere, aut verbi
definilionem inducerc, et illius verbi vim, quo urgeri videatur, ad suae
causae commodum traducerc ; aut ex scripto non scriptum aliquod inducerc
per ratiocinalioncm, de qua post dicemus. Quacumquc autcm in re,
quamvis levitar probabili, scriplo ipso se dcfendcrit, etiam quum
acquitalc causa abundabil, necessario multimi proDciet, ideo quod, si id, quo
nililur adrersariorum causa, subduxeril, omncm eius illain vim et acri
moniam lenierit ac dilucrit. Loci autcm communes celeris ci adsumptionis
partibus in utramque partem convcnient. Praetcrea eius, qui a scripto dicci: leges es se,
non ex eius, qui contra commiscri!, ulilìlutc spcclari oportere, et In
tanto onesto quanto nessun altro mai, o da una necessità
indeclinabile: or di queste cose ne accusereste voi alcuna? Ma questa cotale
non è dalla legge in nessuno de' suoi articoli eccettualo: dunque non a
tulle cose si provvede con Io scritto, ma solo si provvedo con tacile
eccezioni ad alcune, clic sono lucide c appariscenti a chi clic sia:
dipoi, nessun affare si potrebbe reggere con dirittura nè per magistero di
leggi, nè di scritto qualsiasi, anzi nè eziandio nel discorso della
giornata e nei comandi domestici, se volesse ognuno starsi affitto
alle parole, c non piuttosto adocchiar bene la volontà di colui che
quelle (ali parole Ita cspresse. Dipoi aiutandosi con le parti dell'
utile e dell’onesto, dimostrerà quanto saria danneggioso o quanto lurpe
ciò che gli avversarli dicono essersi dovulo o doversi fare; e a riverso quanto
sia utile o quanto onesto ciò che noi abbiamo fatto, o ciò che
veniamo chiedendo; poscia, esserci a grato le leggi non per le parole, che son
segni inconcludenti ed oscuri dell'altrui volontà, ma per lo profitto che
ne viene a lutti dai provvedimenti delle leggi , e per la sapienza c
sceltezza dei precetti che vi hanno posto quelli che le scrissero ; indi
si dovrà definire clic sia legge per modo tale clic si paia
manifestamente consister essa nei concetti, e non nelle parole, c far
vedere che solo quel giudice mostra di obbedire alla legge, il quale si
attiene al sentimento di essa, non alla materiale scrittura ; dipoi
quanto sia cosa danncvolc e da riprovare che sia mollato della
stessa pena colui che con sua scellcrmiza c lemeritè si fece ribelle alla
legge, c si quegli che per una ragione onesta o necessaria si è dilungalo
non dal sentimento della legge, ma dalle parole di essa; e con questi e
altrettali argomenti dimostrerà ed esser ammissibile il motivo clic induce
eccezione, ed esserlo in questa legge stessa ed esso motivo esser tale
che affatto si debba ammettere. E come io diceva esser di giovamento
assai a quello che sostenta lo scritto, se avesse spizzicato e detrattone
alquanto delle ragioni di equità che avvantaggiano I’ avversario, così a
costui clic discorre contro lo scritto profitterà a gran misura il convertire
in suo prò qualche punto dello scritto medesimo, ovvero dimostrarne di qualche
tratto il doppio senso e 1' ambiguità: di vantaggio, difendere de' due sensi
quello che gli torna utile, o recar la definizione della parola ambigua, c
guadagnar un argomento in favore della sua causa dal significato di
quella parola stessa, che pareva gli dovesse tornar al contrario; oppure
per mezzo di sillogismo, di che mi verrà da dire più sotto, ricavar c dedurre
dallo scritto qualHO wm gibus anliquius haberi niliil oporterc. Conira
scriplum: logos in consilio scriploris et ulilllalc communi, non in verbi*
consistere ; quasi indignimi sii, aoquitatom litleris urgori, quac
volunlalc eius qui scripscril defendatur. Ex con Ira ri is aulem
logibus conlrovcrsia nasedur, qiium inlor se Jii.'ys vidcnlur logos aul
pluros discrepare lioc modo: Lcx: Qui (yrunnum (inciderti, Olympionicarum
proemia capilo, ni quatti cole! libi rem a muqisltolu doposcì lo,
cl magislralus ci concedilo. El altera lei: T gratino occiso, quinque ejul
jiroximos coqtiuliotie inayislratus ficcato. Alexandrum, qui apud
Pheraeos in Tliessalia lyrannldcm occuperai, uxor sua, cui Thcbc
nomen fiiil, nocl’u, quum simul cubarei uccidi!. Ilare (ilium suum, quom
ex lyranno habebal, sibi in praemii loco doposcil. Sunl, qui ci lego
occidi pucruin dicant oporlere. Rcs in iudicio osi. In hoc genere
utramque in parlcm lidcm loci alque cadem praecepla comcnicnt, ideo quod
uterque suam legein conlirinare, contrariam infirmare debcbil. Primum igilur
leges oportet contendere considerando, ulra lcx ad maiorcs, hoc est, ad
uliliores, ad honcsliorcs ac magis nocessarias res perlincal; ex quo
conlìcilur, ut, si leges duac, aul si plures erunl, aul quolquot erunt,
conservaci non possint, quia discrepeut inter se, ca maxime conservando pulclur,
quac ad maximas rcs pcrlinere vìdoatur; deinde, ulra lcx poslcrius
lata sii; nani postrema quaeque gravissima est ; deinde, utra lei iubeal
aliquid, ulra permillal; nam id , quod imperatur , nccessarium ,
illud, quod pcrmiltilur , volunlarium est ; deinde , in ulra lege,
si non obtcmpcratum sii, pocna odliciatur, aut in ulra raaior poena slalualur ;
nam maxime conscrvanda est ea, quae diligentissime che corollario
che non vi è espresso. Qualunque sia il punto, tuttoché tampoco
verisimile, in cui questi potrà piegare u propria difesa lo scritto
medesimo, anche quando la causa si fiancheggiasse di molle ragioni di equità,
ei sarà condotto senza manco nessuno a giovar di molto la causa propria,
perocché se giunga ad abbattere e tor di mezzo le ragioni che sono di
appoggio agli avversarli, egli avrà bella e distrutta, non che addoglila, tutta
la forza e veemenza della causa loro. Quanto è ai luoghi comuni che si
traggono dalle altre parli dello stalo assunlivo, questi cadranno
bene in taglio all’ uno e all'altro avversario. Di più, quegli che
s'altienc allo scrìtto avrà dalla sai questo argomento: le leggi doversi
riguardare in sé, non mica secondo il vantaggio clic dal violarle
uomo ne trac, e doversi esse aver a cuore e a capitale più clic ogni altra
cosa. Quegli clicslà contro lo scritto si gioverà di quest’ altro: avere
le leggi il loro fondamento e sostegno non nelle parole, ma nella
intenzione dello scrittore; esser cosa indegna far forza con le parole contro
quella equità, che ha in sua difesa il volere e l'intendimento dello
stesso legislatore. Nasce controversia
per leggi contrarie allora che due o più leggi non vanno di piena
concordia fra loro, come in questo esempio : Dice l'una : Chi darà morie
a un tiranno si abbia il premio che si dà ai vincitori di Olimpia, e
chieda al magistrato ciò che meglio gli aggrada, chè il magistrato gliene
dovrà concedere. Dice un’altra legge: Insieme che sia ucciso il
tiranno, dovrà il magistrato menar a morie cinque altri che siano a
quello legali di parcnlaggio. Tebe, moglie di quell'Alessandro che s’era
fallo tiranno Ira i Ferei nella Tessaglia, nottetempo, essendo ella
nello stesso letto con lui, lo pose a morte. Per premio chiede costei la
vita del lì glio di' essa dal tiranno aveva avuto. Insorge altri a dire
dover il fanciullo per legge esser ucciso. L' aliare é messo in
giudicio. Or in causa si falla all'uno c all'altro avversario verranno a
taglio I luoghi stessi, gli stessi precetti, perchè dovranno lutti e due
tener ferma la legge che lor giova, e battere molto di vena la
contraria. La prima cosa adunque, si dee far il pareggio e confronto
delle due leggi, esaminando bene quale delle duo vada a battere a mag.
glori cose, voglio dire quale provveda a cose più utili, a più oneste, a
più necessarie ; e di qua conchiudere che se due leggi, o se saranno più,
o quante potranno essere, non si possono ritenere per essere
disconsenzienti Ira loro, abbiadi tutte a ritenersi quella che provvede
alla maggiore utilità delle cose ; poscia è da vedere quale delle due
fu fatta poi giacché l'ultima ha più forza ed
autorità; IH sancta est; deinde, utra lei iubcat,utra vetel;
nam saepeea, quae velai, quasi exceptione quadam corrìgere videlur
illam, quae iubel; deinde, utra lei de genere omni, utra de parie quadam;
utra communiler in plurcs, utra in aiiquam cerlam rem scripla
vidcalur; nam quae in partem aiiquam el quae in cerlam quamdam rem
scripta est, propius ad causam accedere videlur, et ad iudicium magia
perlinerc; deinde, ci lege ulrum statini fieri nccesse sii; ulrum habeal
aiiquam moram et suslentationem; nam id, qund stalim faciendum sii,
parlici prius oportel; deinde operam dare, ut sua lei ipso scriplo
vidcalur niti, contraria anioni aul per ambiguum, aul per
raliocinalionem, sul per detinilionem induci, uli sanclius el firmius id
videalur esse, quod apcrtius scriptum sii ; deinde suac legis ad scriptum
ipsam senlentiam quoque adiungere, contrariam legein ilem ad aliam senIcntiam
Iransducere, ut, si fieri poteri!, ne discrepare quidem videantur inter se;
postremo Tacere, si causa Tacultalem dabil, ut nostra ralione utraque lei
conservar! vidcalur, adversariorum ralione altera sii necessario ncgligenda.
Locos autem communcs, et, quos ipsa causa del, ridere oportcbil, el ex
utilità tis et ex honcslalis amplissimi partibus sumere demonstrantem per
ampliGcalionem, ad utram potius legem accedere oporteal. Ex raliocinatione
nascitur controversia, qunm ex eo, quod uspiam est, ad id, quod
nusquam scriptum est, venilur; hoc paclo: Lei: Si furiosus ejcif,
agnalum genliliumqve in eo pecuniaquc cius potestà! etto. Et lei: Palerfamilias
uli super [umilia pecuniaquc sua legassi t, ila ius esto. Et indi
quale mena obbligo intorno a un che, quale non lo metta, conciossiachè il
Tare, quando ci ha obbligo è atto di necessità, quando non ci ha, è
atto volontario senza più; inoltre, qual legge soggetti a pena chi non le
obbedisce, o quale soggetti a pena più grave che non le altre, poiché
deesi in paragone ritener quella che guarentisce meglio la propria
inviolabilità col multare di più gravi ammende quello che ad essa contrarrà;
poscia, quale di esse leggi prescriva una azione, quale invece la
interdica, poiché spesso quella che la interdice dà vista di correggere
quasi che per mezzo di eccezione quella che la prescrive : quindi , quale
delle leggi si riferisca a lutto un genere, quale a sola una
qualche specie ; quale sia scritta in comune per molti oggetti, quale lo
sia per un solo oggetto determinalo^ poiché quella che si riferisce a
una specie, come anche quella che é scritta per un oggetto solo, si
applica meglio ai bisogni della causa e meglio serve a determinarne il
giudicio : oltracciò, se la legge imponga la necessità che si Taccia
di presente ciò che é da Tare, o se conceda qualche soprastanza e
indugio, poiché ciò che di presente è da Tare si c^invien compiere per
primo e innanzi a lutto; dipoi metter opera che la legge, a che noi
ci atteniamo, mostri di aver la sua Tona nelle sue stesse parole : e per
conira quella dello avversario si farà veder che non tiene, o
citandone l'ambiguità, 0 deducendo per sillogismo o per definizione
qualche corollario che le tolga la forza c il valore, in maniera che si
venga a conchiuder di netto, come ciò che é scritto con più
chiarezza é appunto cièche si dee tenere vie più per Termo e
giustamente ordinato. In seguito, alla legge da noi difesa applicheremo
il senso che ne pare, e vedremo per lo simile di accomodar alla
legge contraria un senso cosi fatto, che lasci apparire a misura
del possibile, non esser poi le due leggi cosi discordanti Tra loro come
si crede: in ultimo, dovremo travagliarci, se la causa ne darà il
poterlo, di dar a divedere che il nostro ragionamento concilia e ritiene
ambe le leggi, laddove per lo ragionar degli avversarli o l'una o l'altra ne
dee necessariamente essere rigettata. Converrà altresì vedere quali
luoghi comuni la causa offra da sé, e pigliarne anche dalle molle e varie
parti deli' utilc e dell' onesto per dimostrare col mezzo della
amplificazione a quale delle due leggi sia più presto da attenersi. L.
Nasce controversia dal raziocinio, quando da ciò che è scritto in una
legge si viene a trattare ciò che in nessuna è scritto, per esempio: V'è
una legge che dice: Se alcuno vien pazzo furioso, gli agnati e gli
offri della stessa famiglia acquisteranno padronanza sopra di lui c sopra if
sito Ics.- Si palcrfamitias intestalo maritar, familia pccuniaque eit a
agnatumgentiliumijne està. Quidam iudicatus est parcnlem occidisse. Ei
slatini, quoti cffngicndi potcslas non fuit, ligneac soleac in
pedes induclac suol; os anioni obtolulum osi folliculo el pracligatum;
deinde osi in carcerem deduciti*, ul ibi ossei tarilisper, dum coleus,
in ijuein coniceli!* in proflucnlem doferrelur, compararelur. lnlcrea
quidam ojus familiares in carccrem labulas adrerunl cl loslcs adducimi;
beredes, quos ipsis libel, seribunt; labulao obsignanlur. De ilio posi
snpplicium sumilur. Inler eos, qui herodes in labulis scripli sunl, el
inler agnalos de licrcdilale conlrovorsia esl. Ilio corta lei, quac
testamenti faciemli iis, qui in co loco siot, adimal polcslalem, nulla
prorerlur. Ex ccleris Icgibus, el quae liunc ipsum supplicò)' liuiusmodi
adliciunt, el quac ad testamenti lacicndi potestàlem pertinenl, per
raliocinationcm vcnicndum est ad eiusmodi rationem, ut quacralur,
habucritne testamenti faciendi poleslntem. Locos aulem communcs in Irne
genere argumenlandi lios et liuidsinodi quosdam esse arbilramur; primum cius
seripii, quod proli-ras, laudalioncm cl coniirmalionem; deinde cius rei, qua de
quacralur cum co, de quo constcl, collationem eiusmodi, ut iti, de
quo quacritur, rei, de qua constcl, simile esse videatur; postea admiratioocm
perconlationc, qui fieri possit, ut, qui hoc acquum esse conccdal, illud
ncgel, quod aul aequius aul eodem sii in genere; deinde idcirco de hac re
niliil esse scriptum quod, quum de illa cssel scriptum, de hac is,
qui scribebat, dubitalurum nomi noni arbitratila sit; postea mullis
in legibus multo practenla esse, quac idcirco practenla nemo arbitrclur,
quod ci ccleris, de quibus scriptum sit, inlelligi possint ; deinde
acquitas rei dcmonslranda est, ul in iuridiciali absolula. Contro autem qui
dicet, simililudinem infirmare dcbcbil: quod facicl, si demonslrabit illud,
quod conlcralur, ab co, cui confcralur, divcrsuni esse genere, natura, vi,
magnitudine, tempore, loco, persona, opinione; si quo in numero illud,
quod per similitudincm adfertur, el quo in loco illud, cuius causa
adfertur, liaberi conrcnial, ostendetur; deinde, quid res cum re
ditterai, dcmonslrabitur, ut non idem videalur de utraque exislimari
oporterc. Ac, si ipse quoque polerit raliocinalionibus uli iisdem
rationibus, quibus ante dicium esl, utclur; si non poteri!, negabit
oporterc quidquam, itisi quod scriptum sii, considerare; pcriclitari
omnia iura, si similitudincs accipiantur; niliil esse pacnc quod non
alteri simile esse videatur: mnllas de similibus rebus et in unam
quamque rem tantum singulas esse leges omnia posse inler se rei similla
tei dissimilia do danaro. Un’ altra dico : Se un padre
testamento rapporto a' suoi schiavi c ai suo danaro, sieno ferme e
rate le sue disposizioni. Dice una teria : Se un padre se ne muore
intestato, i suoi schiavi e il suo danaro divengono proprietà degli
agnati e degli altri della siesta famiglia. Un tale fu giu: dirato reo d’
aver ucciso suo padre. Siccome non potò trovar modo di prender la fuga,
gli furono I calzale le piante di piedi che di legno a nifi di scar' pc,
c imbavagliato il volto in un baccuceo stretto alla gola ; poi fu dato alla
carcere perché vi I stesse prigione tanto solamente che fosse ammannala
la saccaia di cuoio, io clic si dovea chiù1 dere c gettare in fiume. In quel
mezzo tempo al| cuni suoi amici recan nella carcere uno stromenlo
testamentario c insieme alcuni testimoni; nomano eredi di esso quelli che
lor pare c piace, c mettono allo slromcnlo il suggello dovuto. Poscia si
prendo il supplizio del delinquente. Nasco litigio circa l' eredità fra
gli agnati c quelli che sou nomali eredi nello scritto. Qui non si rena in
mezzo nessuna leggo positiva che tolga il dirillo di far 1
testamento a quello che ha poco andare ad esser morlo. Si dee dunque
dalle altre leggi, si da quel| le clic a lai delinquente infliggono un tale
supplì! ciò, si da quelle clic si riferiscono al dirillo di far 1
testamento, venire per la via del raziocinio a una trattazione clic versi
sulla ricerca, se quel parricida | avesse o no diritto di testare. I
luoghi comuni clic | son proprii a questo modo di argomentare sono
i seguenti senza clic ve n'ha certi altri di falla simile ; primamente
dello scritto clic metterai innanzi I dei fare la lode, c raffermarne
l'autenticità: dipoi ! deesi fare della cosa che si cerca con quella che
è manifesta un confronto di tal maniera, che appari j sca esser
simile alla manifesta la cosa che cercasi; poscia eccitar la maraviglia
coll'intcrrogarc, come 1 possa mai darsi che olii concede esser questa
casa : ben giusta, dica non lo essere quella, che giosta è molto
più, o almeno in eguale misura ; indi, se della cosa che cercasi non »’ è
nulla di espresso nello scritto, nop v'èa motivo che P autore, allora che
scriveva, lacca ragione che nessuno ne moi «crebbe già dubbio; io altre leggi
esser trasandate ; di molte cose, le quali nessuno crederà mal che
- P autore le Irasandassc perchè non le volesse , ma solo perchè le non
iscritte si possono raccogliere da ben altre, che scritte già sono; di vantaggio,
deesi dimostrare la equità della cosa, come nella costituzione
giuridicialo di specie assoluta. Quegli che terrà il contrario dovrà lor
forza alla somiglianza mostrata dalla parte avversa; c il farà
dando a vedere esser la cosa messa a paragone di genere diverso da quella
con che s' è messa, cd altresì esser di diversa natura, fona,
grandezza, Limtu il. inonslrari. Loci communes: a raliocinalionc,
oporIcre conieclura ci co, quoti scriptum sii, ad iti, quod non sii
scriptum, pervenire; et neminern posse omnes rcs per scripturam
amplccli.sed eunt commodissimc scribcre, qui curel, ut qoacdam ex
quibusdam inlclligantur. ('.mitra ratiocinalioncm, huiusmodi :
coniccluram divinalionem esse , et stulli scriptum esse non posse omnibus
de rebus caverò, quibus velil. Dcllnilio est, quum in scripto verbum
aliquod est positum, cuius de vi quaerilur, hoc modo; Lei: Qui in aduna
tempestale nocem reliquerinl, omnia amiilunto; forum nauta et onera sunto
qui innave remanserint.Duo quidam, quum iam in allo navigarcnl, et quum
eorum allerius navis, allerius onus esset, nautragum qucmdnm
nalaolcm et manus ad se tcndcnlcm animum advcrlerunt; misericordia commuti
navem ad rum : applicarunl, hominem ad se suslulcrunt. Postea
aliquanlo ipsos quoque tempesta» vehcmenliiis lodare coepit, u*que adeo,
ut dominus navis, quum idem gubernator esset, in scapliam confugcrel, et
inde funicolo, qui a poppi religalus scapham adneiam Irahobat, navi, quoad
possel, nioderarclur; ilio aulem, cuius merces crani, in gladiuin ignave ibidem
incumbcrct. Ilic
ille naufragus ad gubernaculum accessit, et navi, quoad po luil, est
opiluluios. Sedatis aulem lluctibus, et tempestale iam commutata, navis
in portum pcrvchilur. Ilio aulem,
qui in gladium incumbucral, leviter saucius facile ei vulncre est
rccrealus. Navem cuni onere liorum (riunì suam quisque esse tempo, luogo,
personaggio, opinione ; il farà ancora, mostrando in qual conto c prozio s’
abbia a tenere la deduzione traila dalla pretesa somiglianza, in quale il
motivo perchè si è tratta: in line si dimostrerà in che balla la
differenza dall' una alla altra cosa, acciocché si paia clic dell'ima e
dell’altra non densi avere la stessa idea. E se egli stesso avesse
opportunità di valersi di raziocinii, se ne dovrà valere in quelle stesse
guise clic si snn dette poco avanti ; se di opportunità direnasse,
dovrà sostenere clic non si dee allcudere ad altro che a ciò die è
scritto; andar a ripcnlaglio tulli i diritli, se si ammettessero
somiglianze sì folte, imperocché non v'Iia quasi cosa alcuna clic non tenga
del simile con qualche altra ; esservi molle leggi che Irailano nggelti
somiglianti tra loro, ma l' una essere separala dall'altra, e ciascuna trattar
solamente il suo oggetto speciale ; in tutte le cose potersi scorgere
somiglianza o dissomiglianza delle unc con le altre. I luoghi comuni clic
qui tornano a capello sono i seguenti : quegli clic ragiona per
mezzo di raziocinio dee da ciò clic è scritto raggiungere per congettura eiò
clic non è scritto, c difendere clic nessuno autore può racchiudere
ugni cosa nella sua scrittura, c che meglio scrive e a meglio riesce chi
prucura che da alcune cose alcune altre se nc venga ad intendere. Quegli
che ragiona conlro il raziocinio, dovrà sostenere clic darsi alla
congettura è un farsi a indovinare, cd essere un balordo e uno sciocco
quello scrittore clic non sa ben esprimere c provvedere tutto quello eh'
ci vuole. fi definizione, quando cercasi qual sia il vero signilicato d'
una qualche parola che ai ritrova nello scritto, come in questo esempio :
Dice la legge : Chi abbandona la nave in tempo di burrasca, si diierla e
perde ogni cosa: la nave c le mercalanzie cadono in proprietà di quelli
che nella nave si rimasero. Due persone viaggiavano per mare,
I" uno padrone della nave, I' altro della merce di che essa era
carica. Videro nell' acqua un tale clic stava perduto c che tuttora
nuotava tendendo verso essi le mani ; presi da pietà, drizzarono la nave
alla volta di quello, o lo raccolsero dal mare. Alquanto dappoi
cominciarono essi medesimi di esser forte travagliati dalla burrasca che
vi si mise, di modo che il padrone della nave, che n' era eziandio il
pilota, riparò per salvezza nel palischermo, c di quivi, a misura del
possibile, reggeva la navo con la funicella clic raccomandala alla
poppa traeva il palischermo dietro a sé. L'altro clic era il padrone della
mercalanzia, sul ponte della nave lasciossi radere da codardo sulla
punta di un pugnale per morirsene. Intanto il naufrago di’ era
slato raccolto dal mare si fece al limone, e in blil dici!. Die
orones scriplo ad causato acceduti!, el et nominis tì nascilur
controversia. Natn et rclinquere nateti), et remancrc in navi.deniquc
natia ipsa quid sii, definilionibus quaerelur. tisdem autem et locis
omnibus, quibus definitiva conslilulio, traclabilur. Nunc, exposilis iis
argumcntationibus, quac in iudiciale causarutn gettus accomodanlur, deinceps in
deliberativum gcnus et dcmonslratitum argumenlaudi loco: et praecepla
tlabimus; non quo non in aliqua conslitulione omnia semper causa veraetur, sed
quia proprii tantum liarum causarum quidam loci sunt, non a constilutione
separati, sed ad (Ines liorum generum accomodali. Nam placet in
iutliriali genere flnem esse aequilatrm, Itoc est, partem quamdam
Itonestalis. In deliberativo aulcm Aristoteli placet utililatcm, nobis et honcslatcm et
ulilitalem. In dentonstralivo , lionestatem. Quarc in hoc quoque genere
causae quaedam argumcntalioncscommuniter ac simililcr Iraclabunlur; quaedam
separatius ad liucm, quo referri onincm ralioncm oporlet, adiungcntur. Alque
uniuscuiusque constilolionis escmplum supponcrc non gravaremur, itisi
{liuti viderentus, qucmadntodum ros obscurac dicendo fioretti aperliores, sic
rcs apcrtas obscuriorcs fieri orationc. Nunc ad dclibcralionis praecepla
pergamus, LI I . Rerum cipelendarum Iria genera sunl; par autcni
numerus tilandarum et contraria parte. Nam est quiddam, quod sua vi nos
adliciat ad ecse non emolumento captans aliquo, sed Irahens sua
dignilale; quod gcnus, tirlus, scienlia, veritas est. Est aliud autem non
propter smini vini et naturam, sed propter fruclum alque ulilitalem
peIcndum; quod genus, pecunia est. Est porto quiddam ci liorum parlibus
iunctum, quod el sua vi et dignilale nos iuduclos ducit, el prue se
quamdam gerii utilitatem, quo magis eipetatur, ut amicitia, bona cxislimalio. Alque ex is liorum conira per
quanto seppe porse aiuto alla nave. Calmatisi i fluiti, e volta la burrasca
in bonaccia, la nave fu fatta entrare nel porlo. Colui clic s'era gettato
sulla punta del pugnale non avea rilevala che una assai lieve
ferita, ondechè tosto e di facile si rimise in meglio. Ciascuno di questi
tre vanta per sua la nave con la merce denlrovi. Perciò intentano causa
tutti e tre, pretendendo ciascuno avere la legge dal lato proprio. Si
rimesta controversia di nome, cioè dire di significato; poiché deesi
realmente cercare con altrettante definizioni che significhi
abbandonar la nave, che rimanersi in quella, e infine che sia la nave stessa.
Or questa causa si trattori precisamente con tutti quei luoghi, con che
trattasi la coslituiione definitiva. Esposte cosi le argomentazioni che
si adattano alle cause di genere giudiciale, verrò a mano a mano dando i
precetti e indicando i luoghi che sono il caso per le argomentazioni
proprie dei due generi, deliberativo e dimostrativo; non perchè ogni causa
non s’ aggiri sempre sopra qualche stato di questione oratoria, ma
perche ci sono dei luoghi solamente proprii di questi due generi di
cause, non già disgiunti e divisi dallo stalo delta loro questione, ma
adatti c relativi ai (ini, a cui para ciascuno di questi due generi. E infatti
si tiene dai relori rito il genere giudiciale abbia per line la equità,
ciò è dire tuta parte dell' onesto ; c da Aristotele clic il fine
del deliberativo sia l' ulilc : io però tengo clic sia l'utile cd anche
l'onesto. Si tiene da ultimo che l’ onesto sia il line del genere dimostrativo.
Laonde, eziandio riguardo a questi dne generi di cause insegnerò in
comune e per lo simile alquante argomt-nlazioni, aggiungendone ancora certe
altro speciali che si riferiscono strettamente al fine che è proprio di ogni
causa , c a cui si dee rapportare tutta la orazione. Noti mi
graverebbe di apporre il proprio esempio a ciascuna costituzione clic io
toccherò, se non osservassi che siccome le cose oscure si fanno più ciliare col
ragionarvi sopra, cosi le ciliare si fanno, ragionandole, alquanto
oscure. Ma veniamo ai precetti circa il genere deliberativo.
Lll. Tre sono le specie delle cose appetibili, c tre le loro opposte,
da cui l'uomo si dee guardare. Vita certi oggetti che per lo slesso loro
valore ne allettano ad abbracciarli: non ne tirano già a sè colla
lusinga di qualche profitto, ma coll'innamorarne della nobiltà e pareggio loro,
quali sono la virtù, la scieuia, la verità. Te n’ha altri che sono
a desiderarsi non per lo valore c natura loro, ma perchè conferiscono uo
qualche profiliti ed utilità, siccome è il danaro. Ve n' Ita invece che
sono un misto di questi e di quelli, i quali olire che ne adeseano a
seguirli pel loro valore e nobilezza, an ria facile, tacenlibus nobis,
intelligenlur. Seti ul expedilius ralio trndalur, ea, quae posuimus,
brevi nominabuntur. Narri in primo genere quae sunl, honesla
appellabunlur; quae aulem in secondo, ulilia. Haec autem Icrlia, quia
partimi honeslalis comincili, et quia mnior esl vis honeslalis,
iuneta esse omnino ci duplici genere intelligenlur; sed in
nteliorem partimi vocabuli coiiferanlur, cl honesta nominentur. Gì bis itimi
conlicitur, ul appclendarum rcrum partes sint borie. las et utililas,
vitandarum turpiludo et inulililas. ilis igitur duabus rebus res duac grandes
sunt atlribiitae, nccessiludo cl adfectio; quarum altera ei vi, altera ci
re cl personis consideratili. De ulraque post aprrlius perscribemns; nunc
honeslalis ralioncs primum eiplieemus. Quod ani tolum aul aliqua ex
parte propter se pelilur, honestum nominabimus. Quare quum eius duac
partes sint, quarum altera simplex, altera iuneta sii, simpllcem prius
consideremus. Kst igitur in co
genere omnes res una «i alquc uno nomine amplexa virlus. Nam virtus
est animi habitus, naturae modo, atque rationi conscnlaneus. Quamobrem
omnibus eius partibus cognitis, loia vis erit simplicis honeslalis considerata.
Ilabet igitur partes quatuor: prudentiam, iuslitiam, foriiludinem,
lempcrantiam. Prudenlia est rerum bonarum et malarum neutrarumque
scienlia. Partes eius: memoria; intei iigentia, provienila. Memoria est, per
quam animus repctil illa, quae fuerunt; intei Iigentia , per quam ea
perspicit; quae sunt; providentia, per quam futurum aliquid vidclur
ante quam factum sit. lustitia est habitus animi, communi utililate
conservala, suam cuique tribuens dignilatcm. Eius inilium est ab
natura profectum ; deinde quaedam in consucludincm ex ulililatis
ratione venerunt; postea res et ab natura profeelas et ab consuetudine probalas
legum melus et religio sanxil. Natura ius esl, quod non opinio
genuil, sed quaedam innata vis inscruit, ul religicncm, pielatem,
gratiam, vindicationcm, obscrvantiam, verilatem. Religio esl, quae
supcrioris cuiusdam naturae, quam divlnam vocant, curam
ceremoniamque adferl ; pietas per quam sanguinoconiunclis palriacqne benevulis
oflicium cl ditigens Iribuilur cullus; gralia in qua anticiiiarum cl
olliciorutn allcrius memoria et remuncrandi vo cile ne mostrano una
cotale utilità, perchè ad appetirli siamo vie piè invogliati, come à
l'amicizia, la buona stima, e via via. Gli oggetti che sono opposti ai
prcfali, ancora clic io li ponga in silenzio, di leggiere si potranno
intendere. Ma perchè sieno più chiari i precetti che vengo a porgere,
ricordo cosi di passo di che nomi sieno da appellare gli oggetti
che ho qui sopra accennali. I primi si ap polleranno onesti, i secondi si
diranno utili. I terzi, perchè sono contempcrati con l'onesto, e perchè in essi
la forza dell' onesto è maggiore clic la propria, si capisce di lieve che
sono appetibili per due ragioni unite insieme ; ma s’ abbiano pure
il nome dalla ragione migliore, e si appellino onesti anch' essi Da
lutto ciò si deriva, che gli oggetti da dover appetire sono di due
specie, onesti ed utili, c gli opposti da doversene chi che sia guardare,
sono i turpi ed i dannosi. A queste due specie si riferiscono due cose di
assai rilievo, la necessità e la circostanza; delle quali la prima si
risguarda in sè e nella forza sua propria, la seconda relativamente ai
fatti ed allo persone. Dell' una e dell’ altra scriverò poi con sudlcicnle
chiarezza : qui intanto mi farò a trattare cièche risguarda
l'onesto. LUI. lo appello onesto ciò che in tutto o per amore
di alcuna sua parte è appetibile per sè. Siccome però son due le parli
dell'onesto, una semplice, una mista, ci occuperemo in prima della parte
semplice. Or quella che per la sua propria potenza, c sono il solo suo
nomeoomprendequanto v’ha nella specie dell'onesto semplice, èsen z’alIro la
virtù. È infuni la virtù un abito interno, basalo sulle regole naturali,
e consentaneo alla ragione. Per la qual cosa, conosciute che siano
tulle le parli di essa, si può dire di aver conosciula tutlaquanta la
forza dell'onesto semplice. Ha essa virtù ben quadro parti, prudenza,
giustizia, fortezza, temperanza. Prudenza è la facoltà di conoscere ciò che è
bene e ciò che è male, e ciò che non è nè l'uno nè l'altro. Le sue parti
sono, memoria, intendimento, antiveggenza. Memoria è quella dote, per cui
l'anima si risovviene dello cose clic furono; inlendimenlo è quello, per
cui l'anima acquista la conoscenza delle cose clic sono; antiveggenza è
quella che dà a conoscere innanzi che avvenga qualche cosa che dovrà avvenire.
Giustizia è quell' abitudine interna, per cui l'uomo, senza alterar
l'utile generale, dà a ciascuno quello di che esso è degno. I suoi
principii son venuti dalla natura: poscia certe azioni, per amor
dell' utile che danno, sono passale in consuetudine; in fine si i principii
venuti dalla natura, e si le azioni che furono approvate dalla consuetudine,
vennero sancite dal timor delle leggi c dalla religione. Natura è una
legge che non fu lunlas contiiictur ; vindicatio , per quaro vis aut
iniuria et ninnino amile, quod obfuluruin csl, de* rendendo ani
ulcisccndo propulsala; observanlia, per quam lioniines aliqua dignilalc
anlceedcnles cultu quodam et honorc dignantur ; vcrilas, per quam
immillala ea, quac snnt, aut aule fuerunl, aut futura suut,
dicunlur. Consuetudine ius csl, quod aut levitar, a natura tracium
aluit et maius lecit usua, ut rcligionetn; aut si quid coruin, quac ante
diximtis, ab natura proreelum maius Lictum propler consuctudiuem viilemus,
aut quod in morem vetustas luigi approbaliuue perduti!, quod genus pactum
est, par, iudicatum. Pactum csl, quod inler aliquos convenit ; par
, quod in omnes aequabile est ; iudicatum, de quo alicuius aut aliquorum
iam scntenlìis constitulum csl. Lego ius est, quod in co scripto ,
quod popolo ciposilutn est , ut obscrvct , conlinctur. Fortiludo est
considerala periculorum susceptio , et laboruin perpessio. Eius
parles, magnificcnlia , Odeutia , patinili, i, perseverantia.
Magniflcentia est rcruin magnaruin et cicelsarum cum animi ampia quadam
et splendida proposilionc agilatio alque administralio ; lidentia csl, per quam
magnis et bonestis in rebus multum ipsc aniinus in se fiduciae cerio cum
spe collocavi! ; palicntia csl bonestnlis aut utililatis causa
rerum ardnaruni ac dillo ilium vnlunlaria ac diuturna perpessio ;
perseverantia csl in ralionc j bene considerala stabilis et perpetua
parmansio. i Temperantij est ralionis in libidinem alque in alios
non rcclos impelus animi firma et moderala domi- : nalio. Eius parles,
coiiliociilìa, clemenlia, mode- | stia. Conlinemia est, per quam
cupidiias cnnsilii gubcriialionc regilur ; clemenlia, per quam
animi temere in odium alicuius iticeli roncilaliquc comitale rctincnlur ;
modestia, per quam pudor honcsti curam cl slabilcm comparai auctorilatcm. Atque
lince omnia propter se solum, ut nihil adiungalur emolumenti, pctcnda suoi.
Quod ut demonstrclur, ncque ad hoc nostrum instilutum pcrtinct, et a
brcvilate praccipiciidi remulum csl. l’roplcr se aulem vitanda suut non
ca mudo, quae bis con prodotta dalla opinioue umana , ma è per
una certa l'orza che le è ingenita, quale è la religione, la pielà,
la grazia, la vcndclla, la osservanza, la verità. Religione è procurare
le cerimonie e il culto di una natura più prestante della nostra,
la quale si domanda divina; pielà £ quella virtù, per cui l'uomo presla
ossequio c rispetto a quelli che gli sono attinenti di sangue, ed
agli amatori della patria ; la grazia comprende la memoria dell'altrui
amicizia e (ratti officiosi, e la volontà di muncrargliene; vendetta è
quella, per cui, difendendo o ricattandoci, ributtiamo la violenza c il
sopruso, anzi tutto affatto ciò clic ne potrebbe essere nocitivo;
osservanza £ quella disposizione dell'animo, per cui teniamo degni di
certa venerazione ed onore gli uomini di paraggio che son posli in dignità. É
verità quella virtù, per cui, senza punlo alterarle, diciamo le
cose quali furono, o quali sono, o quali sono a venire. Consuetudine
è una norma o legge, che tratta a poco a poco dai principii naturali, fu
afforzata e resa maggiore dall’ uso, come è la religione; e forza di norma o
legge ha qualunque delle cose provenienli dalla natura, clic ho toccalo
poco fa, le quali vediamo più che più aver preso piede mediante la
consuetudine; ovvero qualsiasi delle cose, che tenute dal popolo inaino
ab antico per buone c per vero son passale in costume fino a noi,
emne è il patto, la parità, il giudicalo. È patto ciò, in cui più persone
convengono e fanno accordo tra loro; é parità ciò che guarda verso
tutti la deb la uguaglianza; è giudicalo ciù, sopra cui fu giù da uno o
più pronunziata sentenza. Legge è una regola esposta in quello scritto che
si presenta al popolo perché In debba osservare. Fortezza, è
sofferenza delle fatiche, è un esulo c approvveduto incontro dei
pericoli. Le sue parti sono, magnificenza, sicurezza, pazienza,
perseveranza. I’cr magnificenza s’ intende un esercizio e un maneggio di
coso eccelse e rilevate, congiunto con una larga e splendida
dimostrazione dell'animo; sicurezza è quella virtù, per cui l'uomo nelle
imprese grandi cil onorale ripone in sé stesso molto di fiducia, in modo
da avere la sua speranza per riuscibilc; pazienza è un volontario c lungo
sofferimento delle cose ardue e malagevoli, eoi . disegno di giunger a
fatti di onore o di utilità; perseveranza é una ferma c perpetua
permanenza in un partito che siasi preso dietro consiglio e
ponderazione. Temperanza é un signoreggiamento della ragione, forte, ma
moderalo, sopra la libidine c sopra gli altri non rclli trasporti del
cuore. Le sue parti sono contenutezza, clemenza, modestia. Contenutezza 6
quella rirlù, per cui viene clic i desideri! affienali si lasciano
reggere dal con Iraria sunl, ut fortitudini ignavia et iusliliac
iniustitia veruni etiam illa, quac propinqua vidcnlur et Unilima esse,
absunt autem longissime ; quod gènus fidenliae conlrarium est dillìdenlia, et
ca re vilium est; audacia non conlrarium, sed apposilum esl ac
propinquum, cl lanieri vilium osi. Sic unicuiquc virluti fmilimum vilium
rcpericlur , aul cerio iam nomine appellalum, ul audacia, quac fidenliac,
pertinacia, quac perscverauliac finitima csl, supcrstilio, quae religioni
propinqua esl ; aut sine ullo cerio nomine. Quae omnia ilem, uli
contraria rerum bonarum , in rebus vitandis reponcntur. Ac de eo quidem genere
honcstalis, quod et omni parte propter se pctilur, salis dicium
csl. bone de eo, in quo ulilitas quoque adiungilur, quod famen honeslum
vocamus, dicendoci vidclur. Sunl igilur multa, quae nos quum dignilale
lum fruclu quoque suo ducunl; quo in genere csl gloria, dignilas,
ampliludo, amicilia. Gloria csl frequens de aliquo fama cum laude;
dignilas, alicuius bonasia, et cultu et honore cl vcrccundia digita auctoritas;
ampliludo, polcntiac, aut maiestatis, aul aliquarum copiaruoi magna abundanlia
; amicilia, volunlas erga aliquem rerum bonarum illius ipsius causa, quem
diligi), cum eius pari voluntate. Ilio quia de civilibus causis loquimur,
fruclus ad amicitiam adiungimus, ut eorum quoque causa pelenda vidcalur ;
ne forte quis nos de om ni amicilia diccre ciistimans reprclicnderc
incipial. Quamquam sunl, qui propter ulililatem modo pclendam pulanl
amicitiam ; soni qui propler se solum ; sunt qui propler se et ulililalcra.
Quorum quid verissime conslitualur, alius locus crii considcraudus- Nunc
hoc sic ad usuui oralorium rclln. qualur, utrami|uc propler rem amicitiam
esse cipclciidam. Amiciliarum aulem ralio, quoniain parlim sunl religionibus
iunclac, parlili) non suul, cl siglio e dal senno; clemenza £ quella, che,
quando l’uomo è allenalo e spinto all’odio contro alcuno, ne lo aflrena con
dolcezza c benignità; modestia è quella virtù, per cui l'uomo mercè il
suo pudore ha cura dell'onestà, c acquista una slabile riputazione.
Tulle queste virtù sono appetibili da per sè sole, posloehè non sicno
accompagnale di nessun approvacelo ed utilità; cosa clic non mi
fermo qui a dimostrare, Ira perchè non si perbene nll’assunlo clic ho per mano,
e perchè non si consente con la solila brevità di questi mici precetti.
Vogliono però esser evitali di per sè non solo i vizii che a tali virtù
sono contrarii, come la codardigia clic è contraria alla fortezza, la
ingiustizia clic alla giustizia; ma quelli altresì che paiono esser loro
propinqui c vicini, ma in quel cambio non sono a mille miglia tali; per
esempio, la diffidenza è contraria alla fidanza, e per questo è
vizio; l'audacia invece non è di essa fidanza il contrario, ben anzi l'é
confine c le va appresso, c niente di meno è vizio. Similmente
ciascuna virtù si vedrà essere confinata dal suo vizio contrario, il
quale o si domanda con un nome suo proprio, come l'audacia che confina
con la fidanza, la pertinacia che ha con la perseveranza molta approssimità ,
la superstizione che alla religione vicn seconda ; o non ha nessun nome
determinato. Or tutti questi vizii, come conlrarii delle virtù, si
riporranno nel novero delle cose da dover evitare. Parlai della specie di
onesto, che da ogni parte è appetibile di per sè: or il Un qui
basta ad aver dello. Al presente è da parlare di quell'aura specie di
onesto che porta con sè ragioni di utilità, ma che io appello onesto
niente di meno. Sonci dunque molte cose che ne invogliano a sè non
solamente per riguardo alla nobiltà loro, ma eziandio per l'approvcccio e
vantaggio che no arrecano: di questa ragione sono la gloria, la dignità,
la grandezza, l'amicizia. Gloria è la fama celebre che gode alcuno,
accompagnala di lode; dignità è una maggiorla onesta ed autorevole, degna
di onoranza, di stima e di riverenza; grandezza è un essere di
grandissima lunga poderoso di possanza, o di macslevoli esteriorità, o di
qualche specie di ricchezze; amicizia £ voler bene c vantaggio ad altrui
per riguardo della stessa persona clic si ama, e trovare in esso
un'eguale disposizione di volontà. Siccome perù io parlo qui delle
causo civili, attribuisco all'amicizia anche una ragione di
utilità, perchè ancora per tal verso essa comparisca appetibile; c fo questa
avvertenza, per causa clic alcuno noti mi volesse per avventura
riprendere, credendo che io qui metta a fascio ogni sorta di amicizia.
Mondimene v’ita dii opina quia parUm telerei sunt, parlim novae, panini
ab illoruni, parlim ab noslro beneficio profcclac, parlim uliliores,
parlim minus uliles, ex causarum dignilatibus, ex temporum opporlunUalibus, ci
ofliciis, ex rcligionibus, ex veluslalibus habebiiur. Uliiilas aulem aut
in corporc posila est, aul in cxirariis rebus ; quBrum (amen rerum
multo maxima pars ad corporis commodum revertilur, ut in re publica
quacdani sunt, quae, ut sic dicam, ad corpus perlincnt civitalis, ut
agri, portus, pecunia, classi», naulac, mìliles, sodi, quibus rebus
'ncolumilatem ac liberlatem re linoni civilates: aiiae vero, quae iam
quiddam magis amplum et minn s necessarium conflciunl, ut urbis egregia
exornatio alque ampldudo, ut quaedam cxcelicns pccuniae magnitudo,
amicitiarum ac sociclalum mulliludo. Quibus rebus non illud solum
conOcilur, ut salvac et incolumes, terum rliam ul amplae alque polentes
sint ciiitales. Oliar e utililalis duae partes videnlur esse, ìncolumilas el
polenba, incolumiias est salulis tuia alque integra conscrtalio;
polenlia est ad sua conservanda cl allerius oblinenda idonearum rerum facullas.
Alque in iis omnibus, quae
ante dieta sunt, quid fieri, cl quid Tacile (ieri possii, oporlet considerare.
Facile id dicimus, quod sinc magno aul sino ulto labore, sumptu,
molestia qtiain brevissimo tempore conlici potcsl ; posse autem
(Ieri, quod quamquam iaboris, sumplus, molestine, longinquitalis indigel,
alque aul omnes aut plurimas, aul maximas causas liabet dilficultalis,
lamen, bis suscepfis diilicullalibus, compleri atque ad exilum perdimi
potesl. Quoniam ergo de honestale el de ulililale dixiinus, none restai,
ut de iis rebus, quas bis allributas esse dicebamus, nccessitudine
cl adTeclione pcrscribamus. Pulo igitur esse liane, necessiludinem,
cui esser l'amicixia appetibile solo per l'utilità cb'essa produce,
e chi dice esser appetibile solamente di per sè, c chi esserlo e per sè e
per l'utile che da essa deriva. Quale però sia f appunto e il Termo
da stabilire intorno a questa maleria, verrò esponendo in altro luogo. Intanto
per l'uso oratoriosi ritenga questo, esser appelibile l' amicizia c
per sè c per l'utile cb'essa apporta. Essendo poi che delle
amicizie alice si sono unite coll’ essersi intermessa la religione, altre sema
intervento di lei, e parte sono antiche, parte recenti, e quali son
nate da un beneficio Tattoci, parte da un beneficio che Tacemmo noi
slessi, ed altre sono piò utili, ed altre meno; cosi nel trattarne si
dovrà avere considerazione alla nobilezza delle cause, alle opportunità
dei tempi, alle relazioni di esse amicizie, agli alti religiosi che le hanno
ratificale, c alla lontananza della loro origine. L'ulitilà ridonda
nel corpo, o nelle cose elio gli son fuori; ma anche queste per la
massima parie si convertono a vantaggio del corpo stesso. Se nc vegga I*
esempio nella repubblica. Cl son cose, clic, per cosi dire, appartengono
al corpo della popolazione, come le campagne, i porli, il danaro, la
(lolla, i naviganti, i militi, gli alleati, ron le quali cose c persone
conservano le popolazioni la propria salvezza o libertà: altre ce ne
sono, che conferiscono a un vantaggio più appariscente. ma meno necessario,
come a dire un cospicuo ornato cd ampiezza della cillà, uno straordinario
stollo di pecunia, una moltitudine di amicizie c di società. Da queste
cose deriva che le. popolazioni non pure si manlengonsalro ed incolumi,
ina eziandio vanno distinte per potenza e dignità. Ondecbì io To ragione
esser due le parti dell' utile, ve' dire potenza c incolumità.
Questa suona tanto come conservar sicura e intatta la propria
salvezza; quella esprime il possesso dei mezzi appropriati per mantener
il proprio, e venir all' acquisto dell’ altrui. In tulio questo elio
ho dello fin qua si vuole dislinguerc ciò che Tar si possa da ciò
che sia Tacile a Tare. Diciamo Tacile a Tarsi ogni cosa clic si può
Tornire con brevità, senza grande, o senza alcuna Talica, spesa,
Tastidio: diciamo che una cosa si può Tare, quando essa, avvegnaché domandi
Talica, spesa, raslidio, lunghezza di tempo, ed involga o tulle, o la
piò parte, o le piò gravi cause di difficoltà, non però niente di
meno anche affrontando queste dillkollà medesime, può esser Tornila c
condona al suo pieno cffcllo. Ora dunque che s' è trattato dell'onesto c
dell'utile, resta da trattare delle due cose che, come ho dello, si
rapportano a loro, ciò sono, la necessità e la circostanza. Credo esser
necessità quella senz'altro. unno ii. li» nulla vi resisti
polost, quo ca sccius id, quod lacere polcst, perflcial, quac ncque mulari,
ncque leniri polca!. Atque, ul apertili? hoc sii, cicniplo licci
vim rei, qunlis et quanta sit, cognoscamus. Cri posse (lamma ligneam
motcriam noccsse est. Corpus mortale aliquo tempore inlcrire
ncccsse est; atque ita nccessc, ul vis postulai ea, quam modo
dcscribcbamus, ncccssiludinis. Iluiusmodi neccssitudines quum in diccndi
raliones inciderli, rcclc neccssitudines appcllabunlur. Sin aliquae
res accidcnl difflciles, in illa supcriore, possilne fieri,
quaestlone considerabimus. Atque oliam hoc milii vidcor viderc, esse
quasdam cum adiunctione nccessitudiucs, quasdam simpliccs et absolutas.
.Nani alitcr dicere solemus: Ncccsse est Casilincnscs se dedere
llannibali ,*alilcr autcìn : Nccessc est Casilinum venire in llannibalis
polcslalcm. Illic, in supcriore , adiunclio est liacc: Nisi si
malunl fame perire ; si cnim id malunl non est nccessc. Hoc inlcrius non
ilem , proplcrca quod , sivc velini Casilincnscs se dedere, sive
famein perpcli atque ita perire, neccssc est Casilinum venire in
llannibalis potcstatem. Quid igitur bare per licere potest ncccssiludinis
dislribuiio ? Propc dicatn , plurimum , quum Incus necessiludinis videbilur
incurrere. Nam quum simplex crii neccssiludo, niliil crii quod inulta
dicamus, quum eam nulla rationc lenire possiraus ; quum aulem ila
ncccsse crii, si aiiquid cffugcrc aul adipisci vclimus, tum adiunclio illa quid
liabcat utililalis au| quid honcstalis, crii considcrandum. Nam si
vclis attendere, ita tamen, ul ìd quacras, quod come, nial ad usum
civilalis, reperias nullam esse rem, quam lacere ncccsse sii, nisi
propler aliquam causaci, quam adiunctioncm unminamus; praeler linee
auledi esse mullas res ncccssilaiis, ad quas simili* adiunclio non
accudii; quod geuus, ut homines morlales necessc est inlcrire, sine
adiunctione: ul cibo ulantur, non necessc est, nisi cum illa eiceplionc:
Evira quam, si nolinl fame perire. Ergo, ut dico, illud, quod adiungilur,
sempcr, cuiusmodi sii, erit considerandum. Nam omni tempore id
pcrlinebil, ul aul ad boncslalcm hoc modo exponcnda neccssiludo sii : Necesse
est, si boncslc volumus vivere; aul ad incolumilalcm, hoc modo : Nccessc
est, si incolumcs volumus esse; aul ad commodiialcnt, hoc modo : Ncccsse
csl , si sine incommodo volumus vivere. alla quale per veruna forza
non si può impedire clic faccia nò più nè meno ciò eli' essa può
fare, poiché non si può nè miliare, nè restringere. Ma perchè
questa definizione torni più chiara, sarà bene conoscere per qualche
esempio quale e quanta sia la forza della necessità. Che le legna
sicno bruciale dal fuoco, è questo un necessario. Clic un corpo mortale
in uno o in altro tempo venga a perire, anche questo è un necessario; c
necessario così come è richiesto dalla forza della slessa necessità clic
leslè ho descritta. SI falli necessarli quando imballeranno fra gli
argomenti che si trattano, si appelleranno a buon diritto necessità. Che
se involgessero fatti o circostanze ma' (agevoli, si esamineranno a
termine della questione tocca qui sopra, clic è, quando uno cosa si può
fare, o può avvenire. Oltracciò osservo pur questo, esservi alcune
necessità clic s' accompagnano di una qualche condizione, alcune altre
esser affatto semplici cd assolute. E infatti nell’uso del parlare noi diciamo
in un modo: È necessario che quelli di Casilino si dicno in mano ad
Annibale; c in un altro: E necessario clic Casilino venga ad Annibale in
podestà. Al modo primo va accompagnala questa condizione: Se non vogliono
pericolar di morire di fame; perocché se amano meglio codesto, la resa
non è lor necessaria. Ma non è altrettanto del secondo modo, perocché, o sia
che quelli di Casiliuo vogliano venire alla mercè c alla misericordia di
Annibaie, o sia che amino piuttosto patirsi la rame c così disertarsi c
perire, è necessario ad ogni modo che venga Casilino in potere di
Annibali'. Ora, c clic dunque se ne ricava, si dirà, da questa
distinzione del necessario ? Se ne ricava, sto per dire, di molto, ognora
clic intervenga qualche luogo spellante alla necessità: conciossiacliè quando
essa necessità fosse non più che semplice, non c’è bisogno di andare in
lungherie di parole, essendo che essa non si può già per veruna guisa
mutare; e quando per conlra la necessità avesse questa condizione,
ciò è necessario, se vogliamo scansare ovvero ottener qualche cosa, allora
bassi a porre ben mente che cosa arrechi essa di utile, oppure di onesto. E
infatti se tu vorrai considerare di ciò, tuttavia solo nel caso che tu
abbia qucsliorc su quello che risguarda gli usi civili,
riconoscerai non v' esser azione clic s'abbia necessariamente a
lare, se non per qualche motivo, che io appello condizione; e inoltre
esservi molle specie di necessità, alle quali simile condizione non va
punto accompagnala; per esempio: gli uomini mortali debbono di
necessità venir a mancare, questo è un necessario senza condizione: ma il
dire, i forza che piglino Ucl cibo, questo non è un neccs Ac summa quidcm
ncccssiludo videlur esse honeslatis: liuic proxima, incolumilatis:
ter lia ac Icvissima, commodilatis;quac cum liis numi|tiam poteril duabus
contendere. Ilasccaulem itile r se saepe Decesse est comparari, ut
quamquam prarstet boneslas incolumitali, (amen utri polissiinum
consulendum sii, delibcrelur. Cuius rei certuni quoddam praescriplum videlur in
pcrpeluum ilari posse. Nani, qua in re iteri poteril, ut, quum
incolumitali consu!ucrimns,qund sii in pracsenlin tic honeslatc
delibatimi, virtute aliquando et industria recuperetur, incolumilatis ratio
vidcbilurbabenda; quum autem id non poluerit, honcslalis. Ila in
huiusmodi quoque re, quum incolumitali lidebimur consulerc, vere
poterimus diccre nos lionestalis rationem liabcre, quoniam sino
incolumilatc cam nullo tempore possumus ndipisci. Qua in re tei concedere
alteri, voi ad conditioncm allerius descendere, vel in pracscnlia
quiescere atquc alimi Icmpus cxspeclarc uportcbil. In commodilalis vero
ratinile modo illud altcmlatur, dignane causa videalur ea, quac ad ulilitalem
pertincbil, quarc de niagiiiliccnlia aul de bonestate quidam dcrogetur.
Alque ili hoc loco milii caput illud videlur esse, ut quaeramus, quid sii
illud, quod si adipisci aut ctTugerc velimus, aliqua res nubis sit
necessaria. Ime est, quac sii adiunclio, ut proinde, uti quaeque res
eril, laboremus, et gravissimom quamquecaiisam vebemcnlissimenecessai
iati! iudicemus. A il feci io est quaedam ex tempore aul ex negotiorum
eventu , aut adminislratione.aul homiimni studiocommulalio rcrum, ut non
lales, quales ante babilac siili, sul plcruinque liabcri solenni habondac
videantur esse ; ut, ad hostcs transire turpe videlur esse; ut non
ilio animo, quo Ulyxes transiit ; et pccuniam in mare deiicere
inutile; al non eo consilio, quoArislipptts fecit. Sunt igilur r s
quaedam ex tempore et ex consilio, non ex sua natura considerandac;
quibus in omnibus, quid tempora pctanl,aut quid personis dignum
sit, considcrandumesl, et nonquid, sed quo quidquc animo, quicum, quo
tempore, quamdiu fìat, altcndenduin est. Ilis ex parlibus ad senlcttliam
dicemtam loeos stimi oporlere arbitramur. sario, se non con la condizione
: eccetto se non vogliono perir di Tante. Laonde, come dico, è sempre da
esaminare quale della condizione sia il modo c la qualità; poiché in ogni tempo
è da badar bene clic la necessità, se si riferisce all'onesto, si
esponga in questo modo: è necessario, se togliamo vivere onestamente; o se si
riTeriscc alla incolumità, si esponga in questo: È necessario, se vogliamo
mantenerci inrolumi; o se ai nostri agi, si esponga cosi; È necessario,
se vogliamo vivere bene agiati. La necessitò di tulle maggiore è di
Tare oncslamcnlc: a questa s’avvicina quella della nostra incolumità; la
terza, da meno di tulle, è quella di essere agiati, la quale non potrà
mai competere con le altre due. Queste necessità ì mestieri di
paragonarle spesso Tra loro, ai line che possa esser risolto c stabilito,
sebbene l’onesto si vantaggia molto sopra la incolumità, a quale de’ due
debbasi piuttosto provvedere. Intorno a ciò si può Dssare un precetto,
che volga per sempre. Quando noi battiamo sopra Talli d’incolumità, c vediamo
die nel provvedere ad essa ne va per al presente diminuito e leso
l'onesto in qualche parte, che nondimeno si può quando clic sia risarcire
e rimettere con l’ industria e la virtù, dovrassi alla ricisa aver
riguardo alla incolumità: ma quando si prevedesse elle lo scapilo
dell’onesto non si poiria più rifare, deesl provvedere al1’ onesto anzi che
alla incolumità. Cosi anche in questo caso mostrando di provvedere alla
incolumità, potremo dir daddovero che noi abbiamo ri- guardo all' onesto,
poiché senza la incolumità in verun tempo non è possibile asseguire
l'onesto c mantenerne il possesso. Or su questo punto si do- vrà o
cedere altrui, o venire nel partilo di un al- tro, o non far altro per
ora, e stare in aspetto di tempo più opportuno. Quanto poi spelta agli
agi, decsi considerare di questo, se la causa che si riTeriscc
all'utile debba richiedere elicsi detragga alcun clic dalla magnificenza
o dall' onestà. E ri- spetto a questo io trovo esser un punto
capitate lo investigare di qual sorta sia la rosa, a cui otte- nere
o scansare ben un’altra cosa ci è necessaria, voglio dire, quale ne sia
la condizione, acciocché ci possiamo arrahatlare ed aiutare
secondocliè lo esige la qualità della cosa, c conoscere che la
causa, Tosse pur la più Torte e malagevole, è nondimeno per ogni verso una causa
necessaria. Cir- costanza è una rotai mutazione delle cose, clic
dipende dal tempo, o dalla riuscita degli affari, o dal maneggio loro, o
dalle propensioni degli uo- mini, c fa elio non si debbau le cose per
tali ave- re, quali si son credute per lo avanti, o quali tut- te
le più volte si credono. Per esempio: il passare Laudes autem cl
vilupcraliones ei iis locis aumentar, qui loci pcrsonis sunt attribuii,
ile quibus ante diclum esl. Sin dislributius baciare ijuis videi,
partialur in aiiimum.cl corpus, et extra- rias res licebil. Animi esl
virtus, cuius de parli- bus paullo ante dicium esl; corporis, valeludo,
di- gnitas, tire*, velocitasi estrariae, lionos, pecunia,
adfinilas,genus, amici, pairio, potenlia cl celerà, quae simili esse in
genere inteliigciitur. Alque in bis id, quod il) omnia valet, valere
oportebit: contraria quoque, quac et quaba einl, inlelligcnlur. Videro
autem in laudando et in vituperando opor- lebil non tam quae in corpore
aul in estrania re- bus liabuerit is, de quo agetur, qunm quo paclo
bis rebus usus sii. Anni fortunali! quidem et lau- dare slultilia, et
vituperare superbia est; animi autem et laus honesta, cl viluperatio
veliemens esl. Rune quoniain oninc in causac gcnus argu- incnlandi
ratio tradita est, de invcnliono. prima ac inavima parte rlieloricac,
salis diclum vidclur. Quare, quoniam et una pars ad ctituin boc ac
su- periore libro perducla esl, et Ilio libcr non parum coiitiiiet
litlerarum, quae restaul, in rcliquis di- ccmus. ai nemici £ cosa
turpe ; ma non £ tale, se si faccia con la intenzione, con clic lilissc: gettar
il da- naro in mare £ cosa dannevolc; ma non lo £, se si faccia con
l'intendimento, conche Arislippo. Ci son dunque delle cose, clic si
vogliono riguardare non in sè c nella natura loro, ma relativamente al
tempo e al disegno di cbi le fa; c in tube que- ste decsi aver l'occhio a
discernerc quale sia I' c- sigenza dei tempi, c ciò clic sia competente e
degno delle persone, ed osservare non ciò che venga fatto, ma con clic
animo altri il faccia, con quali compagni, iti qual (empii, e quanto a
lungo vi duri, ba parti si fatte io trovo clic si debbano ritrarre
i luoghi acconci a provocare la sentenza dovuta. La lode c il biasimo si
trarranno da quel- le fonti di argomenti, elle si sono indicate
quando si £ discorso sopra ciò clic si riferisce alle perso- ne. Se
alcuno volesse attenersi a una divisione bene accurata, la farà riguardo
all'animo, al corpo, c alle cose esteriori, bell’ animo £ propria la
virtù, delle cui parli s’£ trattato poco più addietro; del corpo £
propria la buona o mala salute, la di- gnità, le forze, Tesser veloce.
Per cose esteriori si intendono l'onore, il danaro, i parerli aggi,
la stirpe, gli amici, la patria, la possanza, c quanto vi ha di
genere altrettale. E per queste cose avran- no valore gli argomenti clic
hanno valore per tut- te le altre; e cosi ancora si potrà conoscere
quali si slcno le toro contrarie. Bensì rispetto ai far uso della
lode c del biasimo si dovrà osservare non tanto quali vantaggi o scapili
avesse quel ta- le, di quelli clic si riferiscono al corpo e alle
cose esteriori, quanto in qual foggia e maniera siasi comportalo
rispetto ad essi: puicliè lodare la fortuna £ ima stoltezza, e svitupcrarla £
un’arrogan- za; mentre la lode clic si dà all'animo £ cosa clic lo
onora, come il biasimo che se gli dà è cosa clic lo punge c trafigge.
Esposte cosi le fonti c le for- me di argomentare per ogni genere di
causa. Irò- vo d’aver detto quanto basta circa la invenzione, clic
£ la prima c la più principale tra le parli del la retorica. Epperó,
giacché una metà del mio te- ma tra in questo c nel precedente libro fu
condot- ta ad uscita, c questo secondo m' £ venuto lungo non poco,
dirò negli altri libri le cose die Bucina mi restano. GRICE E CICERONE Notes on
Buckner – alla Grice J. L. Speranza, for The Grice
Club In Existence and illusion: a semantic account of
perception (Bloomsbury, London), D. E. Buckner, of Bristol, etc. expands on some
fascinating stuff. Bristol brings echoes of Grice. His — Grice’s — father
not doing well in business – as Buckner well knows – it was Mabel Mary Felton
Grice, Grice’s mother, who felt like opening a miniature school on the main
street of their home in ‘affluential’ Harborne – then Warwickshire, originally
Staffordshire – and kept Grice as a pupil until he was sent to … Clifton – a
stone’s throwaway from Bristol. Anyway, perception perceptively
fascinated Grice. But what fascinates ME about Buckner’s ‘semantic account of
perception’ is the Aristotelian-cum-scholastic twist to it — coupled with the
big features of both EXISTENTIA, as Cicero would have it, and illusion!
Grice only managed to get to Oxford through a classics scholarship. He still
had no idea about what philosophy was. Oxford did not offer a degree in
philosophy, not that Grice would have cared about that. But he later recalled
having been pretty fortunate in getting Hardie as his adjudicated tutor
(Grandy/Warner – the title of Grice’s memoir was meant to be titled,
“Prejudices and predilections; which become, The life and opinions of H. P.
Grice”, by H. P. Grice, of course! Philosophy was then offered only upon
completion of five terms into your programme — B. A. Lit. Hum. — and it was.
For only ONE term, Grice was adjudicated a different tutor, who complained to
Hardie about Grice’s obstinacy to the point of perversity. During the pre-war
years – where Grice passed from pupil (still a member of the university, you
know) of Corpus, to scholar at Merton, to fellow at St. John’s – his
philosophizing did include a bit of ‘perceptual stuff.’ All the material is now
deposited in The H. P. Grice Papers. One is a typescript on ‘Negation’ where he
considers two example sentences: “This is not red” and “Someone is not hearing
a noise”. The second is influenced by his having read Ian Gallie, “Is the self
a substance?” where Gallie refers to the philosophical ‘introspective’ use of
‘I’ in sentences like ‘I am hearing a noise’ — but I may be aurally
hallucinating, you know! It was after the War that Ordinary-Language
Philosophy was taking its course. And when it comes to perception, it was all
about Grice’s getting on well with G. J. Warnock, quite his junior. The Oxford
syllabus would offer joint seminars by these two on Perception. What is an
Oxford seminar? It needs a title: H. P. Grice and G. J. Warnock, “The
Philosophy of Perception.” It needs to be structured in lectures – or
‘classes’. Grice had been appointed a University Lecturer – sponsored by St.
John’s – which meant his ‘lectures’ — usually joint ones — were open to any
member of the university. Warnock had been active in his interactions
with Austin and would eventually publish Austin’s lectures on ‘Sense and
Sensibilia.’ But what matters at this point is that Austin himself being so
engrossed with perception for his own weekly classes, he would NOT care discuss
the topic in those circumstances which he chose to ‘socialize.’ These
‘circumstances’ were what Grice calls the Play Group. As a matter of fact,
Hampshire has made it clear the thing. There were in history TWO Play Groups –
the terms are Hampshire’s --. The ‘old’ Play Group, and the ‘new’ Play Group.
“Grice never attended the old Play Group.’ Grice gives the reason: he had been
born on the wrong side of the tracks, and therefore did not interact with the
Thursday evenings at All Souls that had Ayer, Austin, Berlin, Hampshire,
Woozley, and a few others, and which Berlin claims, pompously, that it was the
true origin of ordinary-language philosophy! At the ‘new’ Play
Group (Hampshire’s words), Grice would socialize with both Austin and Warnock.
The credentials were simple: you had to be a ‘whole-time,’ as Warnock puts it,
tutorial fellow in philosophy, younger than Austin, and get on well with him.
But perception was then not discussed – since Austin had to deal with
that WEEKLY for ‘any member of the university’ that would care to attend.
Part of Warnock’s interest — a very IRISH Warnock’s interest — in
publishing the notes posthumously was that Austin spent some time with
Warnock’s book on Bisop Berkeley on esse = percipi. Austin had quite an
attitude towards books – or published stuff in general --. And it is not
sensible to expect that Austin cared to know of Warnock’s OTHER views other
than those ‘in Warnock’s book’ on Berkeley! At any rate, ‘philosophy of
perception’ was something that no Oxonian pupil in philosophy could dodge. So
Grice and Warnock offered their views. The material remains unpublished. There
is a reference to ‘H. P. Grice’ in a paper on ‘Seeing’ by Warnock in The
Aristotelian Society, though. When Warnock became the editor of the
influential Readers in Philosophy published by the Oxford University Press, he
managed to get a volume on The Philosophy of Perception. And knowing Grice
well, and to avoid any stress on him, rather than saying, ‘Hey – if you excuse
me the Americanism – why don’t you give me some of your stuff on ‘seeing’ we’ve
been working on?’, Warnock opted for a safer route. And keeping in mind this
attitude Warnock seemed to share with Austin about published stuff, what
Warnock did was to INCLUDE Grice’s old presentation for the Aristotelian
Society – a symposium with White held at Cambridge, and chaired by Braithwaite
– on ‘The Causal Theory of Perception.’ Warnock adds the introductory
editorial: ‘an ingenious and resourceful contribution.’ I doubt Grice
would have cared about the philosophy of perception HAD IT NOT BEEN for this
friendly interaction with Warnock. “How clever language is!” Warnock quotes — in
his ‘Saturday mornings’ — Grice as exclaiming, after they had been through what
they called ‘the syntax of illusion’ – the topic of Buckner’s essay. ‘For it
[language] made’ for them ‘distinctions but also assimilations’ just for them.
The topic involves ‘seeing’ since it was their source of wonder what ‘visum’ is
hardly used in English in sentences like ‘I see the visum of a cow’.
Grice would later philosophise on TACT and VISION. Tact, like Aristotle
would agree, is BASIC. You hardly doubt what you touch. VISION comes second.
VISION carries a METIER or function – for survival. So we perceive ‘objects’ –
Grice – not having read Kant in Kant’s vernacular – is pretty free about the
use of ‘object’ to mean ‘thing.’ Unlike Buckner, Grice never did
the Scholastics in Latin (de re, res, realia) and Aristotle’s idiom for ‘thing’
is too pragmatic to be taken seriously: pragma. So the idea is that if a
pirot – as Grice calls, after Carnap, any human being in some state of
evolution – or any other living creature in a previous state, if not one in a
post-ceding state (an angel, or God) – interacts with another pirot, he is
bound to say ‘That apple is red.’ Colour words are a trick. But the idea here
would be ‘That apple is EDIBLE,’ not rotten. Perception then is a guide for
joint survival. ‘Feel free to eat the apple.’ In the hey day of
ordinary-language philosophy, Grice and Warnock were not really ‘allowed’ to go
big – Grice just does by quoting Price on Perception – ‘The Causal Theory of
Perception’ is a chapter in Price’s book — the only reference Grice gives in
his own ‘The Causal Theory of Perception’ essay. What Grice and
Warnock, as fashions went, *were* ALLOWED to do is ‘linguistic botany’ and
going through the dictionary. It it at this point that Grice and Warnock
become obsessed with the EXPRESSION of reports of perception. Warnock has one
essay on ‘What is seen.’ Philosophers at this time gathered by
generation, so it is a bit of surprise to find a footnote in Grice’s OTHER
essay on perception, “Some remarks about the senses,” crediting O. P. Wood for
a point, or two. Wood was associated with Ryle’s group, not Austin’s. But Wood
states that he always enjoyed interacting with Grice! The point may refer to
The Molyneaux Problem! When it comes to the ‘vocabulary’ of the
philosophy of perception then, Grice hardly goes to Aristotle. There is really
no need, since English seemed rich enough for him. Just considering
‘see,’ Grice was not just happy with his idea of the conversational implicature
attached to it – besides the Mooreian entailment associated with its
factiveness — but he even coined the idea of a conversational DIS-implicature
for cases of … illusion. Thus, he would say that – if we know we’ve
just been to a Shakespeare play, Grice can very well say to Warnock that Hamlet
saw that his [Hamlet’s, not Grice’s or Warnock’s] father was looking for
trouble – ‘even if Hamlet’s father was nowhere to be seen’. Mutatis mutandis
for Macbeth and Banquo – the example in Studies in the Way of Words.
Buckner is into well other issues, but I thought I’d ring the Griceian
bell! References Austin, J. L. (1960). Philosophical papers, ed. by
J. O. Urmson and G. J. Warnock. Oxford University Press. Austin, J. L.
(1962). Sense and sensibilia, reconstructed from the manuscript notes by G. J.
Warnock. Oxford: Oxford University Press. Berlin, I. Essays on Austin.
Oxford: Blackwell. Cox, J. R. Seeing, in Sibley. Grice, H. P.
(1938). Negation and privation. The H. P. Grice Papers. Grice, H. P.
(1941). Personal identity, Mind. Repr. in J. R. Perry, Personal identity,
University of California Press, Berekely. Grice, H. P. (1950). Vision.
The H. P. Grice Papers. Grice, H. P. (1961). The Causal Theory of
Perception – symposium with A. R. White. The Aristotelian Society, chaired by
R. B. Braithwaite. The Proceedings of the Aristotelian Society. Grice, H.
P. (1962). Some remarks about the senses, in R. J. Butler, Analytic Philosophy,
repr. in Grice, WoW Grice, H. P. (1987). A retrospective on Grice-Warnock
on perception, The H. P. Grice Papers. Grice, H. P. (1989). Studies in
the way of words. Cambridge, Mass. and London: Harvard University Press.
Grice, H. P. and G. J. Warnock (1950). Seminar on the philosophy of perception,
University of Oxford. Hampshire, S. N. (1946). The New Play Group and the
Old. The S. N. Hampshire Papers. Orton, Joe (1973). What the butler
saw. Price, H. H. Perception. Oxford. Sibley, Perception.
Warnock, G. J. (1955). Seeing. The Aristotelian Society. Warnock, G. J.
(1969). The philosophy of perception. Oxford Readings in Philosophy.
Warnock, G. J. (1983). Language and Morality. Oxford: Blackwell.Marco Tullio
Cicerone. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum,
signans, signatum. Cicerone,
Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Ciliberto:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il
suo principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way:
confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the
irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I
say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the
vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del
pensiero di BRUNO (si veda). Si laurea a Firenze sotto GARIN (si veda)
con “MACHIAVELLO (si veda)”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a
Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R.
I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di
Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento
con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica,
no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile,
Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi
della democrazia rappresentativa. Altre opere: “Il rinascimento. Storia
di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari,
De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo et Bizzarri); “Come
lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel
Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del
tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza);
Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura);
“Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il
dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze,
Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I
contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e
Letteratura); Il teatro della vita (Milano, Mondadori); Il laico Il libero dell'Italia
moderna, Roma-Bari, Laterza); Democrazia dispotica – etimologia di dispotismo –
(Roma-Bari, Laterza); Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), Parola,
immagine, concetto (Edizioni della Normale, Pisa); Croce e Gentile La cultura
italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,.
Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo,
neo-umanesimo, classicism, neo-classicismo come ironia (Roma-Bari, Laterza);
Pazzia e ragione (Roma-Bari, Laterza); Il sapiente furore (Collana gli Adelphi,
Milano, Adelphi) C., Lessico di BRUNO (si veda). Preludio a MACHIAVELLO
MACHIAVELLI (si veda) Mre a dh e im h ol Un TT ‘i 0 annunciato da
Imola dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 Il Principe
di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda), al libro che io vorrei cHamare Vade
ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà
Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-
ftreTdJI VCdra 3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe
loe7olnf Z P ? e dd 8rande S, e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -
po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel
Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari
vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non.8
uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta,
fra le sue e le mie osservazioni di n0mmi, e f° Se ’ 3 SU f C k mia
pratica di governo. Quella che mi )t0,\ le Z 8e ™ no « f quindi una
fredda dissertazione scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto un
dramma, se può considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico il
tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^
cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa
c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero
ave- * Da Gerarchia, I,i.
•>\fruzione del regime i. iniit
t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II tl.iic
del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in >
111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in parte
> I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente
attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la
dottrina • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di
quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori della nostra vita sono
grandemente cangiati, non si h i(io vcrificate profonde varia^ioni nello
spirito degli individui e dei itopoli. ln politica è l’arte di governare
gli uomini, cioè di orientare, uti- li znre, educare le loro passioni, i
loro egoismi, i loro interessi in < nin di scopi d’ordine generale che
trascendono quasi sempre la i'iin individuale perché si proiettano nel
futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è dubbio che l’elemento
fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa
sono gli uomini nel siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa
Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità? Mi
pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,
t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del
Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della nntura
umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto
commercio coi propri simili, Machiavelli è uno Kpregiatore degli uomini e
ama presentarceli, come verrò fra poco documentando, nei loro aspetti piu
negativi e mortificanti. (,li uomini, secondo Machiavelli, sono
tristi, piu affezionati alle cose chc al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba,
la vita, i figlioli, come di sopra dissi,.piando el bisogno è discosto, ma
quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel l>rincipe che si è
tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa- rn/ioni,
rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia
mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo
di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che
non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le
Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia
loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la
morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione ò pronta;
perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può
risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al capitolo terzo
dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e
come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una
Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere
cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell’animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani
riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-
gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È
in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gl’uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione
di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i
miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non
si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO, fra
STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu
chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce
logicamente da questa posizione iniziale. La parola principe deve intendersi
come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione.• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai
definito. I una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di
sovrano applicato a popolo è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA,
ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi rapprenntativi appartengono
più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi
sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non
si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi
normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o una
pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità
elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta nei momenti in cui
potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è
reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria ainministrazione. Vi
immaginate voi una guerra proclamata per referendum? II referendum va benissimo
quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la
fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi supremi di un POPOLO sono in
giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al
giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali
ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che pecca, attraverso
Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra
forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei singoli e dei
gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio oramai
famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scrive nel Principe. Di qui
nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché
la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è
difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato
in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza.
Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto fare osservare lungamente
le loro costituzioni, se fussino stati disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO
SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. PRELUDIO DI MUSSOLINI POI FORZA E CONSENSO +
NOTA DE SANCTIS POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN
ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE IL
PRINCIPE PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente
connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte
una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti
fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso contributo del
movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M.
Galanti, autore di un Elogio di MACHIAVELLI. Galanti fa propria
quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata
nell'articolo machiavelisme dell'Encyclopededie (scritto attribuito a Diderot)
e nel Contratto sociale di Rousseau (Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha
date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei
repubblicani). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in Dei
sepolcri. Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente
riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo
politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte,
l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti. Fuori
dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta
a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore
del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna
nello storicismo tedesco. In Italia nell'età risorgimentale
l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'immoralità di
Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa nazionale.
Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate
di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come
diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini -
leggendolo capiremo perchè). A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo
come il profeta dell'idea di nazione ma come fondatore dei tempi moderni, come
interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni
medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni
dell'uomo, che ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Poi anche
per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della
politica come attività autonoma dello spirito. Entrammo poi nel
Ventennio fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del
suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo scrive su
Gerarchia, poi cura a prefazione (che chiama PRELUDIO) di una edizione del
Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis).
In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una
comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non
lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche
lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio,
c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero
l'idea di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono
molti di fasci, creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i
vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare
libretto che possediamo lo riportiamo integralmente, perchè all'interno
Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia
validità del potere esercitato dalla sovranità POPOLARE, e sulla stessa utopica
democrazia POPOLARE. Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO.
E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il
potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come
anarchico poi come socialista - lui esalta il proletariato come futura classe
dominante, e fa l'apologia della rivoluzione violenta indicata dalla dottrina
di Hegel che presenta nella sua teoria la morte dello Stato. E nell'organizzare
gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista socialista violento, così
chiamano fin dai primi fasci i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono
QUI in Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche
lui era un violento socialista, e anda più volte anche in galera come
sovversivo. Poi improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei
suoi ex socialisti che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che
diceno voluta dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO
ANALFABETO chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di
Mussolini con i suoi ex socialisti, uscendo dal giornale Avanti che dirige – ed
è poi perfino cacciato dal partito socialista. Poi durante e dopo la
guerra - soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a
fondare i suoi fasci, cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati,
i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui che mira
a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai
e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove o per i
loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai
sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame. La
sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo
quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la
fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche
i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del
popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo
tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini
inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti
socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in
questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe;
e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis. Abbiamo detto
utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di
filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella
collettività, nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente
quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del
singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione
questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es.
usare la forza -- dando origine a quel
mito del machiavellismo che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri
ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del
singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando
però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi
troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO,
che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità fa quello che
vuole. E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una
massima di Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È
questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è
perdente. Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a
dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami,
dottrine, vangeli -- oltre...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo
Preludio - cita due frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum
parole non si mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle
parole, trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova
prima in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma
fu una realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato
anche i 150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel
di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e
mettendoli a sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO.
Ma poi - perso per strada anche gli altri amici, andò ancora peggio il 27
aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel
fare quello che voleva lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. Non
sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore. I meccanismi politico-sociali ed economici
realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè
altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento
di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi
dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per
organizzare lo Stato delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si
rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se
un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non
soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica. E
ancora (non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è
controllabile). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della
Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener - Mussolini
usa tante parole. Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse
accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche
il grande Napoleone: qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse
accompagnata la civil prudenza machiavellica Paradossalmente proprio su
Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: lui fallì miseramente
perchè aveva creduto troppo negli uomini. Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo suo il popolo: devono solo Credere, Obbedire,
Combattere. e Quando mancasse il consenso, c'è la forza...Per tutti i
provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini
davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o
subirli. (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze - S. e D., E pensare che un Mussolini più razionale
aveva scritto un giorno Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un
giornale e ti ritrovi nella polvere. A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un
cattivo profeta di se stesso. * ecco qui sotto il preludio di
Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto
attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di
Machiavelli. Mussolini: Accadde che
un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli Cum parole non si mantengono li
Stati. Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un Commento dell'anno 1924, al
Principe di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo
di governo. Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che
questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho
riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario,
ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in
Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile
di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me,
per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita
vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia
pratica di governo. Quella che mi onoro di leggervi non é quindi
una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un
dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il
tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e
degli eventi. Non dirò nulla di nuovo. La domanda si pone: A quattro
secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del
Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli
Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto
all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in
parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia
tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é
viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della
nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le
variazioni nello spirito degli individui e dei popoli. Se la politica é
l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro
passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale
che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel
futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di
essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel
sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È
egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o
nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo
acquisito sotto la specie della eternità ? Mi pare che prima di procedere
a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci
appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto
avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei
confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore
degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro
aspetti più negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così
si esprime: Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si
appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle
parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno
meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia
temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere
li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli
egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: Gli uomini si dolgono
più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é
pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non
può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere. E al
Capitolo III dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che ragionano del
vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi
dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini
essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine. Le citazioni
potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti
per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma
fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta
una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale
bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di
Machiavelli. E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come
giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai
fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo,
ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato,
ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in
alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse,
aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra
Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale.
Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico
scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola
Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é
lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo
sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo
tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i
tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi -
che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in
istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII
eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni
organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione
della libera volontà del popolo. C'é una finzione e una illusione di più.
Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta,
come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca.
L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto
al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I
sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche
nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli,
giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente
che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle
sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di
accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una
guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e
obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli
viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene
lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria
amministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo
più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi
supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si
guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente,
anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia - che
peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il
dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei
gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio
ormai famoso articolo Forza e consenso (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva
nel Principe, pagina 32: Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li
disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere
loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene
essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro
per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati.
POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU GERARCHIA
MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO FORZA E CONSENSO E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO
ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da Gerarchia. Forza e
consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli
autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo
mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere
scientificamente una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e
situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non
rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in
quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e
in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è
nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo,
dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente
governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del
XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli
stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata,
in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto che il
liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè,
dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della forza. I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu
governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a
qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci
sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al
mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai
esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi
accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della
saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se
finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a quadrare
il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di
governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e
costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza.
Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario.
Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza fisica, forza
armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà
alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo. Ora il
fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un
partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro
tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal
dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno
fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine casta e severa per la
quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo
scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al
crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un
fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.
Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una
piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di
ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la
primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.
Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei
liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi
ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade
vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque, una volta per
tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e,
se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o
meno decomposto della Dea Libertà. Benito Mussolini, da Gerarchia. SAGGIO
DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de
IL PRINCIPE Testo integrale originale (che è comunque un ottimo saggio,
proprio utile per capire il ns. passato) DE SANCTIS: Dicesi che
Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò
il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto
nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi
due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia
faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro.
Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente
fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone,
che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate,
verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel
Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.
Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe
riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e dello
stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato
segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte
legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose,
e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere
le torture, poiché tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte
si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche
faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle
sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non
potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte,
sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze,
volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e
trarlo di ozio e di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato dei
Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che
il nome. Di lui fu scritto: Tanto nomini nullum par elogium. I suoi
Decennali, arida cronaca delle fatiche
d'Italia di dieci anni, scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino
d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi
capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i
suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o
canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel
tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi,
sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco;
scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono
le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di
osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non
c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e
fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche
soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità
filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il
tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso core; io rido, e il rider
mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non par di fuore; io temo ciò
ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa mi dà nuovo dolore: così
sperando piango, rido e ardo, e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali
sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della
Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei
Decennali: la voce d'un Cappon tra cento Galli,.....e qualche sentenza o
concetto profondo, come nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è
il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e
ti fa pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi.
Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che
correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle
sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi
che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro
con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della
retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava eleganza. Ma nel
Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla
milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle
cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso
alle parole e ai' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della
forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò
Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte
della borghesia italiana in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella
intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i
principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a
Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona,
Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano
ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. C' era l'arte:
mancava la scienza. Lorenzo era l'artista: Machiavelli doveva essere il
critico. Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti
di un popolo, c' era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora
morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea
repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che, fortificata
dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato,
resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda
la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo,
Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali.
L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze
morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal
contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa,
per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a
Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò
le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella
pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli
uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua
coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria.
Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva
ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza
e cercò negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa
era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero
nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza
della sua anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco
Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni
d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del
Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di una aureola poetica
per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del
linguaggio, e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di
letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto
uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di
azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e fuori della
regola, come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli
aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle
esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che
sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è stata
grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo tra gli
odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la
bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro
contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del
Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gettato
nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e
questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel
suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia,
fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda
l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina. Molte difese si
sono fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o
quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata
e un Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria.
Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia
italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e
cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto
la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua
spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del
Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la
riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia
parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto
in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di
staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con
l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le
Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di
assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere
d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in
Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli
stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di
cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di
ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli,
l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e
buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i
principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino. Gli
stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e
tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i
letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo
quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia
fu dai romani. Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e
di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove
altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza
egli disse corruttela, e base di
tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza italiana,
anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di questa
corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero:
corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra
nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in
tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava
sapore alla vita. La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità,
aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e
Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò
alla separazione Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per
abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo
rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto
nella vita pratica: il pensiero non era più la parola, e la parola non era più
l'azione; non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale
motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e
di capitoli. Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole
quella licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la
teoria, altra la pratica. E nessuno poteva, non desiderare una riforma de'
costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani,
affogati nel rumore di quei baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé,
di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più
tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione
cattolica. Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle
coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di
Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il
concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi
cercano la medicina a' loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto
in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di
vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto
già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non
che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo,
concorse alla sua demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore
platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o
meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento
ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior
serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua
opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il
suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua
negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza
vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua
coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero,
guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni
sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto
un nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione. Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa
base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la
virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa
vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non
quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro
mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e
alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina
commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento. Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La
realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E
l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o
nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era
già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di
passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a
base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti
visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo
della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica
una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa
licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è
straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di
erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo
spirito è tutto nella vita pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia
molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle
stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta.
Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo
concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la
faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo
che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa
terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non
è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua
serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena,
darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire
l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia
in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme
negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come
la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non
tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel dover essere, a cui tende il contenuto nel medio evo
e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' essere
o, com'egli dice, alla verità
effettuale. Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e
come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli
elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo,
la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il
concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio:
l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due Soli
stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di
contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio
papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e
perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù
Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo.
E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo. C'era ancora il
papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro
potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri
o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di
governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Combatte il
concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini,
reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione
della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente
il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini,
negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La patria del
Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e non per
grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti.
Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi
Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso
a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par
cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti
agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano Stati o Nazioni. Già
Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l' equilibrio tra i vari Stati e la mutua difesa, e che
pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone
addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo
d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non
è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca
è il giardino dell'impero; nell'utopia del Machiavelli è la patria, nazione autonoma e
indipendente. La patria del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli
eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata
sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di Stato e
salute pubblica erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo
diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo
in terra e si chiamava la patria, ed era
non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era
sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere
collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi
la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo
strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto
la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti concorrevano più o
meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi
repubblica. E dicevasi principato dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma,
repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo
assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e
analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla
coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua
immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva
alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello
Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza
una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo
perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri,
ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo
l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di Stato,
che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era
perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli
statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza,
l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga
bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come
ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre
virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in
quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi
contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che
vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si
emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta
era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni,
ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che
ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è vox populi, il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi. Stabilito
il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono
piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno disarmato il cielo ed effeminato il mondo e che rendono l'uomo più atto a sopportare le ingiurie che a vendicarle. Agere et pati fortia romanum est. Il
cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il
Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la
fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via
gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria. La
virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa forza,
energia, che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi
imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri
riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli
dice, i buoni ordini e le buone armi,
che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria.
Patria, virtù, gloria, sono le tre parole sacre, la triplice
base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così
anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono
atomi perduti, numerus fruges consumere nati. E parimente ci sono nazioni
oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni
storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come
dicevasi allora, nel genere umano, come
Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la
tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza
morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando
le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si
fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre
nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo
spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il
fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la forza delle cose, determinata dalle leggi
dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed
immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti
fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,
il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e
dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto filosofia della storia.
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel
Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con
chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la
storia. Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i
poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le
conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista,
ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e
fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non
parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era
sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo:
anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e
imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è
severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica miracoli della provvidenza, come preparazione
all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i
buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla
virtù. Di lui è questo motto profondo: I
buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto
alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di
Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il
nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito
moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi
tempi, dove non è cosa alcuna che gli
ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di
religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione
bruttura. Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare
quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte
sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la
nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un
romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci
troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo
dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso
dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E'
in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de'
tempi moderni. Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa,
morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione,
è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la
caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge
l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo,
le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla
quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua,
la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già
una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è
la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la
vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O,
per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si
rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli
non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso cogito, nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce
la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali,
le maggiori del sillogismo, sono capovolte, e compaiono
in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In
luogo del sillogismo hai la serie, cioè a dire concatenazione di fatti, che
sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città
di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre,
fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le
occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una
magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con
loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti
sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una
doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel ritirare le cose ai
loro princìpi, o quell'ironia de'
profeti disarmati, o gli uomini
si stuccano del bene, e del male si affliggono, o gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli.
Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero
arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.
Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e
peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica
rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il
periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata
dalla sua maggiore e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi dimostrazione, se
la materia era intellettuale, o
descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici
proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o
enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma
letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della
forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la
coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è
nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua
verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che
a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la
sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se
possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è
il Nosce te ipsum, la conoscenza del
mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il
moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto,
etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto
è: Nil admirari. Non si meraviglia e non
si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede
e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le
circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i
periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via
più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà
una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee
medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che non
curat de minimis, di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia
di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un
artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale
chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli
spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza,
ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere
gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli
oziosi. La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è
magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel
nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina
prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La
prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna
coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto.
Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura,
la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel
lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la
dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza,
indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori,
frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà
degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di
argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò
retorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa
scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul
forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della
sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori
prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante,
tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che
poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.
Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale
importanza della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi forma letteraria, nella piena
indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.
Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del
Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è
lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che
ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o
convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il
letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una produzione
immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni,
spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge
e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la
cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni
fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di
malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua
chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo
qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là dentro.
Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose e
degli uomini, finisce così: Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri,
Giovanni e Mattei diventarono. Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda; ma
quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da
quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il
disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla
scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici,
e a quell'ultimo ed energico diventarono, che accenna a mutamenti non solo di
nomi ma di animi. Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero
e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi mistici,
etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la
forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del
mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il
mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi
proprie. Ciò che dicesi fato, non è altro che la logica, il risultato
necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie,
interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il
pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva
dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è
l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è
scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli.
L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il
cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è
essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è
sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e
Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè
di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il
cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello. Ora possiamo
comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto
forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso,
con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso
morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i
trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti
nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di
filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti
nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia
drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua
camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua
apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto
in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E'
l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e
nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale.
L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione.
I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi
quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto,
comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne
spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti
lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel
dir cose che a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una
schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine.
Non è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto
d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene
talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di
freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è
lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di
posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e
generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica
inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare
superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini non sanno essere nè in tutto buoni nè in
tutto tristi, e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno
velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni,
superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò stanno
volentieri in sull'ambiguo, e scelgono le vie di mezzo, e seguono le
apparenze. C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo
tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini
non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono
e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono
infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si
può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non
c' è in fondo che due sole classi: degli
abbienti e de' non abbienti, de'
ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi
non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi.
E sono liberi quando hanno a fondamento l'
equalità. Perciò libertà non può essere dove sono gentiluomini
o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è
possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a
esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte
di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli
ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli
spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il carattere, cioè quelle forze che muovono
individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono
frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive
anche oggi. Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i
desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di
conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le
oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di
condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la
virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa
grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di vista
logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma
intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il
cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la
tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa
quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue
passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica
è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono
la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano
mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del
principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato.
L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare
buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve
mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i
gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma
studiandoli e comprendendoli: non ingannato da loro, ma ingannando loro. Come
stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non
volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti
e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente
semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il
principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso
o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi
troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi
legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico,
fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura,
sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma
secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli
fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i
mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla
forza come intelligenza. L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino
ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era
l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle
passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto
punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione
dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e
lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La
chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o
fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore
dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e
umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e
se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del
genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che
siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza
misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è
nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non
sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il
terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la
debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che
pur bisogna andare. Quando Machiavelli scriveva queste cose,
l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa.
Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta.
Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio; ma
erano solo velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice.
Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario,
quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la
tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro
e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier
Soderini, cima di galantuomo, ma. anima sciocca, che per la sua incapacità e la
sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia la tempra era
infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base
della vita l'essere uomo, iniziando letà
virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico
dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza
incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco,
com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava
all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più
seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa.
C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa
degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici
non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire,
di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a
Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello
che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: fu naturale ferità di core. - Lo
spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un
giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su
questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di
mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza
intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo. Ma in Italia c'era
l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità
intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta,
svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello
scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza
non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il
cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità
dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e
comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che
disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo
era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza
morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza,
ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a
vivere e a morire per quella. Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima
di questa decadenza o, com'egli diceva, corruttela: Qui - scrive - è virtù
grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e
nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con
la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di
forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza
nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono
i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il
patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa
era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui
Lutero era il comento: La... religione, se nei principi della repubblica
cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero
gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si
può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere
come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della
religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e
vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser
propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello. Certo, non è ufficio grato
dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo
sente tutta la grandezza: Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto
in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi
suoi. Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il
suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria,
in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi,
il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della setta saracina, e le virtù de' popoli della Magna al tempo suo. Lo
spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la
sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue
più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia,
di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il
suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne
abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare
ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una
grande elevatezza morale: Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora
regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma,
essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli
animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e
prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che
per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più
amati dal cielo possa operarlo. Queste parole sono un monumento. Ci si sente
dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con
severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più
indulgente verso i principi: Questi nostri principi, che erano stati molti anni
nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma
l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano
mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a
difendersi. Degli avventurieri De Sanctis scrive: Il fine della loro
virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da
Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia
schiava e vituperata. Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali,
rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi
vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi
sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno
sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il
regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in
quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico,
perchè tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà. Degna di nota è
qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior
nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha
rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il
sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del
lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte
le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola:
Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi
diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non
erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati. Gli oziosi sono
fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali
d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: La fortuna... dimostra
la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi
impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi
considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato
loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun
riparo. Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un
redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la
riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo,
a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che
nella dittatura: Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare
di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma
per riordinarla, come Romolo. Di Cesare -scrive un giudizio originale rimasto
celebre: Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le
massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano sono corrotti
dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi
sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di
lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda
quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più
da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vedasi
pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per
la sua potenza, essi celebrano il nemico suo... E conoscerà allora benissimo
quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare. Machiavelli promette,
a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia
ordinarlo: Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono
loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende
gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare
di sè una sempiterna infamia. Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo,
che sani l'Italia dalle sue ferite, e ponga fine... a' sacchi di Lombardia,
alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue
piaghe già per lungo tempo infistolite
E' l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava
un messia politico, il veltro. Se non che, il salvatore di Dante
ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino
dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe
italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori
di essa era straniero, barbaro, oltramontano. Chi vuol vedere il progresso
dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica
Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella
forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di
Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. Patria, libertà,
Italia, buoni ordini, buone armi, erano parole per le moltitudini,
dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le
classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e
letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e
della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e
cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene.
Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi
la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per
lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a
vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite
glorie. Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di
liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu
neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che
abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un
magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito,
e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione
di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai
suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni.
E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra
elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana,
destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli
tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro. Non è
meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta
sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è
entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un
mugnaio, con due fornaciari a picca e a
trie trac : E... nascono mille contese e mille dispetti di parole
ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti
nondimanco gridare da San Casciano. Questo non è che plebeo, ma diviene
profondamente poetico nel comento appostovi: Rinvolto in quella viltà, traggo
il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento
mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse. Vedilo tutto
solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante, libertineggiare con lo spirito, fantasticare, abbandonalo
alle onde dell'immaginazione: Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel
mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di
fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente
entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto
amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui;
dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro
azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di
tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. Quel trasferirsi in loro, quel libertineggiare sono frasi energiche di uno spirito
contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e
Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito
del Boccaccio, che si beffa della divina
commedia e cerca la commedia in questo
mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e
divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! ---
a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua
immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero
l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe
l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca Virtù contro al Furore
prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici
cuor non è ancor morto. Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la
bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e
disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi
biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà,
ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti
ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è
l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo
chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:
Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano,
e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere
governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo
quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne,
lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe
ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne. In tanta riverenza di
parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio
ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per
l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive:
Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e
goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di
quello che ti ruba mai ne vedi niente. Da questo profondo ed originale talento
di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel
quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni. Dopo i primi
tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di
Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena
scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con
molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. Fu
pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un
palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e
ciò che fece mai Menandro. Accompagnamento alla commedia era la musica, e
intermezzi o intromesse erano le moresche, balli mimici. Le decorazioni
magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un
tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile
a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con
istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le
cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di
marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era
finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In
cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un
bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi. L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una moresca di Iasòn o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal
Castiglione: La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da
un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa
bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero
che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A
questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro;
e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini
armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono
una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;.....dice sempre il
Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad
ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi
Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano
equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il furbo è
Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui
pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è
antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più
ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è
vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul
mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette d'intreccio, sullo stesso stampo
delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche
qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani.
Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha
concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna
di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato.
L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è
il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo
istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor
dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più
profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo
dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera
Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli
antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto,
sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria,
risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia
fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come
Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?
Scusatelo con questo: che s'ingegna con questi van pensieri fare il
suo tristo tempo più soave, perchè altrove non ave dove voltare il
viso; chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre
virtue, non sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti.
Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero
de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il
cardinale da Bibbiena, assassinato di
amore, e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli
Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo,
consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie,
ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco,
l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che
usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa,
come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli
attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio
è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe
Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare
mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e
spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito
Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile.
Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste
in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti
riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro.
Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce
tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo
ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui
freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è
dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che
l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il
suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi
lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete
false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i
deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale
coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende
comico... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi
assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante
dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il
cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa
muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira. Ma queste sono figure
secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì
sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui
stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie,
concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più
acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta
presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico
se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene
sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime
scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro
antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia.
L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e
ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia
sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente
ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche
pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e
avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni
della figliuola risponde: - Io non ti so
dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà,
e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol
bene. - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo
ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi. -
Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -... E'... una bestia - dice
- e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie.
Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno
artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del
purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui
aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la
reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: Io dissi il matutino, lessi
una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta,
mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi
frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh
quanto poco cervello è in questi miei frati! Il suo primo ingresso sulla scena
è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente:
pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché
in chiesa vale più la sua mercanzia. E' di mediocre levatura, buono a uccellar
donne:...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e
tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole,
e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore. Conosce
bene i suoi polli: Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le
più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene,
ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le
mosche. Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del
mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio,
che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde:
- Sia col nome di Dio, si faccia ciò che
volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari,
da poter cominciare a far qualche bene. - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da
ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia
segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io
non me ne pento. Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia Dio sa ch'io
non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio
officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di
Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi
conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura. Questo
è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua
industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa
del Vangelo e della storia sacra: Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non
credo mai esser viva domattina. E il frate risponde: Non dubitare, figliuola
mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che
t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa
sera. Rimanete in pace, padre - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è
ben persuasa, sospira Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male. Quel
fatto il frate lo chiama un misterio, e
il mezzano è l' angiol Raffaello !
Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In
Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male
diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e
non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria,
passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che
oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza
con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta
lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida,
senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori
troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che
di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e
ritrattista. Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il
suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più
reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono,
non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza
sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non
possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella
pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia
piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.
Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di
Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o
l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso
osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle
emozioni e alle impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova
letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità,
come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si
nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso
dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta
conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come
una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle
forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il
soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il
carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora
nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : d'intrecci e di caratter.
Commedia d'intrecci fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione,
come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si
cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in
mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa
povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una
vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da
forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o
risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come
qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le
forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria,
come è il don Cuccù, e la palla di aloè. C'è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio. Di
ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta:
quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più
grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua
vitale, così vitale che è stata detta il machiavellismo. Anche oggi,
quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di
Dante e di Savonarola, e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci
figli di Machiavelli. Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo. E'
una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e
ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del
Petrarca. Si è chiamato petrarchismo
quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si
è chiamato machiavellismo quello che
nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è
di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto
da un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare
l'immagine. C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un
contenuto. La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli
chiama virtù : Proporti uno scopo quando
non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa marciare
allo scopo. Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno
l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano
secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose
come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe. Cacciar
via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e
fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo
può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori
dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di
vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta uomo, in declinazione. In questa sua logica
la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura,
l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti,
per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice
dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi
s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la
storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e
calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo,
come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche
esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce
l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione
e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il
concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio
astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti
essenziali. La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro;
col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà;
col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero
umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e
indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi:
ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui
è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la
virtù o il carattere: altere et pati
fortia. Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te
la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento,
l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la
scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi
giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto,
ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si
avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando
crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica
alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane
suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere
temporale crolla, e si grida il viva
all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo
profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre
le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando,
stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta,
ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi
corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è
mia. Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua
esagerazione. La sua patria mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe
in sè religione, moralità, individualità. Il suo Stato
non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il
rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La ragione di Stato ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i
suoi roghi, e la salute pubblica le sue mannaie. Fu Stato di
guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla
sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte
uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la
libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate
chiamare machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano,
sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli
è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de'
mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu
più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex. Certo,
oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più
tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva
Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il
tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a
scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più
possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato
e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e
non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel
programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito
concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e
nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi.
E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che
possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire:
- Crudele è la logica della storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è
una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al
luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa
parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la
società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed
eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il
principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono
avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini.
E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del
Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in
modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.
Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato
come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi
fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua
decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la
politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti,
discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza
grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come
scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo
linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza
un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo
politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza,
sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto
immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi
fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero
volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le
speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria
scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale
della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio
toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli
scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi GALILEI (si veda), con
la sua illustre coorte di naturalisti. GUICCIARDINI (si veda), di pochi anni
più giovane di Machiavelli e di BUONARROTI (si eda), già non sembra della
stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e
più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le
stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole
l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine
di governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini
costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a
realizzarli. Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte;
ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una
repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i barbari;
e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti. Una libertà
bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del
laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del
Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte civile europea.
Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano
amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella
società è il Guicciardini, che scrive: Conoscere
non è mettere in atto. Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la
pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della vita è l'interesse proprio, il tuo particulare. Il
Guicciardini biasima l'ambizione,
l'avarizia e la mollezza de' preti e il
dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scellerati ai tempi debiti,
a restare o senza vizi o senza autorità
; ma per il suo particulare è
necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio
temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si
mescola, lui, non combatte con la
religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa
forza nella mente delli sciocchi. Ama la gloria e desidera di fare cose grandi
ed eccelse, ma a patto che non sia con suo danno o incomodità. Ama la patria,
e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè così ha a essere, ma per sè, nato in tempi di tanta infelicità. E' zelante
del ben pubblico, ma non s'ingolfa tanto
nello Stato da mettere in quello tutta
la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare
mutazioni, perchè mutano i visi delle
persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo, e, quando la vada
male, ti tocca la vita spregiata del
fuoruscito. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto e
neppure ti pongano fra' malcontenti. Quelli che altrimenti fanno sono
uomini leggeri. Molti, è vero, gridano libertà, ma
in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo. Essendo il
mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne
venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini savi. La corruttela italiana era
appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla
vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria,
la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la
terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e
buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che sieno
conciliabili col tuo particulare, come
dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità,
al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse
proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono i savi ; gli altri li
chiama pazzi, come furono i fiorentini,
che vollero contro ogni ragione opporsi,
quando i savi di Firenze avrebbono
ceduto alla tempesta, e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica
resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio.
Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le
illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti
fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e
illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini compare una
generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a
quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua
aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a
regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio
non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti
gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene
insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che
l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più
corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e
inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del
Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: Quanto si
ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una
città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo:
il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto
sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo. In questo
concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso
e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità
sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non
per virtù o altezza d'animo, ma per
debolezza di cervello, avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle
impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo
risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia
via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come
dice il Guicciardini, ingegno positivo.
Perché l'ingegno sia positivo si richiede la
prudenza naturale, la
dottrina che dà le regole,
l' esperienza che dà gli esempli, e il naturale buono, tale cioè che stia al reale e
non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la discrezione
o il discernimento, perché è
grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e
assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno
distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano
scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. Il vero libro della
vita è dunque il libro della discrezione,
a leggere il quale si richiede da natura
buono e perspicace occhio. La dottrina sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e
in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a
mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di
corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di
dotti. L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che ai volgari
pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli
che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono e dicono mille pazzie : perchè in effetti gli uomini sono al buio
delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni
che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del
Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo speculare
o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello
che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il
Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il
mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe
di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e
ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò
che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua
vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con
tutti, perchè gli uomini si riscontrano.
Stai con chi vince, perchè te ne viene
parte di lode e di premio. Abbi appetito della roba, perchè la ti dà
reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, quando sia il caso
di simulare, più facilmente acquisti fede. Sii stretto nello spendere,
perchè più onore ti fa uno ducato che tu
hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi. Studia di parer buono, perchè il buon nome vale più che molte ricchezze.
Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i
buoni, credi poco e fidati
poco. Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con
qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un
codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse
individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica,
intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della
cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più
saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui
istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine
e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili,
meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato
nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia
d'Italia. Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più
importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la
scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi
rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più
meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura,
come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di
nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure
ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti
del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi
entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con
quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza
naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.
Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere
principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun
fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo
fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e
l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la
scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace.
Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e
si dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non
si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la
loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e
vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più
nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la
loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo
nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti
pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi hanno la
loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la
gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si
vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni,
una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che
non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e
gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi
uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini
loro. Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei
Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e
semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della
prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi
due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non
è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI (si veda), di un giudizio così sano
nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni
ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come
per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso
naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi
facesse allora per la prima volta le sue prove. Molti uomini mediocri,
quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con
minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua
chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con
quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici
diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue
intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo.
Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue
circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali,
un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono.
Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura
solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la
meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi
seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia
d'Italia comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la tragedia
italiana, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi
passa in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali
della guerra. Avvolto fra tanti
atrocissimi accidenti, sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel
carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La
Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la
trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di
Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti
generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri
pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi
erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro
fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi appare come un essere
naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da
passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa
necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere
vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo
modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali.
Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più
interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua
attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che
l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi
interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come
riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi
perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal
calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica
non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di
macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti,
perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e
tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno. Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli
interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare
nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario
fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che
sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù
sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza
nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512 quando
ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica
e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva
inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè
tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana), ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria. Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro, sul nostro territorio, delle due nuove
potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da
poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei
Francesi e, insieme, le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti
furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia, l'inquieto
spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI, che aspirava
alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente
e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il
Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in
occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino (
ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre
argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di
questo signore molto splendido e magnifico che diverrà poi quasi l'incarnazione
del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del
Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni, perchè, dopo
l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III, fu
inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere
all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua ultima ruina. In quella occasione, e in una
successiva legazione nel 1506, il Machiavelli potè anche rendersi conto del
temperamento del nuovo papa, dell'energia e del
furore che lo misero al centro
degli avvenimenti politici di quegli anni. Se si aggiunge che il 1507 il nostro
segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per
oltre sei mesi ), che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla
disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che, dal 1506 in poi,
negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e
istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse
l'esperienza di Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea
gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario
moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione
italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi
egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del
modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto
da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i
popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del
denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di
Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto
delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il
Decennale secondo. E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli
vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua
completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima
esperienza. Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo
imprigionarono ( e lo torturarono pure ), sospettando che avesse partecipato
alla congiura del Boscoli, poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni, sino
al 1520, e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un
parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso
sopra il riformare lo stato di Firenze ), di narrare la storia della città ( di
qui le Istorie fiorentine ), di andare come ambasciatore presso la repubblica degli Zoccoli, cioè presso il
capitolo dei Frati minori di Carpi. Solo nel 1526 gli venne
affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle
mura, preposti alla difesa di Firenze. Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e
Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte.
Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa
presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella
lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste,
il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e
scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo
studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: e non
sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E' dalle
meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi
passanti e i loro vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini
dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda),
i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola.
Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa
grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del
Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma
profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi
elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello
stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo
circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente.
Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche
quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano
delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono
problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione
storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI
Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta
dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro che per scelleranza sono venuti al
Principato con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione
del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi
delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i
principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il
Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la virtù
- sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di
energia e capacità - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non
manifesta più dubbi. La politica ha alcune leggi che non coincidono
sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la ruina
di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso
può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto
rivolta, e la formula del fine che giustifica i mezzi che gli viene attribuita.
In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere
diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza
dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di
congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la realtà effettuale
italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse
del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del principe nuovo come la
sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi
italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare.
Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto
il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di
quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento
dello stato, dei suoi ordinamenti migliori. Per la stessa ragione nei Discorsi
al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe, fino all'affermazione che
il popolo é più prudente, più stabile e
di migliore giudizio che un principe e
che se i principi sono superiori a'
popoli nello ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini
nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate. Così
Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle
concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non
indebolirono Roma, ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più
perfetti. Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e
può, quindi, abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo. Così
Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola
uno strumento del potere costituito, quanto un costume morale che regola i
rapporti civili fra i cittadini come individui privati e, di conseguenza, rende
più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato. Può riprendere
anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi,
ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e
sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale. Tale
collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si
rivelano pienamente nella prosa e nello
stile stesso del segretario fiorentino, in questo tipo nuovo e liberale di
prosa in cui la sintassi é già consapevole della sua libertà ed
individualità e il ragionamento a piramide degli scolastici cede il posto al ragionamento a catena della prosa scientifica moderna. Il lettore
ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare
a un laborioso processo di ricerca, irto di dubbi e di contraddizioni. La
prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna
agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso
; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore, cui si rivolge, di frequente,
con un tu perentorio e aggressivo, a farsi compagno e
sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo. In
tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é eminentemente
moderna. E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del
segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o
formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera, il lettore
ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e
resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale, si sente partecipe
della gioia della scoperta e, al tempo stesso, stupito della semplicità
rivoluzionario della medesima. Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà
mortificante, la ruina d' Italia, nelle
sue istituzioni comunali o signorili, nei costumi dei suoi principi, nell'
avvilimento del popolo. Di qui il pessimismo della sua intelligenza, quel
contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco, impastato
di bassi appetiti, di astuzie meschine, di stupidità e di ingordigia che sta al
fondo della Mandragola, il capolavoro del teatro del '500. Egli, però, ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta. Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire
freddamente una teoria politica per così dire
in laboratorio : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con
la realtà storica, in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli
incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad
incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il
suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la
teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la
riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che
l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica, in quanto l'
Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le
maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e
cittadini deboli e instabili ; crisi militare, in quanto si fonda ancora su
milizie mercenarie e compagnie di ventura, anzichè su eserciti cittadini, che soli possono garantire la
fedeltà, l' ubbidienza, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale, perchè
sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che
danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono
rappresentati esemplarmente dall' antica Roma, l' amore per la patria, il senso
civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l' orgoglio e il senso
dell' onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e
rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio
mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare. Perciò, come hanno
dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi, gli
Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a
divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio
della penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così
straordinaria gravità de' tempi é un principe dalla straordinaria virtù
capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle
genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da
contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo
storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di
Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio
di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio
paese. Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano
porterebbe a travisarne completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non
resta limitato a quel campo così contingente, poichè altrimenti non avrebbe la
forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione
particolare, cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei
problemi di traumatica urgenza, Machiavelli elabora una teoria che aspira ad
avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e
tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore,
quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere
uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la
fisionomia di una vera teoria scientifica. Concordemente Machiavelli é
stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto
egli determina nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello
di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo, come l'
etica. Machiavelli, poi, rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell'
azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l' agire
degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre
cioè, nell' analisi dell' operato di un principe, valutare esclusivamente se
esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica,
rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro
criterio, se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia
stato fedele o abbia mancato alla parola data, non é pertinente alla
valutazione politica del suo operato. E' una teoria di sconvolgente novità,
veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale.
Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella
politica, non di delineare degli Stati ideali
che non si sono mai visti essere in vero. Proclama infatti di voler
andar dietro alla verità effettuale della cosa anzichè all'immaginazione di
essa, proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione
teorica, ma scrivere un' opera utile a
chi la intenda, fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità
alla politica reale e di sicura efficacia. Oltre al campo autonomo su cui
applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha
il suo principio fondamentale nell' aderenza alla verità effettuale: proprio perchè vuole agire
sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica
parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta, empiricamente verificabile,
mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie
esperienze si può poi giungere a costruire principi generali. L' esperienza per
Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta, ricavata dalla
partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura
degli autori antichi. Machiavelli le definisce ( nella dedica del
Principe ) rispettivamente esperienza
delle cose moderne e lezione delle antique. In realtà si tratta
solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un
politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa, cambia
solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell' informazione su cui lavorare,
ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia
vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l'
uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi
comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle
stelle. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento
umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta, si possa arrivare a
formulare delle vere e proprie leggi di validità universale. Proprio per questo
la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la
prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi
può essere di modello. Per lui gl’uomini
camminano sempre per vie battute da altri, perciò propone il principio
tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi
tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative,
nella medicina, nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella
politica. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di
Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico, che sappia
individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi
sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica. Il punto di partenza
per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell'
uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne
teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo sia per natura o in
conseguenza ad una colpa originariamente commessa, ma si limita a constatare
empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà. Gli uomini
sono ingrati, volubili, simulatori e
dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e dimenticano più facilmente l' uccisione del
padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse
materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili. Tra tanti
uomini malvagi il principe non deve nè può
fare in tutte le parti la professione di buono perchè andrebbe incontro alla rovina : deve
anche sapere essere non buono laddove lo richiedano le necessità dello
Stato. Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro,
ossia un essere metà uomo e metà animale, deve cioè essere umano o feroce come
una bestia a seconda delle situazioni. Tuttavia Machiavelli sa bene
come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un
principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente
é malvagio in politica diventa buono, perchè uccide per difendere lo Stato e le
sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi politicamente perchè non uccidendo e non
compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato. Machiavelli quindi non é
il fondatore di una nuova morale, anzi, moralmente parlando é un
tradizionalista e considera cattivo chi uccide o non mantiene la parola data ;
egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su
altri criteri, non il bene o il male, ma l' utile o il danno politico. E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene, in favore dello Stato ; tiranno, invece,
é chi li usa senza che ci sia necessità. E' solo lo Stato che può costituire un
rimedio alla malvagità dell' uomo, al suo egoismo che disgregherebbe ogni
comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre.
Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a Machiavelli non interessa
nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di verità, nè tanto meno
nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo ed
esclusivamente come instrumentum regni,
ossia come strumento di governo. La religione, in quanto fede in certi principi
comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la
parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi
degli antichi Romani, secondo Machiavelli. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli
muove anche un biasimo alla religione, accusandola di essere spesso stata
colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati, di far sì che essi
svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo. La forma di governo
che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella
repubblicana, che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo. Il
principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria,
indispensabile solo in certi momenti, come quello che l' Italia sta vivendo ai
suoi tempi, per costruire uno Stato sufficientemente saldo. La forma
repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo, ma ha
istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio,
Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un opuscolo de principatibus, in cui si
trattava che cosa é principato, di quale
spetie sono, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. L' indicazione fissa
il momento in cui l' opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi
di datazione : in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta
unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano
ai Discorsi sopra la prima deca di LIVIO (si veda). Oggi gli studiosi tendono a
collocare la composizione in una stesura di getto, mentre si ritiene che
posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e
probabilmente anche il capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata
esortazione a liberare l' Italia dai
barbari, sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto
del trattato. Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la
stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel
luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a
bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali
della situazione italiana. Il principe é un' operetta molto breve, scritta
in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26
capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino come è usanza
dell' epoca. La materia é divisa in diverse sezioni. Esamina i vari tipi di
principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di
mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra
principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi
ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato
ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere
conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e
su armi altrui ( capitolo VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino
). Tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui
Machiavelli distingue tra la crudeltà
bene e male usata : la prima é
quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella
maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che
cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio
del tiranno. Machiavelli affronta il principato civile, in cui cioè il principe riceve potere
dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei
principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici, in cui il potere
é detenuto dall' autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I
capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli
giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro
aveva fatto già Petrarca ), abituale nell' Italia del tempo, perchè essi
combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle
cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte
subite nelle recenti guerre ; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato
consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto
dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la
loro vita stessa. Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del principe con i
sudditi e con gli amici. E' questa la parte in cui il rovesciamento degli
schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico, in cui
Machiavelli, anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero
auspicabili in un principe va dietro alla
verità effettuale della cosa :
poichè gli uomini sono malvagi, avidi, mancatori della fede e violenti, il
principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi
morali, ma deve imparare anche ad essere
non buono, dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine, che é
vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà saranno sempre considerati
onorevoli. Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più
scalpore, ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la
condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella
crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati. La causa
per lo scrittore é essenzialmente l'
ignavia dei principi, che nei
tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo
Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari. Di qui
scaturisce naturalmente l' argomento, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la
capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini alle variazioni
della fortuna, paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le
campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L' ultimo capitolo é, come
accennato, un' appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed
energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai
barbari. (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ).filosofico. Pellegrino.
Mangieri IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA
ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL PRINCIPE. STORIOLOGIA.
Grice: When I created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il
principe! Nome compiuto: Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale
fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico
europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il
libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il
pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione
italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa,
concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il
primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera
alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta
Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare
cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool
Library. Ciliberto.
Luigi
Speranza -- Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). According to
Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is rejected because
Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In response, C. leads
the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a result of which
Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with his judgment
vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Cilone,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Cimatti:
l’implicatura conversazinale del pooh-pooh and other products -- il
non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – scuola di Roma –
filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes
seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on
animality!” Si
laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di
Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale
e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà
nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia
semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano
gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali.
Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per
una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita.
Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la
parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto,
l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce"
(phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che
un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un essere
animato ed è dotato di significato -- semantikos. Ora, un suono emesso da un
animale non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito,
riso, pianto), ha tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” --
e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na
tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o
"non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto,
come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità
del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi,
"invisibili" -- possono articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma
non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del
linguaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano,
attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi
indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di
significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi
indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl)
qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo
dlofìsi (''rivelano", De int.), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da
un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una
espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel
resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette di distinguere anche tra
il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale,
questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ –
the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di
"voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a
product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si
dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include
the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una
"voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un essere animato
(II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un
suono emesso da un animale, per quanto definito psophos (''rumore"), ha
tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di
conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura" phusei
(De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (Poet.). La nozione di "combinabilità",
del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del
carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice
(“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili,
ma non combinabili (Poet.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri
di una lingua come il inglese linguaggio umano in contrapposizione al
repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio
umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato
di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento
divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning,
word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di
significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale:
I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento
che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve
rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è
espressa dal verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che
conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language
began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The
first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash,
cuckoo, and bang. What's wrong with this theory? Relatively
few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another.
For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and
wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin,
and not all are derived from natural sounds. The Ding-Dong
Theory The ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains
that speech arose in response to the essential qualities of objects in the
environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with
the world around them. What's wrong with this theory? Apart from
some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any
language, of an innate connection between sound and meaning. The La-La
Theory The Danish linguist Jespersen put forward the la-la theory. He suggests
that language may have developed from sounds associated with love, play, and
(especially) song. What's wrong with this theory? As Crystal notes
in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to
account for the gap between the emotional and the rational aspects of speech
expression. The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection
– a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"),
surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba
do!"). What's wrong with this theory? No language contains
very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of
breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to
the vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho
Theory According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt,
the groan, and a snort evoked by heavy physical labour. What's wrong with
this theory? Though this notion may account for some of the
rhythmic features of the language, it doesn't go very far in explaining where
words come from. Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come,
dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del
linguaggio umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione
nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più
cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della
scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua
stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per
decifrare le sue origini. Secondo la Genesi, la grande varietà di
lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue
(immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano
d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni
umane moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue
esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio
lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono
inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per
esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere. Tutti
gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture
biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione
biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3]. Le
lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano
moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune
è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e
fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo
lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero
le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al
Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal
punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti
i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di
comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente
sviluppata. L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e
GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu una tematica
fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm
(glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori
che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel
suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali: Ipotesi teologica, secondo
la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in
generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha
avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi
secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè,
dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio.
Il testo di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione.
Il testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling:
egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due
sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla
creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo
alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che
la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una
conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei
bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua
evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime
produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio
dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del
linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di
esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio,
migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7].
Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine
del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale
dell’uomo strettamente connessa con il pensiero. Parola e linguaModifica
I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il
parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili
parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni
modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione
di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso
parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene
considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica
che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo
dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici
necessari a sostenere la lingua stessa. Comunicazione animaleModifica Sebbene
tutti gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori
generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni
modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide alcune
caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di
comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei
primatiModifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati
superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non
permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni
di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle
scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli
astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere.
Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente
centinaia di lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei
primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua,
della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono
noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti
neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.
Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la
più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti
vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri
membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del
leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido
dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva.
Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle
scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni
vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia
grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la
madre per osservare quel che essa fa[10]. Antichi ominidiModifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri studiosi
invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece
irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una
proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una
forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una sintassi pienamente
sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè
non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del
linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane
moderne pienamente sviluppate. Le caratteristiche anatomiche come il tratto
vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire
improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia
basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei
gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già
una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La
scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea
che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni
simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il
canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli
umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si
ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che
vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli
di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Klein, che ha lavorato intensamente sugli
antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani
come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma
che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale
dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani
probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua articolata,
anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben sviluppato.
La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica dei
neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa. Homo sapiens. I primi
esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei
reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero
anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili
non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano
preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano
meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni
modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di
un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia
sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo
costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un
consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni
climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del
periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con
più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e
corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla
funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi
per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio
gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza
l'aiuto della lingua. Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio
fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad
un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua
moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato
compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come
una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver
subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove
suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato
dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che
apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se
le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero
relativamente all'improvviso. Le aree di Broca e di Wernicke apparvero
anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi,
la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed
il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche
negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro del
linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a
"tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione
linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che
l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il
ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo,
il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri
umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa" ("Uscendo
dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"), circa 50 000 anni
fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette nella
colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che non
erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. MonogenesiModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La
teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una
singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale)
dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri
umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini,
possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o
gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000
anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue
moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi
considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi. Tutti gli
esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si
ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità
che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a quel
periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla
popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale
ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si
sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale
effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento
della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento
in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori
di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua
primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi
tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per
varie ragioni. Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei
gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si
sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice
comunicazione. Due tipi di prove sostengono questa teoria. Il
linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le
regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della
bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano
gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi
gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta",
con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli
scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che
il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili.
Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione
all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini
linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri
ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva
sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un
linguaggio vocale o scritto. La questione più importante per la teoria dei
gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre
possibili spiegazioni: I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare
sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare
per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere
tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di
comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a
qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare
effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di
una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un
gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani
utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente
quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti
usano lingue composte interamente da segni e gesti. Pidgin e
creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa
come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima
lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente
derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è
d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin
sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed
un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono
soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con
pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza
ordine fisso e senza desinenze di declinazione. Se questi contatti tra i gruppi
si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare
pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una
generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua
creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una
fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di
tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle
lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno
dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono
sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste
somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua
originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono
sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche
includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua
creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un
ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli
articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le
strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]
Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente
responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e
Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica
universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste
di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi
grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa
grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle
lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini
durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua
locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le
caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in
conflitto con la grammatica creola.[9] Un'altra questione che viene
spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo
della lingua dei segni nicaraguense. Il governo del Nicaragua dette inizio al
primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò
non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale
stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Questo
centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei
segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun
linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e
la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che
assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso
successo e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il
concetto delle parole spagnole. I primi bambini arrivarono al centro con
pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie.
Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta
cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni
bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli
insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare
con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a
comunicare tra di loro. In seguito il governo nicaraguense sollecitò
l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern
University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la
lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai
bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con
un accordo verbale e altre convenzione della grammatica. Approccio sinergico La
Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del
linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo
evolutivo della scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto
differenti fasi: Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase
II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema =
sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica)
Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema
= frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma
(linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico)
Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido,
all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e
poi la parte della parola. Storia La ricerca delle origini della lingua ha una
lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica. Storia della
ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli
studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi
dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella
famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non
nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried
Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti. La questione
delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e
nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni
sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio
sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con
l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma
l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a partire
dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione lessicale di
massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a
sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di
evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica introdusse
l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un
argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di
evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta. Esperimenti
storiciModifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone che
tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo
tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus
(probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti,
volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando
i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al
faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus
concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re
Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero
infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un
imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini
utilizzati alla fine non parlarono e morirono. Nella religione e nella
mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle
spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior
parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono
in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate
per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono
pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il
Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite
un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva. Uno dei
migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella
Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi
abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre,
confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi). Un gruppo di
persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a
quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla
rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua,
così che parlassero differenti lingue". Primitive
languages, su Language Miniatures. Pinker, The Language Instinct: How the Mind
Creates Language, New York, Harper Perennial Modern Classics, The Handbook of
Linguistics, eds. Aronoff et JRees-Miller. Oxford: Blackwell. Vorbemerkungen zu
der Frage über den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine
del linguaggio), in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband
(volume supplementare), Monaco; Über den ursprung der Sprache", ristampato
in: J. Grimm, Kleinere Schriften, Vol. 1, Berlino; Grimm, F.W.J. Schelling,
Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Grimm, F.W.J. Schelling,
Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Dolphins 'Have Their Own
Names', su BBC News;Diamond, The Third Chimpanzee: The Evolution and Future of
the Human Animal, New York, Harper Perennial, Wade, Nicholas, Nigerian Monkeys
Drop Hints on Language Origin, su nytimes.com, The New York Times, Fitch, W.
Tecumseh, The Evolution of Speech: A Comparative Review isrl.uiuc.edu;Ohala, The
irrelevance of the lowered larynx in modern man for the development of speech
Archiviato il 29 giugno 2011 in Internet Archive.. In Evolution of
Language - Paris conference, Internet Archive. Olson, Mapping Human History,
Houghton Mifflin Books, 2Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo
nel presente, e non in futuro indefinito. Così l'anatomica
vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei suoni delle lingue
non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non esisteva ^ Merritt
Ruhlen, Origin of Language, Earlier human ancestors, such as Homo habilis and
Homo erectus, would likely have possessed less developed forms of language,
forms intermediate between the rudimentary communicative systems of, say,
chimpanzees and modern human languages ^ Jungers, William L. et. al.,
Hypoglossal Canal Size in Living Hominoids and the Evolution of Human Speech,
in Human Biology, DeGusta, David et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid
Speech, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States
of America, Hypoglossal canal size has previously been used to date the origin
of human-like speech capabilities to at least 400,000 years ago and to assign
modern human vocal abilities to Neandertals. These conclusions are based on the
hypothesis that the size of the hypoglossal canal is indicative of speech
capabilities. ^ Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved
( PDF ), in Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, Hyoid
bones are very rare as fossils, as they are not attached to the rest of the
skeleton, but one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg), very similar to
the hyoid of modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals
had a vocal tract similar to ours (Houghton; Bo¨e, Maeda, et Heim, Klarreich,
Erica, Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, Klein, Richard G., Three Distinct
Human Populations, su Biological and Behavioral Origins of Modern Humans,
Access Excellence @ The National Health Museum; Schwarz, J. uwnews.org uwnews
Risorse e informazione; Internet Archive. ^ Lewis Wolpert, Six impossible
things before breakfast, The evolutionary origins of belief; Minkel, J. R.,
Skulls Add to "Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of
skull variation bolsters the case that humans took over from earlier species,
su sciam.com, Scientific American; Klein, Richard, Three Distinct Populations,
su accessexcellence. You've had modern humans or people who look pretty modern
in Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil evidence behind
the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they only spread from
Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that long lag, 80,000
years? ^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language, The New York
Times, Sverker, Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses su
arthist.lu. Ruhlen, Merritt, Language Origins, su findarticles.com, National
Forum; Whitehouse, David, When Humans Faced Extinction, su news.bbc.co.uk, BBC
News; Rosenfelder, Mark, Deriving Proto-World with Tools You Probably Have at
Home, su Zompist; Salmons, 'Global Etymology' as Pre-Copernican Linguistics, in
California IPA: lɪŋ gwɪs tɪk Notes, Program in Linguistics, California State
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Doreen, Neuromotor Mechanisms in Human Communication, Oxford, Newman, A. J., et
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Bang ^ Mammadov J.M.: Origine della lingua. p.160-172 ^ Azerbaijan Linguistic
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scienza del cervello che legge, trad. di Stefano Galli, Vita e Pensiero, 2009, Milano,
Re: Did hitler experiment with babies ^ Linguistics 201: First Language
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Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social
Organization, su evolution-of-man.info. PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria
linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi da
tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani.
Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I
share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity,
and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives
that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who
perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other
pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to
cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Nome compiuto: Felice
Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens,
storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale,
bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente,
cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia
innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione,
percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita,
psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Firenze). A philosopher of the Porch. Cincio.
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Cincio,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi
Speranza -- Grice e Cinna: il portico a Roma -- il tutore del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have
learned from C. the value of friendship, children, and praise. Nome
compiuto: Cinna Catulo. Cinna. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H.
P. Grice, “Grice e Cinna,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Cione: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo
ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia – scuola di
Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo
napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I
love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of
Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a
failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well,
such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! –
and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a
Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of
‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! –
especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze
socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce.
Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di
Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo
indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale
Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
C. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando
di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un
"partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini
di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche
l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i
fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con
posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà
portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre
personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del
poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico
ed economico dello stesso Fascismo. Home Cultura Cultura (di
G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione 4
anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della
Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana,
ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle
mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti
falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più
indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento
partigiano e, infine, al Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto
complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la
possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure
tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi
gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel
Nord Italia in nome di un socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da
Mussolini a Nenni. Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un
po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da
parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti
Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della
Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista,
Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni, autore di un
confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!)
tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista
nel Cln. Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei è C.,
filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale, confinato politico, il
quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare sulla riconciliazione
degl’italiani. Un progetto ambizioso, non sempre sorretto da una vera
lucidità politica, che comunque portò a tre risultati importanti, nel crepuscolo
della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare attorno a sé un gruppo di
fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio indolore dei poteri. In
secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini che gli finanzia un
quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a costituire un movimento
politico di opposizione in Repubblica Sociale, il Raggruppamento Nazionale
Repubblicano Socialista che doveva essere il primo segnale verso la
liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò avvenne con
l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Borsani, Agazio e Pettinato,
e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini, Mezzasoma ed Almirante.
La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è
il filo conduttore del volume di C., STORIA DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf).
Si tratta di una storia che, tra le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e
il suo valore è soprattutto questo. Il mondo variegato e talvolta
contraddittorio di quelli che cercarono di costruire dei ponti tra fascismo e antifascismo è
complesso ma, in genere, comprendefascisti di sinistra -- più moderati e aperti
al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti al peso del Pci. Che qui ci si
trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di novità. Perché
un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accetta di sostenere i punti
di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario,
socialista e anticapitalista? Si tratta effettivamente di un problema non da
poco che può essere spiegato solo con il costante richiamo alla CONCORDIA nazionale. Una concordia che
non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a
nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo –
antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento essenziale nella storia
italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non per esaltarlo ma
piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e
senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è quello di ritenere
di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di
potere non considerare con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur
in un quadro autoritario, individua allo scopo di contribuire a fare ritrovare
unità e concordia nella società italiana. In questo senso l’esperienza
corporativa, che C. intese sempre in senso produttivistico piuttosto che in
termini rivoluzionari, può essere interessante da recuperare in una chiave
pluralistica. Più complessa la risoluzione dell’altro problema che lo
assilla e che, in qualche modo, è correlato con la ricerca della concordia: il
persistere, nella dinamica politica italiana, della categoria del nemico
assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C. non si rende conto
che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella precedente. Il pretendere
che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un
semplice richiamo alla concordia, dimostra quello che acutamente aveva colto
Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di
Giolitti e di Scarfoglio. In questa sua incapacità di leggere fino in
fondo la lezione della storia si trova la inattualità politica del saggio di C.
sulla Rsi, ma anche il fascino
dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni
anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici. La sua
originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è vero che in Italia il
filosofo tende a correre verso il carro
del vincitore, la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla
parte dei futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare,
senza riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale. C. compiuti i
suoi studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio
Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C.,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi
dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a frequentare
la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e
gli insegnamenti. Un saggio suo, pubblicato a Napoli e intitolata
"Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza", in cui
prende posizione contro Gentile, gli procura violente critiche da parte dei
fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì tuttavia, di
collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue la laurea
e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne l'incarico
presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca di
Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A
causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male
interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di
concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a
Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le
posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura
dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul
filosofo. Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari
con il titolo "Croce". Dopo l'internamento e il confino,
ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca
Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod
"Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera
docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e
intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata
anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche
da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione
dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di
Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il
giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala
fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con
l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda
guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli.
Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo
popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della
Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato
come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della
Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse
testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella
quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le
opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio
Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e
"Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda
a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente
attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu
quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale,
affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli
studiosi. documentazione collegata. C. fonti Incarnato, in Dizionario biografico
degli italiani. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati
Boringhieri. C., Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani’ Condividi Pubblicità
C. Nato a Napoli da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente
e artefice della sua fortuna, comincia a studiare presso il consolato
germanico, poi al liceo ginnasio "Vittorio Emanuele II", per
iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella. L'accurata istruzione
integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un
decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli
in permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella si tende a
sviluppare l'attitudine al comando ponendo l'accento sull'educazione fisica
intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni di C. ne sono frustrate
accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e
l'indirizzo precoce agli STUDI FILOSOFICI nella ricerca di un'identità
ristretta al piano culturale, dati gl’ostacoli frapposti dall'ambiente
circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le
stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che provocano
la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà, lo allontanarono da
un'adesione piena al fascismo. Introdotto in casa CROCE (si veda) da
Secolo, ne accetta pienamente le idee, attirandosi col suo saggio, “Il dramma
religioso dello spirito moderno e la Rinascenza,” Napoli, di cui già manda una
parte a CROCE (si veda), in cui prese posizione contro GENTILE (si veda), gli
attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difende Marzio che gl’apre le porte
del Meridiano di Roma ne gl’evita guai peggiori. Sono gli anni del consenso al
regime. La pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa CROCE (si veda)
non impedirono a C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici
del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la fronda
liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratifica e sembra soddisfarlo
pienamente. I numerosi saggi su SANCTIS (si veda), culminati nella
biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati
nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli
rivelano tutti l'impronta di CROCE (si veda). Tuttavia si può cogliere una
costante della filosofia del C., la tendenza alla mediazione, non tanto
espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo,
che gli fa preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il
tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa
e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un
equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti
soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla
vita napoletana (Napoli romantica, Milano) non puo non approdare alla
constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine
comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui
protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico
europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano
interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle
malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La
mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei
giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio
dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la
pubblicazione (Milano) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. C. si
laurea in FILOSOFIA. Le fortune familiari registrano un tracollo che lo spinse
a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno
per il quale non vienne ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Ètrasferito
alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con
l'opposizione liberale al fascismo; corrisponde con SFORZA (si veda) ed aveva
rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati,
Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. L’adesione al sistema crociano è del resto indiscussa. Malgrado una
tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi su
Berdjaev (di cui lo colpe durevolmente la critica al marxismo), su Valdès e dal
taglio stesso degli studi su SANCTIS (si veda), l'emancipazione non è così
consapevole come tenta ad affermare in seguito. L’intercettazione di una
lettera da parte della polizia, che ne interpreta malamente il contenuto,
provoca il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di
Foligno, i cui rigori sono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui matura
la sua crisi politica e la rottura col CROCE (si veda). La convivenza con
oppositori socialisti, anarchici e comunisti ha su di lui un effetto
contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponeno al fascismo
sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnano nei loro programmi di far
uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici,
lo induce alla revisione e all'abbandono, dell'anti-fascismo. La
compilazione di un volume celebrativo di CROCE (si veda), una laboriosa ricerca
degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì
la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rende possibile la
pubblicazione, L'OPERA FILOSOFICA, storica e letteraria di CROCE (si veda),
Bari, dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, torna
nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano. Collabora alla rivista
Popoli dell'Istituto per gli studi di politica, diretta da Chabod. Consegue la
libera docenza in storia della filosofia; è professore di ruolo di storia e
filosofia nei licei, ed ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di
maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia
a Napoli. Consegue la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo
colge a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di
Martini, anti-fascista di tendenze moderate e conciliatrici. Il movimento venne
poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finisce
trucidato alle Fosse Ardeatine. C. ritorna a Milano con un giudizio negativo
sull'anti-fascismo del quale coglie solo gli atteggiamenti scomposti di una
fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A
Milano stampa il suo CROCE (si veda). Il momento ed il luogo della
pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione
della polemica prefazione di C. sulle colonne del Corriere della sera, nella
Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la
soddisfazione di una momentanea popolarità. Mussolini mostra
d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione di Biggini, ministro della Cultura,
s'incontra con C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù
dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera a Biggini C. Scrive. Il
Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio della conciliazione
sconfessando così quello della minaccia e dell'intimidazione usate da molti
gerarchi e gerarchetti. Gl’anti-fascisti hanno dubbi perché temono di avere a
che fare con un movimento di copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve
liberare del passato e puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia
la Muti ed ha fatto buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una
polizia costituita da masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione,
73). Sembra che Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e confondere
i rancori degli antifascisti. Il C., sfruttando le tendenze
"liberali" favorite da MUSSOLINI (si veda) dopo il discorso alla
brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale
repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed
un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento
non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni
dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò
così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo
compromessa. Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli
nega la pubblicità per il giornale, considerando il suo un tentativo di
conciliazione sul piano dell'antifascismo. Una polemica con l'Associazione dei
mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo appena
dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il 24
aprile, un giorno prima della Liberazione. Il C. dovette sottostare ai
rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del
previsto. Venne reintegrato al posto di professore e riammesso nel servizio
universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne stimolarono il temperamento di
polemista che si esercitava con virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo
giallo di A. Giannini, e nei giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor
Perelli)offrono un quadro comico ed esasperato di troppi disinvolti
opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata
difesa della sua azione al tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a
scriverne la storia (Storia della Repubblica sociale italiana, Caserta).
C. pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove la polemica anti-crociana
si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel recupero del
cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non con
convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse
storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed
un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le
tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e
ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli
1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò alla rivista di C. Ottaviano
Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di
Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la
Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni
provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì
per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una
posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata
nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito
con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia. Rimproverava al
gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e
l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai
superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione
nazionale dei partito. Sull'onda dello spostamento a destra, espressione
soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore
allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si
presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento
sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia
attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio. Nel
1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si,
aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del
Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del
messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv,
di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli
1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano
1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli) per cui
ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto
di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi
e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il
suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni
di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna
1962). Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli,
Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati,
Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della FACOLTÀ DI
FILOSOFIA dell'Istituto magistero di Napoli; A. Manno, Dall'idealismo al
cristianesimo, in Studi francescani; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di
Salò, Torino Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino Capanna, Di una
polemica Croce-C., in Il Ponte; E. Santarelli, Storia del movimento e del
regime fascista, Roma Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre
1943-Maggio 1945, Bari La Repubblica di Mussolini, Bari Sulla bibliografia
Fascista Molti sarebbero i lavori di
carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e
commentano l’azione del fascismo in tutti i campi. Ottima la
Bibliografia del Fascismo, pubblicata a cura della Confederazione
Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma Qui ricordiamo le pubblicazioni
riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà fascista, con
introduzione di B. Mussolini, a cura di G. L. Pomba, Torino 1928
(complesso di 35 studi dei vari aspetti ed attività del Fascismo, con
saggio bibliografia fascista a cura di Màdaro); Il Libro (Vitaha; nel decennale
della Vittoria, Milano; Mussolini e il suo Fascismo, cur. Gutkind, con
introduzione di Mussolini, Heidelberg; Firenze. Studi vari : Opere e
leggi del Regime Fascista, Roma; Mussolini e il Fascismo, Roma; Dottrina e
Politica Fascista, Venezia, 1930 (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e
le realizzazioni del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura
della Rassegna Italiana Politica
Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno
Vili. A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato,
1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio con la seguente
pubblicazione annuale a cura dello stesso Ministero: Il Bilancio e il
Conto Generale del Patrimonio dello Stato per l’esercizio
finanziario 19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga :
De Stefani A. La Restaurazione finanziaria. Bologna, Zanichelli; Volpi di
Misurata: Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La
politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni
poteri, Bologna, Zanichelli Gangemi La politica finanziaria del
Governo Fascista, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.: Le Società
Anonime miste, Firenze, La Nuova Italia
». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori
Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del
Ministero delle Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori, Milano.
Nei riguardi della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente
volume di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno
d’Italia, Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni straniere
quelle tedesche sono le più ricche e meglio informate. Le
opere e gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come
quelli che meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione
economica, e cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eberlein
G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.; Leibholz G.;
Leinert M.; Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i
particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a
cura della C. N. P. A., Roma). Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.:
Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die geistesgeschichtliche
Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi pubblicati in Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegegeben
von Arthur Spiethoff, Munchen; ed anche: Die fascistische JCirtschaft -
Problema und Tatsachen, herausgegeben von G. Dobbert, Berlin, Hobbing,(è
una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e
svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni dell’azione
economica corporativa Per una rassegna delle interpretazioni
dell’azione economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti
di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno Sono ivi
ricordati i contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo
dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : Homo Oeconomicus » e Stato Corporativo in :
Giornale degli Economisti Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei
contributi italiani allo studio dell’economia corporativa, tralasciando
di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico e giornalistico, ma
privi di consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della
stessa realtà politica corporativa : Alberti L’ Homo Oeconomicus di H. P. Grice
e l’esperienza fascista in Giornale degli economisti; Arias G. : L’Economia
Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, 1929, idem. idem. Economia
Corporativa, Firenze, Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’
Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;
Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica economica,
in Giornale degli Economisti ».
Febbraio 1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere
di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di
emanare misure rispondenti, nei rami particolari, alla politica economica
generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni
sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di
interventi statali, in Archivio di studi corporativi, Pisa; Borgatta G. :
Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica
corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica nazionale,
Milano, Hoepli; e dello stesso: Le crisi economiche delV ordinamento
corporativo della produzione, in
Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa:
Caratteri e forme delT attività economica, in Rivista di Politica
economica. (Secondo questo autore J economia corporativa non è altro che
un’ economia di complessi economici, che dev’ essere studiata nella
sua realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni dell
individuo con la società e di questa con lo Stato). Dello stesso autore:
Vecchio e nuovo corporativismo economico in Saggi di Storia e Teoria economica,
in onore di Prato, Torino. In questo studio l’autore conclude che il
corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate
dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste in quanto
che inquadra le sue idee in una concezione piu larga, che non tiene solo
conto degli interessi dei singoli, ma anche di tutta la collettività
nazionale, che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli
interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli
Espinosa A.: La forma e la sostanza della economia corporativa, Firenze
Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW
ordinamento corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della Società
pel Progresso della Scienza», riassunta in Lo Stato; Einaudi L. : Trincee economiche e
corporativismo in La Riforma
Sociale; e dello stesso: Corporazione aperta in La Riforma Sociale ».
Fanno M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo
corporativo, in Studi sassaresi;
Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista economico,
Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e
dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei Problemi del Lavoro; Politica economica ed
economia corporativa, Ediz. Diritto del lavoro; Camera corporativa e redditi di
gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e
di una pplitica economica corporativa, in :
Rivista di Politica Economica. Ritiene questo A. che tanto la
politica economica corporativa, quanto l’attività corporativa come
condotta ipotetica degli individui dei gruppi animati di una coscienza
corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in tanti
modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa
(all’autore parendo il più adatto perchè conforme alle direttive del
Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo
be¬nessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo,
quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da
consentire una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si
mescolino precetti e teoremi, e peggio, non si confondano gli uni con gli
altri, è perfettamente legittimo fare della economia corporativa una economia » astratta, trovare il nocciolo
razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della
economia corporativa, Giornale degli
economisti; Galli Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico
Universitario, e dello stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze,
Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza economica e
Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico
della R. Università di Torino), e dello stesso : Scienza, critica e
realtà economica, in La Riforma Sociale
»; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello
stesso A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in Rivista Bancaria
», novembre 1928, ed Economia corporativa e politica economica, in Giornale degli Economisti »; Lo Stato come
fattore di produzione, in Rivista
Bancaria » (Lo Stato come inserzione di volontà nell’ attività
economical. Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la
scienza economica tradizionale e la notevole incomprensione degli economisti
ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle
idee lierali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce
che per dare un carattere di socialità, che concili l’interesse privato
con quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario
giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per
eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e
identificare F iniziativa economica privata coll’ iniziativa economica
pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la
personalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni,
di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini,
differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai
riuscito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia
corporativa la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione
economica della produzione invece dello scambio, inteso nel senso della ripartizione
del prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della
produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,
del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari,
porta a delle conseguenze pratiche fondamentali per la definizione dei fini e
delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si
dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione economica col
passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la
conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pubblica.
Nel secondo caso, invece, la Corporazione non assumerà la direzione della
gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di
eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più
fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli
altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con
quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di questo A.: Il problema
fondamentale dell’economia corporativa, CRITICA FASCISTA; Masci F.:
scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodologia economica, Catania (Sono
raccolti con lievi modificazioni gli scritti citati ed altri saggi);
Paoni C.: A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo,
in FIAMMA ITALA e dello stesso:
Strumenti teorici di corporativismo, in Giornale degli economisti», (in
questi scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica
corporativa di Fovel. Contro questi si schiera anche Bruguier nel saggio sopra
citato ed anche noi nei nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed
altri); Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi
corporativisti, Lo Stato; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in
Educazione Fascista », e, dello stesso: Economia corporativa e agricoltura,
in Atti del II Convegno di studi
sindacali e corporativi», Ferrara; SPIRITO (si veda), La critica
dell’economia liberale, Milano, Treves, dello stesso: I fondamenti dell’
economia corporativa, Milano, Treves, e Capitalismo e corporativismo,
Firenze, Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di
questo A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente
polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo. Nella critica
all’economia liberale, infatti non fa che ripetere, con sintesi
brillante, quanto è stato detto dai seguaci della scuola storica tedesca
e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa
la scienza economica con la praxis dei governi liberali e demoliberali.
Nella critica al capitalismo non fa che ripetere, in linea essenziale,
quanto il Sombart ha espresso nella sua opera monumentale sul
capitalismo e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto
contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare.
Nè è fatta alcuna discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza,
per es., ricordare che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio.
Nei tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene
conto, in particolare delle dichiarazioni della << Carta del
Lavoro» che rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la soluzione
corporativa n clini entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia
Hegel e Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la
quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammissione della corporazione
come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio,
altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma,
con buona volontà, si può Scorgere nel sistema di Spinto anche un
liberalismo assoluto per cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del
corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii
su altri grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni
pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il
nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione di
prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata
nell’anno 2000, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.:
Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze. Contra a Spirito, si
vegga: Arias, cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso
cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia
filosofata e attualizzata, in Critica; Galli R. : SulF identità delV
individuo con lo Stato in La Vita Italiana; (jANGEMI L. : Individuo
e Stato nella concezione corporatina, m Atti del Secondo Convegno di Studi
Sindacali e Corporativi, Ferrara; Brucculeri A.: L economia corporativa, in La
Civiltà Cattolica», e Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni ( Archivio di Studi Corpora .V'iV-’i) mostra come la
formula dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e
dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad
essere sè stesso. Il grande significato del Corporativismo è la
disciplina economica nazionale. Con il Corporativismo si passa dal
soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è
affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche. Il
nuovo modello della realtà economica non potrà non essere anch’eseo,
naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza determinismo.
Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello
Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra
divergenza ideale con l’economia degl idealisti non va assolutamente confusa
con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi
chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che
hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii
della Scienza Economica e l’economia corporativa (Rivista di
Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra
Stato e Individuo. Integrando ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel
considera l’economia corporativa come una economia non euclidea. Papi
U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in Giornale degli Economisti, e più
diffusamente in Lezioni di Economia Generale e Corporativa», Gedam,
Padova. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento
corporativo traduce nel diritto positivo un complesso di norme di diritto
naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un
diritto corporativo, definizione giuridica della libertà economica c e
sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la figura dell’uomo
corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa
importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema organico,
razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il
contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica. Dover
essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo
economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo e la
scienza economica (Rivista Italiana di Statistica» etc.. Questo A.,
conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie
imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che
la disciplina unitaria e
l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni
e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di
conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile
determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si
espressero anni addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di
guerra e riforma tributaria, in La Riforma Sociale. Contro il
contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a
favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco
cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in Echi e Commenti, e dello stesso : Ordinamento
corporativo e ordinamento tributario, in
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara;
Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato,
Dir. e prat. trib., e dello stesso: Lo Stato corporativo e la sua
finanza, in Diritto del Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e
ordinamento tributario, Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in Diritto del Lavoro », Roma; Riforme
tributarie e Stato corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma; Finanza
corporativa, in Diritto e Pratica Tributaria. Roma, ed infine, sempre
dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti
del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. I ra questi autori
la corrente radicale trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.
Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata
in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte
che trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che
riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri
fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione
fiscale e riforma tributaria («Augustea»), e Genco («Comunicazione al II
Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero
arrivare all’abolizione o per lo meno alla riduzione degli organi
finanziari statali ed alla loro sostituzione con le Corporazioni!
Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere imposizionale
tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori
di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle
Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a presentare
un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si
accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddistazione
di essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri
rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che
in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò si
ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non meno
rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali. Il
tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino CaProblemi
di Finanza, Torino, Giappichelli; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato
Corporativo in « Echi e Commenti, e dello TTr- A r-,ane r e
in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L rinanza
Corporativa, in « Rivista di Politica Economi Stato C e dell ° stesso: La
finanza nello Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, e
S“,° £ r” cernii in
«Rivista di Politica Economica (e una carica a fondo contro la
funzione graduale, ransitona e limitata del contingente come è propugnata
da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo ha espresso la sua tesi nella
Rivista «Il Commercio» f, 7 iarzo \ a f, rlIe)i Toselli Colonna: Teoria
e problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria Colombani
(è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza).
Infine, si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni WaC
“ f ’ in Lo Stato e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi
nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione
Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin associati. Le associazioni
sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad
assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado
di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inadeguatezza dei mezzi che
hanno a propria disposizione, anche a prescindere dal giusto timore dei
dirigenti di potersi creare m tal modo animosità lesive di quella
compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce uno dei suoi
requisiti più essenziali in relazione ai fini propostisi dal nostro
legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La
ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto riguarda
l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette,
proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul
patrimonio-. Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il
procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni
pongono in evidenza i tributi globali e personali come il fondamento di
un corretto sistema di imposizione diretta in luogo delle imposte reali
imperfette e causa di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro
sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da una
imposta personale, la complementare, che con i procedimenti fatti
approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le consente di assolvere
agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal
Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione
diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi e ponderati studi
sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e sul
raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una
riforma così vasta e complessa che le condizioni del1 economia nazionale e
della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente tranquillità
e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è consapevole.
Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le due opposte
opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non
esiste sostiene una terza e differente che trova riscontro nei
seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello
Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla
trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al Primo
Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.
glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le finanze pubbliche e l’ordinamento
corporativo, in « Economia. Il Griziotti, se non erriamo, desidera un
sistema di imposte congegnate in modo da rispettare le esigenze della
produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri
della giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici.
Rico Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del
primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della
produzione. Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un
fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non ci trova consenzienti
è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite
e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.
Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese (La Finanza
e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati Moderni, Padova, GEDAM) «
Nello Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente
sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè alcuno dei principi che
reggono l’economia capitalista viene apriosticamente ripudiato: ma vi si
aggiunge un elemento che è quello del controllo sociale che, sulla
iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo Stato. Nello
Stato corporativo anche la politica finanziaria deve necessariamente seguire le
direttive, che non coincidono nè con quelle del sistema
liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più vicine) nè con
quelle del sistema collettivista. Essendo l’imposta uno dei principali
strumenti di cui lo Stato qualora
rispetti il principio della proprietà privata si può valere, per intervenire
nel campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo
ricorso uno Stato, che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta
l’interesse nazionale lo richieda. E essenziale rilevare che nel
sistema corporativo, mutano fondamentalmente i modi dell’azione
statale: mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini
di benessere e prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di
tutte quelle forze individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo
Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa
esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti,
non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma
facendosi iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze
individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa nota
senza ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato
Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in « Politica, scritto che i
nuovatori sistematici ed i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere
ed a meditare se veramente sono, come si ritengono, difensori
dell’interesse nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il
fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare”; “La
preparazione del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la
capitolazione”; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della
Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore
italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”, “La
politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale
della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo
di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed
economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra
partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La
catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e
Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla
rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come
INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de
Marsanich, Achille Celli Editore. Nome compiuto: Domenico Edmondo Cione. Keywords:
ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale,
icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana,
corporativa, principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo,
corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come
corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron.
Citrone. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Citrone,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Civitella: la ragione
conversazionale e ’implicatura conversazionale – scuola di Teramo – filosofia
abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Montorio al
Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al
Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman
jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not
Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days
of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in
‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the
world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is
the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive
it!” C. è giustamente ritenuto il Nestore
della filosofia napoletana. Questo illustre filosofo, autore di molte opere di
storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta
istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che
interessa la sua terra; e possede l'ancor più raro merito di saper comunicare
le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e
semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le
ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di Leognano, in provincia di
Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno a quando Pir (o Pyr) Giovanni
di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia,
cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros
Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Savorini, il cognome è “de C.”.
All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben
presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato
a Napoli, per il completamento degli
studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le
materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per
il diritto e Mazzocchi per l'archeologia. Nella città partenopea si
laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito
diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se
ne spogliò subito per motivi di salute. Nella prima parte della vita si
dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia
politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel
miglioramento e l'abolizione di molti abusi. Con il ritorno in patria si
inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di
Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le
premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del
territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi,
Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu
allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto
noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di
libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente
del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio
della Repubblica Partenopea. Caduta la Repubblica Partenopea anda in
esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza.
Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima
storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una
serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale
di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio
territorio. Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del
Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali. Restaurato il
governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e
successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne
eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della
Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia
di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano,
dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La
filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del
diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte
da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i
principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di
eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una
valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura
sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini
dell'autorità invadente. Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli
strumenti a cui si richiamò l'opera del C., permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma,
dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto
dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del
regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione
dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole
della morale corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente
pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori
del suo tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto
nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede
nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a
filosofo. Altre a Teramo e alla frazione
di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla
Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo;
Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche
intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato
massone. Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non
esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie
relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo
all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali
indizi si possono così riassumere: I maestri ed amici di C., come
Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni; In un diario del
curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente
a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove
un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella
rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski
ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda
il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare
a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.
Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti
massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo
nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio
filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria
sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita
de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di
scienze, lettere ed arti, Raffaele
Liberatore, Melchiorre C.. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due
Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri,
Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C.,
Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere,
Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente
d'Abruzzo, Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo),
Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di
storia e letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori,
L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro
abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione
teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS, Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani.
Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè,
sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza
e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse
specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA
GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno
il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra
i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto
riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di
testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del
giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto
giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il
nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO
incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello
stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non
vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente
alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi
e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve
intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT
-- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse
nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE
INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione
essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora
positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL
COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per
accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN
ASILO da era retto ve s9 da che si puo
comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i
più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i
primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici
relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo
cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti
chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in
seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -come ne fanno ancora i sei re
successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv
al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è
chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche
delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da
principio, parla dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non
modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una forma, non una costituzione,
alla città, e come dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii
signori, Roma non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ
È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e
per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo
stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della
legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei
o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio
scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci,
m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle
origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO
DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici
ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio,
di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato
poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri
sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da
principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè
Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private
dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari,
e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel
formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia –
GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida
capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è
la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che
poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto
il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale
dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi
appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati,
o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori,
parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della
verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA
APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare
per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati
fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato
militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società
nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma
nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi
passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale:
la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei
ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO
TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare
sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che
specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi
principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar
gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli
nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che
fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel
natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale:
GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia
è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali
mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO.
Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo
per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità
delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali,
fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi
costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso
delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale
nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della
compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e
fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce
aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia,
che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto
stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e
che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne,
come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i
quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente
la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere che
il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA
SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ, il
potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’
patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o
principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig.
del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia
– GL’OTTIMATI -non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi,
dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra
essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose
umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un
dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia
del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA
NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’
idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per
quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno
le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA
RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle
idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli
simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva
influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo
stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’
primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re
emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è
minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo
stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire
ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA
NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser
stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE
IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie
filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della
legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le
lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di
quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche
associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il
governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi
della libertà. Ma chi giudica senza prevenzione
non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà;
della propria libertà però non della libertà pubblica -- per servirmi delle
parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri. Quindi, Roma
non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e
l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione.
L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà
manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE
ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER
LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata
alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua
espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere
conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO
FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo
ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano
de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi.
Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo
contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la
stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende.
L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo
ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte,
le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari
come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo
stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore
per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè
la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser
riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il
desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario
il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio
non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione
e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è
bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto
inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo
questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul
modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani
plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano.
Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche sono
messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona fede
sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali doveno
mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la
legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche luogo d'Italia,
e la legge poi è tirata dall’arche pontificali e perchè nulla manca di condimento
aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un
articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove
servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata
autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde
che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il
popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso
parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un
merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo
legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra
legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus
ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in
parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo
tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE
LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza
resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi:
la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire
facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle
leggi. La scovri ancora il [VICO, Scienza
nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad.
Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA
LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse
egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi.
Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata
speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler
fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de'
quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in
seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono
destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute,
non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver
imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo
tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana legislazione
per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem
sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica forense.
Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se
si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche, ingiuste, severe,
é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci
sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se per quella della
Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del
tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno esser analoghe alle
leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è facile il vedere, ch'
esse conteneno la massima ingiustizia politica, per conservare in forza gl’aristocratici
dritti. Della stessa indole sono le indegne leggi relative alla patria potestà
ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di
famiglia. In quanto al CONTRATTO, la legge è pur sempli ci, come dove essere in
un popolo barbaro con pochi rapporti civili. Ma l’usure d'ogni specie sono
terribili. Chiunque vuole esaminar quelle leggi in buona fede, e misurarle
secondo i vem ri rapporti che le leggi dove avere colla natura e collo stato
civile, trova senza fallo ingiusti ed irragionevoli gl’encomj alle medesime
attribuiti. Ma forse neppur in Roma si pensa tanto favorevolmente di esse,
poichè col tempo par che sono del tutte neglette e dimenticate. CICERONE stesso
riferisce che, al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli
nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi passato di moda tal costume
-- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium, quas jam nemo discit. Ed
in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale disprezzo ed obbllo, che
sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni. Si può trovar
intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi panegiristi
delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi,
godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e paragonata la
giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica, il paragone
risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e quelli
specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri
frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del giusto, e
rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che l'effetto d'un letterario
fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole fonté ogni equità è troppo
credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie è
infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costituzione non è
cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe neppure ottenne di acquistar
la condizione desiderata. Per quel principio teocratico, di sopra accennato,
ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici che privati, il
patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto che da la vera
qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal primo vincolo
sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il connubio o nozze
solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia, la patria
potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli patrizi,
poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non
potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gl’auspicj
maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle Magistrature, e far parte dell'ordine
regnante dello stato. Or niun cangiamento è fatto da quelle vantate leggi su di
un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto è sacro;
e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tranquillità alla Repubblica, il
voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria
e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asserire ch '
esse non hanno propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII
tavole. Si crede intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità
principali, cioè d'eso ser PUBBLICO e
generale, avesse resa certa e stabile la legislazione. Autorizzato dal popolo,
fisso nel foro e delle curie, ciascuno dove trovarvi la certezza de' giudizj,
la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj. Ma su questa
conseguenza ci fanno nascer gran dubbj gl’antichi autori e molti fatti
conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal caractere delle prische aristocrazie
è la misteriosa custodia delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè
forma il privilegio esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode
del bujo et del [(Det ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta
sapienza romana è fondata parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo,
perchè la loro scienza sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i
misteri della natura, l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la
fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le
altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei
polli, sul volo degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle
viscere, e simili cose, alle quali non può appartener mai il nobile titolo di
scienza o sapienza, ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno
servire all'ingiustizia, poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta
disposizione delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso
dritto del più forte, cioè alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or
poichè quelle leggi qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza
arcana e dell' aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col
quale si ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il
potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za
7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono
avvalorate dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi
conoscere qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne,
quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e
finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può
amministrar la giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza,
ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una
legislazione. Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde
coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la
giurisprudenza è nata subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non
si conferma, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII.
tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma
le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e
tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però
un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è
chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno
nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e
questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime.
E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle
XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte
sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta
dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de
Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati
affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in
circa. Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto
vantata per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato
bisogno di sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte
le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione
alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune.
Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni
de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai
quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in
principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso
generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le
leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale,
ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande
scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno
è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove
agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti
e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non
basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa
difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso
e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale
prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di
venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti
depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a dispensar
giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di non aver mai
idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si tratta già di
fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù: perchè se avendo
già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può godere anche quello d'ISONOMIAI,
cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il suo intendimento nel promuovere
una pubblica leggislazione, ha un gran passo verso quella libertà che tanto F
ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md esso sovente contro quella specie
di occulta o privata legislazione, dicendo, che la sua condizione de ea in
questo assai peggiore di quella dei popoli vinti; essendogli negato il poter
sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e
feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana
e inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il
dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza pensa che quel notissimo
motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto politico che morale. Pieno
l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia Solone ricorda con quel
motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per
uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo romano non
ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno, poichè
abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono fioalmente
essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe però avuto
bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo
si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico,
ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti
sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se
Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde
anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza
che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo
dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente
espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza
aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza,
non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa et tristis non tam in æquitate quan in
verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici,
vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente,
come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per
arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed
avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse
tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che
leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma
chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie
maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e
conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani
misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli
uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità
d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle,
val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che
loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti
non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo
coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le
leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo:
institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta
in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum
supprimebantur vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i
giurisperiti seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo
credere però che i più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan
no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro
i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no
coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori
trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna
occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle
arti, dalle scienze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo
piacevole; perciò chi non ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di
darsi alla cabalistica (LIVIO) e viziosa giurisprudenza, si ripara nella
esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti
la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato,
la perpetua persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è
una famiglia di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che
dove dottori e forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della
naturale tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella
mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri
autori dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene
alcune differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita
dindi POMPONIO a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN
FORMA D’APPIO CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio
d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e
fattone un dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno
della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle
quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO
CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in
Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di
formole, SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un
libro chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che
pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le
azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che
il popolo illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo
di amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno
della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo.
Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj –
gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella
scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano
il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a
scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si
cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi
Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e
le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero
rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma
ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN
INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS
PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS CONFIXERIT
ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS
IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI
NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS
QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è
d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in
breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue,
la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli
stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La
Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e privativa
del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola
consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per render lo
di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella ragione, e gli
espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento
di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą
che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi dico da tutte queste
qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti
che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo
de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore
di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere. E pure questi furono i
patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO ad esporre i fonti
del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de' senatusconsulti,
specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali si vedeno gli
effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche dai magistrati
nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero
i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero serviti intorno ai
varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degl’editri,
da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto perchè proveniya DALL’ONOR
del pretore. E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nasce
delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga tutti i fonti che costituiscono
il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legislazione è
costituita del dritto o sia legge; da quello che propriamente si chiama DIRTTO
CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola interpretazione de' prudenti:
dalle azioni della legge le quali
contengono le formole di agire; dai plebisciti che sono fatti senza l'autorità
del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali nasce il dritto onorario; dai
Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente,
dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che POMPONIO ci
ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gl’autori
tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è il dritto é la giurisprudenza romana
prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più
le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza
e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse acquistando qualche
dritto su l'aristocrazia, puro questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità
cede in qualche cosa de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita
le legge, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che riguarda
l'anministrazione della giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di
qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho
possono disporre a loro modo delle leggi e della giustizia, e che tanto più
diventa tale autorità efficace quanto più la legge e oscura, incerta, ed
arbitraria. Ma per vedere come questo continuassets e come la giurisprudenza
segue ad esser sempre della stessa indole, prima di venir a ragioniare de'
plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad
esaminare quel dritto cui si volle dare il titolo di ONORARIO, ma che vedremo'
non essere stato degno di alcun onore. Se si vuole parlare del la ridevolezza
di quelle vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci
porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e CICERONE stesso
le. derideno e teneno in altissimo disprezzo, credo che dopo due mille anni
potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco
adoratore della Romana antichità e giurisprudenza. Rifletterà solamente che
quando di cose semplicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver
luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di
parole non necessarie, e surrogare impropriamente le immagini e le finzioni
alla semplicità e realità delle cose e delle idee: specie di geroglifici che
deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio
intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo
indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza, cosi non
m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi,
quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per
allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma
accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto
onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la
forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad
alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello
della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i
sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il
consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col
manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone
lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri
auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato,
si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche
essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni
che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose
combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de
Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella
nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio.
Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica
contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano
ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma
quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse
che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il
consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile
l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace,
si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib.
YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine
patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò
che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli
sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono
adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che
si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita
per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del
quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la
Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura
privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel
quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di
mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome
Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO,
nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura,
ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque della
medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare,
seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso,
il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della
comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO
MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse
lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse
mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà
popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza,
poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il
potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può
rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il
popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano
antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti
sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e
questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro,
e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte
coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione
sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei
disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del
disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo
adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki,
non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione.
Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza
in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più
accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre
Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per
trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo
articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non
tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor.
de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per
l'Impero ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma
diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To
pure il dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le
divisioni e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti
diversi rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso
e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici
e dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai
Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il
dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà
o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano
cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare
una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e
fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento
della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi
ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99
molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza
fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a
tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si
multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori
Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a
rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la
origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè
che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si
dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione
nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto
per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la
loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi
in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe
facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e
d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici
giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per
tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti
più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma
se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro
officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può
creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo,
cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto
meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della
Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano
le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità
arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del
dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo
generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando
dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion
pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può
dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i
principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che
l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre
un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere
giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere
esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine
da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A
considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal
semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va
all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli
antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe
comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e
perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo:
Ma PAPINIANO è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a
pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o
nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli
czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo
il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare
alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge,
ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle
erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o
circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il
restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in
quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia
stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da
principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e
specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi
dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e
l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato.
Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente,
ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa
autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici
dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale
è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso
ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di
sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di
sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d'
aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della
giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei
sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova
visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella
dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero
conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario
ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon
governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle
Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle
altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa
è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a
Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li
avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere
i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o
correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento
autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai
costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo
soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza
nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici
cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene,
avrebbe trovato più opportuno mezzo a
correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene
vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i
cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o
riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che
la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se
rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente
per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere
poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV
specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia:
nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà
da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più
importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il
sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali
derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei
quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni,
delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che
la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso,
chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque
nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall '
azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che
intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle
leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema
di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e
che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti
ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime
derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta
ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero
derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero
avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI
PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO.
Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre
nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola
ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè
spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an
tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è
sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò
portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj.
si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare
agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal
capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in
variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le
disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che
fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed
accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori
sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno
a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova
ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi
particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o
il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le
sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla
corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione
giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non
avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza
dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano
ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della
Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari,
per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le
Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di
Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il
numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e
necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non
crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne
sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e
classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in
numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa
specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in
tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre
volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere:
ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti
del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme;
i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le
giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti
immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di
corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza
col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della
grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti
della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della
forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e
convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la
dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto
però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non
sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o
mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non
fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per
quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere
Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una
magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can.
giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne
delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di
propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva
nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi
magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi
chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d'
idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i
pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali
cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio,
il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto
pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati
talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero
scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa
compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi
riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli
stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente
e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra
sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva
con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto
nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli
oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole
della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile
gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non
comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po
polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i
suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere
per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex
suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO
EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli
trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva
dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non
è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più
efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal
danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto
vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in
disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma
tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto
insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i
mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè
riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con
tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO
SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato
specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili
leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata
cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que'
tempi non solo la sfrenatezza pretoria,
ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il
possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i
fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo
ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più
tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon
invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere
assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla,
rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu
debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel
popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i
disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro
Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla,
nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla
eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se
nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono
introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine
giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar
te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove
parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la
giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se
stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di
considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le
finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza.
Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione
per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni
della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que'
moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far
sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon
l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones,
quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus
expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg
gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De
Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le
finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di
conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori
e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che
esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei
progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de'
tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la
realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la
secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro
prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente
par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando
le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai
loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le
immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate.
In con , fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica
Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non
fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle
loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si
dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la
sua riputazione in rim trovare sì fatte
favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la
ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità
mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro
circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si
dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata
dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto -
ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader
suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative
', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le
leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda
dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono
ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che
ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel
tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza
equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali
qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più
usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e
coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs et libram,
le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere,
le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni et c. non solo erano
faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e
rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie.
Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si
sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de
sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei
tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio
rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza
Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della
società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e
per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si
combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a
generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione
de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo
passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici
furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la
plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la
sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li
caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino.
Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla
della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro
quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una
invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue
in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non
sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente
avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e
della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il
dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere
legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi
fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più
celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole
fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu
la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che
di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che
quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual'
era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata
vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale
avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD
POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la
ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi
presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio
ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il
dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj.
Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la
parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione
privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge
prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che
legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se
tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina
il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole,
accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale,
onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello
Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il
dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo
sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le
volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque
principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una
misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è
Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi
mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo
drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella
Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle
sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel
popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di
queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue
alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo,
dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un
popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi
dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi
necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS.
ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che
fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle
Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj
centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu
inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o
consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque
radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o
in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per
tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di
leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non
obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un
altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto
far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero
valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè
nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da
se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle
risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi,
furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere
nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle
deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare
presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo
ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu
stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la
realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei
diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le
ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de'
cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per
natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le
decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva
già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile
e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente
gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione:
Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che
quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà
governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè
indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu
sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire,
che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio
nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non
erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino
libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure
questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero
le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi
Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle
proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri
Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative
alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di
Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai
Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le
leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un
popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori;
giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai
ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè
far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de'
Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si
potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono
salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni
promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però
delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi
volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢
sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si
riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione;
ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di
bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto
a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE.
Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de'
Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con
mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come
abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a
ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica,
gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la
custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per
saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti =
Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri
volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam
nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi
solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini
civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo
una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le
consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi
de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per
diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio
espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono
dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere,
che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo
della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della
imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il
gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere
complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il
sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment
morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà.
Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere
morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler –
self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La
giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di
Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza
romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione
della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto
gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia.
Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica
della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al
capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue
memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo
decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto
il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo
decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento
delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo
politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati
nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi
delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed
abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei
del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati
dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti
dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine
dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte,
ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale.
Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del
bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli
su le origini italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e
a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre C. Gaetano Filangieri a M.
C. Pietro Borghesi a M. C. F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate
Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. C.. Luigi Grimaldi a C
Toaldo a M. C...Spannocchi a M. C..V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle].
Michele Torcia a G. Berardino C...Mollo a M. C.. Carli...Mùnter a M. C. Mùnter
a C. in Napoli. Mùnter a M. C...Filippo Mazzocchi a M. C...Gazola a M. C...Giuseppe
Micali a C...Bertola a G. Bernardino C...Il medesimo a M. C...Brugnatelli a M. C...Anutos
a M. C...Gio. Andrea Fontana a M. C.. Il Duca di Cantalupo a C...Palmieri a M. C....Gargallo
a M. C. in Teramo...Galante a M. C...Amaduzzi a M. C...Zarillo a M. C...Giovene
a M. C...Amoretti a M. C.. Francesco Soave a M. C...Acton a M. C. (Teramo).Fortis
a M. C...Zannoni a M. C. Bossi a M. C...Tommaso Frantoni a C...Felici a M. C. Napoleone
a. M. C..Trivulzio a C...Melzi a M. C...San Severino a C...Il duca di
Sant'Arpino a C. Tracy a M. C.. Antonio Canova a M. C...Ricci a M. C...Gioli a
M. C...Dragonetti a M. C...Zurlo a M. C. Michele Arditi a M. C....Orsini a M. C....Burini
a M. C....Taranto a M. C. Sorricchio a C...Cicognara a M. C...Santangelo a C....Ciampi
a C. Tommasi a M. C... Il Duca di Laurenzana a M. C. Grimaldi a M. C. Santangelo
a M. C...Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre C..Niccolini a M. C.
Rangone a M. C...Pilla a M. C. Il Duca di Gualtieri a M. C. II Barone Poerio a
M. C...Armaroli a M. C. Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. C. Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio C... Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. C..
Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana. Stati Romani.Napoli. Memoria per
la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso
del Cav. Comm. Gian Berardino C. letto in occasione del solenne giuramento
prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e
Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre C.. I titoli
nobiliari. Episodi della vita del C.. Opere ignorate del C.. Il contenuto delle
opere. Catalogo per materia delle opere di M. C.. Lettere del C. e al C.. La
Repubblica di S. Marino in onore di M. C.. M. C. a Gaspero Selvaggio. A Paolo
D' Ambrosio M. C.. Il teramano Melchiorre C. è uno dei più cosmopoliti e al
tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali
della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate, che costituisce il
fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da
Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere
una benefica scossa alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un
serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo
le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado
contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico. È
soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle
lettere e delle scienze, considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano,
in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che C. matura una nuova
concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva
Genovesi, più pratica che teoria» , e la convinzione della necessità di un
impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e
giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana e di eredità genovesiana (8),
egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura la sua attività di
scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento,
sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso
allo Stato ecclesiastico. Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali
dell'autorità ecclesiastica, dimostrando false o insussistenti» le pretese
giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per
legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo vergognoso» perché
prodotto per dolo o per frode. Sebbene notevole sia stata l'influenza di
Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici
espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono
essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i
rappresentanti della corrente più provinciale», più tecnica e descrittiva della
scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica
matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti
dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva
desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e
sociali della sua terra. La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto
pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che
il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel
vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio
filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in
provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese
basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che
indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index
librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato
coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma
soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo
matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e
sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo
e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è
l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui
sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società,
fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i
sessi. Sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore
Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i
quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura»
(15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: Dopoché il mio spirito soffrì
la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi
vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le
quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento
empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti
morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le
prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne
consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si
dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità
di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle
condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel
passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono
del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi
nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta l'interesse di tutti i
particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente
alla sovranità e al potere. L'affermazione non si concreta in una scelta
della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti
politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica.
L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di
un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria
simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della
politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più
immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti.
Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato
attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di
trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha
niente a che vedere con la fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di
eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo
l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora
assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del
potere che da quello delle ricchezze. Conosciuti i mali che provengono
dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve
essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad
altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al
contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre lusso e
corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati
della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino la vita,
l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro
degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico, C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con
le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e
dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è
ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero
di S. Matteo di Teramo. L'exequatur del
Tribunale del capoluogo abruzzese con il conseguente ordine di carcerazione,
emesso nei confronti suoi e di altri lajci seduttori presunti responsabili
dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a
Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda
giudiziaria, giunta con l'indulto regio. Questo secondo soggiorno partenopeo,
avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo
per lo scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con
gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti
della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi,
Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura
l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale
e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli
corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.
Ritornato a Teramo, C. pubblica il Discorso sullo stabilimento della milizia
provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad Assessore militare
della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI, inaugura
un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di
numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza
politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione
militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo spirito di
corpo» dei militari, quel sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la
vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo
sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della
società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso
civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di
cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro. Ad
alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul
piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello
dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze
e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del
Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli
antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla
Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso
C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella
provincia di Teramo, pubblicata a Napoli. Considerato forse il più limpido e
ragionato dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una
dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione
in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. È di nuovo a Napoli, dove si
fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole.
All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda
amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende
coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di
risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile
terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai
improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni. Ritornato a
Teramo è raggiunto dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio che ne rievoca il pensiero
e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si
sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a
Napoli. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane sull'uguaglianza
tra gli uomini, correggendo quei paradossi», scrive C., che fra
molte vere e nobili osservazioni sono racchiusi nel Discours sur l'origine de
l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere
presque nulle dans l'Etat de Nature, Grimaldi ne afferma il principio
dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono
eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro
di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui
l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per gli oziosi
e gli annojati», ma in funzione d'un utile presente per l'umanità e, in
particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più
il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del
momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita
morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 C. si trasferisce di
nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città
natale. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca,
Friedrich Münter, venuto in Italia con l'incarico di propagandare l'Ordine
degli Illuminati di Baviera. A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri
e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda
amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale,
accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la
numismatica. A Napoli C. pubblica la Memoria sul Tribunal della Grascia,
considerata, assieme a pochi altri testi, il vangelo del liberismo napoletano»
(34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il terribile mostro» del
Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato
pontificio e simile per alcuni versi a quello più odioso dell'inquisizione»,
che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti,
fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in un languore
di dissoluzione. Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà
di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del
quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith,
di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle
nazioni. Vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia in cui C.
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una ripugnante ed infelice» contrapposizione tra
ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei
proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà
infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei
proprietari sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di
riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra
classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta
applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nella pur breve ma
incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero desolato» che va
dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi avarie» commesse dai
governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero
scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre
più. Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di C. al
liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è
chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà
di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli
affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni
Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le
regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di ogni
coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione,
di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato
stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che
ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche
si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte
al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali. In quest'ultimo soggiorno
napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, C. si attiva non
poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e
soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non
sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un
sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza,
quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà ad
allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima
però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la
vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la
giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e
inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o
di usurpazione della sovranità stessa non solo un atto nullo, ma anche
ingiusto. La notizia della rivoluzione francese raggiunge C. lontano dal
Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato per
accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la
guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare
gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il
filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista
senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed
economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un
rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi
informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia
a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si
conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la
rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti un
esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla
strada delle riforme. Rianimato da queste speranze dopo aver fatto da
poco ritorno nella sua città natale, C. si trasferisce a Napoli, dove dà alle
stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi in cui,
ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più
diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in
particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano la più forte
manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto
romano, cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema
legislativo nuovo, uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza
di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente
all'indole delle nazioni e dei governi presenti. Sull'esempio di quanto accade
in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile
e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne
costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si
fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica
senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione
della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si
allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia si ravvisa nel Teramano un conflitto tra
l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora
nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo
nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di
rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende
sempre più spesso scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel dicembre del
1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al
termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese
imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un
periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti
della politica ferdinandea. La consapevolezza che la grande stagione
riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna
l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma
di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi
sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia
diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la
primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più
forte agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta
all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini.
Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera
innocente e spera invano venga presto scagionato. L'accentuarsi del
carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in C.,
come in altri illuministi, il passaggio da regalista in giacobino» o
repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più
nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione
per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico
che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase
della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una
fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di
nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a
Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla
primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e
Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato
francese Miot. A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica
per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che
ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo
raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia.
Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova
non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le
innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese sul quesito Quale
dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà
vincitore il piacentino Gioia. Immutato è invece il giudizio sulla corte
napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di
dialogo con il governo borbonico, non scorge alcun cambiamento nella sua
politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici,
soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo,
con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà
nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile
invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse
di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già
nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico
in seguito a delazioni da parte di alcuni malevoli di Napoli fra quali il
Vescovo in unione colla magistratura. Sempre più si alimenta il sospetto di una
sua cospirazione antimonarchica, tanto che è tratto in arresto, nel proprio
palazzo, assieme a tutta la famiglia. Liberato l'11 dicembre successivo
dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi, è dapprima posto a capo della
Municipalità della città e successivamente nominato presidente
dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a
Pescara il Supremo Consiglio, l'organo politico più importante esistente in
Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due
nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo -
in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso
il territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di C. con
i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria lacerazione» e rottura» nella sua biografia intellettuale che è
stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione.
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi
repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato.
Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali
dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni ( del 24 piovoso anno, l'atto
legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene
introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza
egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni
precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di
riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva,
in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità
giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale
per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia
e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che
collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la
prontezza» e l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme;
l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la
frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la
possibilità di ricorrere in appello. Volentieri egli si sarebbe portato
nella capitale partenopea dove è nominato membro del Governo Provvisorio dal
comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa
delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver
non solo abbandonato» ma addirittura obliato» le province abruzzesi, lasciando
che ovunque si verificassero le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di
scorribande antifrancesi. Non è da escludere a questo punto che proprio durante
il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa
in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri
dell'uomo e del Cittadino. Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi
dei diritti, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti
inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i
doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle
leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi
rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la
costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma
di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione,
ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori
dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che si stavano
verificando e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.
Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla
partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della
Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti
riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo
San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe
Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la
carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno sammarinese C. si
interrogherà a lungo sulla tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come CUOCO
(si veda), critica l'immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il
metodo rivoluzionario, ritenuto distruttivo. La confusione dei princìpi,
l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle
idee politiche così mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano
potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni
politici falsi e irregolari». L'Italia, abbagliata ed attonita - scrive - non
ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le
provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa
veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza
del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze
intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia.
Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria C. trae l'indicazione della
necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: Se si fosse
consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo
spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede
della libertà nei secoli più remoti. A questo senso di moderazione l'Italia
deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono
persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua
felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in
definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non
miri alle magiche trasformazioni ma proceda per proporzionate graduazioni» alla
realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta
l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e
convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche
stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana,
nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il
suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni,
rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, mostrava
non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società. Dalla
piccola Repubblica C. uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca
pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del
marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva, o per andare a Bologna dal suo
amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Soggiorna
ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porta a Milano per seguire la
stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove
sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein,
rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe
Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a
Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in
contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana
Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale
resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno
all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo
fratello. È, quello sammarinese, un periodo in cui C., fuori dalla vita
politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808,
vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta
relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova
nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore
dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione
di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice
della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca
diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del mito»
di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la
propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da
assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini,
Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia
della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe
mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire un esempio degno
d'imitazione. Questa rivalutazione» dell'esperienza storica appare quanto meno
strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale
dell'antistoricismo italiano. Nei Pensieri C. affronta il problema della
conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire se la
scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con
quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una
storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma
perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla
tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi
metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata
conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert,
Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei
Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano
state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di
certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli
si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio
della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e
manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la
proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro
stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri
della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre
il secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le
circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli
effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica
di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più
semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo
che mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da
percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla
luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare
positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria
per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una
convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino,
Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita
l'opportunità di interrogare il passato e registrare i fatti del tempo» in
funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e
quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la
pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di
protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca
storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia
qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che C. chiama
anche storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere
di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore
intrinseco: Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della
sua opera, potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(80). Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad
incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso
degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa
di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi e rimasta a
lungo sconosciuta agli studiosi. La dissertazione, che si colloca nel filone
della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura
requisitoria contro gli impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e
portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il
risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o
di effetti naturali. Una diversa considerazione, invece, egli ha dei
cosiddetti favoleggiatori». Come il virtuoso» Socrate e il divino» Platone, C.
tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito
umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva
maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le
idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i
primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male
e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero
così la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno
neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del
popolo che, ancora vittima dell'errore» e del pregiudizio», si trova in uno
stato più infelice» (84) di quello dei secoli remoti. Il ritorno a Napoli
dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova
stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione
di rotta che era ormai tempo che si facesse e che lo induce a riportarsi, nel
giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale
partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione
francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di
quello spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario
ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica
via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro
le intemperanze dei reazionari. Nominato da Giuseppe Bonaparte
consigliere di Stato (3 giugno 1806), C. viene assegnato alla sezione delle
Finanze, per poi passare alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo
uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim
il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per
le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause
feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la
ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della
Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine
delle Due Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone. I
numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione
intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre
fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Cabanis, sostenitore
della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei
Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del
filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità
imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e
del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni
e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio
fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue,
l'anno successivo, la Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche
sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile. Con la restaurazione
dei Borboni, nel 1815, C. dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò
nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I
gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito
dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta
provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo
insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che
vivrà solo fino a quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre
fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario.
Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi
la minaccia di rendere il mondo stazionario» se non addirittura di farlo a
grandi passi o salti retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più
probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo
Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si
serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per C.
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del Segretario fiorentino, nate dall'esigenza di
confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la
libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni
pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua potente autorità, senza
tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili
per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o
meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni
positive. Dell'illustre autore» C. sottolinea il realismo politico e
l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta
speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una
particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico
contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi
un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo
un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la
viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre
fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione
di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale
Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati
italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le
tesi del Segretario fiorentino: Se si possono giustificare le sue intenzioni, e
la persona» afferma questo non vale per le sue dottrine. Infatti, se da un lato
egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di
una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi
eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo
realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione
machiavelliana tra etica e politica e il principio che per regnar tutto lice.
Divergenze emergono anche dal tentativo che C. in seguito compie di ricondurre
il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle
proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra
il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che
considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei
conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta
inconciliabilità tra gli umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la
condanna del ruolo antisociale dei gentiluomini», di quegli uomini cioè che,
oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma,
soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la questione
militare» alla questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una
imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica
un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da
parte del popolo, di assicurare la propria affezione» allo Stato, così da
garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le
aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo
vincolo, che con assoluta originalità C. fa derivare dal nesso tra dimensione
militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia
costituzionale, considerata la forma più conveniente all'Umanità ed ai veri
bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione
di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi
anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di
assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei
cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale. C. torna a
Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per
alcuni mesi, fino a quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel
capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i
lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non
terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della
importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della
filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione materialistica
della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo,
che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò
che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al
benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica
pubblicati a Teramo dai tipi Angeletti con il titolo Della antica Numismatica
della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini
italiche. Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo
porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in
Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del
fiume Pescara, con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive
in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal
proposito un rilancio del commercio, considerato la sola sorgente inesausta
della ricchezza e floridezza delle Provincie», non senza però aver prima creato
le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe
essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo
ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un
notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione
di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a
molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati
dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di
Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul
commercio che potrebbe così finalmente divenir attivo e moltiplicare i capitali
e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle
esistenti. La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del
fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel
Brevecenno. L'idea che il mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro,
permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione
dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la
creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del
commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale
centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina
adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere punto centrale nel
litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta
verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato
pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe
anche l'unico porto ad avvalersi di una piazza forte» che renderebbe sicuro il
trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe
riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto
con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire
le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi
commerciali. A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La
vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée
de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles), di cui
uscirà una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane
nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del
luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe
stata ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone
Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il
nome soltanto del conte Luigi Corvetto, justement regardé comme un des
meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre C., un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle
condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto
servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo
dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte
delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una
partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C.
pubblica la lettera Della preferenza de' sessi alla contessa Chiara Mucciarelli
Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna
affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli
ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali.
A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da
numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della Biblioteca
Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo
Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i
progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti,
il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende
rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno,
e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C. muore. Dopo la
notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e
ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal ristretto ambito
locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in
una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa
considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il
rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in
particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative
dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e
legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del
movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C.
riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni
critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio
fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali
della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente
scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che
contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore
nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato
in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia
durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le
notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C.,
Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione
dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente
pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta,
l'opera continua sul Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo
Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C. e, sempre sulla stessa rivista, col titolo
Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre C. Molti degli amici e dei
discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli
Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre C., il teatino Romualdo de Sterlich,
Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella cattedra di economia. Sulla
presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il partito
genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura, società,
economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo, Studi sul
Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti, Diaz, Dal movimento dei lumi al
movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico, cfr. F.
Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma; I Borbone di
Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli Chiosi, Il
Regno, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni
del Sole, Roma, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in
Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme,
Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta. Lo scritto, dedicato a
Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più
necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla
Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di
estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere
accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati
(Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G.
Savarese, Feltrinelli, Milano Per una valutazione dell'influenza di Pietro
Giannone sulla cultura napoletana oltre al lavoro sempre valido di L. Marini,
Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della
coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr.
G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di GIANNONE (si veda),
Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R.
Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La
tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, Sulla posizione di
Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr.
E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica economica alla politica civile»,
Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli Le due Memorie, dal titolo Intorno a'
dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle
ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella
Marca, furono commissionate a C. dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon.
Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di
Stato di Teramo, Fondo C. fasc. dal titolo Del territorio beneventano. La
seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su La Rivista abruzzese di
scienze e lettere, preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, Fabbri,
Teramo. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei
quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo a cura
di Pannella e Savorini. M. C., Del territorio beneventano, Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani,
Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., C.,
Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di
Teramo, fondo Manoscritti C.», Misc. C., Saggio filosofico sul matrimonio,
in Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i
libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano Lettera di C. a
Dragonetti, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi
Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della
Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M.
C., Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale
espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato,
La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e
mutamenti, Pomba, Torino. C., INDIZI di morale. Per una ricostruzione
dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano. L'attività di C. presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma; L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons.
Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio, in V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano. Cfr. C., Discorso sullo stabilimento della
milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. C.),
in Riformatori napoletani; Favorevole ad un più moderno sviluppo dell'attività
risiera per una ripresa economica della sua provincia, C. assumerà alcuni anni
più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale
mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di
Teramo: le risaie atriane in Itinerari», C., Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli, Opere complete, C.
ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli), poiché in essa
l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la
storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di
costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato in continua rivoluzione»
(Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di GRIMALDI (si veda), Discours sur
l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Oeuvres
complètes, Gallimard, Paris. C., Elogio di GRIMALDI (si veda). Su
tale associazione, fondata ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich,
Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini
alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze. Alcune lettere sono state
pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di C.; altre sono apparse nel
primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen
eines dänischen Gelehrten, Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime
sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in
Melchiorre C.. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi G.
D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato
altre lettere di C. a Münter, assieme ad alcune lettere di C. alla sorella del
Danese Federica Brun. Altre, ancora inedite, sono conservate presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e
sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli, Opere
complete. Solari, Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino.
Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di C., Memoria sulla libertà
del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo,
pubblicata anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia. C.,
Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema
doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788,
ora in Opere complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia Il testo è stato
pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre C. a Michele
Torcia, in Nord e Sud. La lettera è datata Teramo, su invito dell'Accademia di
Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di
commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso
Destefanis, Scrittori classici italiani di economia politica, cur. Custodi.
L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo) con un'introduzione
di M. Finoia. Sul problema C. tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su
le carestie, in cui apporta alcune modificazioni e moderazioni» al principio
della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato
l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il
terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo,
letto nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato negli Atti, è
stato riedito a Teramo assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.
Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto
due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato
nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati
unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna
incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli
Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad
indirizzo fisico» ed orientamento laico. Sugli sviluppi delle iniziative
delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera
Università Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche,
Teramo, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su
di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. C., Una
piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La
Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'amaro della
feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida,
Napoli; C., Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo Manoscritti C.», Ined. In Lombardia C.
si trattenne per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in
seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria. Su questo
viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare,
cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere complete. L'opera,
che provocò subito molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia
per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso
Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti, La giurisprudenza romana
nel pensiero di C., in Rivista italiana per le scienze giuridiche. C., Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete. Odazi,
nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani
della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi ne cura l'edizione
milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato PROFESSORE
DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come a Oxford -- nel Reale convitto della
Nunziatella, è chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era
stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della
massoneria napoletana, è coinvolto nel fatti. Arrestato, muore suicida nelle
carceri della Vicaria. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima
vittima del processo politico in Napoli, in Archivio storico per le province
napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle
tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.
Si veda la lettera di C. a Fortis da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una
partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le
opere delficine non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un
opuscolo privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito
a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione
biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A proposito di
un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C. al concorso,
in Trimestre. Sono le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno;
Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva
monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine
Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al
commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di Melchiorre C.. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli,
nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo
e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia C.. Nella Relazione risponsiva alle
accuse (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in Archivio
storico per le province napoletane», egli era costretto a difendere la propria
reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di vaghe» e calunniose
imputazioni» di qualche delatore. La denuncia, pur non avendo gravi
conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che C. succedesse al fratello nella
presidenza della Società Patriottica di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine
del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del
titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con
decreto Murat gli avrebbe conferito quello di barone. Il pretesto è
fornito da alcune lettere rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da
poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna
avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli,
entrambi frequentatori di casa C.. Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino
C. allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei
propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro i
rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era
stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da
Clemente su Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I
Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre
1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi
riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti.
Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, Vecchioni, L'Aquila, Consorzio
Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr.
anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli
avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari,
L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico
Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita
teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal
1798 al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a C., i
lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Madonna, entrò in funzione subito dopo
e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara
avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo.
Una repubblica giacobina, in Rassegna storica del Risorgimento, La Repubblica
napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza
pescarese di C., cfr. anche F. Masciangioli, C. e Pescara. Per una storia
del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in
Trimestre», Sullo spirito di moderazione di C., interessato a trovare una
mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G.
Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato
meridionale, ETS, Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in Rivista
storica italiana», ora in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato
pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte
abruzzesi con documenti e note, in Rivista abruzzese di scienze, lettere ed
arti. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla
sicurezza pubblica del ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune
disposizioni per combattere il vagabondaggio. I due testi sono stati
recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La
Pescara» di Melchiorre C., Edizioni Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di C. al
Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore
Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella
regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età
moderna, in Storia e politica, e Per una rilettura socio-antropologica
dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli. Per il
testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica
sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre C. e la Repubblica di San Marino,
Arti Grafiche Della Balda, San Marino. Cfr. V. CUOCO (si veda), Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia
di Francesco Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie
storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete. Il saggio,
il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide
la luce due anni dopo che C. l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali.
La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino. Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le
riflessioni sulla storia: Melchiorre C., in Itinerari», Cfr. GENTILE (si veda),
Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della Critica», Napoli, il quale afferma che
nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano.
Un estremo radicalismo nell'antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da
CROCE (si veda), La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo
decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia» e 2. Il
nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», rielaborati nel volume Storia
della STORIOGRAFIA ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si veda), Il
pensiero politico meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera
è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République
française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute
dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi
inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues,
Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
Opere complete. C., Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi
si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella
Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali
relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata nella
recensione al volume di Grimaldi, Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto
probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis. Per un esame
critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata
dissertazione di Melchiorre C. sugli incantatori di serpenti, in «Lares, ora
anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella
tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e
posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è
stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»; C., Discorso sulle favole
esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre C..
Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino. Sull'attività
del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre C. e
il decennio francese, Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila , il quale riproduce
in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia
amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli Ora in
Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate nelle Opere complete, le
Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni,
Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e
dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume,
notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione, di A. Valente,
Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino, cfr. Villani, Il
decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai
Borboni. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio
francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto inedito, il testo finale è
tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A.
Marino, Scritti inediti di Melchiorre C., Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni
sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli,
Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario
fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO [si veda], Discorsi sopra la prima deca di
LIVIO [si veda], in Opere, Opere complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu
ristampata a Napoli, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica
Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche, ora in Opere complete. Pubblicati nelle Opere complete, i due testi
sono stati riediti da Carletti, La Pescara di C.. C., Breve cenno. C., Fiera
franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto, in Opere complete, Rapporto
sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C. C., Della preferenza de'
sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora in Opere complete. Cfr.
la lettera di C. a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio
letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi.
Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati,
L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca
bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi
delficini, cfr. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica
della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio,
segnato nell'indice de' libri proibiti, INDIZI di morale, proibito prima
di pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale.
TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo Napoli Porcelli Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale
della grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno. Napoli presso Porcelli. Memoria sulla necessità di
rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti Napoli presso
Porcelli. Memoria su’ regii stucchi, o sia su la servitù de’ pascoli invernali
nelle provincie marittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso sul tavoliere di
Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli; Memoria per la vendita
de’ beni dello Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata una col reai
dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi umiliate a S. R.
M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso Porcelli, ristampato
in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su feudi, Napoli Memorie
storiche della repubblica di San Marino, Milano dalla tipografia di
Francesco Sonzogno . Memorie sulla libertà del commercio : (
stampate nella Collezione de classici italiani di Economia politica : parte
moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’
organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di Napoli. Lettera a Selvaggi
sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale enciclopedico di Napoli An. Nuove
ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla sensibilità imitativa considerata
come il principio tìsico della sociabilità della specie, e del
civilizzamento de’ popoli e delle nazioni ( Memoria letta nella reale
Ac- cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della
medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie. Memoiia su la
perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’
educa- zione, con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria
sulla perfettibilità organica ec. Ragionamento su le carestie, letto
nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli, e pubblicato negli Atti della
medesima voi. II. Napoli. Poche idee su V accusa de' ministri
. Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di Napoli. Dell*
antica numismatica della città d’ Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i
Tirreni, Teramo, con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni
fatte dal Micali su la stessa, e di una Lettera a Zuroli su le antiche
ghiande missili di piombo, Napoli, dalla tipografia di Angelo Trani
: con più tavole in rame . Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti.
Siena, Ristampata in Napoli insieme ad alcune poesie del Conte di Longano.
Lettera all’ autore delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. (
Stampa- ta in fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della
parlicolar riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta
alla memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle
due Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul- la città di
Benevento. Memoria. Intorno a’ diritti sovrani di Napoli sul- la città di
Ascoli. Memoria. Lettera a' fratelli
sulla eruzione del Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli
animali. Lettere sulla cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele
Torcia sul tratto di paese che si estende dal Fortore al Tronto.
Supplemento alla Memoria su la gra- scia, per rapporto all' estrazione
degli animali vaccini . Memoria per lo ristabilimento del tri-
bunale collegiato nella provincia di Teramo . Memoria per lo stabilimento
d’ una uni- versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per
quegli scritti che 1’autore lasciò senza una denominazione . S’
intende per lo più di pagine scritte, come si dice, alta spagnola, ossia
nella sola metà. Pel resto si troverà sod- disfacente spiegazione nel prosieguo
del libro . Su' danni de' terremoti in Calabria nel iy . - 0 sii
ministro Corradini sulle maioliche de' Castelli. Lettera. Appendice al
discorso sul Tavoliere di Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.'
magistrati nel iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti- co su le
facoltà dell’ anima di Bonnet. Seconda Memoria sulla vendita de’beni
allodiali. Breve Saggio su l’ importanza di abo- lire la giurisdizione
feudale, e sul modo di eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii
stucchi .Degli Appalti. Memoria. Per la città di Teramo intorno d beni
dell' abolito convento di Agostino. Memoria per la decima impesta al
regno . Memoria intorno a’ danni
sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello
Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da ripararli. Osservazioni su la
nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al
commercio delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze
morali, pag. ira. Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la
caccia, ( Questo ed i selle seguenti scritti si suppongono composti in
Napoli dal Rapporto alla reai società d’ incorag- giamento sul progetto
di stabilire nelle provin- cie del regno altre società simigliatiti,
Considerazioni sul debito pubblico, e su’ beni nazionali
relativamente alla legge; Breve esame dell’ indole delle dogane interne; Rapporto
per gli stabilimenti di uma- nità e di pubblica beneficenza Osservazioni
su d’ un progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni
sulle procedure criminali die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’
opera del Sig. Biie D. Davide JV'uispeare, intitolata : Storia
degli abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar- si i buoni
scrittori . Opuscolo, Lettera sulla
imputabilità de’ muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso
letto nella reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij, e destinato a
stamparsi nel voi. III. degli Aiti della medesima, insieme al seguente Opuscolo
) .Sulla necessitò di cangiare i metodi d’ istruzione usati in Europa
. Alla Giunta preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione
. Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune
dottrine po- litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi
economici per supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza
di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia
intellettuale . Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di
Napoli. Elogio in morte della Duchessa di S. Clemente. Lettera al Cav. e
Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto- ria e sulla incertezza
ed inutilità della medesi- ma, per risposta alle obiezioni di Amaury D
revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A ( Questa lettera, e tutti
gli altri scritti che seguono nella presente classe furono compo-
sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i
progressi delle So- cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del
genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filosofia medica ed
intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da - miron.
Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni- cato, riguardante politica.
Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-
mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra.
Lettera Sulla medicina omiopatica . Lettere due. Sulla dottrina medica di
Samuele Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento
. Lettera al Mse. Tommasi. Sullo stesso argomento. Lettera polemica. De'
confini del regno di Napoli nella linea del Tronto ; ossia : Sugli
antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza.
Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile, ossia trattato
pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti, ossia
della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-
versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari
fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione
della Ideologia colla Fi- losofia. Dissertazione, Dell’ eguaglianza de’
diritti delle donne, considerati specialmente nelle successioni,
Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e dritti civili, Sul
quesito : Quale sia il miglior de governi per 1'Italia? Opuscolo; Ricerche
su le teorie fisiche della ragion degli Stati, o sia de’ veri principi
della Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu- ni. Sulle
leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della provincia di
Teramo. Memoria. Ricerche su le leggi coniugali, considerate ne’ rapporti da’
quali devono sorgere, nelle cause produttrici, e negli efl’etti
inorali e civili; Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in
medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata De’principi della
scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su la pace. Igiene.
Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello stile. Su ORAZIO
(si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. Qualche
osservazione sull' opera di Neker Sur 1’administration; Del Vesuvio; Del
tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili,
Alle nobili fanciulle mie concittadinc. Prefazione per una raccolta di
aneddoti. Sulla Città di Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito
Orgoglio nazionale - Viaggiatori - Filosofia Eccesso di tipografia; Su’pastori.
Saggio sull’ adulazione (Progetto di un'opera ). Ricerche
storico-filosofico-poliliclie su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria
dell’ anima. Sugli ospedali. Molti pensieri non legati. Progetto d’ un
nuovo giornale delle mode. Notizie su le opere impresse nel pri- mo
secolo della stampa, per ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto
pubblico, Delle raccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’
magistrati municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle
Lezioni di Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere
fisiologiche di Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion
di stato, Estratto della politica d’ Aristotile. Morale nelle leggi, Piano
di scienze morali. DELL’origine e SIGNIFICATO della parola morale, e delle
varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad
una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana, Esame de' classici
italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemercier
riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti- lità del
presente Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione Frammenti
diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche
ossen’azione sopra alcune espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’
progressi delle Scienze naturali, pag. io. A Jannelli.
Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive in mezzo
alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la
divozione pel Sangue di Gesù-Cristo Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea
di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose
politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico.
Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords:
giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della
natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia
romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta
della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale
tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool
Library.


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